L’Italia dei bambini in carcere di Daniele Barbieri comune-info.net, 25 settembre 2021 La legge di bilancio aveva stanziato un fondo da 4,5 milioni di euro per sviluppare soluzioni di detenzione alternative al carcere: soldi da spendere in 3 anni. Eppure l’ultimo rapporto di Antigone, del gennaio 2021, conferma che ci sono ancora diversi bambini che nascono o restano dietro le sbarre con le madri e che è ancora possibile spezzare le famiglie. Il 3 settembre Amra ha partorito sua figlia con l’aiuto di Marinella, incinta al quinto mese. Erano sole in una stanza stretta che di solito viene chiamata cella. È successo nel carcere di Rebibbia. Questo ha permesso a giornaliste-i di scrivere qualche articolo quasi sempre fra sdegno, colore e scarse informazioni. Reattività istituzionale? Zero. Poi è calato il silenzio. Al solito. Vediamo di capire qualcosa di più sull’Italia che oggi tiene bambine e bambini nelle galere ma anche su come a questo “sonno” si sia arrivati nel Paese che ipocritamente celebra sempre le madri. In coda troverete una chiacchierata con Marzia Belloli sul passato prossimo cioè sulla legge 40 del 2001 che affrontò la questione delle detenute madri e accese per un po’ i riflettori su questa vergogna. Questo breve viaggio Inizia con i numeri attuali e con alcuni degli ultimi “fattacci”… anch’essi rimossi dopo pochi giorni di finto dibattito e misera informazione, proprio come accaduto per la bimba di Amra. I numeri - Secondo l’ultimo rapporto di Antigone al 31 gennaio 2021 erano 29 i bambini, 13 dei quali stranieri, in carcere con le proprie 26 madri. Erano alloggiati nell’Icam - la sigla sta per “Istituti a custodia attenuata per le madri” - di Lauro (8), in un altro Icam affiliato al carcere di Torino (6), nel carcere femminile di Rebibbia (5), nelle carceri di Salerno e Venezia (3), nel carcere di Milano Bollate (2) e nelle carceri di Foggia e Lecce (un unico bambino per ciascuna delle due strutture). Al 28 febbraio 2021 i bambini erano scesi ulteriormente a 27, con 25 detenute madri. “Siamo a uno dei minimi storici, se pensiamo che un anno prima i bambini in carcere erano 57 e che le presenze negli ultimi 25 anni sono rappresentate nel grafico seguente”. Minimo storico sì - nel 2018 erano 62 - ma uno “zoccolo duro” sembra proprio ineliminabile. Nonostante leggi, riforme, nuove proposte. Chissà come faranno in altri Paesi. Il 23 gennaio 2021 sul quotidiano Repubblica Flavia Carlorecchio scriveva: “Sono ancora 28 bambini rinchiusi in cella con le loro madri in Italia. La nuova legge di Bilancio ha stanziato un fondo da 4,5 milioni di euro per sviluppare soluzioni di detenzione alternative”: soldi da spendere in 3 anni. Si stanziano spesso fondi in Italia (e i media strombazzano) per sanare le peggiori vergogne ma poi è difficile sapere se e come vengono spesi. Daniela de Robert del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nell’articolo di Flavia Carlorecchio spiegava: “Di fronte all’emergenza imposta dalla pandemia, sono state prese delle misure per ridurre la pressione sulle carceri. Subito sono state alleggerite le pene inflitte alle madri con bambini al seguito. Questo significa che non era necessario che fossero lì”. Dunque se qualcosa si muove è “grazie” alla pandemia? Ancora la De Robert: “La soluzione ideale è quella di far scontare pene in strutture che assomiglino il meno possibile ad un carcere, affinché possano crescere i propri figli in un ambiente “normale”, accogliente”. La legge in vigore è la 62 del 2011. Prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino ai sei anni di età - salvo esigenze eccezionali - ovvero “Istituti a custodia attenuata per le madri” (ICAM) e casefamiglia protette. È assai opinabile che un Icam sia davvero “custodia attenuata” ma in ogni caso neanche questo si è riusciti a fare. Ci sono proposte di riforma della legge 62-2011: ne parleremo magari in un’altra occasione. Perché per ora sono fiato e basta. Il caso di Bologna - A proposito dei bambini in carcere anche nella “civilissima Bologna” commentando il secondo rapporto semestrale della Ausl (Carcere Bologna: il disastro permanente) Vito Totire nell’agosto 2020 scriveva: “irrisolto il problema dello spazio per una persona detenuta con bambino; irrisolto nel senso che, dopo tanti anni, ancora non paiono esecutive le norme che vietano la detenzione in carcere di bambini piccoli che devono invece essere ospitati, con le loro mamme, negli ICAM e/o comunque in una struttura alternativa al carcere e diversa a seconda della posizione giuridica della madre; di recente, ancora una volta, la Dozza ha ospitato una bambina di 4 anni, sia pure per pochi giorni! comunque, fino a quando esiste lo spazio per donna con bambino, lo spazio “rischierà” di essere occupato a discapito della strutture alternative extracarcerarie”. Passano pochi mesi e la direzione del penitenziario annuncia che al reparto femminile del carcere Dozza il 9 luglio sarà inaugurato un nido per ospitare di volta in volta fino a due donne coi loro figli. Non è d’accordo il garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli che fra l’altro dice: “Non è stata una sorpresa: il nido nei reparti femminili è una misura prevista dal 1975. La scelta di realizzarlo oggi appare tardiva se non anacronistica. La legge 62 del 2011 già riconosceva la fondamentale importanza della casa famiglia protetta, snodo fondamentale per garantire un riferimento abitativo alle madri con provvedimento di custodia cautelare o esecuzione della pena con i propri bambini” (vedi https://www.zic.it/invece-di-tenere-i-bambini-fuori-dal-carcere-alla-dozza-apre-un-nido). Proteste, promesse. Poi il 9 luglio la direttrice Claudia Clementi inaugura il nido in gabbia con Gianfranco De Gesu, direttore della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap che dichiara: “Nessuno vuole vedere bambini in carcere, ma la legge lo prevede… L’augurio che voglio fare a questa struttura è che venga utilizzata il meno possibile. Speriamo che presto ci siano norme che la rendano non più attuale, e che dunque possa essere definitivamente superata. Tra nidi e Icam, negli istituti italiani ci sono 31 bambini e 27 mamme: l’auspicio è che presto si sancisca che un bambino non possa, nella maniera più assoluta, stare in carcere” (https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/inaugurato_nido_alla_dozza_la_direttrice_nessuno_vuole_vedere_bambini_in_carcere_ma_la_legge_lo_prevede). A molti sembra di capire però che la struttura inaugurata a luglio partirà soltanto in settembre (un ripensamento? pressioni ufficiose della Regione Emilia-Romagna?). Invece a fine luglio su www.zic si legge: “Ancora bambini costretti a vivere in carcere: nei giorni scorsi sono entrati in un istituto penitenziario dell’Emilia-Romagna due bambini di appena sette e di 17 mesi, insieme alle loro mamme (una per scontare una pena di 20 giorni, l’altra per un provvedimento di custodia cautelare). Lo segnalano la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Clede Maria Garavini e il Garante dei detenuti Marcello Marighelli, secondo cui questi due casi confermano che si continua ad assumere decisioni e a valutare situazioni senza tenere ben presenti le esigenze specifiche dei bambini connesse alla loro crescita e i diritti sanciti da norme internazionali e nazionali, in particolare l’interesse superiore del fanciullo che, come indicato dall’articolo 3 della Convenzione Onu, deve orientare tutte le scelte relative alle persone di minore età”. (https://www.zic.it/altri-due-bimbi-in-carcere-di-sette-e-17-mesi) Le promesse, le alternative, una tragedia a Rebibbia - Il ministro Andrea Orlando aveva assicurato: “entro il 2015 più nessun bambino in carcere”. Infatti. La presenza di bambine e bambini in carcere viene segnalata dai “soliti appassionati” ma istituzioni e media non reagiscono. Una discussione sul da farsi sembra accendersi nel settembre 2018 dopo una tragedia (una madre ha ucciso il figlio) quasi certamente evitabile; cfr Infanticidio di Stato nel carcere di Rebibbia. Purtroppo è il solito copione: sdegno (più o meno sincero) e informazioni poche, promesse tante ma fatti zero. Dunque l’alternativa casa-famiglia “protetta” è rimasta sulla carta. O meglio ne esistono solo due: una privata a Milano e a Roma “La casa di Leda” (A Roma Insieme - Leda Colombini) - voluta dal Comune - inaugurata nel 2027. Non è chiaro perché Amra non fosse lì. E adesso? Chi lo sa? E chi si ricorda di Sofia Loren. Per finire vi do i risultati di un sondaggio (minimo, per carità) condotto, questa estate, fra 14 persone - di varie età - che ho scelto per essere le più “medie” possibili. Alla mia domanda se in Italia i bambini finiscano in carcere ho avuto in risposta 14 no. E alla seconda domanda (“Ma se una detenuta è incinta al momento del parto rimane in carcere o esce?”) ho avuto 9 “certo che esce”, 2 “non lo so”, 3 “dipende dal reato”. Fra i 9 “certo che esce” una persona ha aggiunto: “ma tu che sei appassionato di cinema, ricordi quel film con Sofia Loren?”. Me lo ricordo sì e mi aspettavo che qualcuno lo citasse. Nel 1963 Sofia - o Sophia se preferite - Loren recita in un film a episodi diretto da Vittorio De Sica. Il primo episodio (“Adelina”) - scritto da Eduardo De Filippo con Isabella Quarantotti - è ispirato alla storia vera della contrabbandiera napoletana Concetta Muccardi, che per non andare in galera ebbe 19 gravidanze, 7 delle quali finite con la nascita di figli. Radicatasi nell’immaginario popolare quella storia “conferma” che in Italia i figli piccoli non restano in cella con i figli piccoli; men che mai per reati lievi. Proprio così… ma accade soltanto nell’immaginario. Quando la legge non c’era: una chiacchierata con Marzia Belloli Ero a San Vittore nel gennaio 1996 con una bambina di 14 mesi dopo 2 anni di “differimento pena” per la maternità. Essendo io una “politica” mi avevano messo nella sezione penale (a pianoterra): cella singola con la bimba mentre le altre donne con figli stavano nel nido della sezione giudiziaria (in media potevano essere 5-6 bambini con molte donne rom che entravano e uscivano) che era un disastro con muri a pezzi: i bimbi uscivano un’ora al giorno con le mamme nel giardino del carcere per “l’aria”. Ho cominciato a protestare: da sola e poi con altre. Abbiamo detto “almeno migliorate il nido”. Per fare un esempio le donne potevano uscire anche il pomeriggio all’aria, ma di fatto non ne usufruivano. Si ottenne di sistemare le piastrelle. Ci furono incontri con il direttore: ragionando sull’idea di una legge (quella che poi diventerà “legge Finocchiaro”). Sembrava impossibile e invece nel giro di un anno circa qualcosa inizia a muoversi… Se ne occuparono anche alcuni giornalisti e quello aiutò. Io allora uscivo in “lavoro esterno” portandomi dietro la bimba e ovviamente ne parlavo. Lavorando con la Comunità Nuova di don Gino Rigoldi ho cominciato ad avere documenti che in carcere non arrivano. E così scopriamo che esiste la “bozza Finocchiaro”. Con un tot di donne formiamo a San Vittore un comitato per la legge. Poi scriviamo in giro - a onorevoli ma anche al cardinal Martini - con le nostre testimonianze… per chiedere che la bozza si concretizzi. Facemmo un convegno - per una settimana al Barrio’s - invitando tutta la gente che si occupava di carcere (da Leda Colombini al Naga, alla televisione svizzera). Intanto a San Vittore inizia il “progetto Casina” con le volontarie: giornate aperte dove i genitori potevano incontrare le persone care con i bambini. Parte anche una raccolta firme (prima adesione Gino Rigoli ma anche Roberto Vecchioni e alcuni nomi famosi) di appoggio alla “bozza” che però non ebbe gran seguito. Ci fu un incontro con “L’albero azzurro” (della Rai) in una scuola a Baggio per far giocare bimbi carcerati con altri. Ne parlò anche il settimanale “Vita”, do atto che fu una iniziativa importante. Non l’unica comunque, ci fu anche una mostra. Si ragionava di ottenere un luogo per la “custodia attenuata”. Si arrivò a una convenzione con la Regione Lombardia e con il ministero di Grazia e Giustizia ma poi tutto si fermò. La “bozza Finocchiaro” aveva grandi difetti. La pecca più grave era escludere certi reati (per le mamme). Il nostro piccolo comitato fece proposte, segnalando: 1) la “legge Gozzini” era più avanti, dunque per alcuni versi si tornava indietro; 2) si considerava il lavoro più importante del bambino e dunque se lavoravi non potevi stare col figlio. Si è arrivati a scrivere le modifiche e a chiedere che comunque il Parlamento lo mettesse in calendario. Passarono 3 anni. Incontrammo anche Gloria Buffo (un’altra parlamentare dell’allora Pds, come Anna Finocchiaro) proponendo come migliorare la legge - si parlava di 8 anni poi la legge spostò l’età a 10 - e la “bozza Buffo” venne conglobata con quella della Finocchiaro. Finalmente si mosse Franco Corleone e grazie al suo impegno la legge 40 venne approvata nel 2001. All’epoca facemmo un “censimento” (autogestito) fra le donne di San Vittore: allora c’erano in media 30/40 bambini l’anno in carcere, ma il problema grosso erano i tanti minori fuori ma con la madre o entrambi i genitori in carcere (e non riuscivano a vederli): mi ricordo che su un centinaio di donne al giudiziario - anche per reati minimi, nonostante la “legge Simeone” dicesse che si poteva uscire - circa 80 erano madri, metà (grosso modo) con figli all’estero e l’altra metà in Italia. Amore e diritti in carcere, storie di ordinaria negazione di Rita Bernardini Il Riformista, 25 settembre 2021 Coccolone, troppo affettuoso per incontrare suo padre detenuto. “Coccolone” è un bambino affetto da autismo non verbale, che ha notevoli difficoltà nell’utilizzo del linguaggio. “Mio figlio tende ad abbracciare e baciare tutti, è il suo modo di comunicare”, mi scrive la madre il 12 giugno scorso. Il carcere (uno dei 15 della Campania), considerate le condizioni del bambino, gli nega la possibilità di incontrare il padre perché - in tempi di Covid - con i suoi abbracci e suoi baci metterebbe a rischio le altre famiglie presenti nella sala comune dei colloqui. In verità la madre aveva chiesto incontri “protetti” o nell’area verde o in una saletta dell’istituto. Niente da fare, per disposizioni superiori, il piccolo avrebbe potuto incontrare suo padre solo a pandemia finita. La madre è disperata, vede soffrire suo figlio che risente moltissimo della mancanza del padre. Attivo i miei canali istituzionali per contrastare l’ottusità burocratica che nega i diritti fondamentali del bambino, senza cavare un ragno dal buco. Fino a che non mi rivolgo al Provveditore Carmelo Cantone che nel frattempo, dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, ha assunto la reggenza anche della regione Campania. Risolve il problema immediatamente: “Coccolone” potrà riabbracciare suo padre in una saletta riservata alla famiglia a partire dal prossimo 1° ottobre. Quante volte casi analoghi si verificano nei penitenziari italiani in spregio a quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario? Purtroppo, vicende di questo tipo sono all’ordine del giorno. Lo verificano costantemente esponenti del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino: le mura del carcere sono impenetrabili per gli amori e gli affetti checché ne dicano leggi e regolamenti. Nel carcere di Trapani Franco firma i referendum sulla giustizia e si commuove. La sala è allestita come un seggio elettorale. Documento alla mano, entrano i detenuti per esercitare il diritto costituzionale di promuovere il referendum. Pur in un luogo di infelicità come lo sono le istituzioni totali di privazione della libertà, si respira tutta la solennità e la bellezza dell’esercizio della democrazia. Nel momento dell’apposizione delle firme, siamo proprio tutti eguali, siamo tutti cittadini-elettori che compiono l’atto potente di convocare l’intero corpo elettorale ad esprimersi su leggi cruciali che riguardano la vita di tutti. Anche gli agenti che hanno organizzato impeccabilmente quella che io chiamo “la cerimonia delle firme” osservano compiaciuti l’ordinato svolgimento dell’iniziativa. Qualche detenuto coglie l’occasione per rappresentare piccoli problemi, in particolare la richiesta (sacrosanta) di poter essere trasferiti in un istituto più vicino alla propria famiglia. Prendo nota per sollecitare l’amministrazione penitenziaria. Uno di loro, di nome Franco, chiede agli agenti di potermi salutare. Non ha niente da chiedere, mi guarda negli occhi e mi dice “volevo solo ringraziarti per quello che fai, sono un iscritto al Partito Radicale”; si commuove e inizia a piangere a dirotto mentre gli tengo affettuosamente le mani. Per me e per i miei compagni è un momento indimenticabile, ci riconosciamo tutti in quel volto un po’ fanciullesco, emozionato e dolce. Mi auguro che il DAP, che lodevolmente ha autorizzato la raccolta delle firme referendarie in tutti gli istituti penitenziari, comprenda fino in fondo la portata - ai fini rieducativi - di questa sua decisione. Così come mi auguro che ci sia vera consapevolezza dello stato di abbandono in cui versano gli istituti penitenziari del nostro Paese. Uno stato di abbandono avvertito da tutti coloro che abitano le patrie galere per lavoro o per privazione della libertà. Uno stato di abbandono che richiede interventi strutturali che non possono essere risolti in poco tempo. Uno stato di abbandono che richiede (da subito, da ieri) una drastica riduzione della popolazione detenuta alla quale lo Stato non è in grado di assicurare minimi standard di rieducazione, risocializzazione e persino di salute. I fatti di cronaca lo rimarcano ogni giorno. Si premino, intanto, con una liberazione anticipata più consistente di quella prevista, i detenuti e le detenute che, nonostante tutto, si comportano bene. Lo dico anche alla ministra Marta Cartabia che ha istituito una Commissione per migliorare le condizioni di detenzione: senza ridimensionare la popolazione detenuta ben poco sarà possibile fare anche se si mobilitano le migliori risorse umane come ha fatto la guardasigilli. Chi ha a cuore la Costituzione non può accettare che nemmeno per un giorno si continuino a calpestare i diritti umani fondamentali. Contro il sistema carcerocentrico servirà il restyling delle pene sostitutive? di Daniele Livreri Il Dubbio, 25 settembre 2021 Sin dal suo insediamento, l’attuale ministro della Giustizia ha lodevolmente manifestato l’idea che “sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale che... ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato”. Infatti, ha chiosato la professoressa Cartabia, “la “certezza della pena” non è la “certezza del carcere”, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio”. Per superare il sistema carcerocentrico, già nelle linee programmatiche del ministero, si è richiamato il sistema delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, pur nella consapevolezza che esse “scontano ampi margini di ineffettività”. In armonia con le suddette premesse, il ddl Cartabia, già approvato dalla Camera, prevede una delega al governo per procedere ad un’ampia trasformazione della disciplina delle pene sostitutive di cui alla legge 689/ 1981. Dalla lettura del disegno di legge e prim’ancora dalla relazione della Commissione Lattanzi, invero non sempre accolta sul punto dal testo governativo, si traggono alcune chiare indicazioni per il legislatore delegato: Il novero delle pene sostitutive muta radicalmente. Infatti, a fronte dell’abolizione di semidetenzione e libertà controllata, “sanzioni oggi esistenti solo sulla carta”, verranno introdotte, accanto alla confermata pena pecuniaria, la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità. La disciplina di queste nuove pene sostitutive dovrà ricalcare, nei limiti della compatibilità, quella rispettivamente prevista dall’ordinamento penitenziario e, per il lavoro di pubblica utilità, quella prevista dalla L. 274/ 2000 per il Giudice di pace. Il ricorso al lavoro di pubblica utilità sembra realizzare meglio delle altre sanzioni la tesi della Commissione ministeriale, secondo cui; il ricorso alle pene detentive brevi verrà ampliate sino a 4 anni di pena. Si procede, accogliendo l’auspicio formulato dalla Corte costituzionale (Corte cost. sent. 15 del 2020), a una rimodulazione delle pene pecuniarie sostitutive, svincolandole dalla previsione dei tassi giornalieri ex art. 135 c. p. e complessivamente eliminando tassi di ragguaglio spropositati. In tema di decreto penale di condanna deve però registrarsi come il valore massimo giornaliero della pena pecuniaria, individuato in euro 250, superi l’attuale massimo, ex art. 459 I co. bis, di 225 euro. Nell’impianto della Lattanzi si coglie poi il tentativo di collegare i benefici della sostituzione della pena detentiva all’accesso ai riti alternativi, cercando di coniugare status libertatis del condannato ed effetti deflattivi del processo di cognizione. Tuttavia nel d. d. l. alcuni tratti di questo tentativo sono andati perduti, come quello di consentire la sostituzione di pene detentive fino a 4 anni soltanto in caso di accesso al patteggiamento. Il tentativo di ridurre il carcere ad extrema ratio è certamente apprezzabile, tuttavia chi scrive teme che la modalità prescelta possa andare incontro ad uno scarso successo. Anzitutto merita sottolinearsi che l’idea di fondo della riforma viene perseguita rimodulando una legislazione concepita per evitare l’effetto desocializzante della pena carceraria breve, senza che il soggetto privato della libertà potesse ‘godere’ di alcun serio percorso trattamentale. Oggi si cerca di utilizzare la disciplina della 689/ 81 per pene carcerarie consistenti, per le quali l’ottica non può che essere quella della efficacia afflittivo/ rieducativa della pena irrogata in sostituzione. Il meccanismo di sostituzione delle pene detentive, tanto per l’attuale versione della L. 689/ 81, che per il d.d.l. Cartabia, funziona ope iudicis. Ma è lecito interrogarsi se il Giudice della cognizione, dopo avere irrogato pene significative, non sarà riluttante a sostituirle, ad esempio con il lavoro di pubblica utilità. Con riguardo ad altro profilo v’è da chiedersi, a fronte di un’ampia sovrapponibilità per quantum di pena e tipologia di misure tra pene sostitutive e misure alternative alla detenzione, quale rapporto ricorre tra il giudizio di cognizione e quello di sorveglianza. In particolare, ove il Giudice della cognizione non dovesse sostituire la pena detentiva, residuerà un’autonomia di giudizio in capo al Tribunale di sorveglianza, magari enfatizzando la diversa base cognitiva dell’uno e dell’altro? A fronte di ciò, anche a non volere intervenire a livello edittale introducendo direttamente talune pene sostitutive quali pene principali, a parere di chi scrive si sarebbe potuta valorizzare l’iniziale intuizione della Commissione Lattanzi di correlare la sostituzione delle pene più elevate ai riti alternativi, così forse riattivando il patteggiamento c. d. allargato, introducendo però forme di sostituzione ope legis e non iudicis. I progetti educativi rappresentano un’opportunità di riscatto per i detenuti, ma non solo di Aurora Amendolagine buonenotizie.it, 25 settembre 2021 In molte carceri italiane si stanno portando avanti progetti di lavoro e di studio per i detenuti. L’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, evidenzia come bisogna investire sulle misure alternative al carcere. Le misure alternative, si legge nel rapporto, “producono sicurezza”. La detenzione da sola non basta infatti a scongiurare la recidiva. Per facilitare gli inserimenti lavorativi dei detenuti c’è bisogno di continuare a investire in progetti educativi e sociali, con le cooperative sociali, con il mondo dell’artigianato e dell’industria. Ma anche in progetti per migliorare la vita interna al carcere, come il potenziamento delle dotazioni tecnologiche, delle infrastrutture per la didattica, delle attrezzature sportive, delle biblioteche, dei teatri e dei laboratori. L’appello delle istituzioni: con i progetti nelle carceri agevolare il reinserimento sociale - L’11 settembre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha visitato l’Istituto penale per i minorenni di Nisida (Napoli). In quell’occasione ha dichiarato: “Ci sono tante persone che sono state detenute e hanno poi avuto esperienze di successo nella vita; non succede solo nei film. L’importante è che la detenzione non si traduca in una macchia indelebile ma sia una cicatrice che scompare. C’è il dovere di agevolare il reinserimento nella vita sociale”. Nello stesso senso va anche la riforma Cartabia. Uno degli emendamenti al disegno di legge di riforma del processo penale, voluto dalla Ministra della Giustizia e in approvazione alle Camere, disciplina il metodo della giustizia riparativa. La giustizia riparativa considera il reato in termini di danno alle persone. Da ciò consegue l’obbligo che l’autore del reato debba rimediare alle conseguenze della sua condotta. Il 15 settembre è stato firmato dalla Ministra il decreto di costituzione di una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, i cui lavori si concluderanno entro il 31 dicembre. Compito della commissione è la “rilevazione delle principali criticità relative all’esecuzione della pena detentiva e l’individuazione di possibili interventi per migliorare la qualità della vita delle persone recluse”. L’istruzione in carcere - La scuola è il più importante dei progetti nelle carceri e rientra all’interno dell’istruzione per adulti. I corsi si suddividono in percorsi di primo livello (alfabetizzazione e licenza media) e percorsi di secondo livello, comprendenti l’istruzione tecnica, professionale e artistica. I detenuti che frequentano la scuola sono circa un terzo del totale. Nell’anno scolastico 2019/2020 gli iscritti erano il 33,4%. “Ma non è stato sempre così”, spiega Anna Grazia Stammati, presidente del CESP e della Rete delle scuole ristrette, nel rapporto di Antigone. “Per raggiungere questi risultati ci sono voluti anni di impegno, sia da parte di una componente interna all’amministrazione penitenziaria, che da parte di quei docenti convinti da sempre della centralità dell’istruzione nell’esecuzione penale e del valore della cultura quale elemento di crescita e riscatto”. Grazie alla maggiore offerta, anche il numero degli studenti universitari in carcere è raddoppiato tra il 2015 e il 2019. Si tratta in parte di studenti delle 27 Università presenti in carcere in pianta stabile, e in parte di studenti iscritti alle Università che non hanno sedi all’interno dei penitenziari. Ad oggi gli studenti universitari sono distribuiti in 70 istituti penitenziari. Ragazzi dentro: i progetti a Nisida - All’istituto penale per i minorenni di Nisida tutti i ragazzi presenti vengono inseriti in un percorso scolastico. La divisione dei ragazzi all’interno delle classi non avviene per età, ma per livelli e bisogni educativi. Inoltre, per evitare la partecipazione passiva alle lezioni, è previsto che ad ogni cambio d’ora siano i ragazzi a cambiare aula e non il docente. Tra i corsi di formazione professionale ci sono il corso di pizzeria tenuto con il supporto dell’associazione “Scugnizzi”, il corso di ceramica svolto dalla cooperativa sociale “Nesis”, un corso di cucina e di pasticceria del progetto della onlus “Monelli ai fornelli”. Queste attività permettono ai ragazzi di svolgere attività lavorative remunerate e di imparare un mestiere. All’interno dell’Istituto si svolgono anche laboratori tenuti da volontari. I ragazzi possono partecipare al laboratorio di canto, a quello teatrale o di arte presepiale, al corso per operatore edile e per operatore cinofilo. Lavorare dentro e fuori il carcere - I progetti formativi nelle carceri riguardano principalmente i settori della cucina e della ristorazione, del giardinaggio, dell’agricoltura, insieme all’edilizia e all’elettrica. Questi settori rappresentano le comuni lavorazioni interne agli istituti penitenziari. Al 30 giugno 2020, l’81,5% del totale di coloro che svolgono attività lavorativa sono impiegati alle dipendenze della amministrazione penitenziaria e quindi nelle attività concernenti i servizi di istituto. Inoltre, tra i 17mila lavoratori detenuti solamente 2.500 sono inseriti in un impiego alle dipendenze di un datore di lavoro esterno all’amministrazione penitenziaria. Al Festival dell’Economia Carceraria, che si è tenuto a Roma a giugno, si è parlato proprio della grande forza riabilitativa del lavoro, dei progetti di formazione e dell’istruzione nelle carceri. Il Festival, promosso e organizzato da Semi di Libertà Onlus, ha dato vita a un laboratorio di idee e progetti per ripensare in modo efficace le attività nelle carceri. Economia carceraria, la rete per supportare i progetti nelle carceri - Semi di Libertà Onlus è stata costituita nel 2013 per contrastare le recidive dei detenuti ed evitare che compiano nuovi reati. “Chi esce senza misure alternative torna in galera 7 volte su 10, chi ha imparato un lavoro 2 su 100”, recita il sito della Onlus. Nel giugno 2018 Semi di Libertà ha creato la rete nazionale di Economia Carceraria per supportare i progetti produttivi nelle carceri. Sul sito Economia Carceraria vengono venduti i prodotti di diversi progetti di lavoro. Il portale è diviso per categorie dei prodotti, come creme spalmabili, pasta, tè e bevande o taralli pugliesi. Ogni prodotto è confezionato da un progetto lavorativo svolto nelle carceri. Il progetto Campo dei Miracoli, per esempio, nasce dall’omonima cooperativa di Gravina in Puglia specializzata in prodotti da forno, con l’obiettivo di realizzare progetti di formazione e attività lavorative per i detenuti all’interno della Casa Circondariale di Trani. Fila Dritto, invece, è un brand di accessori in pelle prodotti artigianalmente da persone in esecuzione penale. Il progetto Semi Liberi, della cooperativa sociale agricola O.R.T.O., è un’unità produttiva agricola della Casa circondariale di Viterbo. I ragazzi ricevono formazione sia in attività agricole e vivaistiche, che in tecniche di controllo della qualità e di commercializzazione. Una seconda opportunità per le donne di Made in Carcere - Il marchio Made in Carcere nasce nel 2007 e produce manufatti come borse, accessori, cuscini, bomboniere. Questi prodotti sono confezionati da 20 detenute nelle carceri del Sud Italia, alle quali viene offerto un percorso formativo con lo scopo di un definitivo reinserimento nella società lavorativa. La filosofia principale di Made in Carcere è dare una “doppia vita per i tessuti” e una “seconda opportunità per le donne detenute”. Tra queste M., un’italiana di 63 anni, che ha scontato cinque anni e sei mesi nella sezione di massima sicurezza e adesso cuce borse, e F., che sta scontando tre anni e sei mesi e dopo due anni, grazie al lavoro, ha ottenuto la libertà vigilata. Pubblica utilità: un progetto di giustizia riparativa - Tra i progetti nelle carceri sempre più attivi c’è il lavoro di pubblica utilità. Dai dati raccolti nel rapporto 2020 di Antigone emerge come questi programmi all’esterno del carcere siano attivi nel 31,8% degli istituti visitati. Si tratta di lavori come i servizi di manutenzione del verde, il decoro urbano, l’assistenza alla persona o la collaborazione alle attività di enti pubblici e sociali. Il lavoro di pubblica utilità si fonda sul principio di giustizia riparativa e inclusiva. Quindi permette ai detenuti di pagare, almeno in parte, il proprio debito nei confronti della società e di verificare inoltre il loro impegno e il rispetto delle regole. Questo tipo di lavoro è pagato dalla Cassa delle Ammende, un ente pubblico istituito presso il Ministero della Giustizia che finanzia progetti nelle carceri. I lavori di pubblica utilità sono ben visti dalle amministrazioni pubbliche, che faticano a mantenere il decoro delle città per gli scarsi fondi economici. E sono anche preferiti dai detenuti, soprattutto se associati a permessi o benefici. Riforma Cartabia ma senza risorse: così la giustizia non riparte di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 25 settembre 2021 Per carità, gran cosa la riforma del processo penale approvata ieri dal Senato. “È una delle condizioni per accedere ai fondi del Recovery Plan”, dicono molti. “Chiude l’epoca del processo eterno”, aggiungono altri. Il testo ispirato dalla guardasigilli Marta Cartabia impone un passo indietro a quella sub-cultura giustizialista che ancora infesta tribunali e mass media. Ma basterà la norma sull’improcedibilità, che dal 2024 fissa a tre anni la durata massima dei processi in appello e a un anno e mezzo quella dei processi in Cassazione, a sciogliere i nodi che paralizzano le aule di Napoli e dintorni? La nuova durata delle indagini preliminari e il rinvio a giudizio ammesso soltanto in caso di condanna prevedibile renderanno la giustizia più efficiente anche in Campania? No, secondo molti addetti ai lavori, a meno che la nuova legge non sia accompagnata da altre misure come amnistia, indulto, depenalizzazione e una revisione delle risorse a disposizione degli uffici. Ne è convinto Giuseppe De Carolis. Per il presidente della Corte d’appello partenopea sarà difficile rispettare i tempi dettati dalla riforma Cartabia senza correggere le sproporzioni nell’allocazione del personale. Qualche numero per capirci: nel distretto di Corte d’appello di Napoli sono in servizio più di 200 pm e circa 240 giudici penali, ma i magistrati in appello superano a stento le 40 unità. In queste condizioni, concludere i processi in tre anni è piuttosto complicato, soprattutto se si pensa che questo periodo si calcola a partire dalla data di scadenza del termine di deposito della sentenza di primo grado: un’operazione che spesso richiede settimane, se non mesi. Il problema riguarda anche cancellieri e dipendenti amministrativi. A Benevento, per esempio, ci sono quattro amministrativi per giudice, a Napoli Nord solo uno e mezzo e in Corte d’appello il rapporto è uno a uno. E non basta l’accelerazione sull’Ufficio del processo annunciata da Cartabia. Al distretto di Napoli sono destinati 956 nuovi collaboratori dei giudici, ma difficilmente in Corte d’appello ne andranno più di 300. Gli altri 600 saranno distribuiti nei tribunali del distretto, con la conseguenza che il gap di risorse tra primo e secondo grado di giudizio aumenterà. E, di questo passo, ridurre le oltre 57mila pendenze, che si registrano oggi in Corte d’appello, e accorciare i tempi di definizione dei processi, che in secondo grado superano i quattro anni, sarà impresa ardua. “Per fare i processi servono giudici e cancellieri - spiega De Carolis - La giustizia è lenta perché i processi sono troppi. E una giustizia lenta rischia di essere anche frettolosa, se non sommaria. Se si vuole evitare che, per rispettare i tempi dettati dalla legge, i giudici decidano senza leggere le carte, bisogna sciogliere il nodo del personale degli uffici”. Ma che cosa ne pensano gli avvocati? Per chi è ogni giorno in prima linea in difesa dei diritti, la riforma Cartabia non può che essere un segnale positivo. “Almeno perché segna un’inversione di tendenza rispetto al processo senza fine introdotto con la riforma Bonafede”, sottolinea Marco Campora. Il presidente dei penalisti napoletani giudica positivamente i nuovi termini di durata delle indagini preliminari e dei processi, senza dimenticare la norma che, in caso di stasi del fascicolo, consente al gip di sollecitare le conclusioni del pm. Le perplessità, però, non mancano: “Senza amnistia, indulto e una massiccia depenalizzazione - aggiunge Campora - la Corte d’appello di Napoli non riuscirà a smaltire il mostruoso carico