Ergastolo ostativo, c’è chi vuole aggirare la Cedu e la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2021 In commissione Giustizia tre proposte di legge. Allarme dell’Osservatorio carceri Ucpi: M5S e di Fratelli d’Italia puntano a “blindare” il 4 bis, l’unica in linea con l’indicazione dei giudici costituzionali è quella del Pd. Iniziato il conto alla rovescia per una legge sull’ergastolo ostativo secondo quanto indicato dalla Corte Costituzionale, prima che decida, il prossimo mese di maggio, di dichiarare illegittima la preclusione assoluta ai condannati al fine pena mai che non vogliono collaborare con la giustizia. La commissione Giustizia, infatti, ieri ha avviato le audizioni per recepire i pareri di giuristi e addetti ai lavori, in merito alla modifica del 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Più specificamente la parte in cui, appunto, attualmente impedisce agli ergastolani condannati per associazione mafiosa e terrorismo di accedere alla libertà condizionata se non hanno collaborato. Tre sono le proposte di legge in esame. Quella del Movimento Cinque Stelle a firma di Vittorio Ferraresi, Alfonso Bonafede, Giulia Sarti e altri. Tra i vari punti che creano più discussione, è la proposta di creare un unico ufficio, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, così come accade per quanto riguarda il 41 bis. Simile la proposta di Fratelli d’Italia (iniziativa dei deputati Delmastro Delle Vedove, Ciaburro e altri). Due proposte di legge che tendono a blindare un “nuovo ergastolo ostativo”, quasi una forzatura della ratio espressa dalla Corte Costituzionale. A seguire c’è la proposta del Partito Democratico, a firma della deputata Vincenza Bruno Bossio. Propone che “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, ma vorrebbe un giro di vite per i pareri dei pm antimafia: senza valutazioni sulla concessione dei benefici, si dovrebbero limitare solo a “elementi fondati e specifici” sui collegamenti o meno dei detenuti con gli ambienti criminali. La commissione Giustizia ha aperto i lavori ascoltando il parere dell’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile - assieme all’avvocato Riccardo Polidoro - dell’Osservatorio Carcere delle Camere penali. Raggiunto da Il Dubbio, spiega che l’unica proposta di legge che sembra in linea con le indicazioni convenzionali e costituzionali, sia quella della deputata Bruno Bossio del Pd. La critica espressa dall’osservatorio carcere, è quella nei confronti di chi - tramite i Ddl - vorrebbe reagire alle decisioni della Cedu e della Corte Costituzionale che - secondo i detrattori di tali decisioni - “avrebbero inferto “un colpo mortale” all’ergastolo ostativo e posto gli stessi magistrati “a forte pressioni e pericoli di condizionamento”. Eppure - secondo l’avvocato Catanzariti - “la Cedu e la Corte Costituzionale non hanno messo sotto accusa l’istituto della collaborazione, ma hanno segnalato la necessità di un doveroso ritorno alle origini entro la cornice costituzionale, secondo le intenzioni di Falcone”. Quali? “Uno strumento che avrebbe dovuto favorire la fuoriuscita dal circuito penitenziario di chi collaborava, è diventato un catenaccio inossidabile per impedire al resto dei detenuti non collaboranti di potervi accedere”. Questo è in sostanza il “grido d’allarme” che l’osservatorio carcere delle Camere penali ha lanciato in commissione Giustizia. Ricordiamo, che la Consulta era chiamata a pronunciarsi sulle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di Cassazione sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. Il 15 aprile scorso, la Corte a anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. La Corte ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi. Ergastolo ostativo, in Parlamento via alle audizioni di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2021 L’Anm: “Mantenere distinzione tra boss che collaborano e quelli che non lo fanno”. A sette mesi dalla sentenza della Consulta, il Parlamento comincia a occuparsi della legge sull’ergastolo ostativo. La commissione Giustizia della Camera ha iniziato le audizioni sulla norma che impedisce ai detenuti per reati di tipo mafioso e terrorismo di accedere alla libertà condizionata se non hanno collaborato. Nell’aprile scorso la Corte costituzionale ha decretato l’incostituzionalità di quella legge, concedendo al Parlamento un anno di tempo per riscriverla. Se il legislatore non interverrà, modificando l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, pure i mafiosi stragisti che non hanno mai collaborato con la giustizia, come Giuseppe Graviano, potranno chiedere di accedere alla libertà vigilata dopo aver scontato 26 anni di carcere. Oggi in commissione sono stati auditi i vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Il presidente Giuseppe Santalucia ha insistito sulla distinzione tra chi collabora e chi no: “Mi chiedo se non sia il caso di mantenerla”, ha detto Santalucia, che ha ricordato che quello che è “costituzionalmente inaccettabile è che ci sia una preclusione assoluta all’accesso ai benefici” per i detenuti che non collaborano “ma nulla vieta al legislatore, una volta ammesso anche il non collaborante al beneficio, di diversificare tra coloro che collaborano questo funziona da incentivo alla collaborazione con la giustizia”. Un’altra perplessità di Santalucia è legata alla valutazione relativa al cumulo delle pene per l’accesso ai benefici, prevista da una delle proposte di legge. “Con la restrizione dell’accesso ai benefici legata all’inscindibilità del cumulo delle pene in caso di più condanne la proposta si pone in contrasto con la giurisprudenza di legittimità ed entra in frizione anche con alcune indicazioni della Consulta - ha osservato - Una volta che il detenuto per un reato ostativo ha espiato interamente la pena prevista per quel reato, non si vede per quale ragione debba mantenere una refrattarietà all’accesso a benefici: significherebbe fare del detenuto un detenuto ritenuto pericoloso anche se la pena è tata espiata”. Sul tavolo della commissione Giustizia ci sono tre proposte di legge. Quella firmata dai 5 stelle, Vittorio Ferraresi, Alfonso Bonafede e Giulia Sarti si preoccupa di escludere i mafiosi dalla modifica ordinata dalla Consulta. Occorrerà fornire “elementi concreti” che certifichino la lontananza dai clan, ben più evidenti della “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale” per accedere alla libertà condizionale - ma pure ai permessi premio, la cui preclusione per gli ergastolani ostativo, ma anche ai permessi premio. Servirà giustificare i motivi della mancata collaborazione e dimostrare di aver risarcito le vittime del reato commesso o dimostrare di non poterlo fare per questioni economiche. In più a decidere sulla liberazione deve essere un unico ufficio, creato all’interno del Tribunale di sorveglianza di Roma: un modo per evitare la sovraesposizione dei giudici dei vari distretti. Fratelli d’Italia, nella sua proposta di legge, chiede che il magistrato di sorveglianza possa acquisire “dettagliate informazioni” per escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Anche il Pd, con Enza Bruno Bossio, ha depositato una proposta di legge che però esclude l’obbligo di chiedere il parere delle procure antimafia prima di concedere i benefici. Per questo motivo il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, ha richiamato l’importanza di dare “uniformità alle valutazioni per il riconoscimento dei benefici” e ha sottolineato che “l’aspetto che determina qualche perplessità è che la modifica” introdotta da una delle proposte “lascia al giudice una discrezionalità illimitata nell’individuazione dei confini entro i quali concedere l’accesso ai benefici stessi”. Quanto agli elementi che consentono di stabilire che il detenuto non abbia più contatti con la mafia ha espresso “apprezzamento per l’intervento che mira a dare una disciplina che consenta di valutare di volta in volta he il detenuto non sia ancora mafioso ma - ha osservato - alcuni ulteriori accorgimenti andrebbero adottati”. Ergastolo ostativo. Santalucia (Anm): “L’onere della prova non spetta al detenuto” di Angela Stella Il Riformista, 30 settembre 2021 L’affondo garantista del capo dell’Anm in occasione delle audizioni in Commissione giustizia della Camera sulla modifica della legge. “Non si può gravare il detenuto non collaborante, proprio per un profilo costituzionale, dell’onere di provare l’assenza dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”: è un concetto molto importante quello espresso ieri dal Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, durante le audizioni informali in Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge (Bruno Bossio, Ferraresi, Del Mastro delle Vedove) riguardanti l’accesso ai benefici penitenziari per gli ergastolani ostativi. L’ordinanza 97/2021 della Corte Costituzionale ha stabilito che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa è incostituzionale ma ha dato al Parlamento un anno per emanare una nuova legge. Quindi ora i partiti sono impegnati a presentare le loro proposte normative e a raccogliere pareri autorevoli come quello dell’Anm: proprio Santalucia è l’artefice della famosa sentenza 97/2021 in quanto fu lui a sollevare nel 2020 questione di legittimità costituzionale e ora, in continuazione con quella sensibilità verso una pena che non contrasti con la finalità rieducativa della pena, ha portato il suo contributo per il superamento dell’ergastolo ostativo, muovendo alcune critiche alla proposta del grillino Vittorio Ferraresi. Nello specifico, per il pentastellato l’ergastolano non collaborante deve fornire “elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Per Santalucia, invece, “si è sempre detto, per rispettare anche il dettato costituzionale, che l’onere prova non grava mai sul soggetto, semmai sull’autorità pubblica, ma non sul privato, sull’indagato, sull’imputato e sul condannato. Egli può fornire ed è tenuto a fornire, ad allegare elementi utili al giudizio per escludere l’attualità del collegamento con la criminalità organizzata ma non può essere gravato dell’onere di provare lui stesso l’assenza di una attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. L’onere di allegazione deve trovare completamento nei poteri del giudice, dell’autorità giudiziaria”. Bartolomeo Romano, professore ordinario di diritto penale all’Università di Palermo, ha sottolineato l’urgenza di un intervento normativo: “Per la Corte costituzionale l’articolo 4bis è incostituzionale ma la dichiarazione formale di incostituzionalità interverrà, ove il Parlamento non arrivasse in tempo prima, a maggio 2022. Questo significa che quei 1250 ergastolani in atto sono ristretti in virtù di una norma già di fatto ritenuta incostituzionale. Quindi reputo ci siano ragioni di intervenire con urgenza”. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, ha sottolineato che “l’aspetto che determina qualche perplessità è che la modifica” introdotta da una delle proposte “lascia al giudice una discrezionalità illimitata nell’individuazione dei confini entro i quali concedere l’accesso ai benefici stessi”. Per l’Unione della Camere Penali italiane è intervenuto Gianpaolo Catanzariti, co-responsabile dell’Osservatorio Carcere, che, condividendo la posizione dell’Anm sull’onere della prova, ha aggiunto: “solo la proposta dell’on. Bruno Bossio ci sembra in linea con le indicazioni convenzionali e costituzionali. Le altre scontano un vizio di origine: correre ai ripari per blindare un “nuovo ergastolo ostativo”. La nostra critica non può, quindi, prescindere dalle intenzioni dei proponenti ovvero quello di reagire alle decisioni della Cedu e della Consulta che avrebbero inferto “un colpo mortale” all’ergastolo ostativo e posto gli stessi magistrati “a forte pressioni e pericoli di condizionamento”. Eppure entrambe non hanno messo sotto accusa l’istituto della collaborazione. Diciamo che hanno segnalato la necessità di un doveroso ritorno alle origini entro la cornice costituzionale, secondo le intenzioni di Falcone: uno strumento che avrebbe dovuto favorire la fuoriuscita dal circuito penitenziario di chi collaborava è diventato un catenaccio inossidabile per impedire al resto dei detenuti non collaboranti di potervi accedere. Speriamo di avere reso bene il nostro grido di allarme ovvero il rischio di approvare una contro-riforma senza che si approvi una riforma costituzionalmente orientata”. Bambini nati in carcere, intollerabile di Lucio Boldrin* Avvenire, 30 settembre 2021 Nei giorni scorsi una ragazza ha partorito in carcere, così, sulla scia del fatto di cronaca, è riemerso il dibattito sull’annoso problema dei bambini in carcere e sulle tutele che dovrebbero essere applicate alle donne detenute in gravidanza. Faccio presente che le ragazze incinte erano due, da poco arrestate, segnalate dalla garante dei detenuti alle autorità competenti. E c’era anche la disponibilità di Roma Capitale ad accoglierle in una struttura del Comune. Invece, come detto, una delle due ragazze ha partorito in cella: fortunatamente tutto è andato bene. Fra poco tempo partorirà anche la seconda ragazza, e ne era già entrata una terza (al terzo mese di gravidanza). Ma qualcosa evidentemente si è mosso, perché due giorni fa è uscita l’ultima mamma con i suoi bambini, per andare ai domiciliari. Attualmente, quindi, il Nido di Rebibbia è vuoto. Indubbiamente, però, si tratta di ulteriori conferme del fatto che il sistema carcerario, così com’è, non funziona. Un bambino in carcere è un fatto intollerabile, innanzi tutto perché il carcere è un’istituzione punitiva. È facilmente intuibile come il carcere sia l’ambiente più insano dal punto di vista dell’igiene mentale e dello sviluppo fisico di un bambino. La reclusione condiziona infatti il linguaggio e la capacità di movimento dei bambini che si trovano a vivere in cella assieme alle loro mamme. “Apri”, “fuori”, “aria” sono tra le prime parole che i piccoli imparano a pronunciare in carcere. Le quattro mura della cella finiscono per diventare il loro mondo, un mondo dove lo spazio è limitato, e non mi riferisco soltanto allo spazio fisico. Lì non c’è posto per le piccole scoperte che aiutano i bambini a esplorare il mondo nei primi anni di vita, non ci sono tutti gli affetti familiari, non ci sono passeggiate, non ci sono lunghe corse all’aria aperta. In carcere, il bambino subisce inenarrabili costrizioni poiché vive e cresce secondo i tempi e i ritmi, i suoni e gli odori della prigione. L’ambiente è innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli, seppure attutito da un diverso regime di detenzione e da locali per quanto possibile più colorati. Del resto, il sistema carcerario crea enormi problemi anche a chi vi lavora, dai direttori fino agli agenti penitenziari, dagli psicologi ed educatori ai medici e agli infermieri. Vi posso assicurare che in certi giorni sembra di vivere in un campo d’emergenza: costretti a lavorare col poco che si ha, con l’esperienza fatta sul campo e con lo scarso personale disponibile. Tutto ciò, ovviamente, produce conseguenze sui detenuti e sul personale. I numerosi suicidi di questi anni dovrebbero essere spie d’allarme e far comprendere alle autorità competenti l’urgenza di una riforma penitenziaria completa, che rispetti la dignità delle detenute e dei detenuti e aiuti il personale carcerario a lavorare con serenità. