Nelle carceri colloqui sempre meno umani di Antonella Giacummo Quotidiano del Sud, 26 settembre 2021 Per i detenuti impossibile parlare con i familiari. Tra mascherine e schermi in sale con altre persone “viene meno l’unico conforto”. Chi è in carcere deve scontare una pena per un delitto compiuto. E su questo non ci piove. Ma la nostra Costituzione prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere, per dirla con altre parole, deve essere rieducativo, non punitivo. Ma da quando la pandemia è entrata nelle nostre vite, per i detenuti il carcere è diventato oltremodo punitivo, perché sta togliendo anche quel minimo di rapporto con i familiari necessario a garantire l’umanità della pena. A segnalare le difficoltà di questi mesi è l’avvocato materano Nuccio Labriola, che sottolinea come questa situazione accomuni in questo momento tutti i detenuti. Ed è motivo di grande sofferenza. “I colloqui con le famiglie - spiega Labriola - si tengono nelle sale colloquio. Non c’è il detenuto da solo con il suo familiare, nella stessa sala ci sono diverse persone. Ed era così anche in passato certo, ma da quando c’è il Covid e, come è ovvio che sia, anche le carceri si sono dovute fornire di misure di protezione, riuscire a scambiare due parole è diventato un’impresa. Ci sono gli schermi in plexiglass, le mascherine. E poiché ci sono più persone, non si può alzare eccessivamente la voce. I colloqui con le famiglie, quindi, sono diventati momenti di grande sofferenza, è impossibile riuscire a dirsi due parole”. “Di fronte ai grandi temi della giustizia mai risolti nell’interesse del popolo italiano - precisa Labriola - la circostanza da me denunciata può apparire di modesto rilievo per chi non conosce la vita carceraria. Ma in una tale condizione avere per qualche minuto la possibilità di colloquiare con un proprio familiare costituisce l’unico momento anche per chi ha commesso dei reati di tenere un minimo contatto con la vita esterna necessario per un concreto ravvedimento per non commettere più errori”. Anche perché questa situazione si viene a creare solo con la famiglia, con chi può dare conforto. “Noi avvocati - dice Labriola - pure incontriamo i nostri clienti in stanze con lo schermo e abbiamo le mascherine. Ma i nostri colloqui avvengono senza altre persone attorno, quindi nel silenzio”. E a maggior ragione il non poter parlare con un familiare, fosse anche per pochi minuti, ma con un po’ di serenità, sembra in questo momento un supplemento di pena. Ergastolo ostativo, l’autunno caldo di Antonella Mascali e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2021 Via alla discussione sulla norma che la Consulta ha chiesto di riscrivere. La Consulta ha dato tempo alle Camere fino a maggio per regolare i permessi ai non pentiti, poi si rischia il “liberi tutti”. Entrerà nel vivo, da mercoledì, la discussione in commissione Giustizia alla Camera sull’ergastolo ostativo, la norma che, attualmente, impedisce a detenuti mafiosi e terroristi di accedere alla libertà condizionata se non hanno collaborato. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, l’ex procuratore Gian Carlo Caselli e anche l’ex Pg di Palermo Roberto Scarpinato, sono tutti stati chiamati per esprimere il loro parere (che Il Fatto in alcuni casi ha già raccolto) sui disegni di legge presentati da diverse parti politiche. Il Parlamento, infatti, ha tempo fino al maggio 2022 per approvare una modifica dell’attuale normativa (articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario). A dettare la linea di un ammorbidimento della legge e anche i tempi in cui deve avvenire, è stata la Corte costituzionale con una sentenza del 15 aprile, dopo che la Cassazione aveva chiesto che dichiarasse l’illegittimità costituzionale della norma. La sentenza la corte: “art. 4 bis incostituzionale” - La Corte, però, ha scelto una “terza via”: ha stabilito la violazione dei principi dell’uguaglianza e della rieducazione della pena (articoli 3 e 27) e del divieto di pena disumana (articolo 3 della Cedu) e contemporaneamente ha anche deciso che deve intervenire il Parlamento. Che dovrà tenere conto, come hanno indicato i giudici, “sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Non siamo nel campo dei tecnicismi: le modifiche del 4 bis avranno conseguenze concrete su quel sistema di contrasto alla mafia ideato da Giovanni Falcone e diventato legge solo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. E soprattutto riguarderanno la condizione in cui si trovano importanti boss, come - in astratto - anche boss stragisti come i fratelli Graviano o Leoluca Bagarella, appena condannato in Appello a 27 anni nell’ambito del processo sulla Trattativa. In aprile la Consulta non si è spinta fino a un intervento netto come nel dicembre 2019, quando la Corte, presieduta dall’attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha consentito, sia pure tra diversi paletti, i permessi premio pure ai boss o terroristi ergastolani che non hanno collaborato. M5s, fdI e Pd Le tre proposte di legge in discussione - All’esame della commissione Giustizia ci sono dunque tre proposte di legge. Quella targata M5S (firmata da Vittorio Ferraresi, Alfonso Bonafede, Giulia Sarti e altri) si preoccupa di non aprire varchi ai mafiosi con questa modifica imposta dalla Consulta. Per poter accedere non solo alla libertà condizionata, ma anche ai permessi premio, il detenuto dovrà fornire “elementi concreti”, al di là della “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale, che consentano di escludere con certezza” collegamenti con i clan; deve anche giustificare il perché della mancata collaborazione; deve dimostrare di aver risarcito le vittime del reato da lui commesso e in caso contrario deve dimostrare di non averne le possibilità. A decidere in merito ai benefici di legge, secondo il ddl M5S deve essere, come chiedono i magistrati antimafia, un unico ufficio, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, in modo da non sovraesporre i singoli giudici. Simile la proposta di Fratelli d’Italia (iniziativa dei deputati Delmastro Delle Vedove, Ciaburro e altri), che chiede la prova che i detenuti abbiano rescisso ogni legame con le associazioni criminali. “A tal fine - si aggiunge - il magistrato di sorveglianza acquisisce dettagliate informazioni”, per esempio anche in merito alla mancata collaborazione e fa le proprie valutazioni. C’è anche un ddl precedente alle pronunce della Corte costituzionale, della deputata Vincenza Bruno Bossio (Pd). Propone che “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, ma vorrebbe un giro di vite per i pareri dei pm antimafia: senza valutazioni sulla concessione dei benefici, si dovrebbero limitare solo a “elementi fondati e specifici” sui collegamenti o meno dei detenuti con gli ambienti criminali. I magistrati “si tratta di uno strumento irrinunciabile” - La commissione Giustizia comincerà con le audizioni di rappresentanti di categoria e magistrati già da mercoledì. Alcuni li abbiamo sentiti per anticiparci qualche punto che, a loro parere, dovrebbe contenere la nuova normativa. Secondo Gian Carlo Caselli “si dovrà escludere la rilevanza di ogni mera dichiarazione di dissociazione, posto che la stessa Consulta l’ha definita come un atteggiamento facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan. Né dovrà bastare la buona condotta carceraria del boss ergastolano, come indicato anche dalla stessa Corte. Quindi auspico che si preveda uno speciale rilievo delle relazioni obbligatorie dei procuratori (nazionale e distrettuali) antimafia che potranno essere disattesi, ma solo in base a un’attenta, puntuale e specifica motivazione”. “In caso di impugnazione del pm - conclude l’ex procuratore - il provvedimento non dovrebbe essere eseguibile fino alla successiva pronuncia”. Il giudice di Sorveglianza di Napoli ed ex pm a Palermo, Alfonso Sabella (che sarà in commissione giovedì), sentito dal Fatto, parte da una premessa: “La sentenza della Corte costituzionale ce la siamo un po’ cercata: abbiamo esagerato nella misura in cui abbiamo fatto morire al 41-bis Bernardo Provenzano, ormai un vegetale e Raffaele Cutolo, che era a capo di una organizzazione camorristica che non ha più potere da 20 anni. Ma riconosciuti questi errori di ‘applicazione di pancia’, deve essere chiaro che non possiamo permetterci di rinunciare a strumenti come questo, imprescindibili per il contrasto alle mafie”. Secondo Sabella c’è del buono nella proposta M5S: “È centrata nella misura in cui chiede una prova reale dell’interruzione di qualsiasi collegamento del detenuto con l’organizzazione criminale”. Nelle intenzioni dei 5Stelle c’è poi anche la possibilità di chiamare in commissione Giustizia alla Camera anche il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli (non ancora convocato formalmente). Ex pm antimafia a Caltanissetta e a Roma, Tescaroli vorrebbe che la nuova normativa contenesse un’eccezione restrittiva per boss di spicco ergastolani che non hanno collaborato: “Il legislatore potrebbe virare sul mantenimento, a tempo, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale, sino all’annientamento del relativo sodalizio. La caratura di questi detenuti potrebbe essere stabilita da relazioni delle Procure distrettuali e della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, che dovrebbero essere vincolanti per il giudice. In tutti gli altri casi, si potrebbe prevedere che il giudice si possa discostare da un eventuale parere negativo dei pm, ma con provvedimenti specificatamente motivati”. Come tanti altri magistrati antimafia, se non la totalità, Tescaroli auspica che “la semplice dissociazione, anche con dichiarata ammissione delle proprie responsabilità, sia esplicitamente esclusa come prova del ravvedimento del detenuto; dovrebbe, inoltre, esserci un obbligo di dimora in aree diverse da quelle del sodalizio criminale di appartenenza del detenuto ergastolano”. La questione ora è in mano alla politica. Ermini a sorpresa chiede coraggio alla politica: “Meno reati e meno carcere” di Angela Stella Il Riformista, 26 settembre 2021 Sala piena ieri al XVIII Congresso dell’Unione delle Camere Penali Italiane dal titolo “Cambiare la Giustizia, Cambiare il Paese: le proposte dell’avvocatura penale per una nuova stagione delle garanzie”. L’intervento più importante, quello della Ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha parlato davanti ad una assemblea che l’ha sì applaudita, anche caldamente in un paio di momenti, ma che nei mesi passati l’aveva criticata sulla riforma raggiunta sul penale. Per questo la Guardasigilli ha sentito l’esigenza di chiarire: “Nel testo del disegno di legge delega non c’è solo l’improcedibilità, sulla quale tanto si è accanito il dibattito pubblico, ma c’è un potenziale tutto da sviluppare e attuare, sia sugli aspetti più specificamente processuali della delega, sia su quelli che vanno a incidere sul sistema sanzionatorio, che potenziano le possibilità delle soluzioni alternative al carcere, e dove si mette in campo un’ipotesi di riforma delle pene pecuniarie, totalmente inattuate, dove si allarga il principio della particolare tenuità del fatto”. Nella riforma, ha ricordato, “è previsto anche un osservatorio, un comitato tecnico scientifico di monitoraggio sui tempi della giustizia e di attuazione, perché la riduzione dei tempi del 25% in 5 anni possa essere non solo una buona intenzione ma realtà. È vero, abbiamo messo la firma su una tappa importante, ma queste riforme sono ancora tutte da attuare e verificare nella loro concretezza”, ha concluso. Prima di lei era intervenuto il vice presidente del Csm, David Ermini che ha chiesto di approvare velocemente la riforma del Csm: “Questo vostro congresso è all’indomani dell’approvazione in via definitiva della riforma del processo penale e del primo via libera parlamentare, al Senato, di quella del processo civile. E spero possa precedere di poco la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che sollecito ormai da due anni”. E poi Ermini ha auspicato più coraggio su riti e pene alternative: “servirebbe meno timidezza da parte delle forze politiche nella direzione dei riti alternativi e dei trattamenti sanzionatori alternativi. Nella riforma al riguardo non mancano passi avanti, penso ad esempio alla giustizia riparativa e ai margini più ampi riconosciuti al patteggiamento o alla messa alla prova, ma non ancora così energici come sarebbe opportuno. Il mio personale auspicio peraltro, e da qui a fine legislatura i tempi ci sarebbero, è che si sfoltisca il catalogo dei reati con misure incisive di depenalizzazione e si recuperi integralmente la riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario superando finalmente l’idea del carcere come unica soluzione punitiva, che è idea antistorica e ostacola la funzione che la Costituzione attribuisce alla pena. Poiché sono convinto che nella tutela della giurisdizione e dei valori costituzionali tutti debbano stare dalla stessa parte - ha aggiunto Ermini- io mi ostino a chiedere alle forze politiche di avere più coraggio e deporre le armi. La giustizia mal sopporta rivalse e contrapposizioni di bandiera, non può essere terreno di scontro politico ed elettorale. E lo stesso invito rivolgo a voi, all’avvocatura in generale, e alla magistratura: abbiamo di fronte un’occasione forse irripetibile, proprio nella fase dell’attuale governo, per il rilancio del sistema giustizia al fine di offrire ai cittadini un processo efficiente, tempestivo e rispettoso delle garanzie”. Il Presidente dell’Ucpi Caiazza non è intervenuto ieri, in quanto terrà oggi la sua relazione, ma gli abbiamo chiesto un commento sulla sentenza di appello che ha smontato il teorema della presunta Trattativa Stato Mafia: “Le sentenze si commentano leggendo le motivazioni. Ma senso è chiaro: è la smentita clamorosa di una inchiesta segnata da connotazioni che non dovrebbero mai appartenere ad una vicenda giudiziaria. Una inchiesta costruita sulle pregiudiziali ideologiche e sulla pretesa di leggere la storia politica in chiave criminale: è una pretesa sbagliata, e che dà a chi opera in questo senso un potere immenso ed improprio”. Ci hanno costruito carriere “non solo, anche fortune editoriali e politiche. Intorno a queste, come altre inchieste simboliche, ha preso corpo quella autentica rete mediatico giudiziaria che governa o pretende di governare di fatto il nostro Paese da molti lustri”. Magistrati, anche Ermini è d’accordo: “Un’alta Corte per il disciplinare” di Davide Varì Il Dubbio, 26 settembre 2021 L’intervento del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, al congresso di Area democratica per la giustizia. “Meglio sarebbe istituire un’Alta corte a cui affidare i procedimenti disciplinari di tutte le magistrature e di impugnazione dei provvedimenti consiliari. Ovvio che sarebbe necessaria una modifica della Costituzione, ma da qui a fine legislatura i tempi ci sarebbero, basterebbe che la politica, anziché inseguire risultati di bandiera, con più coraggio si concentrasse sui nodi problematici affrontandoli e risolvendoli”. Lo ha evidenziato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, al congresso di Area democratica per la giustizia, di fatto accogliendo l’idea lanciata da diversi giuristi e dall’ex presidente della Commissione Giustizia alla Camera Gaetano Pecorella. “È evidente che quando parlo di trasferire la funzione disciplinare fuori dal Consiglio non mi riferisco all’incapacità del Csm di svolgere correttamente il proprio compito”, ha spiegato Ermini, ricordando che “la nostra sezione disciplinare vanta del resto oltre il 70 per cento di conferme da parte delle sezioni unite della Cassazione”, ma “alla possibilità di evitare situazioni di sovrapposizione funzionale tra amministrazione e giurisdizione e, come dicevo, per avere una unicità di giudizi disciplinari per le varie magistratura”. Ermini ha inoltre evidenziato che “nessuno può pretendere dai consiglieri obbedienza, tantomeno dal vicepresidente, che risponde solo alla Costituzione e al suo garante che è il presidente della Repubblica. Nei tre sostantivi - autogoverno, riforme e rifondazione etica - sta il fragile e drammatico presente vissuto da magistratura e Consiglio superiore - ha esordito - oltre al necessario impulso prospettico per uscire da una crisi di fiducia e credibilità che forse ha pochi precedenti”. Ermini non ha nascosto l’amarezza di fronte ai “toni aggressivi e denigratori che, quasi quotidianamente, investono la magistratura e l’organo consiliare. Ma ciò non toglie che con gli scandali e le difficoltà del presente i conti si debbano fare. Con umiltà e onestà, e al contempo con coraggio”. Ermini ha poi elogiato i magistrati che lavorano nei tribunali senza il clamore dei media, mentre ai colleghi che siedono nel Csm ha ricordato che “chi è eletto al Consiglio non risponde a rapporti fiduciari ma alla Costituzione”. Ma in un punto è netto. “I magistrati devono restare estranei al dibattito