“Noi del Terzo settore esclusi dalla Commissione sul sistema penitenziario” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2021 “Mi colpisce l’assenza del Volontariato e di tutto il Terzo Settore dalla nuova Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario, di recente istituita dalla ministra della Giustizia”. Ad osservarlo è Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Non è una polemica sterile. Alla direttrice Favero colpisce la non presa in considerazione del Volontariato e del Terzo Settore. La sua è una riflessione politica, ovvero che sia riconosciuta la competenza e che i suoi rappresentanti siano chiamati a portare direttamente le proprie proposte, in particolare lì dove è in discussione il cambiamento profondo di un sistema, più volte condannato per disumanità, com’è appunto quello penitenziario. Favero parte da un dato oggettivo: una parte consistente di Volontariato che ha notevoli competenze e che se le forma in un continuo processo di crescita, che poi permette di far crescere anche la qualità delle proposte di attività nelle carceri e sul territorio. Basta guardare la formazione organizzata dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (di cui Favero è presidente) nel progetto “A scuola di libertà”, che è di altissimo livello culturale, una formazione che ha saputo coinvolgere migliaia di studenti di tutta Italia, insegnanti, volontari, operatori della Giustizia, personalità del mondo della cultura, in un confronto complesso con vittime, figli di persone detenute, detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, con la forza delle testimonianze, ma anche dello studio e dell’approfondimento. È per questo motivo che ci si pone il problema dell’esclusione del volontariato dalla commissione istituita dal ministero della Giustizia. Nell’ambito della Giustizia, come sottolinea Favero, è “tra i pochi soggetti in grado di fare proposte innovative di formazione congiunta, portando la ricchezza della sua esperienza, “perché una formazione “di settore” senza confronto tra diverse categorie non serve a nulla!”, chiosa la direttrice di Ristretti Orizzonti. In sostanza è in grado di proporre iniziative “strutturali” e non progetti spot nell’ambito dell’informazione e della comunicazione su questi temi. “Chi potrebbe portare più efficacemente, a proposito di vita detentiva, il punto di vista di quei detenuti, ai quali a tutt’oggi non viene riconosciuta nessuna forma di rappresentanza elettiva?”, chiede retoricamente sempre Ornella Favero. Per corroborare l’importanza, ci viene in aiuto l’articolo 55 Codice del Terzo Settore. Punto primo. Si legge che in attuazione dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare, le amministrazioni pubbliche (…) nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all’articolo 5, assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona. Punto 2. Si legge che la co-programmazione è finalizzata all’individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili. Punto tre: la co- progettazione è finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione di cui comma 2. Infine il punto 4. Si legge che ai fini di cui al comma 3, l’individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell’intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l’individuazione degli enti partner. Violenze in carcere, regole più rigide per le perquisizioni di Liana Milella La Repubblica, 28 settembre 2021 La nuova Circolare emanata dopo le violenze di Santa Maria Capua Vetere. Ma il sindacato della Polizia penitenziaria Osapp protesta: “Così diventa impossibile mantenere il segreto istruttorio ed effettuare controlli efficaci”. Dopo i “gravi episodi” che si sono verificati in alcune carceri, a partire dal caso clamoroso di Santa Maria Capua Vetere, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria detta, con una circolare, nuove regole sulle perquisizioni dentro gli istituti penitenziari. L’ordine con cui il direttore del carcere dispone la perquisizione generale straordinaria dovrà essere scritto e motivato e indicare il contingente della Polizia penitenziaria impegnato nell’operazione e le sue modalità. Inoltre dovranno essere informati preventivamente il Magistrato di sorveglianza e il Garante delle persone private della libertà. Secondo quanto dispone la nuova circolare firmata dal direttore del Trattamento dei detenuti Gianfranco De Gesu, l’ordine di perquisizione dovrà indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in base alle quali l’atto è adottato. e spiegare nel dettaglio perché le concrete esigenze di sicurezza non possono essere soddisfatte in altro modo. Non solo: andrà specificato se il personale da impiegare appartiene esclusivamente al reparto della polizia penitenziaria in servizio nell’istituto o a contingenti del Corpo provenienti da altre sedi e andrà indicato il responsabile dell’operazione se diverso dal comandante di reparto. Inoltre andranno dettagliate le modalità esecutive, a partire da luoghi e a tempi della perquisizione, mezzi, equipaggiamento e l’eventuale apporto del personale appartenente alle Forze di polizia poste a disposizione dal Prefetto. Copia dell’ordine di servizio sarà preventivamente inviata, oltre che al Magistrato di Sorveglianza e al Garante delle persone private della libertà, anche alla Direzione Generale dei detenuti e del trattamento e al Provveditorato Regionale. E a tutte queste autorità andrà mandato un “dettagliato rapporto” entro sette giorni dalla conclusione dell’operazione. Il sindacato della polizia penitenziaria Osapp protesta contro la nuova circolare e ne chiede il ritiro, o almeno la revisione. Con le nuove regole si “inibirebbe del tutto la possibilità di effettuare efficacemente le perquisizioni in ambito penitenziario”, anche per “la gravosità degli atti” richiesti, scrive il segretario Leo Beneduci in una lettera indirizzata alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al capo del Dap Bernardo Petralia e, per conoscenza, al presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. L’allarme del sindacato è legato in particolare alla norma che prevede l’obbligo di informare preventivamente della perquisizione il Garante delle persone private della libertà. Così “il segreto istruttorio verrebbe compromesso”, afferma Beneduci, paventando gli effetti negativi che questa norma potrebbe avere nei casi concreti, a partire dalla “grave vicenda” del carcere di Frosinone, dove un detenuto ha sparato ad altri con una pistola arrivata con un drone, per arrivare all’eventualità di “una perquisizione straordinaria finalizzata alla ricerca di un telefono cellulare utilizzato per un progetto di evasione o l’accaparramento di sostanze stupefacenti”. Carceri, il Garante, “nuove prassi danno trasparenza” di Raffaella Tregua Giornale di Sicilia, 28 settembre 2021 Mauro Palma promuove le novità sulle perquisizioni nei luoghi di detenzione dopo il pestaggio a Santa Maria Capua Vetere. Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp protesta. Ma il Dap respinge le critiche. “Quanto disposto dal Dap (il Dipartimento che governa le carceri ndr.) mi sembra sia un elemento di complessiva trasparenza che garantisce tutti e che peraltro riprende anche quanto la stessa Corte costituzionale aveva indicato nel 2000”. Lo ha scritto su Twitter il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, commentando i “paletti” sulle perquisizioni decisi dall’Amministrazione penitenziaria dopo i clamorosi casi di violenze in carcere. Le nuove regole prevedono ordini scritti e motivati, con l’indicazione precisa del personale che sarà impiegato e di tutti i dettagli sulle modalità di esecuzione. E l’obbligo di informare preventivamente, oltre i diretti superiori dell’amministrazione penitenziaria, il magistrato di sorveglianza e il Garante nazionale delle persone private della libertà, a cui dovrà essere trasmesso anche il rapporto finale. Insomma, dopo il pestaggio - filmato dalle telecamere di sorveglianza - dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile del 2020, definito una “orribile mattanza” dai magistrati che hanno messo sotto inchiesta con accuse pesantissime poliziotti e dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, arrivano dal Dap regole più stringenti sulle perquisizioni nei penitenziari. Paletti che riguardano soprattutto le “generali straordinarie”, come fu quella di Santa Maria, dove al di fuori della legge venne usata una “violenza a freddo”, come riferito al Parlamento dalla ministro Marta Cartabia dopo la visita nel carcere campano con il premier Mario Draghi. Garantire più trasparenza e insieme controlli più incisivi, l’obiettivo dell’intervento, ispirato anche da una raccomandazione del Garante, a tutela dei detenuti, della “stragrande maggioranza degli operatori” e dell’immagine del Paese a livello internazionale. Tante le novità nella circolare firmata dal direttore del Trattamento dei detenuti Gianfranco De Gesu. L’ordine di perquisizione del direttore del carcere dovrà indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo giustificano. E spiegare nel dettaglio perché le esigenze di sicurezza non possono essere soddisfatte in altro modo. Non solo: andrà specificato se il personale da impiegare appartiene esclusivamente alla polizia penitenziaria in servizio nell’istituto o a contingenti del Corpo provenienti da altre sedi e andrà indicato il responsabile dell’operazione se diverso dal comandante di reparto. E dovranno essere riferite le modalità esecutive, a partire da luoghi e a tempi della perquisizione, mezzi, equipaggiamento e l’eventuale apporto del personale appartenente alle Forze di polizia poste a disposizione dal Prefetto. Non tutti, però, hanno apprezzato, come il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, secondo il quale con le nuove regole si “inibirebbe del tutto la possibilità di effettuare efficacemente le perquisizioni in ambito penitenziario”. Il Sindacato ha chiesto il ritiro o almeno la revisione della circolare. Nel mirino c’è soprattutto la norma sul Garante, che “comprometterebbe” il segreto istruttorio. Ma fonti Dap sottolineano che le critiche dell’Osapp non hanno ragion d’essere, visto che la circolare non riguarda le perquisizioni ordinarie o quelle che costituiscono attività di polizia giudiziaria. “Con la riforma Cartabia si chiude pagina buia. Ora via i magistrati dai ministeri” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 28 settembre 2021 Intervista al presidente delle Camere penali Caiazza: “Cambiare valutazione delle toghe. Riforma Csm? Non basta intervenire sulla legge elettorale”. Il suo secondo biennio da presidente dell’Unione camere penali italiane è appena iniziato e Gian Domenico Caiazza - confermato per acclamazione leader degli avvocati penalisti italiani - ha chiare quali dovranno essere le battaglie dell’avvocatura nel prossimo futuro. Battaglie che non saranno certamente condivise da tutti, ma che - dice ad Huffpost - ritiene indispensabili per cancellare “lo squilibrio tra poteri dello stato”. E così il nuovo biennio da numero uno delle camere penali inizia con tre proposte di legge d’iniziativa popolare, tutte indirizzate alle toghe: la prima è volta a togliere i magistrati fuori ruolo dai ministeri, la seconda a cambiare le regole per la valutazione professionale delle toghe e la terza a riformare i consigli giudiziari, organi istituiti in ogni distretto di corte d’Appello, che hanno come compito principale quello di valutare l’operato dei singoli magistrati. Portata a casa la riforma del processo penale - che, ci dice, “non è la nostra riforma ma ci fa uscire da quella che è forse la pagina più buia per la giustizia nel nostro paese - ritiene urgente procedere con quella dell’ordinamento giudiziario. Ma considera insufficienti le proposte che sono arrivate sul tavolo della ministra Marta Cartabia. Il numero uno dei penalisti italiani promuove poi il disegno di legge sulla presunzione d’innocenza, che dovrebbe porre paletti alle inchieste show, e sulle carceri dice: “Riprendiamo il lavoro formidabile fatto durante gli stati generali dell’esecuzione penale”. Presidente, durante il congresso delle camere penali ha lanciato tre proposte di legge d’iniziativa popolare. La prima punta il dito contro i magistrati fuori ruolo che lavorano nei dicasteri. Perché non le stanno bene le toghe nei ministeri? Vede, il problema principale che affligge questo Paese è lo squilibrio tra poteri dello stato. Al di là degli aspetti tecnici, una delle cause più eclatanti sta nel fatto, unico al mondo, che ci sono centinaia di magistrati che vengono messi fuori ruolo e ottengono incarichi, anche apicali, nell’esecutivo. Nei dicasteri, in quello della Giustizia in particolare. Qualcuno potrebbe obiettare che se i magistrati si trovano lì è perché hanno delle competenze tecniche che in quel momento servono al ministero... È una sciocchezza. Non c’entrano niente le competenze. Qui non parliamo di incarichi di consulenza. Se quelli andassero ai magistrati non avremmo nessuna obiezione. Spesso le toghe vengono messe in posti per cui non possono avere la competenza, pensiamo agli uffici del personale o, per altri aspetti, al Dap. Siamo sicuri che un magistrato, magari proprio un pm, debba essere sistematicamente a capo dell’amministrazione penitenziaria? Quest’ultimo è un tema che pongono anche le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti. Ma passiamo alla vostra seconda proposta: riguarda la valutazione dei magistrati. Cosa c’è da cambiare? Il 99% delle valutazioni professionali ha esito positivo e questo finisce per essere una forma di deresponsabilizzazione. Noi vogliamo che si metta fine a questo automatismo e che, nelle valutazioni, si tenga conto dei risultati negativi eventualmente collezionati da un magistrato. Non mi riferisco, ovviamente, a una singola sentenza riformata o a un singolo arresto non convalidato dal gip, ma suggerisco di prendere un periodo come riferimento e valutare in quel lasso di tempo l’attività del magistrato. Come Camere penali ci rendiamo conto della delicatezza della questione e siamo consapevoli del fatto che ci vorrebbero criteri ben definiti. Proprio per questo siamo pronti a ragionare con l’accademia. E con la stessa magistratura. Chiedete poi una riforma dei consigli giudiziari, in cosa consiste? Per certi versi è l’altra faccia della medaglia rispetto alla seconda proposta. Il consiglio giudiziario è il primo luogo dove avviene la valutazione del magistrato. Gli avvocati hanno solo la possibilità di ascoltare. Noi chiediamo che, invece, abbiano diritto di voto. La senatrice Anna Rossomando del Pd si è detta favorevole a un intervento di questo genere. Se il Parlamento giocasse d’anticipo rispetto a noi, ne saremmo solo felicissimi. L’Anm è più volte intervenuta - anche su Huffpost - su questo punto sostenendo che dare il diritto di voto all’avvocatura metterebbe a repentaglio l’indipendenza delle toghe... Quello dell’indipendenza è una specie di stornello tirato fuori quando qualcuno vuole incidere sul potere abnorme che la magistratura ha acquisito in questi ultimi anni. Questa è la stagione delle riforme. Quella del processo penale è stata portata a casa. Al congresso delle camere penali la ministra Cartabia è stata accolta con un lungo applauso, eppure durante il dibattito ci sono stati alcuni interventi contrari alle modifiche legislative. Lei cosa pensa della riforma? È naturale non essere d’accordo su tutti i punti. Del resto, è la riforma Cartabia, non la nostra riforma. Ci sono delle cose che non condividiamo, alcune su cui addirittura c’è preoccupazione, come la prescrizione processuale. E su questo punto continueremo ad alimentare il dialogo. Tuttavia, non possiamo non vedere come questa riforma rappresenti il superamento di una stagione di populismo penale, che è stato una pagina buia per la giustizia di questo Paese. Il nuovo processo penale è legge, la riforma del civile è in dirittura d’arrivo Quali sono le urgenze del Paese in tema di