Leggere in carcere di Valeria Bottone doppiozero.com, 27 settembre 2021 Ho sempre pensato che il carcere fosse un luogo molto compatibile con la lettura, visto il molto tempo a disposizione e le poche distrazioni. Ho capito che non è esattamente così quando ho cominciato a lavorarci. Di tempo ce n’è effettivamente tanto, tantissimo, addirittura troppo, ma mentre nella vita quotidiana è spesso la mancanza di tempo a impedire o rallentare le nostre letture, in carcere sono altre le cose che mancano. Innanzitutto il silenzio, sia dentro le celle, dove i detenuti vivono perlopiù insieme, in spazi angusti, spesso con il televisore sempre acceso e con ritmi imposti da una convivenza forzata che livella le esigenze di ciascuno; sia fuori, nei bracci delle sezioni, dove sbattono porte e blindi, rimbombano i carrelli metallici che trasportano il cibo o la biancheria sporca, risuonano le voci di agenti e detenuti che ne chiamano altri. Insomma, il silenzio prolungato necessario a un’adeguata concentrazione per la lettura è una condizione rara, così come era raro trovare un libro da leggere nel pieno della pandemia. Un altro ostacolo alla lettura è infatti legato alla difficoltà di reperire i libri, o alcuni libri in particolare, soprattutto per i detenuti che non possono contare su chi glieli fornisca dall’esterno, e con l’inizio della pandemia, in seguito alla sospensione dei colloqui con i familiari, nessuno poteva contarci. Certo, ci sarebbero state le biblioteche. Solitamente negli istituti penitenziari più grandi c’è una biblioteca di istituto, collegata al sistema bibliotecario della città, e una piccola biblioteca in ogni reparto (o quasi). Nel carcere di Rebibbia, prima dell’avvento del Covid-19, tutte le biblioteche erano accessibili: quelle di reparto lo erano in modo più diretto e immediato, mentre quella di istituto poteva essere raggiunta dai detenuti di ciascun reparto in seguito a un’apposita richiesta. Nelle fasi iniziali e più problematiche della pandemia, la biblioteca d’istituto ha chiuso ed è rimasta inaccessibile per circa un anno, come è accaduto a molte biblioteche comunali e non. Sono rimaste aperte solo alcune biblioteche di reparto, piccole stanzette buie che nei casi più fortunati ospitano qualche centinaio di libri, ma, anche tra queste, molte sono state chiuse, probabilmente per impedire ai detenuti movimenti ritenuti superflui. C’è stato poi il caso di una biblioteca danneggiata dalle rivolte del marzo 2020, concomitanti all’avvento del Covid-19, che hanno causato la perdita di numerosi volumi e un necessario riassetto di quelli superstiti. Il bibliotecario incaricato di quest’ultima, che al momento è in fase di riordino, è un detenuto sui cinquant’anni che mi ha raccontato il drammatico assalto e i danni che ne sono derivati. Ora la biblioteca è aperta, ma di fatto inaccessibile, tanto che per prendere dei libri in prestito bisogna accordarsi con il bibliotecario, che raccoglie le richieste e poi incontra i detenuti fuori dalla biblioteca con i libri da consegnare. Gli ho chiesto qual è il genere che va per la maggiore. “I polizieschi” mi ha risposto “ma soprattutto i libri sulla malavita, tipo quelli sulla banda della Magliana. Io invece sto leggendo questo” e mi ha mostrato un libro su come migliorare l’autostima. L’assortimento dei libri non è particolarmente vario: c’è qualche classico, qualche saggio, ma soprattutto polizieschi, thriller, best seller. Non ci sono restrizioni sui libri ammessi, come invece accade nelle carceri statunitensi, dove migliaia di libri sono vietati, non solo quelli dal contenuto sessuale esplicito o quelli che potrebbero sobillare gli animi, ma anche insospettabili classici come Shakespeare e Flaubert. Al carcere di Rebibbia sono mediatrice culturale e ho a che fare con gli stranieri, principalmente russofoni e anglofoni. I detenuti stranieri, a cui farò riferimento in particolare, sono i più penalizzati dalla vita in carcere, non solo perché per loro è più difficile accedere alle misure alternative, ma anche perché spesso non possono contare sul sostegno affettivo e materiale dei propri cari, il più delle volte lontani nei paesi di origine. In più c’è l’ostacolo dell’italiano che, se conosciuto poco o male, può impedire la comprensione di rigide e talvolta opache procedure burocratiche che li riguardano da vicino, oltre che isolarli da ciò che accade intorno a loro. Il mio ruolo è ascoltare le richieste nella loro lingua o in una lingua franca in cui possiamo comprenderci, aiutarli a risolvere questioni pratiche, a volte tradurre documenti di cui possano aver bisogno per essere autorizzati alle telefonate e, più in generale, agevolare la comprensione tra loro e gli operatori penitenziari. A volte però mi trovo semplicemente ad ascoltare le loro storie o sfoghi di vario genere che non sempre hanno pretese di risoluzione. La lettura non ha a che vedere strettamente con il mio lavoro, ma in questo anno e mezzo di pandemia, in cui quasi tutte le attività ricreative sono state sospese, mi è capitato di ricevere anche richieste di libri; richieste che ho cercato di accontentare in ogni modo, sia perché mi sembravano troppo significative per essere ignorate, sia perché la lettura è stata una delle poche attività possibili per chi leggeva e aveva libri a disposizione. Il primo libro che mi è stato chiesto è stato Il maestro e Margherita in lingua originale, ma all’epoca la biblioteca di istituto era chiusa e la richiesta è caduta nel vuoto. Com’è facile immaginare, i libri in lingua straniera non sono molti, specialmente nelle biblioteche di reparto, dove si trova qualche libro in inglese e in francese. Mentre alcuni libri in russo, in turco, in georgiano, in rumeno si trovano principalmente nella biblioteca di istituto che ha riaperto solo di recente. Le dure restrizioni della pandemia però si fanno ancora sentire perché i detenuti non possono più andare nella biblioteca d’istituto, nemmeno su richiesta, come avveniva prima. Possono farlo solo i bibliotecari delle biblioteche di reparto che, in virtù del loro ruolo, possono raccogliere le eventuali richieste dei detenuti e procurare loro i libri desiderati, ma l’intera operazione è affidata alla buona volontà di ciascun bibliotecario. “Figurati se li prendono a me, i libri” mi ha detto un giorno un giovane equadoregno, ex-campione di pattinaggio che nel suo paese si era quasi laureato in ingegneria informatica. Affabile e cordiale, fronteggia la noia della reclusione realizzando piccoli oggetti in carta, mantenendo scolpiti i suoi muscoli e dedicandosi alla lettura quando riesce a procurarsi dei libri. Mi ha detto di aver appena finito di leggere La storia infinita in italiano e ha espresso il desiderio di poter leggere ancora. Gli ho proposto allora di portargli io altri libri e, quando gli ho chiesto cosa avrebbe voluto leggere, la scelta è caduta, senza esitazione, sui libri di avventura. “Qualcosa di diverso, insomma” ha poi aggiunto. È banale attribuire alla lettura la funzione di evasione, eppure credo che qui, più che in altri luoghi, questo ruolo sia centrale. La lettura in età adulta è perlopiù questione di abitudine e di una pregressa familiarità con il libro che deriva da una prassi coltivata nel tempo, da una certa educazione e/o impostazione culturale. I russi e i cittadini delle ex-repubbliche sovietiche, ad esempio, hanno tendenzialmente - poiché culturalmente - l’abitudine alla lettura. (Anche se forse le cose stanno cambiando e per le nuove generazioni sarà diverso.) Per chi riesce a mantenere o riprendere questa abitudine in carcere, la reclusione potrebbe essere persino meno spiacevole. È raro invece improvvisarsi lettori, soprattutto in contesti dove il contorno non aiuta, dove non è semplicissimo procurarsi dei libri e poi leggerli in tranquillità. Certo sarebbe diverso se si venisse opportunamente guidati e gradualmente iniziati a ciò che potrebbe rivelarsi una scoperta, un utile passatempo o al contrario un’attività verso cui nutrire la stessa svogliatezza o indifferenza di alcuni scolari costretti alle letture estive. Quando, prima della pandemia, gli assembramenti non facevano così paura, la lettura era a volte praticata in laboratori, gruppi di incontro, iniziative di vario genere organizzate in modo disomogeneo negli istituti. Oppure è stata utilizzata come incentivo premiale. Ne sono un esempio i due stati del Brasile che nel 2012 hanno adottato la legge del ‘Reembolso atraves da leitura’, per cui i detenuti possono usufruire della possibilità di scontare quattro giorni di prigione per ogni libro letto e opportunamente rendicontato, per un massimo di 48 giorni all’anno, cioè un libro al mese. Una iniziativa simile è stata tentata in Italia nel 2014, dalla regione Calabria, con una proposta di legge che non ha poi avuto seguito, ma che prevedeva corsi di lettura in cambio di uno sconto di pena: tre giorni a libro letto per un massimo di 16 libri in 12 mesi. “Chi legge […] conosce più parole. E chi ha più parole, ha più idee. Possedere più idee significa avere una visione del mondo. E qui torniamo al reo, perché chi ha una visione del mondo, riesce a distinguere il bene dal male” ha dichiarato in un’intervista Mario Caligiuri, l’allora assessore alla Cultura della regione Calabria e promotore della proposta di legge. Ben vengano, certo, proposte del genere, ma non credo che la lettura abbia un valore morale e che insegni a distinguere il bene dal male. Così come non credo che delinquere derivi dalla non conoscenza del bene. Ma dopotutto questa è una questione complessa e dibattuta da secoli. Nei colloqui che faccio con i detenuti che incontro chiedo spesso come trascorrono il loro tempo. C’è poco da fare, è il succo di molte risposte, anche se a ben vedere ognuno vive il suo tempo in modo diverso, perché in compagnia di un sé e di pensieri propri che ciascuno affronta ed elabora come sa e come può, talvolta con l’aiuto degli psicologi. Ma per questioni linguistiche e culturali - penso ad alcune culture che non conoscono neanche la figura dello psicologo - gli stranieri si servono mediamente poco di questa possibilità e sono spesso scoraggiati dal richiedere l’intervento degli psicologi, con cui in alcuni casi è addirittura impossibile comunicare: se uno srilankese, ad esempio, non parla altro che la sua lingua e nessun operatore che la conosca può aiutarlo. E allora, più che mai, bisogna fare i conti con i propri pensieri, i sensi di colpa, le paure, i pregiudizi, la rabbia, la brutalità, la discriminazione, il senso di perdita e di abbandono e appaiono tristemente veri i versi di Milton “the mind is its own place, and in itself / can make a Heav’n of Hell, a Hell of Heav’n”. Da quando mi è stato richiesto il primo libro, ormai più di un anno fa, a volte propongo la lettura ai detenuti, informo sulla possibilità di prendere libri in prestito dalle biblioteche e mi rendo disponibile a portarglieli nel caso in cui sia loro impossibile procurarseli. Le reazioni sono varie: alcuni già leggono, alcuni si mostrano possibilisti, altri fintamente possibilisti, alcuni scuotono la testa aggiungendo che non fa per loro, che non hanno mai letto o che non riuscirebbero a concentrarsi. Quando poi, un giorno, un paio di occhi scuri mi hanno fissato al di sopra della mascherina senza produrre una risposta, ho preso coscienza del fatto che c’è anche chi probabilmente vivrà per sempre confinato nei limiti della propria storia, o al massimo delle storie che gli verranno raccontate, perché di leggerle da sé non è in grado, in nessuna lingua e in nessun alfabeto. Proporre la lettura durante un colloquio è per me la preparazione a una morbida uscita di scena, è il graduale commiato da uno sfogo o da una richiesta di aiuto per cui io posso fare molto poco. È un lasciare qualcosa, un lasciarsi con qualcosa. È, di certo, prospettare una possibilità, una delle poche possibili. O meglio, è sapere di averlo fatto, e poter così voltare le spalle per andare via con un peso più lieve e con l’illusione che lo stesso valga per l’altro. Sono pochi coloro che mi chiedono i libri o che accettano di farseli portare - e in generale sono pochi i detenuti stranieri che incontro rispetto alla totalità -, ma chi li riceve li accoglie come un regalo. Chi non ha richieste particolari si affida alle mie preferenze. Alcuni compagni di cella che parlano la stessa lingua se li scambiano prima di ridarmeli indietro. Qualcuno, curiosamente, li nasconde sotto i vestiti nel percorso dalla cella alla stanza in cui io li aspetto, per poi tirarli fuori solo davanti a me, come se ci stessimo scambiando degli oggetti proibiti. Alcuni non li chiedono più a me, ma, imparato il meccanismo, si rivolgono direttamente ai bibliotecari. Forse alcuni non leggono più, dopo i primi entusiasmi, o forse quei libri avuti da me non li hanno letti davvero. Io non pretendo relazioni, non metto voti, non concedo giorni di libertà, a volte chiedo soltanto se il libro gli è piaciuto mentre lo sfoglio velocemente per controllare se hanno lasciato qualcosa tra le pagine. Con la somministrazione dei vaccini in carcere si sono accese le speranze che la vita intramuraria possa man mano tornare come prima. Probabilmente alcune restrizioni rimarranno ancora a lungo, così come forse rimarranno delle piccole conquiste legate al Covid-19, tra cui la possibilità di videochiamare i propri cari nel caso sia impossibile incontrarli di persona. Alcuni contano di poter tornare a scuola, che l’anno scorso non c’è praticamente stata, sperano di poter migliorare il loro italiano con i corsi di lingua per stranieri e mettere così a frutto quel tempo sospeso che a molti sembra sprecato. Un tempo che, parafrasando Samuel Johnson, diventa un fardello per coloro che ne hanno più di quanto siano in grado di usarlo. Intanto, già da qualche mese, la biblioteca d’istituto ha riaperto. Appena l’ho saputo sono andata a cercare “Il maestro e Margherita” per chi me lo aveva chiesto. Nello scaffale di libri in lingua russa c’erano alcuni libri di Bulgakov e, solo dopo aver fatto scorrere con la mano quasi tutti quelli che c’erano, l’ho trovato. Sono andata a portarlo al detenuto che me lo aveva richiesto, mesi prima, ma mi è stato detto che era stato scarcerato. Approvata la riforma, sapete chi scriverà le norme? I magistrati di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 settembre 2021 Non vorremmo che la definitiva approvazione della riforma Cartabia del processo penale creasse soverchie illusioni. Abbiamo detto in ogni modo che, pur con i suoi macroscopici limiti, figli di una mediazione quasi impossibile tra forze di maggioranza agli antipodi proprio sulle questioni cruciali che ha affrontato, quella riforma ha comunque segnato una svolta rispetto al periodo più buio della legislazione penale nella storia della Repubblica. Occorreva scrivere la parola fine allo spettacolo desolante dei meet-up manettari padroni del campo, alla sistematica eversione, scomposta ed irridente, dei fondamenti costituzionali della legge penale e del giusto processo, cupa ed ossessiva colonna sonora di questo ultimo triennio. Quella parola “fine” è stata scritta, a Parlamento invariato, e non possiamo ignorare il valore positivo di quanto accaduto. Ciò detto, non illudiamoci: la partita è tutt’altro che conclusa. Questa è una legge delega, quelle approvate (con l’ennesimo voto di fiducia) non sono testi normativi compiuti, ma deleghe al Governo. I singoli articoli dovranno tradurre in norme gli indirizzi in teoria vincolanti definiti nelle deleghe. Dico in teoria perché, come tutti sappiamo, in un testo di legge basta un avverbio, una virgola, una aggettivazione per definire in un senso o nell’altro il comando normativo. Chi controlla la rispondenza della norma alla delega? I poteri del Parlamento sono purtroppo molto labili, anche se andranno attivati con il massimo sforzo; sarà semmai la Corte Costituzionale, “a babbo morto”, ove investita da un Giudice chiamato ad applicare la norma, a valutare il c.d. “eccesso di delega”. Ora, la domanda cruciale che dovete porvi è molto semplice: chi si appresta a scrivere quelle norme? Risposta: l’ufficio legislativo del Ministero di Giustizia. Allora voi chiederete certamente: chi compone, chi governa, chi amministra questo cruciale ufficio ministeriale? Risposta: magistrati, magistrati, magistrati. Incidentalmente, qui e là, può capitare che qualche professore universitario, se del caso, dia una mano. Ma cosa ci fanno, vi chiederete giustamente, dei magistrati al Governo? Per quale ragione costoro, avendo vinto un concorso bandito per coprire gli organici della magistratura requirente e giudicante, non stanno nelle loro aule ad