politico-partitico - ha sottolineato - però hanno il dovere di partecipare, anche criticamente, al discorso pubblico sulla giustizia, la loro interlocuzione deve però rimanere misurata, tecnicamente orientata, argomentata”. Anche il numero due del Csm ha criticato il carrierismo, come prima di alcuni relatori intervenuti alla due giorni. “Quello del magistrato non è e non può essere un ruolo di potere ma una funzione al servizio dei cittadini” ha concluso, mentre sulle riforme ha chiosato “questo il Csm chiede con forza che il governo provveda destinando le risorse necessarie per far funzionare le riforme messe in campo, a partire dall’effettiva copertura della pianta organica”. La sferza di Albamonte: “Crisi etica, narcisismi, le toghe dicano basta” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 settembre 2021 All’assise di Area i moniti di Cartabia e la “requisitoria” del segretario. È iniziato ieri a Cagliari il terzo congresso nazionale di Area, la corrente progressista delle toghe. Il titolo scelto è: “Magistratura tra realtà e finzione, la forza del pensiero critico”. Le assise, le prime in presenza, per le toghe, dopo la pandemia, cadono in un momento certamente non facile per la magistratura, con il fantasma di Luca Palamara e della cena all’Hotel Champagne che aleggiava su ogni discussione. La fiducia dei cittadini nelle toghe, anche a causa di questi eventi, è ridotta ai minimi termini, come ha ricordato il ministro della Giustizia Marta Cartabia nel proprio messaggio di saluto. “Solo il trentadue per cento” ha ancora fiducia nei magistrati. La guardasigilli, sul punto, ha citato un report dell’Ue in cui veniva evidenziata la necessità di procedere quanto prima alla riforma del sistema di elezione per i togati del Csm, e di definire in maniera più netta il rapporto toghe- politica. La ministra ha poi segnalato due apparenti contraddizioni: da un lato, come ricorda sempre l’Europa, il sistema giudiziario italiano è molto apprezzato; dall’altro è diffusa la percezione dello scarso tasso di indipendenza delle toghe. con l’effetto di mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nel suo complesso. “La fiducia è logorata, faremo le riforme che servono, ma non hanno effetto taumaturgico”, ha aggiunto Cartabia, sottolineando il dialogo assiduo fra le parti in causa. Dopo aver puntualizzato che “le leggi sono decise in ambito politico”, la guardasigilli ha citato le riforme del penale e del civile di recente approvazione per una giustizia finalmente celere. “Decisivo”, a suo giudizio, “sarà anche il processo di autoriforma che è già in atto nella magistratura”. Cristina Ornano, presidente nazionale di Area e padrona di casa in quanto giudice penale al Tribunale di Cagliari, ha quindi aperto i lavori con la relazione del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare. “Purtroppo abbiamo molti procedimenti disciplinari anche per ipotesi di reato, non solo riguardanti le nomine”, ha detto Salvi, evidenziando che ci sono “fattispecie mai verificate in precedenza e che serve sempre il rispetto del principio di tipicità”. Dopo aver ricordato “i primi riconoscimenti alle azioni disciplinari con le condanne”, Salvi ha messo in evidenza il ruolo centrale della Procura generale, rifuggendo l’idea che il disciplinare sia “la panacea di tutto”. L’intervento del segretario generale, il pm della Capitale Eugenio Albamonte, è stato l’appuntamento clou della prima giornata, incentrato soprattutto sui fatti accaduti negli ultimi due anni: dal Palamaragate allo scontro interno alla Procura di Milano, ha esordito Albamonte. A Milano si è trattato di “dissenso malgestito”, con conseguente divulgazione degli atti sui giornali. Questi ultimi, poi, parteggiando per l’una o l’altra parte, hanno dato una informazione non sempre obiettiva. Si è trattata di una contrapposizione dura, con interviste per difendere l’immagine dei soggetti tirati in ballo e per attaccare gli avversari. “Sono in corso accertamenti, era necessaria la massima riservatezza”, ha detto Albamonte. Frecciate, poi, alla “scriteriata esposizione mediatica, sia da parte dei pm che dei giudici”. Non poteva mancare un accenno alle nomine e alle valutazioni di professionalità, con la necessità di arrestare il carrierismo togato. Il segretario si è tolto alcuni sassolini dalle scarpe, ad esempio, rispetto alla “incursione” della giustizia amministrativa nelle decisioni del Csm. “È fondamentale adesso recuperare credibilità. La politica, però, è animata da ostilità, da vicende giudiziarie vecchie e nuove, dando riscontro a teoremi complottistici”. Sperando che il governo vari quanto prima le auspicate riforme, si deve scongiurare la diffidenza che monta contro le correnti. La furia “iconoclasta” può portare ad introdurre modifiche come il sorteggio dei togati del Csm, visto dalla magistratura come uno spauracchio. Trattativa Stato-mafia, le accuse che spiegano la sentenza di Armando Spataro La Repubblica, 26 settembre 2021 Difficile, se non impossibile, pensare che uomini delle istituzioni volessero rafforzare le iniziative dei boss. Come era prevedibile, la sentenza della II Corte d’Assise di Appello di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha generato opposti commenti. In attesa delle motivazioni, è bene discuterne con freddezza, comunque nel rispetto di quanti si sono impegnati per far emergere la verità sulla “zona grigia” che spesso ha caratterizzato i rapporti tra mafia e istituzioni. Il dibattito post sentenza, però, è caratterizzato da una grave lacuna preliminare, l’omessa conoscenza dei capi di imputazione. Infatti, coloro che la criticano affermano che se la trattativa tra mafia e istituzioni c’è stata (“il fatto sussiste”) non sarebbe accettabile che siano stati condannati solo i mafiosi affiliati ed invece assolti gli ex alti ufficiali dei Carabinieri (“perché il fatto non costituisce reato”), essendone stati, gli uni e gli altri, gli attori. Ma proprio qui sta l’errore: la contestazione in sede penale non è quella di avere dato luogo ad una trattativa - reato non previsto dal nostro codice penale - ma di avere tutti, in concorso tra loro ed a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni, prospettando stragi ed altri gravi delitti, per condizionare la regolare attività del governo e di altri corpi politici. Il tutto con varie aggravanti, tra cui quella di voler avvantaggiare Cosa nostra, avvalendosi della sua forza intimidatrice. Tale minaccia, prevista e punita dall’articolo 338 del Codice penale, è descritta in circa quattro pagine di capi di imputazione fin troppo articolati, sicché la sintesi qui proposta non è certo esaustiva, ma basta a porsi una precisa domanda: se il reato è facilmente configurabile per i vari boss mafiosi, che hanno minacciato e commesso gravi delitti, in particolare le stragi del 1992 e del 1993, per ottenere dalle istituzioni alcuni vantaggi, quali la revisione del cosiddetto maxiprocesso a carico dei componenti della “cupola” o del “carcere duro” previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, si può pensare che pubblici ufficiali ed esponenti politici approvassero tali condotte minacciose e si proponessero gli stessi fini, anche per rafforzare il potere mafioso? Questo, infatti, integra il concorso in quel reato, il che appare assolutamente illogico, quasi surreale. È certo possibile, invece, che alcuni ufficiali dei carabinieri, a fronte di una lunga stagione di delitti mafiosi (risalente già agli anni Ottanta) nel corso della quale era drammaticamente emersa l’incapacità dello Stato di prevenire tali crimini, abbiano ritenuto di dover contattare uomini collegati a Cosa nostra per capire quali fossero le condizioni poste dall’organizzazione criminale per interrompere quella serie di sanguinose aggressioni (salvo poi verificare se tale iniziativa sia stata decisa autonomamente o sollecitata da uomini politici, anche di governo). Questo, però, non può integrare una condotta di concorso nel reato, ma semmai scelte e prassi investigative politicamente ed eticamente censurabili, tali da suscitare reazioni simili a quelle che, ad esempio, divisero il Paese in occasione delle trattative tra Stato e Br durante il sequestro Moro o quello del giudice Sossi. Nel capo di imputazione, si legge però che quel tipo di approccio da parte di uomini delle istituzioni avrebbe comunque rafforzato la criminale determinazione mafiosa a minacciare lo Stato: potrebbe in teoria essere avvenuto, ma neppure ciò integra il concorso degli uomini delle istituzioni nel reato contestato poiché è a tal fine richiesto il dolo, cioè la volontà di rafforzare quella di chi agisce. Ma è francamente difficile - se non impossibile - pensare che gli uomini delle istituzioni qui imputati, tentando di contenere l’impatto criminale di Cosa nostra, sia pure con contatti criticabili, “tifassero” per i mafiosi e ne volessero rafforzare la capacità di condizionare l’attività del governo e di limitare il doveroso esercizio dei poteri repressivi dello Stato. Si vedrà se queste osservazioni saranno presenti nella motivazione della sentenza, ma intanto va respinta l’immagine del magistrato che si propone anche il compito di scrivere la storia oltre l’unico che gli compete, cioè quello di provare la responsabilità degli autori dei reati con riscontri oggettivi. Lo affermò anche il magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi che, dinanzi alla Commissione parlamentare Antimafia nel 2002, parlando delle sue indagini su stragi e sui rapporti tra mafia e politica, concluse affermando che le connessioni e le conseguenze sulla società di fatti di grave entità, come ad esempio le stragi, non possono che essere accertate da una commissione parlamentare, competente per approfondimenti sotto altri profili. La sentenza di Palermo, peraltro, rende onore anche a Francesco Di Maggio, deceduto nel 2002, il primo pm ad occuparsi del contrasto della mafia nel Nord del Paese, ma incredibilmente considerato nel capo d’accusa, con forzatura inaccettabile, concorrente dei mafiosi nelle condotte finalizzate a condizionare lo Stato. La “trattativa” che certi pm hanno voluto distorcere di Carlo Nordio Il Messaggero, 26 settembre 2021 La prima reazione emotiva alla pronuncia della sentenza di Palermo che ha stracciato anni di indagini devastanti per gli imputati, costose per la giustizia, e umilianti per il Paese, sarebbe stata quella di rivolgere ai magistrati che Sciascia definiva professionisti dell’antimafia le parole indirizzate da Cromwell al Lungo Parlamento, e che Leo Amery ripeté a Chamberlain dopo l’umiliante disfatta della Norvegia: “Troppo a lungo avete occupato quel posto per quel poco di bene che avete fatto. Andatevene, e sia finita con voi. In nome di Dio, andatevene”. Tuttavia, poiché sappiamo che sarebbero moniti inutili, respinti con sdegno in nome dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, dell’obbligatorietà dell’azione penale e di altre petulanti litanie, ci limiteremo a un paio di considerazioni, una di ordine giuridico-politico, l’altra di costume. La Prima. È quasi banale dire che occorre aspettare le motivazioni della sentenza. Ma possiamo provare a interpretarla. Per la posizione di Dell’Utri è facile: assolto per non aver commesso il fatto, non c’entrava nulla. Qualcuno dirà: “Si rallegri che l’ha fatta franca, e ringrazi il cielo”. C’è una cosa che supera la stupidità umana, checché ne dicesse Voltaire, ed è il veleno dell’odio e del pregiudizio. Ma Dell’Utri può consolarsi: chi sibila questi rancori sta ora forse anche peggio di lui. Per gli altri imputati, Mori e colleghi, la sentenza dice che “Il fatto non costituisce reato”. E qui il discorso è più complesso, e anche più interessante. In linea generale questa formula è meno favorevole di quella usata per Dell’Utri e di quella ancor più radicale che “Il fatto non sussiste”. Quella adottata dalla Corte di Palermo significa che il fatto in sé - presumiamo una sorta di trattativa - è avvenuto, ma era legittimo. Se così fosse, e non vediamo altra soluzione, questa formula è politicamente e moralmente molto più significativa e liberatoria di quella che il fatto fosse inesistente. Perché significherebbe che, in certe circostanze, un approccio attraverso intermediari con le organizzazioni criminali non è illecito, e anzi talvolta utile e doveroso. Convinzione che avevamo sin dall’inizio di questo strambo processo, di cui, pur da giuristi modesti, non abbiamo mai capito il capo d’imputazione. E la ragione è molto semplice: che lo Stato ha sempre trattato - in modo più o meno riservato - con le peggiori cosche criminali dell’Italia e del mondo. Lo ha fatto con le Brigate Rosse, pagando il riscatto di Ciro Cirillo, tenendo discretamente i contatti con i rapitori di Moro, e non cedendo alle richieste dei brigatisti solo perché erano inaccettabili. Lo ha fatto con i terroristi palestinesi e il famoso “Lodo Moro”, accettando che l’Italia diventasse zona franca per il trasporto delle loro armi purché fosse affrancata dai loro attentati. Lo ha fatto con gli stessi dirottatori della Achille Lauro, creando un conflitto con l’America di Ronald Reagan. Lo ha fatto con tutti i banditi sequestratori di ostaggi - giornalisti, cooperanti ecc. - pagando lauti riscatti anche quando aveva diffidato le vittime ad avventurarsi in luoghi ostili. Lo ha fatto fino a ieri, e purtroppo dovrà continuare a farlo quando si tratta, come si dice, di salvare vite umane. E davvero i Procuratori di Palermo credevano che lo Stato non potesse farlo con la mafia, quantomeno per evitare, come ha fatto con i palestinesi, guai peggiori di quelli già provocati? Se credevano questo, potevano anche credere all’asinello che vola. Ebbene, ora una sentenza della Corte superiore ci dice che Mori e compagni hanno esercitato una facoltà legittima, o addirittura un dovere. Ci volevano dieci anni di accuse che hanno sfiorato persino il Presidente della Repubblica, ammazzato di crepacuore il suo consulente giuridico, esposto alla gogna ministri, generali, e l’intera Arma dei Carabinieri, dilapidato enormi risorse umane e finanziare per arrivare a questo? Basta. Sia finita. E questo ci porta alla seconda considerazione, anche più amara. In un Paese normale magistrati che prendono simili cantonate il giorno dopo cambiano mestiere. In America, di cui abbiamo scopiazzato il codice e dove esiste quella rigorosa certezza della pena che tanto piace al dottor Davigo, Pubblici Ministeri che perdono questi processi non vengono rieletti, e tornano a casa. Noi non diremo che debbano pagare i risarcimenti: sarebbe troppo complicato e anche inutile, tanto sono assicurati. Ma rifletterci sopra, questo sì. E invece da noi, come nel caso Tortora, questi magistrati vengono promossi, fondano partiti, si candidano alle elezioni, e magari finiscono al Csm. Dove, sgradevole paradosso, giudicano gli altri magistrati, compresi quelli che nelle sentenze hanno sconfessato le loro indagini. Insomma usano la notorietà, acquistata durante anni di elogiativi peana di giornalisti compiacenti, per crearsi una confortevole cuccia una volta mollata la toga. A queste, e alle altre mille altre anomalie di un sistema ormai squalificato e corroso, non potrà porre rimedio, per ovvie ragioni, né questo Governo né questo Parlamento. E forse neanche il prossimo, a meno che, con una univoca e possente voce popolare, il referendum tuoni l’avvertimento e l’invito di Cromwell e Amery che abbiamo citato all’inizio: in Nome di Dio, basta! “Toghe divise sulla trattativa Stato-mafia. Csm, serve il sorteggio per abbattere le correnti” di Anna Maria Greco Il Giornale, 26 settembre 2021 L’ex magistrato Luca Palamara candidato alle Suppletive di Roma sulla sentenza di Palermo: “Verdetto prevedibile, dalle mie chat emergevano le posizioni diverse sul processo. Dopo le mie denunce non è cambiato nulla”. Sono passati due anni e mezzo dalla famosa riunione all’hotel Champagne e Luca Palamara è candidato alle suppletive di Roma Primavalle del 3 ottobre. L’affaire che ha preso il suo nome, terremotando la giustizia e il Csm in particolare, con il libro scritto con Alessandro Sallusti “Il Sistema”, gli ha dato la volata e ora l’ex presidente dell’Anm e membro del Csm punta ad entrare in parlamento. È cambiato qualcosa in magistratura e al Csm, dopo il Palamaragate? “Assolutamente no, i recenti fatti sulla procura di Milano e le nomine annullate a Roma e non solo testimoniano la permanenza degli accordi correntizi. Cambiano gli attori ma il Sistema rimane immutato. Troppo facile schierarsi dalla parte di chi è più forte, rinnegando e non spiegando come e perché si diventa vicepresidente del Csm, ad esempio. Sarebbe giusto che prima o poi Ermini lo dicesse. Non è più il tempo di don Abbondio”. Come non bastasse il suo scandalo, a destabilizzare il mondo giudiziario si sono aggiunte le rivelazioni di Amara sulla loggia Ungheria e la fiducia degli italiani nella giustizia precipita a minimi storici: candidarsi alle elezioni migliorerà quest’immagine? “Sono