giustizia? La riforma dell’ordinamento giudiziario, innanzitutto. La ministra ha detto che arriverà entro la fine dell’anno, ma non posso nascondere una certa preoccupazione, perché le proposte della commissione Luciani sono lontane anni luce da quello che davvero servirebbe. Qualcuno pensa che ritoccando un po’ le porte girevoli e il sistema elettorale del Csm si risolva il problema della crisi della credibilità della magistratura. Bene, crederlo sarebbe un errore fatale, perché occore ben altro. Durante il congresso è stato fatto ampio riferimento alla situazione delle carceri. Questo governo, principalmente grazie alla ministra Cartabia, è molto sensibile al tema. Pensiamo alla reazione avuta dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere e all’istituzione di una commissione sui penitenziari. Il lavoro da fare, da qualsiasi angolazione si guardi la materia, è tanto. Lei da dove partirebbe? Molto è già stato fatto durante gli Stati generali dell’esecuzione penale. Due anni di lavoro straordinario che poi sono stati bruciati in pubblica piazza dal primo governo giustizialista e populista del Paese non c’è bisogno di inventarsi nulla di nuovo. Basta ripartire da quelle idee, e da quelle persone. A cosa aveva portato quel lavoro? Era focalizzato sul percorso di recupero all’interno delle carceri, quindi sul lavoro, sull’affettività, e sulle pene alternative. Da intendersi non come un modo per sottrarsi all’esecuzione della pena ovviamente. Del resto, lo ha ricordato la ministra Cartabia, la Costituzione parla di pena e non di carcere. Ma questa impostazione aveva rischiato di essere spazzata via dalla rozzezza securitaria giustizialista. In Parlamento è in fase di discussione in Parlamento il provvedimento sulla presunzione d’innocenza, dopo che in estate è arrivato il via libera del consiglio dei ministri. La norma dovrebbe limitare le conferenze stampa show e ribaltare un certo modo di fare informazione giudiziaria. Cosa ne pensa e cosa risponde a chi vede in quelle disposizioni un limite al diritto di cronaca? Naturalmente siamo favorevolissimi a un provvedimento di questo tipo e lo riteniamo importante. Il diritto di cronaca non c’entra niente. Bisogna fermare l’uso spettacolare dell’attività investigativa e lo squilibrio informativo che spesso determina una “sentenza mediatica” quando parte l’indagine. Tutto ciò che contrasta questi comportamenti è un passo avanti verso la civiltà. La (finta) riforma della Giustizia utile solo a sbloccare i fondi europei di Roberto Pierro labparlamento.it, 28 settembre 2021 Con celerità, senza confronto politico ed a suon di fiducia, sono stati licenziati i ddl relativi alle riforme del processo penale e civile. Ancora una volta si è scelta la via più semplice per incidere nella cronica situazione di stallo della giustizia italiana, non senza scelte che subiranno di certo il vaglio della Corte costituzionale su ricorso dei malcapitati concittadini i cui diritti e doveri scontano norme sostanziali ante Seconda guerra mondiale e riti processuali rimaneggiati (processo civile) o riformati e rimaneggiati (processo penale). Per sbloccare i fondi UE, sul sacrosanto presupposto di una giustizia efficiente preteso dall’Unione, si è scelta la soluzione economica di un ritocco, lasciando in vigore, per tornaconto politico, provvedimenti recenti, ad esempio la riforma della prescrizione penale Bonafede, in attesa dei primi ricorsi di costituzionalità. L’improcedibilità processuale, una sorta di corsa contro il tempo del processo penale, è l’innovazione che dovrebbe calmierare gli effetti fatali del fine processo mai della riforma Bonafede e si prospetta al momento come una promessa di estinzione dei processi pendenti, difficile, infatti, che regga il vaglio costituzionale l’applicabilità solo per il futuro, visto il principio consolidato del favor rei nella legge penale e che difficilmente Tribunali, Corti d’Appello e Corte di Cassazione riusciranno a smaltire gli oltre 2,5 mln di procedimenti penali pendenti oggi. È facile prevedere che ogni imputato cercherà di difendersi dal processo, chiedendo l’applicabilità della riforma Cartabia anche per i procedimenti già pendenti. Il tutto sembra un rinvio al dopo 2023, quando alcuni auspicano un Parlamento non più a trazione 5S, quindi meno giustizialista e più garantista. Questo strizzando l’occhio ai cordoni della borsa dell’Unione che si allenteranno comunque per erogare i fondi PNRR, perché tradotte in inglese le nuove norme processuali suoneranno benissimo. L’elenco dei ritocchi del processo penale si estende ai riti premiali alternativi, alle pene accessorie ed alle misura alternative al carcere: anche qui il progetto non è affatto disprezzabile, il timore resta per l’applicazione pratica e le obiettive difficoltà di recupero e reinserimento del cittadino dopo la condanna, ma come scritto più volte, se non c’è una riforma di sistema estesa al codice penale, ogni riforma sconterà i quasi 100 anni di differente concezione tra il legislatore del 1930 (entrata in vigore del codice penale) e quello odierno. Sulle riforme al processo civile - circa due milioni quelli pendenti - si registra l’ormai cronico disinteresse della politica per i diritti lesi dei cittadini, spesso contenziosi non di grande valore, ma la cui rapida soluzione incide sulla vita di tutti i giorni e spesso scatena tragedie o rovina intere esistenze. Qui il legislatore ha inteso acuire la negoziazione, delegando ai privati la risoluzione delle controversie, sul presupposto “meglio mettervi d’accordo che fare la causa”. Infatti, il contraltare di questa privatizzazione della giustizia civile sono interventi procedurali che aumentano gli ostacoli e le decadenze processuali e le ammissibilità dei mezzi d’impugnazione. A regime le riforme del processo civile potrebbero raggiungere gli obiettivi dell’Unione di un processo civile rapido, semplicemente perché sempre più cittadini rinunceranno a far valere i loro diritti perché i costi del processo e le cervellotiche dinamiche del contenzioso renderanno più economica la soluzione al ribasso delle “negoziazioni” o la rinuncia alla tutela del diritto. Difficile sperare che imprenditori stranieri in questo quadro d’incertezza sceglieranno l’Italia per investire: prendiamoci quello di buono che hanno i ddl giustizia - i necessari fondi dell’Europa - alla fine questo era lo scopo del Governo e su questo ha sicuramente ben operato. I guai della giustizia passano da un numero: il 2% di sanzioni ai magistrati di Enrico Costa* Il Foglio, 28 settembre 2021 A proposito dell’emergenza giustizia di cui ha parlato ieri su questo giornale il direttore del Foglio, c’è un numerino rilassante e ricorrente nella carriera dei magistrati che può aiutarci a fotografare al meglio quali sono le patologie del sistema. Quel numero è questo: il 2%. Una regola non scritta ci dice che quando sono sottoposti ad un giudizio (sull’attività svolta, disciplinare o civile) solo il 2% non ne esce bene. Una percentuale che fa dormire sonni tranquilli alle toghe: sia che affrontino la periodica valutazione di professionalità (per il 98% l’esito è positivo, non positivo meno del 2%) o una causa di responsabilità civile (dal 2010 ad oggi su 544 cause, solo 8 condanne, precisamente 11,4%) o, ancora, un’azione disciplinare (le condanne sono 1’1,4% delle denunce), la regola del 2% non sgarra mai. Ma se sono tutti bravi-bravissimi come si scelgono i vertici di Tribunali o Procure? Questo appiattimento è il carburante che alimenta le correnti. Se non c’è differenza tra chi è attivo e chi è disimpegnato, tra chi è corretto e chi sbaglia, se tutti sono ugualmente capaci, decidono, o, meglio, spartiscono, le correnti. Pochi giorni fa dal congresso dell’Anm è giunto un fermo invito al governo a procedere celermente alla riforma del Csm, per sradicare il correntismo che penalizza le nomine dei più meritevoli. Peccato che quando si prova a mettere in discussione valutazioni di professionalità, responsabilità civile e disciplinare scatti un fuoco di sbarramento. Basta scorrere il sito internet di una nota corrente delle toghe: si spiega che “quella che riguarda i magistrati è una giustizia particolarmente severa” e “dire che essi sono gli unici cittadini che non pagano per gli errori commessi significa dire cosa non vera che il dato statistico è pronto a smentire”. Sul sito di un’altra corrente, con riferimento proprio alle statistiche, si parla di “cifre che dimostrano un rigore che non si era mai visto e che non ha paragone con nessun altro ordine o categoria professionale”, concludendo come “siano immeritate le accuse di giustizia “domestica” e di “corporativismo”, Non so a quali statistiche si riferiscano, perché i numeri sono impietosi. Esaminiamo quelli sulla responsabilità disciplinare. La sezione disciplinare del Csm nell’anno 2020 ha concluso 114 giudizi: le condanne sono state 25 (il 21,9%), mentre tutti gli altri esiti (78,1%) sono stati di assoluzione, non doversi procedere, non luogo a procedere. Un risultato analogo si evince esaminando le annate precedenti. Nel 2019 le condanne sono state 25, il 22,6%. Questo però è un dato parziale. Vale per i pochi fascicoli che finiscono al CSM. La stragrande maggioranza delle denunce è archiviata “de plano”. Infatti il Procuratore Generale della Cassazione riceve quasi 2000 segnalazioni disciplinari l’anno (1898 nel 2019, 1775 nel 2020), le analizza, le filtra e ne archivia oltre il 90%. Solo per il 5% dei casi promuove l’azione disciplinare (quella che finisce al CSM), ed il 21-22% di queste sfocia in condanna. Anno 2019, 1898 denunce 24 condanne (1,26%), anno 2020, 1775 denunce 25 condanne (1,4%). La regola del 2% è rispettata. Perché il PG archivia senza neanche un giudizio? Nessuno lo può sapere, visto che è impossibile avere gli atti di quel 90% di archiviazioni. Perché - salvo il Ministro della Giustizia - nessuno, né il segnalante, né un’istituzione, né chiunque altro può avere copia degli atti e leggere le motivazioni dei proscioglimenti. E vi è una costante e granitica difesa della gelosa riservatezza di tali documenti, della loro non sostenibilità: chi presenta denuncia e chiede le ragioni dell’archiviazione trova un muro. Ai richiedenti viene risposto che non hanno interesse, visto che il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di chi ha denunciato, ma quello dell’amministrazione della giustizia. Un segreto istruttorio a prova di bomba, mica quello che la legge riserva ai comuni mortali. Archiviare o assolvere non deve comunque essere un esercizio impegnativo, perché la legge del 2006 che disciplina la responsabilità disciplinare offre un’ampia gamma di strumenti. Mi torna alla mente un episodio colorito che mostra alla perfezione quanto sia flessibile (e soggettivo) il confine tra sanzione e perdono. Qualche anno fa un giudice del Tribunale di Locri, nel corso di un’udienza, si alzò d’un tratto in piedi e con fare alterato si abbandonò alla pronuncia di frasi offensive per le parti presenti: “non mi rompete il c..., mi avete rotto i co..., fatevi i e... vostri, vaffa.....”. Un caso di scuola. Inevitabilmente finì davanti alla sezione disciplinare del Csm, e venne assolto perché il fatto fu giudicato “di scarsa rilevanza”. Un caso emblematico di applicazione di una clausola “di salvezza”, quella della “scarsa rilevanza” dei fatti addebitati, contenuta nella legge proprio per garantire vie di fuga a situazioni indifendibili. Si è di fronte ad comportamento sanzionabile, ma se il fatto è di “scarsa rilevanza” scatta l’assoluzione. La varietà di applicazioni perdoniste della “scarsa rilevanza” è notevole: dal caso di inerzia di un Pm che indugia per 7 anni su un fascicolo, alle offese su social network riprese dalla stampa, al travisamento dei fatti di causa, fino alle nomine non consentite ecc. Una buona penna può motivare ovunque sulla “scarsa rilevanza”. Ma la legge offre anche altre generose scappatoie. Il ritardo nel compimento di atti rileva solo se reiterato, grave e ingiustificato (la legge chiarisce che “si presume non grave il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto”). È stata ritenuta causa di giustificazione dell’inerzia di un magistrato la contestuale conflittuale separazione personale dal coniuge; la sanzione non scatta per comportamento scorretti nei confronti delle parti, dei testimoni, di altri magistrati, se non sono gravi o abituali; la violazione di legge rileva solo se grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; il travisamento del fatto è punito solo se determinato da negligenza inescusabile; l’adozione di provvedimenti in casi non consentiti dalla legge è rilevante solo se frutto di negligenza grave e solo se abbia leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali; ; il sottrarsi all’attività di servizio ha rilievo solo se abituale e ingiustificato; la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione solo quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui; e così via. E, infine, occhio alla forma. Un sinistro avvertimento sul sito della Cassazione sottolinea che “le segnalazioni di fatti aventi eventuale rilevanza disciplinare provenienti da privati a mezzo posta elettronica non certificata, così come le istanze ad esse relative, non determinano nessun obbligo di provvedere e, conseguentemente, alle stesse non sarà dato riscontro”. Quindi il fatto può anche avere “eventuale rilevanza disciplinare”, ma se la denuncia non è fatta tramite Pec può tranquillamente finire nel cestino? Un numero così esiguo di condanne disciplinari può intendersi come indice di una magistratura sana e corretta, ma all’esterno appare più come l’arrocco di un sistema che si chiude a riccio, salvo scaricarsi di tanto in tanto su qualche caso per offrire l’apparenza del pugno di ferro, Un concorso di responsabilità tra Parlamento e Governo - inerti e ciechi da anni - ed il Csm, che abilmente coglie gli spazi offerti dal legislatore. Legislatore che ha finalmente l’occasione per rimediare, attraverso la riforma del CSM: trovi il coraggio di intervenire drasticamente. Cambiare la legge elettorale dell’organo di autogoverno è certo importante, ma non servirà a nulla se non si scioglieranno i nodi da cui le correnti traggono forza, vitalità e ragione d’essere. *Deputato di Azione Perché difendo i pm di Palermo di Giancarlo Caselli La Stampa, 28 settembre 2021 Cosa nostra è criminalità organizzata non soltanto di tipo gangsteristico-predatorio. All’elenco sconfinato delle attività di tale categoria (droga; rifiuti tossici; estorsioni; appalti truccati...) si devono aggiungere quelle, del pari criminali, che si collocano sul versante delle “relazioni esterne”. Vale a dire l’intreccio osceno (fuori scena, nascosto) di interessi e affari comuni tra mafia e pezzi del mondo “legale”. La vera spina dorsale del potere mafioso, che spiega perché la mafia appesti ancora il nostro paese un paio di secoli dopo i suoi esordi. Nessuna banda di “semplici” gangster ha mai potuto realizzare un successo simile. Ma se la forza della mafia è in quest’intreccio inestricabile, ne consegue che il contrasto alla mafia deve colpire ambedue i versanti: quello “militare” e quello lato sensu “politico”. Altrimenti, risparmiando gli imputati “eccellenti”, si userebbe loro un trattamento privilegiato, e sarebbe - oltre che illegale - disonesto e vile. La magistratura palermitana del dopo stragi, consapevole che il sacrificio di Falcone e Borsellino e di quanti erano morti con loro imponeva ancor più di fare il proprio dovere fino in fondo, ha rifiutato questa scelta per non macchiarsi di vergogna. Ed ecco - oltre ai processi contro Salvatore Riina e soci - vari processi contro imputati eccellenti: da Andreotti a Dell’Utri, per ricordare soltanto due casi. C’è un significativo fil rouge che lega tutti i processi “politici”, in particolare un iter processuale assai tortuoso con frequenti ribaltamenti nei vari gradi di giudizio. Ci sono assoluzioni e condanne ma queste nel bilancio complessivo