esercitare la giurisdizione, ma si trovano ad esercitare da protagonisti, in un ruolo così cruciale e decisivo, il potere esecutivo? Ecco, con queste semplici domande vi trovate dentro fino al collo in una delle più clamorose ed inspiegabili anomalie della nostra vita democratica. Da sempre vigono leggi nel nostro Paese che prevedono che, ad ogni formazione di un Governo, un piccolo esercito di magistrati venga messo fuori ruolo ed assegnato, formalmente su chiamata dei rispettivi Ministri e Sottosegretari, a comporre, con ruoli e responsabilità di assoluto rilievo, gli organici dei vari Ministeri. Eclatante il caso del Ministero di Giustizia, dove i magistrati distaccati sono oltre un centinaio. Ovviamente essi occupano tutti i ruoli cruciali, dal Capo di gabinetto del Ministro al capo e al vicecapo dell’ufficio Legislativo, al capo dell’Ispettorato, al capo dell’Amministrazione Penitenziaria, e via via a comporre tutti gli organici di questi e di tanti altri uffici. Come avvengono questi distacchi? Beh, a seconda dell’orientamento politico del Governo, il sistema correntizio governato dall’Anm fornirà le risposte adeguate, dosandole nel modo più acconcio. Il Ministro è in grado di controllare politicamente tutto ciò? Mettiamola così: non è un compito facile. E di certo, comunque, non potrà mai esercitare il giusto controllo sugli aggettivi, le virgole e la struttura lessicale dei decreti attuativi di una legge delega. Ora fatevi quest’altra domanda: anche negli altri Paesi funziona così? Risposta: nossignori, manco per idea, siamo gli unici in tutto il mondo. Scommetto che, già solo dopo queste poche, banali domande e risposte, stiate cominciando a comprendere come mai in Italia la magistratura eserciti un potere così anomalo, così incontrollabilmente squilibrato rispetto agli altri poteri dello Stato. Beh siete sulla strada giusta. E comprenderete bene anche per quale ragione di questo tema non si riesce nemmeno ad iniziare a discutere. Nemmeno inizia un dibattito. Si lascia cadere. “È previsto dalla legge”, dice distrattamente il segretario generale di Anm in una intervista di questi giorni. Beh, nessuno pensava si trattasse di un traffico clandestino di fuori ruolo. E la politica, il Parlamento? Nemmeno si azzardano, roba radioattiva, tenersi alla larga. E invece questa, proprio questa, è una delle più clamorose anomalie, un’autentica emergenza democratica del nostro Paese. Il Congresso dei penalisti italiani ne sta parlando in questi giorni e discuterà di come lanciare una grande campagna politica nel Paese su questo tema, e su altri ad esso connessi. Cioè la sola, vera riforma dell’ordinamento Giudiziario necessaria, non la caricatura che ne è in preparazione. Seguiteci con un po’ di attenzione. Scommettiamo che, nei prossimi mesi, almeno il dibattito riusciremo a farlo iniziare? Il rito cambia pelle ma apre nuove ferite: “Diritto di difesa in serio pericolo” di Simona Musco Il Dubbio, 27 settembre 2021 La legge sulla riforma civile votata al Senato con tanto di fiducia si pone un obiettivo ambizioso: tagliare quei tempi del 40%. A rischio è il diritto di difesa. È la riforma principe della partita Recovery. Purché si raggiunga un obiettivo: la riduzione del tempo dei processi, che oggi in primo grado si trascinano in media fino a 1270 giorni. La legge delega votata al Senato con tanto di fiducia si pone un obiettivo ambizioso: tagliare quei tempi del 40%. Ma secondo l’avvocatura tale risultato è tutt’altro che scontato. Di più, il rischio è quello di allungare i tempi, anziché ridurli. L’obiettivo polemico è sempre lo stesso: la fase introduttiva del processo, che dilaterebbe irragionevolmente l’accesso al giudice, complicandone il ruolo. E ciò attraverso una scelta criticata dall’avvocatura e smentita dalla politica - ovvero la reintroduzione del rito societario, abrogato in passato proprio perché “inefficiente e inutilmente complicato, soprattutto nei casi di processi plurilaterali”. Una critica alla quale ha replicato Fiammetta Modena, senatrice di Forza Italia e relatrice delle ddl: “Il nuovo rito non è uguale a quello societario, molto più complesso e senza la linearità delle memorie ex articolo 183 anticipate rispetto alla prima udienza. Nella normativa abbiamo introdotto volontariamente il calendario del processo, che prevede sanzioni per chi non lo rispetta. E a questo aspetto bisognerebbe prestare molta attenzione”. Nonostante alcuni aspetti salutati da tutti come positivi, come il procedimento e la sezione specializzata in materia di persone, minorenni e famiglie, che ricalca fondamentalmente la proposta elaborata dalla Commissione famiglia del Cnf, sono le modifiche sul rito a finire nel mirino degli addetti ai lavori. “Si rischia di avere un processo macchinoso”, aveva spiegato il consigliere del Cnf Alessandro Patelli. Un timore al quale Modena ha voluto porre un argine, ricordando del fatto che “si tratta di principi di delega, quindi tutte queste ipotesi sicuramente troveranno delle individuazioni in sede di decreto legislativo”. Insomma, il tiro si può ancora aggiustare. Ma gli aspetti negativi, secondo l’avvocatura, sono diversi. In primo luogo l’arretramento delle preclusioni istruttorie, che secondo il Cnf, “costituisce una grave lesione del diritto di difesa, con pregiudizio alle ragioni dei cittadini e delle imprese”. Ma non solo: l’altra conseguenza sarebbe anche la contrazione dei poteri delle parti e un aggravamento della responsabilità del difensore. Altro aspetto critico è l’inserimento dei termini per le memorie per definire il thema decidendum e il thema probandum tra gli atti introduttivi e la prima udienza, che comporta un allungamento del termine per comparire e la conseguente fissazione della prima udienza ad ampia distanza dalla notificazione dell’atto di citazione. Inoltre, lo scambio di tali memorie avviene senza il controllo del giudice, in una fase che precede la prima udienza. Secondo il Cnf, “le preclusioni istruttorie devono logicamente scattare dopo che è stato ben definito il thema decidendum, anche ad evitare che, per il principio prudenziale di eventualità, le parti siano costrette a dedurre sotto il profilo istruttorio tutto il deducibile in previsione di qualsiasi futura contestazione, eccezione o domanda di controparte, appesantendo gli atti a discapito dell’attività del giudice e dei principii di sinteticità e speditezza”. Se a ciò si aggiunge la previsione di istituti come il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione - che sospende il processo di merito e favorisce la deresponsabilizzazione del giudice competente -, la modifica dell’articolo 281/6 che abroga, di fatto, l’istituto prevedendo che il giudice possa riservare il deposito incidendo ancor più sul collo di bottiglia della fase decisoria, “non può che apparire evidente che le proposte approvate costituiscano interventi di mera facciata, inidonei a risolvere i problemi della giustizia - primo tra tutti quello dell’arretrato - e a frustrare sempre più il bisogno di tutela del cittadino conclude la nota. In buona sostanza, a fronte di processi troppo lunghi, risultano contratti soltanto i tempi della difesa, si sommarizzano gli accertamenti, si aumentano le sanzioni per le parti (inammissibilità istanza ex art. 283 c.p.c), senza punto intervenire sui ritardi imputabili all’organizzazione degli uffici e dei ruoli del magistrato”. Alle critiche si è associato anche il leader dell’Unione nazionale delle Camere civili, Antonio de Notaristefani: “Si va a modificare l’intera disciplina, che risale al 1993 - aveva spiegato -, per abbreviare il processo, se tutto va bene, di soli 50 giorni”. Le conseguenze negative sarebbero tre: la prima è la crisi di adattamento. “È ovvio che un sistema consolidato, analizzato in maniera approfondita dalla giurisprudenza, fa sì che ci siano delle certezze che in un sistema nuovo non si avranno”. Poi c’è il problema della complessità, dal momento che in una stessa udienza i giudici tratteranno alcune cause con il nuovo rito e altre con il vecchio. La terza, forse la più importante, “è che attualmente tutte le decisioni che riguardano lo svolgimento del processo sono sottoposte al controllo del giudice. In caso di irregolarità, dunque, il giudice ferma immediatamente il processo e dispone che si rinnovino gli atti. Se tutti gli atti vengono anticipati rispetto all’intervento del giudice questo controllo non sarà possibile, con la conseguenza che alla prima udienza, in caso di nullità, bisognerà ricominciare da capo”. Al coro di pareri negativi si è aggiunto anche quello del Csm, secondo cui “appare evidente la sproporzione tra l’ambizioso obiettivo indicato nel Pnrr e quelle che dovrebbero essere le sole nuove risorse umane immesse nel sistema giustizia (…) anche sprovvisti di pregresse esperienze professionali, assunti con contratti a termine”. Ma non solo: la semplificazione cui si mira “sembra comunque poco incisiva, posto che gli uffici in sofferenza saranno costretti a rinviare le udienze per la assunzione dei mezzi istruttori e, soprattutto, per la precisazione delle conclusioni a distanza di anni”. Il tutto con “il rischio concreto della lesione del diritto del cittadino alla difesa e ad ottenere giustizia”. Se scatta l’improcedibilità in appello nuova causa civile per i danni da reato di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2021 La dichiarazione di improcedibilità dell’appello o del ricorso per Cassazione rischia di rendere più accidentato il percorso verso il risarcimento del danno patito dalla persona offesa dal reato, che si era costituita parte civile nel processo penale e che già aveva ottenuto una decisione favorevole in primo grado. Se infatti il giudizio penale diventa improcedibile in appello o in Cassazione la persona offesa dovrà affrontare un nuovo giudizio, di fronte al giudice civile competente, per ottenere i risarcimenti. È una delle conseguenze del nuovo istituto dell’improcedibilità, il più controverso della riforma del processo penale, approvata in via definitiva la scorsa settimana dal Senato. Gli effetti civili La riforma introduce nel Codice di procedura penale l’articolo 344-bis che prevede che la mancata definizione del giudizio di appello entro un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale. In questi casi, quindi, il procedimento si dovrebbe concludere senza una pronuncia nel merito. Ma il giudice penale può emettere una decisione di condanna dell’imputato a risarcire il danno derivante dal reato, patito dalla parte civile costituita, solo se conia sentenza viene accertata e dichiarata la sua, responsabilità penale. Per questo l’articolo 578 del Codice di procedura penale contiene già oggi una disposizione di deroga, relativa all’ipotesi in cui intervenga una causa di estinzione del reato, in particolare l’amnistia o la prescrizione, nel corso del giudizio di appello odi cassazione, dopo una sentenza di condanna dell’imputato alle restituzioni e al risarcimento del danno a favore della parte civile; in questo caso il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato, anche se non si pronunciano sulla responsabilità penale dell’imputato, devono comunque decidere l’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il nuovo giudizio - Per evitare che la dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per l’eccessiva durata del giudizio di impugnazione travolga le statuizioni civili già contenute nella sentenza impugnata, la riforma introduce nell’articolo 578 il comma ibis in forza del quale il giudice di appello e la corte di cassazione, quando vengono superati i termini previsti dall’articolo 344 - bis, dichiarano l’improcedibilità e rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che dovrà decidere in base alle prove acquisite nel processo penale. Si tratta di una soluzione diversa da quella già prevista per le ipotesi di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia, nelle quali comunque il giudice è chiamato a formulare una decisione di merito sebbene ai soli effetti civili e, quindi, nonostante il verificarsi della causa estintiva il giudizio di impugnazione dovrà proseguire. Quando deve essere dichiarata l’improcedibilità è chiaro che l’esigenza è quella di concludere definitivamente il procedimento penale e impedire la prosecuzione di un giudizio di impugnazione protrattosi oltre due anni, se di appello, o oltre un anno, se di cassazione. E ove si prevedesse, anche in questo caso, una pronuncia del giudice penale sul merito ai soli effetti civili lo scopo della disposizione non sarebbe raggiunto. Sicché il contemperamento tra le ragioni della parte civile che ha scelto di far valere nel processo penale le proprie pretese e quelle dell’imputato che matura il diritto a ottenere una dichiarazione di improcedibilità è stato realizzato con il transito del residuo contenzioso dinanzi al giudice civile competente. L’improcedibilità rende comunque più accidentato il percorso della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile, che dovrà affrontare un ulteriore giudizio dopo aver patito le conseguenze sfavorevoli dell’eccessiva durata del giudizio di impugnazione e senza a differenza dell’imputato - trarne vantaggio. Magistratura da cambiare. Sisto: riforma condivisa La Nuova Sardegna, 27 settembre 2021 Il sottosegretario al congresso di Area a Cagliari: “Stop ai protagonismi” Ermini, vice Csm: basta attacchi ai giudici ma bisogna fare i conti con gli scandali. La giustizia ai raggi X al terzo congresso di Area, la corrente progressista delle toghe, in corso a Cagliari. Sul palco i massimi esponenti istituzionali, dal vicepresidente del Csm, David Ermini, al sottosegretario Francesco Paolo Sisto, fino alla responsabile giustizia della Lega, Giulia Bongiorno. È stata proprio lei ad aprire i lavori della seconda giornata con un intervento in cui ha toccato vari punti. Dall’ipotesi di riforma del sistema elettorale del Csm al problema dell’eccesso di correntismo, ma anche le questioni legate alle fughe di notizie durante le indagini preliminari. Per Bongiorno “non ci potrà essere una rifondazione etica, ma il legislatore ha il dovere di cercare di eliminare le tentazioni. Singoli interventi non potranno modificare il problema dell’esasperazione del correntismo”. Tra i temi di maggior interesse quello legato alla possibile riforma del sistema di elezione del Csm. Una delle ipotesi - avanzata dalla senatrice della Lega - potrà essere quella di effettuare prima un sorteggio e poi procedere con le elezioni. Con riferimento al problema dell’eccesso di correntismo e dei recenti scandali, la senatrice ha poi sottolineato che “dobbiamo renderci conto di quanto sta accadendo: la crisi di credibilità della magistratura non riguarda solo la magistratura ma tutti. O troviamo un sistema di selezione diverso o dobbiamo pensare ad altro, tipo all’elettorato passivo”. Ma l’ipotesi del sorteggio non trova d’accordo il sottosegretario Sisto, esponente di Forza Italia. “La parola sorteggio per l’elezione del Csm allo stato è fuori dal range operativo del Ministero. La riforma dell’ordinamento giudiziario non sarà una rivoluzione ma un intervento condiviso, realistico e assolutamente non punitivo, teso non ad abbattere le correnti ma la loro degenerazione in cordate e lottizzazioni. A nome del ministero posso assicurare che nulla cadrà sulle teste della magistratura senza che questa possa cooperare attivamente alla riforma, perché il nostro compito non è essere promotori di un’etica nuova in magistratura, ma quello di individuare norme o comuni canoni di prevenzione che possono contribuire a migliorare la situazione attuale, senza alcun “crucifigè” della classe dei magistrati”, ha concluso l’esponente del Governo. Allo stesso tempo, Sisto ha invitato i magistrati a fare “un passo indietro rispetto ai protagonismi e alle personalizzazioni, perché questa patologia fa malissimo ai cittadini e non fa certamente bene alla magistratura”. In chiusura il vicepresidente del Csm, David Ermini, che ha rimarcato l’autonomia dell’organo di governo delle toghe. “Nessuno può pretendere dai consiglieri obbedienza, tanto meno dal vicepresidente, che risponde solo alla Costituzione e al suo garante che è il presidente della Repubblica”. Ermini non ha nascosto l’amarezza di fronte ai “toni aggressivi e denigratori che, quasi quotidianamente, investono la magistratura e l’organo consiliare. Ma ciò non toglie che con gli scandali e le difficoltà del presente i conti si debbano fare. Con umiltà e onestà, e al contempo con coraggio”. Ermini ha poi elogiato i magistrati che lavorano nei tribunali senza il clamore dei media, mentre ai colleghi che siedono nel Csm ha ricordato che “chi è eletto al Consiglio non risponde a rapporti fiduciari ma alla Costituzione”. Ma in un punto è netto. “I magistrati devono restare estranei al dibattito politico-partitico, però hanno il dovere di partecipare, anche criticamente, al discorso pubblico sulla giustizia, la loro interlocuzione deve però rimanere misurata, tecnicamente orientata, argomentata”. Camere penali, rieletto Caiazza, Albamonte verso la riconferma al vertice della corrente di Area di Liana Milella La Repubblica, 27 settembre 2021 L’autunno “caldo” della giustizia con la separazione delle carriere che alla Camera vede il radicale Magi come nuovo relatore. Poi la nuova legge sul Csm e la commissione d’inchiesta sulla magistratura. Giandomenico Caiazza, battagliero presidente delle Camere penali, 65 anni, riconfermato presidente per altri due anni. Eugenio Albamonte, pm a Roma e altrettanto battagliero presidente di Area, la corrente di sinistra delle toghe, verso la riconferma dopo la tre giorni del congresso a Cagliari. E, sullo sfondo, il prossimo autunno caldo della giustizia con il primo scontro - a partire dal 5 ottobre nella commissione Affari costituzionali della Camera - su una questione da sempre divisiva e per giunta in parte oggetto dei referendum radical-leghisti, la separazione delle carriere dei giudici. Che arriva in Parlamento proprio per via di una legge di iniziativa popolare su cui si sono mobilitate le Camere penali di Caiazza che hanno raccolto un milione di firme. E su cui proprio Caiazza ha espresso chiaramente la sua opinione, sì alla nuova legge piuttosto che il referendum, motivandolo così: “La legge di iniziativa popolare ovviamente non ha l’efficacia immediatamente legislativa del quesito referendario eventualmente votato dalla maggioranza qualificata degli elettori, ma consente di proporre all’attenzione della pubblica opinione un’ipotesi di riforma dettagliatamente strutturata in un testo articolato e compiuto, e impegna il legislatore ad attivarne il percorso parlamentare”. Adesso alla Camera sulla separazione delle carriere, che ha già subito un iter tormentato - in commissione, in aula, poi di nuovo in commissione - cambia il relatore, al posto dell’attuale sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, ci sarà il radicale Riccardo Magi, da sempre convinto sostenitore della separazione con una legge che però comporterebbe una modifica costituzionale. E il nuovo termine per gli emendamenti, fissato appunto al 5 ottobre, riaprirà anche le divisioni dentro la maggioranza. Che dovrà fare i conti anche con la commissione d’inchiesta sulla magistratura, ma soprattutto con la nuova legge di riforma del Csm, che figura già nel calendario della Camera in aula per la fine di ottobre. Un termine che, per la complessità degli emendamenti che saranno presentati dalla ministra Marta Cartabia, risulta di certo un po’ “stretto”. D’altra parte proprio il tema delle prossime elezioni del Csm è stato protagonista del congresso di Area di Cagliari dove il segretario Albamonte ha sollecitato, come inderogabile, l’approvazione al più presto della nuova legge con cui eleggere i togati di palazzo dei Marescialli. Esigenza che lo stesso Albamonte aveva anticipato a Repubblica. Albamonte ha ribadito che “è necessario pretendere che il legislatore metta mano al sistema elettorale del Csm prima del suo rinnovo, che comincia ad essere imminente perché è in gioco la sorte stessa del governo autonomo della magistratura che, se rinnovato con le stesse dinamiche patologiche del passato, rischia di essere definitivamente travolto dalla sfiducia dei magistrati prima ancora che dell’opinione pubblica e delle altre istituzioni”. Quanto alle carriere dei giudici Area è netta e mette su carta, nel suo documento finale, “la netta contrarietà alla proposta di riforma costituzionale della separazione delle carriere e ai quesiti referendari sulla giustizia che costituiscono un tentativo surrettizio di modificare l’assetto dei poteri ordinamentali tracciato dalla costituzione”. Duro il giudizio sul “carrierismo dilagante”, ma anche sul caso Palamara. Area parla di “una profonda crisi etica che sta coinvolgendo una parte consistente della magistratura” a cui si è aggiunta “una narrazione offerta all’opinione pubblica da alcuni dei protagonisti di quelle vicende, in violazione del riserbo che la nostra etica avrebbe dovuto imporre a fronte di indagini preliminari e accertamenti disciplinari in corso”. Una polemica, quella sul Csm, sulle correnti, sulla deontologia di una toga, che influirà proprio sulla futura legge di riforma del Consiglio superiore, non solo sulle norme elettorali e sugli effetti che potrà avere sul correntismo, ma anche sulle regole interne del futuro Csm che deve essere rinnovato l’anno prossimo. I togati scadono a luglio, i laici a settembre. La faglia della giustizia di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 27 settembre 2021 Proprio di una faglia bisogna parlare a proposito della giustizia in Italia. La frattura dell’opinione pubblica tra due masse rocciose pare insanabile. La contrapposizione è stata confermata per l’ennesima volta dalla sentenza d’appello di Palermo sul processo per violazione dell’articolo 338 del codice penale, “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Qui il garantismo e il giustizialismo sono usati a sproposito, come troppo spesso capita per il malinteso sul loro genuino significato. Qui cade invece a proposito il siparietto tra i due sordi: “Dove vai?”, “vado a pescare”, “ah, credevo che andassi a pescare!”. Ha fatto comodo a certa stampa corriva definire quella presunta violenza o minaccia con l’espressione “trattativa Stato-mafia” che suggerisce una persistente, orrida collusione con contatti e transazioni tra funzionari e criminali. A ben vedere, la violenza è un atto perpetrato. La minaccia è un atto intimidatorio. Sono due condotte criminali che solo con forzature possono assimilarsi ad un negoziato o ricomprendersi sotto il concetto di trattativa. La Corte d’appello ha stabilito che la pseudo trattativa non costituisce reato. Ciò significa che non fu trattativa nel senso preteso da chi lo asserisce e che non interessa la giustizia penale. Sennonché gli assertori strepitano. Insorgono contro i negatori accusandoli di mistificare il senso della sentenza che, dichiarando lecito il fatto, lo ha tuttavia confermato; e deducono, con un salto mortale, che la trattativa ne risulta implicitamente provata. Tale essendo il livello della discussione, non esiste ponte che superi la frattura. Se le sentenze buone sono soltanto quelle collimanti con l’opinione preconcetta che uno può formarsi delle accuse, i fatti in giudizio saranno sempre in balia delle interpretazioni e delle asserzioni di chi giudica cattive le sentenze. Chiamandoli “trattativa” hanno qualificato penalmente i fatti già prima dell’inizio del processo e tolto da subito agli accusati la presunzione d’innocenza. Per costoro la trattativa conserva la patina indelebile del delitto. Di quale giustizia sono paladini? Il teorema della “trattativa” si basava sul pensiero unico fatto di niente di Enrico Deaglio Il Domani, 27 settembre 2021 Vorrei dire grazie al giudice Angelo Pellino, presidente della Corte d’assise d’appello di Palermo. Grazie per avere dissolto quella nebulosa oscura che aveva preso il nome di “trattativa stato-mafia”, ed era poi diventata un’entità, distillata dai suoi sacerdoti. Il giudice Pellino ha assolto i rimanenti imputati di una messa in scena durata 12 anni (o meglio, quasi 30, come vedremo); la “trattativa” è stata un insulto pervicace (e sadico) alla memoria di Falcone e Borsellino operato dai suoi colleghi magistrati, una palestra per ambizioni politiche, per fortuna in genere fallimentari; e, soprattutto la creazione di una “narrazione” (brutto termine, lo so, ma efficace), che dice che lo stato e la mafia sono la stessa cosa, argomento che ha fatto il successo del partito di Beppe Grillo e del giornalista Marco Travaglio. Grazie, giudice Pellino, di aver messo uno stop a tutta questa schifezza. Mafia fur dummies - Se c’è una cosa che contraddistingue i fatti di mafia, è che nessuno - intendo le persone normali - ne capisce niente, e soprattutto non ne vuole sapere; e nello stesso tempo, per il numero di morti che questo fenomeno ha provocato in Italia, decine di migliaia di persone, più o meno, ci hanno avuto direttamente a che fare. Per cui, in casi come questo, due approssimazioni si sommano creando un rumore di fondo piuttosto fastidioso. Cerco quindi di riassumere sull’argomento di cui sto parlando, una specie di “mafia for dummies”. Dunque, succede che tra gli anni Ottanta e Novanta l’Italia stava per diventare un “narcostato”. L’economia criminale, spinta dal monopolio del commercio di eroina, era di gran lunga più profittevole di quella legale (a cui peraltro la prima prestava molti soldi); l’assetto politico era stato distrutto dalla corruzione, quello finanziario, soprattutto quello cattolico, vedeva ogni giorno una possibile bancarotta. Dopo un decennio di tensioni economiche finanziarie, il patatrac avviene nel 1992 con le uccisioni spettacolari di Falcone e Borsellino (roba mai vista prima al mondo, se non nel Padrino III, film molto anticipatorio - che vi invito, depurato delle melensaggini, a riconsiderare). Seguono bombe “in continente” per tutto il 1993, un attacco diretto dei servizi segreti al presidente Scalfaro, che reagisce ordinando, in qualità di capo delle forze armate, manovre dell’esercito; poi la cosa si placa, l’Italia va pazza per un uomo nuovo che vince le elezioni e comincia la seconda repubblica in cui, per fortuna, almeno quello ci viene dato: la mafia non c’è più. Tutto il peso di spiegare che cosa sia successo (e sono successe cose terribili: cadaveri eccellenti e bambini sciolti nell’acido solforico) cade sulle spalle della magistratura, della polizia, dei carabinieri e dei servizi segreti. La politica, apparentemente, non sembra interessata. E i magistrati, ognuno dei quali ha giurato di portare avanti gli insegnamenti di Falcone e Borsellino (non piegare la schiena, trovare i riscontri, e follow the money), sono gli eroi del momento, tutti si fidano di loro. La trattativa - Primo atto: ci spiegano che tutto è opera delle “belve corleonesi”, che però sono state prese e rese inefficaci. Poi ci spiegano che, per esempio, l’omicidio Borsellino è stato organizzato da un ragazzo scimunito di quartiere; e che far saltare un’autostrada è tutto sommato facile, basta mettere i panetti di dinamite nel canale di scolo con uno skateboard e poi Giovanni Brusca (un altro tipo di non eccelsa intelligenza) dalla collinetta dà l’impulso. Si scopre però che uno degli artificieri, tale Nino Gioè, arrestato, è sì un mafioso, ma anche un uomo dei servizi. Lo trovano impiccato a Rebibbia, dicono suicidio. E come non crederci? Intanto, è passata una decina d’anni, i cadaveri eccellenti non esistono più, la Sicilia sembra la Svizzera. Siamo nel 2010, più o meno. Viene presentato al pubblico un signor pentito, tale Gaspare Spatuzza, una feccia della terra che ha pure ucciso un prete. Spatuzza racconta un’altra storia: le bombe le ho messe io, me l’ha ordinato il mio capo, che si chiama Graviano, che è un socio in affari di Silvio Berlusconi. E snocciola un sacco di prove, fin troppe. E si scopre che erano dieci anni buoni che le andava dicendo… Vabbè, dicono i magistrati: bisognerà vedere. E scoprono che c’è un’altra miniera, tale Massimuccio Ciancimino, figlio molto arrogante del famoso don Vito Ciancimino. Questi, che ha ricevuto in eredità dal padre centinaia di miliardi su cui la procura di Palermo ha messo gli occhi, rivela notizie esplosive alla procura stessa: “So tutto, i carabinieri vennero da mio padre, che li aiutò a far catturare Riina. Borsellino non era d’accordo con questa “trattativa” e per questo venne ucciso”. Wow! La storia cambia. E Massimuccio aggiunge: chi teneva le fila era un certo signor Carlo… Ah, sì, forse mio padre aveva scritto il suo nome da qualche parte. Ah, forse lo ritrovo. Ed eccolo qua, il bigliettino: il signor Carlo è Gianni De Gennaro (allora capo della polizia, oltre ad essere il più famoso investigatore, l’amico di Falcone). Per fortuna, una semplice perizia scopre che il nome Di Gennaro l’ha scritto Massimuccio coi trasferelli… altrimenti nel processo trattativa, oltre ai carabinieri infedeli avremmo avuto anche l’attuale presidente di Finmeccanica Leonardo, ovvero la nostra potente industria degli armamenti che ha un peso notevole sulla nostra politica internazionale. (Già, ma chi l’aveva consigliato, a Massimuccio?). Mafia stato - Cade Massimuccio, che era l’asso nella manica - anzi, era diventato l’icona dell’antimafia delle trasmissioni televisive, ma la procura di Palermo va avanti come un sol uomo: c’è stato un grande complotto, lo stato si è piegato alla mafia. Sono coinvolti Giuliano Amato, Giovanni Conso (ex ministro di giustizia), Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, il vecchio Calogero Mannino, bersaglio facile, che sospettato di mafia lo è da decenni, sono fortemente sospettati di aver tenuto bordone il presidente Ciampi e il presidente Scalfaro e… bomba! Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Vi ricorderete: il caso delle intercettazioni telefoniche tra Napolitano e Mancino che si scambiavano gli auguri di Capodanno? Roba forte, come l’agenda rossa del giudice Borsellino fatta sparire. Bene, il giudice Di Pietro e Beppe Grillo chiesero l’impeachment per Napolitano, Travaglio ci scrisse un libro e agitò le piazze, i Cinque stelle si formarono intorno a questa idea forte. Naturalmente non c’era uno straccio di prova per niente - tutta l’indagine è frutto di una insipienza investigativa rara, ma l’argomento “tirava”. Era diventata un teorema: lo stato mafia, la mafia stato. Era anche un business: il pm Ingroia candidato al parlamento (disastro, per fortuna), Marco Travaglio, più epigoni, che sfornavano articoli, libri, spettacoli teatrali, musical, conferenze, dicevano la loro sulle nomine del Csm - tutti argomenti su cui mi immagino l’ex giudice Palamara non mancherà di lucrare. Il giudice Nino Di Matteo, il giovane magistrato che si era accalorato per difendere il depistaggio sul delitto Borsellino, poi aveva scoperto la trattativa, poi era stato condannato a morte dal vecchio Riina in carcere, minacce addirittura trasmesse in televisione, diventa un eroe nazionale, protetto con il bomb jammer, cittadino onorario di cinquanta municipi d’Italia (sempre su proposta dei 5 stelle), che ha un suo proprio organo di stampa, che si offre lui stesso - a Di Maio, a Salvini, a chiunque - per diventare ministro della Giustizia, o dell’Interno, o almeno direttore delle carceri; è un giudice moderno, parla di entità, di poteri occulti, ha avuto il coraggio di sfidare i santuari, sfida ogni giorno la morte e fa capire che se questa gli sarà data, non sarà la mafia ma lo stato mafia, la mafia stato, i “collusi”. È un potente simbolo di un periodo molto confuso in cui, ancora oggi siamo immersi. Pensiero unico - Ci si augura che la sentenza di Palermo, che ha demolito 12 anni di questa mattana, sia foriera di tempi migliori. Ma la strada della trasparenza è difficile da imboccare, specie quando si è stati così male abituati. Per esempio, molti sono stati insospettiti dal fatto che sia stato assolto Marcello Dell’Utri (uhm? Un regalo a Berlusconi?). In realtà il problema era che le accuse a Dell’Utri erano effettivamente risibili. Guardando indietro, però, il danno fatto mi sembra difficile da rimediare. Sono passati ormai quasi trent’anni dagli eventi che trasformarono l’Italia. A spiegarci che cosa era successo è stata chiamata la magistratura, che ha dato una pessima prova di sé. Più delle indagini serie tutti conoscono invece depistaggi, teoremi, approssimazioni, in un panorama costellato di Scarantino, Ciancimino, Di Maggio, Brusca, personaggi da un tanto al chilo; da magistrati chiaramente non all’altezza delle loro funzioni ma diventati detentori di grande potere. Zelanti nel mettere sotto controlli i telefoni, ma poco più. Molto spesso pigri, e poco curiosi. Assenza di curiosità che hanno trasmesso a schiere di giornalisti, che sono stati chiamati - e hanno accettato gioiosamente - a cantare le loro glorie, fino a costruire il famoso “pensiero unico” fatto di niente. Eppure ce l’avevano davanti e non l’hanno voluto vedere. Ci hanno messo trent’anni a capire che le bombe, tutte, le avevano messe i fratelli Graviano, cosa che era chiara fin dal 1994. O forse lo sapevano e li hanno coperti per trent’anni. Ma, a questo punto: la cosa interessa ancora qualcuno? Un’ultima