Lo scandalo delle “Case di lavoro”. Il fascismo è ancora tra noi di Marica Fantauzzi Il Riformista, 2 settembre 2021 Colonie agricole e Case di lavoro furono istituite nel 1931 dal Codice Rocco. Anche se molte sono state smantellate, 90 anni dopo alcune resistono: come a Vasto, accolgono detenuti reclusi per la loro “pericolosità sociale”. Un giorno qualunque di giugno, a pochi passi dall’Università La Sapienza di Roma, un ragazzino di 18 anni accoltella il padre. La mattina dopo una signora, che abita nello stabile dove è successo il fatto, è al bar a commentare l’accaduto. L’uomo è il portiere del suo palazzo e il figlio le è sempre sembrato un tipo “pericoloso”. Pare che il ragazzo fosse uscito da una comunità dopo il compimento della maggiore età e che il ritorno a casa lo avesse fortemente turbato. “Che poi oltre alla malattia mentale - continua la signora - sono sicurissima che si droghi. Si aggira come un fantasma per le strade, in cerca della roba”. Roteando nervosamente il cucchiaino nella tazzina, la signora si chiede quale sia la cosa giusta da fare. “Questa gente va portata via, non per cattiveria, ma per necessità. Esisteranno dei posti per chi è pericoloso, per chi non sa stare nella società”. Finito il caffè, la signora poggia il cucchiaino e guarda l’orologio. “Voi sogghignate - dice, rivolgendosi ai clienti del bar - ma questo riguarda anche voi”. In Italia, non per necessità ma per legge, i posti di cui parlava la signora esistono dal 1931, anno in cui “Per grazia di Dio e per volontà della Nazione” entrò in vigore il codice Rocco. Le case di lavoro e le colonie agricole furono istituite con l’intento di “riadattare gli internati alla vita sociale” tramite il lavoro obbligatorio. “Sono assegnati a una colonia agricola o ad una casa di lavoro: 1) coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza; 2) coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e non essendo più sottoposti a misure di sicurezza. commettono un nuovo delitto, non colposo, che sia nuova manifestazione della abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere”. Il Codice era ispirato al doppio binario per la repressione dei reati: la pena per il reato commesso e la misura di sicurezza per prevenire che l’autore del fatto reiterasse il comportamento criminale. E in questo quadro, il lavoro veniva considerato come “mera modalità dell’espiazione”. Con l’ordinamento penitenziario del 1975, tale impostazione viene ribaltata e il lavoro, insieme alla formazione, verranno considerati elementi essenziali per la “rieducazione del condannato”. L’obbligatorietà del lavoro detentivo venne successivamente abolita con il nuovo art. 20 dell’ordinamento penitenziario, stabilendo che l’organizzazione e i metodi del lavoro all’interno degli istituti “devono riflettere quelli del lavoro nella società libera”. A novant’anni dall’approvazione del Codice Rocco, se molto è stato smantellato, c’è qualcosa che resiste, un reperto archeologico che riguarda meno dell’i% della popolazione ristretta: le case di lavoro e le colonie agricole. Gli internati in queste strutture sono poco più di 300, non devono scontare una pena per un reato commesso, ma sono soggetti a misure di sicurezza per via della loro “pericolosità sociale” - stabilita di volta in volta da un giudice. Fino a poco tempo fa, non esisteva un limite al rinnovo della misura di sicurezza. Poi, con la riforma del 2014, si è deciso che le misure non potessero durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso. Se l’internato aveva scontato 7 anni di carcere per un reato, avrebbe potuto trascorrere al massimo 7 anni in casa lavoro. La maggior parte delle case di lavoro sono collocate dentro istituti’ penitenziari o, come nel caso di quella di Vasto, in ex istituti penitenziari o ex istituti psichiatrici. Del nome originario è rimasto poco o niente: la casa ha le celle e le celle hanno le sbarre. E il lavoro, quando c’è, si limita a quello che garantisce il funzionamento della struttura: c’è lo spesino, il portavitto, lo scopino e forse il giardiniere. “Le Case di lavoro non hanno nessun motivo di esistere. Chi ha scontato la pena ha il diritto di non essere identificato dallo Stato con il reato commesso in passato”. Don Silvio è il cappellano della Casa di lavoro di Vasto e negli anni ha accompagnato gli internati nel tormentato percorso verso la revoca della pericolosità sociale. Ma revocare qualcosa che non esiste ancora non è cosa semplice, né pienamente in linea con i principi della Carta costituzionale. “Alcuni reparti della Casa - continua il parroco abruzzese - sono peggio di istituti psichiatrici o del carcere, perché rinchiudono persone riducendole a fantasmi. Fantasmi che non hanno avuto un processo né una cura, ma si trascinano per anni in attesa che qualche anima li tiri fuori da questo limbo”. Il tempo che trascorrono lì dentro è ingannevole, sonno e veglia hanno confini evanescenti, non c’è un prima e non c’è un dopo. “Ci sono la solitudine, il caffè e gli psicofarmaci”. Quando agli internati di Vasto viene concessa la libertà vigilata, Don Silvio e gli altri operatori cercano di sbrigarsi. Contatti con la famiglia. documenti, cure mediche. “Un giorno rilasciarono un internato di 80 anni. Non aveva casa, né documenti né pensione. A quel punto venne a stare da me”. Non tutti gli internati hanno un Don Silvio a cui affidarsi. Né tutti i luoghi di limitazione della libertà portano, infine, alla libertà. La signora che sorseggiava il caffè in quel pomeriggio di giugno aveva ragione soltanto su una cosa: quello che accade lì dentro riguarda anche noi. Detenuti con malattie mentali: una questione irrisolta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2021 Dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, appare chiaro che nelle carceri permane il problema, ancora irrisolto, dei detenuti con patologie psichiatriche. Problema che incide molto sugli agenti penitenziaria, i quali per ovvie ragioni non hanno la competenza per poter rapportarsi con loro. A quello ci devono pensare gli operatori sanitari e psichiatri. Come spiega Antigone nel rapporto, il vigente ordinamento penitenziario, nello specifico il regolamento di esecuzione D. P. R 230/ 2000 agli artt. 111 e 112, prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. Tali reparti sono destinati a condannati o internati che sviluppino una patologia psichiatrica durante la detenzione o a condannati affetti da vizio parziale di mente, e si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti. Molto spesso infatti, l’approccio terapeutico nelle sezioni di osservazione si limita al contenimento del detenuto, spesso in acuzie, e alla somministrazione della terapia farmacologica, dando priorità alle ragioni di ordine e sicurezza, come dimostrato dalla presenza in alcuni di questi reparti delle cosiddette celle lisce. Ha una grave patologia psichiatrica, è incompatibile con il carcere: ma resta dentro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2021 Nonostante due perizie del tribunale abbiano accertato l’incompatibilità di Giuseppe Giorgio con la detenzione i giudici rigettano l’istanza di modifica della misura cautelare in ricovero in una struttura adeguata. Condannato in primo grado a sette anni per aver aggredito due persone, è affetto da un grave delirio paranoide, non è curato, la visita da parte di uno psichiatra si è limitata a solo tre volte nell’arco della sua custodia cautelare nel carcere di Foggia che dura da un anno e mezzo. “Da 18 mesi, nel carcere di Foggia è detenuto un ragazzo affetto da una grave patologia psichiatrica a cui vengono negate le cure dallo Stato. Penso che questa sia una barbarie!”, denuncia a Il Dubbio l’avvocata Ameriga Petrucci che assiste il 30enne. È in carcere da 18 mesi per una condanna a 7 anni - Si chiama Giuseppe Giorgio, è in carcere nonostante sia incompatibile per la sua patologia psichiatrica come evidenziano ben due perizie disposte dai tribunali. È affetto da una gravissima psicosi paranoide, ma essendo stato dichiarato capace di intendere e di volere, è stato condannato a sette anni di carcere per aver aggredito due clienti di un supermercato. Dalle carte che Il Dubbio ha potuto visionare, risulta che due perizie psichiatriche, una disposta dal gip del tribunale di Potenza, in sede di convalida dell’arresto, e un’altra, disposta dal Tribunale del Riesame di Potenza, hanno dichiarato l’assoluta incompatibilità dello stato di salute di Giuseppe Giorgio con la detenzione in carcere e la necessità del suo ricovero nello spazio psichiatrico o in una Rems. In passato ha subito un trattamento sanitario obbligatorio - Già, in passato, prima di commettere il reato, ha subito un trattamento sanitario obbligatorio a causa della sua psicosi, ma il servizio sanitario locale non lo ha seguito. La riforma della legge Basaglia che ha abolito i manicomi si regge esattamente sul fatto che nel territorio esista una rete di servizi e presa in carico delle persone affette di patologie psichiatriche. Se alcune realtà non le mettono in pratica, si creano situazioni come questo ragazzo. Un giorno, spinto dal suo delirio paranoide, Giuseppe ha aggredito con un martello dei clienti di un supermercato. Fortunatamente non hanno subito lesioni gravi. Leggendo le perizie, si apprende che il ragazzo riferisce di un “sistema di complotti” contro di lui che si verifica da svariati anni e gli impedirebbe di sostenere una vita normale e di ottenere un’indipendenza lavorativa ed abitativa. Riferisce inoltre che il supermercato dove ha commesso il reato aggredendo due persone con il martello, venderebbero prodotti “artefatti” che gli avrebbero determinato uno stato di astenia e dimagrimento. Non solo. Riporta inoltre che avrebbe aggredito il cliente poiché convinto che questi facesse parte di un “sistema di complotti” a suo danno. Questo “sistema” descritto sarebbe presente anche in carcere dove cibo e acqua sarebbero ugualmente “artefatti”. Riporta inoltre che le persone attorno a lui, da sempre, cambierebbero aspetto e sesso e lo perseguiterebbero. L’avvocata Petrucci ha presentato un’istanza per la modifica della misura cautelare - L’avvocata Ameriga Petrucci, con l’istanza presentata il 4 maggio scorso 2021, ha richiesto la modifica, e non già la revoca, della misura cautelare in carcere con quella di collocamento in Rems al fine di garantire a Giorgio Giuseppe, affetto da una grave patologia psichiatrica, le cure adeguate. La richiesta è stata avanzata a seguito del ricovero d’urgenza - periodo limitato - presso lo Spazio psichiatrico degli Ospedali Riuniti di Foggia, resosi necessario a causa dell’aggravamento delle sue condizioni e sul presupposto, documentato dagli atti di causa (diario clinico della Casa circondariale di Foggia e relazione a firma della dottoressa dello Spazio psichiatrico, allegata all’istanza di modifica), della totale assenza di cure da parte del carcere di Foggia e della loro assoluta inadeguatezza. Nello spazio psichiatrico ha ricevuto la terapia necessaria, interrotta nel momento in cui è stato riportato in carcere. Motivo in più, secondo la difesa del ragazzo, di richiede che le cure impostate dall’Spdc vadano necessariamente proseguite in una struttura medica specifica in ragione della pericolosità dell’imputato. Struttura che ha tutti gli strumenti per poter fornire assistenza, cure e terapie in regime di sicurezza. Ma nulla. L’ultimo rigetto da parte del tribunale di riesame c’è stato il 27 agosto scorso, nonostante il perito disposto dal giudice stesso abbia ribadito l’incompatibilità con il carcere. Ancora non si conoscono le motivazioni, ma l’avvocata Petrucci è lapidaria: “È barbarie di Stato”. La riforma penale e le incertezze della parte civile di Angelo Salvi* L’Opinione, 2 settembre 2021 Nella notte tra il 2 ed il 3 agosto 2021 la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge recante la “delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, meglio noto come riforma Bonafede-Cartabia. In attesa dell’esame da parte del Senato, i primi commentatori hanno sollevato perplessità sulla tenuta costituzionale degli istituti che il disegno di legge introduce, e più in generale sulla valenza complessiva della riforma e sulla sua idoneità a raggiungere gli obiettivi dichiarati, coniugando le esigenze di efficientamento del sistema con i diritti e le garanzie delle parti del processo penale. Uno dei nodi più complessi è quello relativo alla nuova improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione - istituto in ragione del quale il processo penale si conclude ex abrupto con la declaratoria di improcedibilità se il giudizio d’appello o quello di cassazione non vengono definiti nel termine massimo indicato dal nuovo articolo 344-bis Codice di procedura penale - in relazione alla quale si rimanda, per una più articolata disamina. La riforma interessa profili più propriamente civilistici, poiché le modifiche riguardano anche il testo dell’articolo 578 Codice procedura penale. Nella formulazione attuale esso ha per oggetto gli effetti civili della decisione con cui il giudice penale dichiara l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione; lo si riforma inserendo un nuovo Comma 1-bis, a mezzo del quale si prevede che “Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di Cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis,rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale”. Un primo dato balza agli occhi: mentre nel caso di declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione al giudice penale è comunque riservata la decisione sull’impugnazione, se pure ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (articolo 578, comma 1, Codice di procedura penale), ciò non avviene nel caso di declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (nuovo art. 578, comma 1-bis, del Codice di procedura penale). Tale scelta sembra conseguire al fatto che gli istituti di cui al comma 1 dell’articolo 578 Codice di procedura penale hanno natura sostanziale, mentre l’improcedibilità di cui al comma 1-bis avrebbe natura strettamente processuale. Probabilmente è tale considerazione che ha indotto gli estensori del disegno di legge a optare per una formulazione del testo della novella diverso da quello esteso nel comma 1 dell’articolo 578 del Codice di procedura penale e molto più simile a quello contenuto nell’articolo 622 del Codice di procedura penale relativo al diverso caso di annullamento della sentenza ai soli effetti civili da parte della Corte di Cassazione. Viene così sancita una netta separazione delle posizioni processuali dell’imputato e della parte civile: al primo (l’imputato) - nella più generale cornice delle finalità deflattive del processo penale tracciata dal disegno di legge - viene assicurato l’immediato accesso a un istituto (l’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione) che chiude all’istante la vicenda penale e che è, peraltro, in netta ed evidente controtendenza rispetto alla pur recente riforma della prescrizione operata con la legge 9 gennaio 2019 n. 3; alla seconda (la parte civile) viene invece preclusa la facoltà di veder decisa in via definitiva la pretesa risarcitoria legittimamente avanzata nella sede penale, che dovrà giocoforza migrare nella differente sede civile. La distonia ha destato condivisibili perplessità, per le pregiudizievoli ricadute sulla posizione della parte civile; perplessità ben sintetizzate nel parere reso dal Csm lo scorso 29 luglio 2021, quando il disegno di legge ancora doveva essere approvato alla Camera dei deputati: “A parte l’equivoca disposizione in cui è previsto che il giudice civile decida “valutando le prove acquisite nel processo penale” di cui non è chiara la assoluta intangibilità delle prove assunte in altro giudizio, si può paventare un effetto paradossale dalla riforma, ossia che la ragionevole durata del processo sia assicurata solo agli imputati, mentre per le parti civili vi sarebbe una disciplina deteriore rispetto a quanto ad oggi previsto dall’articolo 578 del Codice di procedura penale in caso di dichiarazione di prescrizione del reato pronunciata nel giudizio di gravame. Infatti in tali ultimi casi la norma fa salva la decisione di primo grado di condanna al risarcimento del danno anche con un’eventuale provvisionale, a volte con la provvisoria esecutività di tali statuizioni (articoli 539-540 del Codice di procedura penale), che diverrebbero invece inefficaci a seguito della declaratoria di improcedibilità”. I punti controversi sembrano essere sostanzialmente tre: 1) la riforma assicura la ragionevole durata del processo penale, ma pregiudica la posizione della parte civile, in quanto la sua pretesa risarcitoria non è definita nella sede prescelta (penale) ma reindirizzata al giudice civile, con inevitabile dilatazione dei tempi processuali; 2) le prove verrebbero acquisite nel primo grado di un processo penale che si concluderebbe poi, in appello (o in cassazione), con una declaratoria di improcedibilità, con successiva valutazione delle prove assunte in sede penale da parte del giudice civile; 3) la parte civile subirebbe l’ulteriore pregiudizio per il fatto che le statuizioni civili contenute nella sentenza penale di condanna resa nel primo grado di giudizio (il riconoscimento della cosiddetta provvisionale) risulterebbero inefficaci a seguito della sentenza di improcedibilità pronunciata dal giudice dell’impugnazione. Quello della ragionevole durata del processo è un tema la cui portata non è limitata alla posizione dell’imputato; si tratta di un diritto di valenza e carattere generali, che l’articolo 111 della Costituzione e l’articolo 6 della Convenzione Edu assicurano a tutte le parti del processo, civile o penale che esso sia. Le Corti internazionali - in particolare la Corte Edu - sono sempre più tese a valorizzare il diritto della vittima di reato alla ragionevole durata del processo: basti ricordare la recente sentenza della Corte Edu, Sezione I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia, ric. n. 24340/07, con cui l’Italia è stata condannata per l’ingiustificata inerzia dell’autorità giudiziaria, che in un caso di non particolare complessità, e senza che fossero compiuti atti istruttori, aveva concluso le indagini preliminari dopo ben cinque anni e mezzo con un provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato, che aveva precluso alla persona offesa di agire per il risarcimento del danno da reato, mediante l’esercizio dell’azione civile nel tipo di procedimento (penale) che egli aveva scelto di avviare in conformità alle vigenti disposizioni di legge. Vi è inoltre da considerare che la decisione della vittima di reato di azionare la pretesa risarcitoria davanti al giudice penale piuttosto che di introdurla in un autonomo giudizio civile, deve ritenersi il risultato di una scelta consapevole operata dalla persona offesa, che si prende i vantaggi indubbiamente connessi all’economia processuale del simultaneus processus, rinunciando però alle specificità del processo civile, consapevole del fatto che “al di fuori di quanto attiene alla natura “civilistica” dell’azione, i poteri ed i comportamenti processuali