prevalgono (per una verifica rinvio al libro Lo stato illegale da me scritto con Guido Lo forte per Laterza) E tuttavia sempre - sempre - i fatti portati a sostegno dell’accusa sono stati riconosciuti come effettivamente accaduti. Quindi nessun teorema, nessun accanimento pregiudiziale, nessuna persecuzione. Nonostante questo dato di realtà, molti hanno parlato di processi buoni solo per mettere alla gogna personaggi eccellenti, capaci di ottenere condanne solo sulla stampa; di mala-gestione dei processi “politici”; di un colpo micidiale inferto alla lotta alla mafia come impostata da Falcone (a volte malamente tirato in ballo, con una specie di tavolino spiritico-giudiziario, per sostenere la tesi, indimostrata e indimostrabile, che lui certi processi non li avrebbe fatti). Un fil rouge che spesso si è dipanato con campagne organizzate di aggressioni senza risparmio di mezzi o energie. Campagne che sembravano avere come obiettivo non “più”, ma “meno” giustizia e che in ogni caso valutavano gli interventi giudiziari sulla base dell’utilità o meno per la propria cordata, di certo non secondo criteri di correttezza e rigore. Qualcosa di analogo mi sembra si possa riferire (dopo la sentenza della corte d’assise di Palermo nel processo “trattativa”, in rispettosa attesa della sua motivazione) alle polemiche scatenate contro i Pm dell’accusa e i magistrati giudicanti che in precedenza avevano deciso diversamente. Non è giusto ridurli a poltiglia maleodorante (esercizio che sembra appassionare molti...) per aver coraggiosamente esercitato le loro funzioni affrontando con spirito di servizio e senso dello stato un caso che fin dall’intreccio inaudito dei soggetti indicati nel capo d’accusa è risultato di delicatezza e complessità assolute. Criticare è un conto; oltraggiare e insultare chi ha fatto il suo dovere è ben altro. La trattativa Stato-mafia e quei problemi Travaglio nell’interpretare la sentenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2021 Il dispositivo della sentenza d’appello del processo trattativa Stato-mafia smonta i fatti narrati in questi ultimi 10 anni e c’è chi travisa, di nuovo, l’episodio del “Subranni punciutu” riferito da Paolo Borsellino alla moglie. Il dispositivo della sentenza trattativa Stato-mafia è così semplice e lineare che pure un bambino riuscirebbe a comprenderlo. Ma Marco Travaglio no, si ostina a dire che la sentenza conferma i fatti narrati dal suo giornale, da trasmissioni e improbabili inchieste tv replicate fino allo sfinimento. Ma quali sono i fatti che non sarebbero stati sconfessati? In estrema sintesi, ripercorriamo il teorema propagandato. Subranni era così amico di Mannino che lo arrestò - Dopo l’esito del maxiprocesso, Totò Riina decide di ammazzare i politici che non sarebbero intervenuti per evitare la condanna alla cupola mafiosa. Nel mirino c’era anche l’ex ministro dc Calogero Mannino che, impaurito, ha chiamato l’allora capo dei Ros Antonio Subranni (così amico, ma talmente intimo che poi sarà lui ad arrestarlo - da innocente - per concorso esterno in associazione mafiosa) e gli ha detto di trattare con la mafia, scendere a patti per evitare di essere ucciso. A quel punto Subranni ha chiamato Mario Mori e gli ha ordinato di trovare qualche referente mafioso per intavolare una trattativa. Con l’allora capitano Giuseppe De Donno hanno individuato l’ex sindaco di Palermo Ciancimino. I fatti narrati ci dicono che i Ros, tramite don Vito, in concorso con la mafia hanno veicolato la minaccia al governo: fai leggi a favore dei mafiosi, o continuiamo con le stragi. Poi, sempre secondo i fatti raccontati da Travaglio (un copia incolla della pubblica accusa), a partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica Silvio Berlusconi nella veste di Presidente del Consiglio, il ruolo di “cinghia di trasmissione” delle minacce mafiose cambia interprete e viene assolto non più dai Ros e, per i quali, quindi, il reato si è consumato nel 1993, bensì dall’ex senatore Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia trapiantato in Lombardia, alimenta la trattativa e veicola, in concorso con la mafia, la minaccia al governo. Calogero Mannino è stato assolto definitivamente per non aver commesso il fatto - Bene, questi sono i fatti che secondo Travaglio non sarebbero stati sconfessati. Ora, passiamo alla verità emersa processualmente che comprenderebbe, appunto, anche un bambino. Mannino è assolto definitivamente dall’altra sentenza per non aver commesso il fatto. Mori e De Donno assolti dall’accusa di aver minacciato il governo - Quindi è già crollato la genesi raccontata dal teorema: Mori e De Donno hanno agito autonomamente, sotto impulso di nessun uomo delle istituzioni. Ora l’attuale sentenza li assolve perché il loro colloquio con Ciancimino non era volto, in concorso con la mafia, a minacciare il governo. Fuori un altro pezzo del teorema. Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto - Rimane Dell’Utri. Il dispositivo ci dice che non ha nemmeno trattato tramite Mangano e quindi non ha commesso il fatto. Via un altro importante pezzo del teorema. Quindi che cosa ne rimane dei fatti narrati per 10 anni da Travaglio? Solo che i Ros hanno “trattato” con Vito Ciancimino. E questa, come si suol dire, è la scoperta dell’acqua calda visto che nessuno lo ha mai negato o tenuto nascosto: dei contatti intrapresi con Ciancimino, la Procura di Palermo ne è venuta a conoscenza appena si è insediato Caselli nel ‘93. Travaglio attacca anche Fiammetta Borsellino - Nessun illecito, e ora lo conferma pure la Corte D’Appello presieduta dal giudice Angelo Pellino. Nel suo editoriale dove si divertirebbe a smontare presunte bufale, Travaglio se la prende pure con Fiammetta Borsellino. In un’intervista su Libero, fatta da Giovanni Jacobazzi, la figlia di Borsellino dice: “Sotto accusa chi aiutò mio padre”. Ed ecco la puntuale battuta di Travaglio: “Suo padre è per caso lo stesso che disse a sua madre prima di morire: “Ho visto la mafia in diretta, mi han detto che Subranni è punciutu”, cioè associato alla mafia?”. Ed ecco che anche qui, così come per il dispositivo, Travaglio presenta evidenti problemi di comprensione del testo. Borsellino aveva chiaramente capito l’intenzione di infangare i Ros - Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino si riferiva al suo interlocutore, avendo chiaramente capito la sua intenzione di infangare i Ros. Non a caso, come ha testimoniato la signora Agnese, ha avuto conati di vomito. Con chi si era visto? Non è dato sapere. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; poi l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Sicuramente è pura coincidenza che questo evento sia capitato il giorno dopo la riunione in procura, dove Borsellino ha riportato le lamentele dei Ros per la conduzione del procedimento di mafia-appalti. Esiste un precedente. Borsellino, il 25 giugno 1992, si incontrò riservatamente con i Ros e la prima cosa che disse a De Donno fu: “Attenzione che qualcuno sta parlando male di te”. Ci credo che ha avuto i conati di vomito quando, ancora una volta, qualcuno ha tentato di infangare i Ros, coloro che hanno messo mano all’inquietante connubio mafia, politica e grandi imprese nazionali. Crimine di impresa, la legge lo punisce ma attuare la normativa è tutt’altro che semplice di Vincenzo Imperatore Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2021 Il D.Lgs 231/2001 disciplina la responsabilità delle società per gli illeciti amministrativi. In altri termini, nel caso in cui un dipendente o un amministratore compia nello svolgimento delle sue funzioni un reato previsto dal decreto, vengono previste delle sanzioni di carattere amministrativo e penale anche per l’azienda nel caso in cui la stessa non abbia adottato procedure, protocolli e regolamenti previsti da un “modello organizzativo” che la esoneri dalle responsabilità. A tal riguardo, ho ricevuto diverse ed educate segnalazioni da parte di tanti imprenditori che si (e mi) chiedevano: “Ma se l’adeguamento del modello organizzativo di una piccola azienda ai dettami del d.lgs 231/2001 non è, al momento, obbligatorio, perché parlarne allora e, ancor di più, farlo?”. Indipendentemente dai danni non solo a livello economico ma anche reputazionale e di immagine che ne deriverebbero in caso di mancato adeguamento, con il rischio estremo della cessazione dell’attività di impresa, e tenendo presente che - così come sottolineatoci dall’Avv. Antonello Grassi - la disparità geografica di contestazione del crimine di impresa da parte dei tribunali (al Nord le procure contestano i reati mentre al Sud no) è solo momentanea, è bene precisare che se lo scopo del decreto era solo quello di evitare le conseguenze sanzionatorie della commissione del reato il segnale sarebbe stato poco incidente sulla effettiva portata della normativa in questione. Infatti, il timore della sanzione viene spesso percepito, così come evidenziato in molti casi pratici, qualcosa di distante dalla propria attività imprenditoriale, come un qualcosa che può capitare solo agli altri. Proprio in questa fase temporale, caratterizzata dall’emergenza Covid, l’adattamento del modello organizzativo alle regole del decreto ha movimentato la vita di tante piccole imprese, soprattutto con riferimento alla protezione della salute dei lavoratori dal rischio di contagio e, di riflesso, per la salute dell’imprenditore e dell’impresa per i possibili effetti indesiderati in termini sia di responsabilità civile che penale ed amministrativa. Proprio questa straordinarietà non può, però, essere considerata meramente di passaggio, ma dovrà rappresentare la maturazione della consapevolezza della centralità di questo processo nella gestione delle imprese, influenzandone l’ambiente operativo attraverso le cosiddette best practice, permettendo a tutti, apicali e subordinati, di conoscere meglio ed in profondità le procedure e le pratiche aziendali, comprendendo i rischi ed imparando a valutarli ed a tal fine aiutati da quello che, della normativa e della sua adeguatezza, è una componente caratteristica e centrale: l’Organismo di Vigilanza. A tal proposito un esempio pratico potrebbe risultare particolarmente rilevante. In una azienda si è verificato che l’Ufficio Acquisti, onde risparmiare su una fornitura di speciali guanti protettivi da utilizzare nell’esecuzione delle mansioni lavorative, abbia autorizzato l’acquisto di una partita di dispositivi (guanti appunto) non adeguati. A seguito di infortunio sul lavoro occorso ad un proprio lavoratore in quanto sprovvisto di guanti idonei, quest’ultimo ha subito ustioni particolarmente gravi alle mani, con conseguente imputazione in capo all’amministratore del reato di lesioni colpose gravi e, al contempo, l’iscrizione dell’Azienda quale responsabile ex D.Lgs. n.231/01 per la medesima fattispecie di reato. In tal caso una corretta indagine da parte dell’Organismo di Vigilanza, svolta con i mezzi di cui dispone (analisi organizzativa, verifica delle procedure, interviste ai dipendenti, ecc., ecc.), avrebbe rilevato la criticità (acquisto di guanti non idonei) e, nel caso in cui la stessa avesse deciso di seguire le preziose indicazioni, evitato in via preventiva la realizzazione della condotta penalmente rilevante sia per la persona fisica che per quella giuridica. Perché una cosa è adottare il modello, un’altra attuarlo. Adottare il modello 231 significa, di fatto, scriverlo, predisporre i documenti di cui necessita e basta. Una fase formale che richiede un coinvolgimento della struttura aziendale che potremmo definire passivo. Attuare il modello 231, invece, significa farlo funzionare, cioè mettere in pratica i protocolli stilati e predisporre un Organismo di Vigilanza (Odv) - esterno o a composizione mista o, nel caso delle piccole realtà, interno purché formato o coadiuvato da professionisti che garantiscano le corrette attività di controllo - che vigili sul corretto funzionamento delle prescrizioni. Ma tale Organismo non deve essere ritenuto, come talvolta avviene, un “nemico” dal quale rifuggire senza comunicare adeguatamente gli eventuali illeciti e le eventuali violazioni del Modello (l’importanza di una comunicazione tra l’Azienda e l’OdV è fondamentale per una corretta e concreta applicazione del Modello stesso), considerandolo quasi a mo’ di un’Autorità di Controllo esterna (Asl, Guardia di Finanza, ecc) pronta a sanzionare l’eventuale irregolarità riscontrata, nonché il suo autore, bensì un soggetto preposto a coadiuvare l’impresa nella prevenzione non solo degli illeciti penalmente o meno sanzionabili, ma delle scorrette prassi aziendali. In sostanza, l’Organismo di Vigilanza, pur senza determinare le scelte aziendali, ben può esserne indirettamente l’ispiratore. Solo in questo modo l’imprenditore, in una sana collaborazione con i professionisti preposti, comprenderà la funzione preventiva e rivoluzionaria della norma e sarà indotto a valutarla come un costante check up aziendale di diffusione di importanti capisaldi organizzativi quali la regolamentazione dei processi, la individuazione dei compiti, la tracciabilità e controllabilità delle operazioni, la coerenza tra deleghe e poteri degli amministratori e degli apicali. Non deve essere e non sarà l’obbligatorietà stabilita per legge dell’adozione del Modello Organizzativo secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n.231/01, che giace in Parlamento per l’approvazione da circa tre anni, né quella fattuale, collegata alle necessità volta ad acquisire un maggior punteggio per la partecipazione ad una gara o all’ottenimento del famigerato rating di legalità, a dare concreta attuazione a questo necessario adeguamento. Infatti, solo l’effettiva consapevolezza da parte degli imprenditori ed anche dei professionisti del settore, che non dovranno limitarsi ad essere semplicemente promotori del “prodotto” a mo’ di procacciatori di affari, lasciando all’azienda il compito di fronteggiare le eventuali criticità, potrà garantire una visione completa del panorama gestionale che la normativa in questione, così come correttamente interpretata e strutturata, può offrire. Solo in questo modo, è auspicabile la doverosa presa di coscienza e conseguenziale responsabilizzazione, investendo sulla prevenzione del rischio senza più considerarlo come un “malaugurio” o un costo da esorcizzare, cogliendo la preziosa opportunità per uno sviluppo del sistema impresa nel mercato italiano. È un po’ come il vaccino anti-covid: non è obbligatorio ma lo devo fare! Giustizia tributaria, 41 miliardi di contenzioso e troppi conflitti di interesse di Leda Rita Corrado Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2021 Perché la riforma prevista dal Recovery plan non può aspettare. Si tratta di una delle misure inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza: il governo dovrebbe vararla entro fine mese. Ma la Commissione interministeriale incaricata di proporre interventi si è spaccata: i tecnici a favore di un deciso rafforzamento della giurisdizione speciale tributaria, i giudici per lo status quo. Su Change.org una petizione per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il contenzioso fiscale ha raggiunto nel 2019 un valore complessivo pari a quasi 41 miliardi di euro. Basta questo dato per capire le implicazioni economiche per l’intero sistema-paese, della riforma della giustizia tributaria che il governo Draghi deve presentare al Parlamento entro il mese di settembre. Si tratta di una delle misure inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. L’obiettivo è migliorare la qualità della tutela giurisdizionale dei contribuenti - imprese e privati - coinvolti nell’azione amministrativa di accertamento e riscossione. Il buon funzionamento della giustizia tributaria ha anche rilevanti implicazioni sociali: un controllo giudiziario del prelievo fiscale realizzato secondo canoni di efficienza ed efficacia garantisce non soltanto gli interessi dei singoli contribuenti che richiedono tutela per se