cosa. Non conosco il giudice Angelo Pellino, palermitano nato nel 1959. Tutti ne parlano come di persona seria, schietta, riservata, aliena dalla ribalta. L’ho visto in tv mentre leggeva - quasi bisbigliando - la sentenza; piccolo, magro. Mi sono ricordato di quando, una decina di anni fa, fu chiamato a presiedere il giudizio sull’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, su cui magistrati, carabinieri e giornalisti si erano esercitati in una ventennale opera di depistaggio. C’era un particolare nel delitto a cui nessuno aveva dato troppa importanza: il fucile del killer si era rotto e una parte del calcio era rimasta sul terreno. Mai analizzata, però, per fortuna conservata. Nello stupore generale, il presidente Pellino, al processo, chiese di fare su quel reperto l’esame del Dna, che rivelò il nome dell’assassino. Che io sappia, in fatti di investigazioni antimafia, il giudice Pellino è l’unico che abbia portato un risultato concreto. Non sarebbe un buon procuratore nazionale? Bene la sentenza sulla trattativa. Ora cancelliamo la cultura del sospetto di Paolo Delgado Il Dubbio, 27 settembre 2021 Il processo sulla trattativa aveva una valenza politica molto più ampia del semplice ventaglio di imputati. Veicolava una lettura che autorizzava a immaginare condizionamenti innominabili e inaccettabili che avevano viziato e male indirizzato il corso degli eventi dopo la tempesta del 1992- 93. La sentenza di assoluzione nel processo sulla “trattativa Stato- mafia”, non inattesa dopo l’assoluzione di Calogero Mannino nello stesso procedimento ma ugualmente deflagrante, segna o può segnare un punto di svolta nella lettura storica del passato recente italiano e nella cultura politica del Paese. Il processo sulla trattativa aveva una valenza politica molto più ampia del semplice ventaglio di imputati. Proponeva, senza dichiararlo apertamente, una lettura precisa della nascita della seconda Repubblica e della genesi del ventennio segnato dalla straripante presenza di Silvio Berlusconi. Veicolava una lettura che autorizzava a immaginare condizionamenti innominabili e inaccettabili che avevano viziato e male indirizzato il corso degli eventi dopo la tempesta del 1992- 93. Spostava il confronto politico dal piano proprio delle visioni e dei progetti diversi a quello, di tutt’altra natura, tra il malaffare da una parte e l’onestà e la legalità dall’altro. Si potrebbe pensare che, avendo ormai Berlusconi perso la centralità che aveva, la faccenda sia di interesse esclusivamente storico, non certo secondaria ma relativamente poco influente sulle dinamiche politiche del presente, dopo averle pesantemente condizionate in passato. Non è così o lo è solo in parte. Silvio Berusconi può essere un comprimario sul palco della politica attuale, il suo partito, da nave ammiraglia, può essersi trasformato in fanalino di coda della coalizione di destra ma quella coalizione resta una sua creazione, ha incisa nel dna l’eredità genetica della destra della seconda Repubblica. Dunque l’ombra di quella nascita tenuta a battesimo da poteri criminali e di una crescita accompagnata per mano da quegli stessi poteri sulla strada per loro più conveniente ha continuato sin qui a gravare anche sulla destra in larga parte “deberlusconizzata” di Salvini e Meloni. È possibile ora immaginare una tenzone politica anche durissima ma combattuta sul terreno proprio, quello dei progetti diversi, magari opposti, anche inconciliabili ma senza scivolare nella criminalizzazione degli avversari, senza poter giocare la carta facile e quasi sempre bugiarda della moralità contro l’ignominia banditesca. Sarebbe un passo avanti enorme perché il risultato di quello slittamento dello scontro politico su un terreno improprio, spesso scelto a freddo come comoda scorciatoia, è stato disastroso da tutti i punti di vista. Ha svilito, squalificato e delegittimato la politica senza renderla nemmeno di un milligrammo più etica. La sentenza di giovedì scorso, soprattutto se abbinata a quella altrettanto clamorosa su Mafia Capitale, ha però una valenza se possibile ancora più vasta e che chiama in causa l’intera cultura politica, non solo giudiziaria, dell’Italia degli ultimi trent’anni. In queste due maxi- inchieste, di gran lunga le più importanti e significative dell’ultimo decennio, le convinzioni dei pm, le loro ipotesi, i loro sospetti sono state molto più determinanti nella costruzione delle prove che non gli elementi concreti a sostegno. Sono stati tirati per i capelli alcuni elementi mentre altri sono stati sottovalutati o ignorati. La stessa logica è stata molte volte spensieratamente travolta e stravolta in nome delle “intime convinzioni” degli inquirenti. A ogni critica, per decenni, si è risposto che bastava difendersi “nel processo” invece che “dal processo”. In apparenza le due sentenze in questione sembrano confermare la perentoria affermazione, però solo in apparenza. Processi che si prolungano per anni e anni, accompagnati da inchieste televisive, film e docu-film, migliaia di articoli impattano e modificano la disposizione dell’opinione pubblica e condizionano l’interpretazione della realtà in relativa indipendenza dalla sentenza finale. Quella logica del sospetto che vale di per sé come mezza condanna si estende poi al di là delle aule di tribunale, permette di reclamare (e ottenere) dimissioni non solo in assenza di prove ma persino di capi d’accusa penalmente rilevanti. Poche cose hanno inquinato la vita pubblica del Paese negli ultimi decenni più di questa cultura, spalleggiata, adottata e condivisa quasi sempre dai media. Non è escluso che quella parabola sia arrivata al suo punto di caduta. L’assalto silenzioso (e sottovalutato) delle mafie miliardarie di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 27 settembre 2021 Dall’ormai dominante ‘ndrangheta a Cosa Nostra, dalla camorra alla Sacra corona unita, mettendo sotto lo stesso coperchio le organizzazioni straniere che con le nostre stringono alleanze su ogni fronte dove sia possibile succhiare sangue a una democrazia sotto attacco. La mafia resta la “montagna di merda” fotografata una volta per tutte da Peppino Impastato, che ci è rimasto soffocato sotto. Solo che quella montagna, cento passi dopo cento passi, si è fatta furba ed è diventata invisibile, o così vorrebbe lasciare credere. L’effetto ottico può trarre effettivamente in inganno. Niente più ammazzamenti in grande stile, celebrazioni che ne evocano il fantasma soltanto in occasione del 21 marzo, giorno scelto dallo Stato per ricordare le più di mille vittime innocenti di una guerra mai finita ma che adesso pare consegnata a un passato lontanissimo e archiviato. Ma, soprattutto, assenza quasi totale dal dibattito politico. La mafia non c’è più, sradicata a sua e nostra insaputa. Non è un caso che, a una settimana da un voto che vedrà coinvolti 12 milioni di elettori, la parola nemmeno compare nei comizi, nei programmi, nelle promesse dei candidati, salvo lodevoli quanto innocue eccezioni. Il trucco è dunque riuscito. Uno dei pericoli più insidiosi per un Paese che ne conosce bene il morso è stato derubricato a generico allarme contro la criminalità organizzata. I motivi possono essere tanti: perdita di memoria civile, comoda indifferenza, paura personale verso un nemico spietato, implicita complicità (ampiamente dimostrata da inchieste e sentenze), e infine colpevolissima incomprensione e sottovalutazione di un male endemico della nostra storia, tutt’altro che curato, meno che mai sconfitto. Si dovrebbe ricominciare a chiamare le cosa con il proprio nome, e quindi non “crimine organizzato”, che nella sua vaghezza depotenzia la portata eversiva del fenomeno, ma proprio “mafia” o “mafie”, includendole tutte, dall’ormai dominante ‘ndrangheta a Cosa Nostra, dalla camorra alla Sacra corona unita, mettendo sotto lo stesso coperchio le organizzazioni straniere che con le nostre stringono alleanze su ogni fronte dove sia possibile succhiare sangue a una democrazia sotto attacco: dal traffico di droga alla tratta dei migranti, dal gioco d’azzardo all’usura, dall’edilizia ai trasporti, dalla raccolta allo smaltimento dei rifiuti, dall’infiltrazione ormai sistematica nelle amministrazioni pubbliche all’ingresso in grande stile nel tessuto economico e imprenditoriale privato. Una metastasi che consolida le proprie radici in un Sud alla deriva e si è ormai diffusa con esiti devastanti nei tessuti vivi e ricchi del Nord Italia. Un virus pandemico già in azione, come una specie di Coronavirus sociale, per prepararsi a rubare cospicua parte dell’ossigeno in arrivo dall’Europa sotto forma delle decine di miliardi stanziati per aiutarci a ripartire. Non più con le armi spianate, ma privilegiando lo strumento della corruzione a quello dell’intimidazione, tenuta come carta di riserva, da usare con gli interlocutori meno propensi a tradire la propria comunità e la Patria stessa, passando dall’altra parte. Capi azienda, professionisti, dirigenti pubblici, amministratori locali, politici eletti o eleggibili: la zona grigia si allarga, mostrando una notevole cedevolezza. Ha cambiato strategia, la mafia intesa come mafie, ma non la propria identità, che resta quella di farsi legge al posto della Legge, presidiare i territori antichi e quelli di fresco conquistati, arricchirsi a dismisura (calcoli a spanne, in comprensibile assenza di bilanci, adombrano per difetto profitti annuali superiori ai 100 miliardi di euro, risultato incomparabile con eccellenze come Banca Intesa o Enel). E ancora, amministrare il potere accrescendolo in disprezzo delle regole, della libertà dei cittadini, di ogni forma di legalità. Un anti Stato finanziato da qualsiasi crimine vantaggioso, sottraendo risorse allo Stato, in ogni modo vietato possibile, compreso il voto di scambio. Ma anche qui, con una sostanziale differenza rispetto all’altro ieri. “Venticinque anni fa”, ha spiegato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, “erano i mafiosi che andavano col cappello in mano dal politico a chiedere cortesie o un’assunzione in Forestale. Oggi sono i politici che vanno a casa dei capimafia a chiedere pacchetti di voti in cambio di appalti”. Nell’operazione di metamorfosi cominciata dopo la stagione delle stragi e delle bombe, terminata nel 1993, la montagna che tuonava e sfidava le Istituzioni in campo aperto si è lasciata circondare da una coltre di nebbia, appena squarciata dall’esito dell’appello sulla trattativa con lo Stato, con una sentenza trapuntata di assoluzioni eccellenti e di rinnovato dolore per i familiari dei caduti per quelle stragi, quelle bombe, durante la lunga stagione di sterminio di chi lo Stato lo serviva, difendendolo. Ecco, la parola “mafia” è ricomparsa a proposito di una delle notti più feroci della Repubblica, pronta a tornare subito a inabissarsi appena passata la piccola bufera dei commenti a caldo. Cose vecchie, altri tempi, guardiamo avanti. Il problema è che guardando all’oggi ci sarebbero numeri piuttosto impressionanti, e ampiamente pubblici, che dovrebbero mettere in guardia sull’attualità drammatica della tossicità mafiosa. Più di 270 amministrazioni locali sciolte per infiltrazioni di clan e cupole, compresi 2 capoluoghi di provincia (Foggia e Reggio Calabria) e 6 aziende sanitarie e ospedaliere. Fatturato stimato della ‘ndrangheta, la mafia al momento più forte e l’unica presente in tutti e cinque i continenti: 55 miliardi di dollari l’anno. Aumento vertiginoso dei delitti connessi con la gestione illecita dell’imprenditoria, il traffico di influenze a fini di riciclaggio, l’accaparramento selvaggio di fondi pubblici. Gli allarmi si sprecano, inascoltati. Guido Carlino, presidente della Corte dei Conti: “I meccanismi di spesa del Recovery Plan italiano contengono sacche di impunità. Il premier Draghi ha detto che dobbiamo spendere in modo onesto e veloce. Il problema è che riusciamo a spendere una quota ancora minoritaria delle risorse europee e una parte non indifferente viene intercettata dalla criminalità per finalità illegali”. Chiamiamola pure mafia, presidente. Non abbiamo sconfitto la povertà, anzi siamo lontanissimi dal solo contenerla. E non abbiamo sconfitto e neanche scalfito la mafia, che anzi sta vincendo, travestita come se non fosse la montagna di merda che è e rimane. E che ci vuole complici o impauriti sudditi, come una volta, come sempre, sia pure con altri metodi. Meriterebbe contrasto, denuncia, azione forte del governo e di ogni singolo partito. Ma a parte valorosi pochi (magistrati, investigatori, associazioni indomite, giornalisti temerari), la guerra stiamo dando l’impressione di averla abbandonata, ingannati in buona o cattiva fede dalla fasulla assenza del nemico. Questa campagna elettorale ne è una prova lampante e disarmante. Eppure se c’è una bandiera unitaria che dovrebbe rappresentare l’Italia della ripartenza è proprio quella di una lotta di liberazione dalle mafie. Un’altra resistenza, nel nome della legalità. Altrimenti arrendiamoci, alzando un altro tipo di bandiera: bianca. Il rischio usura incombe su oltre 170 mila imprese di Antonio Longo Italia Oggi, 27 settembre 2021 L’allarme della Cgia di Mestre sulle aziende segnalate come insolventi dagli intermediari finanziari alla centrale dei rischi della Banca d’Italia e che quindi non possono accedere ad alcun prestito erogato dal canale finanziario legale. Oltre 176 mila imprese italiane sono concretamente a rischio usura. E tra queste, una su tre si trova al Sud. Si tratta delle aziende in sofferenza che sono state segnalate come insolventi dagli intermediari finanziari alla centrale dei rischi della Banca d’Italia e che quindi non possono accedere ad alcun prestito erogato dal canale finanziario legale. A lanciare l’allarme è l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre che prospetta per tali realtà produttive il rischio, più elevato rispetto alle altre aziende, di chiudere i battenti o di finire nelle mani degli usurai. Rischio maggiore nelle grandi aree metropolitane e al Sud. In base all’analisi condotta dagli esperti della Cgia, a livello provinciale il numero più elevato di imprese segnalate come insolventi si concentra nelle grandi aree metropolitane. Infatti, secondo i dati aggiornati al 31 marzo scorso, Roma si piazza al primo posto con 13.310 aziende, a seguire Milano con 9.931, Napoli con 8.159, Torino con 6.297, Firenze con 4.278 e Brescia con 3.444. Le province meno interessate dal fenomeno, invece, sono quelle, in linea di massima, meno popolate, come per esempio Belluno, con 360 aziende segnalate alla centrale rischi, Isernia (333), Verbano-Cusio-Ossola (332) e Aosta (239). A livello di macro-aree territoriali, sono le aziende meridionali a correre i maggiori rischi, infatti nel Mezzogiorno si contano 57.992 aziende in sofferenza, pari al 32,9% del totale, seguono il Centro con 44.854 imprese (25,4%), il Nordovest con 43.457 (24,6%) e infine il Nordest con 30.070 (17%). Aumento dei prestiti alle imprese agli sgoccioli. L’analisi della Cgia pone in evidenza come l’azione di sostegno alle imprese in materia di credito si sia praticamente esaurita. Infatti, a seguito del crollo degli impieghi bancari alle imprese, avvenuto tra il novembre 2011 e il febbraio del 2020 (-305,3 miliardi pari a una contrazione del 30%), l’andamento registrato nei mesi successivi all’avvento del Covid, dopo l’introduzione delle misure messe a punto dal governo Conte bis nel marzo 2020, ha cominciato a crescere raggiungendo il picco massimo a novembre 2020 per poi iniziare una lenta discesa fino allo scorso mese di luglio quando si è attestato sotto quota 743 miliardi di euro. La Cgia, richiamando i dati periodicamente elaborati dalla task force composta da Mef, Mise-Medio Credito Centrale, Abi e Sace, sottolinea che attraverso “Garanzia Italia”, fino al 7 settembre scorso, le domande presentate dalle grandi imprese sono state 3.009 e i volumi dei prestiti garantiti messi in campo da Sace hanno raggiunto i 28 miliardi di euro circa. Sempre alla stessa data, grazie al “Cura Italia” e al “Decreto Liquidità”, al Fondo di garanzia per le Pmi sono, invece, giunte 2.326.013 domande che hanno “generato” 191,1 miliardi di finanziamenti. Tali dati includono anche i mini prestiti fino a 30 mila euro che, invece, hanno registrato 1.167.705 domande, consentendo l’erogazione di 22,7 miliardi di finanziamenti. Potenziare il Fondo di prevenzione dell’usura. Secondo gli analisti, per arginare il fenomeno, il focus delle istituzioni dovrebbe essere rivolto verso il Fondo di prevenzione dell’usura, introdotto con la legge n. 108/1996 e che ha cominciato ad operare nel 1998. Tale fondo, introdotto per l’erogazione di contributi