di lavoro legato all’abnorme numero di reati che ingolfano le nostre aule”. Anche il garante campano dei detenuti ha qualche motivo per esultare. L’estensione dell’ambito applicativo della messa alla prova e il più ampio ricorso alle misure alternative - entrambi contenuti nella riforma Cartabia - non possono non essere apprezzati da Samuele Ciambriello. “La ministra sta dando ascolto alle osservazioni dei garanti e dei giudici di sorveglianza e si sta impegnando per affermare un principio di fondamentale importanza: chi ha sbagliato deve cambiare, non pagare”. In una regione dove al 31 agosto scorso si contavano ben 6.432 reclusi a fronte di 6.108 posti in cella disponibili, però, serve uno sforzo ulteriore. Amnistia? Certo. Indulto? Anche. Ma Ciambriello invoca pure un “ristoro” per i detenuti che, nell’ultimo anno e mezzo, hanno dovuto fare i conti col Covid: “Si potrebbero aumentare da 45 a 70 i giorni di liberazione anticipata per ogni semestre di pena scontata oppure consentire a chi è in procinto di abbandonare il carcere di scontare a casa gli ultimi mesi di pena. È questione di umanità, prima ancora che di giustizia”. Cartabia ai penalisti: “Monitoriamo insieme il funzionamento delle riforme” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2021 In corso a Roma, presso l’Hotel Ergife, il XVIII Congresso Ordinario dell’Unione delle Camere Penali italiane che si chiuderà il 26 settembre. Oggi gli interventi della Ministra Cartabia e del Vicepresidente del Csm Davide Ermini Con l’intervento della Ministra Cartabia, che ha invitato l’Avvocatura a vigilare, grazie alla presenza capillare sul territorio, sulla efficacia delle riforme penali, entra nel vivo la tre giorni congressuale dei penalisti. Da oggi al 26 settembre, infatti, presso l’Hotel Ergife di Roma, si celebra il XVIII Congresso Ordinario dell’Unione delle camere penali italiane dal titolo “Cambiare la giustizia, cambiare il paese. Le proposte dell’Avvocatura penale per una nuova stagione delle garanzie”. Si va verso la riconferma, per il prossimo biennio, del presidente uscente Luigi Caiazza. “La qualità del suo impegno - ha detto il segretario Eriberto Rosso -, grazie alla sua forza personale, ha contribuito in modo decisivo a mantenere centrale il ruolo dell’Unione delle camere penali”. Rosso ha poi rinviato alla Relazione di domani mattina per le “linee portanti del nuovo mandato”. Caiazza ha poi preso brevemente la parola invitando la Ministra sul palco: “Abbiamo seguito con emozione il suo intervento in Parlamento - ha affermato -, dove ha rimesso al centro i valori della Costituzione, li abbiamo sentiti declamare dopo due anni che consideriamo forse i più bui da questo punto di vista della storia repubblicana”. “Questa non è la casa del massimalismo - ha aggiunto -, lei sa che abbiamo apprezzato molto il lavoro da lei svolto come sa che non abbiamo apprezzato alcune approdi frutto di una mediazione politica, siamo qui per ascoltarla”. E la platea dei penalisti, con i collaboratori della Ministra, tra cui il Sottosegretario Sisto, in prima fila, l’ha accolta con un caloroso applauso. “Dobbiamo lavorare - ha detto Cartabia - perché davvero la riduzione dei tempi della giustizia, questo 25 per cento in meno in cinque anni possa divenire non solo un auspicio pieno di buone intenzioni, ma irrealizzabile, ma sia realtà”. “Abbiamo degli obiettivi chiari da raggiungere, abbiamo delle tappe intermedie, abbiamo bisogno di osservatori che lungo la strada ci dicano: attenzione questa riforma non sta funzionando in generale o in qualche specifico distretto”. “Io credo - ha proseguito sul punto - che il ruolo dell’avvocatura possa essere questo, una presenza capillare, un sensore che ci dica questa riforma buona sulla carta non sta funzionando. La giustizia non è una scienza esatta. È vero abbiamo messo una firma e compiuto una tappa importante con la promulgazione della legge delega sul processo penale che arriverà ad ore ma queste riforme sono tutte da verificare nell’ambito della concretezza”. La Ministra ha poi ricordato che nel testo del disegno di legge delega “non c’è solo l’improcedibilità, sulla quale tanto si è accanito il dibattito pubblico, ma c’è un potenziale tutto da sviluppare e attuare, sia sugli aspetti più specificamente processuali della delega, sia su quelli che vanno a incidere sul sistema sanzionatorio, che potenziano le possibilità delle soluzioni alternative al carcere, e dove si mette in campo un’ipotesi di riforma delle pene pecuniarie, totalmente inattuate, dove si allarga il principio della particolare tenuità del fatto”. Cartabia ha poi richiamato l’attenzione su “cosa accade dopo la sentenza, cosa accade nelle carceri: questi mesi - ha affermato - hanno portato drammaticamente alla nostra attenzione un sistema che ha bisogno di tanti interventi”. Ma la pandemia ha portato anche qualche innovazione positiva, a Rebibbia per esempio - ha ricordato - oltre alla ripresa dei colloqui in presenza “saranno garantiti anche quelli a distanza, una cosa che sembrava impossibile solo fino a qualche anno fa”. Cartabia ha poi detto di percepire “un fermento nel mondo della giustizia italiana, soprattutto quando come adesso c’è modo di incontrarsi de visu, un’attesa di un cambiamento che è già in atto”. “Dobbiamo dare - ha concluso - un nuovo smalto alla giustizia italiana, perché si è ormai compreso che è una giustizia che funziona è davvero indispensabile per il rinnovamento e il cambiamento del Paese sotto ogni aspetto”. Nell’introdurre il vice presidente del Csm, Davide Ermini, l’avvocato Gaetano Pecorella, ha ricordato le vicende Amara e Palamara che hanno offerto al Paese una “visione buia della magistratura che è una cosa che ci rattrista”. Ermini, che per prima cosa ha ricordato di essere un avvocato fino a poco tempo fa iscritto alla Camera penale di Firenze, ha ribadito di aver vissuto “momenti di difficoltà”. “Però - ha aggiunto - voglio ribadire che la magistratura è un perno della democrazia. E al Paese serve una magistratura ancora più indipendente, più forte. Non dobbiamo pensare che i problemi si risolvono semplicemente spostando qualche persona, dobbiamo difendere una istituzione autonoma indipendente perché quello che sta succedendo in Turchia ma anche in alcuni paesi dell’unione europea crea perplessità”. Ermini ha poi rivolto un appello alla politica: “Sono convinto che nella tutela della giurisdizione e dei valori costituzionali tutti debbano stare dalla stessa parte, io mi ostino a chiedere alle forze politiche di avere più coraggio e deporre le armi”. “La giustizia - ha aggiunto - mal sopporta rivalse e contrapposizioni di bandiera, non può essere terreno di scontro politico ed elettorale”. Ermini si rivolge poi all’avvocatura e alla magistratura: “Abbiamo di fronte un’occasione forse irripetibile, proprio nella fase dell’attuale governo, per il rilancio del sistema giustizia al fine di offrire ai cittadini un processo efficiente, tempestivo e rispettoso delle garanzie. Vale la pena di collaborare tutti insieme perché ciò avvenga”. Nella riforma penale, ha proseguito, “non mancano passi avanti”, dalla giustizia riparativa ai margini più ampi riconosciuti al patteggiamento e alla messa alla prova, “ma non ancora così energici come sarebbe opportuno”. Auspicando, pertanto, che “si sfoltisca il catalogo dei reati con misure incisive di depenalizzazione e si recuperi integralmente la riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario, superando l’idea del carcere come unica soluzione punitiva, che è un’idea antistorica e ostacola la funzione che la Costituzione attribuisce alla pena”. “Senza considerare la necessità di interventi di edilizia carceraria, sono necessarie risorse e costruire sulla base di un sistema di pena che non sia carcerocentrico”, conclude. Le Camere penali sono in prima fila nella sfida per le riforme della giustizia di Eriberto Rosso Il Domani, 25 settembre 2021 Oggi finalmente l’Unione delle camere penali Italiane può celebrare il suo congresso ordinario in presenza per fare un bilancio di questi due drammatici anni e discutere delle prospettive dell’azione politica dell’avvocatura penale. La pandemia non ha solo limitato la nostra vita, personale e professionale, ma ha fermato l’attività giudiziaria nei lunghi mesi della primavera del 2020 per poi ripartire a scartamento ridotto. Straordinario è stato l’impegno dell’Unione per impedire che le riforme populiste lasciassero un segno indelebile nel nostro ordinamento; contro l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio voluta dal Ministro Bonafede abbiamo organizzato astensioni e le grandi manifestazioni con le Università italiane e, nonostante l’emergenza sanitaria, abbiamo mantenuto il focus con iniziative su piattaforme online, collegamenti e convegnistica a distanza. È giusto ricordare che la giunta dell’Unione si è riunita ogni giorno nel periodo di chiusura dei tribunali e si è ogni giorno confrontata con le singole camere penali per affrontare i problemi dell’emergenza e fermare le previsioni più lesive del diritto di difesa che comparivano nelle diverse bozze dei cosiddetti decreti ristori. Abbiamo impedito che prendesse forma il processo da remoto per le udienze di acquisizione della prova, di escussione dei testimoni e consulenti e di discussione. Un’altra grande emergenza ha caratterizzato questo periodo, la condizione delle persone detenute. Sovraffollamento e rischio pandemico si sono rivelate una miscela esplosiva: le restrizioni improvvise nell’ordinaria vita carceraria sono state causa di proteste e di rivolte. La morte dei detenuti nel carcere di Modena non ha ancora trovato la sua verità giudiziaria e i gravi fatti accaduti a Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, ferma restando la necessità del giudizio per le responsabilità individuali, hanno mostrato il volto feroce delle istituzioni e sono il segno del fallimento del sistema. L’Unione, anche con il suo Osservatorio carcere, è stata in prima fila nella denuncia della incapacità del Dap a fronteggiare quelle emergenze e nella solidarietà con la Magistratura di sorveglianza che, in assenza di una seria legislazione di emergenza finalizzata a risolvere il problema del sovraffollamento e del rischio di contagio negli istituti di pena, ha fatto il possibile per ricorrere a forme alternative di espiazione della pena. Il governo gialloverde ha proposto una legge delega che ha tradito quanto l’avvocatura aveva pazientemente costruito ai tavoli ministeriali di consultazione. Nella delega che si occupava di riformare il processo penale era scomparsa qualsiasi ipotesi di rilancio dei riti alternativi, era rimasta ferma la abrogazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, prevedendo inaccettabili meccanismi di differenziazione del regime tra l’assolto e il condannato, erano introdotte limitazioni al giudizio di appello. È in questo quadro che è arrivata la Ministra Cartabia. La commissione presieduta dal presidente Lattanzi aveva individuato soluzioni di sistema sulla prescrizione, abbandonate nella sintesi politica, che ha invece optato per il meccanismo della improcedibilità. La soluzione prevede comunque il superamento dell’imputato per sempre voluto da Bonafede, anche se si pongono su un piano di incompatibilità con i principi costituzionali le deroghe affidate al giudice. Privi di fondamento si sono dimostrati, statistiche alla mano, gli allarmismi di chi ha sostenuto che la improcedibilità avrebbe colpito i processi di mafia e comunque quelli per i fatti di grave allarme sociale; sono infatti proprio questi processi che si celebrano in corsie preferenziali, assai spesso in ragione delle misure cautelari in atto, ad essere definiti in tempi rapidi. A proposito di statistiche e di dati, al congresso sarà presentato il secondo rapporto sul processo penale: si tratta della ricerca condotta dall’Unione delle camere penali italiane in collaborazione con Eurispes sulle ragioni dei ritardi e le cause della irragionevole durata dei processi penali, una finestra di verità, dati alla mano, sulle vere cause delle disfunzioni degli uffici giudiziari. Una ricerca dalla quale non potrà prescindere chiunque voglia con serietà occuparsi dei tempi del processo. Ciò che è positivo è che comunque la delega ha salvato la struttura del giudizio di appello, non accogliendo i desiderata di chi voleva introdurre meccanismi di critica vincolata; per il difensore il secondo grado di giudizio costituisce espressione del “diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità alla legge”, come recita l’articolo 14 del patto internazionale dei diritti civili e politici. Positive le previsioni sul potere di controllo del giudice sul tempo della iscrizione della notizia di reato e la possibilità di sua retrodatazione nonché il riconoscimento di un ruolo di indirizzo riservato al Parlamento per la individuazione dei criteri di priorità. Le deludenti previsioni sui riti speciali lasciano però aperta questa partita, come necessari sono interventi per il rafforzamento delle garanzie della difesa nel dibattimento. Di tutto questo parleremo al congresso, con confronti e dibattiti che vedranno protagonisti gli studiosi delle università italiane ed un intervento della ministra stessa, oltre alla prestigiosa presenza del ministro della Giustizia francese Éric Dupond - Moretti, che in materia di processo mediatico o di intercettazioni del difensore potrà senz’altro proporre interessanti riflessioni. Il nostro sarà anche un congresso di elezione degli organismi dirigenti. Il presidente Gian Domenico Caiazza, con la sua giunta, si presenta per la conferma del mandato; nel nostro programma politico le priorità sono il sostegno alla legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, le proposte per la riforma dell’ordinamento giudiziario, per riportare i tanti magistrati fuori ruolo alla giurisdizione, per la individuazione di meccanismi di effettivo merito per le progressioni in carriera, per rendere effettiva la partecipazione degli avvocati ai consigli giudiziari. Centrale è la difesa delle garanzie nel processo, il rilancio delle nostre idee di riforma per l’effettiva realizzazione del giudizio accusatorio ed un intervento decisivo per la riforma del carcere. Nel corso di questo mandato abbiamo realizzato un importante progetto, frutto anche della collaborazione con le Università italiane, che si è tradotto nel nostro Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. I 37 canoni che lo compongono costituiscono il fondamento di una concezione liberale del diritto penale e delle regole del processo giusto. La proposta è quella di condividerlo nelle Università europee e di farne oggetto di confronto con l’intera comunità dei giuristi. Trecentotrenta delegati ed altrettanti iscritti UCPI parteciperanno ai lavori delle assise romane. Un grande laboratorio di idee, finalmente in presenza, che sarà utile all’Avvocatura e alla cultura dei diritti. Riforma giustizia civile, allarme dei magistrati per i minorenni di Conchita Sannino La Repubblica, 25 settembre 2021 “Decisioni prese da un solo giudice, a rischio garanzie della collegialità”. L’Associazione Italiana dei pm per i minori denuncia: con il Tribunale unico per la famiglia “decisioni fortemente incisive nella vita di bambini e ragazzi verrebbero prese con meno competenze, meno profondità e completezza “. E si chiede di applicare le novità senza finanziamenti. Sulla riforma della giustizia non sacrificare i minori, e le famiglie più fragili, sull’altare del Recovery Fund. L’allarme suona, stavolta, un po’ più forte: anche per il Parlamento, oltre che per il governo e la ministra Cartabia. Dopo le caute osservazioni dei giorni scorsi, interviene infatti con preoccupazione l’Associazione Italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf), cui aderiscono, oltre ai togati, anche giudici onorari. Nel mirino c’è l’approvazione in Senato, tre giorni fa, del disegno di legge AS 1662 (la riforma del processo civile) che istituisce il Tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie. L’associazione guidata dalla presidente Cristina Maggia, pur ritenendo “apprezzabile che si dedichi un pensiero ai minorenni e alle loro famiglie con l’istituzione di un unico organo giudicante e di un unico organo requirente specializzato che superi l’attuale suddivisione di competenze, in parte sovrapponibili”, ricorda però che, al di là del titolo, “il contenuto della riforma che si sta approvando in grande velocità, senza alcuna discussione o confronto anche con gli addetti ai lavori, pare andare in senso nettamente contrario a quanto desiderato, proponendo la eliminazione, con riferimento a decisioni fortemente incisive nella vita del minori e delle loro famiglie, della garanzia della collegialità multidisciplinare”. Insomma, meno competenze, meno profondità e completezza di valutazione. Ma a scatenare l’indignazione della categoria è stata poi l’introduzione della “clausola di invarianza” per la quale tutte le modifiche e i cambiamenti che la riforma prevede - una volta superato anche l’esame della Camera, in tempi strettissimi - andrebbero realizzati anche senza personale aggiuntivo e a costo zero. Ecco perché l’Aimmf manifesta la sua “seria preoccupazione in relazione al fatto che decisioni dolorose e difficili perché di grande impatto sulla vita dei minori e delle famiglie, come gli allontanamenti, gli affidamenti familiari e le decadenze dalla responsabilità genitoriale, sarebbero, in base alla riforma, assunte da un giudice solo”. Un giudice cioè “ privo delle garanzie della collegialità e della multidisciplinarietà, senza possibilità di confronto, disperdendo così il patrimonio di conoscenze e di specializzazioni maturate nel tempo dai tribunali per i minorenni”. Amarezza e sorpresa in tanti uffici giudiziari