Penitenziari pronti a riesplodere: nessun decreto e agenti sul piede di guerra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 settembre 2021 Tre morti nelle ultime 48 ore. I poliziotti penitenziari “minacciano” proteste. I detenuti sollecitano l’estensione dei benefici e Rita Bernardini scrive alla ministra Cartabia per denunciare la condizione di abbandono. C’è un filo di alta tensione che attraversa tutte le carceri italiane. Monta una insofferenza che non riguarda solo i detenuti, ma anche gli agenti di polizia penitenziaria che non riescono più a far fronte agli eventi critici che si manifestano. Riforma a parte che riguarda un discorso a lungo termine e che non incide direttamente sugli aspetti dell’esecuzione penale, finora non è stata varata nessuna misura urgente, magari tramite un decreto carcere, che risolva il sovraffollamento estendendo dei benefici, la custodia cautelare come extrema ratio, il discorso dei detenuti con gravi problemi psichici. Tre morti in carcere nelle ultime 48 ore - Uno dei campanelli d’allarme sono le morti in carcere, in particolar modo i suicidi. Nel giro di 48 ore si sono verificati tre decessi. Uno riguarda un nuovo giunto nel carcere di Ferrara. È un ragazzo di 29 anni, da poco tratto in arresto per due kg di “fumo”, che si è ucciso mercoledì pomeriggio. Lo stesso giorno, un 43enne tunisino è stato ritrovato morto in una cella singola, nella sezione di transito del carcere fiorentino di Sollicciano. Le cause sono ignote, potrebbe trattarsi di un suicidio o di un incidente: è stato ritrovato con la testa infilata nella fessura posta sulla porta della cella dove passa il cibo. Un altro ancora, 44enne accusato di omicidio, è morto nell’ospedale di Bari a seguito delle complicanze di un tentativo di suicidio avvenuto un mese fa nel penitenziario barese. Dei suicidi in carcere si è perso il conto, soprattutto se si considerano anche le morti dovute dalle complicanze scaturite dai tentativi. Quando il 17 agosto scorso c’è stato il trentaquattresimo suicidio in carcere, il Garante nazionale delle persone private della libertà ha sottolineato la necessità di imporre, come non più rinviabile, una diversa attenzione e azione sul tema dell’esecuzione penale e del carcere. De Fazio, Uil-pa pol pen.: “Le carceri continuano ad essere abbandonate a sé stesse” - Dello stesso avviso è il segretario generale della Uilpa pol pen Gennarino De Fazio che, interpellato da Il Dubbio, dà una fotografia impietosa della situazione. “Le carceri continuano ad essere abbandonate a sé stesse - spiega De Fazio - finora abbiamo assistito solo ad annunci da parte del presidente del Consiglio e da parte della ministra della Giustizia Marta Cartabia”. Il sindacalista prosegue: “Le carceri sono in metastasi e se non si interviene subito con una terapia d’urto la situazione continuerà, come peraltro già sta accadendo, a peggiorare”. Ma la questione, com’è detto, sta creando un forte disagio anche da parte degli agenti penitenziari. Sempre il segretario della Uilpa pol. pen. spiega a Il Dubbio che la questione è seria: “La polizia penitenziaria è esasperata dall’abbandono totale da parte della politica e come diretta conseguenza anche dall’amministrazione penitenziaria”. Una pentola a pressione ponta ad esplodere. “In tutto il territorio - avverte De Fazio - gli agenti penitenziari stanno immaginando forme di legittima protesta spontanea e sollecitano i sindacati a organizzare manifestazioni nazionali”. Il segretario della Uilpa precisa che al momento stanno cercando di resistere a queste sollecitazioni, sperando che la ministra Cartabia tenga fede all’impegno assunto. Rita Bernardini ha scritto alla ministra Cartabia - Per quanto riguarda la politica, come al solito c’è quasi esclusivamente il Partito Radicale a porre la questione, interessando direttamente la ministra della Giustizia. Lo ha fatto Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, con una lettera indirizzata alla Cartabia. Ha dato contezza delle visite effettuate ad agosto, in particolar modo agli istituti penitenziari di Torino (Le Vallette), Siracusa, Vibo Valentia, Catanzaro e Brindisi. “Confesso che - si legge nella lettera indirizzata alla ministra Cartabia - nonostante la positività della quale mi sono animata assieme ai miei compagni in delegazione, sono davvero molto sconfortata. Parlerei di stato di abbandono della comunità penitenziaria composta da detenuti e detenenti”. Rita Bernardini, rivolgendosi alla guardasigilli, pensa che occorra dare un urgente, tangibile segnale alla popolazione detenuta. Prega la ministra Cartabia di prendere in considerazione la proposta del deputato Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata “speciale”. Ed è una delle richieste fatte ultimamente da vari detenuti di diverse carceri che hanno intrapreso, nel periodo di agosto, un’azione nonviolenta prendendo spunto dalle detenute del carcere di Torino. Queste ultime sono un gruppo di donne della sezione femminile del carcere di Torino Lorusso-Cutugno, che da Ferragosto fino al 21 agosto scorso, ha iniziato lo “sciopero del carrello”. Ovvero hanno rifiutato il vitto fornito dall’amministrazione come dimostrazione pacifica contro, come da loro definito, l’immobilismo e il silenzio che gravano sui penitenziari italiani. Un’azione nonviolenta che poi si è diffusa in altre carceri. I detenuti chiedono una riforma della libertà anticipata - Le problematiche messe in luce dalle detenute, sono proprio quelle che tuttora non vengono prese in considerazione. Dal sovraffollamento, chiedendo anche una riforma della legge sui giorni di libertà anticipata affinché da 45 diventino 65 (retroattivi dal 2015), alle opportunità di studio e lavorative, ridotte anche in conseguenza del Covid. Sono, inoltre, aumentati i problemi psichiatrici. Le detenute lamentano l’assenza di mediatori culturali e la mancanza totale di un’attenzione alle questioni di genere, troppo spesso ignorate. Tutte questione che riguardano il resto dei penitenziari italiani. Resta il dato oggettivo che la questione detentiva è tuttora problematica e rischia di accentuarsi ancora di più. Gli agenti penitenziari sono in affanno, la tensione cresce, l’insofferenza sta colpendo tutti i componenti della popolazione penitenziaria. Si prospetta un autunno caldo nelle carceri italiane. Ma il rimedio c’è, se la politica sa ascoltare tutti gli attori in campo e passare immediatamente ad azioni concrete. “Nelle carceri situazione drammatica: subito un decreto” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 settembre 2021 Walter Verini, deputato e tesoriere del Pd, da tempo in prima linea anche sulla giustizia, non esita a definire “drammatica” la situazione delle carceri. Non c’è tempo per aspettare le riforme strutturali, si potrebbe pensare dunque di agire anche con un decreto: “Piena disponibilità se il governo e la ministra valutassero la possibilità di operare intorno ad alcune emergenze carcerarie anche attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza”. L’intera comunità penitenziaria è in sofferenza. Da più parti - il presidente dell’Autorità Garante Palma, la radicale Bernardini, i sindacati degli agenti, e i detenuti innanzitutto - si chiede più attenzione. Condivide queste preoccupazioni? Certo che le condividiamo. Io stesso nel mese di agosto ho visitato due istituti di pena della mia regione, Terni e Perugia. Benché non rappresentino le situazioni più problematiche, ho potuto toccare con mano le criticità che affliggono l’esecuzione penale. Ma già il rapporto di Antigone ancora una volta ha sbattuto in faccia alle istituzioni e alla politica quanto quella carceraria non sia una questione tra le tante ma sia una vera e propria emergenza. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, sia la ministra Cartabia che il premier Draghi avevano usato parole di grande sensibilità sui problemi del carcere. Ma ad oggi non è cambiato nulla... La ministra, insieme al presidente Draghi, non ha solo pronunciato delle parole importanti ma anche compiuto un gesto di grande valore, andando nel carcere sammaritano. Ciò non era scontato. Ora però dobbiamo far seguire i fatti. In queste ore il Senato ha ricominciato a discutere della riforma del processo civile, a cui seguirà quella del penale. A nostra volta noi alla Camera ci occuperemo della riforma del civile che arriva da Palazzo Madama e di quella del Csm. Ci stiamo poi già occupando di altri provvedimenti che attengono la giustizia: la legge sul fine vita, quella sulla legalizzazione della cannabis, o quella di cui sono relatore per togliere i minori dalle carceri. In tutta questa attività parlamentare non è ancora calendarizzata una proposta per riprendere davvero in mano la riforma dell’ordinamento penitenziario. Allora sarebbe importante che il governo e la ministra valutassero la possibilità di operare intorno ad alcune emergenze carcerarie. Con un ddl, ma anche, magari, attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza. Appunto: da un lato sono all’orizzonte riforme strutturali del carcere, come anche ipotizzato dalla guardasigilli; c’è anche la riforma penale che in parte incide sull’esecuzione. Tuttavia gli effetti di questi interventi si vedranno a lungo termine. Mentre oggi c’è una emergenza, come lei ha detto. Visto che tutto dovrebbe filare liscio, al Senato, sul ddl penale, non crede si possa avere la serenità politica per discutere di carcere, trovando Lega e 5S più propensi? Mi affido alla saggezza della ministra Cartabia che in questi primi mesi ha mostrato una forte determinazione ad affrontare i problemi carcerari. È evidente che ora occorra l’impulso del governo per intraprendere qualsiasi iter parlamentare, a prescindere dallo strumento. Potrebbe essere, come ho detto, un disegno di legge o anche quello del decreto per questioni di necessità e urgenza. Cosa c’è di più necessario e urgente se non affrontare l’emergenza carcere in questo Paese? Sono più preoccupato, in merito alle dinamiche parlamentari su questi temi, dell’atteggiamento politico storico della Lega che non del Movimento 5 Stelle. Non scordiamoci che Salvini è il promotore degli slogan “buttiamo via la chiave” e del “marciscano in galera”. Anche i pentastellati a volte hanno assunto atteggiamenti da populismo giudiziario, tuttavia non sono mai arrivati a quel punto. Anzi, su certe questioni, con molti di loro e Antigone e il Garante dei detenuti abbiamo lavorato insieme. Il problema è semmai l’ostruzionismo di una destra becera, impersonata soprattutto da Salvini che non si spoglierà di questa patina con l’iniziativa referendaria. A parte la polemica politica, io credo che questo governo possa imporre, con il contributo delle forze parlamentari che lo sostengono, di anticipare alcuni degli effetti che avrà la delega sul penale. Penso ad esempio alla sostituzione di alcune pene detentive con sanzioni pecuniarie o con i lavori di pubblica utilità. Oppure al rafforzamento della semilibertà e della detenzione domiciliare. Quindi ribadisco che valuteremo con piena disponibilità un decreto. Voi sareste d’accordo alla liberazione anticipata portata a 75 giorni per ogni semestre? Discutiamone. Non stiamo a litigare sul numero. Il punto è arrivare all’approvazione di norme che modifichino le politiche trattamentali e che potenzino le pene alternative che sono la via maestra. Penso ad esempio al lavoro. Solo il 20% dei reclusi lavora: noi dobbiamo far sì che la percentuale aumenti. Quindi, in sintesi, dobbiamo rimettere o no sul tavolo la riforma Orlando? Non c’è dubbio. Bisogna recuperare il lavoro degli Stati generali e la riforma di Andrea Orlando che non riuscimmo ad approvare alla fine della legislatura. Tra l’altro, essa dava anche molta importanza ai rapporti dei reclusi con la famiglia e al diritto all’affettività, che rappresentano due elementi importanti di un ordinamento penitenziario davvero orientato all’obiettivo del reinserimento sociale del detenuto. Vorrei aggiungere una cosa. Prego... La diminuzione della popolazione carceraria in questo ultimo anno pandemico non è sufficiente: ci sono ancora troppe situazioni critiche. Alcuni istituti non hanno docce, né riscaldamento. Per questo abbiamo bisogno dei fondi del Pnrr, che prevede investimenti importanti per l’edilizia carceraria. Sono previste assunzioni anche di polizia penitenziaria: non solo sono pochi gli agenti, ma le sfide della sorveglianza dinamica richiedono una maggiore attenzione e quindi occorre anche un’alta formazione. Occorrono più mediatori culturali per i detenuti extracomunitari, più psicologi per prevenire i suicidi. Queste rappresentano urgenze che vanno affrontate subito. Covid in cella, il Garante Ciambriello lancia l’allarme: “Servono più vaccini” di Viviana Lanza Il Riformista, 