a consorzi o cooperative di garanzia collettiva fidi oppure a fondazioni e associazioni riconosciute per la prevenzione del fenomeno dell’usura, può concretamente contribuire alla prevenzione del fenomeno dell’usura garantendo le banche per finanziamenti a medio termine o linee di credito a breve termine a favore di piccole e medie imprese che già si sono viste rifiutare da una banca una domanda di intervento. In pratica, come si ricorda nello studio condotto dalla Cgia, la misura consente agli operatori deboli finanziariamente di accedere a canali di finanziamento legali e aiuta le vittime dell’usura che, non svolgendo un’attività di impresa, non hanno diritto ad alcun prestito da parte del fondo di solidarietà. Come funziona il Fondo di prevenzione. Sono previsti due tipi di contribuzione, la prima è destinata ai confidi a garanzia dei finanziamenti concessi dalle banche alle attività economiche, la seconda, invece, è riconosciuta alle fondazioni o alle associazioni contro l’usura che sono riconosciute dal Mef. Tali associazioni consentono alle persone in grave difficoltà economica di accedere al credito in sicurezza. Nei 22 anni di vita, l’importo medio di prestiti erogati dal fondo è stato di circa 50 mila euro per le Pmi e 20 mila euro per cittadini e famiglie. Lo stesso si alimenta, in prevalenza, con le sanzioni amministrative in materia di antiriciclaggio e valutarie. Dal 1998 al 2020, ai confidi e alle fondazioni lo stato ha erogato 670 milioni di euro, tali risorse hanno garantito finanziamenti per un importo complessivo pari a circa 2 miliardi di euro. Nel 2020 ai due enti erogatori sono stati assegnati complessivamente 32,7 milioni di euro, di cui 23 milioni ai primi e 9,7 milioni di euro ai secondi. Cifre rilevanti che, secondo la Cgia, andrebbero comunque implementate al cospetto dell’attuale crisi economica. In aumento le denunce di usura. A conferma del rischio paventato dall’Ufficio Studi, seppur le sole denunce per usura effettuate all’autorità giudiziaria non consentano di delineare con precisione i confini del fenomeno, si registra un aumento delle stesse dopo la forte contrazione avvenuta tra il 2016 e il 2018. E se il numero assoluto è molto inferiore rispetto ai picchi della prima parte del decennio scorso, secondo i dati elaborati dal ministero dell’Interno nel 2020 le denunce sono salite a 222 (+16,2% rispetto al 2019). Peraltro l’anno scorso, fra tutti i reati contro il patrimonio, le denunce per usura e le truffe, in particolar modo quelle informatiche, sono state le uniche a registrare una variazione positiva. Inoltre, settembre appare come il mese “nero” in cui il rischio si aggrava ancor di più, in coincidenza con le scadenze fiscali che spesso spingono molte piccole aziende in difficoltà economica a contattare usurai od organizzazioni criminali per acquisire la liquidità necessaria per onorare gli impegni con il fisco. In particolare, il mese di settembre di quest’anno è in assoluto il più ricco di scadenze fiscali anche perché riprende l’attività di riscossione e notifica di nuove cartelle esattoriali da parte dell’Agenzia delle entrate. Ivrea (To). Suicida in carcere l’uomo che a Carmagnola uccise moglie e figlio di Massimo Massenzio Corriere della Sera, 27 settembre 2021 Si è suicidato nel carcere di Ivrea Alexandro Riccio, il rappresentante di commercio di Carmagnola che, lo scorso 29 gennaio, aveva ucciso la moglie Teodora Casasanta, psicologa 38enne e il figlio Ludovico, di appena 5 anni. Dopo averli massacrati nel sonno con 23 coltellate, infierendo sui corpi anche con un cavatappi, una cornice e una bottiglia, Riccio si era lanciato nel vuoto dal balcone della sua casa di via Barbaroux, ma era sopravvissuto allo schianto. Aveva riportato diverse fratture ed era stato arrestato dai carabinieri della compagnia di Moncalieri. Durante la sua detenzione, anche nel repartino detenuti delle Molinette e poi nella casa circondariale di Torino, Riccio aveva manifestato più volte l’intenzione di farla finita. Secondo il suo legale, l’avvocato Giuseppe Lopedote, ne aveva parlato anche durante i colloqui con gli psichiatri e stava per essere sottoposto a una perizia psichiatrica. Nella notte tra sabato e domenica Riccio si è tolto la vita e sembra che abbia utilizzato i pantaloni della tuta per impiccarsi. Alcuni particolari della vicenda devono essere ancora approfonditi e la Procura di Ivrea ha aperto un’inchiesta. A scatenare la furia omicida di Riccio, nella notte fra il 28 e il 29 gennaio, era stato un violento litigio con la moglie, decisa a porre fine al suo burrascoso rapporto con il marito. I due si erano già separati due anni prima e Alexandro aveva avuto una breve relazione con un’altra donna, ma poi la coppia si era rappacificata. A gennaio, però, il matrimonio era entrato definitivamente in crisi e l’assassino non riusciva ad accettarlo. Con ogni probabilità Teodora aveva intuito i primi segnali di squilibrio e voleva lasciare quell’uomo al più presto, per proteggere anche Ludovico. Ma non ne ha avuto il tempo. All’alba del 29 gennaio, dopo il massacro, Riccio ha scritto a mano un biglietto, poi ritrovato sul tavolo. Senza mai chiedere perdono parlava del suo “rammarico” per la fine del suo matrimonio e della decisione di sterminare la sua famiglia e di suicidarsi: “Porterò con me mia moglie e mio figlio”. Roma. “La giustizia riparativa, l’esperienza del ricucire” di Andrea Ossino La Repubblica, 27 settembre 2021 Il Tribunale dei minori e le reti sociali a confronto. L’intento è quello di coinvolgere la società civile nel ricomporre gli strappi prodotti dai reati. Lunedì 27 settembre una giornata di riflessione e d’incontro tra associazioni e diverse istituzioni per valutare il percorso avviato per il recupero di tanti ragazzi attraverso l’impegno attivo all’interno della comunità. Quando la giustizia e il terzo settore si incontrano, nasce la possibilità di tracciare una strada. Se poi a scendere in campo è la giustizia che si occupa dei minori, vengono elaborati piani e progetti per offrire ai più giovani di interrompere e cambiare radicalmente quel percorso che li ha portati a compiere scelte sbagliate e a trovarsi faccia a faccia con la legge. Lunedì 27 settembre si parlerà proprio di questo. Di una “giustizia riparativa che diventa pratica territoriale, rispondendo alla domanda di relazione e di comunità che affianca la ricerca di giustizia, propone alle persone un nuovo modo di pensarsi insieme, consente di scoprire un’appartenenza attiva alla comunità”. Non è un caso se la locandina dell’evento evidenzia un virgolettato preciso: “I laboratori Ago e Filo - La giustizia riparativa, l’esperienza del ricucire”. Perché l’intento è quello di “coinvolgere la società civile nel ricucire gli strappi prodotti dai reati”. Nella giornata conclusiva di un lungo percorso che ha visto l’”Istituto per la mediazione sistemica” collaborare con diverse associazioni e istituzioni, tra cui il Tribunale per i Minorenni di Roma, interverranno i vertici del centro di giustizia, la direttrice dell’Ussm e i rappresentanti di IsMes. Ad aprire i lavori sarà la dottoressa Alida Montaldi, presidente del tribunale dei Minori. E la giornata proseguirà tra dibattiti, conversazioni, letture, laboratori in diretta dall’accademia popolare antimafia e dei diritti e proiezione di video. Una giornata per sottolineare l’importante percorso svolto, per rilanciare la pratica della “giustizia riparativa”, di cui i magistrati che si occupano di minori sono stati pionieri. Lecce. In carcere per aver rubato una bicicletta viene assolto dopo 15 mesi di Francesco Oliva La Repubblica, 27 settembre 2021 “È paraplegico. Furto impossibile”. Dietro le sbarre da 15 mesi per il furto di una bicicletta. Daniele Leotta, 44enne di Lecce, in tutto questo tempo si è sempre professato innocente. Dal 2012, infatti, è paraplegico. Lo attestano le carte dell’ospedale e della commissione che si esprime sulle invalidità. Ha difficoltà serie a deambulare e, per le sue condizioni fisiche, non potrebbe mai e poi mai inforcare una bicicletta e pedalare come una persona normale. Peraltro, negli ultimi mesi le sue condizioni di salute si sono ulteriormente aggravate: si accompagna con delle stampelle e utilizza anche una sedia a rotelle. Il 16 giugno del 2020, però, Leotta finisce in carcere per il furto di una bicicletta del valore di circa 200 euro, rubata in via Archimede, a Lecce. Un luogotenente dei carabinieri di Lecce, visionando le immagini delle telecamere di videosorveglianza nel corso delle indagini, non ha dubbi: in sella a quella bicicletta c’è proprio Leotta che, peraltro, abita nelle vicinanze. Per il 44enne, incartata la richiesta di arresto, si aprono le porte del carcere. O meglio si riaprono. L’uomo, infatti, si trovava ai domiciliari per altri reati e, in virtù della nuova notizia di reato, il tribunale di sorveglianza aggrava la misura con quella in carcere. In aula, con l’avvio dell’istruttoria, l’avvocato Raffaele Benfatto deposita una corposa documentazione. Carte ufficiali - con tanto di timbro dell’ospedale e della commissione per l’accertamento delle invalidità - per dimostrare senza se e senza ma le gravissime patologie che impedirebbero a Leotta un’agevole deambulazione da ormai quasi 10 anni. Nonostante una forte somiglianza con la persona ripresa dalle telecamere, la giudice del tribunale di Lecce, Annalisa De Benedictis, ha assolto l’imputato con formula piena, per non aver commesso il fatto. “Appare quanto meno inverosimile - si legge nelle motivazioni della sentenza - che Leotta nelle condizioni di grave compromissione deambulatoria possa aver condotto una bicicletta e nell’incertezza probatoria, in considerazione degli apporti documentali difensivi, si ritiene che l’unica decisione possibile sia quella assolutoria”. Caso giudiziario chiuso? Per nulla. Perché Leotta ha trascorso un anno e tre mesi dietro le sbarre da innocente e, nel frattempo, le sue condizioni fisiche si sono ulteriormente aggravate. Per questo, non appena la sentenza diventerà definitiva (nei prossimi 90 giorni infatti la procura potrebbe presentare appello) verrà valutata la richiesta di un indennizzo per ingiusta detenzione. Nuoro. L’arte per sopravvivere al carcere di Mauro Piredda La Nuova Sardegna, 27 settembre 2021 “Risorse vitali”, le opere dei detenuti in una mostra allestita al circolo Sa Bena. Resterà aperta fino al 2 ottobre, la mostra “Risorse vitali” le cui “forme espressive dalla reclusione” (questo il sottotitolo) possono essere visitate nello spazio del circolo Sa Bena che l’ha promossa insieme all’associazione ScartaBellArte. Le opere d’arte esposte - è questo il tratto che le contraddistingue al di là della loro bellezza - sono state create da persone private della loro libertà, recluse dentro istituzioni totalizzanti come il carcere e il manicomio giudiziario. E l’iniziativa prova a dare una risposta alla seguente domanda: “Quali sono le energie a cui ricorrono i detenuti per sopravvivervi?”. “La creatività - spiegano i promotori - sembra essere una delle risorse più efficaci per resistere e reagire alla privazione della libertà e a condizioni mortificanti e, spesso, mortali: disegnare, dipingere, scrivere per affrontare la sofferenza conservando con tenacia la propria umanità, pur con orizzonti ristretti”. La mostra “Risorse vitali” propone una selezione dell’”Archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata” della cooperativa “Sensibili alle foglie” che dal 1990 raccoglie produzioni e materiali di reclusi, che oggi comprende oltre 1.200 opere. “L’obiettivo - proseguono - è quello di rompere l’isolamento sociale della reclusione, costruendo occasioni di incontro tra i linguaggi espressivi emersi dalla solitudine di una cella e i cittadini, sensibili ai diritti delle persone, che immaginano una dimensione solidale della società. Ma più in generale la speranza è quella di sollecitare la consapevolezza delle risorse espressive alle quali ciascuno può attingere per prendersi cura di sé, della propria esperienza di vita e instaurare una diversa relazione comunicativa con gli altri”. Tra i nomi degli artisti possiamo notare quelli di Franca Settembrini, internata a soli 11 anni in ospedale psichiatrico (scoprì la pittura nel 1976 nel laboratorio di attività espressive La Tinaia, creato nel 1964 in seno alla struttura), di Fernanda Farias de Albuquerque, nata col nome di Fernando in Brasile e meglio conosciuta come Princesa (la stessa protagonista della canzone di De André) e Mario Trudu di Arzana, morto due anni fa a Oristano dopo 41 anni di carcere (condannato all’ergastolo ostativo perché ritenuto tra i responsabili di due sequestri). Sarà possibile visitare la mostra (in via San Martino) fino al 2 ottobre, con i seguenti orari: domenica e lunedì dalle 17 alle 23:30; martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato dalle 11-23:30. Info e prenotazioni: scartabellarte@gmail.com oppure 3299694001. Detenuti di Spoleto e Rebibbia nel film dell’iraniano Karimi Il Messaggero, 27 settembre 2021 “Open the Door” presentato all’ambasciata a Teheran. È stato interamente ripreso nel carcere maschile di massima sicurezza di Spoleto e in quello femminile di Rebibbia, il film-documentario “Open the Door”, diretto dall’eclettico artista iraniano Shahram Karimi e prodotto da Fiamma Arditi per il Festival Senza Frontiere. Il progetto, proiettato nella residenza dell’Ambasciatore italiano a Teheran, ripercorre le vicende quotidiane, le speranze, i sogni e le fantasie dei detenuti, che diventano i protagonisti di una pellicola a metà tra il documentario e un’autobiografia collettiva. Filo conduttore dei due filmati, la messa in scena dell’ultima cena di Leonardo da Vinci, in cui i detenuti e le detenute ricreano le immagini vivide di Gesù Cristo e degli apostoli. Intervenuto alla cerimonia, il regista ha raccontato ai partecipanti i momenti più significativi passati con i detenuti durante le riprese del film. Come ha indicato un detenuto, ha detto il regista, il carcere può essere un luogo di crescita personale, se si riesce a dare ascolto all’umanità dentro che esiste in ognuno di noi. Nato a Shiraz nel 1957, Shahram Karimi è anche un apprezzato pittore e poeta, che, dal 1988, vive e lavora dividendosi tra Germania, Stati Uniti e Iran. In Italia ha lavorato, nel 2006, con le gallerie “Il gabbiano” di Roma e “Noire” di San Sebastiano di Torino. Ha partecipato alla fiera d’arte di Bologna nel 2007 e 2009 e, da ultimo, ha collaborato con il Festival Senza Frontiere di Roma. Dopo il Covid, l’Italia ha bisogno di resilienza anche contro la solitudine di Mario Giro Il Domani, 27 settembre 2021 Molta gente viveva già da sola ma la solitudine aggiunta dalle regole del social distancing ha aumentato i disagi. Non bisogna dimenticare che la solitudine è sempre una malattia in più, che provoca sofferenze e moltiplica le conseguenze psichiche. Queste ultime si traducono poi in difficoltà materiali ed esistenziali. Presso la presidenza del Consiglio dovrebbe essere messa in piedi una struttura di missione apposita che coordini nei vari ministeri delle cellule di riflessione e proposta su tale delicata questione. Ciò è necessario per evitare che alla già grave crisi economica si aggiunga quella psico-sociale. C’è un aspetto delle conseguenze della pandemia che non va sottovalutato ma che anzi deve diventare una priorità del governo: l’impatto psicologico e mentale che tutto ciò ha avuto e sta ancora provocando. Vi sono numerose persone che hanno molto sofferto durante il lockdown a causa dell’obbligo di isolamento e ciò può intaccare anche la salute mentale. Molta gente viveva già da sola ma la solitudine aggiunta dalle regole del social distancing ha aumentato i disagi. Non bisogna dimenticare che la solitudine è sempre una malattia in più, che provoca sofferenze e moltiplica le conseguenze psichiche. Queste ultime si traducono poi in difficoltà materiali ed esistenziali che possono diventare molto serie. L’impatto sui fragili è da verificare con attenzione su tutta la popolazione ad iniziare dai fragili, come i disabili, i malati psichici ma anche i Neet (i ragazzi che non studiano e non lavorano), come fa osservare l’edizione di quest’anno del rapporto giovani dell’Istituto Toniolo. Abbiamo tutti notato il bisogno di sfogo (tradotto talvolta in risse) degli adolescenti a lungo trattenuti dietro le mura di casa. Allo stesso modo si percepiscono le conseguenze della chiusura di stadi e discoteche, luoghi in cui far prorompere tanta energia repressa. Anche se queste chiusure sono necessarie, occorre fare un’analisi precisa delle conseguenze per capire come porvi creativamente rimedio. Presso