stessi, ma anche quelli dell’Erario e della collettività tutta. Arretrato monstre e conflitti di interessi - Arretrato ed eccessiva durata del processo tributario si manifestano dinanzi alla Corte di Cassazione: lo scorso marzo, dettando le linee programmatiche sulla giustizia, il ministro Marta Cartabia ha rilevato che sotto il profilo quantitativo quasi la metà delle pendenze in Cassazione è costituita da ricorsi in materia tributaria, sotto il profilo temporale i tempi di giacenza dei ricorsi in sede di legittimità sono superiori a 3 anni e sotto il profilo qualitativo la metà circa dei ricorsi in materia tributaria viene accolta. Tale ultimo dato è considerato come la manifestazione della qualità complessivamente inadeguata delle sentenze pronunciate nei gradi di merito dalle Commissioni Tributarie. Le numerose patologie che affliggono la giustizia tributaria si concentrano nel suo ordinamento giudiziario. La più macroscopica è il ruolo del ministero dell’Economia e delle Finanze, dal quale dipendono sia l’organizzazione di giudici e di personale di segreteria, sia la gestione di sedi e risorse tecniche ed economiche: è evidente la compromissione dei principi costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice (art. 111 Cost.) quando un sistema-giustizia viene amministrato da una delle parti che si contrappongono in giudizio. Un’altra criticità è la scelta di affidare le Commissioni Tributarie a giudici onorari “part-time”, selezionati mediante concorso per soli titoli e pagati a cottimo in misura quasi irrisoria. Sussiste inoltre un evidente conflitto di interessi quando i giudici tributari di merito assumono anche la funzione di giudici presso la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione. Una Commissione interministeriale, due proposte di riforma - Il 30 giugno 2021 è stata pubblicata la relazione contenente le proposte di riforma della giustizia tributaria elaborate dalla Commissione interministeriale presieduta dal professor Giacinto Della Cananea. Tra i componenti si è realizzata una frattura di posizioni. I tecnici - studiosi e professionisti - si sono espressi pressoché all’unanimità a favore di un deciso rafforzamento della giurisdizione speciale tributaria attraverso modifiche strutturali al suo ordinamento giudiziario mediante una radicale riorganizzazione della magistratura tributaria, della struttura amministrativa a suo supporto e del suo organo di autogoverno. I giudici hanno invece apertamente osteggiato le proposte riformiste, non soltanto manifestando un orientamento conservatore dello status quo, ma anche enfatizzando l’attrazione verticistica del giudizio tributario verso il grado di legittimità. Perché c’è una fazione contraria alla riforma? - Durante i mesi estivi si è acceso il dibattito tra gli operatori della giustizia tributaria e numerose critiche sono state espresse rispetto alla proposta formulata dalla componente di matrice pretoria, ritenuta dai più espressione di un attaccamento ad anacronistici vantaggi corporativistici. In punta di diritto il fronte conservatore si giustifica invocando il divieto costituzionale di istituire nuovi giudici speciali (art. 102 Cost.), ma dimentica che, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, “il Legislatore ordinario conserva il normale potere di sopprimere ovvero di trasformare, di riordinare i giudici speciali […] o di ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura, con il duplice limite di non snaturare […] le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione” (così testualmente nell’ordinanza n. 144 del 1998). La petizione su Change.org - Ai numerosi convegni e alle audizioni presso le Commissioni parlamentari cui hanno contribuito le associazioni professionali specializzate in ambito tributario, nelle scorse settimane si è affiancata una petizione su Change.org per sensibilizzare l’opinione pubblica e il decisore politico rispetto alla necessità di una strutturale riforma della giustizia tributaria, ritenuta non ulteriormente procrastinabile dalla maggioranza degli operatori del settore fiscale. La riforma peraltro è tra quelle in cima alla lista delle richieste fatte da Carlo Bonomi durante l’assemblea annuale di Confindustria: “Dateci una giustizia tributaria affidata a giudici specializzati in materia, fin dai bandi di concorso, basta con il sistema dei giudici amatoriali che rendono difformi le pronunzie a livello territoriale su uguali fattispecie”. L’ambasciatore Giffoni assolto dopo 7 anni: “La mia vita è distrutta” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 28 settembre 2021 Accusato di traffici in Kosovo, fu cacciato e radiato. “È stato come essere condannati a morte...”. Nell’aula bunker di Rebibbia, quando all’una e mezza i giudici dell’ottava sezione penale l’assolvono con formula strapiena, Giffoni scoppia a piangere. Si strofina gli occhi e si scusa, perché da una vita il suo mestiere è quello di nascondere le emozioni e adesso non gli riesce: “Mi spiace, sono in pieno choc emotivo… Ma dovete capire: quel che m’hanno inflitto in questi sette anni e mezzo, per un ambasciatore equivale alla pena capitale. Sì, non lo dico io, lo dice una legge del 1953: la radiazione d’un diplomatico è equiparata alla fucilazione per alto tradimento in tempo di guerra… E loro m’hanno fucilato, senza alcun diritto di farlo. La mia vita è stata distrutta. Una prova durissima di resistenza fisica, morale e materiale. M’hanno espulso dal corpo diplomatico, ho avuto due infarti, un ictus, un tumore, il mio matrimonio è finito, m’è rimasto vicino solo mio figlio di 12 anni e son dovuto tornare in casa da mia mamma, a sopravvivere con la sua pensione… E questo perché? Per cose che non solo non avevo mai fatto, ma neanche mai pensato di fare. Era tutto infondato”. Assolto perché il fatto non sussiste: non si sognò mai di formare un’associazione a delinquere. Assolto perché il fatto non costituisce reato: men che meno, si mise mai in testa di favorire l’immigrazione clandestina. Nella mostruosa galleria dei Kafka italiani, ecco il caso della fucilazione senza processo inflitta sette anni e mezzo fa all’ormai ex ambasciatore Michael Giffoni, 56 anni, newyorkese di nascita e italianissimo per spirito di servizio, incarichi dalla Bosnia alla task force del “ministro” europeo Javier Solana, che nella storia sarà ricordato perché fu il primo ad aprire una nostra ambasciata a Pristina, subito dopo l’indipendenza del Kosovo. E il primo, anzi l’unico, a essere cacciato con disonore: “Senza che nemmeno fosse cominciato il processo, il ministero degli Esteri mi tolse tutto: rango, incarichi, stipendio. Feci due volte ricorso al Tar, che per due volte mi reintegrò. Ma per due volte la Farnesina ribadì la mia destituzione: una a firma dell’allora ministra Federica Mogherini; la seconda, del segretario generale Elisabetta Belloni. Ero accusato di dolo e colpa grave, senza uno straccio di sentenza penale contro di me”. La sentenza ora è arrivata, “dopo 4 anni di processo, di tanta gente che t’abbandona, di soldi che non ci sono, d’un telefono che passa da cento chiamate al giorno a sette-otto all’anno”. E ha appurato come l’ambasciatore Giffoni non c’entrasse proprio nulla con quel suo collaboratore locale - peraltro figlio di Ibrahim Rugova, il “Gandhi del Kosovo” - che fra il 2008 e il 2013 trafficava in visti e permessi di soggiorno. Chi l’ha conosciuto nei suoi 23 anni da diplomatico sul campo, uno che è stato a Sarajevo sotto le granate e ha visto gli orrori di Srebrenica, non ha mai dubitato un attimo di Giffoni. Ma alla Farnesina si son fatti un altro film: “Non so se in Kosovo io abbia mai toccato interessi o suscettibilità. Non me la sento neanche di dare colpe. Credo che il mio caso sia stato più che altro un impazzimento. Un accanimento feroce e disumano. Di chi conosceva il mio profondo attaccamento al Paese e ai valori dell’Ue”. E ora? “Non è finita, lo so. In uno stato di diritto la mia riabilitazione dovrebbe essere automatica: non in Italia. Per me, fare l’ambasciatore era una missione e questo è il peggio: m’hanno destituito non solo dal mio lavoro, ma dalla mia vita e dalla mia anima”. Sardegna. Cinque direttori per dieci prigioni Libero, 28 settembre 2021 Dieci penitenziari, che ospitano un terzo dei detenuti in regime di 41 bis, e cinque direttori di cui uno prossimo alla pensione. È la situazione penitenziaria che si vive in Sardegna e denunciata dai sindacati di polizia penitenziaria Osapp, Fns Cisl, Cgil e Cnpp in una lettera inviata al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia. “Nei prossimi mesi del 2022”, segnalano i sindacati preoccupati, “sarà aperto un reparto per detenuti in regime di 41 bis nel penitenziario di Uta Cagliari”. Gli agenti in servizio - segnalano quindi le sigle sindacali, che non hanno notizie della copertura degli incarichi di vertice mancanti, “si sentono sempre più abbandonato a loro stessi e navigano a vista”. “A peggiorare la già precaria situazione è la forte carenza di sottufficiali”, aggiungono i rispettivi segretari regionali, che chiedono interventi urgenti per superare le annose carenze d’organico. I sottufficiali che prestano servizio nelle videoconferenze, per esempio, iniziano il turno alle 8 e lo concludono alle 20: “Questo tipo di orario, a lungo andare, sfinisce chiunque fisicamente e psicologicamente”, avvertono i sindacati, segnalando un rischio di burnout. In particolare, nel carcere di Bancali Sassari “il malessere è arrivato al limite della sopportazione; in un penitenziario di questo livello è necessario e non più procrastinabile l’assegnazione di un direttore e un comandante di reparto in pianta stabile”. Marche. Sinistra Italiana interviene sulla situazione carceraria nella Regione ilcittadinodirecanati.it, 28 settembre 2021 Sinistra Italiana Marche esprime viva preoccupazione dopo la rissa scoppiata ieri al Carcere di Montacuto fra detenuti, con conseguente tentativo di suicidio. SI Marche è al fianco degli agenti e delle agenti di polizia penitenziaria delle carceri marchigiane, in agitazione in particolare a Pesaro dal 20 settembre, a seguito degli ultimi episodi di violenza che hanno messo a rischio la loro incolumità, in un clima reso allarmante dalla pandemia. Ricordiamo peraltro la denuncia per i pestaggi degli istituti di Santa Maria Capua Vetere e di Modena, entrambi legati alla prima ondata di pandemia., ed il più recente del detenuto trovato in possesso di pistola a Frosinone. Il Partito si colloca all’opposizione del Governo Draghi ed anche sulle riforme della Ministra Cartabia ha espresso le sue perplessità, pur apprezzandone gli impegni presi sulle misure alternative per i detenuti. Perché la situazione non precipiti nella sfiducia negli istituti democratici da parte degli agenti, dei detenuti e della popolazione, è necessaria una ampia iniziativa politica da parte del governo. Nonostante l’impegno della commissione parlamentare e della Ministra Cartabia si ha come l’impressione che lo scopo del governo Draghi sia di completare le riforme per rientrare in tempo nei canoni europei ed avere diritto ai finanziamenti previsti. Due sono i grandi assenti dal quadro delle riforme del processo penale, civile e del nuovo regolamento penitenziario: gli agenti di Polizia Penitenziaria, con il loro compito di sicurezza e interlocuzione con i detenuti, e gli educatori, psicologi, assistenti sociali. Occorrono investimenti nel personale, ed approvazione di leggi che fanno chiarezza sui diversi ruoli, come il ddl Mirabelli, ancora in via di discussione in Parlamento. Verona. Suicida in carcere l’uomo accusato di aver ucciso Chiara Ugolini di Enrico Ferro La Repubblica, 28 settembre 2021 La ragazza era stata trovata morta in casa. Per gli investigatori a compiere l’omicidio era stato Emanuele Impellizzari, il vicino di casa che era ai domiciliari. L’ultima immagine da uomo libero di Emanuele Impellizzeri è quella che lo vede, spavaldo e impunito, mentre scappa a forte velocità in sella alla sua moto lungo l’autostrada. La camicia ancora sporca di sangue, sulle braccia i graffi rimediati prima di uccidere la ventisettenne Chiara Ugolini. Ventidue giorni dopo Impellizzeri, 38 anni, arrestato dai carabinieri con l’accusa di omicidio volontario, si è tolto la vita in carcere a Verona. L’ha fatto poche ore prima dell’interrogatorio a cui sarebbe stato sottoposto. L’assassino, origini catanesi, si è impiccato in cella verso le 5.30 del mattino. Lascia la moglie e una figlia di 7 anni. Negli ultimi giorni era stato trasferito dal carcere fiorentino di Sollicciano, dove era stata fermata la sua fuga, a quello veronese di Montorio. Impellizzeri, quella domenica pomeriggio, dopo essersi introdotto nell’appartamento di lei arrampicandosi sul terrazzo, l’aveva aggredita in modo brutale. Dopo aver dato lo spintone così forte da farle perdere i sensi, le ha fatto ingoiare della candeggina e poi le ha messo in bocca lo straccio imbevuto dello stesso liquido, probabilmente dopo averle sferrato alcuni pugni all’addome. Uno scenario sconcertante, per un movente ancora non del tutto chiaro, visto che Impellizzeri non aveva ancora ammesso chiaramente il tentativo di violenza sessuale. “Ho sentito l’impulso di entrare in casa”, ha detto agli investigatori, senza però specificare i dettagli. “Lei ha iniziato ad urlare, io non ho più capito niente e l’ho spinta”, ha detto ancora ai carabinieri. Chiara Ugolini conviveva con il fidanzato, che è titolare di una catena di negozi di abbigliamento. Abitavano in quell’appartamento di Calmasino solo provvisoriamente, visto che stavano attendendo la fine della ristrutturazione di una casa a Lazise, sul lago di Garda. Quel giorno la giovane, che si era laureata a Padova in Scienze politiche, aveva fatto il turno del mattino in negozio e doveva riprendere servizio verso le sette di sera. Era tornata a casa per lavarsi e riposarsi. È toccato a Daniel Bongiovanni, il fidanzato, scoprire quel corpo senza vita. L’aveva chiamata al telefono tante volte senza ricevere risposta e così si era presentato a casa per capire cosa stesse succedendo. Verona. “Mi vergogno per quello che ho fatto. Scusatemi tutti” di Alessandra Vaccari L’Arena, 28 settembre 2021 Ha aspettato che l’agente del turno di notte passasse nel lungo corridoio in cui, una di fronte all’altra ci sono una quindicina di celle. Le luci notturne, seppur fioche erano accese. Fuori non c’era ancora la luce del giorno. Aveva già deciso di uccidersi Emanuele Impellizzeri, 38 anni, detenuto nella casa circondariale di Montorio da venerdì scorso, dopo essere stato rinchiuso temporaneamente in un carcere toscano. Era stato arrestato per l’omicidio, aggravato dalla crudeltà, di Chiara Ugolini, 27 anni, sua vicina di casa, nel palazzo di Calmasino. Una fuga breve, quella dell’uomo, che dopo aver commesso il delitto era salito in sella alla sua moto per evitare l’arresto. “Mi vergogno per quello che ho fatto. Chiedo scusa ai familiari di Chiara. Chiedo scusa a mia figlia ed alla mia compagna. Scusatemi tutti”. Poi il detenuto, che era ristretto in una cella del braccio vicino all’infermeria, ha tirato fuori quella fettuccia di lenzuolo che era riuscito a strappare qualche ora prima, l’ha agganciata ad una delle inferriate della cella e si è appeso. Bastano un paio di minuti per svenire per la mancanza di ossigeno. Cinque per morire. Quando l’agente è tornato sui suoi passi per l’ennesimo controllo, ha visto l’uomo che penzolava in cella. È intervenuto subito, ha chiamato altri colleghi in ausilio, ma per Impellizzeri era troppo tardi. Il detenuto era in isolamento in attesa dell’esito del tampone molecolare. Il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quando ha acconsentito al suo trasferimento a Verona, non aveva dato indicazioni particolari sul detenuto. Non era stata ravvisata la necessità di sorvegliarlo a vista. Era lucido, seppur con sbalzi d’umore. Ha chiesto più volte notizie della sua famiglia e dello stato di salute della figlia. Il biglietto d’addio