3 settembre 2021 La pandemia non è finita e il Covid continua a varcare le mura delle carceri. Il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, invita a non abbassare la guardia. “I casi di Covid-19 sono in aumento nelle carceri italiane, sia tra i detenuti sia tra i poliziotti penitenziari”, afferma sulla base dei più recenti dati diffusi dal Ministero della Giustizia. Le statistiche descrivono una situazione ancora gestibile ma sono la spia di un problema che continua a rappresentare una minaccia: meno del 50% dei detenuti è stato vaccinato e i casi di positività si sono verificati anche tra i vaccinati. “Questo significa che il carcere non è affatto un luogo sicuro, ma piuttosto è un luogo altamente a rischio”, sottolinea il garante. Di qui l’invito a non abbassare l’attenzione, a rispettare le misure di prevenzione del contagio, ad adottare tutte le iniziative necessarie a contenere il sovraffollamento delle carceri, a prevedere ristori o riduzioni di pena in favore dei detenuti e ad accelerare sul piano di vaccinazioni. Nei 15 istituti di pena della Campania si contano cinque detenuti positivi al Covid e 14 agenti della polizia penitenziaria. In tutta Italia il numero dei detenuti positivi al Coronavirus sale a 70 su una popolazione carceraria di 52.199 persone, di cui 15 tra i cosiddetti “nuovi giunti”, cioè tra coloro che hanno fatto ingresso in carcere da liberi. Mentre tra gli agenti penitenziari i casi sono 108 su un totale di 36.939 dipendenti. Tra i detenuti positivi, inoltre, 64 sono asintomatici, cinque hanno sintomi e sono curati all’interno degli istituti di pena e uno soltanto è ricoverato in ospedale. Tra i poliziotti 100 sono asintomatici in isolamento domiciliare, sei sono ricoverati in caserma e due in ospedale. Non mancano casi di contagio anche tra chi lavora all’interno degli uffici delle carceri: si contano quattro positivi tra le 4.021 unità del personale dell’amministrazione penitenziaria e sono tutti in isolamento domiciliare. La situazione, quindi, continua a tenere con il fiato sospeso e richiede una grande attenzione da parte di tutti. “Spero che il Governo quanto prima metta in campo dei ristori e dei provvedimenti in favore dei detenuti, utilizzando il principio ispiratore dell’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario in base al quale, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, vi è la possibilità, a titolo di risarcimento del danno, di una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subìto il pregiudizio. Allo stesso modo - spiega il garante Ciambriello - si potrebbe riconoscere ai detenuti una riduzione di pena per le condizioni di detenzione vissute durante la pandemia, senza distinzione tra reati ostativi e non ostativi”. Non è tutto. Dal garante campano dei detenuti arriva anche “un invito gli agenti di polizia penitenziaria affinché si sottopongano al vaccino anti-Covid, poiché i dati sono allarmanti: in tutta Italia e soprattutto in Campania non si è arrivati neanche al 50% degli immunizzati, mentre i reclusi vaccinati toccano l’80%”. Infine un appello ai familiari dei detenuti: “Continuate a rispettare le misure di prevenzione del contagio”. Il “miracolo” di Gaspare: contro il carcere ha vinto lui di Sabrina Renna Il Riformista, 3 settembre 2021 Nonostante tutto riesce a rieducare se stesso: eccezione in un sistema di detenzione dove è assai più facile smarrirsi che ritrovarsi. Questa è una storia a lieto fine. Un miracolo nel sistema carcerario italiano. Gaspare Trigona, trentasette anni, dodici dei quali trascorsi in carcere, non si è sottratto alle proprie responsabilità, a tal punto da diventare, crescendo, un manifesto vivente dell’eccezione che conferma la regola La “regola” è che il carcere non funziona rispetto al fine suo proprio della rieducazione. L’eccezione è che il carcerato può “rieducare” sé stesso nonostante tutto, ed essere anche un esempio magistrale per altri. I giovani che sono, oggi, i suoi diretti interlocutori. Nei loro confronti, il monito è incessante “divertitevi, ma senza sballo”. La sua non è retorica a basso costo, per liquidare con una risata i tempi passati, ma un bilancio onesto del suo vissuto. Nel decennio dell’alba del nuovo millennio, Gaspare era il punto di riferimento delle discoteche della Sicilia ionica. Dalle sue mani sono passati tutti i flussi di cocaina ed ecstasy che contaminavano, purtroppo, le serate da ballo e non solo. Una gioventù, la sua, bruciata da un percorso di devianza intrapreso per gioco e nella fretta di diventare grandi in un’età dove si aveva, ancora, il diritto di rimanere piccoli. Fino a che la via effimera della droga e un potere alimentato a ritmo di musica e pasticche impattano l’arresto, le sbarre, il carcere “fuori e dentro”. In galera, Gaspare non simula comportamenti e prove di buona condotta, non fa mai credere che i propri errori non siano stati commessi. Cambia modo di essere, divora libri, cerca qualcosa di meglio del diritto penale come destino della sua vita. Trova un sincero cambiamento, senza furbizia, autentico. Sorge in lui la speranza come preludio per un confronto appassionato con il mondo delle istituzioni. La storia di Gaspare consente di riflettere sugli strumenti di diritto e di fatto che lo Stato offre al detenuto per recuperarlo moralmente e socialmente. Con emozione, l’uomo usa il binocolo della memoria, ripercorre le esperienze vissute in carcere. Lo definisce un “luogo di perdizione” e di “umanità complessa”, dove paradossalmente “è più facile smarrirsi completamente che essere accompagnato in un’azione costante di rieducazione”. Tante sono le inaccettabili ingiustizie commesse da un sistema che costringe alle cose più impensabili: “le docce fredde, i colloqui senza contatto con i familiari, le perquisizioni con flessioni post-colloquio, le simulazioni di buona condotta fino ad arrivare a doversi reinventare giornalmente per sopravvivere in una dimensione di sovraffollamento e privazione dei diritti essenziali e inviolabili”. Oltre la dimensione ontologica Gaspare rivive “la distruzione psicologica dettata dalla poca attenzione che il mondo esterno riserva ai detenuti, le istanze spesso rigettate, la semplice mancanza di aggiornamento della relazione di sintesi”: l’esercizio di un monopolio della forza delle istituzioni che vede il detenuto sconfitto in partenza. In questa “esperienza di non ritorno”, Gaspare è riuscito però ad andare avanti, non perdendo la forza di tutelare i propri diritti e di costruire una nuova vita. Ciò che gli è stato negato nelle carceri di Catania, Palermo e Agrigento, lo ritrova nel carcere di Rossano, in Calabria, nel quale inizia gli studi in scienze politiche comprendendo che “se e quando lo Stato ti aiuta è più facile cambiare”. Al rancore subentrano la voglia di riscatto, il contatto con la famiglia, devastata dalla esperienza del proprio figlio, così diversa da una lunga tradizione di correttezza e rispetto delle regole. Vive una profonda crisi, scoraggiato dal sistema, dagli operatori sociali e dagli educatori “pochi in verità accompagnano i detenuti a costruire una occasione ulteriore di vita”. La crudeltà del carcere gli appare un male necessario per comprendere gli errori e per tessere la bandiera del cambiamento. Decisivi gli incontri con il Partito radicale, con Nessuno tocchi Caino, che raccontano l’inutilità del sistema carcerario e delle molteplici forme di detenzione assunte con modi e tempi che distruggono il detenuto “allontanandolo da qualsiasi forma di democrazia”. Gaspare ci ha creduto e si è ricreduto: oggi è fuori, in affidamento ai servizi sociali. Lavora, prepara la tesi, ma rimane in carcere con la mente e il cuore che batte - pannellianamente - all’unisono con quello della comunità penitenziaria, dei detenuti e dei detenenti. Alla oppressione del sistema carcerario Gaspare oppone la sua lotta di liberazione, il successo di una giustizia che ripara che dal carcere di Rossano lo ha portato a diventare da fonte di disperazione testimone di speranza. Mattarella firma due decreti per grazia parziale, per Ambrogio Crespi e Francesca Picilli Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2021 Crespi è stato condannato per a sei anni di reclusione per il delitto di concorso in associazione di tipo mafioso, Picilli a dieci anni e sei mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale. Devono ora espiare una pena non superiore a quattro anni di reclusione. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato due decreti con i quali è stata concessa grazia parziale. I destinatari sono Ambrogio Luca Crespi, condannato a sei anni di reclusione per il delitto di concorso in associazione di tipo mafioso - fatti commessi dal 2010 al 2012 - per il quale è stata disposta una riduzione della pena di un anno e due mesi, e Francesca Picilli, condannata a dieci anni e sei mesi di reclusione per il delitto di omicidio preterintenzionale commesso nel 2012: le è stata disposta una riduzione della pena di quattro anni. Lo si legge in una nota del Quirinale, che prosegue: “Per effetto dei provvedimenti del Capo dello Stato agli interessati rimarrà da espiare una pena non superiore a quattro anni di reclusione, limite che consente al Tribunale di sorveglianza l’applicabilità dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell’ordinamento penitenziario). Nel valutare le domande di grazia presentate in favore degli interessati, il Presidente della Repubblica ha tenuto conto del positivo comportamento tenuto dai condannati durante la detenzione e della circostanza che il percorso di rieducazione sino ad ora compiuto dai predetti potrebbe utilmente proseguire - qualora la competente Autorità giudiziaria ne ravvisasse i presupposti - con l’applicazione di misure alternative al carcere”. Il Caso Crespi - Ambrogio Crespi, regista cinematografico, è stato condannato con sentenza definitiva lo scorso marzo a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Tribunale di Sorveglianza, con parere favorevole del Procuratore generale, ha in seguito disposto il differimento pena in attesa di conoscere la decisione del Presidente della Repubblica proprio sulla domanda di grazia. Era stata presentata in aprile dalla moglie di Crespi, Helene Pacitto, tramite gli avvocati e con il sostegno di Nessuno tocchi Caino e altre otto associazioni. Queste le parole del Tribunale: “Dal 2013 Crespi ha utilizzato la forza della sua arte soprattutto per combattere frontalmente le criminalità organizzate e la loro subcultura, per promuovere la cultura della legalità, della giustizia, della bellezza e della speranza”. La vicenda nasce dall’inchiesta sul voto di scambio politico-mafioso che ha condizionato le elezioni del 2010 in Lombardia: l’assessore dell’epoca Domenico Zambetti comprò 4mila voti dalla ‘ndrangheta al prezzo di 200mila euro. Il nome di Crespi è stato indicato come collettore di 2.500 preferenze raccolte in ambienti criminali. Il Caso Pacilli - È stata condannata a dieci anni e sei mesi di reclusione per il delitto di omicidio preterintenzionale, commesso nel 2012. Vittima Benedetto Vinci, suo ex fidanzato trovato morto nel letto di casa in seguito a una lite con Pacilli: quest’ultima lo aveva colpito all’addome con un coltello. Il ragazzo era stato operato all’ospedale Cervello di Palermo, poi dimesso. Pochi giorni dopo il decesso. “Presunzione di innocenza? Principio sacrosanto, ma vedo difficoltà per magistrati e giornalisti” di Liana Milella La Repubblica, 3 settembre 2021 Intervista a Nello Rossi, direttore della rivista online Questione Giustizia. Al via in Parlamento l’esame del decreto legislativo del governo che dovrà ottenere il via libera entro la metà di settembre. Secondo il direttore della rivista online “Questione Giustizia” c’è ancora spazio per riflettere sulle motivazioni dei provvedimenti giudiziari e sul diritto di cronaca. Sta per esplodere la “grana” della presunzione di innocenza. Il decreto del governo aspetta il parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato entro la metà di settembre. Esultano i garantisti. Abbiamo sottoposto a Nello Rossi - direttore della rivista online Questione Giustizia che la prossima settimana dedicherà al tema un lungo articolo - una serie di interrogativi e di dubbi sul decreto. “Presunto innocente”. Un romanzo famoso, quello di Scott Turow. Un film altrettanto noto diretto da Alan J. Padula con un ottimo Harrison Ford. Ma siamo negli anni Novanta. Poi una direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Vecchia ormai di 5 anni. Perché, secondo lei, l’Italia si sveglia adesso e il governo produce un decreto legislativo che fissa un assunto, del tipo che la presunzione d’innocenza deve esistere? “Per la verità che il principio di non colpevolezza sia un cardine del nostro sistema penale lo dice la Costituzione che, ormai 73 anni fa, stabiliva che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Certo, proprio per questo che bisogno c’era adesso di fare questo decreto? “Per applicare al loro interno le sentenze e i provvedimenti penali degli altri paesi dell’Unione, gli Stati membri hanno bisogno di ‘avere fiducia’ nei rispettivi ordinamenti penali. Di qui l’esigenza che vi siano norme minime comuni in materia di processo penale e di garanzie degli imputati cui ha risposto la Direttiva Ue, la numero 343 del 2016. In un primo momento il nostro Paese ha ritenuto di avere già uno standard elevato di garanzie e di non aver bisogno di dettare nuove norme sulla presunzione di innocenza. Ma a seguito di una relazione della Commissione europea di un anno fa sull’attuazione della direttiva nei diversi Paesi, è scattato anche per noi un campanello d’allarme”. Di che campanello sta parlando? “Sebbene non sia stata avviata, per l’Italia, alcuna procedura di infrazione alla direttiva, il governo si è chiesto se la presunzione di innocenza non sia vulnerata e contraddetta, prima di una sentenza definitiva, da dichiarazioni ‘colpevoliste’ delle autorità pubbliche o dalle stesse motivazioni dei provvedimenti giudiziari adottati nel corso dei procedimenti, ad esempio per l’adozione delle misure cautelari”. E quale è stata la risposta a questo interrogativo garantista? “Il decreto legislativo del governo, inviato il 6 agosto alle Camere per il loro parere, vieta ogni pubblica dichiarazione che comprometta la presunzione di innocenza e attribuisce al cittadino imputato il diritto di chiederne la modifica e di rivolgersi al giudice civile per ottenere un ordine di rettifica. Il che segna una rivoluzione nel rapporto tra imputati e pubblici poteri...”