della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale”. La persona offesa potrebbe inoltre decidere di esperire l’azione civile nel processo penale in considerazione di specifiche valutazioni legate alle diverse modalità di introduzione della prova nel processo, che caratterizzano e differenziano la sede penale da quella civile. È noto infatti che nel processo penale, per effetto di quanto disposto dall’articolo 191 Codice di procedura penale, “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Non così nel processo civile, ove “la categoria dell’inutilizzabilità prevista ex articolo 191 Codice di procedura penale in ambito penale non rileva” in quanto le c.d. prove atipiche sono comunque ammissibili, nonostante siano state assunte in un diverso processo in violazione delle regole a quello esclusivamente applicabili, e questo è possibile perché il contraddittorio è comunque assicurato dalle modalità tipizzate di introduzione della prova, tipiche del giudizio civile. Il citato parere del Consiglio Superiore della Magistratura richiama l’equivoca disposizione che rimette al giudice civile la valutazione di prove acquisite nel processo penale. Il Csm dubita della “assoluta intangibilità” nella sede civile delle prove assunte nel giudizio penale e il dubbio appare non scevro di fondamento, perché il comma 1-bis dell’articolo 578 del Codice di procedura penale sembra autorizzare il giudice civile a valutare in quella specifica sede le risultanze dell’istruttoria risalente al processo penale di primo grado, secondo un meccanismo non dissimile da quello previsto nell’ambito del giudizio di rinvio ex 622 del Codice di procedura penale, rispetto al quale la Corte di Cassazione ha più volte chiarito che “la corte di appello competente per valore, alla quale la Corte di cassazione in sede penale abbia rinviato il procedimento ai soli effetti civili, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte nel precedente giudizio penale e ricavate direttamente dalla sentenza rescindente”, e sottoporle - al pari di qualsiasi altra prova atipica - ad autonoma valutazione, specificamente rivolta ad accertare la responsabilità civile del soggetto agente. La differenza sostanziale tra i due procedimenti sta però nel fatto che il giudizio di rinvio previsto dal comma 1-bis dell’articolo 578 del Codice di procedura penale - contrariamente a quanto avviene nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento in Cassazione della sentenza ai soli effetti civili - si innesterebbe su un processo penale travolto in appello dalla declaratoria di improcedibilità. Sotto questo profilo il comma 1-bis che la riforma Bonafede-Cartabia inserisce nell’articolo 578 del Codice di procedura penale sembra spalancare il campo a problemi concernenti i profili, fra loro connessi, della intangibilità delle prove acquisite nella sede penale (e nell’ambito di un processo poi concluso con pronuncia di improcedibilità) e della valutazione da parte del giudice civile di tali prove. Esso non premia - anzi, al contrario, ingiustificatamente penalizza - la scelta della persona offesa di esercitare l’azione civile nella sede penale, perché la priva del carattere di ragionevole stabilità, e la connota di una nuova precarietà e ambulatorietà, dovute al sempre possibile ritorno alla sede civile che consegue alla pronuncia di improcedibilità in appello ex articolo 344-bis del Codice di procedura penale, con buona pace per la precedentemente scelta della via penale da parte della persona offesa dal reato. *Centro studi Rosario Livatino “Troppi avvocati”, riecco Davigo e la sua giustizia tritatutto di Errico Novi Il Dubbio, 2 settembre 2021 Colpiscono molte cose del nuovo intervento firmato da Piercamillo Davigo sul Fatto quotidiano. L’ennesimo in cui mette gli avvocati nel mirino. Altre volte li aveva additati quali responsabili di impugnazioni pretestuose, così pretestuose da rendere giusto il blocca-prescrizione di Bonafede. Già si era soffermato negli anni scorsi, Davigo, sui numeri della professione forense e sull’asserita urgenza di abbatterli. E di nuovo, con l’articolo di ieri, riconnette il numero dei difensori alla mole di cause civili e penali. Sostiene che se si riducesse il numero dei procedimenti si darebbe un bel colpo al reddito complessivo dell’avvocatura. E sembra così alludere non solo a perfidi legali che inducono i loro assistiti in controversie o impugnazioni non volute. No, l’ex leader Anm non si limita a questo: sembra sottintendere un’ancora più subdola opposizione dell’avvocatura alle riforme in grado di snellire la giustizia. Dice che tante cause producono tanto reddito per la classe forense. E sembra lasciar intendere che se non si interviene con modifiche efficaci, è perché la professione legale non vuole rimetterci. Eppure la verità è un’altra. Perché quella modernizzazione del processo è nelle proposte che l’avvocatura avanza da anni. E che casomai la politica ha spesso preferito ignorare. Si possono dire tante altre cose. Ma ce n’è una che viene prima di tutte. Ancora una volta Davigo parla di avvocati come un orpello. Non una parola sulla loro missione. Non un cenno, anche implicito, di rispetto per il loro rilievo civile, per la loro irrinunciabile funzione di garanti dei diritti. Non si pretende che l’ex pm di Mani pulite chieda di far corrispondere, al ruolo degli avvocati, un riconoscimento esplicito in Costituzione. Ma sulla loro già oggettiva natura di coprotagonisti essenziali della giurisdizione, l’ex presidente dell’Anm fa finta di nulla. Ancora una volta. Un altro paio di osservazioni. Intanto, sottovalutare il ruolo dell’avvocatura, come fa Davigo, finisce per alimentare la sfiducia nella giurisdizione, terribile deriva che il magistrato dovrebbe ben conoscere. Poi Davigo forse non si accorge che la sua visone meccanicista del processo e della difesa allude a una visione essenzialmente burocratica della giustizia. E da persona in realtà colta e acutissima, non può negare a se stesso che burocratizzare e svuotare di significato le funzioni pubbliche è la via più rapida per renderle inefficienti. Ma soprattutto, va ripetuto, il magistrato che ha da poco lasciato le funzioni e il Csm si mostra indiscutibilmente ingrato, persino quando richiama soluzioni condivisibili. Ricorda opportunamente che tra le modifiche utili a ridurre almeno nel penale il volume dei processi avrebbe priorità il patteggiamento, nel senso di renderlo più appetibile. Bene: è una delle proposte avanzate con maggiore insistenza dagli avvocati. Dal Cnf come dall’Unione Camere penali. Come fa, Davigo, a lasciar intendere che i processi debordano perché la classe forense si oppone alle riforme pur di non perdere reddito? Rafforzare i riti alternativi e in particolare il patteggiamento, per giunta, è una base di riforma che l’avvocatura ha condiviso proprio con quell’Anm di cui Davigo è stato presidente. Al tavolo aperto due anni fa dall’allora ministro Alfonso Bonafede, Foro e magistratura associata concordarono una proposta che poi il guardasigilli accolse solo in parte nel proprio ddl. Accusare gli avvocati di non voler ridurre i procedimenti per poter guadagnare di più è dunque una distorsione che contrasta con circostanze ben note all’ex pm di Mani pulite, anche se, all’epoca del tavolo Bonafede, l’Anm era presieduta da altri. Si può sorvolare sui dettagli. Ad esempio, sull’idea di Davigo secondo cui, per rendere più desiderabile “l’applicazione di pena” (il patteggiamento, appunto), andrebbe inasprita la sanzione che si rischierebbe di subire altrimenti nel processo ordinario. Va invece notato come altre ipotesi, per esempio la depenalizzazione, siano ritenute irrilevanti dall’ex togato nonostante fossero apparse assai utili ai suoi colleghi dell’Associazione magistrati, che pure, nella già citata proposta avanzata con gli avvocati, suggerirono di sfrondare il codice penale. Ma la cosa di cui davvero non è possibile tacere è di nuovo la logica in cui il magistrato si muove nel suo intervento. La logica meccanicista, quantitativa, in cui oltre al difensore scompare pure la persona. Ci sono molte controversie civili e tanti casi in cui i cittadini non intendono arrendersi all’accusa di un pm. E non si può pensare di ridurre la giurisdizione a un gigantesco congegno tritatutto capace di smaltire le cause ma anche le vite che vi sono sospese. È quanto il Cnf ha ricordato con la propria “Proposta per il Recovery”. Le parole di Davigo dimostrano che una simile visione umanistica della giustizia fa fatica a farsi strada. Eppure i processi non riguardano i numeri: riguardano gli esseri umani. Che non possono rinunciare ai loro diritti, non possono essere puniti per il solo fatto di reclamarli (come rischia di avvenire in virtù di norme ancora non chiarite nella riforma civile), né possono rassegnarsi a essere colpevoli o a una condanna spropositata se sanno che un appello li vedrebbe assolti o procurerebbe una pena più lieve. I processi sono fatti di persone. E finché sarà così, dietro la persona dovrà sempre esserci, a difenderla, un avvocato. “Via la stagione della legge Severino, l’abuso d’ufficio serve solo a paralizzare gli enti pubblici” di Viviana Lanza Il Riformista, 2 settembre 2021 Parla Felice Laudadio. “Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?” Il quesito numero 6 del referendum sulla giustizia promosso dai Radicali interroga i cittadini sull’abolizione del decreto Severino, cioè di quella norma voluta nel 2012 dall’allora guardasigilli Paola Severino con l’illusione di contrastare in maniera decisa il fenomeno della corruzione. Illusione perché nei fatti, almeno stando alle statistiche, non si è avuto l’impatto che ci si prefiggeva di avere. La legge Severino prevede, in caso di condanna, incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali. Ha valore retroattivo e prevede, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare se la condanna avviene dopo la nomina della persona in questione. Per gli amministratori di un ente territoriale è sufficiente la condanna in primo grado non definitiva perché si applichi la sospensione che può durare fino a diciotto mesi. Insomma, una pesante ingerenza nell’amministrazione della cosa pubblica che nei fatti non si è rivelata l’arma vincente contro la corruzione. Anzi. Nella stragrande maggioranza dei casi la legge è stata applicata contro sindaci e amministratori locali sospesi o costretti alle dimissioni per processi dai quali sono poi usciti assolti. Con il Sì al quesito referendario, dunque, si vota l’abrogazione dell’automatismo contenuto nel decreto Severino. Significherebbe restituire discrezionalità ai giudici così da decidere, di volta in volta, in caso di condanna, se sia necessario o meno applicare anche l’interdizione dai pubblici uffici. “Non sarà un liberi tutti”, chiarisce Felice Laudadio, avvocato e docente universitario che con Il Riformista accetta di svolgere una riflessione a sostegno della ragioni alla base della consultazione popolare promossa dai Radicali. “Il referendum - spiega Laudadio in premessa - ha un contenuto abrogativo ma anche propositivo”. E questa premessa vale tanto più per il quesito sull’abrogazione del decreto Severino. “Su questa disposizione una riflessione va fatta perché è chiaro che i reati, con le garanzie del giusto processo, vanno sanzionati ma è necessario che venga espiata una pena collegata all’accertamento della responsabilità con la misura restrittiva prevista dal codice penale”, osserva. Se le limitazioni dei diritti politici collegate alla sentenza non definitiva per reati di 416 bis o comunque legati alla criminalità organizzata possono avere un loro fondamento, anche in proporzionalità, rispetto all’obiettivo della lotta alla mafia, nel caso dei reati contro la pubblica amministrazione una riflessione come quella proposta dal quesito referendario è più che mai necessaria. “Non v’è dubbio che la fattispecie corruttiva sia un disvalore nel sistema delle relazioni sociali e umane - afferma il professor Laudadio- ma che determini la perdita del diritto di elettorato attivo e passivo in aggiunta alla sanzione penale collegata alla commissione del reato deve essere oggetto di una riflessione, da parte del legislatore, ispirata al criterio generale di proporzionalità della limitazione rispetto alla gravità della condotta”. Il tema è delicato e spinoso. È di quelli per cui è facile gridare all’untore e al corruttore. “Da trent’anni in questo Paese abbiamo le stesse litanie”, afferma Laudadio. “Adesso invece è necessario che il popolo rifletta anche sulla razionalità e sulla proporzionalità di questa misura - aggiunge - spingendo i titolari del potere legislativo a una rilettura ispirata a criteri appunto di razionalità e proporzionalità della legge Severino che, a mio parere, va riscritta rispetto all’attuale contingenza”. No agli automatismi di limitazioni e pene accessorie, quindi. Sì a valutazioni caso per caso. “I reati di pubblica amministrazione, la legge Severino li equipara tutti. Una misura data nell’empito del momento”, osserva il professor Laudadio sottolineando come i tempi adesso siano cambiati e maturi, anche alla luce dell’esperienza di questi anni, per una riflessione come quella proposta dal referendum. “L’incandidabilità non può essere fissata ex lege ma, come un diritto fondamentale, va ancorata al giusto equilibrato processo”. Impossibile, poi, non considerare la complessità e l’inutilità, nella sfera dei reati contro la pubblica amministrazione, del reato di abuso d’ufficio. Secondo dati raccolti dall’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni italiani, dei 100mila fascicoli aperti negli ultimi dieci anni il 60% si è concluso con archiviazioni e proscioglimenti chiesti dal pubblico ministero, il 20% si è estinto in sede di udienza preliminare, il 18% è arrivato a dibattimento e solo il 2% dei procedimenti si è concluso con una sentenza definitiva di condanna. “La previsione dell’abuso in atti di ufficio, anche nella riforma che stanno tentando, è di difficilissima applicazione perché bisogna provare il dolo nella violazione di legge, il dolo nell’inflizione dell’ingiusto danno o nell’erogazione dell’ingiusto vantaggio - spiega il professor Laudadio - Quanto alla violazione di leggi e regolamenti a cui fa riferimento, bisogna considerare che in Italia abbiamo qualcosa come centinaia di leggi e regolamenti”. “L’abuso di ufficio - osserva - va abrogato. Crea una impasse nell’amministrazione perché terrorizza i dirigenti, i quali non firmano perché temono l’accusa di abuso in atti di ufficio e tutto quello che ne deriva in conseguenza anche della famosa legge Severino”. “Non significa un liberi tutti - precisa - ma significa infliggere sanzioni per le condotte di maggiore disvalore sociale (la corruzione, la concussione, il peculato, il falso). L’abuso in atti d’ufficio è oggettivamente un “reato ombra” che crea solo lotte nell’amministrazione e inutili appesantimenti. E come tutti i reati generici, che non hanno una definizione tassativa delle condotte, consente un accesso su condotte che potrebbero essere sanzionabili da parte del giudice amministrativo o da parte del giudice della responsabilità erariale. Il fatto penale - conclude Laudadio - è un discorso che non sta in piedi anche perché i risultati sono evidenti e in un certo numero di inchieste la percentuale è infinitesimale. Valutando costi e benefici, i primi superano ampiamente i secondi”. Ragazzi dentro di Carlo Bonini e Isaia Sales La Repubblica, 2 settembre 2021 Un’indagine sulla delinquenza giovanile, tra emulazione e noia. E sul nostro sistema penale, basato su recupero e reinserimento. Un esempio per tutta l’Europa. Nel corso degli ultimi anni è cambiato radicalmente l’atteggiamento della pubblica opinione verso il disagio minorile, in particolare verso quello che approda alla violazione delle leggi e al crimine. Ed è mutata la considerazione che dei reati dei giovani e dei minorenni hanno i principali attori politici. Se nel periodo storico a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento i minori e i giovani devianti venivano considerati come “soggetti bisognosi di aiuto e di una guida” e non solo di punizione, negli ultimi due decenni (in concomitanza con la presenza di forze politiche che hanno investito sulla paura del crimine e ne hanno ad arte ampliato la percezione, anche attraverso un uso accorto dei giornali e delle Tv) il clima è nettamente mutato: i minorenni a rischio sono considerati come una minaccia per la convivenza civile e più forte è stata la richiesta di rivedere alcune delle norme emanate negli anni precedenti. In particolare, sono stati attaccati il limite di punibilità a quattordici anni del nostro ordinamento giudiziario e il ricorso al carcere solo in casi di mancanza di alternative; e, di conseguenza, è stato demonizzato anche il ricorso massiccio a luoghi alternativi dove scontare la pena, cioè le comunità di accoglienza e di recupero. L’enfasi sulla delinquenza minorile, sulla presenza massiccia di baby-gang in tutte le città italiane, con bande di giovanissimi predatori pronti a tutto, ha occupato la scena mediatica negli ultimi decenni, descrivendo un paese in preda alle scorribande di giovanissimi violenti che assieme ai delinquenti stranieri dominavano le nostre contrade. Ma il processo di “decarcerizzazione” dei minori in Italia, così come la ricerca di pene alternative e non la radicalizzazione dei criminali (che quasi sempre è associabile alla carcerazione) è avvenuto in sintonia con ciò che si verificava nella maggior parte delle altre nazioni europee. Anche i recenti rapporti dell’associazione Antigone sullo stato delle carceri in Italia hanno dovuto prendere atto che il modo in cui è trattata la criminalità minorile si differenzia nettamente dal modo in cui la nostra stessa nazione tratta i delitti e la carcerazione degli adulti. La responsabile del dipartimento nazionale della giustizia minorile, la dottoressa Gemma Tuccillo, ha potuto affermare che quello minorile è il sistema di carcerazione e di pena meglio funzionante in Italia. Certo, non sono tutte rose e fiori nel sistema della giustizia minorile in Italia, e alcune delle lacune le affronteremo nel corso di questo articolo, ma è assolutamente esagerato descrivere l’Italia come un paese alla mercé della delinquenza minorile e giovanile; in ogni caso resta questo uno dei pochi settori della giustizia in cui, a volte disperatamente e con scarsi mezzi, si cerca di applicare il dettato costituzionale del recupero del reo. La domanda da cui partire è la seguente: esiste un’emergenza criminale minorile in Italia? Cioè, un’emergenza di fronte alla quale le norme in vigore vanno radicalmente messe in discussione e cambiate? Mettendo a confronto le statistiche italiane con quelle di altri paesi europei, la risposta allo stato attuale delle cose è no, nel senso che quasi tutte le altre nazioni fanno registrare numeri più preoccupanti dei nostri: nel 2018 nel nostro paese ci sono state 870mila segnalazioni di reati alle autorità giudiziarie (persone fermate e arrestate); di questi solo il 3,5% è riferibile a minori, una delle percentuali più basse in Europa, mentre si arriva