state annunciate tante querele sulle dichiarazioni a verbale sulla loggia Ungheria, spetterà alla magistratura, dopo più di 2 anni, verificarne la fondatezza. Io ho sentito la necessità di squarciare il velo di ipocrisia che ha caratterizzato la mia vicenda, sul meccanismo delle correnti. Per questo ho voluto rafforzare il racconto già fatto nel libro Il Sistema, candidandomi alle suppletive. Un modo per testimoniare anche all’interno dell’istituzione ciò che non ha funzionato in questi anni nei rapporti tra politica e magistratura”. Si sta svolgendo a Cagliari il congresso di Area, cartello delle toghe progressiste e la presidente Ornano raccomanda di non fare di queste vicende un uso strumentale per riforme della giustizia e della magistratura che possano modificarne l’assetto costituzionale. Mette le mani avanti? “Avrei messo volentieri a disposizione del congresso le mie chat, per dare la possibilità di valutare come illustri esponenti di Area fossero parte integrante del Sistema. Quando ero presidente dell’Anm la parola più in voga era autoriforma, per evitare una riforma dall’esterno. Ma è tempo di picconare il Sistema e accettare finalmente che tutto cambi”. Come si combatte lo strapotere delle correnti delle toghe, che lei ha esercitato così sapientemente? “Da presidente dell’Anm ho constatato che l’unica riforma che davvero terrorizza le correnti è il meccanismo del sorteggio a Palazzo de’ Marescialli. Così si potrebbe impedire la cooptazione dei candidati da parte delle segreterie delle correnti. Anche oggi sono già pronti i candidati vincenti per il nuovo Csm, ma ci sarebbero i tempi per impedire che il gioco si ripetesse. Tutto il resto sono palliativi. Dal 75 assistiamo ad un proliferare di leggi elettorali di fronte alle quali la magistratura associata è sempre in grado di trovare l’antidoto: basti pensare che alle ultime elezioni per 4 posti di pm sono stati candidati esattamente 4 candidati, uno per ogni corrente. Perché impedire a chi non fa parte delle correnti di misurarsi nella gestione dell’autogoverno? Il sorteggio lo consentirebbe”. Luciano Violante ha detto al “Giornale” che il Csm si è attribuito un totale autogoverno delle toghe, mentre non sta scritto in Costituzione, è così? “Direi che anche alla luce delle recenti vicende, nessuna esclusa, è giusto valutare se dopo 73 anni quell’assetto configurato dal costituente sia ancora attuale, soprattutto sulla composizione del Csm, sui meccanismi di elezione e sulla sezione disciplinare”. Lei ha detto più volte che ora la sua missione è appunto aiutare, sulla base della sua esperienza, a riformare la giustizia. Il nuovo processo penale della ministra Cartabia è il primo passo. Come lo giudica? “Affronta un tema diverso, rispetto al problema delle correnti e risponde all’esigenza di sveltire i processi, come chiede l’Europa, anche rispetto al Recovery fund. Ci sono stati orientamenti politici diversi, sicuramente questa riforma supera però delle criticità sui tempi dei processi sulle quali già il ministro Orlando si era per la verità pronunciato. Un’inversione di marcia, rispetto all’impostazione Bonafede”. Lei appoggia i referendum di Lega e Radicali, tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Servono a fare pressione? “Riformare la giustizia è un’esigenza diffusa in larga parte dell’opinione pubblica e lo testimoniano anche le tante firme raccolte per i referendum”. Parliamo della sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia, che ha sconfessato la precedente: se sarà confermata in Cassazione ai pm che senza prove hanno costruito il teorema di uno Stato che scende a patti con la mafia, colpendo ingiustamente i singoli accusati e danneggiando l’immagine della giustizia, non dovrebbe essere attribuita una grave responsabilità? “Una formula di comodo mi farebbe rispondere che tutto rientra in una normale dialettica processuale. È certo che, squarciando il velo dell’ipocrisia e senza entrare nel merito del processo, dalla lettura delle mie chat, nonché dalla nomina dell’attuale procuratore di Palermo Franco Lo Voi (ritenuto meno schierato sul fronte della trattativa), si evinceva che all’interno della magistratura c’erano degli orientamenti diversi sul processo, come ho raccontato nel mio libro. Anche molti magistrati si esprimevano in termini fortemente critici sulla qualificazione giuridica dei fatti, compresi personaggi illustri, componenti del Csm e procuratori della Repubblica”. Facciamo qualche nome, come Pignatone e Fiandaca... “Ma non solo”. Per Violante, che era considerato il capo del partito delle toghe rosse, i magistrati pretendono di decidere la politica giudiziaria, anche di riscrivere la storia, ma non è il loro compito. “Questo problema non nasce oggi, ma nel 93 con l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere, quando venne meno la linea di confine tra politica e magistratura, individuata dai padri costituenti. Le doverose indagini sulla rilevanza penale dei comportamenti dei politici finirono con l’essere strumentalizzate, trasformando la funzione del processo penale che dev’essere luogo di verifica dei fatti, per raggiungere altri fini”. Trattativa Stato-mafia, lo storico Salvatore Lupo: “La sentenza mi piace. Ora elaborare il lutto” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 26 settembre 2021 “Il Paese deve capire che la giustizia non è vendetta”. Alla trattativa Stato-mafia non ha mai creduto. E ora che una sentenza d’appello ha sancito che, anche se ci fu, non costituisce reato, Salvatore Lupo, storico della mafia, ritiene che questo verdetto nulla cambi nella storia di Sicilia degli ultimi 30 anni. Professor Lupo, non crede che toccherà riscrivere più di una pagina? “Assolutamente no. Le sentenze non cambiano la storia. Occorrerà solo riuscire ad elaborare il lutto e ragionare su che cosa succede ora. Che non è certamente quello che succedeva 30 anni fa. In Italia esistono gruppi, istituzioni che continuano a ragionare come se nulla fosse cambiato, che vivono il passato come presente e non fanno un buon servizio al Paese”. Di chi sta parlando? “Di quei magistrati o di quei politici che gridano di essere nel mirino di Cosa nostra e di essere in pericolo di vita, di quelli che agitano spettri di nuovi attentati, di quelli che dicono che il carcere duro per i mafiosi è ancora necessario”. Cos’è? La mafia non esiste più? “Ma no. Semplicemente non mette più bombe. Certo che Cosa nostra esiste e va combattuta, ma non è più quella di 30 anni fa, bisogna mettere in campo strategie adeguate e invece in Italia c’è una parte di magistratura, di politica, di istituzioni, di giornalismo, di opinione pubblica che è rimasta ferma. Il passato è passato, non è vero che c’è un buco nero nella storia di Sicilia e d’Italia. Ci sono degli anelli mancanti ma grosso modo cosa è successo lo sappiamo”. E cosa è successo negli anni delle stragi? Davvero lei crede che Totò Riina abbia fatto tutto da solo? “Sì. È possibile perché in quel contesto i tagliagole corleonesi hanno guadagnato potere con il sangue e le bombe e sono cresciuti in un delirio di onnipotenza. E a chi oppone la solita osservazione, perché uccidere Borsellino dopo 57 giorni, non capivano che questa mossa sarebbe stata controproducente rispondo: fino ad allora avevano costruito il loro potere così e non hanno valutato che alzare troppo il tiro li avrebbe distrutti. Anche le Br hanno ucciso Moro senza valutare le conseguenze. E che vuol dire, che è stata la Cia?”. Insomma, da storico della mafia, il suo giudizio su questa sentenza qual è? E’ stata fatta giustizia? “A me questa sentenza piace ma avrei detto le stesse cose anche se il verdetto fosse stato diverso. Mi fanno ridere questi tifosi della giustizia che vilipendono la magistratura che assolve ed esaltano quella che condanna. Il Paese deve capire che la giustizia non è vendetta e che non è affidata alla magistratura requirente ma soprattutto a quella giudicante che più rappresenta il giudice terzo a cui è affidato il controllo di legalità”. Sentenza trattativa Stato-mafia, politica prudente: il verdetto non entra in campagna elettorale di Claudia Fusani Il Riformista, 26 settembre 2021 Chi si aspettava il diluvio di dichiarazioni trionfati “contro” la magistratura forcaiola e qualche media che ha assunto in modo improprio il ruolo di giudice non solo dei fatti ma anche della storia, è rimasto deluso. Oppure soddisfatto. Fatto è che 24 ore dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo che ha ribaltato il verdetto di primo grado e sentenziato che la trattativa tra Stato e mafia per fermare le bombe di Cosa Nostra, ove mai vi sia stata, non fu reato, il verdetto non finisce in pasto alla campagna elettorale. La politica sembra aver compreso la prima grande lezione di questa vicenda giudiziaria lunga un paio di decenni di cui otto di dibattimento: evitare l’uso politico delle sentenze; rispettare il fine unico delle indagini: verificare i fatti. Non sono state ingaggiate gare di dichiarazioni ai microfoni e sui social. Hanno prevalso cautela, prudenza e - dal punto di vista dei politici - la legittima soddisfazione per un verdetto che restituisce onore allo Stato, a quello in divisa - gli ufficiali del Ros dell’Arma - e a quello che siede in Parlamento, Mannino prima e Dell’Utri poi e ha invece tenuta ferma la condanna dei boss mafiosi. Lo dice il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’intelligence Franco Gabrielli. Il prefetto, ex capo della polizia, persona che non ama i microfoni, ha voluto però rimarcare ciò che gli sta più a cuore: “Per cultura e per mestiere aspetto di leggere le motivazioni. Ovviamente non posso non essere felice, soprattutto per chi ha vestito una divisa, per aver avuto questo esito favorevole”. Decisamente più scomposta la reazione di Marco Travaglio e de Il Fatto che è “nato” dodici anni fa per, tra le altre cose, sostenere il teorema di un pezzo di Stato colluso con la mafia. Il sarcasmo per cui “se trattano i mafiosi è reato e se invece lo fa lo Stato non lo è” è un azzardo alla logica e alla verità. Almeno finché non saranno pronte le motivazioni. Fino a quel momento il Pd preferisce tacere. Comunque non sbilanciarsi “su un tema così complesso per cui è necessario leggere prima le motivazioni”. Meglio non disturbare troppo, in questa fase, l’alleato grillino che invece esce con le ossa rotte dal verdetto. “Non nascondo un senso di smarrimento - ha detto Marco Pellegrini, capogruppo M5s in Commissione antimafia - e spero che questa sentenza non costituisca un ostacolo involontario - ad esempio che i mafiosi fanno sempre tutto da soli - sulle grandi inchieste che riguardano gli intrecci indicibili tra mafia e pezzi deviati dello Stato”. Il Movimento ha costruito buona parte del suo consenso in nome del complottismo e degli “accordi indicibili”. Giuseppe Conte preferisce occuparsi della campagna elettorale. E anche questo significa molto. La soddisfazione è invece comprensibilmente forte soprattutto dentro Forza Italia. La senatrice Licia Ronzulli e il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè insistono sul concetto di “onore e dignità restituiti a servitori dello Stato” e sulla gravità di aver “compromesso l’immagine dello Stato che qualcuno voleva vedere sottomesso e genuflesso davanti a Cosa Nostra”. Più duro Maurizio Gasparri che s’è lanciato in invettive del tipo “denunceremo i propalatori di menzogne” oppure “c’è qualcuno che ha cercato di riscrivere la Storia ma non c’è riuscito”. Quello che conta, in Forza Italia, è che Silvio Berlusconi sceglie di tacere. La decisione più giusta. Matteo Renzi prosegue nella sua campagna per una giustizia giusta e una magistratura liberata dalle correnti. La sentenza è un tassello in più in un ragionamento più vasto che il leader di Iv porta avanti da mesi sul fatto che “alcuni pm così come alcuni giornalisti hanno fatto carriera con il giustizialismo fino ad elevarlo ad arma politica”. Non si può accettare, ad esempio, che “se non sei d’accordo con Travaglio sei colluso con la mafia”. La politica questa volta sembra aver deciso di non “usare” la sentenza. Ed è una bella notizia. Cesare Terranova, il giudice solo che provò a fermare i Corleonesi di Enrico Bellavia L’Espresso, 26 settembre 2021 Il 25 settembre di 42 anni fa Cosa nostra assassinò il magistrato che aveva iniziato a indagare su Liggio, Riina e Provenzano già negli anni Sessanta. La sua storia, le sue amarezze e il suo isolamento, permettono di rileggere cinquant’anni di vita repubblicana sotto ipoteca criminale. Tra patti e ricatti. Un film e un libro per ricordarlo. Potevano fermarli prima. Agli albori della loro carriera criminale, quando la stella di Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Totò Riina, ucciso il medico boss Michele Navarra, “u’ patri nostru”, iniziò a brillare. Al fuoco dei mitra, al piombo delle lupare, nel rosso sangue dei morti. Quando l’impostura di una Corleone asservita, omertosa, silente e complice, come l’intera Sicilia, iniziò a consolidarsi. E quel grumo di case sotto Rocca Busambra diventò sinonimo di mafia. Incurante dei tanti, i ribelli li chiamavano, che avevano detto di no. Si perpetuò così una narrazione che consegnò all’altare degli eroi le spoglie di magistrati, carabinieri, poliziotti fermati al fronte di una guerra che, puntualmente, nelle retrovie, qualcuno, trescando con il nemico, si incaricava di rendere vana. Ricordarli come eroi e non come vittime del dovere serviva per il resto a sorvolare su chi il proprio dovere lo aveva tradito. C’era un uomo che aveva capito tutto. Lo aveva messo per iscritto nelle sue istruttorie e aveva provato a fermare il triumvirato corleonese ben prima della grande razzia. Si chiamava Cesare Terranova. Fu lui a preconizzare, inascoltato, la trasformazione della mafia corleonese in ceto dominante, a intuirne e a documentarne i rapporti americani, il vincolo di interessi e minacce che avrebbe fatto di quei tre i signori incontrastati di Cosa nostra, capaci di tenere banco per quasi mezzo secolo costellato di bombe, patti e ricatti nella prateria delle loro scorribande che era tutta la Penisola, da Milano a Palermo. Con una “forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni”, scrisse. Nel centenario della nascita del giudice, si è appena celebrato il 42esimo anniversario del suo assassinio, il 25 settembre del 1979. Sei colpi di calibro 9, 357 Magnum e Winchester 62 martoriarono il corpo al volante della sua 131 diventata un bersaglio fin troppo facile per il meglio su piazza dei sicari di Cosa nostra. Otto colpi li contarono sul maresciallo Lenin Mancuso che gli sedeva accanto e che si era gettato, pistola in pugno, sul giudice, nel tentativo impossibile di proteggerlo e rispondere al fuoco, tra via Rutelli e via De Amicis, in uno dei lati del quadrato in cui si svolge buona parte del mattatoio palermitano. Lenin Mancuso, poliziotto calabrese dal nome bolscevico, non era soltanto l’agente di scorta ma la sua ombra, roccioso e testardo proprio come quell’altro. Il partner delle investigazioni impossibili, cacciatore di Liggio e dei suoi gregari, al fianco del giudice. Terranova era un montanaro di Sicilia, nato a Petralia Sottana, nelle Madonie. Cresciuto nelle stesse campagne dove la mafia, nel 1948, aveva ucciso il bracciante socialista e sindacalista Epifanio Li Puma. Si era fatto le ossa in guerra, soldato ma antifascista, poi prigioniero, quindi studente fuori corso per necessità e finalmente magistrato, figlio di magistrato. A inanellare encomi nel Messinese prima di arrivare sul versante occidentale dell’Isola a occuparsi della mafia che dal dopoguerra agli anni Sessanta aveva già compiuto il balzo diventando classe dirigente. Con le tasche piene dei soldi della droga, Cosa nostra si industriava per cambiare la faccia dell’Isola. Una devastante colata di cemento stravolgeva con il tessuto urbano anche quello sociale. Da procuratore di Marsala, nel posto che sarà di Paolo Borsellino, con l’inseparabile Mancuso, Terranova risolve il giallo della scomparsa di tre bambine, uccise da Michele Vinci, lo zio di una di loro. Poi parlamentare per due legislature, maggio 1972-giugno 1979, indipendente di sinistra, in tandem con Pio La Torre, futuro segretario regionale del Pci che lo avrebbe seguito nell’identico destino tre anni più tardi. Insieme firmeranno la famosa “Relazione di minoranza” dove per la prima volta si facevano i nomi e i cognomi, dei politici e degli imprenditori collusi con la mafia. Terranova di nuovo magistrato, consigliere istruttore, da fermare a ogni costo, lui che era stato faccia a faccia con Liggio due volte, che era riuscito a farlo condannare per Navarra e che dagli insuccessi precedenti aveva tratto la determinazione per assestare il colpo decisivo ai corleonesi e ai loro complici in grisaglia ministeriale. Su Terranova e Mancuso, su quello che hanno fatto, sul perché siano stati uccisi, lavora da anni Pasquale Scimeca, regista e sceneggiatore siciliano, tanto rigoroso quanto