. Lo ammetta, sta per scattare un potente bavaglio per la cronaca giudiziaria... “Non guardi nel suo cortile. Il divieto riguarda altri soggetti, non solo i magistrati e le forze di polizia incaricate delle indagini, ma anche tutte le autorità pubbliche, per esempio i ministri e i funzionari di molti enti pubblici. Con la sola eccezione - almeno questa è la mia personale opinione - dei parlamentari, per i quali vige il regime di immunità per le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni, mentre il rispetto della presunzione di innocenza resterà solo una regola etica”. Ma lei - storicamente - comprende il motivo di agire proprio adesso? Perché se prima faceva figo arrestare mafiosi e tangentisti, adesso fa figo dire che tutti, anche costoro, sono sempre presunti innocenti? “Penso che la giustizia penale possa essere esercitata con intatto rigore nei confronti di chi commette reati senza bisogno che siano emessi, prima e a prescindere dai processi, improvvisati verdetti di colpevolezza, non di rado da parte di chi sa poco o nulla dei procedimenti in corso. Ci risparmieremmo tanti fuorvianti processi televisivi o a mezzo stampa, e qualche buffonata. E garantiremmo maggiore serenità ai giudici, soprattutto quelli popolari, di regola eccellenti ma meno abituati alle pressioni esterne”. Capisco che questo decreto le piace, anche se lei, glielo ricordo a ogni intervista, è una toga rossa, quindi dovrebbe stare dalla parte degli onesti contro i presunti colpevoli che diventano accertati criminali... “Dopo alcuni decenni mi sono ormai rassegnato all’appellativo di toga rossa e non ho più la forza per reagire. Noto però che, al riguardo, c’è una grande confusione sotto il cielo. Le cosiddette toghe rosse sono oggi le più interessate e le più impegnate al pieno rispetto delle garanzie processuali, ma a molti fa comodo non prenderne atto. Sono più utili le leggende - peraltro di segno opposto - alimentate sul loro conto. Una sorta di pret a porter sempre buono per le polemiche d’occasione”. Ecco, mettiamola sul concreto, perché io vorrei capire che succede a me giornalista e a lei magistrato quando il decreto diventa operativo. È vero o no che tutti e due dovremo rinunciare un po’ alla nostra libertà d’espressione? Dovremo metterci la casacca del “presunto innocente” e via andare.... “Come sempre, quando si sale al concreto, emergono i problemi seri. Sul punto delle motivazioni dei provvedimenti giudiziari il decreto ha scelto a mio avviso una strada sbagliata. È del tutto improprio costringere chi deve motivare una decisione impegnativa, per esempio sulla custodia cautelare, a goffe acrobazie verbali o a esercizi di ipocrisia argomentativa che in casi limite potrebbero risultare addirittura paradossali. Del tipo, questi sono i gravi indizi di colpevolezza del presunto non colpevole. Sarebbe molto più lineare stabilire l’obbligo, per i giudici, di indicare sempre in premessa e con chiarezza la “fase in cui il procedimento pende”, sottolineando che la loro decisione ha un carattere solo relativo e provvisorio perché adottata, per esempio, senza che siano ancora entrati in campo i difensori o prima di ulteriori accertamenti da svolgere in dibattimento”. E per i giornalisti? “Dovrebbe valere esattamente la stessa regola. Inoltre se, nelle cronache, i giornalisti si limiteranno a riportare pubbliche dichiarazioni colpevoliste delle autorità, non solo - come è ovvio - non ne assumeranno la responsabilità, ma saranno le autorità e non i media a dover rettificare. Il diritto a ottenere una rettifica e un risarcimento del danno per diffamazione resterà perciò in vita solo se l’organo di informazione avrà “aggiunto” alla dichiarazione dell’autorità pubblica, informazioni di altra fonte e natura e proprie valutazioni che dovessero risultare in contrasto con la presunzione di innocenza”. Scusi, ma così che diventa il mio lavoro? Solo pubblicare un comunicato stampa? “Molto dipenderà dall’etica professionale del giornalista”. Lei è un tecnico del diritto, ma stavolta le chiedo di scendere proprio terra terra, verso noi umani. Perché io non capisco. C’è un pm che ha seguito un’indagine e che ha beccato il colpevole - oddio... sorry... il presunto colpevole - ma non può fare la conferenza stampa con la polizia perché la deve fare il suo capo. Questo è giusto secondo lei? “Questa non è affatto una novità. Lo prevedeva già il decreto legislativo del 2006 sulle procure, unitamente alla possibilità del procuratore di delegare un magistrato del suo ufficio che abbia una più approfondita conoscenza degli atti. Per il resto io rimango dell’opinione che, nella società dell’informazione, la via da seguire per gli uffici giudiziari non sia il silenzio, ma la parola meditata e misurata”. Diciamo la verità, se un ufficio di procura pensa di aver preso un colpevole perché dovrebbe presentarlo come innocente? Cioè, mi faccia capire, qui arrestiamo uno, gli mettiamo le manette ai polsi, lo mandiamo in custodia cautelare, ma poi ai cittadini diciamo che comunque è innocente? “Ha presente che cos’è il principio di presunzione di non colpevolezza? Beh, proprio quello”. Le sembra giusto punire disciplinarmente il magistrato che in pubblico vanta il suo lavoro? “I magistrati lavorano per la Repubblica non per gratificare il loro ego. Su questo bisogna essere intransigenti”. Sa che le dico? Questa è la strada per separare le carriere, e avere un pm che risponde solo all’esecutivo, nominato dal governo come in America, che diventa il professionista dell’accusa. In quel ruolo potrà dire qualunque cosa. “Penso esattamente il contrario. Nell’ambito del procedimento penale i pm avranno - come del resto prevede giustamente il decreto - molta più libertà espressiva dei giudici. Ma sul piano delle dichiarazioni pubbliche la presunzione di innocenza dovrà essere rispettata da tutte le autorità giudiziarie e non giudiziarie”. Si metta adesso dalla mia parte. Scrivo un pezzo su uno che hanno arrestato, ma poi devo dire che è innocente. I miei lettori penseranno che sono da rinchiudere in manicomio... “Attendere una sentenza definitiva per ‘additare’ qualcuno come colpevole di un reato non mi sembra affatto una forma di schizofrenia. È solo un modo per rispettare la verità. Ammetto però che in Italia sarà più complicato che altrove perché spesso le sentenze divengono definitive dopo tre gradi di giudizio e magari dopo due condanne di merito sulla colpevolezza. In questi casi soccorrerà la ragionevolezza nella quale non bisogna mai disperare”. Si rende conto che giornalisticamente diventerà una guerra? Presunti articoli su presunti colpevoli, pardon… innocenti, su presunti fatti...Con presunte veline delle procure, ma solo in casi eccezionali. Ma lei ha capito che s’intende poi per casi eccezionali? Il furto dal gioielliere lo è? Un femminicidio lo è? Un brutto scippo lo è? Io le chiedo, ma a cosa si ridurrà la cronaca giudiziaria? “Vedo che i comunicati pubblici e ufficiali delle Procure hanno già meritato ai suoi occhi l’appellativo spregiativo di “veline”, e non capisco perché. Si tratterà di informazioni date in regime di trasparenza e di uguaglianza per tutti i media. Inoltre le valutazioni sul “rilevante interesse pubblico” dei procedimenti tali da giustificare le conferenze stampa resteranno libere e insindacabili. Sarà una guerra lei dice? Forse, ma magari più regolata di quella, selvaggia, cui spesso oggi assistiamo. Non scopriamo adesso che magistrati e giornalisti fanno un mestiere difficile “. Bene, dottor Rossi, così si sta decretando la morte degli scoop... “Al contrario, ci sarà più spazio per un serio giornalismo investigativo e meno spazio per quanti si affidano solo alle indiscrezioni che trapelano dagli uffici”. Gratteri: “La riforma Cartabia? Un disastro sul piano del contrasto ai reati” di Alexander Jakhnagiev Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2021 “Se fossero in vita Falcone e Borsellino immagino che salterebbero dalla sedia leggendo il termine improcedibilità in questa riforma, perché vuol dire che il 50% dei processi in appello, dove c’è stata già una condanna in primo grado, non si possono celebrare. Quindi penso che resterebbero sconcertati come lo sono tanti di noi. Una forte percentuali di imprenditori, soprattutto nel campo della ristorazione, non sono in grado di riaprire, stanno agonizzando.” Così Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro, ha commentato la riforma della giustizia promossa dalla ministra Marta Cartabia all’incontro “Trame 10, festival dei libri” a Lamezia. “Questa riforma è un disastro sul piano del contrasto ai reati, non solo ai reati di criminalità organizzata - ha continuato Gratteri - C’è stata una mediazione con i partiti che partecipano al governo. Nella realtà è sempre una mediazione al ribasso. Si dà la possibilità di andare oltre i due anni in appello e oltre l’anno in Cassazione a reati come l’associazione a delinquere di stampo mafioso o i reati sessuali. Però, per fare un esempio, questo governo ha istituito istituito il Ministero per la Transizione ecologica, però nell’elenco mancano i reati ambientali, corruzione, concussione, peculato: reati che stanno gomito a gomito con la politica e con i faccendieri. Faccio un altro esempio: immaginate un operaio cade dal quarto piano e viene condannato il datore di lavoro, è ovvio che questo processo in appello non si farà mai, andrà in coda. Mi devono spiegare quando avranno ristoro la vedova e i figli. Quando avranno giustizia? A questo dovrebbe rispondere il governo che ha proposto questa legge”. Referendum sulla giustizia, per i pm anche Falcone sarebbe un pericolo sovversivo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 settembre 2021 Ma perché certi magistrati dicono tante bugie? Ora hanno preso di mira il quesito referendario sulla separazione delle funzioni. Che non è la divisione tra le carriere, ma loro fanno finta che lo sia per agitare le toghe più reazionarie, quelle affezionate al sistema inquisitorio. È la vera bestia nera, lo spauracchio più gigantesco che ci sia, per le toghe: la separazione tra il rappresentante dell’accusa e il giudice. Quando gli si agita davanti agli occhi il drappo rosso, o anche solo rosa come in questo caso, il pm mostra subito la sua faccia feroce, come se qualcuno gli stesse strappando dalla bocca la sua preda, il suo prigioniero politico, il giudice. Tanto da non tollerare, dopo gli schiamazzi di un anno fa quando per la prima volta e per un solo giorno l’aula di Montecitorio affrontò il tema, dopo che l’Unione delle Camere penali aveva presentato la legge di iniziativa popolare di modifica costituzionale, neppure il timido referendum che divide in modo netto le funzioni. Il quesito presentato da radicali e Lega infatti modifica solo le norme che regolano l’accesso alla magistratura, così come la formazione e l’aggiornamento dei magistrati e la loro progressione economica, eliminando ogni riferimento ai passaggi da una