al 5,5% in Spagna, al 6,5% in Grecia, e a numeri a due cifre per Francia, Austria, Olanda, Svezia e Finlandia. Quindi il primo dato da segnalare è che nel centro e nel nord dell’Europa la criminalità minorile assume aspetti di gran lunga più preoccupanti rispetto a quella presente nei paesi mediterranei e in particolare nel nostro. Certo, il confronto dei dati statistici non è semplice, anche perché il limite della punibilità cambia a seconda delle nazioni, passando dagli otto anni della Scozia, dai dieci dell’Inghilterra, dai dodici dell’Olanda e dell’Irlanda, dai tredici di Francia e Polonia, dai quattordici di Italia, Spagna e Germania, fino ai quindici di Svezia, Repubblica Ceca, Finlandia e Danimarca, e ai sedici del Portogallo. E sicuramente c’è una quota di reati che non viene segnalata o sfugge alle autorità preposte (il cosiddetto “numero oscuro” per dirla con il linguaggio dei criminologi). Sta di fatto che l’abbassamento del limite di età per la punibilità non si è dimostrato in nessun caso decisivo ai fini della dissuasione dal commettere reati. L’Italia tra i paesi europei è quello che fa meno ricorso al carcere per i reati commessi da minori (375 erano i ragazzi rinchiusi nel 2018 in 17 istituti di pena sparsi in varie regioni) mentre in Germania e in Francia, ad esempio, la carcerazione di minori è 3 volte superiore, in Inghilterra 4 volte, e in Polonia addirittura 5 volte maggiore, ma ciò non ha inciso nel rendere meno aggressiva e preoccupante in quelle nazioni la criminalità minorile. All’Italia si può rimproverare una scarsa coerenza tra le affermazioni di principio e le affettive politiche introdotte per il recupero di coloro che commettono reati, ma il più cauto ricorso alla carcerazione non ha prodotto di per sé una crescita del crimine minorile, anzi. Il sistema basato sulle comunità di accoglienza in alternativa al carcere e su modalità di pena che puntano al reinserimento attraverso percorsi formativi di studio e di lavoro (principalmente attraverso la cosiddetta “messa alla prova”, l’azzeramento cioè della punibilità del reato in cambio dell’impegno a studiare o a imparare un mestiere) regge nonostante le tante difficoltà segnalate dagli stessi operatori. Quindi, proviamo a partire dai dati per capire esattamente di cosa parliamo quando ci occupiamo di criminalità minorile in Italia, perché sono i dati, le cifre, i numeri che ci fanno conoscere meglio il nostro paese, ci aiutano a combattere enfasi e pregiudizi e ci fanno cogliere le specifiche caratteristiche della questione criminale minorile nel nostro paese e le differenziazioni tra le varie realtà territoriali nelle quali si manifesta. La maggior parte dei reati dei minori si registrano nelle 14 aree metropolitane indicate come tali da una apposita legge del 2014, quasi a dimostrare che il disagio delle periferie delle grandi città resta una delle cause più influenti nei reati in Italia: anche per quanto riguarda la criminalità minorile (ancora di più rispetto a quella degli adulti) la connessione tra spazi urbani degradati, mancanza di scolarizzazione per gli autoctoni e di integrazione per gli stranieri, si dimostra quasi automatica nella spinta a infrangere le norme. Infatti, il 42% di tutti i reati dei minori avviene in queste 14 aree metropolitane. Il primo dato sorprendente è che gli indici di delittuosità dei minori presentano valori tendenzialmente superiori alla media nazionale nelle regioni del nord Italia e valori più bassi della media nelle regioni del sud, al netto della presenza di minori stranieri coinvolti: i numeri (segnala il Rapporto Antigone per il 2018) vanno contro tutti gli stereotipi, visto che ben il 40% degli imputati italiani è nato nel nord (il 21% nel nord-ovest e il 18% nel nord-est), il 25% è nato nel sud, il 19% nel centro e il 16% nelle Isole. Anche quando in alcuni anni la percentuale di minori italiani sale fino al 75% del totale, sono sempre ragazzi del centro-nord nati in Italia a fare registrare la percentuale più alta di imputati. Ma la cosa più singolare è che la città con il più alto indice di criminalità minorile non è né Napoli, né Palermo né Reggio Calabria, ma Bologna, cioè una delle realtà urbane dove più hanno funzionato e funzionano servizi sociali di ottima qualità, cosa che sembra in contraddizione con quanto affermato precedentemente. Ed è un dato che deve far riflettere, perché non di facilissima decifrazione. Il capoluogo dell’Emilia distanzia di gran lunga le altre città: a Bologna, in media, per ogni 10mila minorenni ne vengono arrestati o denunciati 260. Abbiamo usato per questo articolo i dati relativi al 2019, perché durante la pandemia c’è stato un calo complessivo dei reati (cosa che poteva falsare la percezione delle tendenze di fondo in questo campo) ma facciamo riferimento, confrontandoli, anche ai dati dei periodi precedenti. Infatti, se si prendono le statistiche elaborate da Maria Di Pascale nel saggio “La criminalità minorile nelle città metropolitane italiane per il Secondo rapporto su criminalità e sicurezza a Napoli” (a cura di Giacomo Di Gennaro e Riccardo Marselli) il dato riguardante Bologna viene ampiamente confermato per il periodo 2004/2015, così come il primato delle aree metropolitane del Nord. In particolare, se si calcola l’indice di criminalità minorile violenta (rapporto tra casi segnalati di rapine, risse, omicidi, estorsioni, stupri, danneggiamenti, dei residenti tra i 14 e i 17 anni ogni 100mila abitanti) Bologna è prima seguita da Torino, Genova, Milano e Firenze; mentre la prima città meridionale è Catania, Napoli è al nono posto (anche se qui si registra il più alto numero di rapine) e Reggio Calabria è all’ultimo, mentre Roma è sotto la media. Gli imputati minorenni sono per il 70% italiani e per il 30% stranieri secondo i dati del 2018, ma in quelli riferiti al periodo 2004/2015 la percentuale di italiani sale al 75%. Se prendiamo le statistiche degli adulti stranieri in Italia, riscontriamo un dato leggermente diverso: nelle carceri al 30 aprile 2019 c’erano 20.324 immigrati su 60.439 detenuti, cioè il 33,6%: i minori stranieri infrangono le leggi un po’ meno degli adulti. E se il reato degli adulti è per il 40% il traffico di droga, per i minori stranieri il reato più frequente è il furto. Oltre l’84% sono maschi e meno del 16% femmine (percentuale quasi simile per italiani e stranieri): il 30,5% degli imputati maschi ha fra i 14 e i 15 anni, il 69,5% ne ha 16 o 17. Il reato in cui l’incidenza delle donne è maggiore è il furto, in particolare tra le ragazzine straniere: in questo caso la percentuale di coinvolgimento sale al 25%. La Lombardia è la regione con il maggior numero di segnalazioni riguardanti minorenni, seguita dalla Sicilia, dall’Emilia-Romagna, dal Lazio, dal Piemonte, dal Veneto e dalla Campania. Se, poi, raffrontiamo i dati in rapporto alla popolazione minorile residente nelle singole regioni, la Liguria è la prima, seguita dal Friuli-Venezia Giulia, dall’Emilia-Romagna e poi dalla Calabria. Questi minori entrati nel circuito penale hanno commesso reati contro le persone (aggressioni, risse, ferimenti, omicidi) per il 17%, furti e rapine per il 62%, mentre il restante 21% in gran parte ha commesso reati relativi allo spaccio di stupefacenti. Va ricordato, a proposito del problema droghe, che secondo una ricerca ESPAD del 2016 il 32,9% degli 800mila studenti italiani intervistati tra i 15 e i 19 anni ha dichiarato di aver provato almeno uno degli stupefacenti presenti sul mercato. C’è poi una piccola parte di minori che è stata coinvolta in associazione di stampo mafioso, di cui quasi la metà la si riscontra a Napoli, come vedremo più avanti. In ogni caso, senza il problema dell’uso e del commercio di droghe non si capirebbe molto dei reati dei singoli minori, delle baby-gang e soprattutto delle bande giovanili, essendosi spaventosamente abbassata l’età del consumo. Appena si va oltre il dato numerico appare evidente tutta l’originalità della questione criminale minorile in Italia: mentre nel centro-nord i reati sono distribuiti a metà tra stranieri e autoctoni, quasi a definire una specie di criminalità “mista”, nel sud i reati sono quasi esclusivamente commessi da ragazzi del posto, essendo minima la percentuale di minori stranieri coinvolti. Non si può dire che nel centro-nord domini la criminalità minorile straniera (perché quella autoctona supera il 50%) ma non si può ignorare il fatto che se nel sud è quasi inesistente, nel Nord presenta valori preoccupanti. Questo dato conferma a suo modo che anche per quanto riguarda la criminalità minorile siamo di fronte a un paese spaccato, con caratteristiche fortemente differenziate: l’economia del centro-nord è più attrattiva per gli stranieri rispetto a quella del sud; nelle aree centro-settentrionali vive stabilmente l’89% della popolazione minorile straniera ufficialmente registrata e ciò ha un’incidenza anche nei numeri dei minori che delinquono. Nel sud, invece, i reati sembrano essere predominio quasi esclusivo dei minori locali, e quindi si può parlare a ragione di criminalità minorile “doppia” nel centro-nord (tra locali e stranieri) e di criminalità minorile “esclusiva” (di autoctoni) nel sud. Infatti, se in Italia la percentuale di minori stranieri segnalati all’autorità giudiziaria nel 2019 è poco più del 26%, questo dato cresce a più del 33% a Roma e a Firenze, sale ad oltre il 37% a Bologna e sfiora il 40% a Milano, mentre a Napoli i minori segnalati sono quasi al 90% napoletani. Ma se si esaminano i dati relativi al periodo 2004/2015 i numeri sono ancora più significativi: Milano, Firenze, Roma e Genova vedono un prevalere (oltre il 50%) dei minori stranieri segnalati, mentre a Torino e Bologna si supera la soglia del 60%. Nel sud tutte le città metropolitane manifestano la stessa tendenza: a Cagliari, Palermo, Catania, Messina, Bari e Reggio Calabria si mantengono tassi di delittuosità dei minori autoctoni attorno al 90%, mentre gli stranieri non superano il 10%: più o meno lo stesso andamento di Napoli. Nella città partenopea però le rapine e gli scippi riguardano autoctoni quasi al 96%, configurandosi questi come i reati tipici dei minorenni partenopei. La comunità straniera che presenta in assoluto più minori coinvolti è quella romena, segue quella marocchina e poi quella albanese: lo stesso andamento della criminalità adulta straniera. E se i furti sono più presenti tra gli stranieri al nord, gli omicidi riguardano più i minori italiani sia al nord che al sud. Resta il fatto che essendo il furto il principale reato dei minori stranieri e italiani, la deprivazione e il bisogno sembrano caratterizzare in maniera notevole queste statistiche criminali. Questione più delicata è quella riguardante la presenza e il numero di bande minorili nelle principali città italiane. Il termine baby-gang è molto usato, spesso a sproposito, ogniqualvolta si verifica un reato in cui sono coinvolti insieme più minorenni o giovanissimi. Negli ultimi anni si è parlato di gang di latino-americani massicciamente operanti nel centro-nord (Genova, Milano, Torino, Bologna, Brescia, Padova, Prato, Venezia); al sud invece soprattutto a Napoli, Bari e Catania. Intanto, cosa si deve intendere per baby-gang? Della questione si è occupata la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza che ha prodotto un interessante report: “Con baby gang si intendono gruppi di adolescenti, poco più che bambini, che riproducono dinamiche tipiche della microcriminalità organizzata”. Cioè ragazzi che stando insieme commettono reati. Queste gang rappresentano un fenomeno molto complesso, che non si identifica con quello più ampio della criminalità minorile dei singoli né con quelle delle gang giovanili e, anche se deve essere differenziato dal bullismo, lo si può ritenere una forma organizzata di bullismo. Ogni banda non ha una durata lunga, e la sua attività si esaurisce spesso in pochissimo tempo. È un fenomeno fluido non strutturato, non organico al mondo criminale degli adulti, che però suscita grave allarme sociale per la giovanissima età dei componenti e per la particolare aggressività con la quale vengono compiuti i delitti, originati spesso da motivi futili. E anche nella composizione, nelle attività e nelle motivazioni delle baby-gang, si può parlare a ragione di una grossa differenza tra città del centro-nord e del sud. Nel centro-nord l’aggregazione è in gran parte etnica, nel sud è sociale e di appartenenza territoriale, cioè provengono tutti dalle stesse condizioni di degrado e da determinati quartieri dove forte e radicata è la presenza di criminali adulti. E se le principali motivazioni del crimine minorile sono “deprivazione, noia, identità ed emulazione”, nelle baby-gang del centro- nord prevale identità (per gli stranieri) e noia per quelle di italiani, mentre nelle bande del sud emulazione e identità. Quasi mai le baby-gang si aggregano per bisogno di beni che i membri non hanno, anche se commettono reati predatori: l’identità e la noia (che si manifesta anche nel consumo di droghe) prevale sul bisogno. Nel centro nord sono presenti bande di minori e giovani salvadoregni (Mara Salvatrucha e Barrio 18) di dominicani (Trinitarios) di portoricani (Netas) di ecuadoregni (Latin-Kings) e ultimamente di cinesi. Il modo di operare delle cosiddette Pandillas si basa su di un gergo comune, su tatuaggi o monili di identificazione, sull’indossare determinate felpe o scarpe, tagliarsi i capelli in un certo modo e su forme di giuramento, sull’uso di determinate droghe, sul frequentare gli stessi luoghi della movida, e sulla guerra a tutti gli altri che non fanno parte del loro mondo. Molto spesso spettacolarizzano sui social le violenze fatte subire, una specie di “estetica della sopraffazione” che è diventata una caratteristica globale della devianza minorile: se sottometti qualcuno, che sopraffazione è se nessuno ne viene a conoscenza? In genere operano per affermare la supremazia sulle altre bande etniche; i reati predatori che si commettono sono finalizzati a questo scopo. Mentre le bande di italiani in gran parte si rivolgono contro coetanei più deboli, soprattutto se handicappati, fragili, anziani, di diversa religione o di orientamento sessuale, e commettono reati per il gusto di trasgredire, umiliare, sottomettere o sopraffare. Molte baby-gang straniere si sono originate da adolescenti arrivati in Italia già oltre l’età della scolarizzazione primaria e hanno avuto dunque più difficoltà di apprendimento anche della lingua italiana. Perciò è più facile trovare nelle gang dei ragazzi o dei giovani inseriti tardi nel circuito scolastico piuttosto che ragazzi inseriti fin dalla scuola dell’infanzia. Chi nasce in Italia da famiglie straniere ed è stato da subito scolarizzato, sente meno il bisogno dell’appartenenza etnica di “contrapposizione”. Il caso delle bande di ecuadoregni a Genova è emblematico: i ragazzi dell’Ecuador arrivarono molto dopo le madri ed ebbero quasi tutti problemi di inserimento scolastico e sociale. Anche nel sud, soprattutto nelle grandi città, la composizione delle baby-gang è fatta per la maggior parte da ragazzi non scolarizzati che hanno rifiutato di continuare la scuola o che la frequentano senza nessuna motivazione, con la differenza fondamentale che essi imitano gli adulti mafiosi, camorristi o ‘ndranghetisti: nel meridione le bande minorili sono contrassegnate dal tentativo, attraverso le azioni di violenza di strada, di farsi notare dai membri dei clan mafiosi. Per quanto riguarda Genova e Milano, le due città che più hanno occupato la scena mediatica per le attività di bande di minori stranieri, il fenomeno sembra essersi molto ridimensionato rispetto al decennio precedente, soprattutto nel capoluogo ligure. Nell’ultimo libro Liguria. La geografia del crimine (Aracne 2021) di Stefano Padovano, non si dà un eccessivo peso di gang latino-americane, soprattutto ecuadoregne e peruviane, che avevano interessato nei decenni precedenti il capoluogo, suscitando preoccupazioni nell’opinione pubblica e ripetuti allarmi da parte delle forze di sicurezza. E proprio a causa di una massiccia presenza di anziani a Genova (con una popolazione che ha il più alto tasso di ultrasessantacinquenni e il più basso tasso di natalità in Italia) che si fece ricorso all’immigrazione dall’Ecuador e dal Perù di badanti, tramite il circuito relazionale con l’America latina delle autorità cattoliche. In special modo la comunità ecuadoregna divenne la più numerosa nel capoluogo, più di 19mila, formata per la maggior parte da donne e da figli adolescenti che erano arrivati grazie alle norme sul ricongiungimento familiare. Questi minori si organizzarono tra il 2003 e il 2008 in due bande, i Netas e Latin-Kings, che ripetutamente cercavano e trovavano occasioni di picchiarsi. Quasi mai furono coinvolte persone estranee alla nazionalità delle bande. Ogni gang era formata da 30/40 affiliati e il numero complessivo degli aderenti non superò le poche centinaia di persone. Forze di polizia avevano parlato di 435 ragazzini divisi in 17 formazioni. Ultime notizie si sono avute nel 2016 con l’arresto di cinque affiliati ai Latin-Kings accusati di aver torturato tre ragazzini ecuadoriani che volevano passare ad un’altra banda. A Milano invece si è parlato di 2000 appartenenti alle bande minorili e giovanili. Il problema è molto più avvertito perché sono presenti nel capoluogo lombardo quasi tutte le comunità latino-americane che hanno dato origine a bande su base etnica: il sentimento di appartenenza alla nazione di nascita sostituisce ogni altro senso di appartenenza e di identità. In ogni caso non siamo di fronte ad una emergenza delle baby-gang o delle gang giovanili tipiche di molte grandi città statunitensi a grande presenza di comunità latine o ai fenomeni di allarme sociale di altre grandi metropoli europee e dell’America centrale e del sud. Ma la situazione va seguita con attenzione perché in rapida trasformazione. Nel sud il numero dei membri delle bande sono di gran lunga inferiori, e la presenza di clan mafiosi in quattro regioni impone altre riflessioni sulla questione criminale minorile. I dati di Napoli, Catania, Palermo Bari e Reggio Calabria sono a tal fine estremamente interessanti. Reggio Calabria sembra la meno esposta a fenomeni di massa di violenza minorile, forse anche perché le famiglie ‘ndranghetiste cercano di tenere fuori i loro rampolli dalla violenza di strada avendo già assegnato loro lo scettro del comando per via familiare. Mentre i casi di Catania, Palermo e Napoli sembrano somigliarsi per tre caratteristiche: forte descolarizzazione, provenienza da quartieri degradati del centro storico e delle periferie, relazioni dirette o indirette delle bande minorile con la criminalità degli adulti. Il caso meridionale si differenzia anche per un altro aspetto dalla criminalità minorile centro-settentrionale: le città del sud hanno una periferia che si trova spesso nel cuore del centro storico. Il caso Napoli è emblematico da questo punto di vista. E forse si avvicina solo a Marsiglia in Europa per una presenza massiccia di disagio e devianza minorile al centro delle città. Perciò merita una attenzione del tutto