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia L’onere dei magistrati. La riforma del processo penale di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 30 settembre 2021 La cosiddetta riforma del processo penale è stata approvata definitivamente dal Senato dopo una discussione accelerata dalla richiesta del voto di fiducia per rispettare i tempi indicati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, cui sono collegati anche gli indispensabili fondi europei. Non è quindi cambiato il testo approvato poche settimane fa dalla Camera, con i suoi numerosi aspetti positivi e con altri, soprattutto la disciplina dell’improcedibilità, che destano invece perplessità e dubbi di incostituzionalità (si veda “Giustizia, chi deve aiutare la riforma”, 19 luglio 2021). Non si tratta, peraltro, di una riforma complessiva, ma piuttosto della modifica di alcuni punti del processo penale, che mira a conseguire una riduzione dei tempi del 25%. Molto più ambizioso e coerente era l’originario progetto di riforma elaborato dalla commissione Lattanzi, che però è stato ridimensionato per le contrastanti esigenze dei partiti della maggioranza di governo. Comunque, ormai la legge è stata approvata ed è necessario il contributo di tutti perché essa dia frutti positivi e raggiunga i risultati sperati. Il compito più importante è ancora del governo e in particolare del ministero della Giustizia che deve, a scadenza ravvicinata, redigere i decreti delegati necessari per dare concreta efficacia normativa alle indicazioni di principio e alle direttive generali contenute nella legge che per molti aspetti si limita - appunto - a dare delega al governo. Sul ministero della Giustizia ricade poi l’onere fondamentale di provvedere tempestivamente, e in tempi stretti, a un miglioramento, quantitativo e qualitativo, delle risorse informatiche e del loro utilizzo nonché all’assunzione di magistrati e personale amministrativo, come pure dei 16.500 collaboratori che dovranno comporre l’ufficio del processo, su cui sono riposte grandi aspettative per la definizione di un numero di procedimenti molto superiore all’attuale. A questo proposito sarà importantissimo anche il contributo dei magistrati, soprattutto dei dirigenti, nell’utilizzo di queste risorse, anche perché occorre adottare modalità diverse in relazione alle specificità degli uffici, dato che lo schema risultato valido per il tribunale può non andare bene in corte d’appello e - a maggior ragione - nelle procure della Repubblica. Da ultimo, ma altrettanto importante, c’è l’impegno necessario fin da subito da parte di tutti gli operatori, magistrati e avvocati in primo luogo, per applicare nel modo migliore le nuove norme, anche quelle che hanno suscitato le maggiori critiche in questi mesi. Solo due esempi. La riforma pone molte speranze sull’effetto deflattivo dell’ampliamento dei casi di patteggiamento e giudizio abbreviato, di estinzione del reato per lieve entità del fatto e di messa alla prova che dovrebbero ridurre il numero dei procedimenti che giungono alla fase, molto più lunga e impegnativa, del dibattimento. È chiaro che l’efficacia di tali misure è legata a una leale disponibilità di pm, giudici e difensori nel valutare caso per caso quale possa essere la soluzione migliore, anche se questa dovesse comportare una - parziale - rinunzia alle aspettative iniziali. Ancora più importante sarà l’adozione da parte dei magistrati dei nuovi, più rigorosi criteri di giudizio in sede di archiviazione, di udienza preliminare e di udienza filtro, cosicché il rinvio a giudizio sia disposto solo se gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari consentano una ragionevole previsione di condanna. In alcune interviste di questi mesi si è sostenuto che le nuove formule non comportano mutamenti significativi. Non credo sia così, perché in realtà la norma cambia radicalmente i criteri di valutazione ed esattamente con questo scopo era stata proposta già dalla commissione Lattanzi. Fra l’altro, in questo modo si dovrebbe ridurre drasticamente il numero dei procedimenti che oggi vede assolvere nel dibattimento di primo grado, specie monocratico, una percentuale significativa degli imputati che erano stati rinviati a giudizio nel pieno rispetto dell’attuale, diversa regola di valutazione degli elementi di prova. Basterà tutto questo per ottenere la riduzione del 25% dei tempi dei processi? Una risposta non è facile e proprio per questo la legge ha previsto il monitoraggio da parte di un apposito comitato tecnico-scientifico che possa suggerire gli opportuni aggiustamenti. Nell’attesa, c’è da sperare che al primo fatto di cronaca che solleciti le pulsioni securitarie dell’opinione pubblica, non vengano adottate - come è avvenuto nel recente passato - norme di segno contrario, e che si prepari, invece, per quando le condizioni politiche lo permetteranno, un serio provvedimento di depenalizzazione. Sono infatti una miriade i comportamenti per cui oggi non ha più senso ricorrere all’extrema ratio della sanzione penale e che contribuiscono a creare quell’enorme carico di lavoro (otto volte la media europea) che è causa rilevante dei tempi lunghi della nostra giustizia. Giustizia, alla Camera la presunzione d’innocenza già divide la maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 30 settembre 2021 Le audizioni dei giuristi, dall’Anm a Rossi, agli avvocati. Ma Costa di Azione e Ferraresi di M5S già si scontrano. Costa: “No palcoscenici, no video, no nomi alle inchieste, no comunicazioni della polizia”. Ferraresi: “Sono preoccupato per il diritto all’informazione e per il buon andamento della giustizia”. La presunzione d’innocenza - o meglio, come bacchetta il costituzionalista Alfonso Celotto, “la presunzione di non colpevolezza visto che così è scritto nella Carta” - già divide la maggioranza. Siamo solo alle primissime battute in commissione Giustizia alla Camera dove vengono auditi una decina di esperti - tra Anm, Ucpi, professoroni ed ex pm - sul decreto legislativo sulla presunzione di innocenza che il ministero della Giustizia ha portato e fatto approvare nell’ultimo consiglio dei ministri del 6 agosto prima della pausa. Un via libera che però deve passare nelle commissioni dei due rami del Parlamento per un parere consultivo. I tempi sono già scaduti - erano solo 40 giorni - ma l’estate giustifica qualche settimana in più. Su un tema che, da subito, si annuncia divisivo. Foriero di un nuovo contrasto - proprio com’è accaduto per la riforma del processo penale - tra l’ala garantista della maggioranza e il M5S. Un primo assaggio s’è avuto subito, addirittura già durante le audizioni. Da una parte il relatore del provvedimento, Enrico Costa di Azione, durissimo sulle future regole che dovranno ispirare il comportamento delle procure. Eccolo dire: “No palcoscenici, no video, no nomi alle inchieste, no comunicazioni della polizia”. Ma dall’altra parte comincia già a puntare i piedi Vittorio Ferraresi di M5S che dice: “Sono preoccupato del diritto di informare i cittadini rispetto a eventi pubblici e anche del buon andamento della giustizia e del libero convincimento del giudice”. Tra l’uno e l’altro ci sono i tecnici. Da una parte Nello Rossi, direttore di Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica, che si schiera in pieno per le regole della presunzione di innocenza: “Piena adesione alla direttiva europea perché lo stigma della colpevolezza è da rabbrividire. I processi in tv sono di una volgarità inaccettabile”. Dall’altra Alfonso Celotto, il costituzionalista dell’università Roma Tre, che torna alla Carta quando dice: “Il grande problema del processo penale oggi è che con i mezzi di comunicazione di massa è stata spostata la condanna sul piano mediatico dove non viene più garantita la presunzione di innocenza”. Ma proprio la sfilata dei giuristi dimostra quanto sia difficile tradurre e rendere operativo il dettato costituzionale che l’Europa nel marzo 2016 ha trasformato in una direttiva, proprio alla luce delle anomalie presenti nei singoli stati sul principio che non si può presentare subito come colpevole colui che finisce sotto processo. Ma qui il decreto italiano, che a breve diventerà operativo, prevede una decisa stretta sulla libertà dei magistrati di diffondere il contenuto delle inchieste, presentandole anche alla stampa nel dovuto rispetto dell’imputato. A fronte delle richieste draconiane degli avvocati che, con l’Unione delle Camere penali, si spingono a chiedere un Garante dei diritti delle persone, che sia esterno alla magistratura, e che venga scelto dal capo dello Stato, senza che ci metta neppure bocca il ministero della Giustizia. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia mette subito le mani avanti. Parla di una “ingessatura eccessiva” se davvero alla fine il decreto dovesse limitare la possibilità di comunicazione delle procure “solo a comunicati e conferenze stampa” senza la possibilità che procuratori e pubblici ministeri possano interloquire a loro volta con i media. Santalucia boccia “una formalizzazione che può essere lesiva del bisogno di una corretta informazione”. Definisce “un irrigidimento” la possibilità di comunicare solo attraverso un comunicato ufficiale, “impedendo che un procuratore possa rendere dichiarazioni a un giornalista fuori da una conferenza stampa preventivamente organizzata”. Un ordine che, si chiede Santalucia, non si capisce perché debba riguardare solo i pm e non anche i giudici. Inspiegabilmente la Fnsi, pur invitata, non si è fatta vedere alle audizioni. Eppure la direttiva sulla presunzione d’innocenza riguarda, a metà, magistrati e giornalisti, da una parte la possibilità di comunicare i perché di un’inchiesta con un’informazione diretta e trasparente, dall’altra il pieno diritto della stampa di pubblicare i fatti. Tant’è che i giuristi parlano proprio di questo. Come Giovanni D’Alessandro, che a Roma insegna istituzioni di diritto pubblico all’università Nicolò Cusano, e che pone il problema “del giornalista che scrive cose dette dalle autorità pubbliche che violano però la presunzione d’innocenza”. O ancora Oliviero Mazzà, ordinario di diritto processuale penale a Milano Bicocca, che chiede di intervenire sulla violazione del segreto istruttorio prevedendo che sia una procura diversa da quella in cui c’è l’inchiesta ad indagare. Se la fuga di notizie avviene a Milano, sarà Brescia a indagare. Se a Roma, sarà Perugia. Mazzà fa di più. Nella querelle sui nomi alle inchieste, che secondo Costa devono sparire, ci mette un carico da dodici: “Il divieto dei nomi deve essere netto, serve solo il numero del procedimento, perché sarebbe infinita la discussione se il nome Mani pulite sia lesivo o no della presunzione di innocenza”. Basta tornare alla Costituzione? Un fatto è certo, come spiega Celotto, e cioè che la Carta “se ne occupa sia nella prima parte, quella dei diritti del cittadino, dell’imputato, quindi nell’ambito del principio di non colpevolezza, e nella seconda, quella sull’organizzazione”. Una presunzione di non colpevolezza ribadita “rispetto all’impianto fascista del codice Rocco che parlava di principio di colpevolezza” e che “deve valere in tutto il processo, dall’inizio alla fine, in tutto il mondo del processo”. Ovviamente le garanzie vanno legate al momento storico in cui il processo si svolge, mentre nel nostro tempo tutto è legato al processo mediatico. E qui l’affondo di Nello Rossi è durissimo. Per esempio quando dice che “il rischio del silenzio dell’informazione non si può ritenere scongiurato”, né tantomeno quello di “una comunicazione ingessata che nega ai cittadini il diritto di sapere”. Però Rossi esprime “piena adesione alla direttiva perché lo stigma della colpevolezza è da rabbrividire”. “In tv si vedono cose mostruose, processi di una volgarità inaccettabile”. Considera la direttiva “una rivoluzione, ma a patto che non ne derivi una logomachia senza fine”. Quanto alle rettifiche, “dovranno toccare all’autorità pubblica rispetto a una sua dichiarazione”. Un esempio: “Cosa dovrà fare la stampa se riporta una dichiarazione colpevolista di un ministro che viene contestata? Dovrà essere rettificata dallo stesso ministro, non dal giornalista”. Rossi guarda proprio ai rischi per la stampa: “Attenzione a una comunicazione ingessata che nega ai cittadini il diritto all’informazione”. Ma il relatore Costa va come un treno quando conclude così: “Questa legge è un’occasione unica per evitare che le inchieste che finiscono nel nulla vengano sparate a caratteri cubitali e bollino a vita persone innocenti. Le indagini non sono film con titolo, trailer, conferenze stampa e presentazioni: i processi si fanno in tribunale, non sui giornali. Mi spiace per coloro che su questo andazzo ci campano, e traggono fama e popolarità. I primi ad apprezzare saranno i tanti magistrati che svolgono silenziosamente il loro lavoro e soffrono il protagonismo di pochi”. A questo punto, patata bollente nelle mani del presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni di M5S. Presunzione d’innocenza, i dubbi dell’Anm: troppi limiti alla comunicazione delle Procure di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2021 Secondo il Presidente Santalucia, audito in Commissione sullo schema di Dlgs attuativo della direttiva Ue, i rapporti con la stampa vengono “irrigiditi” per i Pm ma non per i giudici. “Il bisogno di rafforzare la presunzione di innocenza è un bisogno certamente meritevole di considerazione, dunque il testo nel suo complesso può trovare condivisione”. Lo sottolinea il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, ascoltato in Commissione Giustizia della Camera nell’ambito dell’esame dello schema di decreto legislativo che contiene disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali (Atto n. 285). Lo schema di Dlgs si compone di 6 articoli, il termine di esercizio della delega è fissato per l’8 novembre 2021. Per Santalucia, tuttavia, vi sono diverse criticità: in particolare nella regolamentazione dei rapporti con la stampa delle Procure (articolo 3). Il testo prevede che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è possibile solo se strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o in presenza di altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. È vietato poi assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza. E le informazioni fornite alla stampa devono sempre chiarire la fase del procedimento e il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino alla condanna definitiva. La parte che però preoccupa di più l’Anm è quella per cui il procuratore della Repubblica, personalmente o tramite delegato, può interagire con gli organi di informazione “esclusivamente” attraverso comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica, conferenze stampa (ugualmente la polizia giudiziaria e solo se autorizzata dalla Procura). Ebbene per Santalucia: “Si è voluto irrigidire il rapporto tra Procuratore della Repubblica e stampa attraverso conferenze stampa ufficiali o comunicati scritti”. “Ritengo - ha proseguito - che sia una eccessiva ingessatura bandire la possibilità che il procuratore della Repubblica possa rendere una dichiarazione piuttosto che uno scritto fuori da una conferenza stampa preventivamente organizzata e mi chiedo anche perché questo debba valere per i pubblici ministeri e non anche per i giudici”. “L’effetto sarebbe che mentre il giudice, anche se va detto i casi sono minori, potrà rendere una dichiarazione, ciò sarà inibito al procuratore della Repubblica” “Mi rendo conto - ha continuato - della necessità di richiamare la continenza ma questo contenimento eccessivo dei canali di comunicazione potrebbe rivelarsi lesivo per le esigenze di comunicazione, del resto non so quanto sia preferibile un comunicato scritto ad una dichiarazione nell’immediatezza del fatto di fronte alla stampa e che sia chiarificatrice del fatto”. Inoltre, si produrrebbero delle incongruenze nel sistema. Mentre infatti l’articolo 114 sulla pubblicità degli atti, rende pubblicabile senza alcun limite l’ordinanza di custodia cautelare, il procuratore “risulta molto irrigidito e ingessato nei rapporti con la stampa”. “L’esigenza di pubblicità - afferma - è anche un’esigenza di trasparenza, ferma restando la necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona”. Da qui la proposta emendativa di prevedere che le Procure, nei rapporti con la stampa, comunichino “preferibilmente” - e non più “esclusivamente” - attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa. Del resto, conclude sul punto, la rilevanza pubblica che autorizza alla conferenza stampa, rimane comunque in capo alla valutazione discrezionale del procuratore “e non ci sono forme di controllo”. Giudicato poi troppo “farraginoso” il sistema di tutela accordato