minorili, tra Roma Milano e Napoli : stiamo l facendo un passo indietro di decenni, altro che riforma e progresso, dice lo stato d’animo di tanti togati. La presidente, già quindici giorni fa a Repubblica aveva con limpidezza manifestato le riserve della categoria : “Stanno buttando alle ortiche tutto il nostro lavoro”, con grave danno per la comunità dei più fragili. Oggi la nota in cui, nero su bianco, per lasciare agli atti che “la riforma proposta predisposta nell’arco di pochi giorni, non adeguatamente ponderata e condivisa, produrrà ulteriori frammentazioni” con la conseguenza che “il giudice onorario non possa partecipare alla delicata attività istruttoria dell’ascolto del minore, ottenendo l’effetto contrario a quello che si prefigge e riducendo ad attività più formali che sostanziali i necessari interventi del giudice a protezione dell’infanzia in situazione di pregiudizio. E infine, quella ciliegina: “La clausola di invarianza finanziaria da ultimo inserita nel testo approvato al Senato non rende attuabile la riforma così come concepita, che incontrerà enormi difficoltà pratiche di realizzazione”. Nessun organo giudiziario, nessun Tribunale- è la conclusione - può funzionare “senza un parallelo rinforzo delle strutture del welfare esteso ad ogni parte d’Italia con una potente iniezione di mezzi e risorse ad un comparto che negli anni è stato sempre più depauperato, trascurato, aggredito “. Femminicidi, Lamorgese: “Estendere l’arresto obbligatorio e indennizzi subito ai familiari” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 settembre 2021 La ministra dell’Interno lo ha detto durante il convegno sul tema “Femminicidi: prospettive normative”, organizzato dal Commissario per il Coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso e dei reati intenzionali violenti. E ancora: “Ripensare le misure di prevenzione”. Otto donne uccise dai partner a settembre, 12 orfani, privati delle madri ma anche dei padri violenti. E dunque ripensare le misure di prevenzione personale per prevenire i femminicidi e la crescente spirale di violenza contro le donne. Il governo valuta nuovi interventi normativi per rispondere a quelli che la ministra dell’interno Luciana Lamorgese ha definito “crimini odiosi, una piaga sociale”. Gli uffici legislativi del Viminale sono già al lavoro in due direzioni: nuove norme per estendere l’arresto obbligatorio in flagranza di reato e la possibilità di intervento dei prefetti con misure a tutela delle donne vittima ma anche indennizzi più sostanzioso per i familiari delle vittime indipendentemente dal giudizio sul presunto autore del reato. Queste le proposte che la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, intervenuta questa mattina alla Camera dei deputati al convegno su “Femminicidi: prospettive normative” ha illustrato e che adesso verranno inviate al ministero della Giustizia e a quello delle Pari Opportunità perché - ha aggiunto la ministra - “è necessaria una strategia condivisa per intervenire in maniera incisiva su questo fenomeno”. Gli ultimi dati sulla violenza di genere sono impressionanti. “A settembre - ha sottolineato Lamorgese - c’è stato un aumento incredibile, tra agosto e settembre 11 femminicidi, 8 per mano di uomini con cui avevano relazioni affettive e anche nella prima parte dell’anno, da gennaio ad agosto i femminicidi sono schizzati, 75 su 182 delitti. La normativa che c’è e su cui abbiamo tanto lavorato, dalla Convenzione di Istanbul al Codice rosa e al Codice rosso, non bastano. Bisogna lavorare per combattere la cultura della violenza che affonda le sue radici nell’organizzazione ancora patriarcale della nostra società e per il riconoscimento delle pari opportunità nella vita pubblica e privata superando le discriminazioni ma anche la minimizzazione di alcuni comportamenti. Le vittime nella maggior parte dei casi non denunciano e tendono a giustificare i comportamenti dei loro compagni. E allora le indicazioni precise che sono state date alle questure: mai tentativi di ricomposizione di liti familiari e informazioni preventive dalle carceri sulle date di scarcerazioni di uomini che possono tornare a rappresentare una minaccia”. Misure a cui il ministero dell’Interno sta lavorando insieme al ministero della Pari Opportunità. “Serve un approccio multidisciplinare e una rete di solidarietà sul territorio - dice la ministra Bonetti accendendo i riflettori su altre misyre necessarie, dall’introduzione del reddito di libertà al microcredito con garanzia al 100 per 100 per il “dopo”, il sostegno sociale ed economico per le donne vittime di violenza. Un tema su cui si è soffermato il presidente della Camera Roberto Fico: “Occorre rimuovere - ha detto - le condizioni economico-sociali-culturali che rendono le donne vittime di violenza. I dati di una recente indagine ci dicono che il 24 per cento della popolazione ritiene che gli stupri siano causati dai comportamenti delle donne e il 39 per cento ritiene che una donna può comunque sottrarsi ad una violenza. C’è un maschilismo tossico su cui si deve intervenire sia colmando il divario di genere nel mondo del lavoro sia nelle scuole lavorando all’insegnamento del rispetto e della dignità delle donne”. Il prefetto Marcello Cardona, commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso e dei reati intenzionali violenti, ha ammesso che dal punto di vista dell’agenzia “ il quado è devastante. Non abbiamo sufficienti denunce, non c’è latitudine per la violenza e la vera battaglia è andare a intercettare nel punto più lontano queste storie. Dunque la gestione della prevenzione prima che quella del reato ma soprattutto il sostegno alle vittime. Oggi un femminicidio è indennizzato con 25.000 euro a sentenza passata in giudicato ma la normativa non ci consente di sostenere quando serve i familiari delle vittime”. Femminicidi, Gelmini: “Proteggere le donne che denunciano come i testimoni di giustizia” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 25 settembre 2021 La ministra azzurra degli Affari regionali, Mariastella Gelmini, pensa ad una tutela per le donne che denunciano la violenza dei partner: “La cronaca abbonda di donne che hanno subito violenza o sono state uccise dopo aver denunciato”. I numeri, drammatici, li ha comunicati la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Nei primi otto mesi dell’anno ci sono stati 75 femminicidi su 182 omicidi. Tra agosto e settembre ce ne sono stati altri 11: un aumento incredibile”. È anche in un convegno alla Camera che venerdì mattina si è parlato di questo orribile fenomeno, proprio mentre a Villa San Giovanni (Reggio Calabria) si svolgeva una convention del movimento di femminile di Forza Italia, lì dove la ministra degli Affari regionali Mariastella Gelmini ha lanciato la sua proposta: proteggere le donne che denunciano violenze con la stessa norma prevista per i testimoni di giustizia. Ha detto la ministra Gelmini: “La cronaca, anche recente, abbonda di donne che hanno subito violenza, o peggio sono state uccise, dopo aver denunciato”. “Protezione economica e abitativa” - Gelmini è certa: “È necessario valutare una forma di potenziamento ed estensione dell’attuale dispositivo, imperniato sui centri anti-violenza e sulle case rifugio con misure volte ad assimilare, in quanto compatibile, la tutela delle donne che denunciano a quelle dei testimoni di giustizia”. La protezione deve essere estesa, secondo la ministra: “Dovremmo lavorare per valutare l’estensione delle misure economiche abitative e di protezione previste dalla legge per le donne che denunciano. Questo costituirebbe anche un incentivo a portare alla luce episodi troppo spesso taciuti”. Arresto in flagranza - Tacciono le donne troppo spesso, la paura incombe per colpa di “una cultura della violenza che affonda le radici nell’organizzazione patriarcale della società”, come sostiene la ministra Lamorgese. È tristemente noto che la maggior parte dei femminicidi avviene per mano di partner o ex partner delle vittime. Ed è per questo che la ministra dell’Interno ritiene che si “un’esigenza prioritaria di ripensare le misure di prevenzione dei femminicidi con l’estensione mirata all’arresto in flagranza e l’introduzione di una specifica disciplina su ferma dell’indiziato, mentre la tutela delle vittime potrebbe avvalersi di un indennizzo più sostanzioso”. Trattativa Stato-mafia, la sentenza “condanna” stampa e Pm di Tiziana Maiolo Il Riformista, 25 settembre 2021 È finita. La Trattativa non c’è stata. Scarpinato e Travaglio hanno perso. Lo aveva detto nella prima seduta il presidente della corte d’assise d’appello Angelo Pellino: “Non faremo processi alla storia”. Così è stato, e ci è voluto anche un bel po’ di coraggio, visto il clima giudiziario-politico e anche giornalistico. Assolti i vertici del Ros, assolto Dell’Utri. Ma ci sono voluti 30 anni per liberare Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni e il senatore Dell’Utri, oltre a Calogero Mannino e Nicola Mancino, già assolti precedentemente, dall’infamia di esser stati collusi con la mafia. Si, perché trent’anni sono passati da quel 1992 in cui tutto sarebbe cominciato secondo la squadra dei pm “antimafia”. Trent’anni in cui Silvio Berlusconi, che pure in questo processo avrebbe dovuto essere parte lesa, ma che sulla bocca dei procuratori veniva sempre trattato con sospetto, è stato il perseguitato politico numero uno, che ha trascinato con sé involontariamente anche Dell’Utri e che avrebbe dovuto, in caso di condanne in questo processo, essere il boccone ghiotto per i prossimi giorni. Ma da ieri è finita la rilettura della storia d’Italia come storia criminale e mafiosa della politica. Quella storiografia cui hanno lavorato, insieme a un pezzo significativo della magistratura, i principali quotidiani capeggiati da intere generazioni di cronisti giudiziari e inviati accovacciati sotto le toghe dei procuratori e il principale loro sostenitore, il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio. Se ragionassimo con lo stesso metro di misura di Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, dovremmo dire che sono stati loro, i pubblici ministeri, a ordire un complotto contro lo Stato. Contro quel Mario Mori che fu il braccio destro di Falcone, contro Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, sospettati di collusione con la mafia sulla base di parole vendute da qualche “pentito” e cianfrusaglie uscite dalla bocca del testimone più farlocco della storia. Quel Massimo Ciancimino che è stato già condannato per calunnia, mentre il falso “papello” di Totò Riina finiva nel cestino di altri giudici. Contro Marcello Dell’Utri, che avrebbe trasmesso al governo Berlusconi del 1994 le minacce dei boss che chiedevano aiuto per i mafiosi in carcere in regime di 41 bis. La storia di quel periodo dice però che il governo di centrodestra il 41 bis lo aveva inasprito e addirittura trasformato da provvedimento emergenziale e provvisorio a definitivo. Berlusconi avrebbe favorito la mafia con il decreto Biondi (e qui verrebbe da ridere), un provvedimento sulla custodia cautelare che non riguardava affatto la mafia, e che fu ritirato dopo la sceneggiata televisiva degli uomini del pool Mani Pulite. E che Travaglio ha trasformato da “salvaladri” a “salvamafia”. Così, tanto per dare una mano al processo. La “storia criminale” dei magistrati storiografi comincia dopo la sentenza della cassazione nel maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone con le condanne dei boss dei corleonesi e la conferma degli ergastoli. La reazione di Cosa Nostra non si era fatta attendere, con l’omicidio di Salvo Lima, potente democristiano di Sicilia. I boss erano in gran parte latitanti, e questo era un punto debole della lotta dello Stato contro la mafia e anche delle sentenze, compresa quella del maxiprocesso. I due governi di quello scorcio di fine della Seconda repubblica erano fragilissimi, e così il Parlamento, decimato dalle inchieste di tangentopoli. Era scattata la più feroce repressione con la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e Asinara, le botte e le torture, quelle che portarono alla costruzione del falso pentito Scarantino, mentre la mafia uccideva Falcone e Borsellino. Carceri speciali e 41 bis, lo Stato non aveva saputo fare altro, in quei momenti. Qualcuno, i carabinieri del Ros, si era però attivato per arrivare alla cattura di Totò Riina, cercando di usare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino come cavallo di Troia. Normale, o forse eccezionale, in quel periodo, attività investigativa, come riconosciuto dai giudici che hanno assolto Calogero Mannino. Ma proprio su di lui si sono concentrati a un certo punto, non si sa perché, i sospetti degli inquisitori palermitani. Forse perché è siciliano, o perché democristiano, o perché, avendo sempre combattuto la mafia, poteva essere una vittima predestinata? Fatto sta che una semplice attività investigativa è stata trasformata in minaccia contro lo Stato. La famosa “Trattativa”. La mafia avrebbe usato i politici (un Mannino terrorizzato dalla paura di essere ucciso) e i carabinieri per avere riforme che attenuassero il regime speciale del 41 bis o addirittura scarcerassero qualche mafioso. In cambio avrebbero cessato le stragi. Poiché però nulla di tutto ciò si è verificato -le bombe non sono cessate, le riforme o le scarcerazioni non sono avvenute- in che cosa concretamente è consistita la famosa trattativa? In niente. Pure, in tutti questi anni, a partire dal 2008 quando Massimo Ciancimino è diventato un’icona antimafia, ci sono stati pubblici ministeri e gip e l’intera corte d’assise di Palermo del processo di primo grado che ha condannato a 12 e 8 anni di carcere gli imputati, che a quella favola hanno creduto. La favola della trattativa. Che poi è diventata complotto e minaccia: Mannino e i carabinieri contro i governi Ciampi e Amato, Dell’Utri contro quello presieduto dal suo amico Berlusconi. C’è da chiedersi perché questi pubblici ministeri si siano così intestarditi. Pura ricerca di potere e visibilità? Megalomania di voler riscrivere la storia a proprio piacimento? Odio politico? Qualcosa è scattato nella loro fantasia, dal momento che ci hanno lavorato per un bel po’ di anni. Se si considera anche l’operazione “Oceano”, che puntava diritta contro Silvio Berlusconi e di cui non c’è memoria (tranne che negli archivi della Dia), tre erano stati i tentativi falliti dei pubblici ministeri siciliani “antimafia” nei confronti del potere politico, prima di riuscire ad arrivare a un processo. Stiamo parlando di un’attività politico-giudiziaria durata circa 25 anni. Dopo “Oceano” ecco infatti “Sistemi criminali” -siamo nel 1998- un polpettone che metteva insieme tutte le stragi, da Bologna a Via D’Amelio, ipotizzando l’esistenza di una sorta di spectre composta da massoni, piduisti, imprenditori, politici, terroristi, e un deus ex machina che puntava alla destabilizzazione a suon di bombe. L’ipotesi era così strampalata che l’inchiesta finì archiviata. Ma erano passati solo due anni quando appare all’orizzonte il famoso “papello” con le richieste di Totò Riina allo Stato per far cessare le stragi. Siamo nel 2000, ma anche questa inchiesta avrà lo sguardo volto all’indietro di 30 anni, al fatidico anno 1992 in cui tutto successe in Italia: tangentopoli al nord e antimafia militante al sud. Il papello si rivelerà un falso, ma il teorema resisterà nelle testa dei pm e verrà rispolverato in seguito, nonostante l’archiviazione anche di questa inchiesta nel 2004. Il problema era che non si riusciva mai a dare un nome e un volto al famoso deus ex machina, il politico che rappresentasse quel terzo livello in cui Giovanni Falcone non aveva mai creduto. Ci penserà Massimo Ciancimino, il figlio minore di don Vito, che si rivelerà il teste meno attendibile della storia giudiziaria italiana e che verrà poi condannato per calunnia (mentre il famoso “papello” sarà dichiarato un falso), ma che diventerà il pilastro -siamo ormai arrivati al 2008- del “processo Trattativa”. Che, un passo alla volta, è arrivato fino al 2021. In un clima finalmente cambiato. In cui i giudici sono finalmente liberi. In cui un presidente può dichiarare di non voler riscrivere né giudicare la storia. E può liberare uomini valorosi come gli ex vertici del Ros e una persona per bene come Marcello Dell’Utri da una tortura che sarebbe diventata pena di morte in caso di condanna. È finita. Finalmente è finita. Trattativa Stato-mafia, Mancino: “Io vittima di un teorema ora crollato” di Concetto Vecchio La Repubblica, 25 settembre 2021 L’ex presidente del Senato: “Il verdetto d’appello cancella in un colpo ciò che la procura di Palermo aveva costruito in dieci anni. Di Matteo fu molto duro nei miei confronti, ma poi non fece ricorso contro la mia assoluzione”. Nicola Mancino, cosa ha provato quando ha saputo dell’esito della sentenza Stato-mafia? “Ho pensato che il verdetto cancellava d’un colpo ciò che la Procura di Palermo aveva costruito in dieci anni di indagini. È crollato un intero castello d’accusa”. Se l’aspettava? “Sì e no, però trovo che abbia ragione il maestro Giovanni Fiandaca: i suoi allievi pubblici ministeri hanno preso una cantonata”. Il professor Fiandaca sostiene anche che l’aula di giustizia è troppo piccola per una vicenda così grande. “Concordo, anche se l’aula di appello io non l’ho mai vista, perché in primo grado, il 18 aprile 2018, venni assolto con formula piena”. Lei incontrò Paolo Borsellino il giorno del suo insediamento al Viminale come ministro dell’Interno, nel giugno del 1992? “Venne con il procuratore Aliquò, così sostenne quest’ultimo al processo. Ma ci fu tra noi un saluto, nulla di più”. L’ipotesi accusatoria è che in quell’incontro si accennò alla trattativa. “Impossibile. Fu un colloquio di circostanza. Del resto le pare possibile che io, proprio nel giorno del mio insediamento, come prima mossa abbia convocato Paolo Borsellino che fino a quel momento non avevo mai conosciuto?”