non allineato, che si prepara a realizzare un film da una sceneggiatura scritta con Attilio Bolzoni, in contemporanea con un libro che accompagna il film. È il romanzo nero d’Italia. La storia di un magistrato e delle sue amarezze. Ma è soprattutto la storia del grande intrigo, del “peccato originale”, come lo chiama Scimeca, che non ha mai smesso di condizionare la vita repubblicana. Riallacciandosi a un filone di analisi che parte dalle ricostruzioni giornalistiche di Pietro Zullino, Marco Nese, Silvestro Prestifilippo, passa per la commissione antimafia, riprende tesi di Enrico Deaglio e le rivelazioni di Leonardo Messina del 1992, ma anche i ricordi dei nipoti di Terranova, Francesca e Vincenzo (anche lui magistrato presso il tribunale di Palermo), Scimeca giunge alla conclusione che Liggio deve la sua prolungata fortuna alla custodia di un segreto. È il patto inconfessabile tra notabili e mafia per la strage di contadini, il primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra e per l’uccisione, tre anni dopo, del bandito Salvatore Giuliano, l’assassino capopopolo che si era messo in testa di essere una specie di Robin Hood e al quale avevano fatto dire che la Sicilia sarebbe stata con lui il 49esimo Stato americano. Su Giuliano ricadde la responsabilità della strage ma, come emerge anche dagli studi di Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, sui monti intorno a Portella c’era artiglieria pesante, provenienza Usa e manovalanza di ex fascisti della Decima Mas della Repubblica di Salò. L’eccidio doveva produrre una scossa per non far crollare nulla. Una strage stabilizzante, come lo sarebbero state tutte quelle che hanno accompagnato gli snodi della vita del Paese con il beneplacito di un pezzo di Viminale. Nella Sicilia dei sindacalisti ammazzati, dei sindaci eliminati, dei mille testimoni annichiliti, sequestrati, uccisi, infoibati, era proliferata per questo anche la categoria dei pazzi, di quanti avevano visto ed erano pronti a raccontarlo, a patto di essere protetti. Lasciati soli, guadagnavano la bolla di inattendibili perché insani di mente. Innocui, perché ridotti ad esserlo. La loro follia eterodiretta era un’arma. Toccò a quelli, Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva, che Ernesto Oliva ha raccolto nella galleria “I pazzi di Corleone” (Di Girolamo, novembre 2020, prefazione di Umberto Santino). Proto-pentiti del primo dopoguerra, la legge sui collaboratori sarebbe arrivata solo nel 1991. Precisi, sicuri con le loro firme incerte sui verbali e poi, nelle aule, tremanti, bizzarri, grotteschi, gelati nella trappola della loro paura pur di auto-invalidarsi e lasciare che i loro racconti ammuffissero nei faldoni con in calce il nome dei futuri boss dei boss e sulla copertina il bollo dell’insufficienza di prove, decretata da eccellentissimi giudici a loro volta intimiditi o corrotti. Vivi però, perché, come si dice in Sicilia “sulu lu pazzu canta e sulu lu pazzu campa”, ma reprobi, costretti alla fuga, in una diaspora del terrore, lontano dalla stessa terra che quelli conquistavano zolla dopo zolla calpestando raccolti, miseria e contadini, servendo i padroni di città che, illusi, immaginavano di potersene servire per sbarazzarsene quanto prima. Andò diversamente, perché i rozzi villani, con i feudi, si prendevano il potere. Con i cugini americani, il metodo per esercitarlo e con Vito Ciancimino, il politico che riuniva l’arroganza criminale e le entrature nei palazzi, il patrimonio di relazioni che conferisce comando. Quella di Terranova è una traiettoria che interseca la vita e la morte di tutti quelli che in un modo o nell’altro hanno lavorato sulla stessa materia, proseguendo il lavoro, sviluppandone filoni, coltivando intuizioni. Da Carlo Alberto Dalla Chiesa che, a Corleone, di Luciano Liggio e della scomparsa di Placido Rizzotto aveva iniziato a occuparsi nel 1948, a Boris Giuliano, il commissario che indagava in Sicilia ma guardava a New York, al banchiere della mafia Michele Sindona e a quello che i cugini d’oltreoceano consigliavano ai mammasantissima nostrani. Proprio come Gaetano Costa, il procuratore che al ponte con gli Usa del clan Gambino-Inzerillo dedicò un atto d’accusa, firmato in una solitudine mortale. Il ponte mai interrotto con gli Usa è un filo rosso che ha a che fare tanto con la geopolitica quanto con il crimine. Gli interessi coincidenti si avviluppano nel grumo che ha reso incompiuta la nostra democrazia. E di contatti oltreoceano ne avevano anche quegli incolti corleonesi a partire dai padrini Vincent Collura e Angelo Di Carlo, tanto che una delle prime prodezze di Liggio fu quasi un atto da guerrigliero con il furto della cassaforte del corpo d’armata italo-tedesco. Se ne accorse e lo documentò in un “rapporto riservatissimo” un vicebrigadiere di provincia, il carabiniere Agostino Vignali. Quel dossier fu una miniera per Terranova che se lo ritrovò tra le mani agli albori delle sue istruttorie finite con la solita beffa dell’assoluzione per insufficienza di prove a Bari e Catanzaro. Marchio di infamia su una magistratura accomodante, paciosa, collusa. In una parola “sorda”, come l’ha definita il magistrato ed ex parlamentare Giuseppe Di Lello, nel suo “Giudici” (Sellerio, 1994). Già nel 1963 il vicebrigadiere aveva tracciato la mappa del potere a Corleone. Catalogato gli schieramenti e ricostruito la genesi, “grazie a protezioni che da Montecitorio vanno a Sala d’Ercole (sede del Parlamento siciliano, ndr)”, di quella che la frettolosa storiografia ha liquidato come lo scontro tra Navarriani e Liggiani. Vignali aveva elencato interessi nuovi: “Predominio delle aree edificabili, l’accaparramento dei posti chiave delle pubbliche e delle private amministrazioni, le beghe politiche in favore di questo o quel candidato che prevalentemente fanno parte della Dc e del partito liberale”. Aveva spiegato che non c’era pregiudizio in quelle parole, perché “la stessa cosa accadrebbe se quegli stessi uomini si presentassero domani sotto qualunque altro partito che avesse le mani in pasta nel governo della cosa pubblica”. Così fu possibile il regime corleonese, inaugurato da un golpe, reso forte da latitanze leggendarie, 15 anni Liggio, 24 anni Totò Riina e 43 Bernardo Provenzano, nel dosaggio di segreti e, sono parole di Terranova, “nella certezza dell’impunità”. Caso Saman, le strumentalizzazioni deviano l’attenzione da ciò che importa davvero di Giovanna Cosenza* Il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2021 Dal 29 aprile, quando si sono perse le tracce di Saman Abbas, il dibattito relativo - in rete, sui giornali e in tv - è stato per un paio di mesi martellante. Poi si è affievolito. Infine, dopo l’arresto dello zio, il tam tam è ripreso. Propongo una breve riflessione sui problemi che ho rilevato nel modo in cui quasi tutti i media trattano il caso. In generale, per i media come per la politica, la prima regola dovrebbe essere quella di non strumentalizzare un evento criminale. Invece, la strumentalizzazione avviene sempre. In questo caso, il femminicidio è associato all’etnia dei pachistani e alla religione islamica: lo fanno la destra più o meno estrema e i media che le sono vicini, per fomentare spinte xenofobe, assumendo (o apertamente dicendo) che chi è pachistano e/o musulmano ha più probabilità di trovarsi (come vittima o carnefice) in situazioni terribili come quella che ha permesso la tragedia. Dal centrosinistra (politico o mediaticamente simpatizzante) si agitano d’altra parte coloro che, per combattere la strumentalizzazione, negano con forza qualunque nesso fra questo femminicidio e l’etnia-cultura-religione entro cui è avvenuto. Entrambe le posizioni sono polarizzate, estreme. Ed entrambe sono sbagliate. Se da un lato è biecamente manipolatorio cavalcare una tragedia per aizzare le folle contro gli stranieri, dall’altro è pure fuorviante negare il nesso fra l’uccisione di Saman e la cultura da cui la ragazza proveniva. Esattamente come non si può negare che ci sia un nesso fra la cultura patriarcale italiana e i femminicidi che di continuo insanguinano il nostro Paese. Ovviamente la società italiana e quella pachistana sono molto diverse. Ma è anche una questione di tempi. In Pakistan solo nel 2017 è stata introdotta la legge contro i matrimoni forzati, ed è ovvio che in quel Paese ci siano ancora resistenze forti. In Italia, viceversa, le battaglie femministe sono cominciate negli anni Sessanta, e stupisce che, dopo decenni di rivendicazioni e atti legislativi, ci si trovi ancora, nel 2021, a fronteggiare un femminicidio ogni due o tre giorni. Dopo tanti anni, insomma, l’Italia mostra una resistenza incredibile contro la parità di genere. Ma c’è una cosa di cui non si parla quasi mai. Seguendo il caso di Saman, resto sempre sorpresa dal mancato dibattito sul ruolo dei servizi sociali e sulla loro responsabilità - certo involontaria, ma comunque c’è - in questo tragico evento. Perché la giovane non è stata protetta? Perché è andata sola e nessuno l’ha accompagnata a casa dei genitori? Integrazione vuol dire anche occuparsi di sacche culturalmente arretrate, come quella che ha portato all’uccisione di Saman. Perché non riusciamo ad evitare queste tragedie in Italia? La soluzione sarebbe un investimento massiccio sul welfare sociale, in cui da decenni lavorano operatori - e soprattutto operatrici - in condizioni pessime, sottopagati e sottodimensionati, con impedimenti forti e spesso invalicabili: precarietà, isolamento, disorganizzazione, burocrazia, scarsa o nessuna tutela. Impedimenti a tal punto forti e invalicabili da non impedire casi come quello di Saman. *Docente universitaria di Semiotica Franca Leosini: “Quei giovani killer senza umanità vanno in Tv provando a crearsi un alibi” di Michela Tamburrino La Stampa, 26 settembre 2021 “I protagonisti sono quasi sempre ragazzi, ma i disvalori che li portano a delinquere li attingono dalla nostra società”. Figli che ammazzano i genitori. Genitori che non conoscono affatto i loro figli. Un uomo che ammazza un bambino e poi va in pizzeria. Sorelle come Paola e Silvia che uccidono e poi mentono senza prevedere alcuna resipiscenza d’orrore. Un adulto come Mariano che neppure prende in considerazione il fatto tragico che ha causato gettando una creatura giù dal balcone. E poi ci sono quelli in cerca di visibilità, capaci d’affrontare le telecamere, senza che la loro verità venga scalfita. Una galleria di personaggi che da Pietro Maso alle ultime ore di questa strana estate porta alla ribalta l’omicida mediatico e l’omicida indifferente. Franca Leosini indaga, studia e racconta, in tv, il clic che scatta in una mente fino a un attimo prima ritenuta normale. Che cosa nella quotidianità porta alla banalità del male. Per poi in molti casi tornare indietro come nulla fosse, un azzeramento dei sensi di colpa e del senso di responsabilità. Leosini, sappiamo che lei non giudica mai, ma un giudizio s’impone... “Un giudizio molto difficile, perché in questi casi citati pare si sia talmente anestetizzata la sensibilità comune da farci trovare al cospetto di un’assoluta assenza dei valori, di vite ridotte in miseria. Sono i nuovi mostri? Difficile dire anche questo. Innanzitutto bisogna vedere che cosa, in loro, determina l’assenza assoluta di umanità. Purtroppo sono vicende sempre più diffuse con dati sempre più allarmanti”. Quali per esempio? “Sgomenta che i protagonisti siano in maggior parte giovani. È giusto allora porsi delle domande, questi giovani da dove attingono i disvalori che poi li portano a delinquere senza provare neppure dolore o pentimento? Se li prendono dalla società nella quale tutti si vive, allora la responsabilità morale di quanto hanno fatto ce la dobbiamo prendere tutti noi”. Forse in televisione si parla con troppa facilità di delitti e derivati? “La troppa disinvoltura potrebbe dare loro alcuni spunti, ma non credo sia la strada giusta. La cronaca ha i suoi diritti che non si possono cancellare. Casomai restituire un segno di maggiore condanna, far comprendere ai ragazzi che guardano la tv che agire così equivale a rovinarsi la vita per sempre”. E le famiglie di provenienza? “Ho visto ragazzi responsabili di gesti atroci venire da famiglie che hanno percorsi limpidi. Casomai parlerei di amicizie e frequentazioni sbagliate. Quando si è giovani si è anche facilmente suggestionabili. Non è una storia da ascriversi solo all’oggi, va da Pietro Maso e Corrado Ferioli, giovani che ammazzano i genitori senza provare sensi di colpa. Troppo facile rifugiarsi nella malattia mentale”. Vogliamo tirare in ballo il Dna? “Esiste una trasmissione dei geni, ma sarebbe troppo facile agganciarcisi. La scienza lo prevede, ma darei un’importanza relativa se si crede come me nel libero arbitrio. Quando il gesto omicida si accompagna alla freddezza e alla capacità di esibizionismo, allora l’allarme è maggiore perché significa che le radici affondano in un terreno malato. I giovani che trasmettono questo comportamento creano un allarme sociale”. Lei si interroga sul domani di queste persone che hanno compiuto delitti terribili? “Tanto spesso che ci ho costruito una trasmissione, che andrà in onda in autunno su Rai3 e gli ho dato come titolo “Che fine ha fatto baby Jane”, dal famoso film anni Sessanta con Bette Davis e Joan Crawford. Qui indago sul terzo atto della vita di un individuo che ha ucciso e che ha scontato la pena. Mi interessa scoprire qual è il loro destino e che cosa possono ancora dare alla società. In che misura vengono riaccolti e qual è la loro nuova realtà umana. In questa serie, il primo caso che prendo in esame è proprio quello di un figlio che ha ammazzato la madre. Mi pongo nell’ottica della comprensione. Mi chiedo quale guasto abbia potuto portare dalla quotidianità al gesto estremo. I protagonisti scendono con me nell’inferno del loro passato per rintracciare il momento che ha stravolto la loro vita”. Spesso alla base di questi delitti c’è un interesse economico. Anche le due sorelle Paola e Silvia, omicide di poche ore fa, parlavano di comprare macchine e di fare vacanze, dopo. Erika e Omar anche pensavano a una libertà agiata da viversi, dopo. Sarà mica anche colpa della nostra società che spinge verso standard così elevati da richiedere di tutto pur di uniformarcisi? “Seguendo questo ragionamento, ognuno di noi potrebbe essere candidato al delitto. La colpa casomai è di chi fa un uso distorto degli strumenti che la società mette a disposizione”. Torniamo alla tv e al caso delle due sorelle che a Chi l’ha visto si sono presentate quali vittime lanciando appelli per la madre scomparsa. Voglia di visibilità? “No, esigenza di menzogna. Loro vanno, parlano per mentire, per negare eventuali sospetti che li coinvolgano. Ambiscono alla visibilità i mentitori, una visibilità che tende alla mistificazione. Io invece parlo con persone che hanno elaborato la loro colpa e che la stanno o l’hanno scontata. Il comportamento è completamente diverso”. C’è un caso di questi citati o di altri non menzionati che l’ha particolarmente colpita nel senso dell’indifferenza provata dall’omicida? “Nelle mie 98 storie maledette nessuno ha mostrato mai indifferenza per quanto fatto. Se ci fosse stato un interlocutore di questo tipo non gli avrei dato modo di parlare. Io mi occupo dei guasti della vita, non dei guasti della mente. Le persone che intervisto si sono rese responsabili di gesti tremendi ma sono perfettamente consapevoli di quello che hanno fatto e del prezzo che stanno pagando”. Modena. Tortura, omissioni e pestaggi in carcere. La verità nei filmati di Pierfrancesco Albanese L’Espresso, 26 settembre 2021 La procura riapre il caso sulle violenze dopo la rivolta al Sant’Anna e la morte di nove reclusi. L’Espresso è in grado di confermare l’esistenza di documenti che fanno riferimento alle immagini del circuito interno. La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate. È lo scossone che riapre il caso del Sant’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti. Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto. Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato “come un animale”. “Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora”. Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. “Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”. Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani “rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita”. A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura. “È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda”, commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta. L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno”. A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti”. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi. Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazí, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta. Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che “lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”. Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere. Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti. Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura. Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman. Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. “Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti”. Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. l’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno. Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte. Alle richieste di aiuto lanciate dal celiante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde “lasciatelo morire”. E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. “A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato”. Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. “A Modena”, scrive, “molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle”. Ad Ascoli, invece, “la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva”. Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso. Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto. “Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane”. Napoli. Sbattuto in carcere a 85 anni, Ciambriello: “Non è capace di intendere e di volere” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 26 settembre 2021 “Giovanni, 85 anni, credo sia il detenuto più anziano d’Italia, non è capace di intendere e di volere ma è dentro per maltrattamenti in famiglia”. Comincia così il video-denuncia di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti per la regione Campania, dopo la consueta visita settimanale all’interno del carcere di Poggioreale a Napoli. “Sono stato nel padiglione Firenze dove ci sono diversi detenuti con problemi psichici e credo di aver incontrato il detenuto più anziano d’Italia: Giovanni, 85 anni, non è in grado di intendere e di volere, sta qui da quattro mesi per maltrattamenti in famiglia”. Sbattuto in carcere a 85 anni, Giovanni “da quattro mesi non riceve visite né telefonate, niente. Non so che dire: si può continuare a utilizzare il carcere come luogo di sicurezza sociale anche in questo caso?” domanda Ciambriello. “Lo dico - aggiunge - perché ho visto con i miei occhi l’amore, la bontà, l’attenzione degli agenti di polizia penitenziaria, che sono un front-office: devono fare da psicologi, psichiatri, da assistente, da medico, da familiari”. Insomma una situazione ormai fuori controllo, con Dap da una parte e politici e magistratura dall’altra che hanno dimostrato di non essere in grado e di non volere risolvere il problema carcere. Dalla maggiore assistenza richiesta all’interno a pene alternative per evitare di rinchiudere persone anziane o malati. “Credo che per una serie di reati e soprattutto rispetto anche all’età - sottolinea Ciambriello - occorre liberarsi della necessità del carcere. Che ci fanno in carcere malati oncologici, persone che fanno la chemioterapia, persone con problemi psichici, psichiatrici? Credo che bisogna intervenire dalle piccole cose e a tutti i livelli, da quello nazionale a quello locale. Occorre liberarsi dalla necessità del carcere” conclude. Siracusa. In carcere le “dolci evasioni” bio di Francesco Riccardi Avvenire, 26 settembre 2021 Dal carcere di Siracusa le evasioni sono dolci. Non sono fatte con le lime ma con le mandorle, non ci sono fuggitivi ma detenuti che si impegnano per produrre dolcezze tipiche siciliane e imparare un mestiere che potranno poi cercare di svolgere una volta liberi. Sono queste le “Dolci evasioni” che dalla casa circondariale del capoluogo ibleo vengono poi vendute in tutta Italia attraverso la cooperativa sociale L’Arcolaio, la rete dei negozi biologici e del commercio equo e solidale. “In carcere la cosa peggiore è il tempo. Quando è vuoto, senza nulla da fare, rischia di non passare mai e soprattutto di cancellare anche la persona che è il detenuto - spiega Giuseppe Pisano, che della cooperativa sociale di tipo B è presidente. Per questo abbiamo impiantato l’attività di produzione dolciaria e panificazione con ingredienti biologici che coinvolge un numero necessariamente limitato di reclusi: una dozzina alla volta con un turn over abbastanza frequente, che in totale ha coinvolto negli anni oltre 200 persone”. Arance candite, paste di mandorla e biscotti che tengono impegnati chi ha commesso un reato e permettono loro di riprendere coscienza di sé e delle proprie potenzialità per favorire il pieno reingresso nella vita una volta liberi. Dal 2014, con il sostegno della Fondazione di Comunità Val di Noto di cui la cooperativa L’Arcolaio è socio fondatore, è stato poi avviato il progetto Frutti degli Iblei. Grazie al recupero di terreni incolti, messi a disposizione dalla Diocesi di Siracusa e il coinvolgimento di altre categorie di persone svantaggiate come donne e giovani immigrati, è stato possibile coltivare e trasformare altri prodotti: dalle erbe aromatiche ai sali speziati, agli ortaggi essiccati. Il carcere resta comunque l’ambito di impegno principale della cooperativa sociale. “Ora sarebbero necessari più finanziamenti per poter coinvolgere nelle attività un numero maggiore di detenuti - conclude Giuseppe Pisano -. E una rete di imprese sul territorio per dare un supporto e una speranza a coloro che, scontata la pena, hanno bisogno di trovare un lavoro per evitare di commettere nuovi sbagli”. Le dolci evasioni, infatti, non sono solo dal carcere, ma dovrebbero essere anche quelle dalle gabbie di una vita che non offre possibilità. Pisa. Pagato meno del dovuto per anni: ministero condannato a risarcire 41mila euro di Vincenzo Brunelli toscanaindiretta.it, 26 settembre 2021 Detenuto da 17 anni nel carcere di Pisa ha vinto una causa di lavoro. Il dicastero è stato condannato dal tribunale di Roma, competente in materia, a 41mila euro di differenze retributive più interessi e spese legali. L’uomo è riuscito a dimostrare di aver ricevuto meno di quello che gli spettava per legge durante le numerose mansioni svolte all’interno del carcere (scopino, porta vitto, piantone, aiuto cuciniere, cuciniere, addetto alla cucina, apprendista lavorazione tessuti, aiuto sarto, muratore qualificato). Il 39enne di origine lituane era finito nei guai nel 2004 per aver ucciso una coppia di connazionali, insieme ad un complice. Arrestato dai carabinieri aveva confessato immediatamente di essere responsabile del duplice omicidio ed era successivamente stato condannato in via definitiva alla pena dell’ergastolo. La tragedia si era consumata all’interno della comunità lituana per conflitti legati a somme di denaro che l’uomo ogni mese doveva versare alla coppia che lo aveva fatto venire in Italia e lo faceva lavorare a nero come manovale. Ma la metà dei compensi doveva poi darli alla coppia e in una notte balorda di alcol e discussioni la lite era sfociata in uno scatto omicida e lui e il suo complice avevano colpito la coppia con alcuni strumenti da lavoro che erano lì sul tavolo. Da quel momento vive nel carcere di Pisa dove ora ha richiesto il regime di semilibertà per motivi di lavoro dopo 17 anni di carcerazione. Ma sin da subito ha dimostrato di voler seguire un percorso riabilitativo e anche all’interno del carcere ha sempre lavorato. Difficile accettare a 22 anni il cosiddetto dispositivo di “fine pena mai” che resterà sempre presente sulla sua fedina penale così come dovrà portare sempre con sé il carico dei suoi crimini. Ma per quanto riguarda il contenzioso con il ministero i giudici gli hanno dato ragione. Per il tribunale l’uomo è stato pagato meno del dovuto. Si legge infatti in sentenza: “Pertanto, sulla scorta delle incontestabili mansioni svolte, dei giorni e degli orari indicati in busta paga, ben possono prendersi a riferimento, per il calcolo delle spettanze, i criteri indicati dalla difesa del ricorrente ed i relativi parametri, tutti specificamente indicati nei conteggi prodotti. Ne consegue la condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento della differenza fra quanto spettante, sulla scorta delle superiori statuizioni, e quanto corrisposto al ricorrente, per un totale di euro 41770,07, maggiorato di interessi legali dalle singole scadenze fino al soddisfo. Si osserva infatti che come recentemente affermato dalla corte di Cassazione, in materia di lavoro dei detenuti, trattandosi di rapporto di lavoro con il ministero della giustizia, opera il divieto di cumulo tra rivalutazione monetaria e interessi poiché non ricorre la medesima ratio di cui alla pronuncia di accoglimento della corte costituzionale 459/2000 che ha escluso il divieto per i crediti dei lavoratori privati ma sussistono ragioni di contenimento della spesa pubblica, che giustificano la differenziazione della disciplina. Tanto premesso, è dato apprezzare, da parte del tribunale, la completezza e la condivisibilità dei conteggi prodotti dalla difesa del ricorrente, in relazione alle differenze retributive oggetto della odierna domanda, sulla scorta della chiara verificabilità dei medesimi in forza del confronto tra gli importi ricevuti - e riscontrabili dalle buste paga - e quelli di cui alle tabelle allegate al contratto collettivo nazionale, ben potendosi ritenere la correttezza degli stessi in relazione alle singole voci indicate ed ai criteri di calcolo utilizzati, coerentemente elaborati in base a quanto accertato in questa sede”. L’uomo in carcere si occupa ormai da un paio d’anni di teatro ed è diventato anche un esperto aiuto-scenografo come dimostrano le tante rappresentazioni portate in scena dalla compagnia teatrale dell’istituto penitenziario di Pisa. Ora riceverà anche i 41mila euro di differenze retributive per il lavoro svolto in carcere. Niente potrà cancellare tragedie come un omicidio ma i percorsi di riabilitazione dei detenuti, come sancisce la Costituzione, quando si realizzano in concreto sono sempre e comunque da guardare in un’ottica positiva. Catania. Aids: esperti a confronto con i detenuti minorenni di Bicocca ansa.it, 26 settembre 2021 I temi dell’Hiv e delle patologie trasmissibili sono stati al centro a Catania di un incontro nell’Istituto penale per i minorenni di Bicocca durante il quale, nell’aula magna della struttura, i giovani sotto custodia, accompagnati da un folto gruppo di educatori e di insegnanti, hanno dapprima assistito alla proiezione del mediometraggio “Io e Freddie”, scritto e diretto dal giornalista catanese Francesco Santocono, per poi diventare parte attiva di uno confronto con alcuni specialisti ed esperti del settore. Il film, che lo scorso luglio ha conquistato il Premio Troisi per la migliore regia, ha offerto la possibilità di affrontare la questione annosa dell’Aids riportando alla luce i percorsi oscuri della malattia, tra condotte errate e di scarsa prevenzione, stimolando una riflessione collettiva che è subito sfociata in una raffica di domande verso i relatori. Conclusa la proiezione, dopo l’intervento del direttore dell’Istituto Letizia Belelli e dell’assessore alla salute del Comune di Catania Giuseppe Arcidiacono, l’incontro è proseguito con una serie di interventi che hanno inquadrato la problematica delle malattie trasmissibili sotto diversi punti di vista. Tra gli interventi quello della responsabile dell’ufficio speciale per la Comunicazione dell’Assessorato alla salute della Regione Siciliana Daniela Segreto, che ha sottolineato l’importanza della conoscenza e della consapevolezza per affrontare le malattie trasmissibili, del direttore dell’unità operativa di malattie infettive dell’Arnas Garibaldi Bruno Cacopardo e del direttore sanitario dell’Arnas Garibaldi Giuseppe Giammanco, che ha ricordato la necessità di attenersi totalmente alle regole dell’igiene La responsabile del servizio di psicologia dell’Arnas Garibaldi Angela Fabiano ha poi aperto la questione delle implicazioni sociali ed emotive dell’Aids. Padova. Ritorna “Solidaria”, con i volontari per parlare di pace di Francesca Visentin Corriere della Sera, 26 settembre 2021 Da lunedì 27 settembre al 3 ottobre la città ospita il festival. Pronte anche 2 guide per educare all’uso di un linguaggio non violento. Costruire la pace partendo dalle parole, che formano il pensiero e le azioni. Basta offese, stereotipi, istigazioni alla violenza. Con questo obiettivo 15 associazioni del Veneto unite negli Stati generali per la pace e la non violenza hanno creato due guide, una con particolare attenzione ai ragazzi delle scuole e l’altra per “amministratori coraggiosi”. Iniziative, esempi, percorsi per attualizzare il tema della pace. Le pubblicazioni, “Ma che discorsi!? Per una cultura della pace alternativa ai discorsi d’odio” e “Guida glocale alla pace per amministratori coraggiosi e non” (Cleup editore entrambe), sono nate dall’impegno di tante persone del mondo del volontariato, unite per offrire a giovani e istituzioni strumenti contro l’odio, in ogni sua forma. Le due guide (online e su carta) saranno presentate a Solidaria (www.solidaria.eu), festival della solidarietà e della partecipazione civica che avrà luogo a Padova (Capitale europea del volontariato) dal 27 settembre al 3 ottobre, diffuso in vari luoghi, con protagonisti del sociale, delle istituzioni, della musica, dell’arte e della letteratura. Sette giorni che mettono al centro il senso profondo delle relazioni e il significato di Cittadinanza Attiva partendo dal tema scelto, “Evoluzione”. Le guide per la pace saranno presentate sabato 2 ottobre a Palazzo Moroni: “Ma che discorsi?!” vuole contrastare il dilagare di violenza, razzismo, discriminazioni, stereotipi e insulti sui social. “Cerchiamo di creare consapevolezza”, spiega Chiara Segafredo di Amesci, una delle 15 associazioni che hanno lavorato per realizzare la guida. E prosegue: “Dai discorsi d’odio nascono i crimini. Perciò abbiamo creato una comunicazione diversa, che veicoli messaggi positivi per costruire la pace”. Tra le pagine si scopre che le cause del dilagare dell’odio sono soprattutto l’ignoranza, la differenza tra percezione e realtà e l’inconsapevolezza. “I discorsi d’odio sono nati ben prima dei social network - fa notare Chiara Segafredo - ma i nuovi media li hanno intensificati”. Fa riflettere la massima di Laozi, filosofo cinese fondatore del Taoismo: “Fai attenzione ai tuoi pensieri perché diventano le tue parole, fai attenzione alle tue parole perché diventano le tue azioni…”. Al centro delle proposte contro i discorsi d’odio i percorsi di formazione nelle scuole. E tra le schede su cui lavorare e da tenere presente è indicato anche il Manifesto per la Comunicazione non ostile. L’aspetto più innovativo del lavoro, spiega ancora Chiara Segafredo, è stato “il modo con cui sono state prese le decisioni per costruire i progetti: un percorso partecipativo per permettere alle associazioni, che in alcuni casi non avevano mai lavorato insieme, di confrontare percorsi, individuare obiettivi comuni, elaborare strategie di azione condivise”. La “Guida glocale alla pace per amministratori coraggiosi” propone invece agli amministratori locali iniziative concrete da realizzare. Dalle azioni più simboliche come intitolare piazze e strade a uomini e donne non violenti, ad altre più concrete come le veglie per la pace tra confessioni religiose diverse, o i corsi nelle scuole per educare alla pace. “Diciamo agli amministratori di impegnarsi - sottolinea Sergio Bergami del Mir, il movimento pacifista di cui faceva parte anche Martin Luther King - per fare crescere una cultura differente. Il Veneto è la prima regione in Italia che dal 1988 ha una legge per la diffusione della cultura della pace. Da allora la legge è stata spesso ritoccata e ha preso la direzione della cooperazione internazionale. Ma è importante riprendere il tema della pace e diffonderlo. La costruzione di modelli di pace è un impegno che investe ogni livello della società, soprattutto nella nostra epoca, dove processi spinti di globalizzazione comportano costanti e complesse interazioni fra tutte le dimensioni delle strutture politiche, sociali, economiche. Per questo è stato scelto per la guida l’aggettivo “glocale”, neologismo coniato per sottolineare, anche in materia di cultura di pace, la stretta connessione tra il locale e il globale”. Il festival Solidaria a Padova (www.solidaria.eu) è organizzato e promosso dal Centro Servizio Volontariato, protagonista di Padova capitale europea del volontariato 2020, in collaborazione con il Comune di Padova. Tra le novità di quest’anno lo spin off artistico “Solidaria on the balkon”, spettacoli tra arte e musica ospitati su balconi, piazze e giardini. I poveri della porta accanto nel post pandemia, viaggio nell’Italia della carità di Franca Giansoldati Il Messaggero, 26 settembre 2021 Le statistiche sulla povertà italiana spesso ingannano. Certamente permettono un bilancio sul fenomeno complessivo ma da sole sembrano non riflettere fino in fondo sullo stravolgimento del tessuto sociale in questi due anni di pandemia. I numeri ci dicono, per esempio, che i poveri della porta accanto sono cresciuti, che le