particolare. Qui sono avvenuti alcuni dei delitti da parte di minori più terribili, qui si pratica come un fatto abituale la “stesa” cioè un’intimidazione a colpi di armi da fuoco di tutti gli abitanti di un quartiere che ospita una banda o un clan avversario, costringendo i presenti a stendersi a terra per non essere colpiti. Qui il comportamento del mondo criminale sembra influenzare anche i settori sociali che ne sono fuori. Già a fine Ottocento le statistiche segnalavano un primato della città partenopea per minori sottoposti a denunce, condanne e ricoveri in istituti preposti. Allora si chiamavano “scugnizzi” e si segnalavano per furti di destrezza (il più diffuso era quello del fazzoletto di seta, così come avveniva nella Londra di Oliver Twist) per lavori di strada ai confini della legge o per la richiesta insistente ad ogni passante benestante di un contributo in soldi alla loro spavalda simpatia. Anche gli “sciuscià” si affaccendavano in maniera rumorosa e allegra in cerca di occasioni per guadagnare un soldo, specializzandosi nel pulire le scarpe ai soldati alleati presenti a Napoli dopo la liberazione della città (sciuscià deriva infatti da “shoe shine”, lustrascarpe in inglese). Oggi Napoli non è più la città degli scugnizzi e degli sciuscià. I minori che un tempo vivevano al limite della legge per guadagnarsi qualcosa hanno lasciato il campo ai guaglioni di camorra. È questa contiguità della devianza minorile con la criminalità camorristica che caratterizza da alcuni decenni la particolarità e l’esplosività della questione minorile a Napoli e nel suo hinterland. Proprio per questa particolare situazione, a Napoli è tremendamente difficile separare la questione minorile dalla più ampia questione criminale che ha il volto delle tantissime bande di camorra che da più parti stringono in una morsa la città. La questione minorile non è un problema di età, ma di graduazione della medesima questione criminale, di cui quella minorile è solo una tappa. In altre città i minori sono esposti alla deprivazione culturale e sociale, alla vita illegale ma non immediatamente a quella criminale. La criminalità vive a ridosso, spalla a spalla, con il disagio minorile. I minori sembrano fungere da esercito di riserva a cui la criminalità maggiore può attingere a suo piacimento. Nella mafia siciliana e nella ‘ndrangheta questa vicinanza non è così immediata. Esiste una separazione, una distinzione che a Napoli non c’è. Oggi Napoli (assieme alla sua provincia) si segnala tra le città con il maggior numero di minori coinvolti in procedimenti per 416 bis. Un numero così alto di minori coinvolti in attività camorristiche e mafiose non esiste in nessun’altra parte d’Italia. E se in altre grandi città italiane ed europee la questione minorile è anche espressione di una difficile integrazione di varie ondate migratorie, interne ed esterne, a Napoli essa è una questione indigena, interna, locale. Gli stranieri non c’entrano niente, gli immigrati non c’entrano niente. La questione minorile è quasi esclusivamente questione napoletana e di napoletani. Anzi mentre i bimbi delle famiglie di immigrati regolari vanno a scuola e non evadono l’obbligo scolastico, quelli delle famiglie napoletane dei quartieri più degradati non sentono la scuola come un luogo di promozione sociale e di una qualche utilità. Con la particolarità che oggi l’uso delle vie dell’illegalità non risponde a un bisogno di sopravvivenza ma di riuscita sociale, non ad una necessità dettata solo dall’assenza di altre opportunità: la violenza e il crimine si affermano come mezzi rapidi di ascesa, di successo, di carriera, di identità, di realizzazione umana e sociale. La mobilità sociale non è assicurata dalla scuola, dalla famiglia, dal lavoro, ma esclusivamente dalla violenza agita, dalla ferocia non mitigata. Se, poi, nelle altre città, le forme violente si esercitano anche da parte di ragazzi provenienti da famiglie borghesi, a Napoli invece c’è quasi il monopolio di atti violenti da parte di ragazzi di famiglie sottoproletarie. Ultima caratteristica della criminalità minorile napoletana è questa: se in altre città l’impatto con la giustizia penale non si tramuta necessariamente in continuità delinquenziale al raggiungimento della maggiore età, a Napoli e provincia una gran parte dei ragazzi che hanno commesso reati passano nelle carceri per adulti. E i luoghi di provenienza dei minori violenti sono quasi sempre gli stessi: le tre enclave criminali (centro storico, periferie e hinterland) dove storicamente e negli ultimi anni si concentrano le presenze camorristiche. I luoghi del degrado urbano (e del malessere sociale) e la questione minorile sembrano quasi coincidere. Infatti, i dati che impressionano di più sono i seguenti: è considerevole il numero di minori in istituti di pena che non ha completato la scuola elementare, è altrettanto rilevante il numero dei provenienti da famiglie numerose (dai quattro figli in su), è altissimo il numero di chi ha un genitore, un fratello, un nonno o uno zio in carcere. I minorenni delinquenti sono in linea di massimi figli, fratelli o nipoti di pregiudicati. Essi hanno cominciato prestissimo l’acculturazione illegale, per strada e in famiglia. In molti di essi l’analfabetismo di ritorno è elevatissimo. Si esprimono esclusivamente in dialetto, la lingua italiana la capiscono ma non la parlano. Insomma, la camorra non è altro che la sorella maggiore, comprensiva e attenta, dei minori delinquenti. Per tutti questi motivi Napoli rappresenta una particolare originalità nella storia del disagio urbano delle grandi città italiane, pur non essendo la città che in percentuale ha un numero elevatissimo di minori coinvolti nella giustizia penale. La violenza minorile e giovanile si caratterizza per delle “qualità” comuni a quella camorristica. Siamo di fronte, a Napoli a un confine disintegrato tra infanzia, adolescenza e maggiore età nella vita criminale. Perciò, le baby-gang di oggi potrebbero rappresentare i clan di domani. L’ambiente delinquenziale di riferimento sembra essere già una società autosufficiente, fuori dalla quale questi ragazzi non hanno interesse ad inoltrarsi. Infatti, pur non essendo “integrati” (anzi rifiutandosi di farlo) pensano di contare, decidere, arricchirsi, senza nessun problema. Nel secondo dopoguerra nei quartieri fungevano da modello gli artigiani che si realizzavano attraverso la loro abilità manuale, i professori e i professionisti che indicavano la strada dell’integrazione sociale attraverso lo studio e la scuola. Oggi nessuna di queste categorie funge da modello, e le classi sono più separate che nel recente passato. Né la borghesia napoletana, né tanto meno il mondo del lavoro sono modelli per i sottoproletari che vivono in città. Il modello sono i calciatori, le veline e i camorristi che vedono nei film, nelle fiction televisive e che incrociano nei quartieri, e tutti coloro che attraverso l’illegalità si arricchiscono e contano. Sembra quasi che in alcuni quartieri gli emarginati siano i ragazzi che hanno studiato e hanno un lavoro onesto, anche se precario. C’è rivalsa verso i coetanei di altri ceti che hanno avuto maggiori possibilità legali dalla loro famiglia e rancore verso i mestieri da sopravvivenza dei padri. Danno vita a forme di antagonismo sociale per via criminale e contestazione verso la rassegnazione dei padri. In questi aspetti la criminalità minorile a Napoli ha qualche somiglianza con i ragazzi delle periferie francesi e belghe approdati al jihadismo: gruppi di adolescenti socializzati dalla strada, dal rancore sociale e dalla contrapposizione ai padri immigrati. Com’è noto, Olivier Roy ha descritto il terrorismo jihadista non come effetto della radicalizzazione dell’Islam ma come “islamizzazione della radicalità”, volendo con questa espressione suggerire il fatto che la radicalità giovanile va alla ricerca di sempre nuove cause da seguire, e sicuramente una certa interpretazione della religione islamica ha offerto sponda a questo bisogno. Allo stesso modo si potrebbe parlare di “camorrizzazione della radicalità” nel caso dei giovani violenti napoletani dei quartieri, delle periferie e dell’hinterland. Essi si sentono come dei “guerriglieri del crimine” e giustificano le loro azioni attraverso un’ideologia che nella camorra napoletana è stata sempre presente, da Cutolo in poi. Per esempio, nella cosiddetta “Paranza dei bimbi”, la banda di giovanissimi criminali del quartiere di Forcella, al centro di due romanzi di Roberto Saviano, è forte la caratteristica condivisa di rifiuto della sottomissione all’autorità criminale degli adulti, come una specie di rivincita della minore età sui “grandi”. A tale proposito interessanti sono le considerazioni svolte da Giacomo Di Gennaro e Riccardo Marselli nel saggio Gang giovanili nel contesto della globalizzazione. In definitiva, a Napoli città sembra chiusa la fase storica in cui si affrontava il tema del sottoproletariato con le armi dell’integrazione (attraverso la scuola, il lavoro artigiano o industriale, con conseguenti modi di comportarsi diversi dall’ambiente di provenienza) o del contenimento. Se si esclude il lavoro dei preti, dei maestri di strada, di alcune scuole e di alcune associazioni di volontariato, chi delle istituzioni si pone più l’obiettivo dell’integrazione, e non solo a Napoli? E se alcuni se lo pongono quali strumenti e risorse hanno nelle loro mani? Insomma, la criminalità minorile non è uguale in tutta Italia, come più volte ha ricordato Isabella Mastropasqua, dirigente ufficio prevenzione e promozione della giustizia minorile, ed è condizionata dalla presenza nel centro-nord di una forte presenza straniera non integrata e di un disagio urbano notevole, e al sud dalla presenza di organizzazioni mafiose e da impressionante degrado sociale e culturale. Non sono queste questioni impossibili da decifrare e superare. Fra tutte il tema della scuola. Sembra incredibile come non ci si renda conto che ogni abbandono scolastico è una sconfitta e un problema che si ripresenterà in modo spesso criminale negli anni successivi. Eppure, si fa troppo poco per integrare gli stranieri e per riportare a scuola i minori italiani, soprattutto meridionali, che l’abbandonano. La scuola italiana, la società e la politica sembrano impotenti di fronte a un problema evidentissimo e che a prima vista non sembra così difficile da affrontare. Ancora oggi mancano statistiche adeguate (c’è tanta confusione tra evasione e abbandono), non sono chiare le responsabilità di chi deve intervenire per affrontarlo, e si pensa che la soluzione sia solo nelle scuole aperte di pomeriggio: ma chi non va a scuola di mattina, non ci andrà neanche di pomeriggio! E che dire poi del fatto che non ci sono (non ci sono!!!) assistenti sociali nei comuni dove sarebbero più necessari. In queste condizioni non avere a disposizione dei servizi sociali adeguati alla gravità e riproducibilità della situazione, è davvero criminogeno. Cosa si aspetta? Se i comuni interessati non hanno le risorse per assumere personale, si faccia un concorso nazionale per assistenti sociali per realtà dove si supera un certo rapporto tra popolazione minorile e reati e si usino le risorse europee a ciò destinate. Quando si leggono i dati sul rapporto strettissimo tra tassi di disoccupazione, tassi di abbandono scolastico, precedenti penali nel nucleo familiare e tassi di criminalità minorile, non si può che restare impressionati da una così implacabile connessione, a Napoli come a Palermo, Catania e Bari e in altre parti d’Italia. I dati ci dicono che è possibile prevedere in largo anticipo in quali quartieri, in quali rioni, in quali famiglie, in quali classi di età si formeranno i futuri ospiti degli istituti di pena minorili e successivamente delle carceri per adulti. E si può fare una previsione del tutto attendibile sui tassi di recidiva: è accertato che tra quelli che saranno arrestati o fermati da minorenni (per furti, scippi, rapine, spaccio di droga, risse, possesso d’armi) almeno la metà finirà nelle carceri per adulti per gli stessi reati, aggiungendo per alcuni di essi l’omicidio e la partecipazione a clan mafiosi. I carabinieri durante un raid nel centro di Napoli, alla ricerca di un latitante Tutto ciò non ha niente a che fare con il fatalismo, con il destino, con i geni criminali nel sangue, o con l’etnia di provenienza, ma con una reciprocità di influenza tra condizioni sociali, economiche, culturali (cioè tassi di istruzione e di opportunità legali) e carriere criminali. Se le condizioni sociali in cui vivono e si formano migliaia e migliaia di persone non vengono affrontate, esse si riverseranno contro il resto della società; e le statistiche criminali sono il segno della vendetta delle situazioni che non si vogliono affrontare. Scriveva la mazziniana/garibaldina Jessie White Mario nel 1877 in un’inchiesta svolta nei quartieri più degradati della città partenopea: “Quando si pensa che lo Stato per obbligo della propria sicurtà è costretto ad albergare, custodire, nutrire e vestire tutti i suoi figli una volta che sono rei, è strano davvero che se ne dia così poco pensiero, finché sono innocenti e in grado di divenire utili ed onesti cittadini”. Aveva ragione allora e ancora di più oggi. Caso Barakat, mamma Antonella fa ricorso contro la sentenza Cedu di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 2 settembre 2021 Antonella Penati continua a lottare, nonostante una serie di sentenze che non hanno fatto giustizia della morte di suo figlio, Federico Barakat, massacrato dal padre nel 2009, a soli 9 anni. con 37 coltellate durante un incontro protetto, mentre era affidato ai servizi sociali del comune di San Donato Milanese. Per quel delitto lo Stato è stato assolto perché non era responsabile della sua incolumità. E anche la Corte Europea dei diritti umani, lo scorso maggio, ha confermato questa linea. “Ho chiesto alla Grande Camera della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo del Consiglio europeo) di riaprire il caso di mio figlio Federico per dare modo agli Stati membri di prendere in visione il fascicolo, anche relativamente alla fase di giudizio. Dopo la sentenza del maggio scorso che ha assolto lo Stato italiano avevo chiesto alle organizzazioni, alla stampa, alla società civile di urlare allo scandalo, ma soprattutto di chiedere che la Grande Camera e quindi i giudici di coscienza riaprissero il caso di Federico Barakat. È questo l’unico modo affinchè tutti gli Stati ne prendano visione e la sentenza non ricada su tutta l’infanzia italiana ed europea. Molti hanno voluto tacitare la propria coscienza e, sottolineo con forza, che sono corresponsabili di quanto accadrà ai bambini italiani ed europei al cospetto di tutta l’umanità. Solo il 5% delle istanze vengono accolte, sarà un miracolo e per questo chiedo alla stampa di avanzare una richiesta ufficiale” ha detto oggi in una conferenza stampa indetta dalla sua associazione, Federico nel cuore, e dall’Udi, Unione Donne Italiane. Questa madre non si dà pace. Suo figlio è morto perché lo Stato non ha creduto alle sue denunce sul carattere violento del padre, né ha voluto accettare il rifiuto del figlio ad incontrarlo ma ora lei vorrebbe che questo non accadesse più ad altri minori. “E invece la sentenza della Cedu stabilisce proprio il contrario - spiega - cioè che lo Stato non garantisce l’incolumità del minore durante gli incontri protetti. Quella della Corte Europea dei diritti umani è una decisione scandalosa presa da Paesi nei quali il concetto di diritto dell’infanzia trova scarsa applicazione. Parlo di Croazia, Polonia, Armenia, Andorra e Russia, oltre all’Italia. Voglio invece ringraziare il rappresentante di San Marino, il giudice Felici, che ha votato contro questo pronunciamento”. In conferenza stampa Antonella Penati vuole ribadire la legittimità su cui è stata fondata l’istanza alla Cedu ovvero “la negazione del diritto alla vita di un bambino, sono i fatti a dirlo” e il pericolo che incombe su tutti i bambini affidati allo Stato e ai servizi sociali. “Il mio Federico è stato ucciso in ambito protetto, era stato affidato alle cure dello Stato e proprio lo Stato - continua mamma Penati - quel giorno era andato a prenderlo a scuola e per quella decisione legale non c’era la sua mamma accanto a lui”. Nessuno ha pagato per “il sacrificio umano di mio figlio. Lo Stato si è affrettato a mettere a tacere la sua storia e molti per diverse ragioni hanno diffuso la voce che la causa fosse sbagliata perché mal intentata. Non è cosi, il fascicolo - precisa mamma Antonella - è stato accettato da una Commissione anche in tempi rapidi. La sentenza di assoluzione dello Stato italiano ha un’unica chiave di lettura e i giuristi seri capiscono la ridicola operazione che c’è dietro”. Per l’avvocato Federico Sinicato, che è sempre stato vicino a Penati durante questi anni di dolore, è evidente “che c’è una falla nel sistema. Fin dal primo momento la Procura della repubblica di Milano non ha voluto credere alla possibilità che la responsabilità fosse di altri e non del padre. Non è ammissibile che un bambino sottratto alla madre subisca una cosa del genere mentre è nelle mani dello Stato. La tesi è che loro dovessero solo organizzare degli incontri e non fossero responsabili della sua incolumità. Mentre la Cassazione parla della mancanza del trasferimento di garanzia dalla madre agli assistenti sociali. Tutto ciò mette in luce un vuoto normativo. Non ci può essere sospensione sulla sicurezza della vita di un minore. Qualcuno che risponda c’è sempre dalla scuola ai genitori”. In attesa del pronunciamento sull’appello alla Grande Camera, Penati ha chiesto un colloquio con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia e a quella dell’Interno, Luciana Lamorgese, “per analizzare gli aspetti da cambiare, alcuni dei quali già presenti nella proposta di legge `Federico B.