. Il pm Nino Di Matteo in aula l’accusò di omertà istituzionale. “L’ho sempre ritenuto un giudizio ingeneroso. Di Matteo fu molto duro nei miei confronti, dopodiché non fece ricorso in appello in seguito alla mia assoluzione”. Le pare una contraddizione? “Non c’è dubbio. Ma prese senz’altro la decisione più giusta”. Nelle motivazioni i giudici sostengono che lei tentò di sottrarsi al confronto con l’allora ministro Claudio Martelli, che sosteneva di averle espresso dubbi sul comportamento dei Ros in quell’estate del 1992... “Martelli non è stato leale con me. Il confronto poi ci fu, e in quell’occasione ho contestato la sua tesi. Ribadisco qui di non avere mai saputo dei sospetti sui Ros nella presunta trattativa con la mafia”. Antonino Ingroia parla di sentenza double face: “La trattativa ci fu, ma i Ros agirono a fin di bene”. Cosa ne pensa? “Penso che la trattativa non ci fu. Mi rifiuto di credere, da un punto di vista culturale e politico, che lo Stato potesse cedere alla mafia. Ciò premesso, prima di esprimere dei giudizi bisognerebbe sempre leggere le motivazioni”. Il processo non si doveva fare? “No, non andava celebrato. Voglio anche precisare che la trattativa non ha mai riguardato la mia persona. Ho sempre fatto il mio dovere io”. Cosa rivelano le tante polemiche sulla trattativa Stato -mafia? “Che bisogna aspettare le sentenze. Anche il segretario del Pd ha espresso sorpresa per il rovesciamento del verdetto di primo grado. Ma nel nostro Paese, fino a prova contraria, ci sono tre gradi di giudizio”. Cosa ha rappresentato umanamente per lei l’esperienza da imputato? “Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa inesistente, relegato perciò per anni in un angolo. Non mi invitavano più neanche al Senato”. Ma poi le sue ragioni sono state riconosciute. “Sì, alla fine mi è stata resa giustizia. Ma che sofferenza!” Cosa accadde esattamente nell’estate del 1992? “Lo Stato venne colto di sorpresa. Col senno di poi dobbiamo ammettere che non era preparato. Dobbiamo aggiungere che da allora la lotta alla mafia è stata efficace”. Resta il fatto che lo Stato non seppe proteggere le vite di Falcone e Borsellino. Come lo spiega? “Sì, ma erano eventi non prevedibili”. La classe dirigente della Prima Repubblica fece abbastanza contro la mafia? “Per me sì. In quella stagione inoltre c’erano già al governo uomini come Carlo Azeglio Ciampi e Giovanni Conso, che rappresentavano delle garanzie di democrazia”. Ha mai pensato di fare causa allo Stato? “Qualche tentazione l’ho avuta. Poi ho pensato che sarebbe stato come fare causa contro me stesso, perché ero e sono un uomo dello Stato. E in fin dei conti per me era più che sufficiente l’assoluzione piena maturata in tribunale”. Firmerà i referendum sulla giustizia? “No, non lo farò”. Perché? “Ritengo che una materia così complessa come la giustizia, che pure ha bisogno di riforme, debba essere affrontata in Parlamento”. Tra pochi giorni compirà 90 anni. Come li festeggerà? “In modo semplice, in famiglia. Sono felice di tagliare questo traguardo”. È soddisfatto di quel che ha raggiunto nella vita? “Perché mai non dovrei esserlo?” Ingroia: “Non cambio idea, la sentenza è chiara: la trattativa ci fu…” di Simona Musco Il Dubbio, 25 settembre 2021 L’ex pm - ora avvocato - che coordinò il processo di Palermo: “I giudici dicono che c’è stata una trattativa, che c’è stato un papello, che è arrivato al governo tramite gli ufficiali dei Ros. Ma non avendolo fatto con l’intenzione di minacciare lo Stato per loro non è un reato”. Per Antonio Ingroia, oggi avvocato e un tempo tra i pm antimafia che coordinarono il procedimento penale sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, la sentenza d’appello di Palermo è chiara: la trattativa ci fu. Ma “ambasciator non porta pena, se vogliamo sintetizzare il senso della sentenza…”. Dottore, lei parla di una sentenza double face, ma ancora sappiamo solo una cosa: il comportamento degli uomini dello Stato imputati in questo processo non fu reato. Non è presto per dire che una trattativa, comunque, ci fu? Certo, bisogna leggere le motivazioni per avere un quadro chiaro. Ma ho provato a decifrare il dispositivo, che è molto articolato, perché ci sono assoluzioni con formule diverse, condanne in forma diversa, alcune confermate, altre derubricate, quindi ho cercato di prevedere quale potrebbe essere la motivazione su queste basi. È chiaro che l’assoluzione di Marcello Dell’Utri è diversa da quella degli ufficiali del Ros, la condanna di Antonino Cinà e Leoluca Bagarella per il 1992 è diversa da quella di Bagarella per il 1994. Sulla base di questo, posso dire che almeno per il ‘92 è certo che c’è stato il papello e l’avvio della trattativa. Se lo scopo dei militari era quello di catturare i latitanti non è forse più opportuno parlare di una strategia d’indagine? Non è mai stato messo in dubbio che gli uomini del Ros volessero combattere la mafia, né è stato mai sostenuto che ne fossero complici. Ma dal dispositivo non mi pare che i giudici abbiano accolto la linea difensiva, ovvero che si trattasse di una strategia investigativa. I giudici dicono che c’è stata una trattativa, che c’è stato un papello, che questo papello è passato dalle mani degli ufficiali dei carabinieri - che non hanno mai ammesso questa cosa - e che è arrivato al governo. Solo che secondo i giudici, il fatto che gli ufficiali dei carabinieri siano stati ambasciatori di questa minaccia mafiosa non costituisce reato, perché non era fatto con l’intenzione di minacciare lo Stato. Ma che questo papello sia arrivato ai vertici dello Stato è stato dimostrato dal processo? I giudici sono evidentemente convinti di questo, perché altrimenti Cinà non sarebbe stato assolutamente condannato per minaccia consumata, ma come nel caso di Bagarella nei confronti del governo Berlusconi la sua accusa sarebbe stata derubricata a minaccia tentata. Nel caso di Bagarella, la Corte d’Appello ha ritenuto che la minaccia non sia arrivata e si sia fermata nel segmento Cosa Nostra - Dell’Utri. Nel 1992, invece, dev’essere per forza arrivata, altrimenti la formula assolutoria avrebbe dovuto essere “per non aver commesso il fatto”. Durante il processo sono state depositate le audizioni dei colleghi di Borsellino davanti al Csm, dalle quali è emerso che lo stesso magistrato stimava gli uomini del Ros e soprattutto credeva nel dossier mafia-appalti. Perché non è stato adeguatamente approfondito, come chiede anche la figlia Fiammetta? Ma io credo che invece sia stato approfondito. Ovviamente, coinvolgendo la responsabilità di magistrati di Palermo, se ne occupò la procura di Caltanissetta: alcuni magistrati sono stati indagati, poi la procura ritenne che non ci fossero sufficienti elementi per fare un processo e l’indagine venne archiviata. Però c’è stata. Che Borsellino fosse interessato a quel dossier è cosa risaputa, l’ho dichiarato in tanti processi, ma non c’entra nulla con la trattativa. Anzi, sono questioni parallele. Ma in teoria fu proprio la trattativa ad accelerare l’organizzazione dell’attentato a Borsellino, sebbene per altri la sua morte sia da ricollegare proprio a quel dossier… Ma questo è un altro discorso, non riguarda il processo di Palermo. La strage di via D’Amelio non c’entra. Nel processo di Palermo non è mai entrata in maniera significativa la circostanza che Borsellino sapesse o meno della trattativa, se la stessa c’entrasse con la sua morte… Sono cose separate. Lo scopo della mafia, con questa trattativa, era quello di ottenere dei benefici. Ma l’azione repressiva dello Stato non è venuta meno: 416 bis e 41 bis sono rimasti in piedi e fu la Consulta a rivedere i parametri per il carcere duro. Quale sarebbe stata la conseguenza di questa azione? Non ebbe degli effetti immediati, sicuramente, ma che nell’arco di qualche anno le condizioni cambiarono e che il clima politico e legislativo - che dal 1992 al 1994 era particolarmente forte - si sia un po’ allentato è evidente, sfido chiunque a dire che non sia così. Dopodiché, se sia o meno effetto della trattativa è un’altra questione che non riguarda il processo, perché se poi la minaccia ebbe effetto, se vi fu veramente la trattativa è secondario rispetto al processo. Il processo riguarda una minaccia: c’è stata questa minaccia? Chi ne è stato il responsabile? Questo era l’oggetto del processo. I giudici di primo grado hanno detto che la minaccia c’è stata e che erano responsabili sia i mafiosi che l’avevano pensata sia gli uomini dello Stato che l’avevano agevolata, portandola al destinatario. I giudici d’appello hanno confermato il fatto, però hanno ritenuto che il reato era riscontrabile solo per chi ha ideato e inviato la minaccia e non chi ne è stato ambasciatore. Come dire: ambasciator non porta pena, per sintetizzare il senso della sentenza. Però secondo lei comunicare un’informazione ai vertici dello Stato è reato... Io penso che di fronte ad una palese ed evidente minaccia un ufficiale di polizia giudiziaria avesse il dovere di portare a conoscenza della magistratura un reato che si stava commettendo sotto i suoi occhi, invece di portarlo alla politica e quindi al governo. La polizia giudiziaria lavora per la magistratura e quando ha notizie di reato non le porta alla politica, ai ministri o al governo, le porta ai magistrati. Non risulta che questa cosa sia stata comunicata ad un magistrato, tranne che ciò non sia avvenuto segretamente. Ma questo possono saperlo solo gli ufficiali, che hanno sempre negato. Un altro aspetto di questo processo è il fatto che si sia trasformato in una questione di tifo: questa degenerazione non fa male alla lotta alla mafia? Questo non fa bene né alla giustizia né alla lotta alla mafia. L’enfatizzazione mediatica, la spettacolarizzazione, sia delle condanne sia delle assoluzioni, è un danno. Sono d’accordo con lei: è una battaglia contro i mulini a vento, purtroppo. Siamo entrati da anni, ormai, in un tunnel in cui qualsiasi pubblico evento viene spettacolarizzato. La politica è diventata più superficie che contenuto e purtroppo questa cosa ha contagiato anche il mondo della giustizia. Antimafia anno zero, la rabbia dopo il verdetto nel processo Trattativa: “Non è finito tutto” di Francesco Patanè La Repubblica, 25 settembre 2021 Salvatore Borsellino: “Toghe asservite”. Santino: “Mandanti sempre impuniti”. La vedova Montinaro: “Ma io continuerò a parlare di valori con i giovani”. Rabbia, sdegno, frustrazione. Ma anche il rispetto per una sentenza che non condividono, che giovedì pomeriggio ha infilato il coltello in una ferita mai cicatrizzata, che in poco più di cinque minuti ha ribaltato le condanne di primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia assolvendo gli uomini delle istituzioni e di fatto rendendo legittima la trattativa. La lettura del dispositivo, alle 17.37 di due giorni fa nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, è stata un pugno in faccia per le associazioni antimafia siciliane, per molti familiari di vittime, per i “ padri” dell’indagine più controversa degli ultimi vent’anni. “Processo trattativa... grazie... anche a nome di Claudio”, scrive sui social Luciano Traina, fratello di uno degli agenti di scorta morti nella strage di via D’Amelio, allegando la foto del funerale. “Mi verrebbe di abbandonare tutto. Ma poi penso: che messaggio è stato dato ai giovani con questa sentenza? Un messaggio devastante: trattare con la mafia non è reato. E allora mi dico che devo continuare ad andare nelle scuole e nelle piazze a testimoniare i valori per cui sono morti Paolo Borsellino, mio fratello Claudio e tanti martiri di Palermo”. Provano a dissimulare l’amarezza e lo sconforto, ma già alla seconda domanda è chiaro come le assoluzioni degli uomini delle istituzioni e la sola condanna dei mafiosi sia stato lo scenario peggiore. “Peggio di così non poteva andare, sono sicuro che Paolo è stato ucciso perché era venuto a conoscenza della trattativa e non l’avrebbe mai consentita - dice Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via D’Amelio e fondatore delle Agende rosse - Per poter portare avanti quella scellerata trattativa, ieri (giovedì, ndr) dichiarata legittima, hanno spezzato la vita di Paolo e dei ragazzi della scorta. Purtroppo, anche la magistratura è ormai asservita alla politica e non possiamo più avere speranza di giustizia”. I protagonisti di tre decenni di manifestazioni, battaglie, commemorazioni gremite e anniversari dolorosi provano ad aggrapparsi alla Cassazione, consapevoli che questo processo sarà l’ultima occasione per vedere in un’aula di giustizia la trattativa fra lo Stato e la mafia. “In trent’anni ne ho viste e sentite di tutti i colori, la sentenza d’appello mi amareggia ma non è ancora finita - commenta Tina Montinaro, moglie di Antonio, morto con Falcone a Capaci - C’è ancora la Cassazione. Da parte mia continuerò a portare avanti nelle scuole e con i giovani i valori per cui è morto mio marito”. Le assoluzioni degli uomini dello Stato, gli ex ufficiali del Ros dei carabinieri, e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri rischiano di riscrivere la storia degli ultimi trent’anni sulla ricerca della verità sui rapporti fra Stato e mafia durante la stagione delle stragi. Di certo hanno spiazzato un’antimafia forte delle pesanti condanne in primo grado. “Il rapporto tra mafia e istituzioni, che ha segnato la storia del nostro Paese, è troppo complessa per poterla racchiudere in un processo - commenta Umberto Santino, fondatore del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato - Fino a oggi i riferimenti ai mandanti esterni sono rimasti generici e non provati. Si pensava di aver cambiato pagina con la sentenza di primo grado, ma ora si è ripresa la strada della colpevolezza solo dei mafiosi”. A far discutere è la formula con cui la corte d’assise d’appello ha assolto i generali Mori e Subranni e il colonnello De Donno: “ Il fatto non costituisce reato”. Ovvero, probabilmente, i rapporti ci furono, la trattativa pure, ma non è reato perché i militari volevano solo catturare Riina. Tradotto per l’antimafia, significa che lo Stato può trattare con i criminali oppure, come sottolinea Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto, uno dei padri dell’indagine, “che la polizia giudiziaria delegata a indagare da una procura può decidere di non portare immediatamente la minaccia ricevuta ai magistrati, ma di consegnarla alla politica - commenta Ingroia - Perché la minaccia c’è stata e lo attesta la conferma della condanna a 12 anni di Antonino Cinà. Se avessero assolto tutti, allora si sarebbe potuto dire che in anni di indagini abbiamo solo acchiappato farfalle. Ma non è così: la ricostruzione dei fatti ha retto, è l’interpretazione di questi fatti e il loro significato simbolico-politico a essere cambiati”. I giudici ci spiegheranno la differenza fra un’indegnità civile e morale, e il reato di Adriano Sofri Il Foglio, 25 settembre 2021 Occorrerà moltissimo tempo per rimettere insieme i cocci di una conoscenza e un’interpretazione condivisa della tragedia italiana recitata da Cosa Nostra e dalla sua intimità con apparati del potere economico e politico. Almeno altrettanti anni di quanti ne ha impiegati una tesi che è apparsa a persone leali e sinceramente scandalizzate tanto più vera quanto più impegnata a mirare in alto. Fino al presidente della Repubblica, Napolitano, al suo principale collaboratore al Quirinale (morto tristemente lungo la strada), all’ex ministro dell’Interno Mancino, a un avvocato e giurista illustre ed ex ministro della Giustizia, Giovanni Conso, e giù lungo una nomenclatura capace di andare incontro al rifiuto di acquietarsi all’idea che si trattasse della “sola” mafia. La mafia non è mai stata “sola”. Ma ogni volta che tante persone leali e scandalizzate hanno sentito di dover sostenere una interpretazione e le persone che la incarnavano, e che la fedeltà appassionata alla memoria di Falcone e Borsellino - e molti altri - le obbligasse moralmente a una solidarietà senza la quale non restava che la viltà o la complicità con la mafia, hanno rischiato di cedere a un equivoco disastroso. Per anni e anni sarebbe stato additato come un tiepido o un complice di mafiosi e poteri forti chi mettesse in dubbio la verità sulla strage di Borsellino e della sua scorta, confessata da Scarantino e dai disgraziati come lui condannati all’ergastolo duro: l’uno e gli altri incolpevoli, costruiti da uomini di spicco dello stato, perseguiti e condannati da stuoli di pubblici accusatori e giudici, ben oltre l’emergere della verità attraverso il vero autore. Aver creduto, per fede, in quel depistaggio forsennato, ha significato, oltre a un’iniquità che grida vendetta, un lungo favore ai veri colpevoli. Dunque, in nome del proprio fervido rigore antimafioso, aver favorito l’operato di mafiosi, uomini del potere economico, uomini delle istituzioni. La sentenza di Palermo è stata accolta con costernazione e stupefazione. E tuttavia era del tutto prevedibile (prevista, anche: perfino il Fatto aveva sentito di dover mettere la penna avanti, alla vigilia) se non per l’abitudine a pensare che i giudici non vogliano smentirsi. Ma i giudici d’Appello di Palermo avevano una quantità di altre sentenze precedenti a smentire quella del primo grado. Certo, la leggeremo la sentenza. Ci stupiremo davvero allora, vedrete, a leggere parole durissime contro comportamenti civilmente ignobili, tanto più indegni se messi a confronto con gli esempi di Falcone o Borsellino. Ma leggeremo anche una lezione ulteriore sulla differenza fra un’indegnità civile e morale, e il reato. Oggi commenti sinceri (quelli ipocriti e faziosi li ignoro) disegnano una Corte, e