funzione all’altra. In modo netto e definitivo. Lo si decide all’inizio di carriera: o si fa il giudice o si fa il pm, vietata la transumanza. È vero che, se il referendum vincesse, si aprirebbe un bel varco. Ma non sarebbe risolto il problema dell’unicità delle carriere, l’anomalia italiana che, nonostante il passaggio a quel sistema che la riforma del 1989 ha definito solo “tendenzialmente” accusatorio, è ferma al codice Rocco del ventennio. Il concetto stesso di “magistratura” puzza ancora di inquisizione. Non mette il Giudice sullo scranno più alto, lo mantiene a braccetto di una delle due parti processuali. La descrizione più gustosa del rapporto malato tra la toga inquirente e quella giudicante pare uscire dalla bocca di Berlusconi, invece è quella di un pm rampante, John Woodcock. L’ha scritto qualche tempo fa addirittura sul Fatto, dicendosi favorevole alla separazione delle carriere: “Oggi i pm si sono un po’ troppo abituati a vincere facile. Loro compito è infatti di persuadere un giudice, che spesso, e in particolare rispetto a un certo tipo di criminalità, è però già in perfetta sintonia coi loro argomenti, perché si è formato alla loro stessa scuola, perché li conosce e si fida di loro, perché si frequentano e chiacchierano insieme agli stessi convegni, agli stessi matrimoni, agli stessi compleanni, sulle stesse chat”. È così chiaro! E lo dice uno dei protagonisti dell’anomalia italiana nell’occidente. Le carriere sono infatti separate in Germania, Svezia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Giappone. Ma non c’è verso di far cambiare mentalità. L’argomento preferito dai magistrati più colti e di sinistra è che se liberiamo la pubblica accusa dalle braccia del suo giudice, il pm diventerebbe una sorta di poliziotto e perderebbe “la cultura della giurisdizione”. Lo ha detto esplicitamente Stefano Musolino, pm “antimafia” di Reggio Calabria, e neo-segretario di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra del sindacato delle toghe. Ci sono “quesiti che ci vedono nettamente contrari- ha detto parlando a nome del suo gruppo politico- e penso soprattutto alla separazione delle carriere, perché portare il pm fuori dal rapporto con la giurisdizione significa spingerlo a farlo diventare l’espressione della voglia securitaria del momento”. Una sola domanda: mi può portare il dottor Musolino una decina di esempi in cui lui o altri pm di sua conoscenza abbiano, per esempio, portato al giudice qualche prova a discarico dell’indagato o dell’imputato? Di quale cultura della giurisdizione stiamo parlando? Non si sottrae neppure l’ex procuratore Giancarlo Caselli, che ha sempre avuto buona stampa. Lo aveva scritto l’anno scorso, nei giorni in cui si discuteva la riforma costituzionale, e lo ha ripetuto ieri. Anche lui dà per scontato che il referendum proponga carriere separate. “Si basa sull’affermazione - dice- che i giudici sono appiattiti sul pm, dunque bisogna separarli”. Una banalizzazione del problema, quanto meno. Ma diciamo la verità, dovrebbe essere proprio necessario spiegare a un magistrato preparato come Caselli, che nessuno vuole, come lui aveva detto l’anno scorso, “limare le unghie alla magistratura”, perché nessuna toga dovrebbe essere fornita di unghie? E che la riforma del 1989, avendo introdotto, per quanto timidamente, il sistema accusatorio, ha stabilito che gli elementi raccolti dal pm vanno valutati nel contraddittorio tra le parti e non sono prove inconfutabili? Certo, quella riforma avrebbe dovuto essere completata con la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Purtroppo non è stato fatto e in questo modo si è lasciato spazio a quella (gran) parte dei magistrati che ancora non riescono a distaccarsi dal rimpianto del sistema inquisitorio, quello in cui la segretezza delle indagini dava il massimo dei poteri al corpo della magistratura. Bisogna avere il coraggio di dirlo, però, senza fare ogni volta il gioco delle tre tavolette. Come quando si dice “eh, ma così si finisce con il sottoporre il pm all’esecutivo”, pur sapendo che nella proposta di legge di riforma popolare questo non è previsto, e men che meno nel referendum. E bisognerebbe avere anche il coraggio, ogni volta che viene celebrato il nome di Giovanni Falcone (anche da parte degli ipocriti di sinistra che lo hanno combattuto), di citare quel suo saggio sulla separazione delle carriere. Basta ricordarne un passaggio. “Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerarla magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura”. Occorre prendere atto, diceva ancora, che le carriere dei pm e dei giudici non potevano essere le stesse, “diverse essendo le funzioni e quindi le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali…”. Lo diceva e lo scriveva quarant’anni fa. Anche lui voleva tagliare le unghie alla magistratura? Ddl civile, Cartabia pronta a mediare sulle rigidità criticate dall’avvocatura di Simona Musco Il Dubbio, 3 settembre 2021 In fase di rielaborazione gli emendamenti sulle fasi introduttive del giudizio criticati dalle rappresentanze forensi. Rinviati a martedì i nodi sul diritto di famiglia e del lavoro. È iniziato in Commissione Giustizia del Senato il voto sugli emendamenti alla riforma del processo civile, con la bocciatura di tutti quelli su cui il governo e le relatrici (Anna Rossomando del Pd, Fiammetta Modena di Fi e Julia Unterberger del Svp) hanno espresso parere negativo. Un tentativo di snellire l’iter della riforma, per far sì che la Commissione Bilancio possa esprimersi in maniera celere sugli emendamenti che hanno già incassato un parere positivo, evitando lavoro “inutile” su quelli da rielaborare. La scelta ha un fine preciso: chiudere velocemente la partita della giustizia civile, la più importante in ottica di Recovery Fund, dati i continui richiami dell’Unione europea a snellire i tempi e le conseguenze delle lungaggini dei procedimenti civili in termini di investimenti economici. L’intenzione è quella di far approvare il testo in Aula entro fine di settembre ed è proprio per questo che si è deciso di tenere fuori dalla porta della Commissione le questioni sospese, da risolvere durante i faccia a faccia con la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il voto è stato infatti preceduto anche ieri da una riunione tra la Guardasigilli e gli esponenti della maggioranza, utile a sciogliere alcuni dei nodi emersi già nella riunione di martedì. I temi sul piatto sono tanti, alcuni dei quali rinviati alla prossima settimana. Tra questi anche la discussione riguardante i due sub emendamenti relativi al diritto di famiglia, questione che agita le forze politiche. Nelle intenzioni della ministra c’è infatti quella di creare un rito unico indipendentemente se si tratti di famiglie o coppie di fatto. E tra i subemendamenti presentati c’è quello della senatrice dem Valeria Valente, finalizzato a rafforzare la tutela dei minori nei casi di violenza domestica, anche qualora non ci sia un accertamento definitivo in un processo. Da qui, dunque, l’obbligo per tutti i soggetti istituzionali che entrano in contatto con i minori di garantire che i diritti di affidamento e di visita siano assicurati tenendo conto delle violenze, anche assistite, rientranti nel campo di applicazione della Convenzione di Istanbul. Contraria la Lega e, in particolare, Simone Pillon, che invece punta a preservare la bigenitorialità. Insomma, la questione rischia di agitare le acque della maggioranza, motivo per cui si è deciso di rinviare il confronto di qualche giorno, lasciando spazio a contatti informali fino a martedì - giorno in cui è prevista una nuova riunione di maggioranza per trovare una mediazione. Per quanto riguarda la fase introduttiva del giudizio, tra i nodi più intricati della riforma, si è scelta invece una strada che consente agli avvocati di non incorrere in decadenze immediate, garantendo comunque al giudice la possibilità di avere un quadro completo già alla prima udienza. Il progetto iniziale del ministero puntava a definire nell’udienza di prima comparizione delle parti sia l’ambito sia la portata dei mezzi di prova, nonché la questione da risolvere, con un nuovo sistema di preclusioni che ha allarmato l’avvocatura. Le bozze, al momento riservate, sono già in mano al legislativo, ma l’idea di massima è quella di arrivare alla prima udienza con tutti gli elementi a disposizione, ma con termini di decadenza “diluiti” nel tempo, anche se sempre nella fase che precede il primo incontro con il giudice. Un tentativo di andare incontro alle richieste dell’avvocatura e ottenere, al tempo stesso, uno smaltimento dei tempi morti. La prima udienza, dunque, dovrà essere un passaggio “non solo rituale”, ha commentato Rossomando al termine dei lavori della Commissione, ma un momento “utile a una definizione del calendario del processo”, tutelando il principio del contraddittorio. Un ruolo centrale verrà affidato all’Ufficio del Processo, che porterà nei Tribunali non solo “un innesto quantitativo di personale giuridico - ha evidenziato ancora la vicepresidente del Senato -, ma anche competenze nuove che potranno accelerare i processi. Non è pensabile che il processo del Terzo Millennio sia un semplice passaggio dal supporto cartaceo a quello digitale, senza forti innovazioni”. Entro martedì, giorno in cui scade anche il termine per la presentazione degli emendamenti al ddl penale, le relatrici presenteranno una riformulazione dei punti ancora in sospeso. Tra quelli da affrontare c’è il tema degli incentivi fiscali al ricorso all’arbitrato, sul quale incombe un problema di coperture. Tra le proposte anche quelle relative al patrocinio gratuito per la negoziazione assistita, con lo scopo di garantirne l’accesso a tutti. Rinviata, infine, anche la discussione sul tema del diritto del lavoro, dopo la reazione negativa dei sindacati di fronte alla possibilità di aprire anche ad altre figure professionali la possibilità di sottoscrivere le negoziazioni assistite in tale materia. Il fronte è diviso tra chi, come gli avvocati giuslavoristi, esprimono parere positivo a tale ipotesi, e chi, come i sindacati confederali, si è detto contrario all’estensione dell’istituto della negoziazione assistita anche alle controversie di lavoro. Su tale punto la maggioranza ha concordato con la ministra un approfondimento, ma la mediazione, stando a fonti della maggioranza, dovrebbe essere raggiunta con facilità. Moby Prince e Viareggio, stragi in attesa di verità di Stefano Taglione Il Tirreno, 3 settembre 2021 Moby Prince (140 morti) e stazione di Viareggio (32) al centro del dibattito a Eliopoli con i familiari delle vittime. A trent’anni di distanza dalla strage del Moby Prince e a dodici da quella del treno alla stazione di Viareggio, i familiari delle vittime sono ancora alla ricerca della verità e in attesa di ottenere giustizia. E su questo si è incentrato il dibattito che si è svolto sul palco di Eliopoli, a Calambrone, con la conduzione del giornalista Massimo Marini che ha promesso di “continuare a dare voce ai familiari che portano avanti una battaglia di dignità”. Il giornalista ha poi sottolineato “che riaprire queste ferite è molto doloroso, ma al tempo stesso è necessario che la memoria di quanto è accaduto non venga mai meno”. La parola strage è ricorsa spesso nell’arco della serata, parola però negli atti processuali non ha trovato posto. Si trova sempre quella d’incidente, di episodio ma non si parla mai di strage perché altrimenti le vicende avrebbero avuto un diverso decorso giudiziario. Sul traghetto sono morte centoquaranta persone e alla stazione di Viareggio altre trentadue. Intanto, la sentenza della Corte di Cassazione in merito all’incidente di Viareggio, che è stata pronunciata a gennaio scorso, ha eliminato l’aggravante della morte sul lavoro dei due macchinisti (con prescrizione per l’omicidio colposo) e a tutt’oggi non sono ancora note le motivazioni della sentenza. E quella notte di dodici anni fa per Daniela Rombi, dell’associazione “Vittime del treno Viareggio”, è cominciata una nuova e terribile vita. Prima, con la notizia di sua figlia che era rimasta ferita nell’esplosione con il 98% delle ustioni su tutto il corpo e senza vista per poi perderla quaranta giorni dopo. E poi per muoversi nel mondo a lei sconosciuto degli avvocati e dei tribunali. Anche Marco Piagentini, uno dei pochi sopravvissuti, ha ricordato quella terribile notte dove ha perso la moglie e due figli. Si è invece insediata la seconda commissione parlamentare di inchiesta sulla tragedia del Moby Prince, mentre è sempre aperta una inchiesta alla Procura di Livorno sulla base dei risultati riscontrati dalla prima commissione che ha riscritto una verità completamente diversa da quella processuale. Sergio Romboli, dell’associazione “140 vittime Moby Prince”, nell’incendio del traghetto che si era scontrato con la petroliera Agip Abruzzo, ha perso suo padre e ancora oggi è alla ricerca del perché di quella tragedia. Secondo Romboli, quella sera nel porto di Livorno c’era qualcosa che non doveva esserci e che a tutt’oggi non c’è modo di sapere. Ma soprattutto sono stati inadeguati e tardivi i soccorsi: “Li hanno lasciati morire”. Un tema toccato anche dal capocronista del Tirreno, Alessandro Guarducci, che si è soffermato soprattutto sui tempi di sopravvivenza a bordo del traghetto secondo quanto è emerso nella prima commissione parlamentare di inchiesta. “Arriveremo a conoscere la verità, ma temo che non sarà fatta giustizia”, ha commentato con amarezza. L’assessore regionale ai Trasporti Stefano Baccelli e il sindaco di Livorno Luca Salvetti hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle istituzioni locali nello stare a fianco dei familiari in questi anni di battaglie. “La politica e la pubblica amministrazione devono opporsi all’arroganza”, hanno dichiarato. Assente invece il sindaco di Viareggio, che pure era stato invitato, ha spiegato Marini. L’applauso finale è stato tutto per Loris Rispoli. La Corte di giustizia Ue salva il reato di autoriciclaggio di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2021 L’autore del reato principale, nel caso di specie evasione fiscale, può essere imputato anche del delitto di riciclaggio. Questo il principio sancito ieri dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che conferma quindi la legittimità della configurabilità del reato di autoriciclaggio negli ordinamenti di tutti i Paesi dell’Unione. La sentenza del 2 settembre 2021 sulla causa c/790/19 ha stabilito un principio estremamente importante in tema di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo. La normativa europea deve essere interpretata nel senso che non osta una normativa nazionale che prevede che il reato di riciclaggio di capitali possa essere commesso dallo stesso autore dell’attività criminosa che ha generato i capitali. La causa principale nasceva dal Tribunale superiore di Bra?ov in Romania che aveva emesso una condanna a pena detentiva per riciclaggio di capitali, per fatti commessi tra il 2009 e il 2013. I capitali derivavano da un reato di evasione fiscale commesso da un privato. Il trasferimento del denaro era stato effettuato in base a un contratto di cessione del credito concluso fra l’imputato e la società di cui egli era amministratore e la società di cui era amministratore l’altro concorrente del reato. Il giudice del rinvio riteneva che l’articolo 1, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2015/849 doveva essere interpretato nel senso che l’autore del reato di riciclaggio di capitali, che è per sua natura un reato di conseguenza derivante da un reato principale, non poteva essere quello del reato principale. Su questa base, sempre secondo il giudice remittente, ritenere che l’autore del reato principale poteva anche essere quello del reato di riciclaggio di capitali equivaleva a violare il principio del ne bis in idem, previsto dalla Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Qualora fosse passata tale interpretazione la sussistenza del reato di autoriciclaggio in tutti gli ordinamenti dei Paesi membri sarebbe stata non più legittima. La Corte Ue, anche sulla base delle conclusioni dell’Avvocato generale, ha ritenuto invece che la formulazione contenuta nella normativa antiriciclaggio riguardava la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provenivano da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni. Da tale formulazione risulta che, affinché una persona possa essere considerata autrice di riciclaggio di capitali, quest’ultima debba sapere che i beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione diretta all’attività. Pertanto tale requisito consiste unicamente nel richiedere che l’autore del reato di riciclaggio di capitali conosca l’origine criminale dei capitali interessati. Tale requisito è soddisfatto per quanto riguarda l’autore dell’attività criminosa da cui provengono i capitali, risultando peraltro dal tenore letterale della norma antiriciclaggio Ue che l’atto materiale di riciclaggio consiste, in particolare, nella conversione o nel trasferimento di beni, allo scopo di occultare o dissimulare la loro origine illecita. Infine la Corte del Lussemburgo ha chiarito, al fine di garantire il rispetto del principio del divieto di ne bis in idem, che spetta al giudice della causa principale del merito verificare che i fatti materiali costitutivi del reato principale, ossia l’evasione fiscale, non siano identici a quelli per i quali l’imputato è stato perseguito. Una violazione del principio del ne bis in idem sarebbe esclusa nell’ipotesi in cui si constatasse che i fatti che hanno dato luogo al procedimento penale, a titolo di riciclaggio di capitali, non siano identici a quelli costitutivi del reato principale di evasione fiscale, ciò che invece è apparso emergere dai fatti di causa esaminati dalla Corte Ue. Errore giudiziario, riparazione estesa alla custodia cautelare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2021 La Corte di cassazione, sentenza 32632 depositata oggi, torna sui rapporti tra riparazione e ingiusta detenzione. La riparazione dell’errore giudiziario attiene non soltanto ai pregiudizi derivati dalla espiazione della pena definitiva ma anche a quelli conseguenti alla detenzione a titolo di custodia cautelare subita nel corso del processo. In questo senso la domanda relativa alla riparazione dell’errore giudiziario può comprendere anche quella per la riparazione dell’ingiusta detenzione eventualmente subita, “senza applicazione del tetto massimo previsto dall’art. 315 cod. proc. pen. di 516.456,00 euro stabilito per l’ingiusta detenzione, anche se da tale parametro di riferimento tuttavia può trarsi un criterio di massima di quantificazione pro die”. La Corte di cassazione, sentenza 32632 depositata oggi, nuovamente adita a seguito di annullamento con rinvio, torna sui principi espressi con la prima decisione (n. 10236/2020) relativa al caso di un uomo ingiustamente processato e sottoposto a detenzione per cinque anni, respingendone però la richiesta di una maggiorazione nella liquidazione dei danni. “È vero - argomenta la decisione - che l’art, 643 c.p.p., comma 1 (Riparazione errore giudiziario), prende in considerazione, per stabilire l’entità della riparazione per l’errore giudiziario, la durata della eventuale espiazione della pena o internamento, oltre alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, e non ricomprende invece espressamente le conseguenze derivanti dalla privazione della libertà personale a diverso titolo”. “Ma - aggiunge - un’interpretazione riduttiva, fondata esclusivamente sulla lettera della nonna indicata, non sarebbe condivisibile”. Quanto poi al problema, affrontato dalla decisione assunta in sede di rinvio e oggi impugnata, relativo al danno mora le e al danno esistenziale nell’epoca successiva alla detenzione, la Corte territoriale - prosegue la Cassazione - ha assunto, da un lato, che la “richiesta del ristoro di detti affermati pregiudizi era comunque coperta dall’intangibilità della valutazione già operata in relazione alla liquidazione del danno biologico permanente, atteso altresì il carattere tendenzialmente omnicomprensivo delle cd. tabelle milanesi; d’altro canto ha sottolineato - con una considerazione che non è stata specificamente censurata in relazione a tale peculiare aspetto - che faceva difetto la prova che di tali affermati pregiudizi si potesse parlare in termini ulteriori rispetto a quanto già determinato, in ossequio ed adempimento all’entità standard già determinata dalle tabelle”. Parimenti, quanto al danno morale per il periodo di detenzione, prosegue la decisione, l’ordinanza impugnata “non ha disatteso la richiesta ovvero negato la possibilità di indennizzare il pregiudizio, ma ha ritenuto che non vi fosse prova del pregiudizio ulteriore”. In relazione poi alla contestata determinazione - nel 5% del parametro aritmetico già liquidato - del quantum concernente l’ulteriore indennizzo per il danno esistenziale sofferto, “è stato ad es. osservato che in tema di quantificazione della somma dovuta per ingiusta detenzione, il danno biologico non deve necessariamente essere liquidato mediante applicazione del criterio tabellare adottato dalla giurisprudenza civile, dovendosi ritenere che la natura non patrimoniale di questo tipo di danno consenta di ricorrere anche a criteri equitativi, purché essi non risultino illogici e conducano ad un risultato che non si discosti in modo irragionevole e immotivato dai menzionati parametri tabellari”. Così, conclude la Corte, “alcuna manifesta irragionevolezza può dirsi evidenziata, tenuto conto che il riferimento al cd. parametro aritmetico consente comunque di ovviare alla lacuna evidenziata in sede di annullamento quanto all’assenza di parametri e che, in definitiva, il ricorso al criterio equitativo non si pone nell’alveo dell’illogicità, tenuto invero conto che si tratta non del danno esistenziale in sé ma di un pregiudizio ulteriore ritenuto meritevole di indennizzo adeguato”. Ferrara. Arrestato per droga, si toglie la vita il giorno dopo in carcere di Daniele Predieri La Nuova Ferrara, 3 settembre 2021 Arrestato all’alba di martedì, si è ucciso ieri pomeriggio all’interno della cella del carcere dell’Arginone: il ragazzo, 29 anni, L. L. di Cento, era stato arrestato dai carabinieri di Cento che gli avevano trovato in casa e nell’auto droga, soldi e anche una pistola semiautomatica, risultata poi rubata. Una tragedia che la direzione del carcere ha subito segnalato alla pm di turno Ombretta Volta, sulla quale ora si dovrà far luce come avviene sempre in queste circostanze. L’arresto, dicevamo, risale alle prime ore di martedì scorso, 31 agosto, quando i carabinieri di Cento, dopo una lunga indagine antidroga avevano elementi e riscontri contro il ragazzo, e per questo si sono recati a casa sua per una perquisizione. Non l’hanno trovato in un primo momento, presente la madre e quindi al suo arrivo alle prime ore del mattino la perquisizione ha portato a scoprire nella sua casa tutto il materiale per cui è stato necessario e d’obbligo l’arresto. I carabinieri gli hanno trovato due buste con dentro due chilogrammi di marijuana e poi altra droga, 161 grammi di hashish. E non potevano mancare 2 bilancini di precisione che servono per controllare il peso delle dosi da vendere, altro segnale che i riscontri degli inquirenti erano precisi sul ruolo nel mondo dello spaccio del ragazzo. Poi la perquisizione ha riservato altre sorprese in casa e nell’auto, perché è stata trovata (e poi sequestrata) una pistola semiautomatica Tanfoglio calibro 9, corredata di 60 munizioni, che dalle prime ricerche è risultata essere stata rubata in una abitazione della zona e anche questo particolare rende ancora più intricata la posizione del ragazzo. Alla luce del fatto che sono state trovate anche banconote per più di 16 mila euro, che secondo le ipotesi sarebbe il tesoro dei traffici di droga. Fin qui i dati obiettivi e oggettivi, che hanno portato all’arresto del ragazzo, e che dopo tutte le attività burocratiche è stato trasferito in carcere all’istituto dell’Arginone nel primo pomeriggio di martedì. Ed è qui che emergono i dubbi sulla scelta della detenzione. Perché lui, così si è scoperto, aveva scritto alla sua ragazza una lettera (non spedita) sulla sua intenzione di togliersi la vita. La sua detenzione - questo dovrà accertare l’indagine - avrebbe dovuto essere quanto meno più controllata, nella sezione “Nuovi giunti”, anche se non vi erano avvisaglie né segnalate né rilevate dagli addetti ai lavori del carcere. La realtà, tragica e dura, è che dopo essere entrato nel reparto “Nuovi giunti”, ieri pomeriggio attorno alle 15 è stato trovato in fin di vita dopo essersi impiccato col lenzuolo della cella. L’indagine è appena partita, la segnalazione inviata alla procura che dovrà valutare se vi possano essere o meno coni d’ombra nella vicenda tra arresto e morte dopo 24 ore. Firenze. Testa incastrata nello spioncino della cella: detenuto muore a Sollicciano di Andrea Bulleri e Luca Serranò La Repubblica, 3 settembre 2021 La vittima è un cittadino tunisino del reparto “transito”. Ipotesi suicidio o incidente ma l’inchiesta dovrà accertare perché non sia stato soccorso in tempo. Un detenuto del carcere fiorentino di Sollicciano è stato trovato morto all’interno della sua cella ieri sera intorno alle 22. La vittima è un tunisino di 43 anni. Le prime voci non confermate parlano di suicidio, ma non ci sono conferme ufficiali. L’uomo si trovava da solo