all’imputato qualificato come “colpevole”, in contrasto alla presunzione di innocenza. Per Santalucia andrebbe applicata non la tutela giurisdizionale ma semplicemente il meccanismo di correzione degli errori materiali. Sul punto anche il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro ha sottolineato: “Ferma l’esigenza di effettività del principio della presunzione di innocenza nel processo penale, la procedura delineata potrebbe attivare una serie di sub procedimenti con istanze, provvedimenti, opposizioni in camera di consiglio che rallenterebbero la macchina della giustizia in un momento in cui è più che mai avvertito l’impegno a velocizzarla”. “Forse basterebbe, nel civile come nel penale - ha concluso -, la previsione di uno strumento di rettifica mutuato dalla procedura di correzione dell’errore materiale, più agile e snella”. Altro punto importante (art. 4), è la modifica al codice di procedura penale per cui nei provvedimenti adottati nel corso del procedimento l’indagato/imputato non può essere indicato come colpevole. Sul punto Santalucia ha però commentato “faccio fatica a capire quali siano”, visto che tale principio non si applica agli atti che definiscono il giudizio nel merito ed agli atti con i quali il PM mira a dimostrare la fondatezza dell’accusa. Mentre negli atti che presuppongono la valutazione di prove o di indizi di colpevolezza (misure cautelari), l’autorità giudiziaria deve soltanto limitare i riferimenti alla colpevolezza dell’indagato/imputato alle sole indicazioni necessarie. La magistratura contro i limiti alle conferenze stampa di Giulia Merlo Il Domani, 30 settembre 2021 Il decreto legislativo proposto da Enrico Costa (Azione) recepisce una direttiva Ue sulla presunzione di innocenza e fissa le regole per i magistrati e la polizia giudiziaria nei rapporti con la stampa. Sono iniziate in commissione Giustizia alla Camera le audizioni sulla decreto legislativo di Enrico Costa (Azione), che recepisce la direttiva Ue del 2016 in materia di presunzione di innocenza. Il decreto prevede di limitare la diffusione di informazioni sui processi, solo nel caso di “rilevanti ragioni di interesse pubblico” e disciplina nel dettaglio le modalità di comunicati e di conferenze stampa dei singoli procuratori e della polizia giudiziaria, che devono essere autorizzate dal procuratore capo. La contrarietà dell’Anm - Contro queste previsioni si è schierata l’Associazione nazionale magistrati. Il presidente, Giuseppe Santalucia, ha parlato di “ingessatura eccessiva”, “che può essere lesiva del bisogno di una corretta informazione”. Secondo Santalucia, “è un irrigidimento eccessivo riferirsi solo a un comunicato ufficiale, impedendo che un procuratore possa rendere dichiarazioni a un giornalista fuori da una conferenza stampa preventivamente organizzata”. Inoltre, ha aggiunto, non è chiaro perchè la previsione riguardi solo i pubblici ministeri e non anche i giudici. Inoltre Santalucia mette in luce una contraddizione: il fatto che l’ordinanza di custodia cautelare sia pubblicabile interamente, mentre il procuratore viene limitato molto nei rapporti con la stampa. “L’esigenza di pubblicabilità risponde a un’esigenza di trasparenza, fermo restando che bisogna tutelare i diritti delle persone, ma bisogna evitare che il processo si chiuda alla possibilità che la collettività, attraverso l’informazione, sia resa edotta”, spiega. Infine, Santalucia considera eccessiva e non economica per la già lenta macchina della giustizia la possibilità dell’imputato o indagato che venga definito colpevole prima della sentenza definitiva, di poter attivare un procedimento per risarcimento del danno. “Se la definizione è ritenuta indebita, si può chiedere la correzione di errore materiale senza la previsione di un meccanismo di accertamento camerale, un procedimento molto pesante”. Il parere dei penalisti - L’Unione camere penali italiane considera il decreto legislativo “un passo avanti”, ma comunque “inidoneo a mitigare dei fenomeni maggiormente distorsivi del giusto processo”. A non convincere i penalisti è che mancano “i diritti di presunzione di innocenza delle persone giuridiche”. Inoltre nel testo il riferimento è alla “rilevanza pubblica della notizia”, che secondo gli avvocati è “un tema e una definizione che rimane generica, ma che torna a rivivere in questo schema di decreto come in passato. Secondo noi si dovrebbe trovare una definizione più corretta”. Infine, segnala l’Unione camere penali, “non sono previste sanzioni per i comportamenti illeciti” e “c’è una concentrazione dei ruoli del controllore e del controllato rispetto a quello che sono le violazioni scritte nel decreto legislativo”. Cosa prevede la legge - La legge in discussione prevede divieto di indicare come colpevole l’indagato o l’imputato che non sia ancora stato giudicato con sentenza definitiva. Se questo accade, “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione”. Limita la diffusione di informazioni sui processi penali, prevedendola nei soli casi in cui incorrano “rilevanti ragioni di interesse pubblico” e limita anche la possibilità per i pm di pubblicare singoli atti o parti di essi ai soli casi in cui sia “strettamente” necessario. Infine, disciplina nel dettaglio le regole di comunicazione nel caso di processi ancora in corso: è il procuratore della Repubblica ad autorizzare la polizia giudiziaria a fornire “tramite comunicazioni ufficiali o conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato” e le informazioni sui procedimenti in corso devono essere fornite “in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e ad assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata”. In concreto, la polizia giudiziaria non potrà più convocare conferenze stampa e divulgare informazioni in autonomia, come i video con il logo del corpo che ha svolto l’indagine. Controverso è, invece, se possano farlo i singoli sostituti procuratori. “Giustizia a tempo? Ridicolo. Ma basta con i pm assetati di protagonismo” di Errico Novi Il Dubbio, 30 settembre 2021 Edmondo Bruti Liberati sulla tempesta mediatico-giudiziaria che ha travolto la Lega: “Difficile che un leader politico non risponda di vicende private”. È “stucchevole” che si parli ancora di “giustizia a orologeria”. E la politica deve essere capace di una “autonoma assunzione di responsabilità” che prescinda dall’effettiva rilevanza penale dei fatti. Edmondo Bruti Liberati, interpellato sul “caso del giorno”, la tempesta mediatico-giudiziaria in corso sul-la Lega, non fa si lascia intenerire dalle letture complottiste. Eppure il magistrato che è stato per anni al vertice della Pro-cura di Milano, e anche delle toghe progressi-ste di “Md”, riconosce un problema più generale: “Le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni pm”. Non saranno mai abbastanza sottolineati, dice Bruti liberati, “i danni che provocano alla complessiva credibilità della giustizia” Partiamo dal clima sulla giustizia. Sembra cambiato. Poi però il caso Morisi ci riporta al solito canovaccio. Ma davvero le vicende penali devono pesare fino a questo punto sulla politica? La giustizia penale ha riflessi sulla politica in tutti i paesi democratici. L’ascesa di Macron in Francia è stata favorita da un’indagine penale che ha coinvolto un potenziale candidato alla presidenza. Ma in Italia più che altrove vi è un problema irrisolto: la netta distinzione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Che però spesso vengono fatte coincidere. La politica, di fronte ai fatti che emergono da un’indagine penale, è chiamata ad una autonoma valutazione e alla correlativa assunzione di responsabilità. Faccio riferimento a una questione che si è posta più volte: indagine a carico di politici, professionisti o imprenditori per concorso esterno in associazione mafiosa. È doveroso il rispetto della presunzione di innocenza e anche, eventualmente, la sottolineatura critica della fragilità dell’accusa rispetto a una imputazione così problematica. Ma ciò non significa ignorare che possono già emergere relazioni, circostanze, frequentazioni sulle quali, indipendentemente dalla eventuale qualificazione penale, è doverosa una autonoma valutazione. La mancata assunzione di questa responsabilità da parte della politica determina una sovraesposizione della magistratura, dannosa per la magistratura tanto quanto lo è per la politica. Ho scelto di proposito il riferimento a vicende maturate in un settore ben diverso da quello che oggi è al centro dell’attenzione. Ma il tema è lo stesso, poiché ovunque vicende private di personaggi pubblici hanno rilievo e conseguenze politiche. Tanto più quando emerga il contrasto tra la vicenda privata e le pubbliche prese di posizione. Però le strumentalizzazioni degli avversari possono essere esagerate al pari dei vittimismi sulla giustizia a orologeria: non è così pure per il caso Morisi? È davvero stucchevole il ritornello della giustizia a orologeria, che evidenzia la sua fallacia proprio per essere riproposto all’infinito. I tempi delle indagini dipendono da molteplici circostanze e altrettanto vale per l’emergere di notizie che la libera stampa doverosamente riporta. A fronte di scadenze politiche che non sono solo elezioni locali o nazionali, ma votazioni in Parlamento o momenti di confronto fra forze politiche, l’indagine penale, a seconda dei punti di vista, sarebbe sempre troppo tempestiva o colpevolmente tardiva. Che pensa delle novità sul penale? Alcune norme contenute nel ddl Cartabia, come quelle sul rinvio a giudizio, possono essere utili a riequilibrare il peso della giustizia nel dibattito pubblico? Il dibattito sul processo penale si è concentrato sulla prescrizione in un clima di contrapposizione da tifo da stadio. L’irrigidimento del partito di Bonafede ha imposto una soluzione giustamente criticata per la sua irrazionalità, ma ora non resta che esaminare come opererà nella pratica, per adottare eventualmente i correttivi. L’obiettivo per i processi è quello di farli, farli in tempo ragionevole ed evitare che cadano nel nulla per prescrizione o improcedibilità. Lo scontro tutto ideologico sulla prescrizione ha finito per porre in seconda linea le altre riforme. Quali la convincono? Sono divenute legge molte delle innovative proposte della Commissione Lattanzi, a partire dall’ampliamento dei criteri per l’archiviazione, che eviterà processi inutili e gravosi per gli imputati. Non è stata abbastanza sottolineata l’importanza dell’accesso diretto alle pene alternative che eviterà un periodo, spesso oggi non breve, di carcere in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza. Una opportuna norma garantista prevede il controllo ex post in materia di perquisizioni, atto necessariamente a sorpresa, disposto dal pm senza preventiva autorizzazione del gip. In questa linea oggi si aggiunge la previsione dell’autorizzazione del gip per l’acquisizione dei tabulati telefonici. Oltre al decreto sulla presunzione d’innocenza, sul tavolo ci sono proposte che puntano a inasprire le sanzioni per la rivelazione del segreto e la pubblicazione arbitraria degli atti penali: cosa ne pensa? Il problema che si pone più spesso nella pratica non è quello della pubblicazione di notizie segrete, ma di atti che non sono più segreti perché comunicati alle parti. L’ipocrisia dell’attuale normativa va superata non inasprendo le sanzioni, ma all’opposto eliminando ogni limite alla pubblicazione. Ciò naturalmente imporrà ai magistrati, pm e gip, scrupolosa attenzione ad eliminare, ad esempio nella citazione di intercettazioni telefoniche, riferimenti a vicende private non pertinenti o a terzi estranei. Altrettanta responsabilità è rimessa alla deontologia dei giornalisti. Resta però in piedi la questione del processo mediatico. Il decreto sulla presunzione d’innocenza è sufficiente a favorire il rispetto di quel principio? La presunzione d’innocenza trova la sua essenziale tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa. Da questo punto di vista è motivo di legittimo orgoglio che su questi profili non siano necessarie ulteriori norme di attuazione della direttiva Ue. Molto delicato è il tema delle misure da adottare per assicurare la tutela del principio con riferimento alla comunicazione da parte della magistratura e alla informazione sui media, individuando un punto di equilibrio rispetto al diritto di informazione, di cronaca e di critica. Non si può fare altro contro la “gogna”? La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme vana e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica. Qualunque normativa il nostro legislatore adotterà, rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione. Anche dei magistrati dunque? Non saranno mai abbastanza sottolineati i danni che provocano alla complessiva credibilità della giustizia le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. È fondamentale il riferimento al rispetto della dignità della persona sottoposta ad indagini e processo e anche definitivamente condannata, quale che sia la colpa di cui si è macchiata. Non è un caso che nella nostra Costituzione e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sin dai primi articoli, dignità e diritti della persona si presentino come inscindibili. La Carta dei diritti dell’Unione europea si apre con “Articolo 1 - Dignità umana. La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. Tutte le balle contro Giovanni Conso, fango sull’ex ministro persino da morto di Luigi Manconi Il Riformista, 30 settembre 2021 I giustizialisti non sono più quelli di una volta. Un tempo, i negazionisti dello stato di diritto e delle garanzie, erano attrezzati e agguerriti, meticolosi e fin acribiosi nel documentare fatti e dati. Oggi, tra loro, dominano trasandatezza e sciatteria: e le non poche sconfitte li hanno resi pressapochisti e pasticcioni. Non per questo meno feroci. Di conseguenza è impossibile tacere, tenuto conto che tra le loro vittime c’è chi - come quel grande galantuomo di Giovanni Conso - non può più difendersi da solo. Nelle scorse ore i sostenitori - a - ogni - costo - della trattativa tra mafia e Stato hanno reiterato, per l’ennesima volta, una menzogna che, nelle intenzioni, dovrebbe accreditare la tesi dei vantaggi e dei benefici ottenuti dalle organizzazioni criminali grazie a quel sordido negoziato tra esse, uomini degli apparati dello Stato ed esponenti politici di alto livello. Una delle prove, in apparenza la più potente e la più suggestiva consisterebbe nella mancata proroga della misura del 41 bis per 520 detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Sarebbe stata questa la principale posta in gioco della cosiddetta trattativa. Preliminarmente va ricordato che uno dei magistrati inquirenti più acuti, Giuseppe Nicolosi, della Procura di Firenze, davanti alla commissione parlamentare Antimafia, ebbe a dire che la revoca del 41 bis sarebbe stata “indifferente rispetto ai desiderata di Cosa Nostra”. E che “non c’era praticamente nessuno a cui potesse interessare”. Ma c’è dell’altro, molto altro. Secondo i critici, la sospensione del 41 bis per numerosi reclusi altamente pericolosi, sarebbe stata disposta dall’allora ministro della Giustizia Conso, sia perché direttamente coinvolto nell’operazione, sia perché sottoposto a pressioni da diversi soggetti (e tra essi, l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro). E, a beneficiare della mancata conferma del 41 bis, sarebbe stato un lungo elenco di centinaia di detenuti di altissima pericolosità. Ma quell’elenco, provvidenzialmente, venne sottoposto a una attenta disamina da parte dei consulenti della commissione Antimafia e, in precedenza, da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), che nel gennaio del 2011 inviò una relazione alla Procura di Palermo. Secondo i primi, tra i beneficiari della revoca, appena uno su dodici avrebbe avuto rinnovata in una fase successiva e in ragione della sua documentata pericolosità, la misura del 41 bis. Dunque, la declassificazione voluta da Conso era né più né meno che una scelta obbligata, secondo legge. In altre parole sia i consulenti della Commissione