famiglie che prima della pandemia riuscivano a stare a galla, facendo sacrifici, ora annaspano. Non è poi da tralasciare la categoria dei cinquantenni disoccupati che non riescono a reinserirsi. In parallelo affiora poi il dramma dei piccoli commercianti schiacciati dai mutui e finiti tra le maglie dell’usura. A volte basta una malattia per rovesciare le sorti di chi, fino a qualche anno fa, era in grado di barcamenarsi, magari tra un lavoro a termine e l’altro. Le statistiche di per sé fredde e precise non calibrano mai la dimensione umana del baratro che si è drammaticamente aperto. I volti, gli sguardi, le storie personali troppo spesso sconosciute diventano realtà quando vincendo ogni ritrosia bussano dignitosamente alla porta delle parrocchie, probabilmente il network più radicato e attivo che esiste ancora nel nostro Paese e che agisce al di fuori dei riflettori sull’intera dorsale appenninica, dal Nord al Sud, spesso facendo da supporto al welfare nazionale. Centri ascolto, ambulatori mobili, empori solidali, mense, case famiglia, dormitori, centri antiviolenza, associazioni di beneficenza senza contare la ragnatela delle Caritas che con i suoi terminali disseminati ovunque si dimostra insostituibile per la tenuta sociale del Paese. Ogni giorno alla Caritas si presentano in media 629 nuovi poveri. Una persona su quattro (24,4%) è il vicino della porta accanto, vale a dire persone che prima non avevano mai avuto bisogno, per un totale di 453.731 nuovi poveri. Si calcola che dal primo settembre 2020 al 31 marzo di quest’anno la Chiesa italiana ha sostenuto 544.775 persone, facendo una media sono 2.582 al giorno. Anche in questo caso la maggioranza è rappresentata da italiani (57,8%). Cosa rimarrà di questi due anni nella memoria nazionale probabilmente è un assemblaggio di immagini feroci e mai viste se non dai tempi della guerra. E man mano che il virus non accennava a diminuire le file di chi chiedeva aiuto si ingrossavano a vista d’occhio. Senza contare la solitudine degli anziani che spezzava il cuore. Nel sottofondo però fortunatamente si metteva in moto in parallelo, in punta di piedi, una macchina ben rodata resa possibile grazie all’8 per mille. Nelle 227 diocesi, da Aosta fino a Mazara del Vallo, a chi tendeva la mano veniva donata anche una scintilla di umanità capace di scaldare il cuore oltre che garantire concretezza. Non si contano i progetti alimentati ogni anno dal meccanismo di ripartizione del gettito fiscale. Fu avviato nel 1984, con la firma del Nuovo Concordato. Un ingranaggio che in questi due anni si è rivelato provvidenziale nonostante non vi sia piena consapevolezza di cosa produca effettivamente una semplice firma sulla denuncia dei redditi. Basta prendere gli oltre 200 empori solidali: dal 1997 ad oggi hanno soccorso 100 mila famiglie. Anche in questo caso i beneficiati sono soprattutto italiani (sei su dieci), il 27% sono ragazzi sotto i 15 anni. L’accesso agli empori avviene tramite colloqui individuali, e agli operatori basta una rapida occhiata per capire quanto sia ampio il disagio, al di là dell’Isee. Dai fondi dell’8 per mille si attingono risorse per l’acquisto di generi di prima necessità, per il pagamento delle bollette, fino alla realizzazione di attività di ascolto per anziani soli. La Cei, inoltre, ha potenziato le strutture sanitarie per creare più posti letto al Cottolengo di Torino, a Brescia, Tricase, Troina, Roma, Bologna. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Sono stati aperti anche decine di sportelli per i lavoratori in difficoltà o cassintegrati senza dimenticare la filiera della carità tradizionale nelle carceri, nei centri di accoglienza per i migranti, nelle case famiglia che ospitano padri separati senza dimora. Quando si parla di carità il pensiero, per associazione mentale, corre subito al portafoglio e al gesto di due mani diverse, l’una tesa a fare elemosina, l’altra a ricevere. Una firma sull’8 per mille resta un atto consapevole che in questi due anni di pandemia ha dimostrato essere non solo una firma ma molto di più. A dispetto del lievissimo calo dei contribuenti che si è registrato negli ultimi anni (dall’80% si è passati al 78,50 %), lo Stato italiano ha assegnato quest’anno alla Cei una cifra sostanzialmente in linea con quella degli anni passati. La somma relativa per il 2021 è pari a 1.136.166.333 euro determinati da 1.070.778.188 euro a titolo di anticipo per l’anno in corso, ed un conguaglio sulle somme riferite all’anno 2018 di euro 65.388.144. I dati trasmessi dal ministero dell’Economia sono relativi alle dichiarazioni dell’anno 2018 (redditi 2017) e indicano che la percentuale delle scelte a favore della Chiesa è stata pari al 78,50%. Denaro che ha dato un fondamentale sostegno alla tenuta sociale dell’Italia minata dal Covid. Un passo avanti verso la dignità del lavoro di Pietro Garibaldi La Stampa, 26 settembre 2021 Il salario minimo nazionale potrebbe essere la riforma che riempie di contenuto il patto sociale proposto da Mario Draghi all’assemblea di Confindustria. Enrico Letta per il Partito Democratico e Giuseppe Conte per i 5 Stelle hanno in effetti chiesto davanti ai sindacati che uno dei cardini del patto proposto da Draghi sia proprio il salario minimo. Al di là degli annunci, quella della paga minima oraria è però una specie di ritornello sventolato dalla politica da almeno due lustri. Per evitare dubbi e confusione, il salario minimo non deve confondersi con il reddito minimo garantito, altro tema al centro della agenda politica di queste settimane. Il salario minimo è un livello retributivo al di sotto del quale contrarre lavoro è vietato dalla legge. Non essendoci oneri diretti legati alla sua introduzione, la difficoltà di approvazione non può essere imputata alla tradizionale mancanza di risorse fresche. Come mi è già capitato di ricordare, l’introduzione del salario minimo restituirebbe dignità a una massa di lavoratori il cui trattamento economico orario è spesso inaccettabile. A livello europeo, ventitré paesi su ventisette hanno introdotto la paga minima oraria. In Italia, le difficoltà per approvare la riforma si incontrano quando si entra nei dettagli. Il primo problema è il livello della paga oraria. Pasquale Tridico nella sua intervista a La Stampa di pochi giorni fa ha parlato genericamente di nove euro lordi. Se si includono tutti gli oneri fiscali, probabilmente il Presidente Inps ha in mente una retribuzione netta intorno ai sette euro. Rispetto ai dati della distribuzione salariale elaborati dallo stesso Inps, con un livello intorno ai nove euro lordi si rischierebbe però di determinare un aumento del costo del lavoro per il 50 percento dei posti di lavoro esistenti. La questione del livello è quindi delicata e spinosa, anche perché in Italia il lavoro sommerso è un problema serio e dobbiamo evitare che il salario minimo finisca per favorire il nero. L’esperienza internazionale suggerisce che la scelta del livello del salario minimo sia sottratta al dibattito politico e demandata a una speciale commissione tecnica. Nel Regno Unito, la Low Pay Commission fu introdotta addirittura alla fine del secolo scorso. L’ostacolo più grande all’introduzione del salario è però dovuto proprio ai sindacati stessi. A Enrico Letta va il merito di aver portato il tema di fronte alla platea del sindacato Cgil che - in tema di salario minimo - ha spesso una posizione ambigua. La tesi tradizionale dei sindacati è che il salario minimo debba applicarsi soltanto ai lavoratori non protetti dalla contrattazione collettiva. È una posizione ambigua che spesso ha nascosto l’opposizione al salario minimo, visto come un rischio per il ruolo del sindacato stesso. In realtà è vero il contrario, poiché la paga minima oraria renderebbe limpido il contributo sindacale nella contrattazione. Dopo le dichiarazioni del segretario Letta, la posizione della Cgil potrebbe ammorbidirsi, ma bisognerà vedere le dichiarazioni del segretario Landini in sedi istituzionali. Vi è infine il problema delle differenze territoriali, poiché il salario minimo nazionale dovrebbe applicarsi simultaneamente sia in una metropoli come Milano che in una provincia come Caltanissetta, dove il reddito medio è indubbiamente molto più basso. Anche su questo tema è bene rifarsi all’esperienza internazionale dove spesso si è introdotta per legge una forma di “indennità metropolitana” per aiutare i lavoratori delle zone del Paese con costo della vita più elevato. La prossima settimana il Presidente del Consiglio incontrerà le parti sociali. Se davvero vuole essere artefice di un patto sociale che sia ricordato per almeno un decennio, l’approvazione del salario minimo da parte della sua eterogenea maggioranza sarebbe una grande riforma. Elogio dell’errore umano contro l’odio social di Walter Veltroni Corriere della Sera, 26 settembre 2021 Il mondo non è degli infallibili. E gli insulti sul web al giornalista che si è bloccato in diretta tv non rappresentano l’Italia reale. Una denuncia e una riflessione a commento della notizia che ha impegnato in questi giorni quel tribunale popolare permanente che è diventato il mondo dei social. Nel corso di un collegamento per la testata Rainews24, un giornalista, Paolo Mancinelli, ha avuto un blackout: improvvisamente non riusciva a mettere in sequenza concetti e parole. Alla fine ha onestamente opposto un decoroso silenzio all’attesa delle informazioni che doveva fornire. Si è smarrito, ha mostrato una fragilità che non saprei giudicare essere migliore o peggiore di certe cronache meccaniche, di certi dibattiti pieni di ovvietà, urla preparate e luoghi comuni. I responsabili della testata immagino abbiano cercato di capire cosa sia successo e perché. È il loro ruolo e, se hanno richiamato il collega al dovere di assolvere pienamente al suo compito professionale, sono stati nel giusto. Clima da mattatoio - Ma quello che è ingiusto, insopportabile e feroce è il clima da mattatoio che è scattato sui social. Dileggio, accuse personali, insulti. Una vita di lavoro messa in discussione e delegittimata per un momento di inspiegabile buio delle parole. Non so e non voglio sapere perché quel giornalista si sia smarrito. Ma so che capita. So che il mondo non è fatto dagli infallibili ma dalla meravigliosa approssimazione con la quale ciascuno cerca di corrispondere alla miriade di attese alle quali si deve inesorabilmente saper ogni giorno tenere testa. Sbagliare è sbagliato. Ma nessuno si può sentire autorizzato, da dietro una tastiera spesso anonima, a distruggere la rispettabilità professionale e personale di un essere umano reo di aver mostrato un istante di fragilità. C’è da immaginare che gli insulti a quel giornalista vengano da persone che non hanno mai sbagliato nulla nella propria vita. Il Tribunale supremo - L’errore invece è un elemento costitutivo dell’esperienza umana. Sbagliano calciatori e politici, professori, papi e artigiani. Ma il Tribunale supremo, o una parte di esso, si diverte, gode nello sbranare la vita di chi soffre, di chi è scivolato, di chi è caduto. La solidarietà verso quel giornalista, verso quell’essere umano, è dunque un piccolo dovere civile. E infatti la reazione delle persone per bene non si è fatta attendere. Qui si apre la riflessione. È un discorso difficile, ma ora forse necessario. Quando parliamo di questi fenomeni di odio ci stiamo davvero occupando di qualcosa che meriti la nostra attenzione? Un singolo tifoso urla contro il portiere del Milan, una donna interrompe un comizio di Letta, Conte o Salvini, uno squinternato manda proiettili a qualcuno di cui non condivide idee, posizioni, decisioni o tifo sportivo. È giusto denunciarlo, lo stiamo facendo. Ma sono minoranze. Sono unità di odio la cui amplificazione mediatica finisce col cambiare dimensione e volto al fenomeno. Sono singoli, spesso. Non movimenti, non migliaia di persone. Però il rilievo mediatico del gesto o dell’insulto di un singolo o di un gruppo ristretto lo fa diventare indizio presumibile di un pensiero diffuso. Una ristretta minoranza, fatta di uno o cento persone, diventa così la maggioranza della “rete” o dei “social”. Ragioni politiche - Spesso, ormai lo sappiamo, all’odio dei singoli si uniscono gli “shitstorm” organizzati per imbarazzanti ragioni politiche. Ma il quadro non cambia. Sono i media a trasformare gesti e parole dei singoli nell’immagine di una dilagante corrente di pensiero che merita il nostro allarme o la nostra riprovazione. Il rischio così è che la profezia si autoavveri. I fanatici e gli odiatori non sono solo inebriati dalla rilevanza che il loro gesto assume, ma scoprono e si illudono di non essere soli, anche se lo sono. La maggioranza nei social e nel paese, le due dimensioni non si identificano, è certamente estranea alla violenza verbale che può trasformare quotidianamente persone dabbene in anonimi e ringhiosi seminatori di veleno. Bisogna sempre ricordarlo, per non sbagliare analisi e fotografia del paese reale. E per non pensare che la cosa migliore da fare sia mutuare, da quei comportamenti, contenuti e linguaggi E per evitare che lo “spirito del tempo” sia definito da minoranze rissose e capaci di provocare frastuono. Esiste nel nostro paese una consistente maggioranza di persone responsabili, capaci di misurare parole e reazioni, di ascoltare e apprezzare pensieri altri dai propri. Se arrivano uno o cento messaggi di odio, bisogna sempre rammentare che siamo sessanta milioni di cittadini. È proprio quella maggioranza assoluta di italiani a costituire la base su cui edificare un tempo nuovo. Non è una maggioranza silenziosa. È una maggioranza consapevole e responsabile. Che non discrimina gli altri e cerca ogni giorno di costruire una comunità di persone diverse tra loro e capaci, perciò, di convivere. Che distingue il conflitto, necessario in democrazia, dall’odio. È l’Italia reale. È stata violentata a 15 anni in Libia. Ma il suo aborto in Italia è un altro inferno di Samuele Damilano L’Espresso, 26 settembre 2021 “Non ricordo il loro volto, era una persona, forse due, era buio. Prima di allora non avevo mai avuto rapporti sessuali”, racconta la ragazza minorenne. Arrivata nel nostro Paese, inizia il secondo calvario. Tra reticenze e mancate tutele, all’ordine del giorno per chi vuole interrompere una gravidanza. Cinquantadue giorni. Tanto ha dovuto attendere Anne (nome di fantasia) prima di poter interrompere una gravidanza causata da abusi subiti in un centro di detenzione libico. L’intervento è stato effettuato in un ospedale pubblico di Roma il 17 settembre. Alla ventesima settimana. Fossero passati solo altri dieci giorni, sarebbe stata costretta a tenere il bambino. “Non ricordo il loro volto, era una persona, forse due, era buio. Prima di allora non avevo mai avuto rapporti sessuali”, racconta la ragazza, 15 anni, proveniente da un Paese del corno d’Africa. Sbarcata in Italia il 30 giugno, il 26 luglio scopre di essere incinta. Le dodici settimane previste dalla legge 194/1978 per abortire tramite intervento chirurgico sono già passate. Dopo la quattordicesima, l’unica soluzione consiste in un’espulsione indotta tramite medicinali. Bisognerebbe affrettare i tempi. Ma il centro di accoglienza per minori non accompagnati che la ospita non si rivolge ai consultori, in grado di seguirla e aiutarla a superare gli ostacoli dell’odissea italiana che intraprende chi vuole abortire: dalla reticenza di chi ha idee diverse, e non rispetta la scelta della ragazza, a un rimpallo di responsabilità che nessuno si vuole assumere. Rimpallo che inizia il 19 agosto; come previsto dalla Legge 194, il giudice tutelare richiede una consulenza specialistica per valutare le condizioni psicologiche della ragazza e dare il proprio consenso all’interruzione della gravidanza oltre i novanta giorni. Incaricato di questo compito, un collegio di neuropsichiatri si sarebbe dovuto pronunciare il prima possibile, ché in situazioni del genere ogni giorno diventa fondamentale. Il tempo, nella testa di una quindicenne che si trova in un Paese straniero, costretta a fuggire dal proprio mondo e violentata più volte prima di intraprendere un viaggio che non sa dove la condurrà, con la sorella, in quel momento dispersa, come unico punto di riferimento, ecco, il tempo in quel periodo si misura tra una necessità, quella di voler abortire, e l’indifferenza, la mancanza di empatia di chi la dovrebbe tutelare. Il collegio di esperti non raggiungerà mai l’unanimità richiesta per procedere. Due membri sono contrari, ritengono sia ormai troppo tardi per abortire. Si arriva al 28 agosto. Un secondo giudice tutelare è chiamato a decidere sul destino di Anne, sempre convinta della sua decisione. Mancando il referto, però, il magistrato non può dare l’autorizzazione. E per Anne sembra ormai finita. Chi la segue le fa intendere erroneamente che sarà costretta a tenersi il bambino frutto delle violenze subite in un centro di detenzione libico. “Quale essere umano non ha pietà di una ragazza che ha subito questo