all’interno della cella, avrebbe perso i sensi dopo aver infilato la testa nello spioncino della cella riservato al passaggio del cibo, e nessuno sarebbe riuscito a soccorrerlo. È un giallo ancora fitto al momento il decesso del detenuto. L’uomo, di nazionalità tunisina, era detenuto nella sezione transito, quella dove si trovano i soggetti appena arrivati, trasferiti da un altro istituto o che non devono scontare una pena definitiva. Stando alle prime informazioni, il 43enne avrebbe infilato la testa tra una sbarra e l’altra dell’ingresso della sua cella, nello spioncino che serve al passaggio dei piatti per il pranzo e per la cena, uno spazio di circa una decina di centimetri. Un gesto abbastanza comune tra i detenuti del transito, viene spiegato, che si affacciano per guardare nel corridoio o per chiamare le guardie. Per qualche motivo, però, l’uomo non sarebbe riuscito a far uscire la testa dalle sbarre. Sarebbe rimasto incastrato, facendosi prendere dal panico. In pochi attimi - secondo una prima ricostruzione - avrebbe perso i sensi, rendendo più difficili le operazioni di soccorso di una guardia intervenuta per aiutarlo. E avrebbe perso la vita in questo modo, con ogni probabilità per soffocamento: quando sul posto è intervenuta l’automedica del 118, per lui non c’era più niente da fare. Sempre in base alle prime informazioni raccolte mentre il tunisino agonizzava nessuno si sarebbe accorto di lui poiché la maggior parte degli agenti era impegnata nella cella di un altro detenuto che pare avesse danneggiato gli interni dopo aver dato in escandescenze. L’inchiesta della procura dovrà comunque capire come sia stato possibile che un’area del carcere sia stata per un certo periodo - pur breve - priva di controllo. Firenze. Morte detenuto a Sollicciano. Il Garante: struttura inadeguata e fuori dal tempo agenziaimpress.it, 3 settembre 2021 “La notizia della morte di un giovane detenuto, avvenuta questa notte nel carcere di Sollicciano, riempie di dolore tutti coloro che hanno come valore primario il rispetto della vita delle persone e l’umanità del carcere. Alla memoria di questo giovane va tutto il nostro pensiero, ed alla sua famiglia tutta la nostra vicinanza di uomini prima che di Istituzioni. A lui auguriamo di riposare con quella pace che probabilmente non ha avuto in vita. Noi attendiamo di conoscere le cause della morte”. Così il Garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, appresa la notizia del detenuto trovato morto nella sua cella a Sollicciano. “La sua morte - continua Fanfani - ripropone con durezza rutti i temi inevasi della condizione carceraria che già l’anno passato, con tre suicidi, erano balzati all’attenzione dell’opinione pubblica. In carcere non si muore per caso. Il carcere così come lo conosciamo noi è la precondizione per forme psichiatriche più o meno gravi che quasi sempre portano ad atti autolesionistici, l’anno passato solo a Sollicciano se ne sono contati 700, e spesso portano al suicidio”. “Se nessuno resta insensibile alla morte di un detenuto, nessuno può esimersi dal denunciare con fermezza che il sistema carcerario quale attualmente è, salvo rare eccezioni, è indegno di un Paese civile”. “In carcere - prosegue il Garante - manca tutto ma soprattutto manca la prospettiva di una vita futura migliore di quella lasciata che non possono garantire da soli né la grande opera del volontariato, né piccoli interventi settoriali delle Istituzioni che rispetto alla dimensione del fenomeno sono piccolissima cosa”. Sollicciano non è da meno, perché accanto ai problemi del sistema carcerario italiano, assomma i difetti di una struttura inadeguata che ormai si pone fuori del tempo”. Il sistema carcerario nel suo complesso, a detta di Fanfani, “avrebbe necessità di una visione umanistica ed antropocentrica che esaltasse il dettato costituzionale, avendo come unica prospettiva il recupero della dignità e umanità dei singoli. Forse in questo modo si eviterebbe qualche morto”. Civitavecchia (Rm). Niente acqua: detenuti in rivolta laprovinciadicivitavecchia.it, 3 settembre 2021 La carenza idrica ha creato tensioni al carcere di Borgata Aurelia. Senza acqua non si può vivere. Parole ripetute ormai da anni, come slogan, ai quali neppure si fa più caso in una Civitavecchia dal servizio idrico inefficiente da sempre, sul quale nessun amministratore ha avuto mai il coraggio di investire concretamente. Tutto è finito nelle mani di Acea, ma i problemi di ieri sono gli stessi di oggi e anche un semplice guasto da riparare, per gli utenti può rivelarsi un vero e proprio dramma. La carenza idrica alcune volte può diventare pericolosa e nei giorni scorsi qualche problema è stato riscontrato. Ad esempio presso il carcere di Borgata Aurelia, dove i detenuti rimasti senza acqua hanno organizzato una sorta di rivolta. Momenti di paura presso la casa Circondariale: un gruppo di persone recluse hanno protestato animatamente contro la mancanza di acqua all’interno dell’istituto, rifiutandosi di rientrare nelle celle. Alla fine il buonsenso ha prevalso e sono state scongiurate conseguenze più gravi, ma il disagio rimane e non solo tra le mura del carcere. A Borgata Aurelia i cittadini hanno alzato la voce, denunciando quanto sofferto dai commercianti della zona. Un lavoro di riparazione della condotta, durato più del previsto, è bastato a mettere in ginocchio alcuni ristoranti anche in zona Pantano. E a nulla sono valse le richieste dei ristoratori e abitanti ai conducenti di autobotti per fare in modo di approvvigionare i loro serbatoi: senza le direttive di Acea niente acqua. E non è difficile mettersi nei panni dei ristoratori, appena usciti dalla crisi, che vedono in questo periodo di semilibertà una nuova opportunità di sollievo. Opportunità che qualcuno ha visto naufragare nei giorni scorsi proprio per la mancanza di acqua. Disdetti i coperti già prenotati con tanto di scuse rivolte ai clienti perché senza acqua il servizio di ristorazione non può essere garantito. “La cosa più triste - racconta un cittadino di Borgata Aurelia - è vedere le autobotti commissionate da Acea a poca distanza da bar e ristoranti colmi della loro capienza, ma non autorizzati a riempire i serbatoi di scorta delle attività commerciali che nel frattempo sono rimasti a secco”. Augusta (Sr). Carcere sovraffollato, i detenuti rifiutano i pasti livesicilia.it, 3 settembre 2021 I detenuti del carcere di Augusta, nel siracusano, stanno protestando contro il sovraffollamento e rifiutando i pasti. Nella struttura ci sono 450 persone, mentre la capienza massima è di 250. Nei giorni scorsi tre detenuti sono risultati positivi al Covid 19 e sono stati isolati. La protesta dei detenuti segue la manifestazione dei sindacati della Polizia penitenziaria davanti all’ingresso del carcere per le precarie condizioni strutturali e la carenza di personale. Bari. Si vede la luce per il Palagiustizia di Francesco Petruzzelli Corriere del Mezzogiorno, 3 settembre 2021 Al commissario concessi ampi poteri. Decaro: nuovo tribunale in tempi più rapidi. Svolta per la realizzazione del parco della giustizia a Bari. Nel decreto legge approvato dal governo nella seduta di ieri, sono state inserite norme per consentire procedure più snelle su autorizzazioni, appalti e varianti urbanistiche. I ricorsi al Tar non potranno fermare i lavori. Il sindaco Decaro: “Mantenuto un impegno preso con la città”. Procedure più snelle su autorizzazioni, appalti e varianti urbanistiche, consentendo al commissario ad hoc tempi più rapidi per la realizzazione di un’opera ritenuta strategica. Non solo per la città ma anche per il Paese. Si intravede la luce sull’iter che entro il 2024 porterà a Bari la creazione del primo lotto del Parco della Giustizia (Procura e Tribunale) ricavato nelle ex casermette Milano e Capozzi, in via Alberotanza al quartiere Carrassi. Il via libera è arrivato dal governo che, nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri, ha inserito il polo unico di Bari nel decreto legge sulle disposizioni urgenti in materia di investimenti, infrastrutture e trasporti. Dando di fatto un’accelerata al progetto, da 90 milioni di euro, atteso da anni dagli operatori della giustizia. Inevitabile la soddisfazione del sindaco Antonio Decaro: “Con questo decreto il governo sta mantenendo un impegno preso con la città di Bari, e che mi era stato assicurato meno di un mese fa, approvando oggi di fatto una norma ad hoc sul Parco della Giustizia. Dopo la nomina del commissario, vengono dati allo stesso strumenti per lavorare con procedure semplificate e veloci così da ridurre i tempi di realizzazione dell’opera. Le norme indicate nel decreto, infatti, prevedono un modulo estremamente veloce per rilascio dei pareri, per l’approvazione dei livelli di progettazione oltre ad essersi ridotti i termini per l’impugnazione giudiziaria”. Il commissario dell’opera - individuato nelle scorse settimane nel neo direttore dell’Agenzia del Demanio regionale, Antonio Ottavio Ficchì (atteso da Roma a Bari il prossimo 15 settembre) - avrà così poteri straordinari per portare a termine un’opera che darà dignità all’amministrazione della giustizia, negli ultimi anni sfrattata dalla sede di via Nazariantz, finita nelle tende e poi trasferita negli ex palazzi Telecom, in via Dioguardi a Poggiofranco. “Ci sarà un appalto integrato, quindi molto più spedito, ed eventuali ricorsi al Tar non impediranno comunque l’opera” spiega soddisfatto il sottosegretario alla Giustizia, il deputato barese di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, uno dei principali attori di questo immediato sblocco. “Per il Parco della Giustizia di Bari - aggiunge il parlamentare e penalista - assistiamo a un’accelerazione amministrativa senza precedenti. Il commissario potrà, infatti, decidere in piena autonomia su tutte le autorizzazioni necessarie alla edificazione dell’opera, avvalendosi, ove lo riterrà necessario, del qualificato apporto istruttorio degli enti territoriali, sempre con la partecipazione obbligata e vigile del ministero della Giustizia”. “Ringrazio la ministra Cartabia e la squadra del Ministero - conclude Sisto - per la fattiva sensibilità mostrata nel creare, dopo vent’anni di attesa, le fondamentali premesse perché Bari possa avere un Palazzo di Giustizia degno della sua immagine”. Le due caserme Milano e Capozzi, risalenti agli anni Quaranta del secolo scorso e dismesse nel 2013, sono collegate tra loro da un ponte pedonale; presentano ciascuna un’area di sedime pari a 69mila metri quadri e sono costituite da tredici fabbricati ad un unico piano con ingressi indipendenti e viabilità interna dedicata. Reggio Emilia. “Riflettiamo sulla vita nelle carceri” di don Daniele Simonazzi* Gazzetta di Reggio, 3 settembre 2021 Condivido alcuni pensieri in ordine alla condizione carceraria. Non che sia convinto che questo possa cambiare - purtroppo - la condizione di coloro che sono “ospitati” nelle carceri e pure nell’istituto di Reggio Emilia, del quale sono cappellano. Può semmai servire ancora a riflettere sul nostro servizio di cristiani in carcere. Premetto che la mia ottica è senz’altro parziale: condivido alcune cose al fine di creare e suscitare emozioni, legami, comunione umana e di Chiesa. Quando parlo di sistema carcerario, penso a volti, a storie, a cammini di vita. Perciò dico che il sistema carcerario è fondato su un’assenza che mi pare una delle cause - se non la principale - per ritenere il carcere perfettamente inutile. L’assenza più grande è delle vittime dei reati. Lo Stato si sostituisce alle stesse: in questo modo non solo le isola, ma le ignora. Il sistema carcerario entra in gioco conferendo priorità al reato e a chi lo ha commesso. Se, altrimenti, si assumesse la condizione della vittima del reato - che si vede segnata la vita da un evento con tutta la famiglia e per sempre - penso che la vita del carcere potrebbe acquistare un suo ben diverso significato. Non il reato al centro - Il senso da acquisire è quello per il quale è chiesta una vera conversione. Arriverebbe dal coraggio di non porre più al centro del carcere il reato, bensì di partire dal reato per imbastire un cammino nuovo. Cosa accade ora? Si commina una pena tarata sul reato, in maniera tale che il legame che si ingenera tra detenuti, agenti e personale civile è un legame infetto, malato, velenoso, perché gli anni da scontare da parte dei detenuti o da far scontare da parte di agenti e personale, non hanno quale prospettiva il rimarginarsi delle ferite prodotte, ma una sorta di vuota espiazione nel dolore. L’intento è “fargliela pagare e basta!”