´ avanzata alla senatrice Valente dall’associazione Federico nel cuore e Udi, sull’affido dei minori allo Stato, sul passaggio dal Tribunale all’Ente”. Oltre all’Udi e all’associazione D.I.R.E. anche Cgil, Cisl e Uil appoggiano la richiesta dell’Associazione Federico nel cuore: “Siamo a fianco di Antonella Penati (Associazione Federico nel cuore) ed esprimiamo grande solidarietà per la battaglia che da 12 anni sta portando avanti nel rendere giustizia per suo figlio, Federico. Chiediamo che le istituzioni trovino le modalità per assicurare l’incolumità fisica dei minori quando ne hanno la custodia. È necessario per questo evitare che possa ripetersi la tragedia così come è accaduto al piccolo Federico dando sicurezza e tutela a tutti i minori che sono e saranno affidati alle strutture pubbliche statali” hanno scritto in una nota congiunta le componenti del tavolo tecnico Violenza: Cgil - Giorgia Fattinnanzi; Cisl- Liliana Ocmin; Uil - Alessandra Menelao. Friuli Venezia Giulia. Carceri in regione, qualcosa si muove di Franco Corleone La Vita Cattolica, 2 settembre 2021 Confesso che provo nausea a pronunciare e a sentire usare la parola “sovraffollamento” a proposito della condizione del carcere. È davvero intollerabile che si denunci il divario tra detenute/i presenti e la capienza regolamentare (siamo riusciti a far eliminare dalle tabelle del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la cosiddetta capienza tollerabile), senza dire che la causa principale è dovuta alla legge proibizionista e punitiva sulle droghe che provoca più del 30% degli ingressi in carcere per violazione dell’articolo 73 sul piccolo spaccio e la detenzione di sostanze stupefacenti illegali. Se aggiungiamo una quasi equivalente cifra di detenuti qualificati come tossicodipendenti e autori di reati di strada (furti, scippi, rapine), dobbiamo ammettere che la metà della popolazione detenuta è legata a una questione sociale, ridotta a dimensione criminale. Deve essere chiaro che il sovraffollamento non è un elemento naturale come la grandine, ma il prodotto di una scelta di politica criminale. Se allarghiamo lo sguardo alla componente di poveri, stranieri, marginali, abbiamo la rappresentazione plastica di quella che Sandro Margara definiva come detenzione sociale. Si potrebbe anche qualificare come detenzione etica ed etnica. Anche le cinque prigioni del Friuli Venezia Giulia non sfuggono a questa fotografia. Una capienza di 467 posti e una presenza di 637 persone: una condizione che viola dignità e diritti elementari (a cominciare dalle condizioni igieniche e alla faccia delle prescrizioni previste dal Covid). A Udine, i 90 posti disponibili sono occupati da 137 poveracci, in una sorta di blasfema moltiplicazione non dei pani e dei pesci, ma della tortura. Che fare dunque? Non sono disponibile a ripetere una stanca litania e sono impegnato a cambiare le cose. Voglio fare di tutto per non essere ricordato come complice, fosse solo per omissione, di una realtà intollerabile e contro la Costituzione. Proprio per questo il 29 giugno a Udine si è costituito un tavolo di lavoro e di confronto con tutti i soggetti che lavorano a vario titolo nel pianeta carcere per individuare i nodi che impediscono l’applicazione piena delle norme dell’ordinamento penitenziario. Vi sono 55 detenuti che hanno il fine pena entro i prossimi due anni e mezzo (15 nel 2021, 20 nel 2022 e 20 nel 2023) e quindi potrebbero usufruire di misure alternative. Occorre uno scatto per giocare il rischio della libertà, piuttosto che avere paura del fallimento e soprattutto bisogna impedire che si resti fino all’ultimo giorno chiusi in gabbia, uscendo impreparati al reinserimento e incattiviti. Si tratta di una grande sfida per l’Amministrazione penitenziaria, per la magistratura di Sorveglianza, per il Volontariato, per il Comune e la Regione, per l’Uepe, per il Sert e per tutte le agenzie sociali: le risorse della Cassa Ammende possono costituire un volano per progetti di lavoro e housing. Da settembre in via Spalato si concretizzeranno importanti novità. Sarà riaperta dopo anni la palestra della Polizia Penitenziaria, sarà ristrutturata e resa più decente per gli operatori e per i pazienti l’Infermeria, sarà adattata a palestra per i detenuti la cella numero 17 e infine grazie al contributo del vescovo sarà aperto un luogo di culto e di meditazione che non esisteva e anche uno spazio per incontri culturali. Ho proposto alla Direzione la costituzione di un “Consiglio dei detenuti”, come momento di confronto tra una rappresentanza della popolazione ristretta e i diversi interlocutori istituzionali e l’accordo è di iniziare questa prova di democrazia in ottobre. Infine il 12 e 13 novembre sarà presentato in Sala Aiace il progetto di ristrutturazione del carcere che ha l’ambizione di costituire un modello di adeguamento a una architettura per favorire relazioni umane e condizioni di vita all’insegna della responsabilità e della autonomia. Qualcosa si muove nella direzione del cambiamento. Era ora. Trieste. Referendum giustizia, anche i detenuti partecipano alla raccolta firme triesteallnews.it, 2 settembre 2021 Il 30 agosto 2021 su iniziativa del referente locale del Partito Radicale - Marco Gentili - e del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Trieste, iniziativa condivisa dalla Direzione della locale Casa Circondariale, si è proceduto alla raccolta firme - da parte delle persone detenute - per poter indire i 6 referendum inerenti la Giustizia: riforma del Csm, responsabilità diretta dei magistrati, equa valutazione dei magistrati, separazione delle carriere dei magistrati, limiti agli abusi della custodia cautelare, abolizione del decreto Severino. L’iniziativa voleva garantire alla popolazione detenuta un proprio diritto, il diritto elettorale, esercitato attraverso la sottoscrizione (o la non sottoscrizione) di alcuni o di tutti i quesiti referendari; diritto che, diversamente, sarebbe stato vanificato, ovvero impedito, in ragione dello stato detentivo. L’iniziativa ha riscontrato interesse e partecipazione, nei giorni precedenti era stato distribuito, anche a cura del Garante, il materiale informativo relativo a ciascun referendum dando così l’opportunità a ogni persona di assumere le necessarie informazioni ed esercitare consapevolmente la propria scelta. Le operazioni di raccolta firme si sono potute svolgere con regolarità grazie alla collaborazione del personale della Polizia Penitenziaria che ha fornito tutti i riferimenti e documenti per permettere la corretta identificazione delle persone detenute. Alla raccolta firme presso la Casa Circondariale di Trieste “E. Mari” erano presenti Marco Gentili - locale referente del Partito Radicale - e Elisabetta Burla - Garante comunale. Salerno. “Il carcere di Fuorni dà futuro ai detenuti, ma qui manca tutto” di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 2 settembre 2021 Ispezione nella Casa circondariale fra elogi e tante carenze. “L’assistenza è ormai al collasso, c’è bisogno di interventi”. Un carcere che fa tanto - forse come pochi - per il recupero sociale dei detenuti. Ma sovraffollamento, carenza di personale e mancanza della giusta assistenza sanitaria per i reclusi sono un grosso problema. Il presidente della Camera penale, Luigi Gargiulo, parla perfino di “bomba sanitaria” per il carcere a Fuorni, di “sanità denegata”. Brutte notizie sul fronte Covid: solo il 55% dei detenuti e più o meno altrettanto tra la polizia penitenziaria è vaccinato. Per loro decisione. Ieri mattina, visita alla casa circondariale di Salerno da parte del presidente Gargiulo, dell’avvocato Fiorinda Mirabile, componente dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane e da Claudio Tringali, già presidente della Corte d’Appello di Salerno nonché attuale presidente della Fondazione Menna. “Il sistema sanitario in questo istituto è praticamente al collasso - ha affermato l’avvocato Mirabile. Quando c’è poi un’emergenza vengono compressi alcuni diritti, come i colloqui per i detenuti ma anche le visite mediche”. E l’avvocato Gargiulo ha aggiunto: “I detenuti lamentano finanche una visita odontoiatrica. C’è un paziente 50enne napoletano con cirrosi epatica che è in difficoltà e lasciato a se stesso. Una situazione di sanità denegata, una vera e propria bomba sanitaria su cui la magistratura deve fare luce sulle eventuali responsabilità dell’Asl”. Le condizioni. Nel carcere di Fuorni sono ospiti 450 detenuti (250 i comuni) e ne dovrebbero essere 390, e “molti sono in attesa di giudizio e con problemi fisici”, ha ribadito l’avvocato Mirabile. Per la loro sorveglianza ci sono 118 poliziotti penitenziari a fronte di un organico di 243. Ne sono in arrivo altri 31, ma tra trasferimenti e pensionamenti, l’organico aumenterà solo di una decina di unità. Si stanno completando i lavori per i serbatoi di accumulo d’acqua e potenziare i riscaldamenti, sono stati messi in sicurezza i passeggi, a settembre partirà la progettazione per tutta la prima sezione dei comuni e la creazione delle docce in camera. Opere importanti, realizzati anche grazie alla tenacia della direttrice Rita Romano. Ma poi il riunito (la sedia da dentista) è rotta da due anni e pure per una semplice visita bisogna andare fuori dal carcere. “Il personale è davvero poco e gli agenti sono stanchi - ha sottolineato l’ex magistrato Tringali -. La direzione è encomiabile e lo stesso vale per la polizia penitenziaria, persone che si sacrificano per sopperire alle carenze. E, nonostante tutto, grazie al lavoro di Rita Romano, l’istituto ha cambiato volto”. La vivibilità. “La direzione del carcere fa di tutto per rendere la detenzione più umana possibile e risolvere i problemi”, ha detto il presidente Gargiulo come elogio alla direttrice Romano. “L’impressione che ho avuto - ha spiegato Tringali - è quella di una casa circondariale che rispetto al passato ha fatto grossi passi in avanti. Qui si producono milioni di mascherine, poi c’è la scuola alberghiera, di ceramica. Si evita che i detenuti siano costretti a non far nulla e si dà un futuro occupazionale”. Le mascherine. “Ho ricevuto come regalo di compleanno un pacco di mascherine realizzate dai detenuti, una vera e propria eccellenza a livello nazionale, anche se non ha ricevuto neanche una visita istituzionale, nonostante producano il doppio degli altri e con meno persone impegnate alle macchine”, commenta amareggiata l’avvocato Mirabile. Solo nel mese di agosto sono state prodotte 480mila Dpi in quella che la prima impresa interna a un carcere d’Italia, primi a ripartire dopo la pausa del luglio scorso, e che garantisce maggiore produzione, pur avendo meno macchinari a disposizione e un minor numero di detenuti applicati. Al momento, dopo un corso di formazione, sono impegnati una trentina di reclusi a Fuorni, che potranno avere un futuro lavorativo. Frosinone. Tante richieste di aiuto in ambito sanitario di Maria Teresa Caccavale* Il Dubbio, 2 settembre 2021 L’articolo 32 della Costituzione, tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo. Purtroppo, senza per questo negare eccezioni, non è ancora così. Tanta sollecitudine ed efficienza per i vaccini a cui non corrisponde altrettanta efficienza per altre patologie. In carcere i problemi si amplificano e i diritti si assottigliano sempre di più così, anche il diritto a ricevere le giuste cure. Da molte carceri arrivano richieste di aiuto in ambito sanitario. Carenza di medici e di personale paramedico, così come di personale di sorveglianza. Nel carcere di Frosinone è in atto una manifestazione pacifica a tale riguardo. La Direzione è informata così come anche la Asl di competenza ed il Garante Regionale del Lazio. Speriamo che qualcuno si muova prima che arrivi qualche altra notizia di suicidio. Quando si parla di carcere tutto va a rilento e tutto può essere rinviato. I diritti sono per tutti senza distinzione alcuna di razza, sesso, lingua religione, opinioni, così recita l’articolo 3 della Costituzione e le norme di diritto internazionale. Troppe poltrone senza senso e nessuno che si assume il dovere di una decisione fondamentale per la vita degli ultimi. *Volontaria in carcere, presidente dell’associazione Happy Bridge Vercelli. Carcere laboratorio di pace, iniziativa della Comunità di Sant’Egidio L’Osservatore Romano, 2 settembre 2021 Il tema della pace ha tenuto banco nel corso degli ultimi dieci mesi nella Casa circondariale di Vercelli con seminari, dibattiti e scambi di idee tra detenuti-studenti ed educatori. Un “taglio” voluto dai volontari della Comunità di Sant’Egidio per approfondire e valutare l’attuale momento di crisi, convinti che anche il carcere deve essere un luogo privilegiato per fornire gli strumenti necessari per l’educazione alla pace. Quello sostenuto dalla direttrice dell’istituto, Antonella Giordano, dalla vice comandante della polizia penitenziaria, Giuseppina Gambino, e dalla responsabile dell’area educativa-trattamentale, Valeria Climaco, è stato un progetto finalizzato a un’educazione creativa che ha consentito agli ospiti di sviluppare una coscienza in grado di trasformare l’aggressività in una ragionevole operatività, affinché i diritti umani possano realmente diventare potenziali operativi anche per chi vive da “ristretto”. Con tanto di diploma e cerimonia di consegna ai trenta discenti che, nonostante le limitazioni imposte dalla pandemia, sono riusciti a seguire i corsi (dall’ottobre 2020) e a ottenere l’attestato dei Laboratori di Pace. “I detenuti di diverse nazionalità si sono confrontati sulla guerra, la violenza e il razzismo nel mondo attuale e hanno espresso il loro sincero desiderio di pace, un bene necessario a tutti come l’aria che si respira”, spiega Paolo Lizzi, volontario della Comunità di Sant’Egidio e referente del progetto. “Durante il corso si è parlato molto degli effetti rovinosi provocati dalle guerre, in particolare la tragedia dei profughi”, continua Lizzi, rivelando che, “grazie alla testimonianza di una persona della Comunità che si è recata sull’isola di Lesbo l’estate scorsa, i ragazzi hanno potuto conoscere da vicino la disperazione di migliaia di uomini e donne che lottano fra tanti ostacoli per costruirsi un futuro migliore. Hanno ascoltato le storie dolorose di alcuni profughi, le incredibili peripezie che affrontano per giungere in Europa, le vicende di chi non ce l’ha fatta ed è annegato tragicamente nel Mediterraneo. E questo, più di tante considerazioni razionali, aiuta a smontare i pregiudizi, a vincere quelle sottili, o aperte, forme di razzismo e di intolleranza che pervadono la nostra società, tanto fuori quanto dentro le mura carcerarie”. Durante il corso è stato spiegato che il bene-pace è un valore comune a tutte le fedi religiose e pertanto la via del dialogo non può essere abbandonata dopo che è stata inequivocabilmente tracciata ad Assisi, quando si riunirono tutte le grandi religioni del mondo. E proprio quell’appuntamento ha rappresentato una sfida aperta all’umanità, che deve comprendere come la pace si costruisca non solo diminuendo le armi in circolazione ma soprattutto abbattendo steccati e recinti. “Detenuti cristiani e musulmani hanno partecipato con molto interesse a un incontro proprio sullo spirito di Assisi scaturito dalla prima preghiera delle grandi religioni mondiali per la pace voluta da san Giovanni Paolo II nel 1986”, racconta Lizzi. E, ancora, “sono state presentate figure significative di uomini di pace che hanno pagato con la loro vita il sogno di un mondo senza ingiustizia e razzismo, come Martin Luther King e don Puglisi. È importante sottolineare che, al termine di ogni laboratorio gli ospiti hanno sempre pregato, ciascuno secondo il proprio credo, per tutti i Paesi e le aree del mondo ferite dalla guerra, dall’odio, dalla violenza”. In sostanza si è posta l’attenzione sul rapporto con l’altro, sul diverso, e di come sia possibile vivere insieme imparando a gestire i conflitti e a conoscere anche le testimonianze e i volti di coloro che si sforzano di attuare pratiche di pace e difesa delle vittime nei luoghi di conflitto, non solo quelli delle grandi guerre, ma anche i più piccoli e, per questo, più difficili da risolvere. “Ma la pace non è solo assenza di guerra. È qualcosa di più profondo che si costruisce giorno per giorno, nella vita quotidiana”, osserva il responsabile: “E legata al nostro cambiamento personale, non dipende solo dalle decisioni dei potenti della terra. Alcuni detenuti hanno ammesso che non è facile vivere con un cuore pacificato perché prevalgono a volte sentimenti di inimicizia, rancore, vendetta, odio. Ma questi sentimenti non aiutano né a crescere né a essere migliori”. A fine corso uno dei corsisti si è detto convinto che “la strada migliore è sempre quella della parola, del dialogo, della riconciliazione con gli altri. È una strada non sempre facile da percorrere, perché richiede pazienza, costanza, autocontrollo, fiducia nel prossimo, ma è quella che avvicina, più di ogni altra, alla convivenza pacifica tra genti di età, lingue e tradizioni diverse. Lo si vede anche nel microcosmo del carcere, un luogo di convivenza forzata e a volte difficile, ma spesso illuminato da bellissime storie di amicizia e di solidarietà fra ristretti”. È la conferma che, per ammissione degli stessi partecipanti, il corso ha aiutato ad aprire nuovi orizzonti. “Spesso nelle carceri - conclude Lizzi - i discorsi fra i detenuti finiscono per avvitarsi inesorabilmente sugli stessi argomenti. Si parla molto della posizione giuridica, di reati, avvocati, giudici, delle famiglie lontane. Eppure molti, in questo tempo di forzata inattività, vorrebbero entrare in possesso di nuovi strumenti culturali, conoscere, imparare, capire qualcosa del mondo, della vita fuori. E confrontarsi con esempi positivi, che infondano speranza e aiutino a guardare in alto e verso il futuro, oltre i piccoli, limitati (e spesso deprimenti) orizzonti quotidiani. Durante i laboratori di pace i ragazzi hanno scoperto di poter fare molto per costruire il grande edificio della pace attraverso la preghiera, la cultura e l’informazione. Ma anche con tanti piccoli gesti quotidiani di solidarietà, umanità, dialogo che sono alla portata di tutti. Insomma, anche in carcere è possibile mettersi al servizio della pace. Così facendo si aprono i cieli chiusi e si comincia a gustare il sapore della libertà”. Livorno. Carcere di Gorgona, i detenuti con la Lav per salvare gli animali di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 2 settembre 2021 Gli ospiti della colonia penale dell’isola toscana fermano la macellazione di quasi 600 tra maiali, capre, galline, bovini saranno in parte trasferiti sulla terraferma e dati in adozione. Il primo decreto di grazia il direttore del carcere Carlo Mazzerbo l’ha firmato per Bruna. Poi è toccato a Valentina tornare libera con tanto di timbro del ministero di Grazie e Giustizia. È stato l’inizio di una rivoluzione che ha salvato 588 creature da una vita insostenibile e spesso dalla morte. E pochi giorni fa sull’isola di Gorgona (Livorno), l’ultima colonia penale italiana, è stata gran festa con il direttore Carlo Mazzerbo, gli agenti di custodia, la Lav (Lega anti vivisezione) e i detenuti, quelli umani, che popolano l’isola, lavorano e si preparano a tornare, da uomini liberi, nella società civile. E già perché ad essere graziati, stavolta, sono stati gli “animali non umani”, come li definisce il direttore Mazzerbo, ovvero maiali come Bruna, bovini come Valentina, e poi capre, pecore, galline e qualunque animale che sull’isola non sarà più macellato. La maggior parte dei “graziati” tra poco sarà trasportata con una nave speciale nei centri della Lav e sull’isola resteranno solo pochi individui da compagnia e da cortile che saranno accuditi amorevolmente dai carcerati, quelli umani. “Sono stati anche loro a chiedere di non macellare più gli animali - spiega il direttore del carcere Carlo Mazzerbo - ed insieme alla Lav e a Marco Verdone, che per anni è stato il veterinario di Gorgona, abbiamo realizzato una Carta dei diritti degli animali e abbiamo iniziato un percorso per la loro liberazione”. Mazzerbo appartiene a una categoria rara: quella dei direttori di carcere che non guardano solo ai regolamenti e alle regole delle prigioni, a volte imbarazzanti (e dannose), ma applicano i veri principi dell’istituzione carceraria: la rieducazione. A Gorgona, dove è stato direttore per decenni e ha sfidato con coraggio le insidie della burocrazia, ha