la presidenza del Consiglio dovrebbe essere messa in piedi una struttura di missione apposita che coordini nei vari ministeri delle cellule di riflessione e proposta su tale delicata questione. Ciò è necessario per evitare che alla già grave crisi economica si aggiunga quella psico-sociale. Guardiamo i dati dell’istituto Toniolo: se si sommano assieme i tassi di descolarizzazione e di assenza di formazione universitaria o tecnica, con quelli dell’abbandono del progetto di metter su famiglia, ne risulta un quadro preoccupante per i giovani tra i 18 e i 34 anni. Il rapporto spiega anche come, con l’emergenza sanitaria, molte donne abbiano contemporaneamente deciso di smettere di cercare lavoro e di tentare di avere un figlio. Per quanto riguarda gli anziani siamo ancora nel pieno della dialettica tra RSA, case di riposo e cittadini: non ovunque è concesso il diritto di visita ai parenti; quando lo è gli orari sono spesso improbabili (come la mattina quando la gente lavora), per renderlo de facto impraticabile. Il risultato è l’aumento della solitudine tra gli anziani ospiti, la quale da sola è in grado di ridurre la vita. Un fatto è incontrovertibile: lasciati soli si muore prima. Infine anche sullo smart-working c’è da fare una riflessione attenta: per molte persone i rapporti interpersonali sul luogo di lavoro sono l’unica forma di relazione e socialità davvero vissute. Iniziare a limitare la presenza può avere come contraccolpo l’acutizzarsi di comportamenti di isolamento, forme psichiche e simili patologie. Per tutto il paese il recovery non deve essere soltanto materiale ma anche relazionale, conviviale e psicologico. L’efficacia della tutela antidiscriminatoria a favore delle persone con disabilità di Alessandro Gerardi* Il Dubbio, 27 settembre 2021 Essere disabili gravi oggi in Italia vuol dire diventare ultimi, significa essere lasciati soli con la propria malattia e privati dell’assistenza, dei sostegni e soprattutto della sfida di essere autonomi. Coloro che non hanno la fortuna di avere molti soldi e una famiglia (giovane) che possa prendersi cura di loro, dopo anni di lotte e di sofferenza si vedono purtroppo ridotti allo stremo, e poi smettono di reclamare i propri diritti, tra cui quello di vivere in città senza barriere architettoniche. La persona con disabilità resta, infatti, dal punto di vista sociale, un soggetto debole perché troppo spesso non riesce a spostarsi da un luogo a un altro a causa della presenza delle barriere architettoniche che non le permettono di fruire, come tutti gli altri cittadini, di spazi ed edifici pubblici, o di varcare l’ingresso di un esercizio commerciale o di un cinema, né tanto meno di salire su un mezzo di trasporto o di accedere alla spiaggia e al mare, all’interno di un edificio scolastico e in tantissimi altri luoghi. Le decine di iniziative legali promosse dall’Associazione Luca Coscioni in tutti questi anni dimostrano che questa situazione di diffusa illegalità, o di ‘discriminazione legalizzata’, può essere contrastata solo grazie agli strumenti offerti dall’azione civile antidiscriminatoria. Eppure il nostro Paese vanta una delle più avanzate normative a livello internazionale in ambito di tutela dei diritti delle persone con disabilità, così come imposto dall’art. 3 della nostra Costituzione che riconosce espressamente la pari dignità di tutti i cittadini e la loro uguaglianza davanti alla legge, senza alcuna distinzione basata sulle loro condizioni personali e sociali. Non a caso l’Italia, con Legge n. 18 del 3 marzo 2009, è stato uno dei primi Paesi a ratificare la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ciò proprio al fine di promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti e di tutte le libertà da parte di quanti, portatori di minorazioni fisiche, mentali o sensoriali a lungo termine, hanno il diritto di partecipare in modo pieno ed effettivo alla società. Ancora oggi, però, a fronte di questo avanzatissimo piano normativo, le persone con disabilità devono ricorrere in Tribunale per vedere riconosciuto il proprio diritto ad una mobilità autonoma e senza barriere. Secondo i dati Istat in Italia ci sono 3 milioni di persone diversamente abili, secondo il Censis sarebbero addirittura più di 4 milioni. La statistica quindi ci dice che ogni sei individui abili, c’è una persona con disabilità. Eppure quando siamo su un treno, per strada, al mare o al ristorante e ci guardiamo intorno, quasi mai li incontriamo. Dove sono tutte queste persone di cui parla l’Istat? Ci sono, esistono, ma non si vedono perché non escono, e non escono perché i luoghi sono inaccessibili e le nostre città piene di barriere architettoniche. L’eliminazione delle barriere materiali e sensoriali è di fondamentale importanza anche perché riduce l’handicap e, di conseguenza, alleggerisce l’intervento meramente assistenziale degli enti locali, con ciò arrecando un beneficio a tutti, a prescindere dalle condizioni di salute di ciascuno di noi. Le barriere architettoniche negli spazi urbani e negli edifici pubblici costituiscono dunque un problema di rilevanza sociale che comporta, per tutte le persone disabili, ricadute negative in termini di inclusione sociale, economica e lavorativa. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la mancata rimozione di una barriera sensoriale o materiale da parte di un privato o di una amministrazione pubblica, integra gli estremi della condotta discriminatoria in danno delle persone con disabilità. Per questi motivi il legislatore nel 2006 ha introdotto nel nostro ordinamento la legge n. 67, poi modificata dal successivo art. 28 D.lgs n. 150/2011, mettendo a disposizione delle singole persone con disabilità - e delle Associazioni che ne rappresentano e tutelano gli interessi un insieme di regole e disposizioni di carattere speciale a mezzo delle quali è stato conferito loro il diritto di promuovere un’azione civile di fronte al Tribunale al fine di far cessare la condotta discriminatoria attraverso la rimozione della barriera architettonica. Negli ultimi anni, proprio grazie alle opportunità offerte da questo procedimento antidiscriminatorio, l’Associazione Luca Coscioni ha promosso numerose cause in diversi uffici giudiziari, citando in giudizio non solo soggetti privati, ma anche enti e amministrazioni pubbliche, fondazioni e società di trasporto, riuscendo ad ottenere la loro condanna per condotta discriminatoria. Grazie a queste pronunce immediatamente esecutive i soggetti citati in giudizio sono stati obbligati dai Tribunali a realizzare importanti opere volte a garantire la piena accessibilità dei disabili all’interno dei mezzi di trasporto e, in generale, di edifici, spazi e luoghi pubblici. La tutela antidiscriminatoria così come elaborata dal Legislatore è dunque un agile e formidabile strumento per promuovere pretese di carattere individuale e collettivo e per ovviare alle inadempienze dei soggetti privati e al funzionamento insoddisfacente delle amministrazioni pubbliche. Uno strumento che si connota per un vantaggio strutturale di non poco conto, visto e considerato che diversamente da un sindaco o da un assessore, il Giudice è quasi sempre tenuto a fornire una risposta. Sappiamo infatti che i circuiti politici tradizionali tendono ad avere livelli modesti di rendimento, fatto questo che indebolisce la capacità di risposta delle strutture amministrative. È pertanto più probabile che chi ha pretese insoddisfatte o vanta aspettative frustrate decida di percorrere altre vie, mettendo a frutto le potenzialità del procedimento giudiziario delineato dalla Legge n. 67/2006. Del resto anche il sistema giudiziario, proprio come il più ampio sistema politico in cui è inserito, processa domande che provengono dall’ambiente, ma nel farlo dispone di un vantaggio strategico: è più aperto di molti altri apparati istituzionali. E per accedervi occorrono in genere meno risorse (ad esempio canali privilegiati di comunicazione) di quelle richieste per influire sul processo legislativo o su quello amministrativo. Ogni persona con disabilità infatti può rivolgersi al Tribunale (formalmente il singolo non ha bisogno del sostegno di un gruppo o di un movimento politico per rivolgersi all’autorità giudiziaria), e può farlo, in questo tipo di procedimenti, con costi contenuti, con l’ausilio di una associazione di categoria e anche senza l’assistenza di un difensore. E una volta attivato l’iter giudiziario, il giudice è tenuto comunque a fornire una risposta. Favorevole o meno che sia, una risposta è spesso più di quanto altre istituzioni possano, o intendano, dare. *Consigliere generale Associazione Luca Coscioni Eutanasia legale, perché ora ci preoccupiamo della nostra fine di Giampiero Rigosi Il Domani, 27 settembre 2021 Il fatto che un giorno non esisteremo più, almeno fisicamente, è un pensiero che si tende a rifuggire. Probabilmente il grande successo del thriller è dovuto anche a questo. Un modo per spostare all’esterno uno sgomento interiore: ettolitri di sangue finto per esorcizzare il timore di veder scorrere sangue vero - il nostro. Proprio come certe fiabe perturbanti che si raccontano ai bambini e che consentono loro di dare un volto a delle inquietudini interne, rendendole così meno spaventose. La cosa certa è che le persone non amano pensare alla morte, e in particolare alla propria. Eppure il numero di italiani che ha firmato per richiedere il referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia ha superato il milione. Da questa risposta, risulta evidente che un alto numero di cittadini è sensibile a questo tema. Vale la pena di chiedersi il motivo di questa forte adesione. Siamo più vecchi - Sicuramente l’aumento del numero degli anziani, e di conseguenza delle patologie invalidanti legate alla senescenza, così come l’incremento dei tumori e delle malattie degenerative, sono alcune delle ragioni. Chi è stato così fortunato da non avere mai avuto a che fare con un amico o un parente in condizioni di drammatica sofferenza, fisica e morale? La potenza della medicina e della farmacologia ha portato a una crescita nel numero di pazienti che giungono a fasi molto avanzate - e spesso anche molto dolorose - della malattia. E per molti che si trovano in una condizione del genere può essere di conforto il pensiero di poter evitare le fasi finali e più strazianti. Come ha ben spiegato in un video Laura Santi, affetta da sclerosi multipla, si tratta di un’uscita di emergenza che forse non si imboccherà mai, ma che sapere possibile può rendere più facile affrontare la malattia di cui si soffre. Soltanto un diritto - È importante infatti ricordare che la libertà di scegliere l’eutanasia sarebbe un diritto e mai, in nessun caso, un’imposizione: ognuno sarebbe libero di decidere per sé come crede giusto, in base alle proprie idee, alla propria fede e al proprio sentire. Alcuni ritengono che in caso di vittoria del referendum che intende abolire parzialmente l’articolo 579 del codice penale si arriverebbe a un risultato ambiguo e contraddittorio. Questo referendum, come ogni altro in Italia, può essere solo abrogativo, ma intende esortare una normativa in merito che ancora manca, nonostante la Corte di Cassazione abbia più volte sollecitato il Parlamento a legiferare in proposito. La materia è delicata e complessa, e certo non è semplice pensare una legge che disciplini il diritto all’eutanasia. Eppure la difficoltà di stabilire regole, confini e adeguate verifiche non può essere una giustificazione a un’immobilità che suona come un insulto ai tanti che soffrono e, non potendo sperare in una guarigione, chiedono il diritto di poter mettere fine alle proprie sofferenze. L’accorato appello a favore del referendum sull’eutanasia di Laura Santi si va infatti ad aggiungere a quello di tante persone affette da gravi malattie degenerative o inguaribili. Le testimonianze di persone sofferenti che, come Laura, si esprimono a favore della libertà di scelta sono numerose. Non altrettanto quelle contrarie. Il motivo è evidente. Se una persona affetta da una patologia incurabile, o che si trova in condizioni di grave e irreversibile disabilità fisica, può legittimamente rivendicare il diritto di decidere per il proprio fine vita, ha meno senso, per chi la pensi diversamente, affermare: io, anche se soffro e non ho alcuna speranza di guarigione, voglio vivere fino all’ultimo istante, e pretendo che tutti coloro che si trovano in una condizione simile alla mia facciano lo stesso. Obiezioni molto teoriche - Le voci che si levano a contrastare questo referendum sono infatti, per la maggior parte, non di natura concreta e personale, ma teorica. Una di queste, sicuramente la più forte, è quella di certe parti della Chiesa. In un suo recente intervento monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mette in guardia da una concezione “vitalistica” della vita, dove “tutto ciò che non corrisponde a una certa condizione “vitale”, “efficiente”, della salute, non è degno e può essere eliminato”. E aggiunge che “già da oggi è possibile morire senza essere torturati dal dolore”. Certo, le cure palliative sono importanti, perché aiutano a tollerare sofferenze altrimenti insopportabili, ma i farmaci che permettono di non essere sopraffatti dal dolore finiscono per ottundere, e molti preferiscono essere lucidi nel momento del distacco dai propri cari, anziché andarsene in uno stato di parziale o totale incoscienza. Scrive ancora monsignor Paglia: “Una lode meritano coloro - sono molti e non fanno notizia - che stanno accanto a tanti malati terminali o in gravi condizioni, senza abbandonarli, sentendo degna anche quella vita”. Come non essere d’accordo? È auspicabile che accanto a ogni persona sofferente ci sia qualcuno che gli dà vicinanza e conforto. Però non vedo alcuna contraddizione tra il prendersi cura di un malato terminale e il lasciarlo libero di scegliere l’eutanasia. Accompagnare una persona cara nel periodo finale della sua vita può significare dargli sostegno e vicinanza, così come aiutarlo nell’andarsene, quando ritiene che sia arrivato il momento di farlo. Migranti. “Senza pregiudizi e senza paure stiamo vicino a chi è più vulnerabile” redattoresociale.it, 27 settembre 2021 Le parole di Papa Francesco in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato: “Costruire un mondo più inclusivo che non escluda nessuno”. Intervista al presidente della Cei, Bassetti: “Il virus dell’individualismo genera processi di disgregazione e ci rende incapaci di disegnare un futuro degno per tutti” “È necessario camminare insieme, senza pregiudizi e senza paure, ponendosi accanto a chi è più vulnerabile: migranti, rifugiati, sfollati, vittime della tratta e abbandonati. Siamo chiamati a costruire un mondo sempre più inclusivo, che non escluda nessuno”. Sono le parole di papa Francesco, che dopo la preghiera dell’Angelus domenicale ha ricordato l’annuale ricorrenza della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che quest’anno ha per tema “Verso un noi sempre più grande”. Il Papa ha affermato di unirsi a quanti nelle varie parti del mondo celebrano la Giornata e ha rivolto il suo saluto alle diverse comunità presenti in Piazza San Pietro, ricordando espressamente l’iniziativa che si è svolta a Loreto, come pure l’impegno, fra gli altri, della Caritas Italiana, dell’Ufficio Migrantes della Diocesi di Roma e del Centro Astalli, che ha ringraziato tutti “per il vostro impegno generoso”. Ai fedeli presenti il papa ha chiesto di avvicinarsi ad un monumento presente in piazza San Pietro, raffigurante una barca con i migranti: “Vi invito a soffermarvi sullo sguardo di quelle persone e a cogliere in quello sguardo la speranza che oggi ha ogni migrante di ricominciare a vivere”, ha affermato. “Verso un ‘noi’ sempre più grande” è il titolo che Francesco aveva scelto per l’annuale Giornata, con un richiamo evidente all’enciclica “Fratelli tutti”. Il papa nel suo messaggio invitava a “camminare insieme verso un noi sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso”. Il presidente della Cei: “Il migrante non è un nemico” - Fra i materiali pubblicati per l’occasione dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, anche un’intervista al presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, curata da Raffaele Iaria. Eccola di seguito. Il messaggio di papa Francesco è un invito rivolto a tutti. Cosa significa per la Chiesa italiana? È un appello a pensarci sempre più come famiglia umana, vedendo in ciascuno - soprattutto negli ultimi e nei bisognosi - un fratello. La pandemia ci ha ricordato, in modo inequivocabile, che nessuno si salva da solo e che, come dice il Papa, siamo tutti sulla stessa barca. Dobbiamo