Antimafia sia il Dap, concordavano nel ritenere che il 41 bis, allora adottato per la prima volta come provvedimento individuale, fosse stato applicato con eccessiva larghezza e in maniera assai estensiva. E tra coloro ai quali la misura fu sospesa per decisione del ministro, solo 23 - per alcuni appena 18 - erano siciliani. Il che, certamente, non annulla, ma senza dubbio attenua, la rilevanza dell’interesse della mafia per la loro declassificazione e per il loro ritorno a un regime carcerario ordinario. E va ricordato che, per 8 di essi, fu lo stesso Conso successivamente a ripristinare “il regime speciale”. Ecco, su falsità di tal fatta, sono stati costruiti, in questo decennio, un grande racconto di genere e una mitografia fascinosa, interamente basati su una trama lessicale affidata al paradigma delle coincidenze maliose, delle prove artefatte, degli indizi suggestivi e fallaci. Chi era Giovanni Conso, il ministro che voleva riformare codice penale e separare le carriere di David Romoli Il Riformista, 30 settembre 2021 È desolante pensare che uno dei giuristi più raffinati e colti della sua epoca verrà probabilmente ricordato da molti soprattutto per una bufala infamante come quella della trattativa Stato-mafia. Lo è a maggior ragione perché quella favola nera raccontata tante volte da diventare vera è una lente deformante che distorce il senso di una riflessione e di un operato politico spesi sempre con l’obiettivo di correggere le storture che rendono o possono spesso rendere la giustizia ingiusta. Conso era, con Sergio Cotta e Leopoldo Elia, uno dei pilastri della cultura giuridica progressista cattolica. È stato vicepresidente del Csm, presidente della Corte costituzionale, ministro della Giustizia in due governi consecutivi, Amato e Ciampi dal febbraio 1993 al maggio 1994, ma il suo rapporto con la politica non è mai diventato davvero strutturale. A differenza di Elia, vero ponte tra il mondo del diritto e quello della politica, Conso è sempre rimasto un giurista che forniva alla politica la sua esperienza e il suo lavoro senza mai diventare neppure in parte un politico. Professore a Urbino e alla Lumsa, passò dalla teoria alla pratica per la prima volta nel 1974: vicepresidente della commissione istituita presso il ministero della Giustizia con l’incarico di redigere il nuovo Codice penale, presieduta da Giandomenico Pisapia. Quell’incarico non venne mai portato a termine. La commissione fu sciolta dopo due anni e il nuovo codice vide la luce solo nel 1989, frutto di una commissione diversa, sempre guidata da Pisapia, che aveva accolto solo in parte le indicazioni del lavoro degli anni ‘70. Il senso di quel lavoro lo illustrò comunque lo stesso Conso, in un lungo articolo pubblicato nel 1978 dalla Stampa, la cui attualità, a oltre 40 anni di distanza, è sconcertante ma eloquente. In materia di carcerazione preventiva, il futuro presidente della Consulta scriveva che “il margine di discrezionalità a disposizione del magistrato resta così lato da aprire continuamente la porta a mandati di cattura tanto ‘leggeri’ nella motivazione quanto ‘pesanti’ negli effetti”. Nel nuovo codice la custodia cautelare avrebbe dovuto “collocarsi come ultima spiaggia cui fare ricorso solo quando gli altri strumenti apparissero non adeguati”. Questo “principio di adeguatezza” doveva rappresentare per Conso “la chiave di volta del nuovo sistema”. Col tempo Conso si era anche convinto della necessità di separare le carriere dei magistrati, dopo l’opposizione iniziale. “Ritengo che sia ineluttabile: il processo deve essere accusatorio e non più inquisitorio, parità di parti, terzietà del giudice. E terzietà del giudice ha convinto anche me”, affermava nel 2009 spiegando il suo ripensamento. Conso si trovò a guidare il ministero di via Arenula nella fase più difficile nella storia dei rapporti tra politica e giustizia: nel cuore della tempesta di tangentopoli. Di fronte allo smantellamento dell’intero sistema politico da parte della Procura di Milano decise una mossa drastica: un decreto che depenalizzava il finanziamento illecito dei partiti e che avrebbe avuto effetti retroattivi, salvando così molti dei coinvolti nelle inchieste di tangentopoli ma anche l’edificio istituzionale della Repubblica. Il Pds fu in un primo momento d’accordo. Poi la procura di Milano insorse, i grandi giornali decisero di aprire il fuoco sul decreto, il Pds rovesciò nel giro di poche ore la linea che aveva deciso di adottare e bocciò il decreto. Per la prima volta nella storia della Repubblica il presidente della Repubblica Scalfaro scelse di non controfirmare un decreto, facendolo decadere. Lo chiamarono “colpo di spugna”. In realtà anche in quell’occasione Conso scelse di non assecondare la furia giustizialista, vendicativa e superficiale che con i complessi equilibri della vera giustizia aveva ben poco a che vedere. Fu sconfitto e con lui lo fu, purtroppo e per decenni, un’intera concezione del diritto e della giustizia che era stata sino a quel momento patrimonio della sinistra laica e cattolica. Cosa nostra l’abbiamo battuta anche usando la “trattativa” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 30 settembre 2021 Stato-mafia. L’ex giudice del pool Di Lello dopo la sentenza di appello: “Il romanzone accusatorio della procura di Palermo era incoerente dal principio”. “Mi chiedi come ha reagito la città alla sentenza di appello del processo “Trattativa”? Direi con totale indifferenza. Gli unici che si sono fatti notare sono stati alcuni garantisti ritardatari. In prima fila quelli del Pd”. Giuseppe Di Lello parla al telefono dalla sua casa di Palermo. Abruzzese di Villa Santa Maria, il paese dei cuochi di cui è stato anche sindaco, in Sicilia è arrivato esattamente cinquanta anni fa, autunno 1971, giudice trentenne destinato alla pretura di Alia. Ha fatto parte del primo pool antimafia, quello di Rocco Chinnici, “ci dividevamo la blindata e il maresciallo dei carabinieri Trapassi per la protezione”. Dopo l’autobomba di Cosa nostra che nel 1983 uccise Chinnici (e anche Trapassi) Di Lello ha fatto parte del secondo pool, quello del capo ufficio istruzione Antonino Caponnetto con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. Quando nel novembre del 1984 viene arrestato Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo la cui figura è rimasta al centro del processo Trattativa, è proprio lui a scrivere il mandato di cattura “a casa di Falcone, con una sua sgangherata Lettera 22 e sotto la dettatura di Borsellino”. Figura di spicco di Magistratura democratica, Di Lello ha lasciato la toga negli anni Novanta ed è stato prima deputato e poi parlamentare europeo, consigliere comunale a Palermo e infine senatore di Rifondazione comunista. Del manifesto è un compagno di viaggio assai più che un collaboratore: il suo primo articolo su questo giornale è del 1989. Al “romanzone trattativa”, come lo hai definito in un tuo pezzo, manca solo il capitolo finale della Cassazione. Dopo le assoluzioni della Corte di assise di appello i sostenitori delle tesi della procura spiegano che la sentenza riconosce comunque che una trattativa c’è stata. I carabinieri l’hanno condotta, anche se non è stata riconosciuta come reato. Sei d’accordo? Per niente. Non dobbiamo dimenticare qual era la tesi della pubblica accusa: che la politica, cioè Calogero Mannino, avrebbe avviato la trattativa per interesse personale, cioè salvarsi la pelle. E questo avrebbe indotto i mafiosi ad accelerare sempre le stragi proprio per avere più morti e più forza contrattuale con lo Stato. Le concessioni alle quali i mafiosi puntavano erano l’abolizione del carcere duro, la restituzione dei patrimoni e la revisione dei processi. Bene. Non solo tutto questo non c’è stato, ma addirittura è stato il governo Berlusconi a inasprire alcune misure. Stabilizzando 41-bis nell’ordinamento penitenziario e allargando, con l’aiuto della Cassazione, lo spettro dei sequestri e delle confische. Di revisione dei processi non si è mai parlato. Quando io, adesso, leggo i tifosi della procura di Palermo raccontare che sì, è vero, magari nell’immediato non ci furono concessioni dello stato di fronte alle richieste dei boss, ma poi più avanti… Ma quando mai! Non si allargò proprio niente. I mafiosi volevano indietro la roba, i soldi, e volevano la cancellazione degli ergastoli. Non si può spacciare l’alleggerimento del carcere duro per un po’ di mafiosi di mezza tacca, deciso da Conso anche perché al 41 bis c’era ormai un numero esagerato di detenuti, per chissà quale concessione. Non scherziamo. La sentenza di appello ha completamente smantellato l’impianto accusatorio, del resto incoerente dal principio. Se fossero state vere quelle accuse, allora, dal punto di vista logico, carabinieri e politica andavano imputati di concorso nelle stragi visto che avrebbero rafforzato in Cosa nostra la convenienza di fare attentati. Secondo te cosa ha incrinato la trama del romanzone tra primo e secondo grado? Solo l’assoluzione definitiva di Mannino che ha cancellato la premessa? Io credo che in primo grado abbia pesato molto la mancata perquisizione del covo di Riina. Questo fatto non c’era nel processo Trattativa, ma sicuramente ha fischiato nelle orecchie dei giudici popolari. Come una specie di prova che qualcosa da nascondere nei rapporti tra polizia giudiziaria e cupola mafiosa in fondo c’era. La grande contraddizione della procura di Palermo è che al termine delle indagini sulla mancata perquisizione del covo, un episodio accaduto all’interno del periodo in cui ci sarebbe stata la trattativa, ha sempre chiesto l’archiviazione. È stata la gip a imporre il giudizio, al termine del quale i pm hanno chiesto l’assoluzione. Due pesi e due misure, evidentemente per la procura di Palermo a quell’epoca non si facevano trattative. Anche il ministro della giustizia di allora, Claudio Martelli, critica le tesi dell’accusa, ma afferma che in carabinieri del generale Mori si erano spinti troppo avanti. Evitando di informare la procura e la neonata Direzione investigativa. Così ci avviciniamo alla verità. Ci sarà stata un’operazione di polizia giudiziaria, anche spregiudicata, da parte dei carabinieri che cercavano innanzitutto di mettere le mani su Riina. Non hanno informato chi di dovere? Male, ma non facciamo finta di scoprire solo adesso come si muovono abitualmente i corpi militari di polizia giudiziaria. Qualcuno si ricorda del generale Dalla Chiesa che consegna il memoriale di Moro direttamente ad Andreotti invece che al procuratore della Repubblica? Certo, è così, i Ros in particolare sono molto autoreferenziali. Cito dal tuo unico libro, “Giudici”, del 1994: “Le gesta rivoluzionarie di alcuni magistrati rischiano di appannare la realtà complessiva di una casta che è stata, e resta ancora in molti suoi componenti, con indifferenza o con calcolo, organica a questa borghesia sempre uguale a se stessa”. Allora ti riferivi al pool milanese di Mani Pulite. Oggi cosa pensi dei magistrati che, di fronte alle assoluzioni di Palermo, concludono che la verità su quegli anni e quelle trame è troppo grande per entrare in un’aula di tribunale? Potrei dire che è un’affermazione che prova troppo, ma preferisco considerarla per quello che probabilmente è: una via d’uscita furbesca. Quello che oggi possiamo dire, aspettando la Cassazione, è che la ricostruzione della procura di Palermo è stata smentita dalla sentenza di appello. La storia adesso è questa. Ovviamente, e non ci sarebbe bisogno di dirlo, questo esito non mette in discussione la profondità dei rapporti che ci sono sempre stati tra mafia e politica e anche tra la mafia e i corpi di polizia. Ma non è con i romanzi che li si combatte. In questo processo la condanna etica del concetto di trattativa ha preceduto quella penale. Ti domando: la relazione che lo Stato cerca con i collaboratori di giustizia non è essa stessa una trattativa? Certamente, è una trattativa istituzionalizzata, codificata. E ha consentito molti successi nella lotta alla mafia. Ricordo che Tommaso Buscetta mise immediatamente, già nei primissimi colloqui con Falcone, le mani avanti. Disse: “Io di me non parlerò mai”. E infatti non disse nulla dei suoi traffici di droga e dei suoi omicidi. E purtuttavia la sua è stata una collaborazione fondamentale, com’è noto a tutti per la storia del maxi processo. Anche quella fu una trattativa. Gli dicemmo: “Va bene Buscetta, dei fatti tuoi non parliamo e andiamo avanti. Dicci tutto quello che sai su tutto il resto”. A breve saranno trent’anni dalla conclusione del maxi processo. Da allora i grandi successi processuali della magistratura inquirente non sono stati molti. Si è perso un metodo? Non si è perso se per metodo intendiamo le tecniche di indagine che erano state introdotte dal pool: indagini bancarie e societarie, il famoso follow the money, e l’uso delle intercettazioni. Si fa ancora così e anzi le tecniche sono più sviluppate e penetranti. Bisogna però convenire che la potenza della mafia è scemata molto. Stai dicendo che gli “allievi che sbagliano” del professor Fiandaca, che si riferisce così a Ingroia, non hanno trovato trame all’altezza delle loro ambizioni? Da anni non c’è più il collegamento forte, diretto, simbiotico della mafia con la politica. Sono finiti i tempi in cui in Sicilia la famiglia politica di Andreotti si confondeva con la famiglia criminale dei corleonesi. E in Campania non c’è più quella commistione che c’era tra la camorra e un’altra corrente della Dc. Erano tempi in cui il mondo era diviso in blocchi e si poteva raccontare la favola della difesa della democrazia. Tempi in cui la mafia si poteva proporre persino come un baluardo contro il terrorismo. La commistione per gli affari c’è ancora, soprattutto negli appalti per i servizi alle amministrazioni pubbliche. Ma sono cose che comparate alle vicende precedenti scoloriscono. L’integrazione stretta tra mafia e politica e i progetti condivisi, non ci sono più. Pensa agli omicidi di Piersanti Mattarella o di Pio La Torre. Rispondevano a interessi comuni. Vai a capire se a ordinarli era stata la politica o era stata la mafia. Quelle morti avvantaggiavano entrambe. In questi giorni la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, ha detto: mio padre non pubblicizzava le sue inchieste e non avrebbe gradito il clamore mediatico che c’è stato attorno al processo Trattativa. Come andavano le cose ai vostri tempi? Con i giornalisti parlavamo pochissimo. Non abbiamo quasi mai fatto conferenze stampa o comunicati stampa. Ma la differenza fondamentale è che allora non si organizzavano eventi di sostegno al processo e certo noi non vi avremmo partecipato. Negli ultimi anni, durante la lunga inchiesta e il lungo processo Trattativa, abbiamo assistito a scene da vergognarsi. I teatri con gli striscioni per i magistrati inquirenti, le raccolte di firme, le trasmissioni televisive in cui sono stati perennemente ospiti. Oggi Ingroia che condanna la spettacolarizzazione dell’inchiesta mi fa ridere. Come se lui non c’entrasse niente. Era persino sul palco, alla festa del Fatto quotidiano, quando fischiarono il presidente della Repubblica Napolitano. C’erano lui e Di Matteo ed erano entrambi magistrati in servizio. A proposito di esaltazione, a un certo punto in tv Di Matteo ha accusato l’ex ministro Bonafede, suo grande fan, di aver ceduto anche lui a una specie di trattativa per non averlo promosso al ministero. Disse che Bonafede si era piegato alla richiesta dei boss. E io ho scritto che se era vero si doveva dimettere Bonafede, ma se non era vero si doveva dimettere Di Matteo dal Csm. Non abbiamo saputo più niente e tutto è passato in cavalleria. Anche io ho partecipato a qualche dibattito sul processo trattativa e mi pento amaramente, i miei dubbi e le mie osservazioni critiche sono finite travolte e Di Matteo è stato esaltato come l’idolo dell’Italia moralmente a posto. Siamo precipitati di nuovo in quella commistione tra tifoserie e giustizia che avevamo sperimentato con l’entrata in scena di Berlusconi. Un personaggio ambiguo, borderline, ideale per confondere i discorsi sulla sua