adottato la pedagogia del fare, consentendo ai detenuti di lavorare liberi, organizzando colloqui all’aperto con i familiari quando ancora nelle carceri italiane c’erano i divisori. Ha dovuto superare momenti difficili, Carlo Mazzerbo, anche sul piano personale, incomprensioni, accuse assurde ma alla fine ha vinto. Lui non ama essere adulato e, dopo aver creato sull’antica Alcatraz della Toscana, un luogo straordinario per la rieducazione dei detenuti con iniziative eccellenti (qui si produce anche il vino della famiglia Frescobaldi) adesso è anche l’artefice, insieme alla Lav, di questo paradiso degli animali. “Che non è fine a se stesso - spiega il direttore - ma ha anche una valenza pedagogica. Perché lo smantellamento di un mattatoio può essere una forma di rieducazione etica. Gli animali che rimarranno sull’isola, e che i detenuti accudiscono, non saranno percepiti solo come carne ma come amici”. Insomma un salto di paradigma. La liberazione e la Carta degli animali - “Abbiamo avviato - continua Mazzerbo - una serie di progetti legati alla liberazione degli animali. Tra questi un laboratorio di scrittura creativa grazie alle quali i detenuti scriveranno le loro storie con gli animali”. Ma già oggi, dopo la prima firma della Carta degli animali, il lavoro dei volontari della Lega antivivisezione, i risultati tra gli ospiti di Gorgona sono evidenti. “Come la consapevolezza del rispetto della vita degli altri - spiega Mazzerbo - concetto fino ad oggi sconosciuto sugli animali. Capire che ci sono degli ultimi, oltre agli ultimi classificati dalla società, è stato qualcosa di importante che inizia ad essere diffuso e capito. Perché tutti sanno che difendendo i diritti degli ultimi anche i penultimi avranno un vantaggio. È un cambiamento molto importante”. Agli animali, spiega ancora, sarà riconosciuto “il miglior livello di benessere possibile in relazione alle esigenze specifiche, alla sua individualità e alla interazione con gli esseri umani” e saranno esclusi, come prevede l’accordo, “da ogni circuito finalizzato alla produzione di alimenti per gli esseri umani e non umani”. Avranno una morte dignitosa “secondo la naturale durata di vita che non preveda macellazioni o soppressioni violente per causa umana”. Stop macellazione - E non chiamatela utopia. “Il modello Gorgona, fondato sul rapporto umani-animali come mezzo di rieducazione e riabilitazione, non più? basato sullo sfruttamento ma su cura e rispetto reciproci - sottolinea il presidente nazionale della Lav, Gianluca Felicetti - è già una realtà. E soprattutto un modello pedagogico e filosofico per la nostra società che deve ripensare profondamente il proprio rapporto con gli animali”. Velletri. “Evasioni di settembre”, tre giorni di confronti culturali sulla pena di Maria Sole Lupi castellinotizie.it, 2 settembre 2021 Il 6-7-8 settembre 2021, il cortile dell’ex carcere di Velletri - sito al centro storico nei pressi del palazzo comunale - ospiterà una tre giorni di confronti culturali dall’alto valore civile e sociale per “Una consapevolezza sulla pena”. Nella suggestiva cornice dell’ex carcere storico veliterno - risalente al tardo ‘800 - e recente luogo ospite del set cinematografico per alcune scene del film “Il Signore delle formiche” di Gianni Amelio saranno dedicate tre giornate (dal 6 all’8 settembre) ricche di interventi per riflettere sulla condizione carceraria. Vi saranno ospiti illustri del panorama artistico, accademico e della ricerca sulla realtà penitenziaria italiana. L’idea di un evento a tal scopo nasce in occasione delle riprese cinematografiche del film incentrato sulla storia di Aldo Braibanti, durante le quali - si legge nel comunicato stampa del Comune di Velletri- si è constatato che tra i locali della vecchia struttura carceraria adibiti a set cinematografico, il cortile esterno si è mantenuto integro. “Nacque allora l’idea di organizzare un evento per riflettere sulla condizione carceraria, successivamente messa in pratica dall’amministrazione comunale in collaborazione con la Regione Lazio e il consigliere regionale Daniele Ognibene”. “Evasioni di settembre” ha un titolo altamente evocativo. Ad occuparsi dell’impianto scientifico e della progettazione dell’evento è professore della Luiss e segretario dell’Associazione per Santo Stefano in Ventotene Onlus, Anthony Santilli. La tre giorni sarà coordinata dal giornalista di Repubblica.it, Massimo Razzi. Il calendario previsto degli interventi sarà il seguente: Lunedì 6 settembre. “Narrare” è il titolo del primo incontro. Dopo i saluti del sindaco Orlando Pocci vi sarà la presentazione di due libri sul tema: “Dentro” di Sandro Bonvissuto e “Storia della penalità e modi di comunicazione” di Claudio Sarzotti. Seguirà l’intervento conclusivo di Silvia Costa, Commissaria Straordinaria del Governo per il recupero e la valorizzazione dell’ex carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano-Ventotene. Martedì 7 settembre, “Vivere” è il titolo del secondo incontro. Giornalisti, artisti e volontari porteranno il racconto del loro contributo umano nelle carceri italiane. Da Laura Andreini presidente di “La Ribalta”; il pluripremiato regista e autore del “Teatro Libero di Rebibbia” Fabio Cavalli; il giovane giornalista romano Gabriele Cruciata; a Sasà, ex detenuto e attuale attore e scrittore. Mercoledì 8 settembre, “Progettare” è il titolo del terzo e ultimo incontro. Ad illuminare il dibattito nell’ottica anche di auspicabili proposte future vi saranno il Garante Regionale dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia; Marco Ruotolo, ordinario di Diritto Costituzionale al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, direttore del Master di II Livello in Diritto Penitenziario e Costituzione dell’omonima Università e noto studioso di riforme carcerarie; Patrizio Gonnella, giurista, ricercatore e Presidente di Antigone (associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” con sede a Roma). L’ultima giornata si concluderà con gli interventi dei Consiglieri regionali: Alessandro Capriccioli (di +Europa) e Daniele Ognibene (di Liberi e Uguali). Dal comunicato stampa dell’evento: “Evasioni di settembre” sarà anche l’occasione per gli intervenuti di visitare uno stralcio dell’edificio sul quale l’amministrazione sta progettando una riqualificazione per restituire alla comunità un luogo di riflessione e di visione”. Sarà di sicuro interesse anche del pubblico quello di partecipare a un dibattito dagli alti intenti, ritrovandosi immersi in un luogo che è stato di dolore e di sofferenza e che impone a tutti una seria riflessione. Un evento unico nel suo genere (sul modello del Convegno al carcere di Santo Stefano nelle Isole Pontine di questa estate) che punta a far uscire i Convegni tematici dalle aule universitarie, dalle sale comunali o dai monitor di pc e tablet, mettendo al centro i luoghi reali e la comunità che li abita. Quella sete di spiritualità dietro le sbarre L’Osservatore Romano, 2 settembre 2021 In un libro Davide Pelanda illustra il ruolo della dimensione religiosa nei penitenziari italiani. Come vive un detenuto la sua spiritualità? Il sistema carcerario di oggi offre a chi è in carcere la possibilità di coltivare la propria fede? E come si realizza il rispetto delle tante religioni diverse presenti nelle celle dei penitenziari di tutta Italia? È a questi e a diversi altri interrogativi sul tema che si propone di rispondere l’ultimo libro di Davide Pelanda, dal titolo “Il Dio carcerato. Il ruolo della dimensione religiosa nei penitenziari italiani. Testimonianze ed esperienze” (Le Mezzelane Casa Editrice). “Mi occupo di questioni legate al carcere da vent’anni e, da quel che mi risulta, nessuno si era mai occupato di questo tema prima d’ora. Ho pensato fosse utile e importante mettere a sistema tutta una serie di informazioni e indicazioni essenziali che mancavano e che ho raccolto in questo mio viaggio”, spiega Pelanda. Le carceri italiane sono molto cambiate, soprattutto negli ultimi vent’anni. A cominciare dalla popolazione che si trova al suo interno: “Attraversare i corridoi di un penitenziario oggi significa ascoltare più idiomi e lingue differenti, uomini e donne dalle provenienze più diverse, con situazioni ed esigenze spesso molto lontane tra loro. Sono vite spezzate - aggiunge l’autore - che stanno lì per ricostruirsi, ma che possono facilmente cedere allo sconforto profondo, fino ad arrivare ai gesti più estremi. Ed è proprio lì che per alcuni detenuti subentra una sete di spiritualità e di religiosità, quell’ancora di salvezza che può dare un senso alle considerazioni pessimistiche e aiutare a voltare pagina. Il carcere è sofferenza, sconforto, si cercano appigli per non sprofondare, e cosa c’è di più spontaneo per ciascuno di noi se non la spiritualità?”. C’è chi era religioso prima di varcare l’ingresso del carcere e chi lo diventa in seguito proprio per trovare una via d’uscita ed evitare di crollare: “Ciascuno con il proprio Dio, ma tutti con il chiaro desiderio di rivolgersi a una presenza “amica”, rassicurante, decisiva per la serenità dietro le sbarre”, precisa Pelanda. Nel suo viaggio nel mondo dei penitenziari, l’autore ha incontrato credenti delle grandi religioni, delle confessioni cristiane storiche fino ai praticanti di culti come i testimoni di Geova, gli avventisti del settimo giorno e gli evangelici: “Ho provato a raccogliere le voci dei protagonisti, le loro lettere e le loro preghiere. Un modo per far capire meglio, a chi vive nel mondo esterno, quante e quali sono le necessità spirituali della popolazione carceraria oggi”. Lungo la strada Davide Pelanda ha incontrato esperienze molto significative, volontari che si sono messi in gioco nelle realtà dei penitenziari gettando un seme. La più interessante? “Per esempio il gruppo Una via, attivo da oltre dieci anni a Bologna. Si tratta di giovani, universitari e non, che ogni venerdì si riuniscono per riflettere e meditare assieme ad alcuni carcerati nel contesto della casa circondariale bolognese detta della “Dozza”. La meditazione e la riflessione - sottolinea - avvengono con l’aiuto della lettura di autori che spaziano da Marco Aurelio a Gandhi e Tolstoj, fino a Kierkegaard e Lao-Tse. Includendo il Vangelo e alcuni passi del Corano. Alle riflessioni seguono alcuni minuti di silenzio, quindi considerazioni personali e domande sulla felicità, la libertà, la fiducia e l’amore. Gli studenti portano vitalità e simpatia, caratteristiche che i detenuti apprezzano molto”. Il pluralismo religioso, però, non sempre viene rispettato appieno: “Tutti i detenuti dovrebbero poter professare liberamente la propria religione, tradizione o fede. Tuttavia la realtà è diversa”, osserva Pelanda. “Tutti conosciamo i problemi cronici della realtà carceraria italiana: mancano gli spazi, le risorse non bastano mai, per le guardie carcerarie servirebbe più formazione specifica. Capisco benissimo che nella situazione di disagio e sovraffollamento in cui si trovano i penitenziari, è difficile chiedere luoghi di culto differenti dalla cappella cattolica. Mi ha comunque confortato il fatto di aver incontrato alcuni direttori di carcere, particolarmente illuminati, che nonostante tutte le difficoltà sono riusciti a ritagliare spazi ad hoc per le preghiere, ad esempio, dei musulmani. Riconoscendo dignità a tutte le altre religioni e confessioni cristiane”, conclude l’autore del volume. Se il green pass rischia di creare più tensioni di un vero obbligo vaccinale di Paolo Delgado Il Dubbio, 2 settembre 2021 La vera priorità del governo? Mettersi al riparo da eventuali ricorsi, cercando di costringere la popolazione a vaccinarsi per vie traverse. Sin qui l’Italia se l’era scampata. Manifestazioni, parole in libertà di qualche leader politico, molto folklore ma nulla a che spartire con il dissenso massiccio e a tratti violento che aveva segnato quasi tutti gli altri Paesi occidentali. Gli episodi degli ultimi giorni, pur senza esagerarne l’importanza come fanno in troppi, indicano però chiaramente che l’incantesimo sta per terminare. Nel prossimo mese le tensioni intorno alla campagna di vaccinazione e soprattutto intorno al Green Pass probabilmente si moltiplicheranno, aumenteranno d’intensità, sfioreranno la violenza e forse a volte varcheranno quel confine. Oggi stesso sarà una giornata ad alto tasso di rischio, con la minaccia dei manifestanti di bloccare le stazioni e una ministra degli Interni, finora estremamente equilibrata, che però nel clima esasperato da tutte le parti che si sta creando non potrà permettere l’occupazione dei binari. Ma per tutto settembre e oltre, con la riapertura delle scuole e il pieno ritorno al lavoro, in entrambi i casi mense incluse, con il prevedibile progressivo irrigidimento delle regole del Green Pass e con la necessità di passare molto più tempo in luoghi chiusi. Le ragioni di questa polarizzazione assurda, che non divide il Paese in due ma in una maggioranza a fronte di una forte e non trascurabile minoranza, sono molte e diverse ma certamente più complesse di quanto il coro unanime dei media e della maggioranza dei politici non lascia intendere. Le strumentalizzazioni politiche ci sono, ma non andrebbe esagerato il ruolo di un’organizzazione marginale persino nella destra radicale come Forza Nuova né bisogna attribuire all’ambiguità della Lega responsabilità maggiori di quante non ne abbia effettivamente. Una parte di Paese, non farneticante o con la svastica, è spaventata dai vaccini, spesso in modo del tutto irrazionale, e irritata dal Green Pass, in questo caso senza peccare troppo di irrazionalità. In parte questa lacerazione è inevitabile: una percentuale di non vaccinati, per paura, fede o opportunismo furbetto è fisiologica ed è altrettanto ovvio che quella percentuale resista rumorosamente a ogni tentativo di forzarle la mano. In parte però è una conseguenza della strategia scelta dal governo italiano, come da innumerevoli altri: non imporre formalmente il vaccino, per evitare tensioni politiche ma forse anche per mettersi al riparo da eventuali cause future nel caso di conseguenze, ma cercare di costringere la popolazione a vaccinarsi per vie traverse. Tutti sanno o comunque scoprono nell’esperienza quotidiana che quanto agli obiettivi dichiarati il Green Pass è spesso inefficace e contraddittorio, come è normale essendo il vero obiettivo solo costringere i riottosi a vaccinarsi. In questo modo, però, si diffondono irritazione ed esasperazione e per alcuni anche la convinzione di essere sottoposti a una vera e propria vessazione. In questo terreno hanno gioco facile quelli che mirano a far impennare la tensione con gesti inaccettabili come le violenze o la pubblicazione sui siti dei numeri di telefono di politici e medici indicati di fatto come “nemici”. D’altro lato, però, l’unico modo di giustificare la decisione di costringere a vaccinarsi senza ammetterlo apertamente è amplificare al massimo la minaccia costituita dai recalcitranti, con una campagna a tappeto che finisce a propria volta per indicarli alla maggioranza della popolazione come nemici, untori, responsabili del prolungarsi della pandemia. In questo modo però si diffonde presso quella parte di popolazione una esasperazione e una ostilità nei confronti di chi protesta contro i vaccini uguale e contraria a quella che dilaga tra i no vax e i no Green Pass. I risultati di questa polarizzazione, troppo ghiotta perché tutte le forze politiche, nessuna esclusa, rinuncino a cercare di ricavarne dividendi elettorali, sono potenzialmente micidiali. Perché lacerano il Paese in un momento in cui sarebbe invece necessaria, almeno sul fronte della pandemia, la massima compattezza. Ma anche perché distolgono l’attenzione dai nodi reali. Il 99 per cento della popolazione dei Paesi poveri non vaccinata costituisce un rischio infinitamente maggiore del 10 per cento di professori non vaccinati. La carenza di aule e di mezzi pubblici agevola il lavoretto del virus molto più degli strepiti dei no vax. Ma per riportare i problemi nelle proprie giuste dimensioni ci vorrebbe un sussulto di ragionevolezza e pacatezza che invece è, questo sì, reso impossibile dalle esigenze propagandistiche di tutte le forze politiche. L’inquinamento fa più morti dell’Hiv: con aria più pulita vivremmo 6 anni in più di Paola Rosa Adragna La Repubblica, 2 settembre 2021 A meno che il particolato nell’atmosfera non venga ridotto secondo le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, ogni persona perderà in media 2,2 anni di vita. Se ci fossero meno emissioni, a Milano si vivrebbe un anno in più. Quanto più a lungo vivremmo se respirassimo aria pulita? La risposta è fino a 6 anni in più. Un dato allarmante, se si considera che l’inquinamento causa anche più morti del fumo, degli incidenti automobilistici e dell’Hiv. I nuovi dati dell’Air Quality Life Index (Aqli) mettono in luce i danni causati dal particolato nell’atmosfera e le conseguenze terribili che si prevedono se non si prenderanno presto azioni politiche. A meno che l’inquinamento non venga ridotto per soddisfare le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ogni persona perderà in media 2,2 anni di vita. Che potranno superare i 5 anni per tutti quelli che vivono nelle aree più inquinate del mondo, per esempio l’India e buona parte del Sud-est asiatico. In Europa la situazione migliora rispetto agli anni passati, ma nel Nord Italia ancora siamo sopra il limite di 10 microgrammi per metro cubo suggerito dall’Oms, con Milano maglia nera che raggiunge i 18,7. Se si rispettassero le linee guida, i milanesi guadagnerebbero quasi un anno di vita. “In un anno particolare come quello del Covid appare sempre più evidente l’importanza delle politiche per la riduzione dei combustibili fossili, che contribuiscono sia all’inquinamento che al cambiamento climatico”, afferma il professor Michael Greenstone, creatore dell’Aqli insieme ai colleghi dall’Energy Policy Institute dell’università di Chicago. “Questo indice dimostra i vantaggi che queste politiche potrebbero apportare per migliorare la nostra salute e allungare la nostra vita”. Un esempio su tutti è rappresentato dalla Cina. Da quando il Paese ha iniziato la sua “guerra contro l’inquinamento” nel 2013, il particolato nell’aria è calato del 29%. In 6 anni il Dragone è riuscito a ridurre le emissioni in quantità pari ai tre quarti del dato mondiale. Se questi risultati fossero duraturi nel tempo, la popolazione cinese avrebbe guadagnato 1 anno e mezzo di vita. Se si procedesse allo stesso modo in India, dove 480 milioni di persone respirano livelli di inquinamento 10 volte peggiori di quelli riscontrati in qualsiasi altra parte del mondo, le persone vivrebbero 5,9 anni in più. La situazione del Sud-Est asiatico è una delle più drammatiche: l’inquinamento atmosferico si sta rivelando una delle principali minacce in metropoli come Bangkok, Ho Chi Minh City e Giacarta. In queste città il rispetto delle linee guida Oms farebbe guadagnare dai 2 ai 5 anni di aspettativa di vita per ogni residente. E nell’Africa centrale e occidentale, gli effetti dell’inquinamento sono paragonabili a quelli di Hiv e malaria, ma ricevono molta meno attenzione. “Gli