fare tesoro di quello che questa terribile prova che stiamo ancora vivendo ci ha insegnato, impegnandoci a ogni livello per combattere il virus dell’individualismo, che genera processi di disgregazione e ci rende incapaci di disegnare un futuro degno per tutti. Ogni uomo e donna, dovunque si trovi, è membro della società. Questo non sempre è realizzato anche in Italia. Come accogliere nella Chiesa per non escludere nessuno? Innanzitutto mettendo al centro la persona umana, che è creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, a prescindere dalla sua condizione sociale, dalla provenienza e dal colore della pelle. In secondo luogo, sconfiggendo la paura che paralizza, fa perdere la speranza, porta a stare sulla difensiva: avere paura significa chiudersi, alzare muri, togliere terreno a quel “noi sempre più grande” di cui parla il Papa. Infine, bisogna ricordare che l’inclusione non è solo una questione sociale, progettuale, educativa ma è un fatto che affonda le sue radici nella mistica e nell’umanesimo cristiano. Nessuno può dirsi cristiano se esclude il proprio fratello. Che vuol dire una Chiesa che esce all’incontro senza pregiudizi e paure? È una Chiesa del Vangelo sine glossa, che è capace di uscire da sé stessa, dalle proprie zone di comfort per andare a curare chi è ferito, a cercare chi è smarrito, a sorreggere chi ha bisogno di aiuto. Proprio come il Buon Samaritano che non ha avuto paura di avvicinarsi all’altro, di chinarsi su di lui e di farsi prossimo al giudeo ferito, andando oltre qualsiasi barriera storica e culturale. Gesù ci invita a fare lo stesso, a superare la diffidenza per farci vicini a chiunque si trovi in difficoltà. Come essere vicini a chi oggi soffre a causa di guerra e povertà che arrivano sulle nostre coste? Dobbiamo imparare a riconoscere in chi arriva sulle nostre coste, a volte dopo essere stato strappato alla morte in mare, il volto di Cristo. Bisogna scrollarsi di dosso il pregiudizio che porta a etichettare il migrante come un problema o, peggio ancora, un nemico che viene a toglierci qualcosa, un usurpatore, un’insidia. Chi scappa dalla guerra, dalla fame, dalla violenza è un fratello e sulla nostra capacità di amarlo, accoglierlo, proteggerlo saremo giudicati. Tra le opere di giustizia infatti vi è anche quella dell’accoglienza nei confronti degli stranieri. La Chiesa italiana è impegnata anche sul fronte dei “corridoi umanitari”… Tra gli ultimi corridoi umanitari della CEI sono giunte in Italia, 43 profughi dal Niger. Qualche mese fa altre famiglie sono giunte dalla Giordania, in fuga dalla martoriata Siria, dall’Iraq e dal Pakistan dove hanno subito una feroce persecuzione religiosa in quanto cristiani convertiti. Sono solo le ultime, in ordine di tempo, di una serie di operazioni umanitarie che la Chiesa che è in Italia, insieme al Governo e all’Unhcr, ha voluto assicurare in questi anni a tante persone e famiglie che si trovano in condizione di particolare vulnerabilità. Attraverso il lavoro della Chiesa Italiana sul territorio è stato possibile trasferire in sicurezza oltre mille profughi dalla Turchia, Giordania, Etiopia e Niger. Può sembrare una goccia in mezzo al mare, di fronte al grande bisogno di sicurezza che si registra in tutto il mondo, ma si tratta di uno sforzo capace di cambiare il paradigma dell’immigra zione nel nostro Paese e in Europa”. Come formare i sacerdoti su questi temi? Don Primo Mazzolari, grande sacerdote del Novecento, in uno dei suoi scritti, ricordava che “si cerca per la Chiesa un uomo capace di vivere insieme agli altri, di lavorare insieme, di piange re insieme, di ridere insieme, di amare insieme, di sognare insieme”. “Insieme” è la parola chiave, l’orizzonte che deve guidare il pensiero e l’azione di ogni cristiano e, dunque, dei sacerdoti. “Sogniamo - dice Papa Francesco nell’Enciclica Fratelli tutti - come un’unica umanità?, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli”. Il sacerdote per primo deve esse re capace di condividere, di stare con gli altri, di mettere sé stesso a servizio del prossimo. Non c’è evangelizzazione senza fraternità. Lei recentemente ha inviato un messaggio, attraverso Rai Italia, ai nostri emigrati italiani: come la Chiesa segue questa “porzione di popolo di Dio”? Come una mamma che ha cura dei suoi figli, anche di quelli che abitano lontano, così la Chiesa è vicina ai tanti italiani - circa 5,5 milioni - che vivono all’estero attraverso i missionari, i religiosi e le religiose, i laici che dedicano il loro tempo e le loro energie nelle Missioni Cattoliche di Lingua Italiana coordinati dalla Fondazione Migrantes. La cura di ogni persona migrante, qualsiasi sia la direzione del suo andare e il passaporto in suo possesso, è sempre doverosa. Italiani più accoglienti. Ora l’immigrazione fa meno paura del Covid di Ilvo Diamanti La Repubblica, 27 settembre 2021 Gli sbarchi proseguono, ma la percezione del fenomeno è cambiata. Meno richieste di respingimenti e più favorevoli allo Ius soli. Oggi gli immigrati non fanno più paura, a quanto suggeriscono i dati di un sondaggio recente di Demos. Suscitano, comunque, un grado di preoccupazione molto minore rispetto a qualche anno fa. Basti ricordare quando, nell’autunno 2017, venne ritirato lo Ius Soli, il progetto di legge che prevede il riconoscimento della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia. Perché il consenso verso questa legge era calato sensibilmente dopo l’estate di quell’anno. E i promotori dell’iniziativa- i partiti di centrosinistra e soprattutto il PD - temevano di perdere consensi, in vista delle elezioni previste - e avvenute - pochi mesi dopo. Nel marzo 2018. D’altronde, la questione migratoria era stata utilizzata come argomento di campagna elettorale permanente dalla Lega di Matteo Salvini. Che ne aveva tratto evidente beneficio. Anche perché, dall’altra parte, si era preferito rinunciare a un sostegno aperto verso la logica dell’accoglienza. E dell’integrazione. Che non significa aprire le porte a tutti senza regole e controlli. Al contrario. Perché per integrarsi occorre accettare le norme e i valori del mondo in cui si entra. Questo atteggiamento prudenziale, peraltro, non aiutò il PD. Al contrario, visto l’esito del voto politico nel 2018. Oggi, però, l’atteggiamento prevalente degli italiani sembra cambiato. E i dati del sondaggio condotto da Demos ne forniscono una rappresentazione evidente. In primo luogo, il peso nella popolazione di quanti ritengono che gli immigrati costituiscano un pericolo per l’ordine pubblico e per la sicurezza si è ridimensionato profondamente. Quasi dimezzato. Dal 46%, nel 2017, al 27% attuale. Allo stesso tempo, è tornato a crescere il favore per l’accoglienza, verso profughi e immigrati. Condiviso dal 52% degli italiani intervistati. Mentre si è ridimensionata la domanda di respingimenti. Anche rispetto alle conseguenze della situazione in Afghanistan, come è emerso dal sondaggio pubblicato nei giorni scorsi su Repubblica, il “possibile arrivo di profughi in Italia” risulta l’ultima delle preoccupazioni espresse dagli italiani. Come si può spiegare una svolta così profonda, nelle opinioni dei cittadini? Quali sono le cause di un mutamento di approccio tanto significativo? In primo luogo, è cambiata la percezione di questo fenomeno, in precedenza, enfatizzata da polemiche di segno politico. Peraltro, il flusso degli immigrati verso l’Italia continua ad essere elevato. In sensibile crescita nell’ultimo anno, per effetto del Covid che ha colpito, pesantemente, anche l’Africa. Ma, se nel 2018 le persone sbarcate in Italia erano quasi 200 mila, nell’ultimo anno sono stimate intorno a 50 mila (dati ISPI). È, inoltre, cresciuta la consapevolezza di quanto gli immigrati siano una componente sociale necessaria alla nostra vita sociale. E alla nostra economia. Vi sono attività ormai svolte, in larga prevalenza dagli immigrati. I lavori manuali nelle imprese, industriali e non solo, sono svolti prevalentemente - se non esclusivamente - da stranieri. Non certo dai nostri (pochi) giovani. Confagricoltura, ad esempio, nei giorni scorsi, ha manifestato forti preoccupazioni per la carenza di manodopera, “mentre si entra nel vivo della stagione della raccolta e della vendemmia”. In ogni caso, è difficile dimenticare come, in una società sempre più vecchia, come la nostra, le attività di assistenza domestica agli anziani siano svolte da donne straniere, provenienti, soprattutto, dai Paesi dell’Est europeo. Infine - e, forse, anzitutto - “la paura degli altri” è stata oscurata dalla paura di “un altro” invisibile. Senza volto e senza colore. Prodotto e riprodotto da noi. Il Virus. Non per caso l’approvazione delle politiche rivolte ai respingimenti è calata sensibilmente dopo il 2019. Quindi, dopo l’irruzione del Covid nella nostra vita. Queste ragioni - e non solo - hanno contribuito a ri-definire l’atteggiamento dei cittadini verso gli immigrati. Percepiti non solo, anzi, non più, come motivo e fonte di paura. Ma osservati, al contrario, come possibile risorsa. Comunque, come un fenomeno non più traumatico, per la nostra realtà sociale. E per la nostra vita personale. Per questa ragione hanno perduto rilievo nel dibattito politico pubblico. Tuttavia, le differenze di approccio sul tema, tra gli elettori dei partiti, resistono. E riproducono le tendenze del passato (non solo) recente. Che di-mostrano un grado di inquietudine maggiore a destra. Nella base dei Fratelli d’Italia e, ancor più, della Lega. Tuttavia, come si è detto, la questione ha perduto rilievo e centralità nell’opinione pubblica. Gli immigrati fanno meno paura di un tempo. E non si vedono. Sui media. Nel “nostro” mondo. Intorno a noi. L’importante, per questo, è operare e agire per l’integrazione. Per ridimensionare i motivi di polemica e risentimento. Per “normalizzare” il sentimento nei loro confronti. Senza attendere l’irruzione di altri virus. L’esempio francese per proteggere il diritto di difesa dalle intercettazioni di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 27 settembre 2021 Un emendamento incrementa le tutele previste dal “Code de procédure pénale”: blinda il segreto professionale degli avvocati d’oltralpe. Era solo il marzo scorso quando in Francia si infiammava il dibattito attorno allo strumento inquisitorio delle intercettazioni a seguito della condanna dell’ex Presidente Nicolas Sarkozy per fatti di corruzione e traffico di influenze. L’asserita prova veniva acquisita - almeno per il primo grado di giudizio - tramite l’ascolto delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato di fiducia, Thierry Herzog, e conseguente trascrizione delle stesse, così che potessero essere successivamente utilizzate in fase dibattimentale. A distanza di pochi mesi, in un clima di generale unanimità, l’Assemblea francese ha approvato un emendamento che incrementa le tutele previste in seno al Code de procédure pénale, andando a blindare il segreto professionale degli avvocati d’oltralpe. Cosa può insegnare all’Italia? L’esame delle contrapposte posizioni, il ministro Eric Dupond - Moretti da un lato e l’Union syndicale des magistrats dall’altro, andrà pertanto condotto con occhio critico dovendosi necessariamente procedere ad un non semplice bilanciamento di interessi: il raggiungimento della verità in sede processuale - tramite l’utilizzo anche delle intercettazioni - e la tutela del diritto di difesa e del segreto professionale dall’altro. Per quanto concerne l’ordinamento francese, la difesa di Sarkozy, nell’ambito del procedimento che l’ha visto coinvolto per fatti di corruzione e traffico di influenze, chiedeva, dinanzi alla Cassazione, l’inutilizzabilità delle intercettazioni, in quanto il loro utilizzo risulterebbe confliggente con gli articoli 6, 8 e 13 Cedu, nonché con vari articoli del codice di procedura francese inerenti alla disciplina “des interceptions de correspondances émises par la voie des communications électroniques”. Un primo argomento avanzato dalla difesa criticava il Giudice istruttore per non aver informato il Presidente dell’Ordine degli Avvocati dell’intervenuta attività di intercettazione. L’art. 100-7 del Code de procédure pénale, infatti, rappresenta una prima tutela da infiltrazioni della Magistratura inquirente nel rapporto avvocato- cliente, disponendo che nessuna intercettazione può intervenire su una linea telefonica di uno studio legale, ovvero domicilio di un avvocato, senza che prima venga informato il rispettivo Presidente dell’Ordine. Tuttavia, l’articolo si riferisce solo alla linea telefonica dell’utilizzatore, di colui che ne dispone, non anche del suo interlocutore. Sul punto la giurisprudenza francese si muove unanime e dal momento che la linea telefonica rispondente al nome di Paul Bismuth - nome falso - era stata attivata, e veniva utilizzata, dall’ex Presidente francese, non si può dire operante l’art. 100-7. Sulla linea sottoposta ad intercettazioni, infatti, l’avvocato Herzog era un semplice interlocutore. Un secondo argomento è sempre incentrato sulla violazione dei summenzionati articoli Cedu, nonché dell’articolo 100-5 del Code de procédure pénale. Quest’ultimo dispone che, a pena di nullità, la corrispondenza con un avvocato relativa all’esercizio dei diritti di difesa non può essere trascritta. La Camera Penale francese, in linea con la passata giurisprudenza, ha consentito le trascrizioni affermando che queste fossero estranee a un qualsiasi esercizio dei diritti di difesa. La disciplina codicistica e giurisprudenziale d’oltralpe non risulta troppo dissimile da quella italiana. Nel nostro ordinamento la tutela delle conversazioni telefoniche tra cliente e avvocato è affidata dal dettato dell’articolo 103 c.p.p.. Alla luce di quanto sin qui detto, i rispettivi ordinamenti accordano le medesime tutele, fatta eccezione per due aspetti. A differenza di quanto accade in Italia, ove è necessario informare l’Ordine Forense solo in ordine all’attività di ispezione e non anche di intercettazione, il Code de procédure pénale all’art. 100-7 dispone che il Presidente dell’Ordine sia informato dal Giudice Istruttore qualora intenda procedere ad attività captativa di un’utenza riferibile allo studio di un avvocato, ovvero suo domicilio. Il codice di rito francese, all’articolo 100-7, stabilisce che l’attività di intercettazione non può effettuarsi sulla linea telefonica di un avvocato o del domicilio dello stesso, senza che sia informato il Presidente dell’ordine di appartenenza. Il riferimento alla “linea telefonica” è il cavallo di Troia che in Francia consente e ha consentito, nel procedimento a carico di Sarkozy, di superare la tutela legale prevista in favore dei difensori e loro assistiti. Su quest’ultimo punto una riforma, a parere dello scrivente, appare auspicabile, non potendosi ancorare la tutela di principi, quali quello di difesa e del segreto professionale, a un aspetto meramente tecnico: la linea telefonica sulla quale si svolgono le conversazioni. Le informazioni scambiate tra cliente e proprio difensore di fiducia dovrebbero essere sempre sottoposte a tutela, per il solo fatto di essere tali, al di là di quale sia il mezzo e il luogo in cui avvengono, pur con tutti i limiti giustamente apposti dalla giurisprudenza come si vedrà infra. I risultati raggiunti dalle rispettive giurisprudenze sono pressoché concordi: la tutela non è estesa a ogni attività telefonica del difensore in quanto tale, in virtù della sua sola qualifica, ma è circoscritta alle conversazioni attinenti all’attività professionale, concernenti ossia le funzioni del suo incarico professionale di difesa (Cfr. Cour de cassation, criminelle 22 mars 2016, 15-83.205; Cass. pen. n. 55253/2016). Dello stesso avviso anche la nostra Suprema Corte, la quale afferma che “L’art. 103, comma 5, c.p.p., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, mirando a garantire l’esercizio del diritto di difesa, ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato” (Cass. pen. n. 35656/2003). In quest’ultimo caso le intercettazioni si erano rese ammissibili in quanto il legale del soggetto indagato aveva asseritamente preavvertito il suo cliente delle iniziative assunte dalle forze di polizia, fornendo consigli su come evitare la cattura e commettendo così il reato di favoreggiamento, oltrepassando l’area di tutela circoscritta dal 103 c.p.p., relativa all’esercizio delle attività difensive. La soluzione di buon senso parrebbe quella di limitare l’utilizzo delle intercettazioni “a rete”, incontrollate e senza precisi fini investigativi; nella riforma prevedere un’immunità per il ceto forense mitigata dalla locuzione “fuori dai casi di concorso nel reato” ovvero -come