inferno? Quale persona non riesce a capire una creatura che ha vissuto cose che molti di noi non vivono in 90 anni? È veramente troppo”, afferma Mafalda, altro nome di fantasia, chirurga specializzata in ostetrica e ginecologia che si è presa in carico l’operazione. Anche dopo novanta giorni e senza l’autorizzazione di un giudice, infatti, un medico può caricarsi della responsabilità della minore. L’ospedale era allertato già da agosto, in attesa di quel referto che non arriverà mai. Grazie alla tenacia di un’organizzazione umanitaria internazionale, e dopo il rifiuto di un ospedale in cui non c’erano medici disposti a effettuare un’interruzione di gravidanza dopo il primo trimestre, la ragazza viene accolta il 16 settembre e il giorno dopo le viene indotto un travaglio abortivo. “Le donne in questi casi entrano in un mondo talmente oscuro che non hanno piacere a raccontare, nemmeno con le amiche. Perché un conto è l’aborto dopo poche settimane, un conto quando partoriscono e vedono nascere un feto che sino a poco prima sentivano muovere dentro di sé. Vengono considerate delle killer, è una bella prova. L’ennesima che ha dovuto superare la ragazza”. Difesa, i missili cruise e la svolta dell’Italia di Gianluca Di Feo La Repubblica, 26 settembre 2021 L’Italia da sempre ha un’idea abbastanza confusa del concetto di “interesse nazionale” e soprattutto del modo di tutelarlo. Giustamente, in passato abbiamo preferito affidarci alla diplomazia e fare leva sulla nostra posizione nelle alleanze e nelle organizzazioni internazionali. Adesso però sta cambiando tutto, come ha dimostrato la lezione di Kabul. L’America guarda altrove, concentrata ormai nella grande competizione del Pacifico. E l’Europa non è in grado di sostituirla. Questa situazione mette il nostro Paese davanti a un problema, perché oggi il crocevia delle tensioni è nel Mediterraneo dove si sfidano potenze vecchie e nuove per accaparrarsi il controllo di territori, risorse economiche e rotte commerciali. Dalla Siria all’Algeria, passando per Cipro, Libia e Tunisia, il Mare Nostrum si è trasformato nella scacchiera di una partita di potere che condizionerà il futuro. Poco più a sud, nel Sahel, continua a divampare il più feroce focolaio jihadista contemporaneo, che rischia di allargarsi all’intera Africa centro-settentrionale. In questo scenario, due decisioni si preparano a cambiare completamente le capacità della nostra Difesa: due scelte in apparenza tecniche, destinate però a determinare una svolta strategica. La prima trasformerà la squadriglia di droni da ricognizione in bombardieri teleguidati: sui Reaper dell’Aeronautica verranno installati missili e bombe, permettendo di condurre missioni d’attacco praticamente in qualsiasi parte del pianeta. Terminato lo schieramento in Afghanistan, oggi questi velivoli senza pilota con le coccarde tricolori continuano a decollare dal Kuwait per monitorare la rinascita dello Stato Islamico in Iraq mentre fino a due anni fa sorvolavano discretamente i cieli della Libia. Tra qualche mese, oltre all’attività di sorveglianza, potranno anche compiere raid d’assalto. La seconda iniziativa - non ancora finanziata, ma inserita tra i “requisiti operativi” dello Stato Maggiore - prevede di dotare i nuovi sottomarini e le fregate Fremm della Marina di missili cruise: armi con un raggio d’azione superiore a mille chilometri, che rivoluzioneranno la possibilità di intervento. I cruise potranno essere lanciati dai sottomarini in immersione, senza quindi venire scoperti, coprendo tutta l’aerea del “Mediterraneo allargato” che il nostro Paese considera fondamentale per l’interesse nazionale. Un esempio? L’intera Libia fino al remoto Fezzan, dove è ancora attivo l’Isis, sarà alla portata dei cruise. Ma in linea teorica, consegneranno ai decisori politici uno strumento di deterrenza senza confini. Si tratta infatti dello stesso tipo di missili che saranno imbarcati sui sottomarini nucleari australiani al centro del dibattito internazionale in questi giorni. E dell’arma che dal 1991 ha segnato tutte le operazioni statunitensi, dall’Iraq ai Balcani fino alla “punizione” contro il regime siriano per l’uso di gas proibiti nel 2018. Il compito della Difesa - come ha ricordato il ministro Lorenzo Guerini nell’audizione alle Camere dello scorso luglio - è quello di “tutelare i nostri interessi nazionali, ovunque essi si collochino”. In quest’ottica, missili cruise e droni d’attacco rappresentano solo la risposta alla nuova realtà geopolitica: disporre dei mezzi per fronteggiare - da soli o in un futuro esercito della Ue - una serie di minacce condotte anche da territori lontanissimi, dimostrando una capacità di dissuasione concreta. Ciò che Francia e Gran Bretagna, giusto per restare in Europa, attuano già da decenni. Per l’Italia però si tratta di un grande cambiamento, che andrebbe recepito dal governo e dal Parlamento con la consapevolezza del ruolo che vogliamo avere in politica estera, senza lasciare che siano le innovazioni militari a definire la strategia del Paese. Internet meno libero nel mondo, maglia nera alla Cina di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 26 settembre 2021 Cala ancora, per l’undicesimo anno consecutivo, la libertà di Internet nel mondo. Maglia nera alla Cina, i peggioramenti maggiori nel Myanmar, ma diminuisce anche punteggio degli Stati Uniti per il quinto anno consecutivo. L’Italia è nel complesso libera. Ad affermarlo è il rapporto annuale del think thank Freedom House, l’organizzazione non governativa internazionale che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche e diritti umani. Ha preso in esame 70 nazioni, valutate su 21 diversi indicatori come gli ostacoli all’accesso alla rete, limiti nei contenuti che è possibile pubblicare, la violazione dei diritti degli utenti. Il report, in particolare, evidenzia che nell’ultimo anno in 48 nazioni su 70 analizzate - pari all’88% degli utilizzatori globali - sono state predisposte nuove norme per le aziende tecnologiche in materia di contenuti, dati e concorrenza. “Con poche eccezioni positive - spiega l’organizzazione - la spinta a regolamentare l’industria tecnologica che deriva in alcuni casi da problemi reali come le molestie online e le pratiche manipolative del mercato, viene sfruttata per soffocare la libertà di espressione e ottenere un maggiore accesso ai dati privati. Le vittime sono gli utenti”. I maggiori peggioramenti sono stati documentati in Myanmar, Bielorussia e Uganda, dove le forze statali hanno represso le crisi elettorali e costituzionali. Il calo del punteggio di 14 punti del Myanmar (ora a 17 punti) è il più grande registrato dall’inizio del progetto Freedom on the Net. La Cina, invece, con 10 punti si classifica come il peggior paese per la libertà di Internet per il settimo anno consecutivo “con la pandemia di Covid-19 che rimane uno degli argomenti più pesantemente censurati”. Il punteggio degli Stati Uniti (75) è diminuito per il quinto anno consecutivo con “informazioni false e manipolate che hanno influenzato l’accettazione pubblica dei risultati delle elezioni presidenziali del 2020”. L’Italia (76 punti) nel complesso è indicata come libera ma si segnalano nuove leggi o direttive che potrebbero portare ad un aumento della censura e ridurre l’anonimato online. Il punteggio più alto va all’Islanda (96), seguita dall’Estonia (94) e Costa Rica 87), primo Paese al mondo a dichiarare l’accesso a Internet un diritto umano. Altre statistiche del report rivelano che nell’80% delle nazioni analizzate sono state arrestate persone per i loro discorsi online; nel 41% delle nazioni si è arrivato a interrompere internet o le reti mobili per ragioni politiche; il 46% delle nazioni ha bloccato o ristretto l’accesso alle piattaforme social, scelta avvenuta principalmente in concomitanza di proteste o elezioni. Sul versante sorveglianza, infine, il rapporto segnala che le autorità di almeno 45 su 70 nazioni sono sospettate di sfruttare spyware (software spia) o tecnologie per l’estrapolazione dei dati fornite da aziende specializzate come Nso Group, finita nella bufera per il software Pegasus usato da alcuni governi contro giornalisti, attivisti e politici. A chi si occupa di legislazione, infine, Freedom House suggerisce la necessità di prevedere meccanismi che impediscano l’accentramento del potere nelle mani di pochi operatori dominanti, sia nel settore pubblico che in quello privato. Il Basaglia d’Africa che libera dalle catene i malati mentali di Valerio Bispuri L’Espresso, 26 settembre 2021 Grégoire Ahongbonon ha fondato centri di accoglienza in Benin, Togo e Costa d’Avorio. Che ospitano tremila pazienti psichiatrici spesso in condizioni disperate. Grégoire sembra avere un potere magico quando si avvicina a un paziente psichiatrico che si dimena sdraiato in una buca polverosa di una strada del Togo. Le sue mani lo calmano, in qualche modo lo tranquillizzano con poche parole portandolo con sé in uno dei suoi centri del Saint Camille. Grégoire Ahongbonon ha 69 anni, gli occhi piccoli e le mani molto grandi, indossa sempre un gilet con molte tasche, come quelli dei fotografi degli anni Ottanta e parla al cellulare per cercare di risolvere qualche problema dei 3mila pazienti ospiti nei centri da lui fondati in Benin, Togo e Costa d’Avorio. Da quando c’è il Covid-19 le cose sono peggiorate, anche se è riuscito a fare avere una dose di vaccino Johnson & Johnson a quasi tutti i ricoverati. Quando arriva lui in un centro lo abbracciano, lo toccano, lo baciano come fosse il loro padre che viene a trovarli. Grégoire dice di essere un missionario, ogni mattina si sveglia alle 6, va a messa e fa colazione con la manioca bollita (una radice che è una lontana parente della patata) e beve una tisana fatta di foglie di chinino, un’erba amarissima che usano tutti per combattere la malaria e qualunque virus, compreso il Covid-19. Le sue giornate sono caratterizzate da un continuo movimento, non si ferma mai e viaggia per il Benin o va in Togo o in Costa d’Avorio, tra i villaggi e i centri del Saint Camille, tra pazienti e suore perché la sua magia consiste nel credere che un malato mentale è una persona e si può guarire anche nei posti più remoti dell’Africa. Per questa sua convinzione assoluta di poter non solo aiutare ma anche recuperare persone ridotte in condizioni disperate viene soprannominato il Basaglia nero. A ragione, perché sono tanti i casi in cui ha preso con sé un essere umano buttato sulla strada o addirittura legato a un albero e gli ha ridato prima di tutto dignità e poi pian piano ha recuperato quella parte di lui ancora sana, perché Grégoire sostiene che non tutto si rompe, si deve solo ripartire e allora si inizia facendo fare al paziente il lavoro che faceva prima di stare male o dandogli dei compiti: per esempio chi guarisce aiuta e porta avanti chi è all’inizio del percorso, in una catena di montaggio che gli permette di essere vicino a chi ha più bisogno. Ci sono pazienti che cucinano, che si occupano della pulizia dei centri, c’è persino un forno e chi fa il pane caldo ogni mattina. Non tutti riescono però ad arrivare a una completa guarigione, molti rimangono fermi nella loro realtà immobile, dove gli occhi guardano senza guardare e le mani si intersecano senza riuscire a toccare nulla, ma sono trattati come esseri umani e ricevano un pasto e hanno una stanza dove stare. Da trenta anni Grégoire raccoglie malati per strada, molti dei quali in Benin erano legati a vita agli alberi dove facevano i loro bisogni sotto la pioggia o il sole, venendo spesso bastonati perché considerati dei diavoli dai santoni del Vudù. Il Benin è la patria di questa strana religione fatta di riti e sacrifici animali che non ammette interferenze e chi non è considerato normale, è “strano” e viene allontanato dal villaggio. Per chi ha problemi psichici, ancora peggio, viene legato con delle catene per non poter nuocere. Nel 2014 è stato trovato nel nord del Benin un “campo di preghiera” così chiamato dove erano legate 205 persone, ridotte a scheletri umani che si lamentavano e urlavano. In alcune parti dell’Africa il malato mentale è percepito come posseduto dal demonio, stregato e il suo delirio, il suo comportamento insolito, bizzarro, è interpretato come fosse una specie di posseduto. Tutti lo tengono a distanza, nessuno vuole toccarlo per timore di essere a sua volta contagiato. Per questo nei villaggi lo si incatena ad un albero e lo si lascia così fino alla sua morte mentre in città è lasciato nudo e abbandonato alla sua sorte, per paura. Lo Stato del Benin non se ne è mai voluto occupare veramente, un po’ per non andare contro i santoni del Vudù e un po’ perché non aveva strutture e modo per poterli curare. È stato Grégoire a scioglierli e a portarli con sé per farli ridiventare persone. Quando si avvicina a loro ha un modo deciso e dolce allo stesso tempo, riuscendo a calmare anche chi è aggressivo. Ora in Benin non si trovano quasi più “campi di preghiera” e molto raramente persone legate, se non in qualche remoto villaggio. Anche per strada sono in pochissimi a vivere abbandonati alla loro malattia. In Togo la situazione è diversa e ancora ci sono realtà difficili che non riescono a cambiare. Ma Grégoire è sempre fiducioso, ha una fede profonda e anche se i centri ormai sono al completo pensa che in qualche modo si farà, e per strada comunque non lascia nessuno. Quando è andato in Togo è tornato in Benin con un uomo cieco e malato che viveva sotto un albero. È stato portato in un centro, è stato lavato e gli è stato dato un pasto e una branda dove dormire. Presto un medico si prenderà cura dei suoi occhi e con il tempo forse potrà tornare a vedere. Quest’uomo dagli occhi piccoli e le mani grandi è riuscito a creare quattro centri di accoglienza in Costa d’Avorio, due centri di riabilitazione; un ospedale con l’unità di medicina generale, di oftalmologia, di radiologia, di odontostomatologia, due laboratori di analisi di cui uno per il trattamento degli affetti da Hiv e una farmacia. In Benin tre centri di accoglienza; un ospedale con un reparto maternità e uno di medicina generale, un Centro di accoglienza e un Centro di riabilitazione a Cotonou-Calavi e 24 relais (punto di consultazione, monitoraggio e consegna farmaci) distribuiti su tutto lo Stato. In Togo due centri di accoglienza, uno di questi ospita oltre trecento pazienti. All’inizio però non è stato tutto così facile, lo stesso Grégoire ha passato momenti disperati: nato a Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria, si trasferisce nel 1971 a Bouaké in Costa d’Avorio dove inizia a fare il gommista. Presto apre un’agenzia di taxi che in poco tempo lo fa diventare ricco. Dura poco però perché le cose cominciano a girare male, fa investimenti sbagliati e si ritrova sul lastrico. Comincia un periodo di profonda depressione, tanto da portarlo a tentare il suicidio verso la fine degli anni Settanta. È però proprio in questo periodo che si riavvicina alla Chiesa cattolica, da cui si era allontanato. Nel 1982 partecipa a un pellegrinaggio a Gerusalemme nel corso del quale una frase pronunciata dal sacerdote durante l’omelia lo toccherà profondamente e cambierà il suo destino: “Ogni cristiano costruisce la Chiesa portando la sua pietra”. Al rientro a Bouaké Grégoire riflette su quale possa essere la “sua pietra”. Poi un giorno, guarda una persona che vaga nuda per strada alla ricerca di cibo nella spazzatura. Contro quella che è la cultura locale, Grégoire si avvicina a quella persona che sa essere un malato mentale in quanto la nudità ne è un segno distintivo. In lui è come se vedesse il Cristo e smette di provare paura. Si illumina, capisce in qualche modo quale è il suo compito, cosa vuole fare: aiutare chi è malato e solo. Con l’appoggio della moglie inizia a vagare per le strade di Bouaké alla ricerca dei malati mentali e offre loro cibo e abiti per coprirsi. Scopre così le condizioni disumane in cui vivono le persone affette da disturbo psichico in Costa d’Avorio e ben presto si rende conto che l’incatenamento e l’abbandono sono pratiche diffuse e accettate dalle comunità locali e che i malati mentali sono considerati “gli ultimi fra gli ultimi”. Prende allora la decisione di dedicare la sua vita alle persone affette dalla malattia mentale e agli emarginati dalla società e inizia a liberarli dalle catene e a raccogliere dalle strade le persone con problemi psichici, gli epilettici e tutti coloro che nessuno “vuole”. All’inizio porta i malati in una cappella abbandonata, ma ben presto non c’è più posto, con tutti gli sforzi suoi e della famiglia e di tutti quelli che lo aiutano organizza un gruppo di preghiera che in breve tempo si trasformerà in un gruppo di carità per i malati bisognosi di cure: è l’Associazione Saint Camille de Lellis di Bouaké ed è l’inizio di una rivoluzione che ridà fiducia, cominciano in molti ad appoggiarlo e anche a criticarlo, ma la sua fede e le possibilità aumentano e da quel primo centro ne nascono molti altri in