una giuria popolare, piegata e pressoché berlusconiana, e additano l’esultanza dei titoli di destra. Prendano tempo, raccolgano testimonianze e idee. Rispettino la reazione di Salvatore Borsellino, ma riflettano su quella di Fiammetta Borsellino. Sul giudizio di Peppino Di Lello, che di quella famosa squadra di magistrati era il quarto membro. Di Alfonso Giordano, che presiedette lo storico maxiprocesso. Leggano - si trovano in rete - le sentenze di Angelo Pellino, il presidente della corte d’Appello palermitana. Quella per l’assassinio di Mauro Rostagno, che offre un quadro terrificante dei poteri cittadini mafiosi, della massoneria e dei servizi di Trapani. Leggano - occorre pazienza e tempo, sono ogni volta un paio di migliaia di pagine - la sentenza del 2012, redatta da lui giudice a latere, sull’omicidio De Mauro, dove Totò Riina viene assolto perché non c’è la prova, ma si afferma che a motivare l’omicidio fu la denuncia che, a tanta distanza di tempo, De Mauro stava muovendo agli attentatori all’aereo di Enrico Mattei. Pellino è stato giudice dei processi per l’assassinio di padre Puglisi, del valoroso Libero Grassi, di Peppino Impastato (scrisse la sentenza che condannava a 30 anni Vito Palazzolo; nel depistaggio contro Impastato il generale Subranni assolto l’altro ieri, allora maggiore, ebbe un ruolo infame), del giornalista Mario Francese. Commentatori di ogni parte sarebbero sorpresi di scoprire quali pensieri politici coltivi il giudice. Dovrebbero ricordarsi almeno di quello che disse affabilmente in apertura del processo: che si sarebbero vagliate solo le posizioni personali rispetto all’accusa, e che “può accadere che in un processo che riguarda fatti molto eclatanti la riscrittura di un pezzo di storia di un paese sia un fatto inevitabile, ma non deve essere cercata”. Ecco perché questa volta specialmente ha un senso non ipocrita dire: bisognerà leggere le motivazioni. Non per fango ma per giustizia. La sentenza di appello sulla “trattativa” di Mario Chiavario Avvenire, 25 settembre 2021 “Bisogna aspettare le motivazioni”. È una frase usuale, che vale anche stavolta, di fronte alla sentenza di appello per quello che si è venuti a chiamare ‘il processo sulla trattativa Stato-mafia’. Un dato è certamente fuori discussione: ne appare ribaltata la sentenza di primo grado, che aveva inflitto pesanti condanne a un senatore della Repubblica e a tre alti ufficiali, per aver concorso, mediante contatti con appartenenti alle cosche, alla messa in opera del delitto di minacce a varie compagini governative. Ieri, in loro riforma, sono risuonate altrettante assoluzioni. Un ribaltamento del genere non è un unicum nel nostro sistema, e può essere persino portato ad esempio di una giustizia scrupolosa. Restano degli interrogativi, che il dispositivo della sentenza non può, da solo, sciogliere per intero. Certamente scagionato in uno dei modi giuridicamente più pieni - “per non aver commesso il fatto” - è il senatore Dell’Utri, anche se solo la motivazione potrà dirci a che cosa si deve l’esito: se, cioè, alla raggiunta prova positiva della totale inconsistenza dell’accusa mossagli, oppure alla constatazione di una mancanza o di un’insufficienza o contraddittorietà delle prove addotte a suo carico. Il risultato, per dei giudici penali, non può non esser identico in ciascuno di tali casi. Lo impone un principio di elementare civiltà: non è l’accusato a dover dimostrare irrefutabilmente la sua innocenza, ma tocca all’accusa provare, “oltre ogni ragionevole dubbio”, la colpevolezza. Più complessa la situazione per ciò che concerne gli altri tre imputati assolti. Al riguardo il verdetto è “perché il fatto non costituisce reato” e l’illazione più immediatamente diffusasi è che nei loro confronti la partecipazione alla trattativa sia stata accertata, e che pertanto l’esclusione della punibilità sia dovuta a motivi in qualche modo esterni al compimento del fatto. L’illazione non è del tutto ingiustificata, alla luce della giurisprudenza di Cassazione, che pur potrà sorprendere i non addetti ai lavori: è la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” (e non quella usata per l’occasione) a venire invero prescritta quando il comportamento cui si riferisce l’imputazione si è pur realizzato, ma senza combaciare perfettamente con la descrizione che del reato in questione dà la legge penale. Il punto da chiarire sarà, però, se davvero di autentica “trattativa” si sia trattato o se i contatti realizzatisi abbiano avuto, da parte degli interlocutori dei mafiosi, una ben differente impostazione, così da veder sovrapposte, allo scopo delle minacce alle istituzioni, tutt’altre finalità. Anzitutto, quella di bloccare una preoccupante catena di sangue, soltanto fingendo di concedere qualcosa, o facendo apparire come concessioni degli atti che altrimenti si sarebbero pur sempre potuti giustificare (tale, l’allentamento, per dei semplici gregari, del regime “di massima sicurezza” dell’art. 41-bis). In questa prospettiva, si potrebbe addirittura pensare a uno ‘stato di necessità’, cui però il codice penale attribuisce, sì, l’effetto che si definisce ‘scriminantè, ma soltanto entro margini ridottissimi. Viene allora in mente - ed è stato subito evocata - la possibilità che per questi soggetti la consapevolezza di ciò che stavano compiendo potesse ben combinarsi con la totale assenza della volontà d’impedire il funzionamento corretto delle istituzioni (tecnicamente, si chiama mancanza di ‘dolo specifico’). E che proprio lì stia la ragione dell’assoluzione. Sono tutte illazioni, a confermare o smentire le quali occorrerà attendere soltanto il tempo per il deposito della sentenza (non dovrebbero essere più di 90 giorni). Non ne risultano esauriti i motivi di riflessione che la vicenda, nonostante la sentenza, è destinata ad alimentare, e verosimilmente assai più a lungo (vi sia o no il ricorso per cassazione della Procura generale). Da un lato, non può non venirne accentuata la sensazione che comunque la lotta alla mafia induca spesso, a ragione o a torto, dei comportamenti borderline di delicatissima gestione: quelli intervenuti in questo caso (quale che ne sia la valutazione) non sono né i primi né gli ultimi, tra quelli in uso, e legalmente, a opera degli apparati di polizia, anche in relazione ad altri tipi di reato (si pensi anche solo all’impiego dei confidenti, sempre col rischio che si trasformino essi stessi in ‘agenti provocatori’ di delitti). Meno ancora, si può dimenticare il peso che vicende come questa hanno accollato, non soltanto a imputati, ma anche ad altre persone, del tutto specchiate e lambite da ingiusti sospetti. Vengono in mente almeno due nomi, quelli di Giovanni Conso e di Loris D’Ambrosio. E d’altro canto, è pur vero che, senza entrare nella logica dell’à la guerre comme à la guerre, uno Stato, e in particolare uno Stato di diritto e democratico, non può mostrarsi debole, soprattutto nei confronti della criminalità più pericolosa. Ciò che si vorrebbe veder finalmente cessare è la speculazione sulle sentenze e in genere sull’operato della magistratura, da parte delle opposte fazioni politiche (ma anche di giornali ‘schierati’), esaltando o vituperando condanne o assoluzioni, anche amplificando o nascondendone i reali contenuti, e prima ancora indagini e rinvii a giudizio, per rivendicare meriti dei propri aderenti o simpatizzanti e per gettare fango sugli avversari. Sardegna. Il carcere, un pianeta da rivedere La Nuova Sardegna, 25 settembre 2021 Sovraffollamento, proteste di ergastolani e personale ridotto all’osso. Carceri sovraffollate e in difficoltà permanente tra un numero sempre maggiore di detenuti di alta sicurezza e un numero sempre minore di agenti di polizia penitenziaria e personale. Lo spaccato delle carceri italiane preoccupa, ancora di più la situazione in Sardegna dove in alcune strutture la situazione rischia di diventare esplosiva. Oltre ai numeri, crescono anche i problemi tre le proteste degli ergastolani e le difficoltà dei detenuti “comuni” che talvolta hanno epiloghi tragici (un mese fa nel carcere di Oristano-Massama si è registrato un suicidio in cella). “Una sconfitta dello Stato e di tutti” è stata la voce condivisa e adesso si riapre il dibattito. I dati della sezione statistica dell’ufficio del Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria raccontano che ad agosto c’è stato un aumento dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, ristretti nei circuiti dell’Alta sicurezza. L’incremento maggiore si è verificato nel carcere di Tempio Pausania dove in un mese i detenuti sono passati da 153 a 171 per 170 posti. Nella casa di reclusione Oristano-Massama è stato addirittura superato il numero regolamentare dei posti disponibili. “Complessivamente le persone private della libertà nelle strutture detentive sono passate in un mese da 1925 a 1961 - ha commentato Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme - Situazione non meno impegnativa a Badu ‘e Carros dove sono reclusi, in regime di alta sicurezza alcuni esponenti jihadisti e fondamentalisti islamici. Non si può dimenticare la struttura di Sassari-Bancali dove è ristretta una novantina di detenuti al 41bis in un apposito padiglione. Detenuti altrettanto “importanti”, circa una trentina, sono anche a Cagliari-Uta”. Diversa la situazione delle colonie penali che invece sono quasi vuote. Le tre Case circondariali all’aperto dispongono complessivamente di 613 posti ma ne risulta occupato appena un terzo. Milano. Nelle carceri situazione sanitaria al collasso redattoresociale.it, 25 settembre 2021 Nella relazione del Garante dei detenuti, Francesco Maisto, la denuncia per le carenze nell’assistenza a chi ha patologie gravi o problemi di salute mentale. La pandemia ha “solo” accentuato la gravità della situazione già esistente. Due anni di mandato, di cui più della metà durante la pandemia. Per Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, il Covid-19 ha fatto emergere ancora di più tutti i problemi di cui il sistema penitenziario era già malato: “Il diffuso degrado strutturale e igienico in alcune aree detentive, la debolezza del servizio sanitario e la densità della popolazione detenuta”. È quanto scrive nella sua relazione di metà mandato: 192 pagine dettagliate, da cui emerge soprattutto la preoccupazione per la situazione sanitaria e la “grave carenza dell’assistenza psichiatrica” nelle carceri di San Vittore, Bollate e Opera. “Abbiamo segnalato all’assessorato regionale alla Sanità il problema della presenza di tanti casi fragili presso gli Istituti penitenziari - scrive Maisto -. Si tratta di casi complessi e che determinano difficoltà gestionali”. Nelle carceri lombarde, del resto, sono 672 i detenuti con patologie psichiatriche e 208 quelli con disturbi del comportamento. La relazione dedica inoltre un capitolo all’emergenza Covid-19, con tutte le misure adottate dagli istituti penitenziari: dai reparti specifici per i malati di Covid al cablaggio delle strutture per garantire i colloqui a distanza dei detenuti con parenti e avvocati. Ma la vera preoccupazione che emerge dalla relazione è per la situazione sanitaria al di là della pandemia. “Le particolari restrizioni che si sono rese necessarie (durante la pandemia, ndr) hanno negativamente influito sul già delicato equilibrio interno degli Istituti penitenziari, esasperando situazioni già fragili”, spiega Maisto. Un’esasperazione che non solo influisce sulla qualità della vita dei detenuti, ma porta a un aumento delle aggressioni agli agenti della Polizia Penitenziaria: “In particolare l’anno passato, quello della pandemia e della chiusura del penitenziario, è stato il peggiore anche se il 2021 ha già fatto segnare un trend che, se confermato, porterebbe il dato a livello doppi rispetto al 2019 e tripli rispetto al 2015”. In generale nei due anni di attività, il Garante dei detenuti di Milano ha seguito 383 casi. Si tratta di richieste di aiuto da parte dei detenuti, pervenute soprattutto dai diretti interessati o dai loro famigliari. Il 25% dei casi riguardava problemi di salute (e in particolare di salute mentale) mentre il 16,3% sulle condizioni detentive. Per Francesco Maisto, serve un cambiamento radicale nell’assistenza sanitaria nelle carceri milanesi. Serve un modello “di presa in carico delle situazioni individuali, di strutturazione di interventi ad hoc, di individuazione di regole d’ingaggio atte a consentire un’operatività concretamente rispondente alle esigenze di cura e di custodia delle persone sottoposte a provvedimenti penali, quali, ad esempio, la previsione di personale specializzato in grado di occuparsi - congiuntamente agli operatori penitenziari - di tali particolari situazioni (psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione), la maggiore connessione tra servizi Serd e i Dipartimenti di salute mentale”. Un cambiamento radicale anche perché negli ultimi due anni c’è stato “un forte incremento dell’ingresso di detenuti con problematiche psichiatriche, soprattutto di detenuti stranieri provenienti dai campi libici con evidenti situazioni di disturbo del comportamento dovuto a situazioni di stress post traumatico legati alle violenze e alle sevizie subite in quei contesti”. Il carcere è anche luogo in cui ci si ammala o in cui peggiorano le patologie di cui si soffriva prima di entrarvi. “La popolazione detenuta risulta essere in media per il 60-70% portatrice di patologie croniche, anche gravi - ricorda Maisto -. Quando parliamo del carcere come discarica sociale parliamo, infatti, di persone che, per età, condizioni fisiche pregresse, stili di vita o abusi di sostanze, in larga parte entrano in carcere in condizioni di salute psico-fisica già pesantemente compromesse. Al tempo stesso per molte persone detenute, soprattutto se cittadini stranieri irregolari, il carcere rappresenta paradossalmente un luogo in cui essere curati o quantomeno la prima occasione di accesso all’assistenza sanitaria. Il carcere è, però, anche un luogo che fa ammalare: molte patologie sia fisiche sia mentali si sviluppano in carcere. Ovviamente questo accade in parte per l’effetto naturale dell’invecchiamento, che però è amplificato da condizioni di vita spesso difficili, precarie e insalubri che accelerano i percorsi legati all’avanzamento dell’età, ma anche la coabitazione forzata con altre persone portatrici di patologie, sicché la stessa condizione di vita in una situazione di restrizione, rappresenta una pesante minaccia per la salute psicofisica delle persone detenute”. Napoli. Tolleranza, inclusione e rispetto: la lotta per i diritti arriva in carcere di Viviana Lanza Il Riformista, 25 settembre 2021 Un corso di educazione civica per i detenuti di Poggioreale. Una serie di lezioni, da settembre a dicembre, per parlare in carcere di contrasto alle discriminazioni e di diritti civili. I detenuti di nove padiglioni del carcere cittadino saranno impegnati in questo progetto che rientra nell’ambito delle attività proposte dal protocollo “Al di là del muro” promosso da Arcigay Napoli, il centro Sinapsi della Federico II e la Fondazione Gic. Ieri è stata la volta dei detenuti del padiglione Genova, una sezione del carcere dove non ci sono detenuti omosessuali, o comunque non dichiarati. Per la prima volta con loro si è parlato di identità di genere, di sessualità e diritti. “Ho fatto tante lezioni nelle scuole e nei luoghi di lavoro, ma quando si entra nel carcere cambia tutto - racconta Antonello Sannino, presidente di Arcigay Napoli, che ieri ha tenuto la lezione di educazione civica nel carcere di Poggioreale - In carcere ci si rende conto di quanto bisogno c’è di confronto, di senso civico”. La classe era formata da una decina di detenuti. Per le misure anti-Covid non è possibile avere classi più numerose. È un progetto pilota, nuovo per certi versi. E i detenuti sembrano aver mostrato grande interesse. “C’era voglia di ascoltare, tanto che quando sono venuti a chiamarmi gli agenti della penitenziaria perché dovevo andare via, i ragazzi hanno chiesto di avere tempo in più, sarebbero rimasti a fare lezione ancora”. “Molti erano attenti a queste tematiche perché avevano avuto esperienze in famiglia o tra i conoscenti, altri si ponevano interrogativi da genitori”. Ogni detenuto portava la propria storia personale che era diversa da quella degli altri, ma tutti mostravano un comune desiderio di riscatto. “La percezione del diritto negato, la necessità della conoscenza come base per il rispetto dei diritti sono stati gli argomenti di maggiori riflessioni - racconta Sannino - Se in un laboratorio di educazione civica senti dei concetti, delle parole chiave, vuol dire che c’è una partecipazione sentita. Ed è significativo”. “Molti detenuti - aggiunge - riconoscono di aver sbagliato e hanno voglia di riscattarsi, di riabilitarsi. Chiedono di frequentare corsi di studio o di formazione professionale per avere poi un’opportunità di lavoro. C’è voglia di uscire da certe logiche, c’è voglia di lavoro”. Per i detenuti di ognuno dei nove padiglioni del carcere di Poggioreale si prevedono quattro lezioni fino a dicembre. La prossima sarà tenuta da Daniela Falanga. “Per la prima volta Falanga entra in un carcere maschile per raccontare la sua storia - spiega Antonello Sannino -, la storia della figlia di un boss della camorra (lei era il primo figlio maschio di un boss della camorra) che oggi è una persona transgender. Parlerà ai detenuti di tutela dei diritti civili, di inclusione, di contrasto alle discriminazioni”. Una testimonianza importante all’interno di un progetto al quale potrebbe aderire a breve anche il carcere di Pozzuoli. “Decine di detenute ci stanno chiedendo di attivare corsi di formazione ed essere seguite anche in uscita dalla detenzione”, spiega Sannino. “Andiamo in un territorio che immaginavamo ostile, invece