eventi dell’anno passato ci ricordano che questo non è un problema che i Paesi in via di sviluppo devono risolvere da soli”, afferma Ken Lee, direttore dell’Aqli. “L’inquinamento atmosferico causato dai combustibili fossili è un problema globale che richiede politiche forti su ogni fronte, anche da parte dei negoziatori mondiali sul clima che si riuniranno nei prossimi mesi”. Neppure Salvini crede più all’invasione dei migranti di Giovanni Tizian Il Domani, 2 settembre 2021 Un anno fa in campagna elettorale gli account della Lega cavalcavano la paura degli sbarchi. Ma ora tutti sono preoccupati dalla pandemia e non vale più la pena investire sui “clandestini”. “Invasione, invasione”. Ormai l’allarme ripetuto da Matteo Salvini sui migranti e gli sbarchi suona come la storia di al lupo al lupo. E devono averlo capito anche gli italiani, sicuramente una parte degli elettori che nel 2018 hanno incoronato con una valanga di voti la Lega portandola sopra il 17 per cento e al governo con i 5 Stelle nel governo guidato da Giuseppe Conte, il cosiddetto Conte 1. “Invasione, invasione”, ha ripetuto in questi giorni il leader della Lega con l’obiettivo di far cadere Luciana Lamorgese dopo l’umiliazione subita con le dimissioni del suo braccio destro nel Lazio Claudio Durigon, il sottosegretario nostalgico della Latina littoria tanto da voler rinominare il parco Falcone e Borsellino in Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Eppure tale orda incontrollata proveniente dall’Africa non esiste nella realtà, c’è traccia solo nel menu preimpostato della propaganda della Lega sovranista, da cui silenziosamente persino i vecchi leghisti della corrente “Prima il Nord” hanno preso silenziosamente le distanze, non lo seguono più su questa strada sconnessa dai numeri e dai dati ufficiali. Il tema immigrazione non preoccupa più come nel 2018 e nel 2019, dibattito fomentato dallo stesso Salvini all’epoca ministro dell’Interno con i blocchi delle navi cariche di persone in mezzo al mare: strategia per parlare di immigrazione e mostrare agli italiani che lui era l’unico argine alle “politiche immigrazioniste” e che solo lui poteva risolvere il problema. In realtà i numeri erano in calo a partire dall’ultimo governo con ministro Marco Minniti che ha siglato gli accordi con la Libia, autorizzando la guardia costiera libica a riportare i migranti intercettati nel Mediterraneo nell’inferno delle prigioni di Tripoli e dintorni. La percezione dell’invasione ha raggiunto livelli altissimi, è stata il termometro delle campagne elettorali che si sono combattute su questo per moltissimi anni. Difficile cancellare dalla memoria la campagna elettorale per le comunali di Roma dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani vinte da Gianni Alemanno con la destra radicale che aveva condotto la battaglia contro il centrosinistra più che sulla sicurezza urbana sull’insicurezza dei cittadini. Anche la campagna per le politiche del 2018 ha avuto picchi di discussioni sull’immigrazione, anche molto feroci con Salvini e Giorgia Meloni in prima linea e parte di una rete sovranista (inaugurata molti anni prima da Marine Le Pen in Francia) ossessionata dalle frontiere e dalle muraglie. Con il solito schema: un fatto di sangue il cui autore è straniero strumentalizzato per tracciare un solco tra noi e loro, i non italiani, quasi sempre africani arrivati “con l’ultimo sbarco a Lampedusa”. I canali social della Lega in quel periodo erano imbottiti di contenuti su cittadini stranieri violenti, presunti criminali di ogni tipo, video spesso rivelatesi fasulli. Ma di questo si alimentava la propaganda della nuova Lega di Salvini e la squadra da lui selezionata che si è affidata a uno strumento in grado di percepire in anticipo il sentimento quotidiano degli utenti su Facebook così da proporre quel tema e cavalcarlo. Strumento costato svariati milioni di euro in questi anni al partito e passato alla storia come “la Bestia”, metafora ormai usata per definire la propaganda stessa. Tuttavia la parabola della Bestia è in discesa, un tempo non sbagliava un colpo. Ora lo spirito sovranista fatica a connettersi con la realtà e le percezioni degli utenti e dei cittadini in carne e ossa. Simbolo di questa decadenza è l’attacco a corrente alternata rivolto alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, colpevole secondo Salvini di aver permesso la moltiplicazione degli sbarchi, che però restano nettamente al di sotto del picco 2014-2017, assolutamente tollerabili rispetto ai numeri degli altri paesi europei come la Spagna, per esempio, o la Germania, qui per esempio accolgono molte più persone di noi senza avere sbarchi. Dunque non c’è alcuna invasione, nessuna emergenza. Su google trend, strumento che sonda le ricerche degli utenti sul web, è evidente che negli ultimi 12 mesi le parole “immigrazione”, “clandestini”, “migranti”, hanno avuto un crollo. La pandemia ha preso il sopravvento, conquistato le menti e le nostre paure quotidiane. Chi naviga su internet a caccia di informazioni, più o meno verificate o per nulla filtrare, cerca novità sul virus, è preoccupata dal rischio dei licenziamenti, non c’è, insomma, sbarco che regga di fronte a questa pandemia che ha stravolto le vite di tutto il mondo. La macchina della propaganda della Lega di Salvini ha ovviamente colto il cambiamento, le battaglie contro le chiusure, contro i green pass hanno conquistato le pagine dei social network a marchio leghista. L’immigrato sporco e cattivo ha ancora un suo spazio, ma limitato rispetto a prima. Segno che all’invasione non ci credono neppure i sovranisti. Un’analisi della pagina Facebook di Matteo Salvini rivela che nell’ultimo anno sono calati sensibilmente i post sull’immigrazione, ma soprattutto sono cessate le sponsorizzazioni delle pubblicazioni sulle pagine che hanno come argomento immigrati colpevoli di qualcosa. Nella “libreria” delle inserzioni (un archivio delle pubblicità per valorizzare i singoli interventi o video) relative alla pagina di Salvini il dato è evidente: a luglio scorso sono stati spesi 29 mila euro circa per il referendum sulla giustizia, a giugno 6mila per chiedere il 2 per mille ai fan leghisti e per lanciare la manifestazione a Roma davanti alla”Bocca della verità”. Per ritrovare un post contro gli immigrati sponsorizzato con l’obiettivo di renderlo virale nella rete è necessario fare un salto di 12 mesi, settembre 2020: 100 euro di spesa per un post che racconta di un’aggressione a una donna da un cittadino del Mali. Altri 200 euro per due post nello stesso periodo con una locandina dal titolo inequivocabile: “Emergenza Lampedusa”, era la settimana del 12 settembre. Al lupo al lupo l’invasione, perché i dati del ministero rivelano che in quei giorni non era in corso alcuna invasione, dall’10 al 15 settembre, infatti, sono sbarcati poco più di 500 migranti, il 2020 si è chiuso con arrivi totali di 21 mila persone. Sempre in quei giorno troviamo un altro post sponsorizzato “Stop invasione”, e un altro ancora che svelava il piano segreto della sinistra una volta al governo, “Clandestini sparsi ovunque, il tuo voto farà la differenza”. L’ 8 settembre una nuova spesa per tenere alta la pressione sulla presunta invasione: foto con barchini di migranti, “svuotata dai croceristi, già ne arrivano altri”, Lampedusa 8 settembre 2020. Quel giorno si legge nel bollettino ufficiale del ministero erano arrivati appena 127 migranti. Oltre 2mila euro sono stati sborsati per un video di “clandestini” a Lampedusa, sempre in quei giorni di campagna elettorale per le regionali in Toscana. Il medesimo schema vale per i mesi precedenti, il tema immigrazione si ripete ed è spinto con risorse del partito. Nel 2021 il registro cambia, i contenuti sull’immigrazione si limitano alle critiche recenti a Lamorgese, ma sono parole ormai lise, che non hanno la forza di un tempo e infatti il partito non spende soldi per sponsorizzarle. La verità è che la guerra alla ministra è l’ultima spiaggia per recuperare il consenso scippato in questi mesi da Giorgia Meloni alla Lega di governo. Gli italiani però cercano altro e l’unica invasione in cui credono in questo momento è quella di un virus che ha stravolto abitudini e demolito certezze. Sui profughi, un vergognoso scaricabarile dell’Unione europea di Filippo Miraglia Il Manifesto, 2 settembre 2021 Crisi afghana. “Vanno accolti, ma a casa d’altri”. I governi europei, le forze democratiche, si sono arresi alla dottrina razzista degli Orbán, dei Salvini e della Meloni. Mattarella inascoltato. Le conclusioni della riunione dei Ministri dell’Interno dell’Ue sulla crisi afghana sono davvero sconcertanti: “Vogliamo accogliere gli afghani, ma non in Europa, a casa d’altri”, come ha giustamente titolato il manifesto. I governi europei, le forze democratiche, si sono arresi miserevolmente alla dottrina razzista degli Orban, dei Salvini, della Meloni. Pakistan, Iran e altri Paesi che già ospitano milioni di afghani, dovrebbero, secondo questi politici, continuare a accogliere i profughi, con il nostro “generoso e interessato aiuto”. Oltre ai fascisti e ai razzisti di tutta Europa, a festeggiare saranno i trafficanti dato che per raggiungere l’Ue l’unica possibilità sarà affidarsi a loro. Gli Stati hanno deciso di non occuparsi di garantire una via legale e sicura. E pazienza se aumenteranno le stragi, gli affari sporchi connessi all’attraversamento delle frontiere, le violenze. Quel che conta è la sicurezza europea. Si cancellano così una tradizione giuridica e gli obblighi internazionali e costituzionali, che prevedono che chiunque possa arrivare alle nostre frontiere e chiedere asilo. Questa è oggi l’Europa. Purtroppo non vediamo battaglie politiche condotte da chi ci si aspetterebbe, le forze di sinistra e socialiste di esempio, che cedono anch’esse alla realpolitik, per cinismo e mancanza di coraggio. La riunione dei Ministri degli Interni si è rivelata ancora una volta una farsa. La Commissaria Johansson, socialdemocratica svedese, nella conferenza stampa finale ha sostenuto che l’accesso al diritto d’asilo è garantito nell’Ue, ma ha taciuto sulle difficoltà degli afghani a raggiungere le nostre frontiere e sui respingimenti che si continuano a fare in molti Paesi Ue e sui muri che proliferano alle nostre frontiere. I governi europei dopo la chiusura delle evacuazioni operate dalle forze armate presenti a Kabul, avrebbero dovuto concordare un piano comune, che invece non c’è, per trasferire in sicurezza chi fugge dai talebani e vuole arrivare in Europa. Durante il summit europeo è stato detto che se l’Ue indicasse un numero di persone che possono essere accolte con trasferimenti sicuri e legali, questo rappresenterebbe un fattore di attrazione producendo l’arrivo di decine di migliaia di persone. Un ragionamento davvero singolare: se decide l’Ue quanti accoglierne, organizzando i trasferimenti, come potrebbe questo rappresentare un incentivo per arrivi incontrollati? Inoltre, nel summit, viene citato come esempio quello dell’accordo con la Turchia. Nonostante l’esperienza terribile di esternalizzazione delle frontiere abbia prodotto un rafforzamento dell’egemonia di Erdogan in quell’area geografica, spingendolo ad allargare la sua sfera di interesse anche al Mediterraneo centrale, e consentendogli di chiudere la bocca, indisturbato, agli oppositori interni, i governi Ue intendono riproporre quella scelta, rafforzandola. La scelta di esternalizzazione è anche supportata dall’ipotesi di mandare l’unico esercito europeo esistente, quello dell’agenzia Frontex, in aiuto dei Paesi di transito nella gestione delle frontiere. Insomma, è come se dicessero: “Grande solidarietà con chi ci ha aiutato, con le studentesse, con giornalisti e militanti per i diritti umani, con artisti e collaboratori, ma per favore non venite a casa nostra”. Mentre Salvini e Meloni, contendendosi il primato in materia di razzismo e guerra allo straniero, sparano alzo zero sulla ministra Lamorgese, rea di non usare parole al veleno contro gli stranieri, i governi europei procedono nella direzione indicata da questi due campioni della democrazia e dai loro alleati. Ci aspetteremmo che le forze politiche dell’ex Conte 2, almeno quelle di sinistra, facessero una battaglia, con la stessa determinazione della destra, sull’attivazione della Direttiva 55/2001, più volte spiegata e richiamata sulle pagine di questo giornale, chiedendo a Draghi e all’Ue di programmare arrivi sicuri in numero adeguato dall’Afghanistan e dai Paesi confinanti, predisponendo un piano d’accoglienza dotato di risorse europee, anche contro la volontà dei sovranisti e degli euroscettici. Ma dopo questo ennesimo vertice è evidente che la scelta vigliacca e razzista di chiudere le porte a chi fugge da violenze e persecuzioni è condivisa da quasi tutti, certo da chi governa e ha responsabilità istituzionali. L’appello di Mattarella da Ventotene è caduto nel vuoto, segnando la distanza oramai incolmabile tra l’Europa nata dal dopo guerra e dai valori che in quella fase erano patrimonio comune, e l’Europa egoista e cinica di oggi. Afghanistan, i profughi diventano merce di scambio di Domenico Quirico La Stampa, 2 settembre 2021 I profughi ormai si vendono e si comprano, a schiere, a popoli, riempiono il “Pil” di qualcuno e svuotano le cattive coscienze di altri. C’è una nuova voce nel Mercato globale del terzo millennio, una nuova merce redditizia: i fuggiaschi, li ripudiamo in massa e paghiamo chi li prende e li tiene lontani ammucchiandoli in magazzini inospitali, affidati a guardiani crudeli. La politica estera dell’Unione esiste, eccome! Sembravano una triste eccezione i siriani del “modello turco’’: dati in appalto dall’Unione europea all’antipatico ma provvidenziale sultano Erdogan in cambio di un mucchio di miliardi perché non avanzassero oltre l’Anatolia verso le frontiere europee. Il modello libico, ovvero i migranti africani consegnati in cambio di denaro a bande di assassini e predoni di Tripoli non appartiene al settore dell’economia ma a quello più esplicito del crimine di stato, purtroppo finora impunito. Invece l’esperienza turca si replica e diventa universale, meccanica fatale di una vertiginosa caduta morale a cui tutti i governi dell’Unione appongono la firma. La distinzione è solo nel livello di ipocrisia di chi continua a autodefinirsi illuminato e illuminista. Baratto funesto, scambio da malaffare che fa progredire la decadenza del continente: reso lecito dal nostro vantaggio immediato. Siamo malati del male che cerchiamo di cancellare con tanto ardore. Ci sono gli afghani da sistemare, dopo quelli di prima scelta dell’aeroporto di Kabul ormai sbarrato, altri oppressi a migliaia, sgradevoli, petulanti, noiosi, insignificanti, l’aria di sospetto e di incerto destino, che la paura spinge da dietro come una brama oscura e irrazionale, alle frontiere di Pakistan e Iran. L’Europa non fa neppure più finta di scegliere, di stabilire almeno una graduatoria del bisogno. Facciamo degli orditi di ragione, giustizia che continuamente si strappano. A Bruxelles ormai si muovono nella menzogna con naturalezza. Un talento che viene con l’abitudine. Allora fino a ieri volevamo sapere anche le virgole dei patimenti afghani, adesso in quanto trasformati in numero e massa, cioè in migranti, diventano enigmatici: che importa cosa pensino e possano raccontare uno ad uno? Meglio rivolgersi al Pakistan e all’Iran. Quanto costa il disturbo di prenderli? Potreste per favore farli vivere sottoterra come labili formiche? Noi europei produciamo uomini deformati, che le avventure della vita e della Storia hanno peggiorato e esaltato fuori dalle comuni leggi. Afghani africani siriani: nessun scoglio, un appiglio emerge, tutti nuotano al di sotto della nostra coscienza collettiva. Nascosti nei fragili accampamenti oltre confini diventati invalicabili bisognerà frugare per cercarli. È quello che vogliamo in fondo: non vederli. A voler risalire nella Storia il pioniere che intuì che i migranti, oggetti vulnerabili, senza di vie di scampo e senza aiuto, possono rendere più delle materie prime fu Mobutu, cleptocrate congolese. Conosceva l’egoismo della nostra infallibile felicità. Imbastì sui fuggiaschi dalle disgrazie immense dei paesi vicini un lucroso mercanteggiamento: li tengo con me, ma pagatemi. I suoi clienti allora erano le Nazioni Unite e le organizzazioni della carità internazionale, patteggiatori pronti a tutto per evitare la disgrazia amministrativa di una catastrofe umanitaria. Mobutu arrotondò i suoi conti monumentali in Francia e in Svizzera, i rifugiati brulicarono e ristagnarono nel fango delle foreste del Kivu. Se qualcuno gli ricordava ingiustizie e corruzione il Grande Leopardo estraeva la minaccia di cacciare i profughi. Immediato calava il silenzio. L’Europa va oltre l’esempio tracciato da Mobutu; tratta il contratto con i despoti disponibili da pari a pari, accetta prezzi e scadenze, sorvola sul futuro trattamento degli ospiti. È un appalto a cui tutti possono partecipare: anche l’Iran degli ayatollah invaghiti della atomica e sostenitori di Bashar Assad. E il Pakistan che ha inventato i taleban. Affare fatto. Come un rivolo scivolando su una terra di meandri, acquitrinosa, si mescola alle acque ferme e si arresta, così i migranti si impaluderanno. Ecco nascere dal nulla nuove miniere umane con il loro fardello già pronto di pazienza e di sicura consapevolezza del dolore. Sanno tacere, quelli, con la corazza di impenetrabilità del fuggiasco, sdegnosa di conforti che sa impossibili in un mondo desolato. La faranno rendere questa miniera gli appaltatori di popoli in rotta. A Teheran ragionano che è una formidabile arma di ricatto, molto più potente e meno costosa di una bomba atomica. Ormai si vendono, si comprano e diventano armi di ricatto. Meglio pagare un dittatore o un regime per tenerli pur di evitare problemi. Interventi militari e diritti umani, esportare la democrazia non si può di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 2 settembre 2021 Il disastro afghano dice: le guerre “umanitarie” non esistono. Pace e diritti si salvaguardano con una lotta per la solidarietà dell’Onu e degli Stati. L’esempio è Emergency. Il tragico epilogo dell’occupazione militare in Afghanistan dovrebbe aver almeno spazzato via il grande inganno: non esistono “guerre umanitarie”. Al limite può essere invocato il diritto di resistenza contro il tiranno ovvero contro l’invasore, ma l’uso della forza comporta sempre azioni contro l’umanità. Non si tratta di essere pacifisti, ma solo di essere contrari alla guerra. Lo ha detto Gino Strada, lo ha stabilito la nostra costituzione. La spietatezza di tutte le guerre fa venir meno anche l’altro argomento retorico utilizzato per giustificare gli interventi armati contro i paesi asiatici considerati nemici dell’occidente: la necessità di esportare la democrazia. Pretesa politicamente ambigua e storicamente ingenua. Ciò non vuole dire però che dobbiamo rimanere impotenti di fronte alla violazione dei diritti e delle libertà democratiche. È ancora una volta la nostra costituzione che ci chiarisce i termini del problema. In essa si legge che non si può esportare la democrazia, ma