lo ha scritto ore prima di commettere il gesto. La sua ultima notte era stata tranquilla, in attesa di compiere quello che aveva deciso che avrebbe fatto. Ora la procura aprirà un fascicolo per questo avvenimento, ma si tratta di un atto dovuto. “Mi sento di poter affermare che da parte nostra non ci sono state mancanze”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, “il collega ha fatto tutti i passaggi previsti durante il servizio. In carcere ci sono le telecamere a tutela del personale, ma sono nei luoghi comuni, non nelle celle perché violerebbero la privacy dei detenuti. Il collega di turno ha fatto i passaggi che doveva fare, e purtroppo il detenuto ha, presumibilmente, agito non appena il collega è passato”. Conclude Capece: “Ogni anno sono circa una cinquantina i detenuti che si tolgono la vita in cella, e ce ne sono circa 1.500 invece che vengono salvati dalla polizia penitenziaria. È anche questo un dato che è importante rendere noto”. Benevento. Ancora un suicidio nel carcere: detenuto 27enne si toglie la vita ilsannioquotidiano.it, 28 settembre 2021 Ennesima amara scoperta del personale della casa circondariale di Benevento a Capodimonte: rinvenuto il corpo senza vita di un detenuto (Mirko Palombo, 27 anni), internato nel reparto isolamento del penitenziario dopo che aveva danneggiato gli arredi della propria cella in una crisi di escandescenze (da poco era presso il carcere di Benevento, dallo scorso sabato). Cosenza. Interrogazione alla ministra Cartabia per la morte di un detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2021 È il caso di Pasquale Francavilla, l’uomo di 46 anni morto nel carcere di Cosenza dopo un delicatissimo intervento chirurgico. A interpellare la guardasigilli è la parlamentare del Pd, Enza Bruno Bossio. Interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia sul caso di Pasquale Francavilla, l’uomo di 46 anni morto nel carcere di Cosenza, dove è stato inspiegabilmente riportato dopo un delicatissimo intervento chirurgico. A interpellare la guardasigilli è la parlamentare del Pd, Enza Bruno Bossio. Il caso com’è detto, è quello relativo alla morte di Francavilla, deceduto alcune settimane fa nel carcere “Sergio Cosmai”, per un malore. Secondo quanto riferito dal legale, l’avvocato Mario Scarpelli, Francavilla, stava scontando gli ultimi 10 mesi di pena, ma era incompatibile con il regime carcerario perché versava in condizione di salute precaria. L’avvocato Mario Scarpelli, ricordiamo, aveva spiegato a Il Dubbio: “Francavilla necessitava di un intervento chirurgico, ma nel frattempo al penitenziario di Cosenza gli è sopraggiunto un trombo alla gamba. Stava perdendo la vita. Trasportato d’urgenza in ospedale, lo hanno salvato in extremis. Finito l’intervento, è stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva”. E cinque giorni prima che morisse, l’avvocato Scarpelli lo ha sentito in videochiamata: “L’ho visto sofferente, mi ha detto che lo avrebbero dimesso dall’intensiva e ricoverato in un reparto”. Francavilla, teoricamente, doveva quindi essere dimesso dalla terapia intensiva e ricoverato presso un reparto apposito. Ma così non è stato. “Inspiegabilmente, contro ogni previsione, lo dimettono e il giudice di sorveglianza di Cosenza lo rimanda in carcere”, ci ha sottolineato sempre l’avvocato Scarpelli. “Questa storia - spiega la parlamentare Bossio - che merita, invece, di essere indagata in tutti i suoi aspetti per capire se e in che termini questa morte poteva e doveva essere evitata, se e da chi è stato violato il diritto alla vita e alla salute di un detenuto in precarie condizioni fisiche”. Ha dunque, investito del caso il ministero della Giustizia con un’interrogazione, con la quale ricostruisce gli ultimi drammatici giorni di Pasquale Francavilla, deceduto lo scorso 10 settembre nella casa circondariale di Cosenza. “Da quanto sappiamo - sottolinea la parlamentare -, Francavilla stava scontando gli ultimi 10 mesi di una condanna per spaccio, il 31 agosto era stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Cosenza a causa di una trombosi con enfisema polmonare. Successivamente il legale dell’uomo, l’avvocato Mario Scarpelli, sarebbe stato informato dalle autorità mediche della necessità di una lunga degenza ospedaliera e del contestuale invio della relazione sanitaria al magistrato di sorveglianza e all’istituzione penitenziaria”. Si giunge, così, all’8 settembre 2021, giorno in cui Francavilla per motivi ignoti è stato ricondotto in carcere nonostante un quadro sanitario evidentemente compromesso e incompatibile con il regime detentivo. “Una vicenda, dunque, assai grave e apparentemente carica di colpevoli omissioni. Ecco perché ho chiesto al ministro di attivarsi subito per fare piena luce su questo caso di evidente violazione di diritti e soprusi”, conclude la parlamentare del Pd. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Concluso il progetto “Orientamento e Inserimento lavorativo” napolimagazine.com, 28 settembre 2021 Ieri mattina il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania Samuele Ciambriello si è recato in visita presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi in occasione della conclusione del Progetto “Orientamento e Inserimento lavorativo”, promosso suo Ufficio e realizzato anche nell’Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti di Eboli (SA) dall’Associazione di volontariato “La solidarietà”, che ha svolto attività di orientamento per l’inserimento lavorativo dei detenuti, e in un’ottica integrata gli operatori impiegati nelle attività hanno lavorato di concerto con le aree educative e le Direzioni degli istituiti al fine di raggiungere obiettivi comuni di inserimento lavorativo dei detenuti. Gli incontri hanno avuto l’obiettivo del riconoscimento delle possibili risorse da attivare per un futuro inserimento lavorativo “dopo il carcere”. A Sant’Angelo oggi sono presenti 140 detenuti, tante le attività lavorative, che quotidianamente vengono svolte dai detenuti, quali Tipografia, Sartoria, Carrozzeria officina meccanica, Tenimento Agricolo, Lavanderia esterna. Sono 70 i detenuti coinvolti nel lavoro gestito dall’Amministrazione penitenziaria, e 6 in Art. 21. All’Icatt di Eboli oggi sono presenti 45 detenuti, 13 dei quali impegnati nel lavoro gestito dall’Amministrazione penitenziari, che riguarda il lavoro intramoenia (addetti alle pulizie, mof e cuochi) e 1 in art. 21. “Uno dei pilastri del trattamento penitenziario è senz’alcun dubbio quello del lavoro. Tale questione è annosa anche per i numeri, nella nostra Regione l’accesso alle misure alternative per i detenuti si imbatte con un drammatico dato strutturale, connotato da una scarsità di lavoro, da un alto livello di disoccupazione e da poca offerta di lavoro per i detenuti diversamente liberi. È importante insistere sul valore dell’autoimpiego, sul mettere su delle attività artigianali attraverso cooperative o in proprio, sulla possibilità di intraprendere percorsi regionali, nazionali ed europei con Garanzie giovani o altri strumenti in campo”, così il Garante Samuele Ciambriello all’uscita del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. Modena. Le parole dei detenuti diventano arte per tutti Gazzetta di Modena, 28 settembre 2021 Spettacolo emozionante grazie alle scuole di danza del Csi. I progetti “Ovunque si legge” e “Materica” fanno scuola. Anche la seconda edizione di “Ovunque si legge” è stata particolarmente emozionante. Ieri pomeriggio al Lapidario Romano e al Lapidario Estense danza, musica e parole si sono mosse all’unisono per narrare attraverso varie forme di arte gli scritti e i racconti dei detenuti della casa circondariale di Sant’Anna. Un percorso evento itinerante nell’ambito del progetto “Materica dall’aria alla terra”, in cartellone anche come anticipazione del festival della lettura per ragazzi Passa La Parola. Non un palco per trasmettere emozioni di vita fatte di forti contrasti, ma un luogo raccolto e suggestivo che prevede un percorso di profondo ascolto in un contesto fortemente rappresentativo del patrimonio culturale del nostro territorio. La regia di Csi Modena e Csi Modena Volontariato, in collaborazione con l’assessorato alla cultura, la casa circondariale Sant’Anna, le direzioni dei Musei Civici e della Galleria Estense ha portato ad esibirsi le scuole di danza Ars Movendi Studio, BackStage, Aequilibra, La Capriola, Libertas Fiorano, Officina Danza Studio e Tersicore. Grande coinvolgimento anche degli studenti del liceo musicale Sigonio, che hanno suonato, e degli alunni di Fermi, Cattaneo, Sigonio e Ipsia Corni che in questi anni hanno partecipato dentro e fuori dal carcere a questo progetto, grazie alla sensibilità dei loro insegnanti. “Abbiamo voluto immaginare di portare ovunque la lettura dei loro testi - ha spiegato Marika Minghetti, responsabile del progetto del Csi, riferendosi ai detenuti - offrendo un momento di restituzione pubblica di quanto fatto insieme in tanti mesi di collaborazione, così da dimostrare come la lettura e la scrittura sappiano essere fonte di unione e di crescita personale”. Reggio Emilia. Progetto Gens Nova: i quadri dei detenuti a tema sociale stampareggiana.it, 28 settembre 2021 Il nuovo progetto rieducativo “Liberi Art” realizzato con i detenuti all’interno della Casa circondariale consiste nella realizzazione di quadri con una tecnica particolare che oltre ad insegnarne la manualità punta alla rieducazione dei ristretti attraverso opere d’arte a temi sociali come ad esempio la violenza sulle donne, il bullismo, la mafia. Durante la prima ondata della pandemia Covid 19, la delegata Gens Nova Emilia Romagna Anna Protopapa, si è attivata per la realizzazione di mascherine con diversi detenuti del carcere di Reggio Emilia all’ interno del laboratorio artistico di cui ne è la responsabile referente. Nei mesi estivi appena trascorsi la stessa delegata regionale ha ideato un nuovo progetto rieducativo “Liberi Art” per e con i detenuti della casa circondariale; si tratta della creazione di quadri con una tecnica particolare che oltre ad insegnarne la manualità punta alla rieducazione dei ristretti attraverso opere d’arte a temi sociali come ad esempio la violenza sulle donne, il bullismo, la mafia, un opera invece è dedicata a tutte le Forze dell’Ordine al fine di sensibilizzare il grave fenomeno dei suicidi in divisa e molti altri quadri ad ispirazione personale. La prima opera che apre il progetto “Liberi Art” fortemente voluto dalla delegata Protopapa è ispirata alla lettera Enciclica del Santo Padre Francesco “Fratelli Tutti” che, oltre ad impegnare i detenuti nella realizzazione dell’opera intitolata, non a caso, “Fratelli Tutti” ho voluto, spiega Anna Protopapa, far entrare nel loro cuore il messaggio universale della lettera del Santo Padre. Un messaggio che vuole diffondere la cultura del “noi”, dell’amore fraterno e che ha trovato un vasto eco in tutto il mondo e sta facendo riflettere e cambiando tante mentalità tra credenti e non credenti. La lettera di Papa Francesco è come un “seme”, un dono dal senso più profondo e umano quale ci invita ad essere il “sale della terra” senza escludere nessuno neanche lo scarto, coloro considerati i “perduti” della società. Sono stati molti i momenti di riflessione e di confronto con gli utenti del carcere reggiano i quali oltre ad aderire al messaggio sulla fraternità universale del Pontefice, che si rivolge e richiama noi tutti ad una fratellanza, si stanno impegnando a vivere concretamente sentimenti di solidarietà, di amicizia sociale reciproca anche tra diverse fedi religiose evidenziando alcuni loro pensieri, tra cui: “Possiamo ricominciare da dietro le sbarre, è il tempo per migliorarsi per poter essere migliori. Possiamo cadere nei burroni della vita e bisogna affrontarli iniziando da noi stessi dandoci una mano nei momenti di difficoltà ed accettare che siamo tutti essere umani con delle fragilità. Il rispetto deve essere reciproco, dobbiamo saper accogliere l’ altro, il nostro prossimo anche se diverso dal nostro modo di pensare, di essere e, indipendentemente dal suo credo religioso o di condizione sociale. Siamo tutti diversi quanto tanti uguali. Anche noi che abbiamo sbagliato e stiamo scontando la nostra pena abbiamo una dignità e possibilità per ricominciare”. L’opera “Fratelli Tutti” diventerà il quadro pellegrino, una testimonianza degli invisibili che verrà accolta ed esposta in alcune Chiese reggiane e luoghi comunitari. Terminerà il suo viaggio a Roma. Le altre opere realizzate saranno oggetto di mostre nel prossimo futuro. Nell’ambito dello stesso progetto sono stati ideati e realizzati anche dei segnalibri dedicati al contrasto della violenza sulle donne “Neanche con un fiore 1522? e al contrasto del bullismo “Se sei vittima di bullismo non avere paura. Aiuta il tuo bullo denunciandolo” - “Il bullismo non è un gioco, il bullismo è violenza, il bullismo è un reato penale. Sbulloniamoci!”, sono le frasi riportate sui segnalibri. Questi ultimi verranno donati ai bambini di alcune scuole elementari del territorio reggiano. “La Luce Dentro”: il cinema indaga il rapporto tra genitori detenuti e figli conmagazine.it, 28 settembre 2021 Come affrontare in termini di comunicazione e racconto un tema delicato e urgente come quello dei diritti dei figli dei detenuti? In questo breve, ma intenso, video Luciano Toriello regista de “La Luce Dentro” ci spiega il suo percorso: dall’idea all’approccio, agli obiettivi, a come “tirare fuori la luce” che è dentro questi bambini. Il documentario è una delicata riflessione sulle esigenze affettive ed educative dei bambini figli di detenuti e detenute, ma anche sul desiderio di riscatto e cambiamento di questi ultimi. Il film è stato presentato in anteprima il 20 febbraio 2020 alla Camera dei deputati: una proiezione emozionante, che ha rappresentato per i protagonisti della storia presenti in Aula un punto di cambiamento delle loro vite, con risvolti concreti come ci racconta il regista. “La Luce Dentro” è stato girato tra le mura della Casa Circondariale di Lucera, ed è realizzato in collaborazione con l’Associazione Lavori in Corso e con la Cooperativa Paidos Onlus, attive sul territorio foggiano con un lavoro prezioso, ogni giorno al fianco dei detenuti e delle loro famiglie. Il documentario è prodotto da Fondazione CON IL SUD e Fondazione Apulia Film Commission nell’ambito del Social Film Fund Con il Sud, l’iniziativa che unisce cinema e terzo settore per dare vita a un racconto originale del Sud Italia e dei fenomeni sociali che lo caratterizzano. A un Paese civile serve il salario minimo di Elsa Fornero La Stampa, 28 settembre 2021 Sindacati tiepidi, imprese contrarie, partiti divisi (favorevole la sinistra e maldisposta la destra), opinione pubblica disorientata. Perché così tanta divergenza sull’introduzione per legge del salario minimo, una misura all’apparenza “buona e giusta” di cui si (ri)parla in questi giorni nell’ambito del ben più ampio patto sociale sollecitato da Mario Draghi? Cercando una risposta mi è tornato in mente un episodio risalente a quando ero ministro del Lavoro. Durante un’audizione in Commissione, una deputata mi rimproverò per l’uso dell’espressione “mercato del lavoro”. Stupita, capii che avevo urtato la sua sensibilità e da quella volta cerco di usare espressioni più neutre come “mondo del lavoro”. Eppure, in economia è naturale parlare di mercato del lavoro perché di scambio si tratta, con una domanda e un’offerta che spesso hanno difficoltà a incontrarsi, con la conseguenza (frequente in Italia) di disoccupati che non trovano lavoro e di imprese che non trovano lavoratori. Un mercato delicato e complesso dove oggetto dello scambio sono servizi che le persone offrono alle imprese, ricevendo una retribuzione in cambio della fatica, dell’impegno, della competenza e dell’onestà nell’assolvimento dei compiti. Tendenzialmente la retribuzione riflette sia la produttività del lavoratore - che dipende dal suo “capitale umano” (formazione, esperienza, buona