moralità con quelli sulle sue eventuali responsabilità penali. Nelle inchieste di mafia però è stato sempre tirato in ballo e sempre senza conseguenze. La figlia di Borsellino ha detto anche che il processo trattativa ha distratto le forze dal più promettente filone mafia e appalti, quello che suo padre aveva in mano quando è stato ammazzato. Lo pensi anche tu? A me risulta che la procura di Caltanissetta che è competente stia indagando ad ampio raggio su quei fatti a partire dalla ricerca delle verità sulla strage di via D’Amelio. Nella sentenza di primo grado del processo Trattativa, quella che ha confermato le ipotesi dell’accusa, si legge che “Oggi si può dire che, come previsto da Giovanni Falcone con riferimento alla naturale conclusione di tutti i fenomeni umani ivi compreso quello della mafia, quell’organizzazione criminale plasmata dai corleonesi e caratterizzata da precise regole e, soprattutto, gerarchie, non esiste più”. Un tuo amico, lo storico Salvatore Lupo, dice da tempo che è arrivato il momento di superare lo stato emergenziale, che poi significa le leggi di emergenza. Lo pensi anche tu? Il grande problema è che da noi le leggi eccezionali si sono espanse. Le leggi antimafia sulle misure di prevenzione come sequestro e confisca hanno avuto uno sviluppo abnorme. Prima si sono allargate alla corruzione e a tutti i reati degli amministratori pubblici, poi le misure di prevenzione sono arrivate anche a carico dei disturbatori del decoro urbano e dei tifosi del calcio. I giuristi spiegano quanto questa espansione innaturale e pericolosa abbia svilito, tra le altre cose, proprio il concetto di lotta alla mafia. Sarebbe il momento di rivedere tutta la legislazione antimafia e casomai di focalizzarla sulla lotta alla corruzione. Anche perché, nel frattempo, la composizione sociale delle carceri è persino peggiorata. Le galere sono piene di poveracci e delle vittime del disagio sociale. L’attività della magistratura è gravata da una marea di reati e di processi inutili. Per questo io sono convinto che senza una seria depenalizzazione, cominciando dai reati legati alle droghe e all’immigrazione, la riforma della ministra Cartabia è un’utopia. I tempi dei processi non diminuiranno, casomai con l’improcedibilità ci sarà una moria indiscriminata di procedimenti. Mentre devo dirti che il fatto che sia stata prevista un’indicazione del parlamento sulle priorità di politica criminale non mi preoccupa. Prevedo che le camere per mettersi al riparo indicheranno più o meno tutto il codice penale. Mi pare una novità più inutile che pericolosa. “Nessuna prova contro Femia”. Ma in cella ci è rimasto cinque anni di Simona Musco Il Dubbio, 30 settembre 2021 Le motivazioni dell’assoluzione dell’ex sindaco calabrese: a suo carico diversi indizi di un atteggiamento finalizzato alla lotta alla criminalità organizzata. Ma la sua vita è stata distrutta. “Un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso”. La Corte d’Appello di Reggio Calabria chiude così la vicenda di Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa, rimasto in cella per cinque anni e nove giorni da uomo innocente, da quel che dicono oggi i giudici a distanza di dieci anni dall’inizio del suo calvario giudiziario. Arrestato nel 2011 con l’operazione “Circolo Formato”, che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione, indicato dai giudici come “partecipe consapevole” di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima apparsa granitica e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan che aspirava a riprendere il controllo della cittadina, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno a quella cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti. I rapporti e le relazioni col capo clan c’erano, evidenziarono i giudici, ma “qualificare in termini di partecipazione la condotta del Femia valorizzando quale tratto unico e significativo la vicenda elettorale (…) non costituisce operazione logica corretta”. L’equazione, scrivevano infatti gli ermellini, non tiene conto delle possibili spiegazioni alternative e costituisce “una sorta di scorciatoia probatoria della partecipazione non accoglibile”. Il nuovo processo in appello, trascinatosi - anche a causa del Covid - fino a marzo scorso, ha però cancellato anche quella infamante accusa, accogliendo la richiesta di assoluzione avanzata dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino: di prova concreta, nel processo, non ne è emersa nemmeno una. E anzi sarebbero emerse prove di come l’amministrazione Femia, cancellata con un colpo di spugna da quell’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa. “Di contro - si legge infatti nelle 26 pagine che motivano la sua assoluzione - assumono rilievo ai fini della decisione una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario), finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale”. Come ad esempio la scelta, subito dopo l’insediamento della nuova giunta, di delegare alla Stazione unica appaltante provinciale tutti gli appalti pubblici, sia al di sopra dei 150mila euro sia al di sotto. Nessuno spazio, dunque, ai clan, che per mettere le mani su quegli appalti non avrebbero potuto comunque confrontarsi con la giunta, ma avrebbero dovuto bussare altrove. Ma non solo: “Sono stati acquistati mezzi idonei (un miniescavatore, un bobcat, una macchina spazzatrice) ad intervenire sul territorio per eseguire autonomamente lavori di piccoli importi, al fine di evitare di ricorrere all’affidamento ad imprese esterne, mediante la procedura della somma urgenza”. Un modo, questo, per evitare ogni piccola ingerenza sui lavori - anche i più sciocchi - da eseguire sul territorio comunale. Così com’è stata revocata l’aggiudicazione provvisoria a ditte non in regola con la documentazione o sono stati sequestrati e affidati in custodia gli animali rinvenuti sui terreni di proprietà dei clan. Insomma: nessun occhio di riguardo, sembrano dire i giudici. Tant’è che nemmeno con la piaga dell’abusivismo edilizio, comune a quelle latitudini, l’amministrazione avrebbe chiuso un occhio, giungendo anche alla demolizione di una stalla costruita abusivamente da un membro del clan Mazzaferro. Inoltre, sono stati messi gratuitamente a disposizione dei Carabinieri i locali della dismessa stazione ferroviaria acquisiti dal Comune e sono stati destinati al pubblico i beni confiscati alla ‘ndrangheta, approvando un apposito regolamento per la gestione degli stessi. Scelte concrete, per i giudici di secondo grado, alle quali si sono associate anche iniziative “simboliche” contro la ‘ndrangheta, in collaborazione con associazioni come “Libera” e “Don Milani”. “L’assenza di apprezzabili possibilità di diverse acquisizioni istruttorie” idonee a concludere un accordo con i clan, dunque, hanno portato all’assoluzione di Femia “per non aver commesso il fatto”. Non basta, infatti, per la sussistenza del concorso esterno, “una mera vicinanza al detto gruppo (mafioso, ndr) od ai suoi esponenti, anche di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa”, ma è necessario “un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento”. Di tutto questo, scrivono ora i giudici, nella storia di Femia non c’è traccia. E anche in aula alcuni esponenti delle forze dell’ordine avevano “escluso contatti e frequentazioni illecite” dell’allora sindaco. Ciononostante, si è ritrovato per cinque anni rinchiuso in carcere, prima a Reggio Calabria, in “un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo”, poi a Palermo, dove i detenuti subivano continui controlli notturni della polizia penitenziaria, che duravano circa un’ora, “senza nessun riguardo per il nostro corredo: salivano sui letti con gli stivali, buttavano tutto giù e ci toccava rimettere tutto a posto”, per chiudere la sua esperienza nel “lager” di Vibo Valentia. “La battitura era continua - ci ha raccontato in relazione al periodo in Sicilia - ed è un rumore che mi è rimasto in testa”. Ora, per Femia, è il momento del riscatto: “Per 10 lunghi anni ho “gridato” la mia innocenza - ha commentato al Dubbio - finalmente una corte “garantista” ha messo definitivamente fine a questa tragica vicenda giudiziaria”. Pisa. “La rivolta in carcere fu una protesta a tutela dei diritti dei detenuti” di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 30 settembre 2021 Ecco le motivazioni del giudice sull’archiviazione dei reati per tredici reclusi. I tafferugli dopo il suicidio di un carcerato. Agenti offesi, ma serviva la querela. Fu una protesta spontanea, nessuna aggressione, né resistenza a pubblico ufficiale. E anche se gli agenti della penitenziaria vennero insultati e offesi dai detenuti infuriati per il suicidio di un recluso, il reato aggravato di ingiuria o minaccia procedibile a querela di parte. Che nessuno aveva presentato. È la motivazione con cui il gip Nunzia Castellano ha accolto la richiesta di archiviazione formulata dal pm Fabio Pelosi disponendo l’archiviazione per tredici detenuti (tra i difensori Tommaso Azzaro e Roberto Nocent, che nell’agosto 2017 provocarono tafferugli al Don Bosco, al punto da far intervenire nel ruolo di pacificatore a Pisa Santi Consolo, l’allora direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Firenze per un convegno. Pacifico che i carcerati nel momento di massima tensione scagliarono pietre contro le postazioni degli agenti. Così come altrettanto acquisito che i vetri vennero sfondati anche con il lancio di un tombino. Urla, offesa, spintoni ai poliziotti della penitenziaria. Una gazzarra repressa a fatica accompagnata anche da una sassaiola. “Analizzando i fatti attraverso la ricostruzione degli agenti si evince che gli spintonamenti erano volti ad entrare nel blindo e anche durante la sassaiola gli agenti non tenevano alcun comportamento che si potesse identificare come atto d’ufficio che l’azione dei detenuti nasceva in maniera del tutto estemporanea come forma di protesta e non di opposizione violenta o minacciosa ad atti di ufficio - si legge nel decreto di archiviazione. La manifestazione dei detenuti si pone come l’unica modalità espressiva ritenuta idonea dai soggetti per far sentire la loro voce a tutela dei loro diritti, senza mai porre in pericolo l’integrità fisica degli agenti e dunque senza mai porre in essere condotte intese quali resistenze ad atti dei pubblici ufficiali. Quando il comportamento aggressivo nei confronti del pubblico ufficiale non sia diretto a costringere il soggetto fare un atto contrario ai propri doveri o a omettere un atto dell’ufficio, ma sia solo espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento genericamente minaccioso, senza alcuna finalizzazione ad incidere sull’attività dell’ufficio del servizio, la condotta non Integra il delitto nel delitto di cui l’articolo 337. Ma i reati di ingiuria o minaccia, aggravati dalla qualità delle persone offese per cui la procedibilità è necessaria la querela”. Sui danni in carcere il gip afferma che “manca la prova di una volontà finalisticamente orientata a distruggere gli arredi della casa circondariale in assenza peraltro di una precisa indicazione dei beni asseritamente danneggiati”. Benevento. Moretti: “Nuovo suicidio in carcere: serve tavolo urgente” ottopagine.it, 30 settembre 2021 “Serve progettazione personalizzata sui detenuti”. Angelo Moretti, leader della coalizione Arco, interviene sul caso del 27enne trovato morto in carcere: “Ventisette anni, trovato impiccato in carcere. Un altro suicidio, dopo quello di qualche mese fa, purtroppo. Mentre in città si procede ai tagli dei nastri ad un mese dal voto - segno evidente che in cinque anni non si è governato nulla - dal Carcere di Benevento arriva un altro grido disperato per una mancata presa in carico delle persone detenute, in particolare quelle affette da problemi psichici. Come denuncia anche “Antigone”, secondo i dati del Ministero della giustizia, nel 2019 si sono verificati in totale 53 suicidi, con 8,7 suicidi ogni 10.000 detenuti mediamente presenti, 8,376 atti autolesionistici e 939 tentativi di suicidio. Secondo i dati raccolti dal Dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, fino a dicembre 2020 si sono verificati 55 suicidi all’interno delle carceri. Il Garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, è intervenuto molto duramente denunciando che a Benevento non è attivo un sistema di co-progettazione e presa in carico dei problemi che i detenuti vivono in carcere. Condivido la sua preoccupazione e penso che la soluzione sia di una semplicità ai limiti del banale: occorre istituire con urgenza un tavolo che attivi il sistema di progettazione personalizzata sui detenuti, con e senza patologie psichiatriche. Spesso nelle carceri esistono i “Reparti di osservazione psichiatrica” dove vengono trasferiti i detenuti che hanno un problema di salute mentale, ospitati nelle cosiddette “celle lisce”, piccole stanze vuote, dove non c’è praticamente nulla, se non un materasso e pochi altri oggetti che non possano essere utilizzati come appiglio per eventuali gesti violenti contro sé stessi. Ma il vuoto e l’isolamento aggiungono solo solitudine a solitudine e il malessere si ingigantisce. La progettazione personalizzata utilizza sia misure alternative alla detenzione con inserimento in piccole attività lavorative sia équipe che seguono il paziente, anche detenuto, psichiatrico nella sua vita dentro e fuori dal carcere. Dal 2003 ho promosso la piattaforma “Libertà Partecipate” per costruire progetti personalizzati di misure alternative per tutte le persone fragili. Da ottobre, se sarò eletto Sindaco, ancora più di quanto facciamo oggi come rete nazionale, sarò impegnato anche come Comune di Benevento a fare squadra urgentemente con la direzione del Carcere e con il personale e soprattutto essere vicini alle famiglie e ai detenuti perché la pena sia rispettosa della nostra Costituzione e perché le fragilità psichiche abbiano servizi migliori di prese in carico, come il metodo dei Budget di Salute. Non c’è più tempo da perdere, dobbiamo agire per superare il muro di cinta che ci divide e far sentire che siamo un’unica comunità. Alla famiglia del giovane ventisettenne arrivi tutta la solidarietà mia e della Coalizione ArCo. Bologna. Carcere, nido alla Dozza: ci sono i bimbi, ma non gli educatori di Ambra Notari redattoresociale.it, 30 settembre 2021 Inaugurato a luglio, da pochi giorni accoglie due bambini figli di madri detenute. La denuncia dei sindacati. Sinappe: “Ci avevano assicurato che sarebbero stati messi a disposizione i servizi del quartiere - scuole incluse - ma, a oggi, non c’è nulla di concreto”. Si erano mossi anche i garanti e i penalisti per chiedere di non aprire un nido nella sezione femminile della Dozza, ma invano. Perché lo scorso 9 luglio è stato inaugurato: “Nessuno vuole vedere bambini in carcere, ma la legge lo prevede - aveva detto in quell’occasione la direttrice Claudia Clementi -. L’augurio che voglio fare a questa struttura è che venga utilizzata il meno possibile. Speriamo che presto ci siano norme che la rendano non più attuale, e che dunque possa essere definitivamente superata”. Contestualmente, l’assessore alle pari opportunità Susanna Zaccaria aveva parlato di “soluzione ponte”. La discussione non si è sopita, in questi mesi, anche perché, di fatto, il nido ancora non era ‘attivo’ e, dunque non poteva ospitare madri detenute con figli piccoli (la scorsa estate, infatti, un bimbo è entrato in una sezione ‘comune’). Le cose sono cambiate pochi giorni fa, con l’accoglienza di due bambini: prima è arrivata una donna detenuta con una bimba di pochi mesi, poi c’è stato l’ingresso di un bimbo di due anni figlio di una donna già in carcere. La discussione, così, si è riaperta: Uilpa Polizia penitenziaria, sulle pagine de Il Resto del Carlino, ha richiamato la legge 62 del 2011 che prevede misure alternative al carcere per le madri detenute con figli fino ai 6 anni di età - salvo casi eccezionali - ma, “nonostante tutto, si continua a far vivere dietro le sbarre bambini innocenti”. Di diverso avviso i colleghi del Sinappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il