Benin e Togo, oltre che in Costa d’avorio. Grégoire non si vuole fermare, sostiene che c’è molto ancora da fare, le condizioni dei centri sono molto meglio della strada ma possono essere migliorate, bisogna trovare una forma per cui tutti oltre che sopravvivere possano trovare una loro forma di esistenza dignitosa. Quello che sta facendo Grégoire ha superato i confini degli Stati africani e i centri di psichiatria occidentali si sono interrogati sulle storie di rinascita umana che continuano a contraddistinguere l’opera del Saint Camille. Sono molte oggi le Ong e i centri di psichiatria che lo contattano e lo vengono a trovare per capire quello che sta facendo, come riesce a ridare la vita a una persona malata. Lui risponde a tutti che quello che fa è quello che sente e che ogni uomo ha il diritto di poter vivere un’esistenza dignitosa. Ogni tanto anche lui sembra stanco, abbassa lo sguardo per un attimo poi si riprende e grida a tutti: “Andiamo, andiamo”. Stati Uniti. Nel braccio della morte, per difendere la vita di Davide Dionisi vaticannews.va, 26 settembre 2021 Intervista a Dale Recinella, cappellano “laico” nel braccio della morte in Florida. “Molti cristiani sono convinti che sia uno strumento che il Signore ha dato all’uomo per vendicarsi”. Nei prossimi giorni a Roma dove riceverà il premio “Custode della vita”, indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita, e visiterà i detenuti collaboratori di giustizia nella Casa di reclusione di Paliano. Con i suoi 320 detenuti, lo stato della Florida ha il più grande braccio della morte attivo negli Stati Uniti. Di questi, una sessantina sono cattolici e altri 17 si stanno convertendo. Dale Recinella li conosce bene e, insieme a sua moglie Susan, li assiste, accompagnandoli ogni giorno parlandogli di Gesù. Ex prestigioso avvocato della finanza di Wall Street, laureato alla Notre Dame Law School, proprietario di un attico affacciato sulla baia di Miami, lascia tutto trenta anni fa e decide di diventare assistente spirituale dei condannati a morte. Prima di salire sul volo che lo porterà a Roma dove, nei prossimi giorni, parteciperà all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita, riceverà il premio “Custode della vita”, indetto dalla stessa Accademia, e visiterà i detenuti collaboratori di giustizia nella Casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone, racconta a Vatican News la sua missione e l’impegno della Chiesa in questo difficile percorso ad ostacoli e quali sono le prospettive future in vista di una prossima, quanto auspicabile, abolizione della pena capitale nel suo paese. Alla luce anche di quanto avvenuto in Virginia, diventato lo scorso marzo il primo Stato del sud a scaricare il boia. Recinella affronta subito il tema delle “persistenti resistenze” negli Usa per l’abolizione della pena capitale. “Ritengo che ancora sia in vigore anche per alcune nostre responsabilità. Molti cristiani sono convinti che sia uno strumento che il Signore ha dato all’uomo per vendicarsi. E’ evidente che questo esula dagli insegnamenti cardine del Vangelo”. Ma Dale è convinto che la Chiesa statunitense riesce pienamente ad incidere nel dibattito sull’abolizione. Anzi, definisce il suo ruolo “fondamentale”. “Negli anni 80 e 90 i fautori alle esecuzioni rappresentavano l’80 percento della popolazione. La visita di Giovanni Paolo II fu determinante sotto questo punto di vista perché lanciò un messaggio forte. Tale spinta rese possibile una riflessione e un’indagine più approfondita tanto che ci si rese conto che nei bracci della morte c’erano molti innocenti. Oggi possiamo dire che l’opinione pubblica è divisa a metà anche perché Benedetto XVI prima, e Francesco poi, hanno continuato sul solco di Woytila attraverso prese di posizione molto forti. E’ un cammino lungo e faticoso, ma continuiamo nella nostra missione”. Recinella chiede, poi, di “prestare molta attenzione ad evitare di agire senza sapere quale direzione prendere”. Il riferimento è ai media americani che, a suo avviso, continuano a dire che la Chiesa americana non è proprio contraria alla pena di morte. “Questa la considero un’aberrazione. Il nostro compito è quello di difendere la vita a tutti costi attraverso la nostra testimonianza diretta”. La presenza del cappellano e della comunità cristiana esterna faticano sempre più nelle carceri a trovare tempi e spazi per garantire ai detenuti il diritto alla pratica della propria fede e allo svolgimento di attività complementari. Secondo Fratello Dale si tratta dell’effetto di un sistema di valori distorto della nostra società. “Negli Stati Uniti la situazione si è aggravata rispetto a 20 o a 30 anni fa perché le famiglie preferiscono dare la priorità a tante altre attività. Nel quartiere cattolico italiano di Detroit dove sono cresciuto, negli anni Cinquanta, si era soliti andare in chiesa diverse volte a settimana” racconta, osservando che “Oggi il nostro tempo da dedicare al Signore si è ridotto. E questo è avvenuto anche in carcere. La formula è semplice: se ci fosse più spazio per Dio nel nostro quotidiano, ci sarebbe meno criminalità. In questo scenario non possiamo aspettarci che i detenuti possano diventare più santi di noi”. Parlando delle difficoltà di un volontario che presta servizio dietro le sbarre, precisa che: “I detenuti ci osservano attentamente. Più di quanto noi possiamo sospettare”. E ricorda i suoi primi servizi: “Nei primi anni 90, quando mi recavo in prigione, soprattutto nei mesi più caldi dell’anno, c’erano alcuni agenti di polizia penitenziaria che non gradivano la mia presenza in carcere e spesso mi lasciavano sotto il sole per ore ad attendere. Ma sapevo che avrei dovuto gestire il mio malessere e la mia rabbia pensando soprattutto a coloro che mi stavano aspettando. Perché ero certo che incontrando loro, avrei visto Gesù”. Per Recinella, il cappellano in carcere vive un doppio malessere anche perché vuole fortemente migliorare le cose, ma non può farlo. Soprattutto quando la sofferenza dei ristretti raggiunge limiti insopportabili. E questa sensazione di impotenza si acuisce quando si ha a che fare con i condannati a morte. “Ho promesso a molti uomini e a molte donne che sarò con loro nel momento verranno giustiziati. Li guardo dietro le sbarre (e non sono più una minaccia per nessuno) e mi rendo conto che verranno uccisi dallo stato. Non posso non avvertire un senso di sgomento perché mi sento parte di quel sistema. È l’emozione più cupa contro cui devo lottare soprattutto quando torno in carcere dopo l’esecuzione. Ma un vero accompagnatore, non può posizionarsi ad una distanza di sicurezza. Mi sono detto che per accompagnare Gesù quando muore sulla croce, devo essere ai suoi piedi anche se il sangue delle sue ferite mi cade addosso. Anche perché la domanda più frequente che tutti i condannati mi rivolgono è sempre la stessa: Sarai lì quando morirò?”. Scontri di potere al vertice e stragi jihadiste, la Somalia tra due fuochi di Stefano Mauro Il Manifesto, 26 settembre 2021 Il primo ministro Mohamed Hussein Roble e il presidente della repubblica ad interim Mohammed Abdullahi, detto Farmajo, ai ferri corti. E permane lo stallo sulle elezioni. Al-Shabaab tira dritto: autobomba contro un posto di blocco a Mogadiscio, almeno 8 i morti. Si aggrava la crisi ai vertici del potere in Somalia, con lo scontro tra il primo ministro Mohamed Hussein Roble e il presidente della repubblica ad interim Mohammed Abdullahi, detto Farmajo.il primo ministro Mohamed Hussein Roble e il presidente della repubblica ad interim Mohammed Abdullahi, detto Farmajo. Una crisi, cominciata due settimane fa, che sta causando nel paese e nella capitale Mogadiscio un nuovo clima di tensione, in un difficile contesto che vede la Somalia alle prese con uno stallo elettorale per le future presidenziali - rimandate dallo scorso febbraio -. e i continui attentati di matrice jihadista condotti dal gruppo Al-Shabaab, affiliato ad Al Qaeda. Proprio nella serata di venerdì il gruppo jihadista ha rivendicato l’esplosione di un’autobomba a un posto di blocco nelle vicinanze del palazzo presidenziale che ha causato almeno 8 vittime e 12 feriti e che si aggiunge all’attentato della scorsa settimana con altri 15 militari delle forze di sicurezza uccisi. Il feroce conflitto ai vertici dello stato somalo è cominciato quando Mohamed Roble ha licenziato prima Fahad Yasin - stretto alleato di Farmajo e potente capo della National Intelligence and Security Agency (Nisa) - e poi il ministro della Sicurezza, Hassan Hundubey Jimale, a causa degli scarsi risultati ottenuti anche in merito all’indagine sul rapimento di una sua collaboratrice, finita con un nulla di fatto. Come risposta il presidente Farmajo ha nominato il suo vecchio amico Fahad - un grande artefice della sua vittoria presidenziale del 2017 - consigliere presidenziale per la sicurezza e ha revocato nei giorni scorsi “i poteri decisionali attribuiti al primo ministro” a causa di comportamenti “incostituzionali”. L’escalation preoccupa la comunità internazionale, a meno di cinque mesi dagli ultimi scontri armati a Mogadiscio. Recentemente, in una dichiarazione congiunta, l’Onu, gli Stati uniti, l’Ue e l’Unione africana hanno esortato i leader somali “a disinnescare il confronto politico”, chiedendo in particolare “il completamento del processo elettorale senza ulteriori indugi”. Lo scorso aprile - dopo la nomina da parte del parlamento di Farmajo ad altri due anni di presidenza ad interim ed il rischio di una nuova guerra civile - lo stesso Farmajo si era rivolto a Roble per disinnescare una difficile situazione e gli aveva affidato il compito di organizzare le elezioni presidenziali. Missione compiuta in un mese da parte del primo ministro che era riuscito a trovare un accordo con i governatori dei 6 stati semi-autonomi (Puntland, Galmudug, Jubaland, South West State, Hirshabelle e Somaliland) e le loro spinte indipendentiste. “Questo conflitto rischia di compromettere l’accordo raggiunto grazie alla capace mediazione di Roble” ha dichiarato Omar Mahmood, analista dell’International Crisis Group (Icg), con le presidenziali previste per il 10 ottobre a rischio, visto che l’iter organizzativo per la nomina dei membri della camera bassa, ultimo passo prima dell’elezione del capo dello Stato, è già in ritardo. Molti analisti ritengono che lo stallo elettorale abbia distolto l’attenzione da altre questioni critiche per la Somalia, tra cui l’insurrezione jihadista di Al-Shabaab, che sta colpendo costantemente nel paese e che ha dichiarato di “volersi ispirare alla vittoria dei Talebani in Afghanistan per la creazione di un emirato nel Corno d’Africa”. Afghanistan. “Senza le voci delle donne, Kabul è morta” di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 26 settembre 2021 La testimonianza di una studentessa afghana: “Ora sono di nuovo i talebani a decidere il modo in cui ci dobbiamo di vestire, legare i capelli, ridere. La nostra attività politica ha valore, ma il popolo non può battersi con la pancia vuota”. Sulla terribile situazione che sta vivendo l’Afghanistan abbiamo sentito una giovane studentessa afghana in Italia per un master. Per ovvi motivi di sicurezza non possiamo indicare il suo nome. “L’intero paese è al collasso, sia dal punto di vista istituzionale che economico”. “Banche, aziende, uffici governativi, start up locali e persino i negozi sono chiusi, l’import e l’export sono completamente bloccati, per l’Afghanistan significa fame e povertà. Non circola denaro e anche coloro che hanno depositi in banca non possono prelevare più di 200 dollari al mese. Piccole attività come centri estetici, sale per matrimoni, ristoranti, caffè, palestre, sartorie sono bloccati. I commercianti che vendono vestiti occidentali di seconda mano, siccome uomini e donne non possono più indossare jeans e magliette, stanno subendo gravi perdite”. “Il tasso di disoccupazione è molto alto: gli uffici governativi, scuole e aziende private sono stati chiusi. Anche il sistema giudiziario versa in uno stato disastroso e la gente non può ottenere documenti, certificati di matrimonio, passaporti o documenti catastali. La città è morta, non si sentono più musica, rumori e la voce delle donne, pochi circolano in macchina perché il gas e la benzina sono molto cari. L’inverno si sta avvicinando e il prezzo del gas è quasi raddoppiato, non ci sono soldi per comprare legna o cibo da conservare per la stagione più rigida”. “Le strade di Kabul - continua - sono piene di merce di seconda mano venduta da chi lascia la città o da chi ha bisogno di soldi per mantenere i figli. Questa situazione provoca una grande disperazione. Il direttore delle prigioni ha annunciato che saranno ristabilite esecuzioni pubbliche, taglio di mani e piedi e ha dichiarato che “non abbiamo bisogno di suggerimenti dall’estero, seguiamo l’islam e il Corano che è la sua legge”. Il ministero della donna è stato sostituito con il ministero per la propagazione della virtù e prevenzione del vizio. Questo ha provocato timori e apprensione perché è questo ministero che controlla la vita quotidiana: il modo di vestire, le donne che escono senza un mahram (un maschio della famiglia), la lunghezza della barba, il modo in cui le donne legano i loro capelli, come ridono, etc. I taleban dicono che seguiranno l’esempio dell’Iran. Per quanto riguarda le donne, i taleban ripetono che potranno lavorare o studiare ma solo nell’ambito previsto dalla sharia (che è interpretata in modi diversi). Ci sono molte divisioni all’interno degli stessi taleban, alcuni hanno aperto le scuole per ragazze fino alle superiori altri solo per le elementari, mentre nelle città come Kabul, Herat e Mazar-i-Sharif sono chiuse”. “Le donne non possono lavorare sia nel settore pubblico che privato e in alcuni luoghi segnalazioni indicano che devono essere vestite di nero dalla testa ai piedi. Le donne possono lavorare solo nel settore sanitario ma la sanità si sta disintegrando per mancanza di medici e medicine. La maggior parte delle medicine sono importate ma ora le frontiere sono chiuse e la gente muore per mancanza di farmaci. I prezzi dei generi alimentari sono raddoppiati, alcuni sono scomparsi. Ci sono anche forti pressioni psicologiche, la gente è molto depressa, preoccupata e ansiosa per l’incertezza sul futuro. I taleban dicono di aver portato la sicurezza ma il popolo non vuole una sicurezza in cui si può morire di fame”. I taleban chiedono un riconoscimento internazionale e di partecipare all’assemblea dell’Onu… È difficile prevedere cosa sarà loro concesso, tuttavia una cosa è chiara: l’Afghanistan diventerà il terreno di scontro tra Usa, Cina e Russia. Vi sono già scontri all’interno dei taleban - tra i sostenitori di Haqqani e quelli del mullah Baradar - provocati dalle interferenze delle potenze straniere che lottano per spartirsi l’Afghanistan. Il maggiore timore per ora è rappresentato dall’Isis che lo scorso mese ha rivendicato almeno tre attacchi. È solo l’inizio e siamo sicuri che gli scontri si intensificheranno e aumenterà il bagno di sangue. I taleban stanno utilizzando la drammatica situazione per ottenere aiuti... È un pesante ricatto. Comunque, nessuna circostanza giustifica un riconoscimento dei taleban. Ora si fingono moderni e aperti per essere accettati ma un loro riconoscimento sarebbe un grave tradimento del nostro popolo e specialmente delle donne. Ci sono molte pressioni internazionali per formare un governo “inclusivo”, con il coinvolgimento di donne e di rappresentanti di altre etnie (i taleban sono prevalentemente pashtun). Anche se includono qualche donna con il burqa, o alcuni criminali hazara, tagiki uzbechi, la natura del governo non cambierà. Saranno sempre fascisti, terroristi, fondamentalisti, misogini. L’assemblea Onu e gli alleati preparano il terreno per il riconoscimento ufficiale. La maggior parte dei paesi sta cercando accordi separati con i taleban, come il governo britannico che ha annunciato un risarcimento per le morti civili di cui naturalmente beneficeranno i taleban. Come possiamo aiutare le donne che lottano nel paese? È possibile un compromesso con i taleban per singoli progetti? O l’unica possibilità è un lavoro clandestino? Potete aiutarci sostenendo la nostra attività e i nostri progetti, parlandone nelle scuole, università, incontri e conferenze. Vorremmo che i finanziamenti alle Ong continuassero, tuttavia le politiche e le regole dei taleban rispetto a queste attività non sono noti. Non sappiamo se potranno ricevere finanziamenti, a chi sarà permesso operare e in quali condizioni, occorre vedere come evolverà la situazione. Se ci saranno possibilità di aiutare le donne e i bambini afghani, non lo consideriamo un compromesso ma una reale opportunità. Occorre individuare chi ha più bisogno di aiuto e non si può fare con il lavoro clandestino. La nostra attività politica ha un valore ma crediamo che il nostro popolo sia sull’orlo della fame e della povertà e non si possono combattere i taleban a pancia vuota.