. Inevitabilmente questa impostazione giustizialista, oltre a non suscitare alcuna novità di vita in una prospettiva che si possa considerare minimamente costruttiva, alimenta semplicemente se stessa, nella presunzione del diritto dello Stato ad ergersi quale unico vindice di quanto avvenuto. Questo ha come effetto paradossale creare ulteriori vittime, tra fratelli e sorelle di una umanità stravolta dalla colpa. Ciò che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, pertanto, non mi stupisce affatto, se non per il numero di agenti coinvolti e per l’efferatezza della violenza usata. Negli stessi giorni - nel nostro carcere di Reggio Emilia - era stata ordinata una perquisizione in una sezione che appariva fuori controllo. Sono giunti agenti da altri istituti ai quali è stata affidata la cosiddetta “carta bianca”. Le condizioni in cui hanno ridotto, al loro passaggio, le celle in cui le persone detenute vivono - tra l’altro in assenza degli stessi ospiti - mi ha fatto e ci ha fatto riflettere insieme ad alcuni amici e graduati della Polizia penitenziaria su almeno due aspetti: il primo legato al cuore, alla coscienza, alla mentalità di coloro che hanno eseguito la perquisizione o di chi li ha comandati o indotti a farlo; il secondo riguardo alla formazione degli agenti di Polizia penitenziaria. Mi è capitato rare volte di essere chiamato a tenere incontri di formazione circa la figura del cappellano presso la scuola degli agenti di Parma. Quando ho potuto far presente le istanze di cui parlo - legate appunto al superamento della priorità del reato nel cammino carcerario - ho raccolto solo vibranti proteste da parte di coloro che mi ascoltavano, soprattutto nel corso tenuto a coloro che si stavano preparando ad assumere i posti di responsabilità. Tornando a quella perquisizione: l’esito è risultato un telefonino sequestrato e una cospicua quantità di sigarette di proprietà di un solo detenuto: ritrovamenti evidentemente irrisori rispetto alla portata indotta nell’animo degli ospiti detenuti: amarezza, delusione, più che rabbia o volontà di vendetta! Domanda agli agenti - È inevitabile a questo punto porre e condividere con gli agenti la domanda: cosa ti ha portato ad arruolarti, a scegliere questa professione piuttosto che un’altra? La risposta appare piuttosto scontata ed è legata al fatto che, a causa della mancanza di lavoro, soprattutto al Sud, le persone non hanno trovato niente di meglio da fare che questo mestiere. Tuttavia, se si vive un buon grado di prossimità e di amicizia con questi agenti, la risposta non risulta così scontata: si scopre che c’è un cammino in corso d’opera, in tutti. Se pure la motivazione iniziale è quella dello stipendio sicuro - e chi può biasimare questo? -, nel corso del tempo ci si accorge della possibilità di una cosa nuova che si fa strada nelle persone, anche nel deserto carcerario. Quando si entra in sezione, ci si rende da subito conto se la responsabilità di questa è affidata ad un agente che si pone in un “cammino nuovo”, ovvero che deve ancora maturare la decisione di intraprenderlo. Inevitabilmente, anche se in modi diversi, le domande che ci stanno davanti nel fondamentale passaggio di vivere la sezione, anziché solo l’ufficio della sezione, riguardano la totale inutilità del tempo, del lungo interminabile tempo che si trascorre in sezione e quindi in cella. Persone, la cui potenzialità e le cui capacità, se messe al servizio, potrebbero portare ad un grande giovamento collettivo, si vedono ridotte, loro malgrado, ad attività che, al di fuori del carcere, avrebbero al massimo la dignità degli hobbies: il gioco delle carte, il modellismo, la cura della propria stanza sino alla minuziosità (sino a quando non arriva improvvisa la perquisizione). Sono tutte attività prodotte dalla frustrazione. Può bastare allora un episodio a far sì che si possa intraprendere un’altra strada. Due uova di fagiano - P.H., ad esempio, ha trovato in un campo all’interno delle mura di cinta delle uova di fagiano, le ha raccolte e, in stanza, le ha messe sotto una lampada come fonte di calore. Per farla breve, sono nate due piccoline che sono divenute, in carcere, la ragione delle sue giornate: non della sua vita, ma delle sue giornate, sì. Terminato ogni giorno il suo misero compito di lavorante, ora ha “qualcuno” che lo aspetta in stanza. Lascio a chi legge le considerazioni del caso. Certo è che P.H. ha pure detto che, chiunque avesse cercato di togliergli le sue piccole, ne avrebbe risposto con la vita. Ho fatto questo esempio, ma, salendo una certa scala di priorità, come dimenticare l’attenzione, la cura, la premura di alcuni ospiti che si fanno autenticamente - direi evangelicamente - prossimi di persone disabili a loro affidate? Nei casi che ho in mente, succede che persone responsabili di reati “ostativi” - ossia con scarsa possibilità di ottenere benefici di pena - trattino come “loro carne” quella delle persone più fragili. Chi è dunque più prigioniero? Chi è ospite in carcere o chi continua a mettere al centro del carcere il reato che porta a vivere in questa condizione? Mi riferisco anche a direttori, educatori, criminologi, senza dimenticare gli stessi magistrati di sorveglianza. Certo, in una nuova prospettiva - di questo genere - qualche considerazione è dovuta anche al volontariato. Anche a chi si candida per tale ruolo, andrebbe posta la domanda: chi e che cosa ti porta a fare questa scelta? Quante persone giovani e meno giovani hanno iniziato un percorso di condivisione con i detenuti per scoprirsi poi, in qualche modo, “traditori”, ossia “consegnatori” (dal latino tradere) alla struttura? Si potrebbe ovviare a tutto ciò se ci si rendesse conto che la vita in carcere è - e può essere - un’ottima palestra di convivenza. È l’unico posto al mondo che io conosca nel quale viene imposta la presenza di una persona senza chiedere il permesso a chi già vi abita. Chi di noi è capace di una simile accoglienza? Come non partire da questa ovvia constatazione per imbastire percorsi che permettano di superare quell’individualismo sfrenato e ovunque imperante che è anche all’origine di tanti reati, oltre che di tanti mali? Se questo è ciò di cui ci si rende conto, il passaggio è necessario agli ospiti quanto agli agenti. Mi chiedo spesso cosa può attraversare il cuore e la mente di un agente quando rinchiude per 3 o 4 volte al giorno dentro a una cella una persona che può essere benissimo suo padre, suo figlio, suo fratello e anche suo nonno. Lo chiedo anche a loro: basta la giustificazione che è il tuo lavoro? Penso che ci sia una cosa che fa prendere in considerazione la possibilità di rivedere la vita nella quale una persona si è permessa di privare altri della loro incolumità, se non addirittura della vita, e sia sempre quella di riaddestrarti nella “palestra” della convivenza. La vita di sezione può uscire allora dalla sua inutilità devastante, governata da regole preoccupate dell’ordine esterno più che dell’interiorità delle persone. Per questo ritengo che la costruzione di nuovi penitenziari - più larghi e più moderni - sia pura insipienza. Si tratta invece di creare - credo! - penitenziari nuovi, radicalmente nuovi. La novità non verrà, come sempre, dai nuovi progetti edilizi, ma dalla novità dei cuori umani. Senza risposta - Concludo con la consapevolezza di avere solamente sfiorato la realtà che vivo da più di 30 anni. Lascio a tutti il compito di giungere a rispondere affermativamente - se possibile - ad almeno una delle seguenti domande che ogni tanto - tutti - dovremmo porci rispetto al carcere. Se fossi io al posto di chi sta in carcere - gli agenti non meno dei detenuti - vorrei essere trattato come loro? Ci sentiremmo tranquilli - come familiari di ospiti del carcere - di conoscere (come di fatto conosciamo) le condizioni in cui gli stessi vivono? Ci sentiremmo di accompagnare in sezione i familiari degli ospiti facendocene un onore per le condizioni in cui sono custoditi? Banalmente, ce la sentiremmo di usare i servizi igienici dei detenuti? Probabilmente a nessuna di queste domande è stata data ancora una risposta affermativa. Può essere un buon inizio di sensibilizzazione e di comprensione. Di seguito, potremmo tutti continuare a chiederci, ciascuno per sé: ho mai chiesto veramente perdono? So se mi sia mai stato concesso? E io ho perdonato? Dico, infine, dell’episodio di Augusto. Una domenica, alla preghiera dei fedeli, durante la messa, ha preso il microfono e, dopo interminabili secondi di silenzio, mi ha puntato il dito e mi ha chiesto in dialetto veneto: “Lei sarebbe disposto davvero a dare la vita per me?”. Augusto è morto senza ottenere la mia risposta. La prospettiva che Augusto sia ora in Paradiso offre a me ancora il tempo e la possibilità di non deludere (troppo) questa sua attesa. *Co-cappellano del carcere Porto Azzurro (Li). Auto storiche in mostra al carcere elbano quinewselba.it, 3 settembre 2021 In occasione del sesto Elba Auto Days 27 auto d’epoca saranno esposizione nella Cittadella del Carcere di Porto Azzurro. Lo ha fatto sapere Francesco D’Anselmo, direttore della casa di reclusione “P. De Santis” di Porto Azzurro. “Il giorno 4 settembre 2021, dalle ore 9 alle ore 10,30, in occasione del 6° Elba Auto Days, organizzato dal “Topolino Club Livorno” - auto e moto storiche - saranno poste in esposizione presso la cosiddetta Cittadella del Carcere di Porto Azzurro, 27 auto d’epoca storiche”, ha spiegato il direttore. “All’evento - ha aggiunto D’Anselmo - parteciperanno anche alcuni detenuti di questa casa di reclusione che riceveranno alcuni gadgets gentilmente donati dagli organizzatori”. Eutanasia, lo sprint del referendum mentre la legge va al rallentatore di Maria Novella De Luca La Repubblica, 3 settembre 2021 Dopo Fabo la Consulta ha chiesto di intervenire. E a luglio la Camera ha fatto un primo passo avanti sul suicidio assistito. Ma è la chiamata alle urne promossa dai radicali che potrebbe dare la spallata alla disciplina del fine vita. Ottocentomila le firme raccolte in piena estate. Un successo così grande di partecipazione forse non se l’aspettavano nemmeno all’Associazione Luca Coscioni: ottocentomila firme per chiedere una consultazione popolare sul diritto all’eutanasia. Invece, nonostante il vuoto d’agosto, le firme per presentare il referendum hanno superato di gran lunga il numero necessario perché la consultazione venga ammessa. E se non ci saranno ostacoli, dice Marco Cappato “il referendum potrebbe tenersi tra aprile e giugno 2022”. In questa stessa particolare estate però, a quattro anni dalla sentenza della Corte Costituzionale che dopo aver assolto Marco Cappato dall’accusa di “aiuto al suicidio” per aver accompagnato a morire in Svizzera Dj Fabo aveva chiesto al Parlamento di legiferare sul fine vita, finalmente qualcosa si è, timidamente, mosso. A luglio infatti le commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera hanno approvato in commissione un testo base, firmato da Pd, M5S, Leu, Italia Viva, Azione e Più Europa, che trasforma in legge quanto affermato dalla Consulta: cioè che il suicidio assistito non è punibile quando sussistano quattro condizioni. La volontà del paziente, l’irreversibilità della malattia, l’insopportabilità del dolore, l’essere tenuti in vita da trattamenti salva-vita. Dunque, dopo decenni di silenzio, spezzati nel 2017 dalla buona legge sul testamento biologico, che garantisce a chi ha lasciato scritte le proprie volontà di poter interrompere le cure, adesso in campo ci sono due provvedimenti. Il referendum dell’Associazione Luca Coscioni mira ad abrogare parte dell’articolo 579 del codice penale, che oggi punisce con l’arresto l’omicidio del consenziente. Aprendo così la strada alla depenalizzazione dell’eutanasia, che consiste nell’aiutare, attivamente, una persona gravemente malata che lo abbia chiesto a morire, dopo il parere di medici ed esperti. Mentre in Parlamento, con tempi che si annunciano lunghissimi, ha iniziato il suo iter, tra le proteste della Lega e delle Destre, la legge sul suicidio assistito. Siamo di fronte a una rivoluzione del diritto, alla concreta possibilità di scegliere come e quando morire se ci si trovasse in una condizione irreversibile e insopportabile? Da un punto di vista ideologico sì, la corsa a depositare le firme perché il referendum venga ammesso dimostra che gli italiani chiedono di poter scegliere. Da un punto di vista concreto, invece, la strada appare assai più ardua. Di certo appare assai più vicina una vittoria del referendum Coscioni che l’approvazione in Parlamento dell’aiuto al suicidio, contro il quale sono state già issate le barricate. In ogni caso però, come, aggiunge Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni, “anche in caso di vittoria del referendum, cioè dell’abrogazione della punibilità dell’articolo del codice penale del 1930 sull’omicidio del consenziente, sarebbe poi necessaria una legge”. E qui si torna, come nel gioco