presupposto è il medesimo che, a luglio, espresse la direttrice: la legge, a oggi, prevede che le case circondariali abbiamo una sezione nido. “La struttura della Dozza è molto curata - spiega il Sinappe. Sono stati presi tutti gli accorgimenti necessari, a livello estetico e di arredo. Quello che, purtroppo, oggi dobbiamo constatare è che non tutti i servizi e le prestazioni che erano stati annunciati sono effettivamente previsti”. Per esempio? “Per esempio manca un ordine di servizio. La gestione è affidata al buon senso delle agenti penitenziaria, molte delle quali sono mamme. Ma non è così che dovrebbe essere: ancora non è prevista una formazione adeguata, anche se l’abbiamo chiesta più e più volte. E poi non c’è un educatore specifico. Non solo: era stata garantita un’apertura al territorio, era stato assicurato che i bambini - se le madri avessero voluto - avrebbero potuto frequentare le attività - e le scuola - del quartiere. Purtroppo di tutto ciò non v’è traccia: l’amministrazione ci ha detto che se ne sta parlando, ma sono passati più di due mesi dall’inaugurazione, non è accettabile. Quello di Bologna non è un nido di passaggio: qui le madri detenute possono rimanere a lungo. Insomma, non è un servizio completo. Sì, la struttura è bella, ma manca l’anima”. Ma quello del nido è solo uno dei tanti problemi dell’istituto di via del Gomito: l’altro ieri, infatti, durante una perquisizione ordinaria al terzo piano, dove sono ristretti detenuti del circuito dell’alta sicurezza, sono stati ritrovati due cellulari, un micro-telefonino e uno smartphone di ultima generazione. “Stiamo parlando di detenuti appartenenti alla criminalità organizzata. Come possono esserne entrati in possesso - chiede il Sinappe -? Dall’inizio della pandemia, la disponibilità di colloqui - sia telefonici, sia in videochiamata, sia in presenza - è stata implementata. Difficile, dunque, pensare che si tratti di strumenti utilizzati per mantenere i contatti con i familiari. L’aspetto che più ci preoccupa è legato alla liceità delle comunicazioni. Quello dei telefonini in carcere è un mercato illegale molto fiorente. Potrebbe essere utilizzato anche dalla criminalità organizzata per impartire e ricevere ordini. Non si può essere indulgenti: questo significherebbe il fallimento del carcere anche sotto questo punto di vista”. Ancona. Violenze in carcere, l’incontro tra Regione e sindacati anconatoday.it, 30 settembre 2021 “Serve un reparto penitenziario a Torrette”. Dopo gli episodi di violenza degli ultimi giorni a Montacuto il presidente del consiglio regionale Dino Latini ha incontrato i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria. L’incontro era stato preannunciato ieri tramite le parole di Francesco Patruno, coordinatore regionale della polizia penitenziaria Fp Cgil Marche. Oggi si è tenuto puntuale il tavolo di confronto tra l’assemblea legislativa Marche, presieduta dal presidente Dino Latini e le sigle sindacali. All’incontro hanno partecipato tra gli altri Claudio Tommasino (Sappe), Alessandro Scognamiglio (Uspp), Gianluca Scarano (Uilpa), Francesco Patruno (Fp-Cgil), Maurizio Gabucci (Fns-Cisl), Mauro Nichilo (Osapp) e l’ex presidente del consiglio regionale Vittoriano Solazzi. Il vice segretario regionale Uilpa Polizia Penitenziaria Gianluca Scarano, ha chiesto all’assemblea l’apertura del reparto penitenziario presso l’ospedale regionale di Torrette, “reparto ormai in attesa, da più lustri, di essere messo a disposizione del penitenziario anconetano ma mai entrato in funzione con relativo spreco di denaro pubblico”. Il reparto garantirebbe “più sicurezza non solo al personale di polizia penitenziaria ma anche a tutta la collettività che, a volte, si ritrova ricoverata in corsia comune con persone private della libertà personale”. Scarano e tutte le altre compagini sindacali hanno espresso “la demotivazione che assilla il personale a livello regionale per la grave carenza di personale e il mancato rispetto degli accordi sindacali con conseguente soppressione dei diritti soggettivi del personale. Ormai i penitenziari - prosegue la nota - sono diventati i contenitori di soggetti psichiatrici che non possono essere curati dalla polizia a cui spetta la sicurezza e il reinserimento sociale e non certo la cura di patologie psichiatriche”. Nel corso dell’iniziativa il presidente Latini ha ribadito l’impegno dell’Assemblea legislativa regionale, a partire dalla presentazione di una mozione in Aula per rafforzare le sollecitazioni per il potenziamento della dotazione organica e per tutti gli opportuni ed urgenti provvedimenti da assumere per risolvere l’attuale crisi. È stata lanciata la proposta di apertura di un Tavolo permanente sulla sicurezza e di valutare le condizioni, anche normative, per chiedere l’istituzione di una commissione di inchiesta regionale. Il presidente Latini ha confermato l’impegno “per portare l’attenzione su questi temi in sede ministeriale ma anche in sede di Conferenza dei presidenti delle Assemblee regionali”. Inoltre si dovrà valutare, così come sollecitato dalle sigle sindacali, il potenziamento delle Rems (attualmente nelle Marche è presente solo una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). L’assemblea ha proposto quindi un nuovo incontro con la presenza del Garante delle persone private dalla libertà, le commissioni affari istituzionali e sanità oltre alle sigle sindacali “per programmare, valutare e mettere in atto tutte le soluzioni di competenza del governo regionale”. Busto Arsizio. “A quando una fermata per il carcere?” di Francesco Castiglioni legnanonews.com, 30 settembre 2021 Il Garante dei detenuti Matteo Tosi, il cappellano del carcere Don David Riboldi e quattro associazioni tornano a chiedere che la struttura venga collegata alla città. I problemi delle carceri italiane, si sa, sono molti. Iniziando dalla mancanza di personale di polizia penitenziaria e di figure professionali che favoriscano il reinserimento sociale dei detenuti fino al cronico sovraffollamento delle strutture. Il carcere di Busto Arsizio è primo testimone di quest’ultimo tema, tanto da essere stato al centro della sentenza con la quale la Corte europea dei diritti umani aveva condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante. Il carcere è rimasto quello, staccato dalla città, a pochi passi più in là dell’ingresso autostradale di Sant’Anna. Pochi passi, probabilmente molto pericolosi, vista la mancanza di strisce o marciapiedi. Per questo, il garante dei detenuti Matteo Tosi e il cappellano della Casa Circondariale Don David Riboldi, accompagnati da quattro associazioni e cooperative (Coop Intrecci, Associazione volontari assistenti ai carcerati e loro famiglie Busto Arsizio, Olbò e Valle di Ezechiele) con una lettera, indirizzata al sindaco uscente di Busto Arsizio e presidente della Provincia Emanuele Antonelli, chiedono che sia istituita una fermata di trasporto pubblico al servizio della struttura. Hanno quindi convocato una conferenza stampa davanti alla stazione, meta lontanissima per tanti scarcerati che non hanno un modo di raggiungerla in sicurezza: “La nostra è una richiesta - dichiara Tosi - che avevamo già fatto tempo addietro, ma non ci aveva mai risposto nessuno. Ora, con il sistema di trasporto pubblico che è cambiato, diventando sovra-comunale, ci è sembrato giusto riprovarci. Ci siamo messi insieme come realtà che lavorano e frequentano il carcere, una struttura che ospita oltre 400 detenuti (e quindi altrettante famiglie) e 300 dipendenti. Tutti noi meritiamo risposte. Così come sarebbe tempo di dare un segnale per la struttura, che ora è un non-luogo, scollegata dalla città”. Il testo, scaturito da un lavoro corale dei soggetti intervenuti, sarà adesso protocollato per divenire raccolta firme. “Vediamo questa richiesta - dice invece Don David - come il punto di partenza di una collaborazione tra persone che hanno a cuore i carcerati. L’altro giorno il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha detto che non sappiamo descrivere cosa sia un carcere umano, e invece di esempi di carceri inumani ne abbiamo pieni gli occhi. L’altro giorno ho dovuto accompagnare personalmente in stazione un detenuto con difficoltà a camminare, solo perché da via per Cassano l’autobus non si ferma. Questo secondo me è qualcosa di inumano. I problemi delle carceri sono immensi, speriamo solo che ci si dia ascolto per risolvere almeno quelli apparentemente banali come questo”. Di seguito la lettera Gentile Presidente, ricorriamo ai Suoi Uffici per sollecitare una fermata del trasporto pubblico nei pressi della Casa Circondariale di Busto Arsizio. Ogni tentativo bonario non ha sortito alcun effetto, nel senso che nessun ascolto è pervenuto dai soggetti interpellati. Eppure l’argomento è rilevante, considerando che L’area in questione non costituita solo dalla Casa Circondariale (con dipendenti pubblici e lavoratori volontari di cooperative, visitatori, insegnanti, familiari di detenuti e detenuti in uscita), ma anche da strutture sportive che rendono il bacino d’utenza cospicuo in linea di principio ed incalcolabile in concreto Le persone che attualmente utilizzano i mezzi pubblici, per raggiungere carcere e strutture sportive limitrofe, utilizzano linee dell’attuale trasporto pubblico (1-5-11-55) che portano alla fermata del quartiere di Sant’Anna. Il restante tratto viene colmando a piedi, compiendo un percorso a dir poco pericoloso ed ostile ai pedoni Il numero dei mezzi parcheggiati in zona è assai elevato. Il che rende pure conto di quanto si debba ricorre al trasporto privato in assenza di quello pubblico. Notevoli sono i disagi arrecati anche a persone scarcerate che non possono permettersi di ricorre ai servizi di taxi. Per quanto precede la necessità di trovare una soluzione viene formalmente segnalata dai sottoscrittori della presente, con ferma volontà di non lasciare nell’indifferenza questo diritto che sottoponiamo all’attenzione della Provincia. Le si chiede di coinvolgere nella fattiva risposta chi riterrà doveroso ed utile, perché si dia prova di capacità e responsabilità. Milano. Disagio mentale e carcere, una cena per dare una mano di Enrico Casale chiesadimilano.it, 30 settembre 2021 Iniziativa benefica organizzata dal Celim e dalla Cooperativa sociale Olinda a “Jodok”, ristorante nato negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Una cena che raddoppia solidarietà. Si terrà venerdì 15 ottobre, alle 20, a “Jodok pizza e cucina”, un ristorante nato negli anni Novanta negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano (via Ippocrate 45). Con i proventi della cena, organizzata dall’Ong milanese Celim e dalla Cooperativa sociale Olinda, si sosterrà, da un lato, la cooperativa sociale Olinda, di cui Jodok fa parte, che sostiene la riabilitazione delle persone con problemi di salute mentale e, dall’altro, “La seconda occasione - Reintegro degli ex detenuti”, un progetto che Celim sta portando avanti in Zambia per aiutare i carcerati a reinserirsi nella società. Due forme di emarginazione, quella del disagio mentale e quella del carcere, che vivono entrambe lo stigma sociale. Che, grazie alla solidarietà, possono però superare. Il luogo è “Jodok pizza e cucina”, Ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, via Ippocrate 45, Milano. La prenotazione entro il 14 ottobre ai seguenti recapiti: tel. 02.58317810, mail celim@celim.it. Donazione minima prevista 30 euro. Olinda è un progetto collettivo nato nel 1996 con l’obiettivo di andare oltre l’esperienza dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano. La cooperativa vi svolge una serie di attività (ristorante, ostello, teatro, ecc.) tutte volte al recupero del territorio e al reinserimento sociale delle persone che ci vivono, soprattutto se emarginate, svantaggiate o disabili. Celim è una Ong nata a Milano nel 1954. Si occupa di progetti di cooperazione internazionale. “La seconda occasione - Reintegro degli ex detenuti” ha come obiettivo il reintegro dei detenuti zambiani nella società e prevede due fasi distinte. Per raggiungere l’obiettivo si lavora attraverso corsi di formazione professionale (elettricista, falegname, meccanico ecc.) per i carcerati che sono poi aiutati a sostenere gli esami di qualifica professionale. Una volta scontata la pena gli ex detenuti vengono aiutati, donando loro le attrezzature adatte, a creare proprie attività artigianali. Ciò permetterà loro di reinserirsi nella società e sostenere le loro famiglie con quanto guadagnato. Verona. Si ricorda l’avvocato Ebru Timtik, morta in carcere dopo 238 giorni di digiuno telenuovo.it, 30 settembre 2021 Un convegno dal titolo “Il diritto ad un processo equo oltre la vita”, promosso e organizzato dal Tribunale, dall’Ordine degli avvocati di Verona e dall’Unione Triveneta dei consigli dell’Ordine degli avvocati, per ricordare l’impegno nella difesa dei diritti umani dell’avvocatessa turca Ebru Timtik, morta il 27 agosto 2020, a 42 anni, in un carcere di Istanbul, dopo 238 giorni di digiuno totale, invocando per tutti il rispetto del diritto di difesa e del diritto ad un processo equo si terrà giovedì (ore 14.30), a Verona, nell’Aula della Corte d’Assise del Tribunale. Nell’Aula, sede dell’incontro, sarà affisso un grande manifesto con la foto simbolo dell’avvocata, donato dall’Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine ai presidenti dei Tribunali del Triveneto perché venga esposto negli uffici giudiziari in suo onore e in sua memoria. Introdurranno i lavori Antonella Magaraggia, presidente Tribunale; Alessandra Stella, presidente Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati; Barbara Bissoli, presidente Ordine degli Avvocati di Verona; Claudio Avesani, presidente Camera Penale veronese. Interverranno: Francesco Caia, componente Consiglio Nazionale Forense, coordinatore della Commissione per i Diritti Umani e della Commissione internazionale per i rapporti con il Mediterraneo, nonché presidente dell’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in Pericolo (OIAD); Roberto Giovene Di Girasole, componente titolare del Comitato di diritto penale del Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa (CCBE) e componente Commissione internazionale per i rapporti con il Mediterraneo. L’evento sarà trasmesso su piattaforma zoom ed è accreditato dall’Ordine Forense Veronese (2 crediti). Spoleto (Pg). Affidati tre cuccioli grazie al progetto “Fuori dalle gabbie” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2021 Finanziato dalla Fondazione Cave Canem, in collaborazione con il Comune e l’Istituto penitenziario. Affidati i primi tre cuccioli ospitati nel piccolo rifugio per cani realizzato presso il carcere di Spoleto grazie al progetto “Fuori dalle Gabbie” finanziato dalla Fondazione Cave Canem in collaborazione con il comune di Spoleto e l’Istituto Penitenziario della città. Sono proprio due detenuti del carcere di Spoleto, Marco e Paolo (nomi di fantasia), alle quali è stata affidata la gestione del piccolo rifugio per cani allestito nel penitenziario, che hanno salutato i primi tre cuccioli e li hanno affidati alle cure delle nuove famiglie. Sono otto i cuccioli accolti nel rifugio a fine estate, accuditi dai detenuti con amore e attenzione e accompagnati in un percorso di socializzazione per favorire le possibilità di adozione. Grazie al lavoro svolto, i primi tre cuccioli sono stati affidati alle nuove famiglie: Evita, Teo e Annibale hanno infatti trovato una nuova casa. Il progetto “Fuori dalle Gabbie” è un progetto innovativo della Fondazione Cave Canem Onlus, presente anche all’interno della Casa Circondariale di Napoli Secondigliano e nell’Istituto Penale per i Minorenni Casal del Marmo di Roma, che ha un duplice obiettivo: coinvolgere le persone detenute in percorsi formativi e lavorativi, che consentano l’acquisizione di competenze professionali, spendibili al termine della condanna o nel corso della stessa, e fornire un servizio qualitativamente elevato di gestione e di accudimento a favore dei cani senza famiglia, spesso vittime di abbandono e maltrattamenti e bisognosi di assistenza costante. La prima manifestazione di tale modello progettuale ha preso vita proprio a Spoleto, la Fondazione opera quale soggetto finanziatore e facilitatore per lo svolgimento delle attività, a supporto della Casa Circondariale, dell’Amministrazione comunale di Spoleto e del canile comunale della città “Questo è il senso del nostro progetto, chiudere il cerchio. Siamo partiti - dichiara Federica Faiella, Vicepresidente della Fondazione Cave Canem Onlus - con dei corsi di formazione a carattere teorico- pratico erogati dai professionisti della Fondazione alle persone detenute che hanno preso parte al progetto; i partecipanti al progetto hanno, successivamente, svolto lavori di pubblica utilità all’interno del canile comunale della Città di Spoleto, di manutenzione ordinaria e straordinaria. Nella seconda fase del progetto abbiamo allestito un piccolo canile rifugio, per i cani che necessitano di attenzioni particolari, all’interno della casa di reclusione di Spoleto e abbiamo affidato alle cure delle persone detenute, che lavorano all’interno del canile nella casa circondariale, il primo gruppo di cani. I volontari dell’Associazione Noi e Loro si sono occupati delle attività propedeutiche alle adozioni. Oggi siamo felici di annunciare che tre cuccioli di questo primo gruppo hanno finalmente trovato una famiglia amorevole!”