troviamo grandi apertura. Dialogare e portare il senso civico anche in carcere è importante”. Prato. Eutanasia e giustizia, la raccolta di firme si estende alla Dogaia di Stefano De Biase La Nazione, 25 settembre 2021 I Radicali e il consigliere comunale Tinagli sono entrati nel carcere per raccogliere adesioni fra detenuti e agenti sui referendum. Il carcere della Dogaia apre le porte ai referendum per l’eutanasia legale e sulla giustizia. I radicali Barbara Soldi e Matteo Giusti, e il consigliere comunale Lorenzo Tinagli hanno infatti raccolto le firme a sostegno dei quesiti referendari fra detenuti e personale di polizia penitenziaria. “Abbiamo voluto portare la democrazia all’interno del carcere - spiega Matteo Giusti, tesoriere dei Radicali Prato e membro di comitato dei Radicali Italiani -. Era doveroso dare la possibilità a tutti coloro che ne hanno diritto di firmare per i referendum su eutanasia e giustizia. Il carcere, come tra l’altro recita l’articolo 27 della Costituzione, deve tendere alla rieducazione del condannato, e quale migliore inizio che continuare a fare sentire un detenuto anche cittadino, portando tra le mura della Dogaia il diritto democratico”. La visita di Giusti, Tinagli e Soldi è iniziata con un incontro preliminare col direttore della Dogaia, Vincenzo Tedeschi, e col personale di polizia penitenziaria che si trova a dovere sopperire alla ormai cronica carenza di risorse economiche e d’organico. A seguire la delegazione ha raccolto le firme a sostegno dei referendum, vivendo al contempo uno spaccato di quotidianità all’interno della Dogaia. “Nonostante le condizioni non emergenziali del carcere di Prato - sottolineano i promotori dell’iniziativa -, tante sono le situazioni e gli aspetti su cui intervenire e migliorare, anche attraverso la collaborazione delle istituzioni”. “Non bastano condizioni di vita dignitose all’interno del carcere” conclude Tinagli. “È necessario lavorare per il reinserimento dei detenuti, ricordando che la pena ha una funzione rieducativa nella nostra Costituzione. Serve un’inversione di tendenza nella visione di questi luoghi che, troppo spesso, vengono dimenticati dalle istituzioni e non sono in grado di svolgere la funzione che dovrebbero garantire in uno stato di diritto”. Intanto a livello italiano il referendum sull’eutanasia legale ha superato il milione di adesioni, di cui 3500 firme raccolte in provincia di Prato. Ora la campagna andrà avanti solo on line, fino al 30 settembre, con autenticazione con Spid. In corso, sempre on line, pure la raccolta firme per il referendum sulla cannabis legale (si firma su www.referendumcannabis.it) che a livello italiano ha già sfondato il muro delle 600mila adesioni. Già pronto per andare in Corte Costituzionale, infine, il referendum sulla giustizia che ha ottenuto l’approvazione da cinque consigli regionali. Ragusa. Da terreni abbandonati ad orti coltivati, i detenuti diventano contadini Giornale di Sicilia, 25 settembre 2021 Dove appena qualche mese fa c’erano soltanto piccoli appezzamenti di terreni incolti, oggi crescono rigogliosi orti coltivati secondo la tecnica dell’agricoltura rigenerativa, dando lavoro continuo a due detenuti ma soprattutto insegnando loro a prendersi cura della terra e dei suoi frutti, iniziando un percorso rieducativo che potrà favorirli nel ritorno in società. É il progetto “Libere Tenerezze, Laudato Sì”, nato per gioco grazie ai clown dottori di “Ci ridiamo su”. Adesso la direzione del carcere di Ragusa l’ha inserito nella programmazione d’istituto per fornire lavoro e competenze in campo agricolo ai detenuti coinvolti. Sono nati degli orti rigenerativi secondo tecniche di biodinamica lungo tutti i terreni che si trovano nel perimetro del carcere. Adesso da quell’idea iniziale è nato un progetto strutturato che ha già trovato l’interesse del Vaticano. “É il primo orto umoristico-rigenerativo - spiega Fabio Ferrito, clown dottore e presidente di Ci Ridiamo Sù - che nasce in un carcere della Sicilia, umoristico perché le competenze di noi operatori di comicoterapia si approcciano con una nuova modalità basata sullo scambio, ed è rigenerativo perché ci sono tecniche di coltivazione molto specifiche - quali quelle di rigenerare il suolo, gli ecosistemi e la biodiversità, le relazioni tra gli esseri viventi, i saperi - che vengono utilizzate con la consulenza di esperti in materia. Si punta così a far acquisire ai detenuti delle nuove abilità che potranno spendere in futuro”. Verbania. Il Garante regionale visita il carcere, “esame” superato ossolanews.it, 25 settembre 2021 Qualche criticità, ma giudizio sostanzialmente positivo sulla struttura di via Castelli a Pallanza. Sessanta detenuti a fronte di una capienza di 52, trenta celle dotate di wc e doccia, un cortile per “l’ora d’aria” e, prossimamente, un campetto di calcio allestito con erba sintetica. Inoltre, una situazione Covid-19 mantenuta sotto controllo, valutato che la quasi totalità dei detenuti ha ricevuto in queste settimane almeno la prima dose di vaccino. È quanto sarebbe emerso nei giorni scorsi, al termine della visita che il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano ha compiuto nel carcere di Pallanza. Nel complesso, dunque, il quadro in essere nella casa circondariale di via Castelli è stato considerato buono. Otto detenuti in più di quelli previsti in pianta non sarebbero infatti una quota tale da destare preoccupazione, anche perché una decina di carcerati trascorrono la loro giornata fuori, per svolgere attività lavorativa nella mensa sociale di villa Olimpia e non soltanto. Semmai, in ottica futura, sarà forse più importante colmare la carenza in organico che attualmente vede parzialmente mancare la figura della direttrice (che gestisce in parallelo anche la struttura di Biella e quindi è presente in parte), l’assenza di un refettorio e, soprattutto, di personale in grado di gestire i carcerati affetti da disturbi psichici (ad oggi uno psicologo fa consulenza una volta la settimana). I risultati dell’ispezione di Verbania saranno ora inseriti da Mellano all’interno del dossier annuale che riguarderà tutti gli istituti di pena piemontesi e che sarà presentato prossimamente all’attenzione del consiglio regionale. Due curiosità. La prima: insieme a quello di Como, il carcere di Verbania è l’unico in Italia a disporre di un’ala dedicata agli omosessuali. La seconda: il campetto di calcio sarà ultimato tra breve grazie al lavoro svolto da quattro detenuti e alla disponibilità dell’architetto verbanese, Antonio Montani, che ha offerto le sue prestazioni. Livorno. “Via la plastica da Gorgona”, Aamps aiuta la colonia penale Il Tirreno, 25 settembre 2021 Donati 93 contenitori per la raccolta differenziata, borracce e bicchieri monouso. Il direttore Mazzerbo: “Grandi risparmi e ora ci allargheremo alle Sughere”. Novantatré contenitori per la raccolta differenziata, mille bicchieri biodegradabili monouso, cento borracce in alluminio. Ma anche una formazione al personale e ai detenuti sulla gestione dei rifiuti e sul compostaggio di comunità, con l’obiettivo di eliminare la plastica dall’isola. Comune e Aamps proseguono spediti “con il progetto innovativo che punta a rendere Gorgona ancora più all’avanguardia sul fronte ambientale”, scrive la società, che “vuole incrementare progressivamente la raccolta differenziata, eliminare l’uso della plastica e migliorare il compostaggio di comunità”. “In stretta collaborazione con l’ufficio ambiente del Comune - commenta Raphael Rossi, l’amministratore unico di Aamps - abbiamo raccolto le esigenze della casa circondariale per dare risposte immediate e, allo stesso tempo, contribuire a valorizzare l’isola nel suo complesso con la massima attenzione ai vincoli paesaggistici e nel rispetto delle leggi che governano la presenza dell’istituto di pena. Si tratta di percorso che abbiamo costruito grazie anche all’ampia disponibilità della direzione del carcere e del garante dei detenuti dell’amministrazione comunale convinti si possa introdurre innovazioni di matrice ambientale in grado di coinvolgere congiuntamente sia i detenuti che gli agenti della polizia penitenziaria e, complessivamente, rendere ancora più straordinario quello che è a tutti gli effetti un quartiere cittadino”. Ieri mattina, insieme agli operatori Aamps e all’amministratore Rossi, erano presenti alla consegna del materiale l’assessora comunale all’ambiente Giovanna Cepparello, il garante dei detenuti Marco Solimano e il direttore del carcere delle Sughere, sotto il quale ricade la colonia penale agricola, Carlo Mazzerbo. “Una collaborazione molto interessante iniziata con l’ex garante dei detenuti Giovanni De Peppo e che la mia direzione ha ripreso con il successore Solimano - dice Mazzerbo - con l’obiettivo di rendere l’isola, e quindi il carcere, più rispettosa dell’ambiente. Vogliamo eliminare la plastica da Gorgona, anche perché evitare di trasportare le bottiglie di plastica consentirà un grande risparmio economico. Devo ringraziare anche Asa, che ha riattivato la fontanella rendendo l’acqua potabile. La collaborazione si estenderà presto anche alle Sughere, dove alcuni detenuti del reparto alta sicurezza hanno già espresso delle idee sul recupero dell’alluminio”. Voghera (Pv). Quando il vino è inclusione: studenti e detenuti vendemmiano insieme winenews.it, 25 settembre 2021 Spesso, il vino ed il suo mondo sono anche sinonimo di inclusione sociale. Come succede, per esempio, in Lombardia, e precisamente da Voghera. Dove studenti e detenuti danno vita alla “vendemmia solidale” lanciando, di riflesso, un messaggio chiaro: quello che la cooperazione tra le realtà di uno stesso territorio può far nascere molte cose, anche un nuovo vino. Al centro del progetto c’è Torrevilla, l’associazione di viticoltori che riunisce oltre 200 vignaioli nel cuore dell’Oltrepò Pavese. Una realtà (con 114 anni di storia e 600 ettari di terreno che toccano nove comuni del territorio) che ha deciso di prendere parte a un progetto di coesione sociale dal grande impatto, dando la propria disponibilità affinché un gruppo “inusuale” di lavoratori potesse vendemmiare nelle proprie vigne. L’iniziativa prende il via grazie all’Associazione Terre di Mezzo, fondata nel 2018 dal parroco don Pietro Sacchi della parrocchia di San Pietro di Voghera: dopo il progetto pilota avviato nel 2020 tra Alessandria e Tortona, la decisione è di replicarlo per il 2021. Arriva quindi il coinvolgimento del carcere di Voghera e dell’associazione di Viticoltori Torrevilla, con una novità rispetto all’anno precedente: la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio. Ecco così che prende forma un gruppo inedito di vendemmiatori: 30 studenti dei licei cittadini, tre alunni dell’Istituto Maserati e quattro detenuti del carcere di Voghera. Ogni giorno, da alcune settimane, questa squadra raggiunge in autobus le colline fuori città e, tra i filari dei viticoltori di Torrevilla, comincia la raccolta manuale delle uve. Una vendemmia a mano che, spiega una nota, da un lato premia l’attenzione al lavoro manuale, dall’altro predilige il confronto tra esperienze e storie diverse: gli studenti stanno svolgendo le ore previste dall’alternanza scuola-lavoro, gli ospiti del carcere sono invece inseriti all’interno di un percorso di inserimento borsa lavoro. Punti in comune? Il desiderio di fare, di mettersi alla prova, di crescere. E non finirà qui perché terminata la raccolta delle uve, studenti e detenuti, infatti, affiancheranno i vignaioli di Torrevilla in ogni step fino alla produzione di un nuovo vino che avrà un suo nome e marchio. “Siamo orgogliosi - ha spiegato Massimo Barbieri, presidente dell’Associazione di Viticoltori Torrevilla - del nostro legame con il territorio, che è profondo e dura da più di 100 anni, e delle nostre tradizioni, che tramandiamo di padre in figlio da generazioni. Per questo abbiamo accolto con entusiasmo la collaborazione con l’Associazione Terre di Mezzo per realizzare questo meraviglioso progetto che mette al centro proprio le persone e il territorio, unendo inclusione, natura e tradizione, con la raccolta a mano delle uve fatta da ragazzi e detenuti affiancati dai nostri viticoltori. Siamo da sempre sensibili alle tematiche sociali e nel tempo abbiamo sostenuto diversi progetti di solidarietà, sul territorio e non solo. Ma questa è un’esperienza nuova di cui non vediamo l’ora di vedere (e assaggiare) il risultato finale: un nuovo vino, che sarà simbolo di inclusione, dialogo, speranza, futuro”. “Il fine della nostra associazione - sono le parole di Noemi Agosti, Responsabile del progetto e dell’Associazione Terre di Mezzo - è far incontrare due mondi che difficilmente altrimenti si incontrerebbero: il mondo dei giovani e quello delle realtà ai margini all’interno di un progetto, di un ambiente protetto in cui queste realtà possano relazionarsi e giovare entrambe di questo confronto. Il coinvolgimento di Torrevilla ha il fine di portare sul territorio dei giovani, ragazzi del liceo, che possono riscoprire la bellezza delle vigne e anche quello di far conoscere alle aziende agricole una realtà che non conoscono, come può essere quella del carcere. Vedere quattro detenuti che si impegnano abbatte infatti uno stereotipo purtroppo consolidato sulle persone detenute; a questo si aggiunge che il lavoro all’esterno delle mura del carcere diventa così una misura importantissima per la società e per il reinserimento sociale”. Libertà di parola: segnali, coincidenze e minacce di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 25 settembre 2021 Una non casuale ed inarrestabile convergenza di iniziative tendono a ridurre progressivamente, ma inesorabilmente, la facoltà di decidere, magari sbagliando e rispondendo dell’errore, cosa si può dire e cosa invece no. Sarà che siamo distratti da altre cose a prima vista più importanti, sarà che la libertà di parola è data per scontata, sarà magari un’esagerazione, ma gli scricchiolii sulla sua tenuta, che si sentono in sottofondo, sembrano non allarmare nessuno. Eppure si tratta di segnali inequivoci di quella che non sembra affatto una singolare messe di coincidenze, quanto piuttosto una non casuale ed inarrestabile convergenza di iniziative, che tendono a ridurre progressivamente, ma inesorabilmente, la facoltà di decidere, magari sbagliando e rispondendo dell’errore, cosa si può dire e cosa invece no. Il Parlamento, due giorni fa, ha approvato la “Delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, un vasto programma, come rispose Charles de Gaulle a chi gli chiedeva di eliminare almeno gli sciocchi e gli incompetenti. Fra le pieghe del provvedimento, al comma 25 dell’art. 1, si è impegnato il governo a “prevedere che il decreto di archiviazione o la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati ed imputati”. Dunque, non più valutazioni complesse, aggiornamenti, bilanciamento fra diritti, inevitabile riduzione della sfera privata di chi scende nell’agone politico, ma l’oblio che cala su tutto, subito e per sempre. Certo i decreti legislativi applicheranno il principio in modo articolato, nel rispetto della direttiva europea, ma intanto una previsione così secca e senza limiti temporali, fa impressione, perché sembrerebbe imporre l’immediata e definitiva sottrazione, ai motori di ricerca, di tutti gli articoli che si sono occupati di un qualunque processo, se finito in modo favorevole per l’interessato; e ciò a prescindere dalle motivazioni, dalla formula e, soprattutto, dalla sua caratura pubblica. E mentre si confida nella tecnica legislativa di chi li scriverà, con lungimiranza ed equidistanza, ecco l’ordine del giorno al Dl green pass del deputato Giorgio Trizzino, medico, oggi al Gruppo misto, ma eletto nelle fila dei 5 Stelle, che è stato accolto dal governo con parere favorevole. Esso lo impegna ad impedire, con adeguati provvedimenti, ai medici dipendenti da una struttura pubblica o privata convenzionata o accreditata e a chi dipenda o collabori con il ministero della salute di intervenire pubblicamente, quale che sia il mezzo di comunicazione, sulla gestione della pandemia, senza un’esplicita autorizzazione, che dovrà essere rilasciata, caso per caso ed esibita in via preventiva. Ciò “al fine di evitare di diffondere notizie ed informazioni lesive per il servizio sanitario nazionale e di conseguenza per la salute dei cittadini”. Una mordacchia mica male e forse salutare per chi è vissuto finora più in televisione che in corsia, ma anche per chi ci ha aiutato a capire in un momento drammatico. Incerta la sanzione per i trasgressori ma, recepito il principio, chissà mai che non si decida di estenderlo ad altre categorie. Entrambe le scelte, è impossibile negarlo, intervengono su fenomeni patologici, l’esposizione senza fine di chi è finito nelle maglie della giustizia e ne uscito indenne e le parole in libertà che finiscono per condizionare scelte importanti. Ma è proprio questa la strada più giusta? Non sarà che è più facile inibire che ragionare? E così sembra davvero poca cosa che intanto Facebook abbia oscurato la pagina di un museo sardo che raffigurava l’opera “Fiore nero” di Mirella Bentivoglio, perché inciterebbe all’odio. Composta da un collage di ritagli di giornale, dedicati all’uccisione di un giovane afro-americano da parte di un poliziotto, avvenuta nel 1971, tema quanto mai attuale, in realtà è un manifesto contro il razzismo. Non potremo vederla per un po’, ma che importa, in fondo a deciderlo è stato solo uno sciocco algoritmo... La violenza è tra noi, non viene dai “pazzi” di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 25 settembre 2021 Un uomo che faceva da addetto di pulizie nel quartiere in cui viveva a Napoli, ha provocato la morte di un bambino in una delle case in cui lavorava. Pare (secondo le sue dichiarazioni rilasciate