dell’oca, al ruolo del Parlamento, che da 30 anni discute di eutanasia senza mai riuscire ad arrivare a un testo condiviso. “Già oggi quanto affermato dalla Consulta potrebbe venire applicato a chi lo chiedesse, senza una legge. Però nessuno nel nostro paese ha il coraggio di dare seguito a quella sentenza. Stesso discorso per il nostro referendum: se vincerà l’abrogazione dell’articolo 579, l’eutanasia sarebbe già legale. Serviranno però, poi, regole rigorose, per evitare abusi ed errori. E il Parlamento dovrà fare una legge”. Speriamo non ci vogliano altri 30 anni. Ambiente, perché torna il nucleare di Luca Fraioli La Repubblica, 3 settembre 2021 Il tema divisivo rilanciato dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Non sarà facile spegnere la reazione a catena innescata dalle parole di Roberto Cingolani sul possibile ritorno dell’Italia al nucleare. E il ministro, che è anche un fisico, avrebbe dovuto immaginare il rischio di una detonazione, vista la massa critica delle sue affermazioni: in un solo intervento, l’apertura alle centrali atomiche di nuova generazione e il fendente contro gli “ambientalisti radical chic”. Ma al di là delle polemiche, e delle scorie che esse spesso disseminano nel dibattito pubblico, è interessate capire se le dichiarazioni di Cingolani siano da interpretare come una reale inversione di rotta nella politica energetica del nostro Paese. In realtà, appena due mesi fa lo stesso Cingolani era stato lapidario sul tema: “Il nucleare è qualcosa che noi come cittadini italiani abbiamo escluso con due referendum. Non si torna indietro e non ci piove”. Cosa è cambiato da allora? Perché invece mercoledì scorso il responsabile della Transizione ecologica a una domanda sul nucleare ha risposto in modo opposto: “Si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura. Se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia”. Si potrebbe attribuire il dietrofront al pressing di una qualche lobby nuclearista, che però in Italia è praticamente inesistente. Chi conosce bene il ministro propende piuttosto per una spiegazione “psico-biografica”. Cingolani è uno scienziato e un tecnologo, tutta la sua carriera, dall’Università di Lecce, all’Istituto italiano di tecnologia, a Finmeccanica, è all’insegna della fiducia in macchine e dispositivi capaci di migliorare la vita degli esseri umani. Se c’è da valutare una innovazione, che sia il ponte sullo Stretto di Messina o una centrale nucleare, lui pretende che lo si faccia basandosi sui numeri, sugli studi scientifici, non sulle ideologie. In ogni occasione rivendica il suo essere un ricercatore e non un politico. E qui si innesta il secondo aspetto psico-biografico: Cingolani, raccontano i suoi collaboratori presenti e passati, dice sempre quello che pensa. Lo faceva da scienziato, lo fa ora da ministro della Repubblica, con conseguenze assai più dirompenti. C’è però anche uno scontro europeo che potrebbe spiegare la sortita nucleare di Cingolani. Da mesi a Bruxelles si discute della cosiddetta “tassonomia green”: una sorta di lista che comprenda tutte le tecnologie e gli interventi “verdi” e dunque finanziabili dalla Ue. L’Italia si è a lungo battuta, senza successo, per farvi includere il gas naturale, meno inquinante di carbone e petrolio ma pur sempre un combustibile fossile che contribuisce alle emissioni di CO2. I vicini francesi invece sarebbero molto vicini a ottenere che le centrali nucleari entrino nella tassonomia dell’Unione. La Francia, che già ci vende l’elettricità prodotta dai suoi reattori, finirebbe così per avere un ulteriore vantaggio competitivo sul nostro Paese. E allora, potrebbe essere il ragionamento di Cingolani, facciamole anche noi queste centrali atomiche di nuova generazione. lmeno sulla carta, perché non ne esistono ancora di operativi, si tratterebbe di reattori molto più sicuri di quelli tradizionali: con sistemi di raffreddamento meno vulnerabili e quindi ridotti rischi di perdite di acque contaminate. E con un abbattimento quasi totale delle scorie radioattive da dover poi trattare e stoccare. C’è però una questione di tempi: alcuni anni perché la tecnologia sia matura e chissà quanti perché l’opinione pubblica italiana accetti il nuovo nucleare. A trent’anni dallo spegnimento dell’ultimo reattore per la produzione di energia il nostro Paese non è ancora riuscito a individuare un sito per il Deposito nazionale che dovrà custodire i rifiuti radioattivi del passato. Quanto ci vorrà prima che i territori dicano sì alle centrali atomiche del futuro? Senza contare che, come ha ricordato lo stesso Cingolani, non si possono ignorare i due referendum che avevano archiviato l’atomo. Insomma, passeranno decenni. E invece, se si vuole evitare la catastrofe climatica, la transizione energetica va avviata immediatamente. Non a caso i 70 miliardi dell’Europa confluiti sulla Rivoluzione verde del Pnrr andranno spesi entro il 2026, con grandi investimenti sulle fonti pulite oggi disponibili: solare ed eolico. Migranti, la Polonia dichiara lo stato d’emergenza di Carlo Lania Il Manifesto, 3 settembre 2021 Cresce la tensione al confine con la Bielorussia. “Il regime di Lukashenko potrebbe inviare 10 mila persone alle frontiere”. Per ora lo chiamano “attacco ibrido” ma alla frontiera tra Polonia e Bielorussia la situazione rischia di precipitare scaldandosi velocemente, al punto che ieri il presidente polacco Andrzej Duda ha firmato lo stato d’emergenza per 30 giorni e l’esercito sta per essere inviato a difesa del confine. Motivo della tensione crescente sono i tentativi con cui il regime di Alexandr Lukashenko spinge centinaia di migranti ad attraversare le frontiere di Lituania, Lettonia e della stessa Polonia per punire l’Unione europea delle sanzioni adottate contro Minsk. Un “attacco ibrido”, come appunto lo definisce Varsavia, che va avanti da mesi tanto che nel vertice dei ministri dell’Interno che si è tenuto martedì a Bruxelles il rappresentante polacco ha insistito perché nella dichiarazione finale venisse inserito anche un riferimento all’emergenza in corso alle frontiere orientali dell’Unione. Nel frattempo le dichiarazioni ufficiali hanno assunto toni sempre più ostili: “Non sono tempi pacifici, e occorre sottolineare che siamo in una situazione di reale minaccia di fronte all’azione organizzata di Lukashenko” ha spiegato ieri un portavoce del governo polacco. Secondo il quale da settimane verrebbero introdotti in territorio bielorusso dai paesi arabi migranti che Minsk si preparerebbe a utilizzare. “Si tratta di circa diecimila persone che in ogni momento potrebbero oltrepassare i confini di Polonia, Lituania e Lettonia”, ha aggiunto il portavoce. Neanche a dirlo, a pagare le conseguenze di questa situazione sono ovviamente i migranti, trattati come pacchi da entrambi gli Stati. Un esempio sono i trenta rifugiati, la metà dei quali afghani, che da tre settimane sono bloccati al confine polacco nei pressi della località di Usnarz Gorny, controllati a vista dalla polizia che gli impedisce anche di ricevere assistenza medica. Persone che, come ha stabilito una recente sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, avrebbero tutto il diritto di entrare in Polonia. Mentre l’Unione europea prepara nuove sanzioni nei confronti della Bielorussia (“La strumentalizzazione dei migranti da parte del regime del presidente Lukashenko è una flagrante violazione delle norme internazionali”, ha ricordato ieri Luc Devigne, un alto funzionario de Servizio europeo per l’azione esterna), Varsavia si organizza avviando la costruzione di una barriera lunga 187 chilometri lungo il confine con la Bielorussia, allertando l’esercito e dichiarando lo stato d’emergenza la cui entrata in vigore dovrebbe scattare lunedì dopo il via libera del parlamento, come previsto dalla legge. “La situazione è difficile e pericolosa”, ha spiegato un portavoce del presidente. “La Polonia è responsabile del confine dell’Unione europea” e pertanto “dobbiamo assumere decisioni che garantiscano la sicurezza del Paese e dell’Ue”. Le nuove norme restrittive riguarderanno 183 località di confine. Per un mese, e all’interno di un’area estesa fino a tre chilometri dalla frontiera, non saranno ammessi i non residenti mentre per tutti sarà vietato organizzare raduni o manifestazioni, fare riprese che riguardino l’aspetto o le caratteristiche dei luoghi, oggetti e aree di confine e le persone che li sorvegliano. “Non consentiamo che la Polonia diventi l’ennesimo percorso intrapreso dall’immigrazione illegale di massa in territorio europeo”, ha affermato il ministro dell’Interno Mariusz Kaminski. Ma a preoccupare non sono solo i migranti. Varsavia teme infatti possibili provocazioni che potrebbero essere messe in atto durante le esercitazioni dei circa 200 mila soldati russi e bielorussi in programma a pochi chilometri dalla frontiera. Denuncia di Reporters sans frontières: “Le giornaliste afghane stanno scomparendo” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 3 settembre 2021 Il nuovo panorama mediatico in Afghanistan. 510 donne erano impiegate in otto grandi gruppi editoriali: oggi sono solo 76. N. è stata a lungo la direttrice di una catena di emittenti private diffuse un po’ in tutto il Paese e dirette da una bella sede alla periferia di Kabul. Dopo la caduta della capitale è riuscita a imbarcarsi con la famiglia per gli Stati Uniti. S. è invece stato il direttore di un giornale importante di Kabul su posizioni filogovernative. Che temesse per il suo lavoro e forse anche per la sua libertà personale - come nel caso della collega - era abbastanza logico tanto che è stato tra quelli che, prima ha spedito in Italia la lista dei suoi collaboratori a rischio, poi ha cercato di raggiungere l’aeroporto. La lista, attraverso il sindacato dei giornalisti italiani (Fnsi), è arrivato alle Federazioni europea e mondiale dei giornalisti ma anche alla Difesa italiana. Ma purtroppo il nostro F., come molti altri, all’Abbey Gate non è mai arrivato: “Io e mia figlia siamo stati fermati dai Talebani e picchiati” e sono dovuti tornare a casa, raccontava nelle ore affannose della corsa all’aeroporto che, specie negli ultimi giorni, aveva sommato a una calca infernale le staffilate dei miliziani che tentavano, a modo loro, di far ordine nella coda infinita. Se la situazione lo permetterà è tra quelli che hanno bisogno di un porto sicuro perché ancora non sappiamo quanto i giornalisti e le giornaliste potranno essere sotto schiaffo: sebbene la leadership talebana abbia dato garanzie sia sulle donne sia sui media, i timori restano e alcuni episodi - ancora relativamente pochi fortunatamente - non sono però incoraggianti. Secondo Reporters sans frontières “nonostante le assicurazioni talebane che la libertà di stampa sarebbe stata rispettata e che alle giornaliste sarebbe stato permesso di continuare a lavorare, un nuovo panorama mediatico sta emergendo”, con incidenti che hanno coinvolto le giornaliste afgane dopo il 15 agosto quando la guerriglia ha conquistato la capitale. Rsf ha stabilito che meno di 100 giornaliste lavorano ancora formalmente nelle stazioni radio e TV di proprietà privata di Kabul che, secondo un sondaggio di Rsf e del Center for the Protection of Afghan Women Journalists, aveva 108 media tra radio e tv con un totale di 4.940 dipendenti nel 2020. Tra questi, 1.080 dipendenti di sesso femminile, di cui 700 giornaliste. Delle 510 donne che lavoravano per otto dei più grandi media e gruppi di stampa, solo 76 (di cui 39 giornaliste) lavorano ancora. Secondo Rsf c’è dunque il rischio che le giornaliste stiano scomparendo dalla capitale. Nel 2020, più di 1.700 donne lavoravano infine per i media nelle tre province di Kabul, Herat e Balkh ma la maggior parte delle giornaliste è stata costretta a smettere di lavorare perché tutti i media di proprietà privata hanno cessato di operare con l’avanzata delle forze talebane. È solo un’interruzione dovuta alla guerra o un prossimo futuro? Il segretario generale di Rsf Christophe Deloire lancia un appello ai Talebani perché “le giornaliste devono poter riprendere a lavorare il prima possibile, senza essere vessate, perché è il loro diritto più basilare, è essenziale per il loro sostentamento, e anche perché la loro assenza dal panorama mediatico avrebbe l’effetto di mettere a tacere tutti gli afgani”. Già il 24 agosto, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet aveva dichiarato che “una linea rossa fondamentale sarà il trattamento riservato dai Talebani a donne e ragazze e al rispetto del loro diritto alla libertà di movimento, all’istruzione, all’espressione personale e al lavoro, secondo le norme internazionali sui diritti umani”. L’Afghanistan era stato classificato 122° su 180 paesi nell’ultimo World Press Freedom Index.