. “Lettere da un carcere”. In cella al tempo del Covid. Storie di paura e amicizia di Caterina Maniaci Libero, 30 settembre 2021 Marzo 2020. Il lockdown è già scattato, la cappa di angoscia è calata sull’Italia e sul mondo, in preda alla pandemia. Esistono luoghi in cui essere chiusi, essere isolati è la quotidianità, la regola. Nelle carceri però i giorni della chiusura pesano più che mai. Non si possono più seguire le lezioni, scolastiche, sono sospesi gli incontri e i colloqui, ogni attività e contatto con l’esterno. La paura dilaga. Ecco cosa si legge in una lettera spedita in quei giorni da un detenuto ad un suo amico volontario che non può più venire a Bollate, istituto di pena nell’hinterland milanese: “È mancato poco che anche qui a Bollate scoppiasse una rivolta, perché ci sentivamo abbandonati; gli appuntati erano spaventati per quello che stava succedendo nelle altre carceri e molti si sono messi in malattia, e noi senza notizie ci stavamo facendo prendere dal panico. I nostri compagni di detenzione in carceri più disumane saranno stati colti dal timore di non potere più vedere e sentire i loro cari, il pensiero dei contagiati in carcere e delle cure inesistenti hanno fatto scoppiare questo casino”. Un volontario risponde alla lettera di amici in carcere e cerca di spiegare quello che prova: “Penso spesso a voi e devo dire che vi sento molto più vicini ora, forse perché condivido un po’ la vostra sorte in quanto sono agli arresti domiciliaci. Non posso vivere gli affetti come prima; con i figli e gli amici oramai i rapporti sono solo telefonici o con Skype, mentre ho una voglia matta di abbracciarli e baciarli e di passare del tempo con loro; la mia libertà, come del resto quella di tutti, è fortemente limitata e mi sento, come si suole dire, un uccellino in gabbia. Per non parlare della preoccupazione per il futuro”. Uno scambio continuo di pensieri, di impressioni, di condivisioni di paure e angosce, ma anche di speranze. Le lettere che arrivano dal carcere di Bollate, dunque, durante i lunghi mesi delle chiusure e dell’isolamento, sono state raccolte e presentate come un capitolo della lunga storia di amicizia e di trasformazione che un gruppo di volontari ha vissuto e vive nell’istituto di Bollate. Ne è nato dunque un libro intitolato “Lettere da un carcere”, edito dalla Ares, (pp.192, euro 14) con la prefazione di don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, scritto da Ida Matrone, in cui si dà testimonianza dell’amicizia, della compagnia e del sostegno offerti ormai da 35 anni a tantissimi detenuti dai volontari dell’Associazione Incontro e Presenza, fondata da Mirella Bocchini. Durante la pandemia le visite in carcere sono state sospese, così si è dovuto ricorrere alla corrispondenza tra volontari e carcerati, presentato da questo libro, in cui quelle parole prendono una sostanza e un volto. Da un mondo che guardiamo con diffidenza, se non con paura, arrivano le storie che invece ci mostrano che il male non ha l’ultima parola. Scrive infatti don Burgio: “le lettere di Rocco, Filippo, Claudio e di tante altre persone detenute sono il racconto intimo e sincero di chi sta ritrovando uno sguardo di speranza, in mezzo alla durezza di una condizione detentiva che spesso non incoraggia scelte di bene”. L’emergenza climatica oscurata, la protesta va in onda in redazione di Luca Martinelli Il Manifesto, 30 settembre 2021 Alla vigilia di preCop26 attivisti di Extinction Rebellion occupano pacificamente le sedi di giornali, radio e tv: ascoltateci. Erano tre i cartelli che ieri mattina, a Milano, nove gruppi di attiviste e attivisti di Extinction Rebellion - movimento internazionale che si batte per la giustizia climatica ed ecologica - hanno alzato occupando pacificamente le hall di alcune tra le più importanti televisioni, giornali e radio italiane. Dicevano: “Codice rosso per l’umanità: il clima è già cambiato”, “I governi parlano e non decidono”, “Aiutateci a raccontarlo”. Tradotto: siete davvero parte del problema o volete aiutarci ad affrontarlo? Il messaggio è stato recapitato nelle sedi di Sky, La Repubblica, La Stampa, RCS, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, Il Fatto Quotidiano, Open, Libero, Virgin Radio, Radio 101, Radio 105 e Radio Montecarlo. Anche se gli attivisti indossavano una pettorina con scritto “io sono nonviolento”, in un caso - Il Sole 24 Ore - sono stati strattonati, mentre non è stato possibile entrare al piano terra della torre che ospita la redazione milanese della Repubblica, dove il sit in si è svolto all’esterno. “Non abbiamo chiesto di parlare con i direttori, è stato una nostra scelta. Inutile entrare nelle loro stanze, ascoltare le loro parole, sempre a porte chiuse. Abbiamo chiesto di far scendere dei giornalisti e di fare un pezzo, come ha fatto Libero, che ha pubblicato un articolo corretto, senza distorcere i fatti, e siamo già andati in onda anche al Tg delle 13.30 su La7, nell’ambito di un servizio dedicato alla Pre-COP” spiega al manifesto Annalisa Gratteri, tra i portavoce di XR in Italia, tra le cinque persone entrare nella sede di RCS. “La Digos ci ha identificati ovunque, in un clima di serenità. Solo al Sole 24 Ore paiono intenzionati a denunciarci, per invasione arbitraria” aggiunge. L’azione, che si è chiusa alle 13, ha visto la presenza di attivisti italiani supportati anche da alcuni arrivati in Italia dal resto d’Europa per prender parte al Milano Climate Camp, che inizia oggi. Nel pomeriggio di ieri, alle 15, una seconda azione di Extinction Rebellion ha portato ad un sit-in in corso Sempione, di fronte alla redazione della Rai. Il messaggio era lo stesso del mattino: “Dovete trattare i cambiamenti climatici in maniera più sistematica e a 360 gradi, perché non basta riportare alcuni aspetti come i disastri meteorologici o le cosiddette “soluzione tecnologiche” ai problemi legati alle emissioni e al riscaldamento globale” sottolinea Gratteri. I sit-in di ieri fanno parte della settimana di mobilitazione lanciata da diversi movimenti italiani in occasione degli incontri della preCop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, in cui i delegati di oltre 40 Paesi del mondo si incontrano al MiCo center di Milano fino al 2 ottobre per confrontarsi informalmente sugli aspetti politici chiave del prossimo summit mondiale sul clima, in programma a Glasgow. Oggi sono attesi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e quello del Consiglio, Mario Draghi. Al Mico, intanto, è in corso anche “Youth4Climate”, la conferenza dei giovani sul clima da cui l’altro ieri Greta Thunberg ha tuonato contro l’inazione dei governi. Quasi 400 giovani, delegati da 186 Paesi, hanno discusso insieme - riuniti in tavoli di lavoro - quattro temi, per elaborare un documento con proposte da presentare oggi all’apertura della Pre-COP26. I temi: il ruolo dei giovani nella lotta alla crisi climatica, la ripresa sostenibile dopo la pandemia, il coinvolgimento degli attori non governativi nella lotta al cambiamento climatico, la costruzione di una società più consapevole delle sfide climatiche. “Ogni delegato porta la sensibilità del suo paese - racconta una dei due delegati italiani, Federica Gasbarro, 26 anni, studentessa di Scienze biologiche e green influencer. Il latinoamericano parla della povertà, quello del Madagascar dell’acqua. Ma non è difficile parlare di clima con i miei coetanei. Alla fine ci troviamo tutti d’accordo nel chiedere ai nostri governi di non rubarci il futuro”. Qualcuno deve aver consigliato al padrone di casa, il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, di cambiare tono. Così dice “i ragazzi sono fenomenali, sono bravissimi”, esortandoli in un incontro plenario fuori-programma ad essere “chiari e diretti”. L’endorsment più bello, però, è quello che arriva da Papa Francesco, che con un videomessaggio parla ai delegati per ringraziarli “per i sogni e i progetti di bene che voi avete e per il fatto che vi preoccupate tanto delle relazioni umane quanto della cura dell’ambiente”. La preoccupazione dei giovani fa bene a tutti, perché è una visione “capace di mettere in crisi il mondo degli adulti, poiché rivela il fatto che non solo siete preparati all’azione, ma siete anche disponibili all’ascolto paziente, al dialogo costruttivo e alla comprensione reciproca”. Bergoglio, che alla cura della nostra casa comune ha dedicato nel 2015 l’enciclica Laudato sii, avverte la stessa urgenza dei giovani: “Non c’è più tempo per aspettare, bisogna agire”. Decreto salva referendum, la Lega dice no per la cannabis di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 settembre 2021 In Cdm i ministri del Carroccio non votano le proroghe già concesse alle loro iniziative. Le 600 mila firme vanno consegnate entro il 31 ottobre (Gazzetta ufficiale permettendo). Era successo solo con l’orario del coprifuoco, ad aprile, e il governo Draghi ebbe un sussulto. Questa volta il fatto che nel Cdm di ieri mattina tutti e tre i ministri della Lega, per contrarietà ideologica, non abbiano partecipato al voto sul decreto legge che ha introdotto la par condicio fra tutti i referendum in lavorazione, anche quelli i cui quesiti siano stati depositati in Cassazione dopo il 15 giugno, irrita assai meno. Il fair play suggerisce infatti di non infierire su un partito in ginocchio che sta tentando disperatamente di riconquistare il titolo di “peggior nemico della droga”. Malgrado dunque l’astensione dei ministri Massimo Garavaglia (Turismo), Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico) e Erika Stefani (Disabilità), il Cdm ha approvato il decreto con disposizioni urgenti in materia di giustizia, assegno temporaneo e Irap, contenente tra le altre anche la proroga fino al 31 ottobre della deadline di consegna delle 600 mila firme raccolte a sostegno del referendum sulla cannabis legale. Naturalmente, in questo caso, a differenza che con l’orario del coprifuoco, l’approvazione del decreto non avrebbe in nessun modo contraddetto la politica proibizionista sposata dal partito di Salvini e Luca Morisi, perché non entra nel merito del quesito referendario ma si limita a riconoscere la difficoltà dei Comuni a certificare entro i termini di legge (48 ore) una tale valanga di firme. Ma, come da decalogo della “Bestia”, la sola parola “cannabis” può essere usata a mo’ di spauracchio, clava oppure anche, perché no, foglia di fico. “Il paradosso - fa notare il deputato di +Europa Riccardo Magi, del comitato promotore - è che il Cdm ha votato l’intervento che la stessa Lega aveva chiesto nei mesi scorsi a beneficio del referendum che ha co-promosso; e infatti la proroga venne poi estesa non solo ai quesiti depositati entro il 15 maggio ma anche a quelli arrivati in Cassazione entro il 15 giugno. Ed è davvero stupefacente: la strumentalità travolge anche le regole del gioco. Voglio invece ringraziare il presidente Draghi per aver sanato una discriminazione oggettiva”. I promotori hanno così deciso di interrompere lo sciopero della fame al quale hanno partecipato, a staffetta, “quasi 500 persone”, secondo quanto comunicato dall’Associazione Luca Coscioni, finanziatrice della raccolta firme online (costo dell’operazione: 500 mila euro). Malgrado la notizia della possibile proroga fosse arrivata durante il sit-in di martedì sera, i volontari del comitato hanno continuato a lavorare alacremente anche in queste ore per abbinare i certificati trasmessi via via dai Comuni alle sottoscrizioni, perché l’appuntamento di oggi in Cassazione resta confermato fino a quando il decreto non comparirà sulla Gazzetta ufficiale. Se la pubblicazione, che rende il decreto applicabile, dovesse arrivare troppo tardi, il comitato referendario chiederà alla Corte un “verbale aperto” da completare nei prossimi giorni. Anche il carroccio ha continuato a “lavorare”, però: c’è chi, infatti, come il deputato Igor Iezzi, capogruppo leghista in Commissione Affari costituzionali, la spara grossa e promette di fermare il decreto in Parlamento, in sede di conversione in legge. In realtà, a parte l’eventuale conteggio dei voti nelle camere a dir poco fantasioso, basteranno poche settimane ai promotori per concludere l’iter di deposito delle firme. Se n’è accorta perfino Forza Italia che definisce il decreto una “norma di giustizia sostanziale che consentirà il deposito senza problemi delle 600.000 firme già raggiunte”. Il deputato azzurro Elio Vito ricorda alla Lega di essersi “giovata della stessa proroga” per i referendum sulla “giustizia giusta” promossi con il Prntt e aggiunge: “In democrazia le norme debbono essere le stesse per tutti e non possono certo valere solo per le iniziative che si condividono”. Anche Emma Bonino ringrazia Draghi per il provvedimento arrivato in extremis, perché “si è dimostrato attento alle questioni dello stato di diritto”. E a proposito dei ministri leghisti Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) commenta: “Sono giorni che stanno dimostrando su molte questioni, anche quelle poco nobili, che sono i migliori eredi del Marchese del Grillo: loro devono essere tutelati, gli altri cittadini no…”. Il mondo con gli occhi dei Paesi più poveri di Francesco Bilotta Il Manifesto, 30 settembre 2021 “The Last 20”. L’altro “G20” itinerante, partito dalla Calabria, si concluderà a Santa Maria di Leuca. Guardare il mondo con gli occhi degli “ultimi”, i paesi più “poveri” del pianeta, quelli che gli indicatori economici e sociali e le statistiche internazionali collocano in fondo alla classifica. L’iniziativa “The Last 20” è il risultato della costruzione di un percorso alternativo per far emergere i problemi, le speranze, le istanze sociali, le lotte dei paesi impoveriti a causa di sfruttamento coloniale, guerre e conflitti etnici, catastrofi climatiche. Il primo incontro si è tenuto a Reggio Calabria dal 22 al 25 luglio, negli stessi giorni in cui a Napoli era in corso la passerella del G20 su ambiente, clima ed energia. Da una parte la voce dei rappresentanti dei paesi che stanno pagando il prezzo più alto per i cambiamenti climatici, dall’altra i 20 paesi più industrializzati che producono il 90% del Pil mondiale e l’85% dei gas serra. Se a Reggio Calabria erano stati i temi dell’immigrazione e dell’accoglienza ad essere affrontati, nelle successive tappe che hanno toccato Roma e Abruzzo e Molise, il confronto si è sviluppato su fame, insicurezza alimentare, mala agricoltura e sui temi della pace e del disarmo. Dal 24 al 27 settembre è stata Milano ad ospitare gli incontri degli “ultimi” 20 per analizzare due grandi questioni: l’impatto che il mutamento climatico ha sulle popolazioni dei paesi più fragili e la salute come bene comune globale. L’aggravamento della situazione sanitaria a causa del Covid impone più che mai di considerare la salute un bene primario su cui concentrare investimenti, aiuto internazionale, cooperazione. Con l’invocazione a sospendere i brevetti per salvare migliaia di vite in Africa, Asia, America latina e aumentare la nostra stessa sicurezza. In Africa, dove si concentra il maggior numero di paesi impoveriti, solo il 2% della popolazione ha avuto accesso al vaccino. Sul fronte climatico c’è stata la testimonianza di Sayed Hasnais, afgano di Unire (Unione nazionale rifugiati ed esuli), che ha evidenziato il fenomeno crescente della desertificazione e i conflitti sempre più acuti per accedere alle fonti d’acqua. “Le guerre supportano il cambiamento climatico che, a sua volta, alimenta i conflitti”, ha affermato. Il divario intollerabile che si è prodotto con i paesi “arricchiti” non può essere ignorato negli incontri di preparazione alla Cop 26 (conferenza mondiale sul cambiamento climatico) che si terranno in questi giorni nel capoluogo lombardo, in vista del vertice di Glasgow dall’1 al 12 novembre. Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica democratica del Congo, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea Bissau, Haiti, Libano, Liberia, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan, Yemen sono paesi di cui si parla soprattutto per le emergenze che devono affrontare, più che per il loro patrimonio naturalistico e culturale. Tonino Perna, coordinatore del comitato “The Last 20”, ha più volte sostenuto che “è necessario affrontare le sfide planetarie partendo dalla prospettiva dei paesi impoveriti, perché il pianeta va visto come un organismo vivente e bisogna misurare la temperatura sociale, economica e ambientale nelle sue parti più fragili”. Il prossimo appuntamento si svolgerà a fine ottobre a Santa Maria di Leuca, ultima tappa di questo meeting itinerante, dove verrà presentato un documento finale. Ma questa esperienza non si esaurisce. Verrà costituito un osservatorio permanente che, sulla base di indicatori sociali, economici e ambientali e con la collaborazione di organismi locali, produrrà un report annuale per monitorare nel tempo la situazione degli “ultimi” 20 e per evidenziare quei percorsi che possono favorire nuove dinamiche di autosviluppo. Egitto. L’attivista Alaa Abdel Fattah in carcere senza processo da due anni di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2021 “Illegale, la sua vita in pericolo”. Il mese di ottobre si annuncia molto delicato. Al-Sisi, come spesso accade, tra il 6 e il 18 ottobre, in occasione di due anniversari importanti (in particolare quello della guerra del Kippur contro Israele del 1973), è solito concedere la grazia a molti detenuti. Ma dopo che l’attivista ha espresso il pensiero di togliersi la vita, le restrizioni nei suoi confronti sono addirittura aumentate Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre l’Egitto ‘celebra’ una raffica di detenzioni ‘illegali’. Sono passati esattamente due anni dalle manifestazioni di piazza che hanno infiammato Il Cairo e altre città egiziane, le prime dopo anni di silenzio e di teste chine nei confronti del regime. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi non perse tempo all’epoca e nel giro di pochi giorni stazioni di polizia, caserme e penitenziari si riempirono di oltre 2mila cittadini arrestati. Molti furono subito rilasciati, ma tanti finirono in cella senza neppure prendere parte ai moti di rivolta. Tra loro anche Alaa Abdel Fattah, il leader della rivoluzione egiziana del gennaio 2011, fermato mentre si trovava nella stazione di polizia del suo quartiere, Doqqi, lo stesso dove abitava Giulio Regeni. Più volte arrestato e condannato in passato, anche sotto il regime di Hosni Mubarak, Abdel Fattah stava scontando un periodo di libertà vigilata successivo a una condanna pregressa: 12 ore in libertà, dalle 6 alle 18, le altre nella cella di sicurezza della stazione. All’alba del 29 settembre, esattamente due anni fa, il noto attivista non si presentò all’uscita: nei suoi confronti era scattata la misura per un nuovo caso con le solite accuse di terrorismo e diffusione di false notizie. Al suo avvocato, Mohamed al-Bakr, che si presentò alla stazione di Doqqi per chiedere conto di quanto accaduto toccò la stessa sorte. Anche per lui, oggi, scadono i termini di detenzione in attesa di giudizio. La legge egiziana parla chiaro: dopo 24 mesi dall’arresto la procura dovrebbe rilasciare il singolo detenuto. Per Abdel Fattah, al-Bakr e decine di attivisti per la tutela dei diritti umani in Egitto tutto ciò non sembra contare. Ci pensa Gamal Eid, storico attivista e dirigente dell’Anhri (Arab network of human rights information) e lui stesso tartassato dai regimi del Cairo, a riassumere quanto sta accadendo: “C’è una quantità eccezionale di persone in detenzione illegale. Molti, nei giorni scorsi, sono stati avvicinati da funzionari dell’Agenzia nazionale per la sicurezza (Nsa) chiedendo le loro intenzioni e promettendo il rilascio, ma al prezzo di non avere alcun contatto con le ong che si occupano di diritti umani, compresa quella che dirigo”. Eid di recente ha lanciato una campagna per denunciare questi episodi. La settimana scorsa la stessa denuncia è stata avanzata da alcuni avvocati i cui clienti hanno ricevuto l’identica ‘proposta’: ti tiro fuori dal carcere, ma al primo segnale di ostilità ti richiudo in cella e butto via la chiave. A tirare fuori la notizia è stato il sito giornalistico Mada Masr, oscurato dal regime ma in grado di operare bypassando la censura grazie a canali internazionali. Il mese di ottobre si annuncia molto delicato. Al-Sisi, come spesso accade, tra il 6 e il 18 ottobre, in occasione di due anniversari importanti (in particolare quello della guerra del Kippur contro Israele del 1973), è solito concedere la grazia a molti detenuti. Un modo per dimostrarsi magnanimo e al tempo stesso per decongestionare le carceri del Paese, iperaffollate. A tal proposito, nei giorni scorsi lo stesso presidente ha annunciato l’imminente costruzione di un nuovo ed enorme penitenziario sullo stile di quelli realizzati negli Stati Uniti. Strategia comunicativa di un leader supportato dalle potenze internazionali e a cui tutto viene concesso. Nel settembre 2019, la notte tra il 19 e il 20, per la prima volta dai tumulti della rivoluzione di Piazza Tahrir il popolo scendeva in strada per protestare contro la corruzione del governo e delle istituzioni. Una reazione fomentata dall’attore e imprenditore Mohamed Ali, ex collaboratore di al-Sisi con cui poi è entrato in contrasto, fuggito e da anni riparato a Barcellona. Nessuna delle principali organizzazioni egiziane - oltre ad Anhri anche quella dove per anni ha lavorato Patrick Zaki, l’Eipr, l’Ecrf che da anni segue il caso Regeni e tante altre - appoggiò quella rivolta e tanto meno ha mai considerato Mohamed Ali una persona limpida. Eppure la scure del regime si è abbattuta soprattutto su quelle organizzazioni che hanno a cuore il rispetto dei diritti umani e civili. I vertici dell’Eipr sono stati arrestati nel novembre del 2020, i beni e i conti bancari congelati e una volta rilasciati sono ridotti ai margini dell’organizzazione. Lo stesso leader attuale, tra i fondatori della ong, Hossam Bahgat, il 2 novembre finirà alla sbarra per un procedimento legato alle sue presunte offese nei confronti della gestione delle elezioni del Parlamento, sempre nel 2020. Impossibile ricordare tutti i soggetti in carcere da due anni e che invece di essere rilasciati stanno marcendo in cella. Da Haitham Mohammedin al blogger Mohamed Oxigen e poi noti politici come Abdel Moneim Abul Fotouh e Ziam el-Aini. Il caso limite è quello dell’avvocato della famiglia Regeni, Ibrahim Metwaly Hegazy, in cella da quasi quattro anni e vittima di ben tre nuovi casi giudiziari che stanno posticipando il suo giudizio o il suo rilascio nel tempo. È giusto tornare infine ad Alaa Abdel Fattah. Il 12 settembre scorso, durante l’ennesima udienza-farsa per il rinnovo della sua detenzione, Abdel Fattah si è lasciato andare a uno sfogo preoccupante: “Non riesco più a sopportare questo stato di cose, sto seriamente pensando al suicidio”. La sua famiglia è preoccupata: “La vita di Alaa è in pericolo - hanno scritto in una dichiarazione pubblica la madre Laila e la sorella Mona, l’altra sorella Sana è in cella nel carcere femminile di Qanater da più di un anno - Subisce continue violazioni e nel corso dell’ultima udienza ha reagito in quel modo. Alaa è prigioniero nel carcere di alta sicurezza di Tora 2, in attesa del processo da quasi 2 anni (adesso superati, ndr), il periodo massimo di detenzione preventiva secondo la legge egiziana”. La situazione sta diventando paradossale nella sua drammaticità. Da giorni la madre di Alaa Abdel Fattah staziona davanti l’ingresso del carcere di Tora. Chiede di poter incontrare il figlio o almeno di fargli recapitare lettere e beni di prima necessità e di ricevere in cambio le sue lettere. Dopo lo sfogo di Abdel Fattah in procura, le autorità carcerarie hanno tagliato le comunicazioni. L’ennesimo abuso di potere. Afghanistan. I talebani “aprono” il carcere di Bagram, vergogna degli Usa di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 30 settembre 2021 Nella prigione venivano torturati migliaia di prigionieri politici. Con l’arrivo al potere, i talebani hanno aperto la famigerata prigione afghana di Bagram, riservata ai prigionieri politici e ai sospettati di terrorismo. La struttura penitenziaria è stata abbandonata il 15 agosto scorso in fretta e in furia dal personale militare Usa, dalle celle sono fuggiti così in circa 5mila, Gli internati si sono impadroniti delle armi lasciate dalle guardie e hanno liberato tutti gli altri. In molti sono tornati tra le fila degli studenti coranici e altri hanno cominciato a raccontare cosa succedeva nella struttura. Il Centro di detenzione di Parwan, noto come Bagram, oppure come veniva definita popolarmente: la Guantánamo dell’Afghanistan, fu costruito alla fine del 2001 per imprigionare i combattenti dopo che i Talebani diedero vita ad una ribellione all’indomani dell’invasione americana. La prigione sorta all’interno di una base aerea doveva essere temporanea ma presto divenne parte integrante del sistema carcerario. I racconti dei detenuti si concentrano in particolare sul le cosiddette “tecniche di interrogatorio potenziale”. Un linguaggio burocratico che equivaleva a vere e proprie torture. Nel corso degli anni diverse ong per la difesa dei diritti umani hanno messo in luce le violazioni del diritto internazionale. A cominciare dalle condizioni di sovraffollamento delle celle (fino a 34 persone stipate in ambienti minuscoli, senza finestre), isolamento per settimane o mesi senza luce o con una lampadina accesa 24 ore su 24, scarse condizioni igieniche e poi gli interrogatori condotti con l’uso di scosse elettriche, i pestaggi, la rottura dei denti e delle mani. Oppure sedute di waterboarding o gas lacrimogeno riversato da aperture sul soffitto sui prigionieri addormentati. Qualcuno degli ex internati ha raccontato anche di abusi sessuali. L’insieme di questi metodi veniva definito “carcere nero”, qualcosa di segreto e inconfessabile che gli Usa continuano negare. Inoltre nessuno delle migliaia di detenuti che sono passati per il sito durante i 20 anni della guerra americana, ha ricevuto lo status di prigioniero di guerra. Si trattava per l’85% di Talebani anche se c’erano diversi miliziani dell’Isis dei quali però non si conosce la sorte. Nel 2002, dopo la morte di due prigionieri afgani, il centro è stato sottoposto a ispezioni e sette soldati sono stati accusati ufficialmente. Ma le violenze continuarono e presto entrarono a far parte del cosiddetto “Manuale di Bagram”. Il mullah Nooruddin Turabi, nuovo capo del sistema carcerario afgano, pungola gli Usa: da: “Non siamo come gli americani che dicono di difendere i diritti umani ma commettono crimini terribili. In Afghanistan non ci saranno più torture e fame”. Secondo Turabi il nuovo personale carcerario includerà membri del vecchio sistema e verranno introdotte modifiche de del codice penale. L’intento è dimostrare che la giustizia islamica è più umana di quella occidentale. Per ora però rimane il taglio delle mani. Ecuador. 116 morti negli scontri fra gang nel carcere di Guaqyaquil Corriere della Sera, 30 settembre 2021 Il bilancio è ancora provvisorio. Le vittime sono tutte detenuti. Il presidente ecuadoriano, Guillermo Lasso, ha riferito che 116 detenuti sono morti e 80 feriti dopo lo scontro registrato martedì nel carcere numero 1 di Guayaquil, noto anche come penitenziario di Litoral. Il presidente, in una conferenza stampa, ha definito “deplorevole” e “triste” l’esito della violenta rissa nel carcere, e ha rimarcato che sinora “sono stati segnalati 116 morti e circa 80 feriti; sono tutti carcerati, non sono personale civile” o guide carcerarie. “È deplorevole che le carceri si stiano trasformando in un territorio di contese di potere tra bande criminali”, ha sottolineato Lasso e ha affermato che una delle prime azioni per affrontare questo fenomeno è stata quella di dichiarare uno “stato di eccezione” in tutto il sistema carcerario del Paese. “Dichiarare lo stato di eccezione per grave tumulto interno in tutti i centri carcerari che compongono il sistema di riabilitazione sociale a livello nazionale, senza alcuna eccezione, per un periodo di 60 giorni dalla firma del presente decreto dirigenziale”, dice il documento firmato dal capo dello Stato. Allo stesso modo, il presidente ha indicato che è stato avviato un processo di coordinamento tra le diverse istituzioni statali, con l’obiettivo di “riprendere con assoluta fermezza il controllo del Penitenziario Litoral e impedire che questi eventi si ripetano in qualche altro centro penitenziario in Ecuador”. Ha sottolineato che il governo cerca di proteggere i diritti umani dei detenuti e anche di accompagnare i parenti dei detenuti e che, per questo, è stato istituito un centro per fornire loro informazioni sui loro parenti. Lasso ha ricordato che il governo, da alcuni mesi e a causa dei ricorrenti episodi di violenza nelle carceri, ha progettato un piano che cerca di rafforzare il controllo delle carceri, attraverso significativi investimenti in infrastrutture e tecnologia di sorveglianza. Quel piano aveva una durata di due anni, ha detto il presidente, che data la situazione attuale accelererà. Ha aggiunto che il Servizio nazionale per l’attenzione globale alle persone private di libertà e agli adolescenti delinquenti (Snai) riceverà le risorse necessarie per intraprendere questo piano nel carcere di Guayaquil, ma che sarà successivamente esteso ad altre carceri. Brasile. I 1.000 giorni di Bolsonaro, un disastro per i diritti umani in Brasile di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 settembre 2021 Dal 1° gennaio 2019, quando Jair Bolsonaro s’insediò alla presidenza del Brasile, sono ormai passati 1000 giorni. Il bilancio dell’azione del governo federale nel campo dei diritti umani segna un fallimento completo. Amnesty International ha individuato 32 situazioni in cui la presidenza Bolsonaro ha causato violazioni dei diritti umani ai danni di milioni di brasiliani: alla loro salute, ai loro corpi, ai loro mezzi di sostentamento. La completa perdita di controllo sul possesso delle armi ha aggravato la crisi di sicurezza pubblica e ulteriormente militarizzato le zone più povere delle metropoli brasiliane; gli spazi di libertà ove esercitare il diritto di protesta sono stati ridotti; autoritarismo, intimidazioni e aggressioni verbali sono state il tratto caratteristico dei rapporti con la stampa; i popoli nativi hanno perso le loro terre a causa dei pascoli intensivi, del deforestamento e dei progetti minerari. La gestione della pandemia, tra negazionismo e riduzionismo, ha causato quasi 600.000 morti. I disoccupati sono oltre 14 milioni e 19 milioni di persone sopravvivono a stento. Il risultato di questi 1000 giorni è che buona parte del Brasile è un paese affamato, abbandonato dai servizi pubblici e privato di diritti fondamentali come la salute e il lavoro.