sopra espresso- di commissione del medesimo, sempre compiendo un giudizio ex ante sul dispiego del mezzo e non a posteriori, quando ormai l’Assistito e il suo difensore sono stati ampiamente ascoltati. Il diritto di difesa è inviolabile se compiuto nel rispetto delle norme, del Codice Deontologico e della posizione del proprio Assistito, proprio per questo la figura dell’avvocato è complessa poiché divisa dall’osservanza delle leggi, sempre, e dai doveri di difesa. *Direttore Ispeg Regeni, commissione d’inchiesta in missione a Cambridge di Giacomo Galeazzi La Stampa, 27 settembre 2021 In programma le audizioni di alcuni rappresentanti dell’ateneo inglese per il quale il ricercatore seguiva progetti in Egitto. “Nelle prossime ore, una delegazione della commissione Parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni sarà in missione a Cambridge”. Ad annunciarlo è la commissione che lavora per fare luce sulla morte del giovane ricercatore friulano avvenuta nel 2016 in Egitto. La delegazione, di cui farà parte il presidente della commissione Erasmo Palazzotto si recherà nella città inglese per svolgere in loco le audizioni di alcuni rappresentanti dell’Università di Cambridge. Nell’ambito delle attività di indagine della commissione volte ad accertare la verita’ sulla morte di Giulio Regeni, l’ufficio di presidenza ha ritenuto di “assoluta rilevanza” queste audizioni. Poi giovedì prossimo la commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni svolgerà alle 16,30 l’audizione del ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Luigi Di Maio. Giulio Regeni è morto per le torture che gli sono state inflitte nel corso di una settimana, ha detto nei giorni scorsi l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone nell’audizione che si è svolta davanti alla commissione sulla morte del giovane ricercatore avvenuta in Egitto. “Il primo blocco di dati oggettivi che hanno aiutato ad esempio a smontare e smentire la cosiddetta ipotesi del pulmino si è avuta con l’autopsia perché, come la commissione sa, quella fatta dalle autorità egiziane era di conclusioni abbastanza generiche. L’autopsia, nonostante fossero state asportate alcune parti del cadavere, fatta da uno specialista vero incaricato dalla procura di Roma con le risorse della tecnologia, ha descritto un quadro della morte di Giulio Regeni frutto di torture prolungate per una settimana, che erano incompatibili con la tesi della banda dei rapinatori o truffatori. Quello è il primo elemento oggettivo”. Pressione - “Un’altra cosa importante - ha aggiunto Pignatone - è stato il ruolo della famiglia a del mondo delle organizzazioni e associazioni che hanno sostenuto e sono state accanto alla famiglia perché non c’è dubbio che ha esercitato sia sul governo italiano, ma per l’Italia che è un paese democratico cioè rientra nelle regole costituzionali, sia a livello di opinione pubblica mondiale, una pressione significativa che in certi momenti è stata decisiva per alcuni passaggi. Almeno questa è stata la nostra sensazione da Roma”. Gravi ritardi - “La collaborazione tra l’autorità egiziana e quella italiana a livello giudiziario ha avuto, secondo me, un andamento altalenante. Io credo che sia giusto riconoscere che una collaborazione fattiva c’è stata, non nel senso che è stato dato tutto quello che si poteva dare o che è stato chiesto- ha puntualizzato Pignatone-. Risulta agli atti che le rogatorie sono state evase solo in parte o con grandissimo ritardo. Ad esempio prima di avere i tabulati telefonici e il traffico delle celle in alcune zone ci sono state decine di mail, telefonate”. Ha concluso l’ex procuratore di Roma: “Mai saremmo potuti arrivare al punto in cui si è arrivati se l’Egitto non avesse trasmesso alcune carte. Alcune di queste erano state chieste da noi, altre date di iniziativa perché noi non potevamo sapere che c’era ad esempio il video della conversazione tra il capo del sindacato e Giulio Regeni”. Africa, le carceri sono vulcani pronti ad esplodere di Antonella Sinopoli La Repubblica, 27 settembre 2021 Le prigioni di molti Paesi africani durante questa pandemia sono vere e proprio “bombe ad orologeria”. Si raccontano sovraffollamenti, contagi, uccisioni durante le rivolte. In questo periodo di quarantena ci sono luoghi in cui l’isolamento è ancora più duro. Ed è un isolamento affollatissimo. Sono le prigioni, dove si vive in una promiscuità tale che ogni giorno di sopravvivenza è un miracolo. Ma in tempi di pandemia neanche i miracoli bastano più. Le notizie che filtrano dalle carceri africane - grazie ad attivisti, Ong, ma anche alla stampa locale e ai prigionieri che riescono a comunicare con l’esterno - sono drammatiche. E parlano di incuria, di violenze, di gironi infernali dove da qualche mese si aggira un altro, invisibile e terrorizzante spettro. Nella paura bisogna condividere bagni luridi e spesso senza acqua, cibo che sarebbe adatto a una porcilaia e nessuna o scarsa assistenza medica. Esplode la rabbia: 7 morti in un carcere di Freetown. In questa situazione s’intrecciano storie di contagi, di rivolte e di sanatorie. L’ultima ribellione si è verificata qualche giorno fa in Sierra Leone, nella prigione maschile Pademba Road a Freetown, la capitale. Sono rimaste uccise sette persone, cinque detenuti e due guardie. La struttura ospita molti prigionieri politici, inclusi ex membri di governo. Dopo la conferma di alcuni casi sono state create aree di isolamento e firmata un’ordinanza che sospende tutti i processi pendenti. Per migliaia di prigionieri questo vuol dire carcere a tempo indefinito. Marocco, Sudafrica, Rd Congo - Una delle situazioni più gravi in termini di diffusione del coronavirus è quella di tre prigioni del Marocco. Almeno 300 casi sono stati rilevati a seguito di un programma di test, ne sono stati fatti 1.700, a prigionieri e secondini. Ai primi di aprile sono stati rilasciati 5.650 detenuti, ma dietro le sbarre delle prigioni marocchine ci sono almeno 80mila persone. Sono 138, al momento, i casi positivi (ufficiali) tra guardie carcerarie e detenuti, segnalati negli istituti di correzione in Sudafrica che, ricordiamo, rimane il Paese del continente con il maggior numero di positivi al Covid-19 (6.336). Drammatica è la situazione nella Repubblica Democratica del Congo, con una media di sovraffollamento pari al 432% secondo Monusco, la forza di pace delle Nazioni Unite. Ma la situazione più tragica si registra nella prigione militare di Ndolo, a Kinshasa, al cui interno sono stati registrati 56 casi. Va ricordato che nella Rd Congo si contano ad oggi 682 casi di cui 652 solo nella capitale. Zimbabwe e Nigeria - In Zimbabwe sono circa 1.500 i prigionieri rimessi in libertà. L’amnistia è stata concessa dal presidente Emmerson Mnangagwa a tutte le detenute condannate per crimini violenti, ai minori e ai malati terminali. Liberati anche uomini che hanno scontato almeno un quarto della pena detentiva. In Nigeria un’organizzazione della società civile, Lawyers Alert, ha minacciato il governo di istituire un’azione legale collettiva se non si prenderanno misure adeguate per intervenire sul decongestionamento delle prigioni, elemento di grande rischio per il diffondersi veloce del Covid-19. La decisione della messa in libertà di un certo numero di prigionieri, secondo l’organizzazione, non starebbe seguendo il criterio del rilascio di detenuti accusati di crimini minori, ma scelte di natura politica. Una prima lista riguarda 2.600 prigionieri ma i membri di Lawyers Alert denunciano l’estrema lentezza dell’implementazione della misura di rilascio. Kenia e Uganda - In Kenya, i detenuti liberati sono stati circa 4.500. L’Uganda, che detiene il record del numero delle carceri - nel paese ce ne sono 259 - sono stati 833 i prigionieri “graziati” dal presidente Yoweri Museveni. Egitto e Sudan - Record di rimessa in libertà, invece, per l’Egitto. 4mila i detenuti rilasciati in occasione del Sinai Liberation Day (25 aprile), liberazione accordata a patto che il detenuto avesse scontato almeno 15 anni di pena. Ma il problema delle carceri egiziane rimane la massiccia presenza di prigionieri politici, almeno 60mila. E c’è il rischio che il posto dei 4mila rilasciati sia presto occupato con nuovi arresti. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha prorogato lo stato di emergenza per altri tre mesi e la polizia è molto attiva nel controllare i movimenti di attivisti e dissidenti. Situazione tutta particolare in Sudan, dove i sostenitori dell’ex dittatore Omar El-Bashir chiedono non solo la sua liberazione ma anche quella di altri detenuti del suo entourage, alcuni dei quali sarebbero risultati positivi al test. Ma il governo transitorio ha manifestato il timore di una loro fuga in caso di liberazione. Intanto, qualche settimana fa nell’area del Darfur sono stati rilasciati centinaia di prigionieri, mentre a fine aprile il direttore generale delle carceri sud sudanesi ha annunciato la messa in libertà per 1.400 prigionieri. Camerun - Sovraffollamento, cronici problemi igienico-sanitari, incertezza sui tempi del processo: sono questioni annose nel continente. In Africa il Covid-19 “non ha fatto che aggravare situazioni già estremamente disastrose” - dice Ilaria Allegrozzi, ricercatrice di Human Rights Watch per l’Africa centrale, che ci racconta cosa sta accadendo in Camerun e Guinea Conakry (ex colonia francese n.d.r). Nella prigione centrale di Yaoundé (Camerun) sono stati confermati 13 casi, ma i test effettuati sono stati solo 20. Tutto fa pensare che potrebbero essere molti, molti di più. Una prigione che, al momento, contiene 5mila detenuti, ma la cui capacità sarebbe di 800, massimo mille persone. Si tratta di “una situazione esplosiva”, racconta un avvocato che è riuscito a penetrare nel carcere e ha passato le informazioni alla Ong. “Qui non è possibile l’assistenza medica. I prigionieri sono ammucchiati uno sopra l’altro; è impossibile mantenere una distanza di sicurezza. Questa prigione è un vulcano pronto ad esplodere”. Nelle galere anche i ragazzini. Le condizioni peggiori sono quelle nelle prigioni delle aree anglofone e dell’estremo Nord del Camerun. E anche il rilascio di prigionieri per “liberare spazio” nelle carceri sta prendendo una piega politica. Il presidente Paul Biya - in una delle sue rare apparizioni pubbliche da quando il Covid-19 ha colpito il paese - ha annunciato il rilascio di alcuni prigionieri al fine, appunto, di prevenire la diffusione del virus. Il decreto però non include i detenuti di lingua inglese e i sospetti separatisti anglofoni. Prigioni già affollatissime, negli ultimi anni si sono ulteriormente riempite di uomini, donne e persino minori. La minaccia di Boko Haram, che ha portato nel 2014 all’emanazione di una legge anti terrorismo, la crisi anglofona e le tensioni separatiste dal governo a maggioranza francofona - a partire dal 2016 - non hanno fatto altro che affollare le carceri. Guinea Conakry - Non è migliore la situazione in Guinea, dove il 27 marzo il presidente Alpha Condé ha annunciato lo stato di emergenza e, dal 13 aprile, il coprifuoco. La condotta del presidente - che il 22 marzo a dispetto della crisi sanitaria ha permesso le elezionilegislative, da lui vinte, e il referendum costituzionale che gli permetterebbe di stare al potere oltre la fine del suo mandato - è stata fortemente condannata dalle opposizioni. Detenzione preventiva e politicamente motivata. Dal canto suo Amnesty International si sta battendo per il rilascio dei prigionieri di coscienza e per la revisione dei casi di detenzione preventiva. “In molti paesi dell’Africa sub-sahariana, un’alta percentuale di coloro che sono detenuti sono lì solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti”, scrive Samira Daoud, direttore di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale. Madagascar - Solo in Madagascar alla data di giugno 2019 erano detenute 28.045 persone in prigioni che al massimo potevano contenerne 10.360. In moltissimi paesi del continente la detenzione preventiva, punizione in vista di un processo che arriva dopo anni (e in casi estremi potrebbe non esserci mai) è largamente esercitata. Un abuso per liberarsi di oppositori, giornalisti, difensori dei diritti umani. Prima rischiavano di essere dimenticati, ora rischiano la morte per Covid-19. In fuga da Haiti di Emiliano Guanella La Stampa, 27 settembre 2021 Per chi scappa dal Paese più povero delle Americhe i confini sono chiusi. L’odissea lunga undicimila chilometri per molti finisce col rimpatrio. Un’odissea di 11.000 chilometri attraverso tredici frontiere dal Cile fino al Texas per essere rispediti, su un volo da deportati, nell’inferno di Haiti. È il destino di molti haitiani prelevati con la forza dalla “Border Patrol”, la polizia di frontiera statunitense, al confine con il Messico e rispediti a casa, anche se da quella casa erano fuggiti con il loro carico di fame e miseria da anni. Per l’amministrazione Biden quella dei migranti haitiani è l’ennesima gatta da pelare nelle questioni migratorie, per il resto dell’America Latina è la nuova emergenza, che si aggiunge a quella della grande diaspora venezuelana, ma che assume contorni ancora più drammatici. La fuga dal Paese più devastato e povero delle Americhe è iniziato dopo il violento terremoto del 2010. Un flusso mai interrotto a causa della povertà estrema, la violenza dilagante e la profonda instabilità sull’isola. L’uccisione del presidente Jovenel Moïse a luglio e il terremoto di agosto sono solo le ultime tragedie abbattute su un Paese con il 40% di indigenti, un’economia basata su aiuti umanitari saccheggiati dai governanti corrotti e le rimesse degli emigrati. La comunità internazionale ha mandato i caschi blu, ma non ha potuto fare nulla contro l’onnipresenza delle gang armate e la corruzione dilagante. Haiti ha perso il 16% della sua popolazione, più di un milione di uomini, donne e bambini sono scappati senza guardarsi indietro. Metà di loro sono andati nella vicina Repubblica Domenicana, che da due mesi però ha chiuso le frontiere; gli altri sono finiti un po’ ovunque nelle Americhe. Il Cile ne ha accolti più di 110.000, gli ha dato lo status di rifugiati politici ma questo non è bastato a farli integrare in una società molto chiusa, soprattutto con chi ha un colore di pelle diverso. La pandemia ha polverizzato i lavori informali, la nuova legge migratoria promulgata dal presidente conservatore Piñera è stato il colpo di grazia; molti sono diventati, tutto d’un tratto, irregolari. Non è andata meglio a chi è finito in Brasile, Perù o in Ecuador. Disoccupati, ghettizzati, alla fame; sono gli ultimi tra gli ultimi, bersaglio di razzismo e discriminazione. E così, dall’inizio dell’anno, è iniziata la grande migrazione verso Nord, destinazione Stati Uniti. L’illusione del sogno americano, comune a molti altri migranti latinoamericani, anche se per loro, neri e francofoni, tutto è più difficile. Il viaggio lungo la spina dorsale delle Cordigliera delle Ande ha portato migliaia di loro all’imbuto della frontiera tra Colombia e Panama, confine naturale tra Centro e Sudamerica. Fino a luglio riuscivano a passare per proseguire fino in Messico, dove gli viene riconosciuto uno status di “protezione temporale”, quanto basta per arrivare al deserto del Rio Grande, ad un passo dalla meta. Le immagini dei poliziotti americani a cavallo che li prendono a frustrate sotto il Ponte a Del Rio ha scosso l’opinione pubblica americana. Per ripulire la zona Washington ha organizzato in una settimana una ventina di voli di rimpatrio, duemila disperati sono atterrati a mani vuote all’aeroporto di Port-Au-Prince. Di fronte a questa scena l’inviato speciale dell’amministrazione Biden sull’isola Daniel Foote ha dato le dimissioni. “Non posso accettare questa decisione disumana, questi rifugiati da anni avevano lasciato Haiti e adesso sono costretti a ripartire da zero”. Anche il Messico non sa cosa fare; deve gestire gli haitiani bloccati alla frontiera con gli Stati Uniti ed evitare che altri arrivino in Chiapas, al confine con il Guatemala. Pure la Colombia soffre. Nel piccolo porto di Necoclì, avamposto prima del limite con Panama ci sono 20.000 haitiani accampati sulla spiaggia. Hanno due alternative per andare avanti: attraversare un tratto di mare dominato dai narcotrafficanti del Clan del Golfo o inoltrarsi per la fitta selva del Darién, dai sette a dieci giorni di cammino tra i sentieri altrettanti pericolosi. Per l’agenzia Onu per i rifugiati e Medici senza frontiere siamo di fronte ad un dramma umanitario destinato a esplodere nelle prossime settimane. Nessuno, ad iniziare dalla loro terra maledetta, sembra volere gli haitiani in fuga.