volontà) e dal “capitale materiale” (impianti, macchinari, organizzazione) messo a sua disposizione dall’impresa; sia il grado di esposizione dell’impresa alla concorrenza, ossia alla competizione con altri produttori. Imprese poco esposte, come quelle pubbliche, per l’unicità di molti dei loro prodotti, possono pagare salari più alti e scaricarli sui prezzi (o su imposte e tasse), un dualismo che ha caratterizzato la storia economica del nostro Paese prima dell’entrata nell’euro. I contratti non si fanno però singolarmente (salvo che per grandi artisti, calciatori ecc.) ma non sono neppure eguali per tutti. Le parti sociali, perciò, preferiscono mantenere nell’ambito della contrattazione collettiva di categoria la definizione del minimo salariale che proprio per questo non copre tutti i lavoratori. Il numero dei “non rappresentati” è però cresciuto negli ultimi decenni a causa della maggiore precarietà del lavoro indotta dalla crisi, dal sostegno, per ragioni occupazionali, a imprese deboli/quasi fallimentari e dalla globalizzazione, che espone le imprese, in particolare manifatturiere, alla competizione con Paesi dove il lavoro non è tutelato come in Europa e quindi ha minori diritti, minore sicurezza e salari più bassi. È questa la fascia di lavoratori direttamente interessata al salario minimo e che si aspetta una risposta dalla politica. Naturalmente ci sono controindicazioni. Un salario orario elevato in rapporto alla produttività comportare una riduzione della domanda o nella delocalizzazione e rendere più difficile l’assunzione di disoccupati per i quali “poco è comunque meglio di niente”. Pertanto, ciò che è buono per chi ha un lavoro non è necessariamente buono per chi il lavoro lo sta cercando ed è possibile che, almeno nel breve periodo, i costi sociali di un intervento a suo favore siano più visibili dei benefici. La questione riguarda in modo diretto la fissazione - ma prima ancora la definizione - di salario minimo. Il Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, stima in circa 4 milioni i lavoratori la cui retribuzione aumenterebbe se il minimo fosse fissato a 9 euro (lordi) l’ora, con un sensibile aumento del costo del lavoro e contraccolpi negativi sull’occupazione. Lo stesso Inps ha però sottolineato la notevole variabilità del numero di lavoratori coperti dalla misura a seconda del livello del salario minimo e della definizione di retribuzione lorda (inclusiva o meno delle mensilità aggiuntive e del Tfr). Il livello dovrebbe inoltre tener conto della diversità del potere d’acquisto tra le diverse regioni del Paese. Si può immaginare come un provvedimento non ben calibrato finirebbe rapidamente per arenarsi nelle discussioni politiche e ideologiche prima ancora di approdare in Parlamento. Dove trovare il punto di equilibrio di questa complessa matassa? Anzitutto nel rilevare come molte questioni debbano ancora essere approfondite, prima di essere adeguatamente comunicate agli elettori affinché possano andare oltre gli slogan (e per esempio accettare che i salari più alti si traducano, almeno nel breve termine, in prezzi più alti). Studiare le esperienze altrui sarebbe una buona partenza. Si scoprirebbe che i costi iniziali possono trasformarsi nel tempo in elementi positivi, determinando un aumento della produttività dei lavoratori interessati e della competitività delle imprese. In secondo luogo, l’Unione Europea ha avanzato una proposta di direttiva - nella quale bisognerebbe collocarsi - mirante a evitare che, soprattutto per i giovani, “il lavoro non paghi”, non sia cioè sufficiente - come accade per molte famiglie nel nostro Paese - a evitare la povertà. Il mondo del lavoro è, in definitiva, l’ambito nel quale si riflette il progresso complessivo di un Paese, i suoi valori costituenti. La fissazione di regole valide per tutti serve a evitare abusi e distorsioni eccessive. Il minimo salariale per ora di lavoro è una di queste regole: non un toccasana ma un elemento di civiltà, da preparare con cura e applicare con rigore. Morti bianche, pronta la stretta: una banca dati unica per le sanzioni alle imprese di Paolo Baroni La Stampa, 28 settembre 2021 Norme più severe dopo le ispezioni. Cgil, Cisl e Uil: “È una guerra silenziosa che in un anno ha causato oltre mille morti”. Scatta il giro di vite sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Dopo un’estate segnata da tanti tragici infortuni mortali, dopo i richiami del capo dello Stato ed il pressing dei sindacati, il governo adotta una prima serie di contromisure. Ieri il presidente del Consiglio Draghi, assieme ai ministri Orlando (Lavoro) e Brunetta (Pubblica amministrazione) ed al sottosegretario Garofoli ha incontrato i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e concordato con loro “alcuni interventi di immediata realizzabilità in materia di tutela della sicurezza e della salute sul posto di lavoro”. Quattro i temi oggetto di un nuovo decreto da varare a breve: la revisione e il potenziamento delle norme sanzionatorie da applicare a seguito delle ispezioni e la razionalizzazione delle competenze in materia di ispezione, la costituzione di una banca dati unica delle sanzioni ed infine la revisione e il potenziamento del sistema della formazione di dipendenti e imprenditori. “Su tutti questi temi c’è intesa” ha commentato al termine il presidente del Consiglio, che ha definito l’incontro di ieri “molto utile per fissare un metodo di lavoro”. “Un incontro particolarmente proficuo e concreto nel corso del quale si sono individuati alcuni interventi di breve e medio periodo” ha confermato Orlando, sottolineando che “non casualmente il confronto coi sindacati parte dal tema che va affrontato prima d’ogni altro perché riguarda vita e sicurezza dei lavoratori”. Soddisfatti di questo primo risultato i sindacati. “Col governo abbiamo condiviso la necessità di combattere la strage continua di morti sul lavoro” ha annunciato Pierpaolo Bombardieri (Uil). “È stato un incontro importante, in cui abbiamo rievocato i dati di una guerra silenziosa che ogni anno fa più di mille morti nei siti produttivi. L’anno scorso oltre 1.500: un numero spaventoso se si pensa quanto poco s’è lavorato” ha dichiarato Luigi Sbarra (Cisl). Soddisfatto anche Maurizio Landini (Cgil): “Sulla sicurezza dal governo sono arrivate le prime risposte importanti” ha dichiarato al termine. Ma per Landini “è stato molto importante anche definire un metodo di confronto”, che di qui a breve riguarderà anche la gestione del Pnrr e poi tutte le altre questioni che stanno a cuore ai sindacati, legge di bilancio compresa. La prima decisione che prenderà il governo, d’intesa con i sindacati, è quella di costituire una banca dati centrale sugli infortuni e le sanzioni in modo da integrare le informazioni raccolte da Inail, Asl e Ispettorato nazionale. “Uno strumento che oggi non esiste - ha rimarcato ieri Bombardieri - e la cui assenza ostacola l’adozione di sanzioni”. Una volta realizzata la banca data unificata si potrebbe infatti introdurre una sorta di “patente a punti” come hanno chiesto i sindacati nella piattaforma presentata al governo lo scorso maggio. Un meccanismo semplice che serve a tracciare negli anni il comportamento delle aziende nel campo della sicurezza (ma anche del rispetto delle norme sulla legalità ed i contratti di lavoro), mutuato dall’analogo meccanismo previsto per le patenti di guida, ed in base al quale una volta superato una certa soglia alle imprese “cattive” verrebbe sanzionate ad esempio con l’esclusione dalle gare d’appalto a partire da quelle pubbliche. Con le nuove norme che verranno emanate verranno inasprite notevolmente le sanzioni a carico delle aziende non in regola. In caso di inadempienze gravi, il mancato rispetto sia di norme di tipo nazionale che locale, gli ispettori subito al termine del controllo potranno disporre la sospensione dell’attività sino a quando l’impresa non sarà tornata in regola. Di inasprire le sanzioni Orlando ne aveva già parlato prima dell’estate durante una audizione in Parlamento. In particolare si tratta di prevedere che qualora in sede di ispezione emergano gravi irregolarità (di tipo amministrativo o penale) relative alla sicurezza l’impresa sia in qualche modo “recidiva” per essere stata precedentemente sanzionata, si possano adottare misure più stringenti di interdizione, nei casi gravi fino alla sospensione o chiusura attività. Sino ad oggi, infatti, misure così drastiche o sono applicate in conseguenza di un procedimento penale oppure sono disciplinate in modo non coerente. Per potenziare i controlli verranno accelerate le procedure di reclutamento dei 2.300 ispettori, tecnici ed ingegneri chiamati a rafforzare l’Ispettorato nazionale del lavoro e quindi a rafforzare la presenza sul territorio e nei luoghi di lavoro con l’obiettivo di intensificare verifiche e controlli. “Un segnale che i sindacati giudicano importante, ma non sufficiente perché- come ha spiegato Sbarra - secondo noi anche a seguito di pensionamenti il contingente preposto alle verifiche ed ai controlli sul territorio nazionale va ulteriormente rafforzato”. E per questo il ministero della Pubblica amministrazione ieri ha dato “piena disponibilità per il reclutamento e la formazione di profili aggiuntivi nell’ambito delle dotazioni organiche del ministero del Lavoro”. Landini a sua volta ha segnalato che “il problema delle assunzioni riguarda anche la medicina territoriale dove servono migliaia di assunzioni” e dal governo, anche su questo, sarebbe arrivato l’impegno ad intervenire. La quarta gamba del “pacchetto sicurezza” riguarda la formazione e prevede il coinvolgimento anche del mondo delle imprese. Anche in questo campo la decisione del governo prevede di concentrare i finanziamenti destinati a queste attività e per questo a breve sarà convocata la Conferenza Stato-Regioni. “Vanno rafforzati gli interventi di prevenzione e formazione con forti investimenti nazionali in coordinamento con le Regioni - ha spiegato Sbarra -. Va potenziato il ruolo di controllo delle rappresentanze aziendali o territoriali dei lavoratori. Nessuna azienda deve restare senza investimenti sulla sicurezza a cominciare dalla presenza del medico competente”, poi “bisogna promuovere la ricerca e le tecnologie dedicate a questa emergenza sociale, sapendo che ecosistemi sicuri sono anche più produttivi” e infine “occorre inserire nei programmi scolastici questi temi e promuovere una grande campagna di diffusione e di informazione nei luoghi di lavoro”. Cacciari, diritto alle libere idee di Luigi Manconi La Stampa, 28 settembre 2021 La premessa doverosa è che, certo, Massimo Cacciari non ha alcun bisogno di essere difeso. Lo sa fare benissimo da sé (e, poi, chi sono io…?). Tuttavia, nel clima infuocato e sudaticcio di alcune polemiche politico-mediatiche quando tutto risulta forzatamente omologato a due schieramenti ferocemente contrapposti, la sola idea che il filosofo veneziano possa essere, non dico assimilato, ma anche solo accostato ai no-vax, mi fa rabbrividire. Cacciari, va da sé, non è ostile al vaccino contro il covid e solleva nei confronti del green pass contestazioni, in genere da me non condivise, ma serie. Mi trovo, di conseguenza, su posizioni lontane dalle sue proprio a proposito del lasciapassare sanitario, ma ritengo necessario entrare nel merito delle sue obiezioni. Non soltanto perché in una democrazia matura il dibattito pubblico su questione di tale rilevanza è sempre legittimo (ci mancherebbe altro), ma proprio perché alcuni contributi che sollevano dubbi e perplessità possono aiutare a rendere più razionali e intelligenti le politiche adottate contro la pandemia. E, d’altra parte, mi lasciano un po’ preoccupato le decisioni e le argomentazioni troppo sbrigative e semplicistiche, che poggiano su due assunti: a. c’è un pericolo grave per la salute collettiva (affermazione incontestabile); b. le decisioni del governo, in una situazione di emergenza vanno tutte accettate ed eseguite (affermazione contestabile). Ne consegue che, a mio parere, tempi e modalità dell’applicazione del green pass possano e debbano essere discussi: e proprio perché ciò potrebbe consentire una più efficace attuazione del provvedimento. E una migliore tutela di quelle libertà individuali che fatalmente, ne verranno in qualche misura intaccate. Questo costituisce un rischio che non può essere escluso incondizionatamente e una volta per tutte, ma che va trattato con la massima delicatezza, in base ai criteri di proporzionalità e temporaneità che - in un regime democratico - devono definire e circoscrivere le condizioni dell’emergenza. Mi sembra che proprio questa sia la principale preoccupazione di Cacciari e io non posso che condividerla, in quanto penso - come lui - che “oggi sia sempre più diffusa l’indifferenza verso le libertà individuali” (la Stampa del 3 settembre scorso). Lanciare l’allarme, quindi, non è superfluo: tanto più che Cacciari lo fa a partire da una netta distinzione (che altri colpevolmente trascurano) tra stato d’emergenza e stato d’eccezione (che comporterebbe “la sospensione dei principi costituzionali”), del quale ultimo, non sembra temere l’avvento. A differenza di quanti - è necessario fare nomi e cognomi? - “vedono complotti e piani da Spectre di James Bond dietro ogni angolo” (ancora la Stampa del 3 settembre). E diversamente, credo, da chi considera quella attuale una “democrazia sospesa”. Ancora due questioni. Penso che Cacciari sbagli quando manovra assai spericolatamente la correlazione tra persone vaccinate e ricoveri ospedalieri; e ritengo più affidabile il seguente dato: “l’efficacia della copertura vaccinale con ciclo completo rispetto ai non vaccinati è del 97% per le terapie intensive. E del 94-95% per i ricoveri ospedalieri; e ciò con un’efficacia costante nel tempo” (Nino Cartabellotta). Ma sono d’accordo con Cacciari, quando invita alla prudenza prima di imporre la vaccinazione a bambini e adolescenti. Infine, vedo che nel curriculum della stragrande maggioranza di coloro che oggi si battono fieramente “per la libertà” e ancora più pugnacemente “contro la dittatura sanitaria”, non si trova traccia, negli ultimi decenni, di un solo atto, ma anche di uno straccio di parola, a difesa dei diritti individuali e collettivi. Non è questo il caso di Massimo Cacciari che contro “l’emergenza perenne” - per esempio quella delle cosiddette leggi anti - terrorismo - già alzava la voce negli anni 80. E vi garantisco che allora era persino più difficile di quanto lo sia oggi. In ogni caso, penso che per tutti debbano valere le parole del fisico Giorgio Parisi: “Non c’è un ricercatore che abbia la verità in mano o uno studio scientifico che dia una dimostrazione definitiva. Esiste un consenso che si accumula gradualmente attorno a prove sempre nuove, con un meccanismo di autoregolazione che corregge gli errori” (intervista a Repubblica del 23 settembre scorso). Cannabis. Mattarella batta un colpo, il Governo non uccida la democrazia di Franco Corleone L’Espresso, 28 settembre 2021 Il dito e la luna rappresentano un buon parametro per giudicare la profondità dei pensieri e dei giudizi. Per esempio è davvero stucchevole leggere o ascoltare intemerate sui rischi della democrazia a causa dell’utilizzo dello spid per firmare un referendum, in particolare quello sulla canapa. Ciò che dovrebbe impressionare è la massiccia adesione a un tema che ha causato, nella scelta di una legge proibizionista e punitiva, centinaia di migliaia di vittime. Molti giovani, hanno raccolto una possibilità di legalizzazione e di depenalizzazione dopo trenta anni di applicazione della legge Iervolino-Vassalli del 1990 e dopo avere subito la Fini-Giovanardi (cancellata dalla Corte Costituzionale, relatrice Cartabia). Sono anni che presentiamo il Libro Bianco con i dati dell’intasamento dei Tribunali e del sovraffollamento nelle carceri a causa di una legge che colpisce un reato senza vittima. Sono anni che in Parlamento giacciono nei cassetti proposte