si devono salvaguardare i diritti fondamentali della persona. Da un lato, il ripudio della guerra, che avrebbe dovuto impedire il coinvolgimento del nostro paese in conflitti armati o operazioni di occupazione militare in territori stranieri (l’Afghanistan, ma non solo), dall’altro, il diritto d’asilo, che dovrebbe essere assicurato a tutti coloro a cui è impedito l’effettivo esercizio delle liberà democratiche garantite dalla nostra costituzione. Invece di seguire questa via maestra - pacifismo e solidarietà tra i popoli - tutte le maggioranze che si sono succedute negli ultimi trent’anni hanno preferito accogliere le diverse priorità imposte dalle politiche internazionali. A quel punto i diritti umani sono diventati un mero pretesto per interventi che si sono rivelati vere e proprie “guerre di conquista”, come dimostra inequivocabilmente il diverso atteggiamento assunto dalle stesse potenze occidentali nei confronti dei paesi asiatici alleati, per i quali si applica rigorosamente il principio di non ingerenza negli affari interni. D’altronde tutto ciò non può stupire: l’ordinamento internazionale è storicamente - oltre che soggettivamente - dominato dalle logiche di potenza degli Stati nazione, fallito ogni tentativo di limitarne la forza in ragione di principi umanitari. Ora la drammatica conclusione della missione afgana dovrebbe farci aprire gli occhi. Ma dovrebbe anche farci interrogare su come si possa in concreto riuscire a preservare la pace assieme ai diritti umani. Alcune iniziative ci indicano chiaramente la rotta: Emergency, in primo luogo, ma anche tutti quegli interventi ufficiali di Stati o delle organizzazioni internazionali, a partire da quelli delle Nazioni unite, finalizzati a garantire quei diritti che spettano a ciascun individuo in quanto essere umano. Ecco, è la cooperazione che dovrebbe ora prendere il sopravvento. Sento già l’obiezione di molti, che non nego abbia un suo fondamento. Puntare tutto e solo sulle organizzazioni che operano sul piano sovranazionale - private o governative che siano - senza poter contare sulla deterrenza dell’uso della forza degli Stati finirebbe per lasciare troppo spazio all’arroganza dei sovrani del mondo, restii a piegarsi alle ragioni dei diritti umani e che, anzi, edificano il loro potere assoluto proprio sulla violazione di questi. In sostanza un’accusa di irenismo che non può essere elusa. Ma proprio questo giusto richiamo al realismo dei rapporti di forza induce ad una ulteriore e decisiva considerazione. Puntare sulle organizzazioni internazionali non vuol dire delegare ad esse la garanzia dei diritti e l’effettività del loro rispetto nelle varie parti del mondo. Tutt’altro. Vuol dire chiamare i popoli a lottare per essi. Vuol dire richiamare, ex parte populi, anche gli Stati alle proprie responsabilità politiche e sociali, per far valere oltre alle ragioni dell’economia anche quelle dei diritti. D’altronde la storia anche questo ci ha insegnato: i diritti non vengono mai regalati, ma devono essere sempre conquistati dai diretti interessati. È vero, lasciare solo alle organizzazioni umanitarie il compito di garanti dei diritti delle persone concrete vorrebbe dire - bene che vada - limitarsi alla testimonianza, se non condannare l’azione a favore dei diritti ad un fallimento annunciato. Se non sapremo dunque innescare un processo politico agguerrito e diffuso in grado di lottare per i diritti inviolabili delle persone, non saranno gli Stati nazione ad assicurare le libertà democratiche in nessuna parte del mondo. Neppure a casa propria, se è vero che lo sdegno che si è levato in questi giorni nell’intero occidente per le gravi violazioni in Afghanistan, si accompagna al timore delle nuove migrazioni e a misure di contenimento o di rifiuto dell’accoglienza dei profughi. Nel nostro paese la costituzione ci impone di accogliere i rifugiati (art. 10) e ci ricorda che i diritti sono inviolabili solo se si accompagnano ai doveri inderogabili di solidarietà che riguardano l’intera collettività (art. 2). Un invito all’impegno nel far valere i propri diritti assieme a quelli degli altri non tramite le armi, ma in base ad una lotta politica, economica e sociale Pestaggi dietro le sbarre: anche in Iran i video-choc di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 2 settembre 2021 Un gruppo hacker ruba e diffonde le immagini a circuito chiuso della prigione di Evin. Sedici filmati in cui gli agenti picchiano selvaggiamente i detenuti Le autorità di Teheran, costrette a scusarsi, promettono giustizia. Pestaggi, abusi, molestie sessuali, diniego di cure mediche oltre ad un cronico sovraffollamento. Sono le condizioni di vita, più volte denunciate a livello internazionale nella prigione iraniana di Evin, un sobborgo della capitale Teheran. Ora però grazie all’azione di hacker che hanno piratato le telecamere interne del carcere è stato possibile squarciare il velo. Un gruppo denominato “La giustizia di Alì” è infatti riuscito a far trapelare, consegnandole alle maggiori testate giornalistiche del mondo, immagini che testimoniano il grado di violenze perpetrate ai danni dei prigionieri. L’effetto dei video è stato così deflagrante da costringere adesso la giustizia iraniana a predisporre un’inchiesta ufficiale. L’indagine ha costretto il capo del sistema carcerario, Mohammad Mehdi Hajj- Mohammadi, ad ammettere gli abusi e, caso più unico che raro, a scusarsi pubblicamente. “Mi assumo la responsabilità per un simile comportamento inaccettabile, simili incidenti non si ripeteranno e i colpevoli saranno trattati severamente”. I pubblici ministeri hanno aperto un procedimento penale contro sei guardie che nei video commettono abusi su un almeno un prigioniero. Intanto la magistratura ha reso noto che alcuni autori delle violenze si trovano già in carcere. Inoltre Zabihollah Khodaeian, un portavoce della procura, ha affermato che le autorità hanno anche convocato altre due guardie sospettate per gli stessi reati. I video, esaminati anche da Amnesty che ne ha descritto il contenuto, sono sedici. In sette di questi, agenti penitenziari picchiano detenuti; altri tre mostrano celle sovraffollate, due aggressioni di detenuti ad altri detenuti, altri due episodi di autolesionismo. Particolarmente drammatiche alcune immagini in cui un uomo rompe uno specchio del bagno per cercare di tagliarsi il braccio. I detenuti ammassati in stanze singole con letti a castello sono impilati tre a tre contro le pareti, avvolti in coperte per ripararsi dal freddo. Nella prigione di Evin sono rinchiusi soprattutto prigionieri politici e cittadini con doppia nazionalità sui quali si giocano partite diplomatiche tra l’Iran e l’Occidente, le denunce per i maltrattamenti si susseguono da anni. Le testimonianze di alcuni ex prigionieri hanno messo in luce il grado di disumanità ambientale così come le torture che vengono praticate sistematicamente. Tra i metodi documentati da Amnesty figurano le frustate, le finte esecuzioni, il waterboarding (finto annegamento), la violenza sessuale, la sospensione per gli arti, l’ingerimento forzato di sostanze chimiche. A Evin si sono verificate morti sospette come quella dell’ambientalista Kavous Seyed Emami e di un’altra attivista Sina Ghanbari. Decessi derubricati come suicidi ma non così chiari tanto che lo stesso Parlamento iraniano era stato costretto a chiedere cambiamenti sostanziali dell’istituto penitenziario e a installare proprio le telecamere che hanno testimoniato i soprusi. L’ultimo e più noto caso che ha portato alla triste ribalta Evin è la vicenda di dell’avvocata per i diritti delle donne Nasrin Sotoudeh protagonista di uno sciopero della fame che ha minato pesantemente le sue condizioni di salute. Non bisogna però pensare che la prigione di Evin sia una creatura- mostro del regime degli Ayatollah. Il carcere infatti è stato costruito nel 1972 durante il regno dello Scià Reza Pahlavi, doveva contenere i detenuti in attesa di processo ma fin da subito venne dotato di un’ala chiamata significativamente “Evin University”, la sezione dove venivano rinchiusi gli intellettuali oppositori e già da allora si cominciò a parlare di violazioni dei diritti umani. Il penitenziario è un vasto complesso dotato di un luogo per le esecuzioni, un tribunale e blocchi separati per criminali comuni e detenute. Progettato per 320 persone comprese le celle d’isolamento, durante la Repubblica islamica è arrivato ad ospitare fino a 1.500 prigionieri. Stati Uniti. Crimini d’odio in forte aumento: nel mirino asiatici, afroamericani ed ebrei di Anna Lombardi La Repubblica, 2 settembre 2021 I dati del rapporto Fbi. L’accusa razzista verso chi ha origini orientali è di aver portato in America il Covid. Crimini d’odio, l’America torna a 12 anni fa: nel 2020 ce ne sono stati infatti 7.759, quanti ce ne erano nel 2008. Con un aumento complessivo, rispetto al 2019, del 6 per cento. Percentualmente, l’odio è cresciuto soprattutto nei confronti degli asiatici, sempre più nel mirino: gli attacchi sono passati da 158 a 274, su del 70 per cento rispetto al 2020, per colpa dell’accusa razzista di essere “untori”, sì, insomma, di aver portato il Covid-19 in America. Seguiti dagli afroamericani, con gli attacchi passati da 1930 a 2755: più 40 per cento rispetto all’anno precedente. Calano invece gli attacchi verso i musulmani, giù del 42 per cento. E contro gli ebrei: meno 30 per cento, scesi dai 953 incidenti del 2019 ai 676 attuali. Gli ebrei, però, rimangono sul triste podio dei fedeli più aggrediti: hanno infatti subito il 57,5 per cento dei crimini motivati da odio religioso. Atti di vandalismo nel 53 per cento dei casi, intimidazioni e insulti nel 33, aggressioni fisiche nel 6 e il 4 per cento registra invece aggressioni fisiche varie. “Siamo meno protetti di prima” lamenta David Harris, a capo dell’American Jewish Commitee: “Combattere l’odio, contro chiunque, deve essere una priorità nazionale. E bisogna tenere alta la guardia contro l’odio anti ebraico, sempre nel mirino. Serve supporto bipartisan”. I dati sono contenuti nel rapporto dell’Fbi su crimini d’odio diffuso lunedì. Dove si analizzano le denunce sporte in circa 15mila stazioni di polizia. Numeri decisamente inquietanti, conferma pure l’Attorney General, Merrick Garland: “Dimostrano il bisogno urgente di una risposta ferma, perché sono solo la punta di un iceberg. Troppi non denunciano. Prevenzione e reazione saranno le priorità del Ministero della Giustizia”. In effetti, a denunciare meno di tutti sono proprio i più colpiti, gli asiatici. Per loro, lo scorso aprile - subito dopo il massacro di donne in un centro estetico di Atlanta - il presidente Joe Biden ha firmato il Covid-19 Hate Crimes Act, nato appunto per affrontare l’aumento dei crimini anti asiatici-americani cresciuti enormemente durante la pandemia. Ma c’è anche un altro problema. Non solo non tutte le stazioni di polizia partecipano alla raccolta dati, che è volontaria ma la partecipazione è in calo: quest’anno hanno mandato dati 15,136 commissariati, 422 meno del 2019. “Se non abbiamo il quadro completo, difficilmente comprenderemo cosa accade davvero” dice Jonathan Greenblatt, leader della Anti-Defamation League, una delle più attive nel denunciarli. “E non è credibile che in distretti con più di 100mila abitanti si sostenga che non avvengono crimini d’odio”. Dopo gli afroamericani, i crimini d’odio più comuni sono rivolti contro i bianchi, soprattutto legati alla comunità Lgbt, con 773 incidenti segnalati. Oltre il 53 per cento dei crimini totali segnalati erano insulti o tentativi di intimidazione. Quasi il 46 per cento, invece, aggressioni semplici o aggravate. Gli omicidi determinati da odio sono stati 22. “Sono numeri scioccanti” dice Judy Chu deputata dem della California, di origini cinesi: “Ma purtroppo non sono nemmeno lontanamente vicini alla ben più dura e pericolosa realtà”. Stati Uniti. “L’assassinio di Bob Kennedy è ancora un mistero” di Umberto De Giovannangeli Corriere della Sera, 2 settembre 2021 Intervista a Furio Colombo. “Mai provata la colpevolezza di Shiran Shiran. È tornato in libertà un ‘fantasma’. Ma oltre mezzo secolo dopo, l’assassinio di Robert Kennedy resta avvolto in un mistero, come quello di JFK”. Se c’è un giornalista e scrittore che conosce ogni sfaccettatura del “pianeta Usa”, questi è Furio Colombo. Negli Stati Uniti è stato corrispondente de La Stampa e di La Repubblica. Ha scritto per il New York Times e la New York Review of Books. È stato presidente della Fiat Usa, professore di giornalismo alla Columbia University, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York. In questa conversazione con Il Riformista, legata alla scarcerazione di Shiran Shiran, - condannato 54 anni fa per l’assassinio del senatore Robert Kennedy, candidato alle primarie del partito democratico per la presidenza degli Stati Uniti - storia e politica s’intrecciano indissolubilmente E non poteva essere altrimenti. Al “pianeta Usa”, Colombo ha dedicato una parte importante della sua ricca produzione saggistica. Tra i suoi libri, ricordiamo La scoperta dell’America (Aragno, 2020); Trump power. Dalla Nuova Frontiera di JFK al Muro di Donald. Che cosa è successo all’America (Feltrinelli, 2017); America e libertà. Da Alexis de Tocqueville a George W. Bush (Dalai Editore, 2005); Religione e politica in Usa (Mondadori); e L’America di Kennedy (Dalai Editore, 2004.). In questo libro, Furio Colombo, che allora viveva a New York, e scriveva per il Mondo e L’Espresso, racconta un’avventura esaltante, che la brutale soluzione di Dallas ha reso subito mitica nella memoria e nel confronto. Colombo frequentava la Casa Bianca, conosceva il presidente e gli uomini di cui si era circondato, allora giovani poco più che trentenni - Arthur Schlesinger, Theodore Sorensen, Robert Kennedy - e in questo libro ne analizza l’attività e le capacità di risolvere positivamente momenti storici drammatici come l’invio dei missili atomici di Kruscev a Cuba. Dopo 54 anni di detenzione, Shiran Shiran è tornato in libertà. Lei che quell’America ha conosciuto e raccontato in ogni sua piega, che sensazione prova di fronte a questa notizia? La sensazione di ripensare ai giorni del mistero. Perché l’assassinio di Robert Kennedy è stato e resta, a oltre mezzo secolo di distanza, un mistero, come quello di suo fratello il Presidente, JFK. Non ha nessun senso la motivazione che era stata usata per fermare una emozione immensa, che era quella del palestinese. Di Shiran Shiran in tutti questi anni non è venuto fuori nulla, né famiglia, né precedenti, né motivazioni politiche, né ragioni o legami. L’impressione è che una volta identificata una persona incolpabile, nel senso di incapace di elaborare qualsiasi tipo di differenziazione dal presunto colpevole o di difesa, una volta stabilito che l’idea del colpevole reggeva, un po’ come si è fatto con Martin Luther King - con il presunto assassino che addirittura era difeso dai familiari dell’assassinato - la ricerca è finita. Come per Martin Luther King, anche con Robert Kennedy abbiamo un presunto assassino. Il fatto che non ci siano state reazioni di alcun tipo, tranne alcune modeste e marginali, all’idea della sua scarcerazione, è dovuta a una serie di motivazioni. Quali? La prima certamente deriva da una sua colpevolezza assolutamente incerta e assolutamente mai provata. In secondo luogo, corriamo tutti dentro una storia lunga, 54 anni sono impressionanti nel momento in cui li pronunci per chiunque. Terzo, non c’era alcun aggancio con la realtà che facesse o spingesse i responsabili di questo ramo della giustizia americana, a ripensarci. Praticamente è uscito 54 anni dopo un “fantasma”, il quale ha tenuto per 54 anni un camuffamento da assassino di cui non si sa nulla. Quindi non poteva e non può provocare emozioni. Non poteva e non può provocare scandalo. Il numero degli anni di prigione di cui stiamo parlando è molto grande, il personaggio di cui stiamo parlando è molto piccolo, il vuoto di vere notizie in questo grande avvenimento rimane intatto, non è mai diventato la motivazione di una inchiesta vera, di conseguenza io trovo comprensibile, e nell’ambito del Diritto americano perfettamente legittimo, quello che è accaduto, visto che non esisteva un fine pena mai, ma esisteva un fine pena: per quanto incredibile, ci sono condanne americane a 150-200 anni. In questo caso gli anni che sono trascorsi sono comunque tantissimi e giustificano sia la decisione delle autorità giudiziarie americane sia la mancanza totale di emozione nel pubblico americano, che non è dimenticanza o modo di accantonare una terribile tragedia che l’America ha sofferto. In America, come tutti i paesi che hanno un pesante passato-presente sulle spalle, c’è chi ricorda e chi non ricorda, chi sa e chi non lo sa, chi si ne fa carico e chi no. Questa dinamica non è qualcosa che riguarda solo l’America. In Italia, noi lo sperimentiamo continuamente. Arriviamo fino all’idea di intitolare un giardino di una città al fratello di un assassino, Arnaldo Mussolini assassino non lo era, ma fratello di un assassino certamente sì. Come si può spiegare la proposta di intitolare a lui un giardino? Si spiega perché il passato a un certo punto ha anche questa sua caratteristica, oltre al fatto di portar via le cose: se non le porta via le cancella, le appanna o rende la gente insensibile a quello che succede. Certo, la storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia, la storia è fatta anche dalle soggettività individuali. Cosa sarebbe stata, a suo avviso, l’America con Robert Kennedy alla Casa Bianca? Sarebbe cambiata in modo profondo. Perché il pensare politico e il pensare umano di Robert Kennedy era diverso e profondo. Alcune delle cose che ha detto sono tra le più belle di tutto ciò che è citabile nella retorica politica contemporanea. La sua capacità di leadership era molto alta e per me la sua elezione a Presidente sarebbe stato un fatto notevole. Ci sarebbero stati dei cambiamenti e delle variazioni profonde. Non è il pensiero “era così buono, che peccato”, che dedichiamo alle persone perbene che vengono eliminate prima che possano lasciare il proprio segno, la propria impronta indelebile nella storia dei presidenti americani. Non ne ha avuto il tempo. Non gli si è lasciato il tempo. Tuttavia, la sua storia, quella parte che è riuscito a vivere nel suo agire politico, dice che sarebbe entrato nel pantheon della storia americana, come ci è entrato Franklin Delano Roosevelt. Uno può immaginare per un momento che Roosevelt potesse essere assassinato prima di diventare presidente degli Stati Uniti o durante la sua presidenza. Se ciò fosse accaduto, l’intera America come l’abbiamo conosciuta, almeno fino a Trump che quel filo ha spezzato, sarebbe stata diversa e infinitamente minore. Per il fatto di avere avuto Roosevelt come presidente, l’America è diventata il paese che è stato per la mia generazione e per quelle successive. Robert Kennedy è il Roosevelt che è stato assassinato prima di essere Roosevelt. L’America ha avuto uno dei doni più grandi che poteva avere, Roosevelt presidente, e la lezione più grave che ha potuto avere, quella dell’eliminazione di Robert Kennedy presidente.