intelligenti di riforma della politica delle droghe senza che almeno per decenza vengano discusse e votate. Sempre a proposito di sostanza e di democrazia, che aspettano intellettuali e giuristi a denunciare il fatto che alcuni referendum possono godere di un trattamento giustificato dal Covid che consente il deposito delle firme in Cassazione entro il 31 ottobre, mentre per quello sulla canapa il termine resta il 30 settembre? La canapa sconfigge il Covid? Sono state raccolte quasi 600.000 adesioni, sono stati richiesti ai comuni i certificati elettorali che la legge prescrive siano rilasciati obbligatoriamente entro 48 ore. Purtroppo molti comuni non hanno rispettato la legge. Mancano pochi giorni al rischio che i diritti siano calpestati con grave danno della credibilità delle istituzioni, oltretutto alla vigilia di importanti scadenze elettorali. Abbiamo fatto appello al Presidente della Repubblica perché richiami il Governo a sanare una intollerabile discriminazione e a sollecitare provvedimenti che interrompano la violazione della legge. Il tempo scorre inesorabile. “Cannabis, il referendum che spaventa la politica, ma il paese reale è pronto” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 28 settembre 2021 Parla l’ex senatore Marco Perduca, Presidente del Comitato Referendum Cannabis promosso dalle Associazioni Luca Coscioni. “Il dibattito è ormai maturo: tutti gli studi ci dicono che sono quasi sei milioni le persone che fanno uso abitualmente di cannabis. Si tratta ormai di un fenomeno culturale, e non si può porre fuori della legge un fenomeno culturale che non nuoce ad alcuno”. Parla l’ex senatore Marco Perduca, Presidente del Comitato Referendum Cannabis promosso dalle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Società della Ragione e Antigone, e dai partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani. Sono sorti ostacoli riguardo il percorso referendario sulla legalizzazione della cannabis per uso personale? Disponiamo di tutte le firme e un po’ meno della metà dei certificati elettorali, quindi, in attesa che da qui a mercoledì notte arrivino gli altri, siamo pronti con tutta la documentazione da consegnare in Cassazione. Chiaramente includeremo le ormai quasi 1.900 diffide ai Comuni, dove certifichiamo che la nostra richiesta non è stata evasa nei termini descritti dalla legge. Ci riserviamo inoltre la possibilità di mettere in mora anche il Ministero dell’Interno, in quanto la Pubblica amministrazione è di sua competenza: dovrebbe assumersi la responsabilità o di commissariare i Comuni, che può fare tramite le Prefetture, oppure di invitare a rafforzare le presenze negli uffici competenti, magari attraverso l’emanazione di un’apposita circolare. Abbiamo inoltre inviato una lettera aperta al Presidente Mattarella, garante della legalità costituzionale, e, dalla mezzanotte di domenica, intrapreso uno sciopero della fame ad oltranza per chiedere la fine di questa discriminazione contro il referendum sulla cannabis. Avete anche fatto richiesta di non essere discriminati, quanto a tempi, rispetto agli altri referendum? Certo, perché, mentre per tutti gli altri referendum - tra l’altro partiti molto prima di noi - è possibile consegnare la documentazione entro il 31 ottobre, non comprendiamo per quale motivo noi, che abbiamo iniziato dopo ma che comunque viviamo nella stessa Italia sottoposta alle medesime norme di emergenza pandemica, dobbiamo rimanere ancorati alla decisione della consegna al 30 settembre. Ampliare alla fine di ottobre vorrebbe dire andare incontro ai problemi tecnici riscontrati dalle segreterie comunali, che verrebbero sollevate da eventuali diffide e denunce. Per sanare questa situazione bisognerebbe che il governo adottasse un decreto legge e estendesse anche ai referendum presentati oltre il 15 giugno la possibilità di consegnare la documentazione fino al 31 ottobre. Parliamo dello strumento utilizzato. Trova eccessive le polemiche sollevate intorno alla raccolta online delle firme? Più che eccessive le trovo lunari. La Repubblica italiana ha dovuto modificare alcune leggi perché le Nazioni unite hanno ritenuto, a seguito di un ricorso di Mario Staderini inoltrato nel 2015 dopo che una campagna di raccolta firme nel 2012 non era andata a buon fine, che da noi esistono delle leggi che creano irragionevoli ostacoli alla partecipazione diretta e democratica della cittadinanza, consentita dall’articolo 75 della Costituzione. Si è quindi ampliata la platea di chi può autentificare le firme: prima spettava solo ai funzionari di partito distaccati nei Consigli comunali o agli assessori e ai sindaci, anch’essi espressione dei partiti, mentre adesso possiamo contare sui parlamentari, sui consiglieri regionali e, soprattutto, sugli avvocati. Visto che l’identità digitale è stata riconosciuta come valida dalla Pubblica amministrazione e che esiste la Posta elettronica certificata, il governo ha adottato una legge per cui, dal 2022, sarebbe stato possibile raccogliere le firme online, e nessuno si è opposto né a livello parlamentare né costituzionale. Noi Associazione Luca Coscioni abbiamo chiesto al ministro Colao di assumerci i costi di questa possibilità, e questi ha accettato. Ci stiamo muovendo nella direzione fissata dal diritto internazionale. Perché legalizzare la produzione di cannabis per uso personale? Se si chiedesse a un proibizionista: “Lei, che è contrario alla legalizzazione della cannabis, ritiene che il carcere sia la modalità più adeguata?”. A trent’anni dall’adozione della legge Iervolino/Vassalli, che il carcere costituisca la risposta giusta oggi non l’ho mai sentito dire nemmeno da Gasparri e Giovanardi. Come si fa, allora, a non far entrare qualcuno nel circuito penale? Eliminano le sanzioni penali. Abbiamo anche deciso di cancellare la sanzione amministrativa della sospensione della patente, pur mantenendo il reato di guida in stato alterato. La legalizzazione porterebbe due conseguenze significative: alleggerire l’ordine pubblico e la giustizia, evitando di distrarre risorse per questioni più importanti, e conoscere cosa si compra quando si acquista una pianta o, ancora meglio, di poterla coltivare a casa. Come commenta l’opposizione del centrodestra o anche la posizione attendista di altre forze politiche? Ci aspettavamo un’opposizione molto più costante e aggiornata ma, a parte il solito Gasparri, un post di Tajani che sembrava scritto nell”85 o i tentativi di Letta e Conte di scansare l’argomento non ho visto granché. Salvini, poiché sta promuovendo dei referendum, ha detto che non ha nulla contro il quesito malgrado poi si schieri contro poiché “la droga è sempre morte”. Nessun grande partito ha fatto propria la campagna, a differenza dei cosiddetti influencer, di alcuni cantanti e di Roberto Saviano, che ringraziamo. L’unica personalità politica che ha invitato a firmare è stato Beppe Grillo, non certo il M5S, e Conte che ha detto di essere a favore del’ uso di cannabis solo a scopo terapeutico. Permane un forte scetticismo, basato sulla percezione di una realtà sulla quale il popolo reale è molto più aggiornato del Paese istituzionale. Considera una certezza che il referendum si terrà? Non è detto che tutti i Comuni ci rispondano, o che lo facciano in tempo, vedremo come denunciare il tutto. Poi a gennaio c’è il vaglio della Corte costituzionale. Speriamo per il meglio, grazie alla concomitanza con i referendum sulla giustizia, sull’eutanasia legale e sulla caccia. Ci aspettiamo una grande partecipazione giovanile. Quello che ancora manca è l’attenzione mediatica: la notizia è stata data quando sono state raccolte le firme, ma non quando ha avuto inizio la campagna. Quando si è servizio pubblico, e si ha accesso a finanziamenti pubblici, si deve fare informazione, mentre invece si dedicano intere puntate di trasmissioni televisive a un referendum su un decreto legge che non raccoglie le firme neanche con lo Spid, ovvero quello sul Green Pass, pur di inseguire l’audience. La partenza della rotta dei migranti si è spostata tra la Cirenaica e l’Egitto di Fabio Albanese La Stampa, 28 settembre 2021 Chi arriva direttamente in Sicilia e in Calabria, come non accadeva da tempo, è in prevalenza egiziano, iraniano, iracheno, libico o siriano. Gli ultimi 204 sono arrivati il 25 settembre scorso a Messina. Il giorno prima, in 24 erano giunti a Pozzallo; il 23 settembre 48 a nuoto nel territorio di Noto e altri 300 avvistati su un barcone a Capo Spartivento e poi arrivati a Reggio Calabria; il 22 settembre ancora a Pozzallo, altri 121. In comune, questi sbarchi di migranti hanno un elemento: il luogo di partenza. Non più la Libia occidentale, la zona al confine con la Tunisia o la Tunisia stessa. Ma la Libia orientale, la zona della Cirenaica nelle mani del generale Haftar, fino al confine con l’Egitto e anche oltre. E difatti questi migranti, arrivati direttamente in Sicilia e in Calabria come non accadeva da tempo, sono in prevalenza egiziani, iraniani, iracheni, libici, siriani. Niente subsahariani o tunisini, come accade per la rotta del Mediterraneo centrale, quella che porta fino a Lampedusa e che, dopo alcuni giorni di tregua per via del mare molto mosso, nella notte ha portato sull’isola centinaia di persone: 686 erano su un unico barcone partito da Zuwara, Libia occidentale, altri 119 erano arrivati poco prima con 5 diverse imbarcazioni. Tra i primi ad esprimere preoccupazione per questa nuova rotta, in realtà vecchia ma da tanto tempo poco battuta, è stato nei giorni scorsi il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna: “Non c’è dubbio alcuno - dice - che siamo davanti ad un cambio di strategia, messa in atto dai trafficanti di esseri umani, che va attenzionato e monitorato. All’ottimo lavoro della Guardia costiera e del ministero dell’Interno, occorre aggiungere un impegno maggiore della Comunità europea e del Governo nazionale, per avviare una strategia omogenea e complessiva di controllo delle rotte della morte nel Mediterraneo”. Da gennaio a oggi l’Oim, l’organizzazione per le migrazioni delle Nazioni unite, ha calcolato che solo lungo la rotta del Mediterraneo centrale almeno 1114 persone sono morte o risultano disperse: 454 i morti accertati, 660 le persone di cui non si ha più alcuna notizia. Come se non bastasse, da giorni si susseguono arrivi anche da un’altra rotta migratoria che fino a un paio di mesi fa sembrava la meno battuta, e infatti Frontex fino ad agosto registrava un dato percentuale in calo di circa un quarto rispetto a un anno fa, mentre proprio in quel mese c’è stato un +11% di arrivi rispetto ad agosto 2020: è la rotta dell’Egeo e del Mediterraneo orientale che parte dalla Turchia. Sono quei velieri che attraversano indisturbati i mari come fossero imbarcazioni da diporto, in realtà stipate di migranti, per la maggior parte siriani, iracheni, iraniani, afghani, turchi. Negli ultimi tre mesi, nella Locride, in Calabria, sono stati contati 33 sbarchi di migranti, 29 dei quali a Roccella Jonica. Gli ultimi 60 migranti, 35 iraniani e 25 iracheni, sono arrivati il 26 settembre a Reggio Calabria; altri 50 due giorni prima erano arrivati a Roccella mentre il 22 settembre la Guardia costiera e la Guardia di finanza avevano soccorso due velieri alla deriva, per un totale di cento persone, giunte poi anch’essi a Roccella Jonica; il 21 altri due sbarchi, uno di 54 l’altro di 74 persone. Nel frattempo, dalla Libia occidentale e dalla Tunisia chi parte incontra ormai più mezzi delle Guardie costiere di quei Paesi pronti a bloccare le traversate e a riportare indietro i migranti. Le navi delle Ong in mare sono ormai sempre meno. Impossibile, al momento, capire se gli arrivi di questi giorni in Sicilia e Calabria siano un fatto episodico o, come pensa il sindaco di Pozzallo e non soltanto lui in effetti, un fenomeno da tenere sotto controllo come segnale di attivazione di nuove rotte. Dai dati del Viminale, che alla giornata di ieri conta 44.778 migranti giunti in Italia da inizio anno, si nota un numero costante di arrivi dei tunisini (la comunità più numerosa con 12.696 persone) con un 28% del totale, una leggera diminuzione dal 13 al 12% dei bangladesi che, con 5539 sono la seconda comunità più numerosa giunta in Italia, mentre si nota un aumento dal 4% al 5% dei migranti iraniani (attualmente 2318) e un costante 4% di iracheni (1701 persone). Costante negli ultimi mesi anche il numero di egiziani, che ormai sono però la terza comunità più numerosa giunta in Italia: 4088 persone, il 9% di tutti gli arrivi di quest’anno. Frontex, l’agenzia che controlla le frontiere esterne dell’Ue, fa notare come rispetto a un anno fa gli arrivi di egiziani siano aumentati del 542%. Delle varie rotte che da Africa e Medio Oriente giungono fino all’Europa, la più “affollata” resta comunque, almeno fino ad agosto (ultimo dato disponibile dell’agenzia Frontex), quella del Mediterraneo centrale che da Libia e Tunisia porta in Italia e a Malta, con un incremento complessivo del 92% rispetto a un anno fa; solo in agosto il 61% in più rispetto allo stesso mese del 2020. Per Frontex ciò è dovuto all’instabilità politica in Libia (da dove nel 2021 è partita quasi la metà di tutti i migranti giunti per questa rotta in Italia) e in Tunisia dove ai problemi socio-politici si aggiunge una grave crisi nella gestione della pandemia. La rotta del Mediterraneo occidentale registra un +16% di arrivi rispetto allo scorso anno, 10.160 persone da inizio 2021, principalmente marocchini, algerini e subsahariani. Arrivano in Spagna o sulle coste meridionali della Sardegna. A questa rotta ormai da molti mesi si è aggiunta anche quella dell’Africa occidentale che porta alle isole Canarie, spagnole e dunque territorio europeo: +118% rispetto all’anno scorso, circa 8600 persone alle quali vanno aggiunte le centinaia che hanno perso la vita durante la traversata, trasformando questa rotta nella seconda più mortale dopo quella del Mediterraneo centrale. Infine la rotta “terrestre” dei Balcani, percorsa nei primi otto mesi dell’anno da 27.188 persone, il 99% in più rispetto a un anno fa; solo in agosto l’incremento è stato del 119% e probabilmente a ciò non è estraneo quanto accaduto in Afghanistan in quelle drammatiche settimane. Stati Uniti. WikiLeaks, così la Cia pianificò di rapire e uccidere Julian Assange di Marta Serafini Corriere della Sera, 28 settembre 2021 Ad essere particolarmente ostile nei confronti dell’hacker australiano, Mike Pompeo allora direttore dell’Agenzia colpita dal furto di dati Vault7. L’inchiesta di Yahoo!News. La Cia voleva rapire ed eventualmente assassinare Julian Assange. La notizia arriva da Yahoo! News che pubblica una lunga inchiesta dalla quale emerge come, durante l’amministrazione Trump, all’Agenzia fossero stati chiesti dei piani per mettere fuori gioco il fondatore di WikiLeaks. Ad essere particolarmente ostile nei confronti di Assange era soprattutto Mike Pompeo, ex capo di quella stessa Cia che a causa di WikiLeaks aveva sofferto la più grave perdita di dati della sua storia. Secondo un ex alto funzionario del controspionaggio interpellato da Yahoo!News, le discussioni sul rapimento o sull’uccisione di Assange si sono verificate “ai più alti livelli” dell’amministrazione Trump” nel 2017, mentre lo stesso Assange si trovava rinchiuso nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, dove si era rifugiato cinque anni prima per sfuggire al mandato di cattura svedese (all’epoca era accusato di stupro). I piani su più fronti dell’agenzia includevano anche lo spionaggio dei soci di WikiLeaks, seminare zizzania tra i membri del gruppo e il furto dei loro dispositivi elettronici. Secondo la ricostruzione, l’intelligence Usa aveva ricevuto informazioni riguardo alla possibilità che Assange potesse fuggire in Russia per ottenere asilo. E che agenti russi fossero impegnati a facilitare la sua fuga, come avevano aiutato Edward Snowden a fuggire da Hong Kong. Secondo i piani presi in considerazione, agenti dell’intelligence americana sarebbero stati pronti, in caso di fuga di Assange, a bloccare a tutti i costi l’auto o addirittura l’aereo in cui i russi avrebbero caricato il fondatore di Wikileaks. E se Assange era già da tempo nel mirino dell’intelligence statunitense a causa dei leaks sui crimini di guerra in Afghanistan e in Iraq, a scatenare l’ulteriore ostilità di Washington, è stato il furto di dati subito dall’agenzia, noto come Vault7, che ha rivelato al mondo gli strumenti usati dalla Cia per le sue operazioni di hackeraggio e monitoraggio, mossa che ha reso vulnerabile Washington sul fronte della cyber-war con Mosca. L’allora nuovo direttore della Cia del presidente Trump, Mike Pompeo, all’epoca cercava dunque una vendetta su WikiLeaks e Assange, accusandoli di fatto di essere un’entità ostile e nemica, se non addirittura alleata del nemico russo. Ora, alla luce di queste nuove rivelazioni, dalla Cia e dallo stesso Pompeo, come prevedibile, arriva un secco no comment. Interpellato da Yahoo!News, Trump ha negato di aver mai ordinato piani simili. “È totalmente falso, in effetti credo che Assange sia stato trattato molto male”, ha detto l’ex presidente. “Come cittadino americano, trovo assolutamente oltraggioso che il nostro governo abbia contemplato il rapimento o l’assassinio di qualcuno senza alcun processo giudiziario semplicemente perché ha pubblicato informazioni veritiere”, ha commentato d’altro canto Barry Pollack, avvocato americano di Assange. Assange si trova al momento rinchiuso in una prigione di Londra in attesa che il Tribunale si pronunci sulla richiesta di estradizione proveniente proprio dagli Usa con l’accusa di aiutato l’ex analista dell’esercito americano Chelsea Manning nel furto di informazioni classificate. “La mia speranza e aspettativa è che i tribunali del Regno Unito considerino queste informazioni e rafforzeranno ulteriormente la sua decisione di non estradare negli Stati Uniti”, ha aggiunto Pollack. In realtà non vi è alcuna indicazione che le misure più estreme contro Assange siano mai state approvate ai livelli più alti. A mettere un freno ai piani di Pompeo - pare - siano stati gli avvocati della Casa Bianca e consiglieri di Trump preoccupati delle ripercussioni internazionali di un’azione contro Assange. Tuttavia - secondo l’inchiesta di Yahoo!News - sono stati molti i contatti tra l’amministrazione Trump e l’agenzia in merito alla questione. Da ricordare poi come con la campagna di leaks ai danni della senatrice democratica Hillary Clinton candidata contro Donald Trump alle presidenziali del 2016 in realtà WikiLeaks e lo stesso Julian Assange abbiano, fosse anche solo indirettamente, favorito la vittoria di Donald Trump. Un altro tassello del puzzle che ha reso negli anni sempre più complicato il rapporto tra Assange e Washington. Egitto. Il grande inganno di al Sisi sui diritti umani di Laura Cappon Il Domani, 28 settembre 2021 L’11 settembre scorso i telespettatori egiziani hanno assistito a un evento tanto insolito quanto maestoso: la presentazione della Nuova strategia egiziana per i diritti umani. Musiche, luci e applausi per una diretta fiume di tre ore con ministri, membri della società civile graditi al governo e il discorso finale dello stesso presidente Abdel Fattah al Sisi. Interventi puntellati da video rassicuranti: detenuti in penitenziari modello che vogliono reinserirsi nella società, operai felici di poter votare per la propria rappresentanza sindacale, cittadini soddisfatti della riforma dei sussidi sui beni di prima necessità. Per un attimo l’Egitto è sembrato un paese molto diverso da quello che siamo abituati a vedere e raccontare. Senza 60mila detenuti di coscienza, senza le elezioni pilotate degli organismi sindacali, senza esecuzioni capitali, giornalisti in carcere e penitenziari sovraffollati. Ma l’effetto è durato poco, anzi non è mai iniziato. Nelle stesse ore George Ishak, membro del Consiglio nazionale per i diritti umani (un organismo semi-governativo e dunque vicino alla presidenza) veniva arrestato all’aeroporto del Cairo. Cambia la forma ma non la sostanza, insomma, come spesso accade nei regimi autoritari. L’unico cambio di passo certificabile è che l’espressione “diritti umani” non era apparsa mai così tanto nell’agenda di governo del Cairo come nelle ultime settimane. Il 15 settembre è stato lo stesso Sisi a tornare sull’argomento. In una telefonata alla tv di Stato, ha annunciato che tra poche settimane verrà inaugurata la più grande prigione del paese. Un carcere modello, garantisce il presidente, in pieno stile americano. “Il detenuto sconterà la sua pena in modo umano: godrà del movimento, della sussistenza e dell’assistenza sanitaria”, ha assicurato prima di sottolineare, nel corso dello stesso intervento, che “in Egitto non ci sono detenuti politici né violazioni dei diritti umani”. Eppure negli otto anni della sua presidenza sono già state costruite 27 carceri, un terzo del totale del paese. Al momento sono 78, destinate appunto a diventare 79, con l’ultima nata che potrebbe essere la prima di una nuova serie. Il cambio di passo apparente, in ogni caso, non stupisce gli analisti: “Da tempo”, afferma Joey Shea, ricercatrice del Middle East Institute, “ci sono pressioni interne ed esterne sul regime per affrontare la catastrofica situazione dei diritti umani”. Le (blande) pressioni statunitensi Tra le moral suasion esogene citate da Shea occupa ovviamente un posto di rilievo il nuovo corso della presidenza americana. Il 14 settembre il portavoce del dipartimento di Stato USA ha annunciato che l’amministrazione Biden tratterrà 130 milioni di dollari di aiuti militari all’Egitto fino a quando il Cairo non adotterà misure specifiche proprio sul fronte dei diritti umani. Il rapporto tra Il Cairo e Washington è cambiato dopo la fine del mandato di Trump. Prima ancora della sua elezione alla Casa Bianca, Biden aveva affermato che non ci sarebbero stati più assegni in bianco per quello che Trump aveva definito il suo dittatore preferito, Abdel Fattah el-Sisi. Ma a dispetto degli annunci, il recente provvedimento dell’amministrazione americana, anche se in rottura con il passato, è blando. Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno definito “insufficiente” la somma trattenuta, che rappresenta meno della metà dei 300 milioni di aiuti previsti, definendo la mossa un “tradimento” dell’impegno degli Stati Uniti a promuovere i diritti umani. “La pressione che il governo americano sta facendo sull’Egitto è molto limitata e indica che Biden andrà avanti con il supporto nonostante gli abusi che Il Cairo perpetra contro i diritti umani”, sostiene Vivienne Mattew Bone, professoressa di filosofia politica all’università olandese di Radbound e accademica che da anni segue il sistema di polizia in Egitto. Anche secondo Shea “i casi dei prigionieri politici preoccupano da anni il governo degli Stati Uniti ma quello che è avvenuto non sembra segnalare alcun cambiamento fondamentale di rotta sui diritti umani”. D’altronde, il posizionamento strategico e militare egiziano per Washington nell’area mediterranea e mediorientale resta molto importante. Lo dimostra il ruolo di mediazione del Cairo tra Israele e Hamas durante l’offensiva israeliana nella striscia di Gaza lo scorso maggio. Ruolo che ha permesso a Sisi di sciogliere molte delle iniziali freddezze del nuovo presidente Biden. Sul piano delle relazioni internazionali l’Egitto ha pianificato subito una strategia per rendersi credibile alla Casa Bianca e continua a farlo: l’ultima mossa in ordine di tempo è la visita del premier israeliano Naftali Bennett a Sharm el-Sheikh, la prima di un leader di governo israeliano dopo dieci anni. E negli ultimi mesi è come se il Cairo stesse esibendo lo stesso approccio rispetto ai diritti umani e al sistema di garanzie del paese. Il mix è molto simile: annunci dalla retorica imponente e poche vere concessioni nelle vicende giudiziarie che coinvolgono esponenti della società civile. Qualche esempio? Lo scorso luglio sei noti attivisti dei diritti umani sono stati rilasciati durante la festività musulmana dell’Eid al-Adha. Nelle scorse settimane, invece, il procuratore generale del Cairo ha archiviato la posizione di diversi avvocati e Ong all’interno di un’indagine per finanziamenti stranieri ricevuti da avvocati e organizzazioni per i diritti umani. Ma il procedimento, ormai decennale, resta in piedi per molti altri imputati. “Sono elargizioni modeste, indicano soltanto che il presidente Sisi è disposto ad apportare modifiche almeno estetiche in risposta alle richieste della nuova amministrazione americana”, conferma Shea. Anche i dettagli di messa a punto e comunicazione del presunto nuovo corso aiutano a comprendere quanto la questione stia a cuore al regime. Il quotidiano indipendente Mada Masr, citando fonti governative, ha riportato che il governo egiziano ha iniziato a discutere della Nuova Strategia per i Diritti Umani a novembre del 2018. Il primo ministro Mostafa Madbouly aveva istituito un Comitato supremo permanente per i diritti umani che raccoglieva i rappresentanti di diversi ministeri. Il Comitato, però, si è riunito solo 20 mesi dopo e i lavori sul nuovo documento sono iniziati solo a luglio del 2020. Il nuovo testo era già pronto dallo scorso giugno ma Sisi in persona avrebbe ordinato di attendere per modificare la sua presentazione: invece di una normale conferenza presso il ministero dell’Interno ha preteso un lancio in grande stile nella nuova capitale amministrativa egiziana. La versione finale è composta da 78 pagine, divise in quattro capitoli tematici che vanno dai diritti politici a quelli dei disabili e delle donne. “È tutta retorica, è solo un documento di facciata”, dice Vivienne Mattew Bone. “Sisi dice che migliorerà le istituzioni, che il prossimo anno sarà l’anno della società civile. Ma sono solo parole. È sufficiente vedere cosa sta facendo con le carceri. Ha detto che ci sarà un nuovo penitenziario in stile americano. Tutti sanno che verrà usato per imprigionare altri attivisti o chiunque respiri in una direzione che non è gradita al governo”. Anche il caso giudiziario che ci riguarda più da vicino, quello di Patrick Zaki, ha conosciuto un potenziale cambio di passo. Dopo 19 mesi di custodia cautelare, il giovane ricercatore dell’Università di Bologna è stato finalmente rinviato a giudizio. Ma secondo Vivienne Mattew Bone “dobbiamo restare cauti nel collegare la vicenda di Patrick a questa nuova strategia. L’iter che attraversano i detenuti politici spesso è casuale. Questa volta i giudici hanno rispettato i termini legali per il rinvio a giudizio perché comunque si tratta di un caso che ha avuto molto rilievo a livello internazionale, ma non possiamo essere certi del motivo che li ha spinti a farlo”. Le parole e le iniziative del presidente Sisi non sembrano convincere nessuno. Ancora di meno gli attivisti e i parenti dei detenuti di coscienza. “Se l’Egitto volesse dimostrarsi credibile sui diritti umani potrebbe fare delle cose molto semplici. Per esempio, rilasciare i prigionieri politici”, dice Céline Lebrun-Shaath, moglie dell’attivista Ramy Shaath, detenuto dal 2019. Ramy è figlio di Nabil Shaath, un alto quadro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed è stato a lungo rappresentante egiziano del BDS, il movimento globale che chiede il boicottaggio di Israele. È stato incriminato per concorso in associazione terroristica e minaccia della sicurezza nazionale, assieme ad altri colleghi con i quali aveva fondato un gruppo per i diritti umani poco prima del suo arresto. Grazie alla campagna messa in piedi dalla moglie, cittadina francese, la sua storia è finita sui media di tutto il mondo ma non è bastato. “Tutto quello che sta succedendo a Ramy è al di là di qualsiasi confine legale. Prima di tutto non è mai stato rinviato a giudizio e i limiti dei due anni sono già stati superati. Ora non ho alcuna speranza che la situazione di mio marito possa migliorare. Credo che questa nuova strategia si dimostrerà solo una scatola vuota”. Egitto. Patrick Zaki, la seconda udienza del processo e un amaro paradosso di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2021 Si svolgerà oggi, martedì 28 settembre, a Mansoura la seconda udienza del processo iniziato il 14 settembre e aggiornato dopo cinque minuti, nei confronti di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna arrestato il 7 febbraio 2020 al suo rientro in Egitto e da ormai 600 giorni privato della libertà. Quella sensazione di sollievo provata appena ricevuta, due settimane fa, la notizia dell’aggiornamento - poiché in cinque minuti, per come vanno le cose in Egitto, poteva anche essere emessa una condanna definitiva, giacché il tribunale di emergenza che processa Zaki non prevede appello - si è trasformata nei giorni successivi in un’ondata di ottimismo. Commentatori ed esponenti politici hanno fatto rilevare che le accuse principali contro Zaki (sovversione e terrorismo) erano decadute - ma non è chiaro se siano state semplicemente congelate - e che dunque non ci sarebbe più il rischio di una condanna a 25 anni di carcere. È stato sostenuto che questa “svolta” sia stata frutto del “silenzio operativo” della diplomazia italiana. È stato fatto riferimento a un’altra “svolta”, quella del presidente egiziano al-Sisi con la sua agenda sui diritti umani. L’ottimismo deve rimanere, è chiaro. Resta però il pericolo che la magistratura egiziana voglia andare fino in fondo con l’accusa di “diffusione di notizie false” ed emettere una condanna, anche a cinque anni di carcere. Se pure venissero sottratti alla pena i 19 mesi di detenzione in attesa del processo, si tratterebbe sempre di dover trascorrere in prigione tre anni e cinque mesi. Un solo giorno sarebbe già troppo. Va sottolineato, infine, un amaro paradosso: un tribunale d’emergenza, di quelli istituiti per giudicare imputati di terrorismo di matrice islamista, processa un attivista e ricercatore della minoranza religiosa cristiano-copta. Paradosso nel paradosso: Zaki avrebbe diffuso “notizie false” attraverso un articolo, scritto nel 2019, in cui raccontava una settimana di ordinaria discriminazione contro i copti. Quelli che avevano esultato per il colpo di stato di al-Sisi del 3 luglio 2013, certi che li avrebbe protetti meglio rispetto a un governo della Fratellanza musulmana. E che sono stati ripagati col carcere e l’inizio di un processo per uno dei loro più brillanti esponenti. *Portavoce di Amnesty International Italia Maldive. Torture e morti nelle carceri di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 28 settembre 2021 Ad agosto il vicepresidente delle Maldive, Faisal Naseem, aveva dichiarato che il miglioramento delle condizioni carcerarie era tra le principali priorità del suo governo. Il miglioramento ha tutto da venire, dato che il 13 settembre c’è stato l’ennesima morte in una prigione dell’arcipelago: quella di Mohamed Aslam, ufficialmente deceduto “in circostanze sconosciute” nel penitenziario di Hulhumale. Asmal, 40 anni, originario dell’isola di Vadhoo, stava scontando una condanna a tre anni per possesso di droga. Avrebbe avuto un improvviso collasso per poi morire dopo il ricovero in ospedale. Ma la circostanza sospetta è che la famiglia ha appreso la notizia da fonti diverse dalla direzione del carcere e questa, solo dopo essere stata sollecitata, ha confermato il decesso. Quello stesso giorno il Comitato parlamentare sui servizi di sicurezza nazionali ha raccomandato l’apertura di un’inchiesta nei confronti degli agenti di polizia che avevano torturato, il 6 settembre 2020, un uomo di nome Ahmed Siraj, arrestato per furto. Che ci sia voluto un intervento parlamentare, a un anno di distanza dall’accaduto, per sollecitare un’indagine la dice lunga sulla volontà di accertare le responsabilità. Nel 2020 la Commissione per i diritti umani delle Maldive aveva ricevuto 28 denunce di tortura, 17 delle quali nei confronti della polizia penitenziaria. *Portavoce di Amnesty International Italia