agli investigatori) che avendolo tenuto in braccio sul balcone della casa, l’ha lasciato poi cadere. Perché? Cosa ha lasciato cadere? Il bambino, se stesso, la vita, un oggetto che lo inquietava? È stata una caduta o un volo improbabile? Il gesto è stato dettato da odio, da amore folle, da angoscia, da una drammatica perdita di senso diventata distacco totale dalla realtà? Qualsiasi sia la spiegazione che l’omicida, sofferente di “disturbi psichiatrici”, darà, non lo sapremo mai davvero. Il gesto compiendosi ha cancellato la sua significazione. È possibile che con il tempo l’uomo possa riannodare in qualche modo il filo spezzato della sua esperienza che ha causato il suo gesto, ma una spiegazione che possa personalizzare la morte di un bambino affacciato sulla vita con fiducia non la si avrà. Il bambino ucciso è caduto nello stesso modo in cui è caduto il senso dell’esistenza nella psiche dell’uccisore in una fase decisiva della sua lontana prima infanzia. In entrambi i casi la catastrofe è accaduta in assenza del soggetto che l’ha solo subita, senza poter esperire il fatto che accadeva. Nello scorso giugno a Ardea (Roma), un uomo che aveva avuto un TSO e viveva da un anno chiuso in casa, ha ucciso, usando la pistola del padre morto, due bambini e un anziano. Sull’onda emotiva creata dal tragico atto, il 30 luglio è diventata legge una disposizione che consente al sindaco di comunicare al prefetto i nomi dei sottoposti a TSO a causa di patologie in contrasto con l’idoneità psichica per il porto d’armi. A parte il fatto che l’arma usata dall’omicida di Ardea non era registrata a nome suo, la norma è superflua perché l’idoneità è stabilita da una commissione di psichiatri. Sarebbe più logico che il rinnovo dell’idoneità avvenisse a intervalli più ravvicinati (attualmente l’intervallo è di 5 anni) e la sua concessione diventasse più difficile, obbedisse a criteri severi. La disposizione è discriminatoria, si fonda sul pregiudizio che chi patisce una sofferenza psichica grave sia molto più incline degli altri a compiere omicidi se in possesso di armi. Non esiste nessuna correlazione basata su dati reali che testimonia a favore di questa tesi, al contrario la vita reale ci dice che uccidono tipicamente persone implicate in contesti sociali violenti o soggetti che avendo compresso violentemente il loro spazio psichico (per non provare dolore e restare coesi) vivono conformati a tutti i luoghi comuni della “normalità”, finché non esplodono catastroficamente. Tra i detentori di armi per motivi professionali (poliziotti, guardie giurate, militari) ci sono casi allarmanti di individui che apparentemente “al di sopra di ogni sospetto”, sono in realtà mine vaganti. Chiediamo ai “pazzi” (le persone che mostrano al mondo la carne nuda della loro soggettività sanguinante) di farsi carico della violenza insensata che abita il mondo, perché non vogliamo pensare al modo irragionevole di vivere le nostre relazioni, il nostro distanziarci affettivamente e, al tempo stesso, pestarci continuamente i piedi perché non ci vediamo, riconosciamo tra di noi. I “pazzi” possono uccidere quando cadono nell’abisso della loro passione lacerata, il che capita di rado checché ne pensiamo noi, gli automi “normotici” uccidono, sempre più frequentemente, perché vuoti di passione (commettono la grande maggioranza dei femminicidi e le stragi di ogni stampo). Dove possiamo collocare l’attacco del drone americano che, vendicando l’attacco terroristico a Kabul, ha ucciso degli innocenti? Che motivazione, significato possiamo attribuire alle uccisioni di massa come “danno collaterale” (incluso lo sterminio dei migranti), diventate sempre di più ammissibili in tempo di “pace”? Grazie ai giovani anche la politica può cambiare clima di Gianni Silvestrini Il Manifesto, 25 settembre 2021 I giovani sono tornati a riempire piazze e strade in tutto il mondo dopo la lunga parentesi della pandemia e la loro pressione è destinata ad aumentare in assenza di politiche incisive. Come è probabile che si moltiplichino i risultati. Ursula Von der Leyen ha dichiarato che una delle motivazioni che l’hanno convinta ad alzare al 55% l’obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti europee al 2030 è stata la forte pressione delle mobilitazioni giovanili. E quest’anno la Corte costituzionale tedesca ha bocciato le politiche del governo, dando ragione ad alcune associazioni ecologiste, tra cui i Fridays for Future. La motivazione data è che altrimenti si sarebbe rischiato di “compromettere la libertà” delle generazioni future in quanto l’onere maggiore nella riduzione delle emissioni era spostato a dopo il 2030. La risposta della Merkel è stata rapidissima con l’adeguamento delle politiche climatiche. Così il taglio delle emissioni al 2030 è stato alzato dal 55% al 65% e il raggiungimento della neutralità climatica è stato anticipato al 2045, cinque anni prima di quanto già stabilito. Le mobilitazioni dei giovani di ieri sottolineano l’importanza di affrontare la crisi ambientale con la stessa determinazione con cui si sta gestendo l’impatto del Covid-19. È però difficile riscontrare nel mondo politico italiano la stessa consapevolezza dei rischi e la stessa fermezza nelle politiche climatiche. Anzi, le posizioni dei governi sono state storicamente “difensive”, a volte accodandosi alle posizioni più retrograde dei paesi dell’Est nella definizione delle scelte climatiche. Da questo punto di vista è apprezzabile l’affermazione di Draghi nel discorso di ieri alle Nazioni Unite che la transizione ambientale ha dei costi significativi ma può essere anche un motore di crescita economica. Un messaggio diverso rispetto al rischio di “lacrime e sangue” paventato dal ministro della transizione ecologica Cingolani e rilanciato prontamente da diversi programmi televisivi. Prendiamo ad esempio il rischio di un forte aumento delle bollette, inizialmente addebitato anche alla transizione energetica. In realtà sia il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, che in Italia Enel e Terna hanno sottolineato che se si fosse accelerata l’installazione delle fonti rinnovabili il peso del gas utilizzato nella generazione elettrica sarebbe stato inferiore. In Italia, in particolare, da otto anni non si vede crescere la quota di elettricità verde sia per l’incredibile durata dei tempi autorizzativi che per la timidezza dei governi. È bene ricordare che il crollo del prezzo del fotovoltaico e dell’eolico consente oggi di immaginare uno scenario completamente diverso rispetto al passato, prefigurando una fortissima crescita delle rinnovabili con incentivi minimi, ma con opportuni adeguamenti normativi. Ad esempio, si potrebbe incoraggiare la partecipazione delle rinnovabili ai servizi di rete aumentandone così la programmabilità della produzione e riducendo il costo delle bollette. Ovviamente andrà superato il proliferare di opposizioni locali spesso pretestuose, come l’azione sistematica di blocco delle Soprintendenze, entrambe sempre meno compatibili con l’emergenza climatica che avanza. Gli scienzati ricordano che in questo decennio si giocherà la possibilità di evitare esiti catastrofici. Ma, focalizzando l’attenzione sull’incisività e sull’urgenza delle politiche da avviare, questo potrà essere un decennio di straordinarie opportunità in tutti i settori, dalla generazione elettrica alla mobilità, dalla riqualificazione urbana alle riconversioni produttive, in presenza di lucidità politica. E per evitare la vaghezza di impegni spesso vista in passato, sarà indispensabile definire piani concreti con bilanci annuali e dettagliati delle emissioni climalteranti. Come è indubbiamente necessario un coinvolgimento attivo del mondo produttivo, degli enti locali, delle forze sociali ed ambientaliste e del mondo giovanile. *Direttore scientifico Kyoto Club Migranti. Il Tar: la società civile può accedere ai Centri di trattenimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2021 Con la sentenza 24 agosto 2021, n. 2473, la Terza Sezione del Tar Palermo conferma il proprio orientamento sull’accessibilità della società civile ai luoghi di trattenimento dei migranti, accogliendo il ricorso avverso il diniego del ministro dell’Interno e della Prefettura di Agrigento alla richiesta di accesso di una propria delegazione all’hotspot di Lampedusa. Ne dà notizia l’Asgi stessa, evidenziando che il Tar, sulla base del proprio precedente e dopo due pronunce cautelari favorevoli, ha riaffermato la ratio delle previsioni normative in materia, precisando che, in particolare, l’art. 7, commi 2 e 3 del D. lgs. n. 142/ 2015, mira a consentire l’accesso degli enti di tutela alle strutture in cui il richiedente può essere trattenuto, tra le quali rientrano senza dubbio i centri di cui all’art. 10 ter del D. lgs. n. 286/ 1998, cioè gli hotspot (come, peraltro, espressamente previsto dall’art. 6, comma 3 bis del D. lgs. n. 142/ 2015). Si tratta, secondo l’Asgi, di una pronuncia particolarmente importante, non solo perché consolida un orientamento giurisprudenziale e afferma, indiscutibilmente, la qualifica dell’associazione quale ente esponenziale di tutela dei richiedenti e titolari di protezione internazionale, ma soprattutto perché, attraverso un’accurata disamina della normativa europea e nazionale, definisce con chiarezza l’importanza sia del contatto tra cittadini stranieri trattenuti e tali enti, sia della trasparenza dell’agire amministrativo. Dunque, non è legittimo che i centri di trattenimento (non soltanto i centri di permanenza per il rimpatrio - Cpr, ma anche altri luoghi destinati materialmente alla detenzione amministrativa, come, nel caso di specie, gli hotspot) siano luoghi impermeabili al mondo esterno. Né tantomeno è ammissibile che l’accesso sia limitato a organismi istituzionali (Unncr, Oimeaso, nonché il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale) o ad associazioni con cui l’amministrazione abbia stipulato specifici accordi, sulla base di disposizioni di carattere amministrativo (si vedano, le Procedure Operative Standard - cd. Sop- redatte dal ministero dell’Interno - Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione e Dipartimento della Pubblica Sicurezza). È, prima di tutto, lo status di ente di tutela che legittima l’accesso, non essendo chiamata l’amministrazione a indagare sugli specifici motivi dell’accesso, né potendo scegliere i propri esclusivi interlocutori. Su quest’ultimo punto, il Tar accoglie pienamente le difese di Asgi, affermando che “limitare il diritto di accesso alle sole organizzazioni internazionali, ovvero a quelle con cui il ministero abbia stipulato specifici accordi, integrerebbe un’ingiustificata elusione del principio di trasparenza dell’azione amministrativa condotta all’interno dei luoghi di trattenimento dei migranti”. Tale declinazione del principio di accessibilità (come affermato principalmente dall’art. 7 del D. lgs. n. 142/ 2015) non può essere recessiva rispetto a motivazioni generiche (apparenti, come definite dal Tar) di ordine pubblico o sicurezza (oggi anche sanitaria), che, al più, possono differire l’accesso ai centri di trattenimento (e agli hotspot), ma non escluderlo in assoluto. È sempre compito dell’amministrazione contemperare eventuali ragioni ostative all’accesso con il diritto delle persone trattenute di mettersi in contatto con gli enti di tutela. Ed è per tale motivo che - sempre secondo Asgi - la sentenza pone anche un particolare accento sul procedimento, affermando ancora una volta l’importanza della comunicazione di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/ 1990 (il preavviso di rigetto), attraverso cui al privato è consentita la partecipazione e la possibilità di sostenere le ragioni della propria richiesta. Quelle che parrebbero mere procedure rivestono, quindi, un’importanza sostanziale perché attraverso le stesse trovano espressione e completezza i principi di buon andamento della pubblica amministrazione e di trasparenza dell’agire amministrativo. Questo soprattutto laddove l’azione amministrativa incida sulla libertà personale e sui diritti fondamentali della persona. L’Asgi sottolinea che l’accesso ai luoghi di trattenimento da parte della società civile assume, dunque, un ruolo decisivo per coltivare il dibattito sul tema della detenzione amministrativa spesso trascurato o comunque liquidato mediaticamente come “necessario” al fine di gestire i flussi migratori. “L’obiettivo - conclude l’Asgi -, cui anche questa sentenza conferisce legittimità e importanza, è ancora una volta contrastare le prassi di isolamento dei cittadini stranieri e la volontà politica di rendere questi luoghi invisibili”. Migranti. Gli hotspot regolati solo dalle Sop: “procedure operative standard” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2021 Allo stato attuale gli hotspot hanno un’incerta disciplina giuridica essendo regolati, nello specifico, soltanto da un documento, le “procedure operative standard” (Sop), pubblicato dal ministero dell’Interno, finalizzato a illustrare le modalità di gestione delle procedure applicabili in questi luoghi. Le linee guida operative prevedono che “… la persona può uscire dall’hotspot solo dopo essere stata foto- segnalata concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono state completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia”. La circolare del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione prot. n. 14106 del 6 ottobre 2015 - necessariamente rispettosa del dettato costituzionale- indica un arco temporale di 24/ 48 ore per lo svolgimento delle procedure presso gli hotspot. Il Decreto legge n. 113 del 2018 (articolo 3) ha introdotto la possibilità di disporre il trattenimento dei richiedenti asilo in appositi locali degli hotspot per il tempo strettamente necessario, e comunque per un periodo massimo di 30 giorni, per la determinazione o la verifica dell’identità o della cittadinanza. Al contempo il medesimo decreto ha disposto l’inserimento (entro l’articolo 7, comma 5, lettera e) del decreto- legge n. 146 del 2013) delle strutture degli appositi punti di crisi - individuati dall’articolo 10- ter, comma 1, del Testo unico sull’immigrazione quali centri di prima accoglienza - quali luogo in cui il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale possa condurre la verifica del rispetto degli adempimenti connessi a diritti dello straniero. Secondo i dati resi noti nella Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza di stranieri nel territorio nazionale, riferita all’anno 2019 trasmessa a fine dicembre 2020 dal ministero dell’Interno al Parlamento (Doc. LI, n. 3), risultano attivi quattro hotspot ubicati a Lampedusa, Pozzallo, Messina e Taranto. Nonostante la configurazione giuridica, ad avviso della Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza istituita alla Camera nella XVII legislatura, che ha approvato una Relazione sul sistema di identificazione e di prima accoglienza nell’ambito dei centri hotspot, l’applicazione presenta numerose criticità, a partire dalla insufficiente capacità di accoglienza dei centri rispetto al numero di persone che varcano illegalmente le frontiere nazionali. Ricordiamo che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, in seguito alle criticità e violazioni segnalate da Asgi, A Buon Diritto Onlus e Cild, ha deciso di sottoporre l’Italia ulteriormente ad esame nel mese di dicembre 2021. Perché? Nel 2016, la Cedu aveva condannato l’Italia nel caso Khlaifia c. Italia per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola a Lampedusa e a bordo delle navi Vincent e Audacia e per l’assenza di mezzi di ricorso effettivo contro tale trattenimento e le sue condizioni. Lo Stato italiano, dal 2016 ad oggi, di fatto non ha ancora introdotto disposizioni volte a colmare i vuoti legislativi continuando ad implementare prassi illegittime funzionali a politiche di contenimento e selezione dei flussi migratori che comportano una gravissima violazione dei diritti dei cittadini stranieri in ingresso sul territorio in una condizione di sostanziale invisibilità. La politica dello struzzo. L’Ue e il caso Puigdemont di Andrea Bonanni La Repubblica, 25 settembre 2021 Il dramma di Carles Puigdemont che improvvisamente si è rovesciato sulla giustizia italiana nasce da un equivoco di fondo: la pretesa della destra spagnola, allora al governo, di risolvere per via giudiziaria una questione eminentemente politica come fu il referendum per l’indipendenza della Catalogna nell’ottobre del 2017. Quel referendum era illegale, è vero. Ma risolvere la questione incarcerando per “ribellione” e “sedizione” i dirigenti politici liberamente eletti da un’intera regione è stato uno strappo alla logica democratica che ha fatto male in primo luogo alla Spagna e poi all’Europa intera. Da quel momento l’equivoco giudiziario è rimbalzato senza più controllo in Belgio, in Germania, al Parlamento europeo, alla Corte di Giustizia della Ue e infine è piombato sulle spalle dei giudici sardi. Che hanno cercato, come gli altri magistrati non spagnoli, di risolvere in modo salomonico una questione su cui, in primo luogo, non avrebbero dovuto essere chiamati a giudicare. Naturalmente, come succede quando il diritto viene chiamato a dirimere un problema non solo giuridico, la vicenda di Puigdemont ha allineato una serie di cavilli e di espedienti che non fanno onore alla Giustizia, e che adesso si riversano sulla Corte italiana che dovrà decidere sull’estradizione dell’eurodeputato catalano. Il primo a cadere nella trappola è stato il Parlamento europeo, cui è stato chiesto di votare se levare l’immunità all’ex presidente della Catalogna diventato nel frattempo eurodeputato. Il Ppe, pressato dalla sua forte componente spagnola, ha fatto valere il suo ruolo di cardine della maggioranza che sostiene la Commissione europea per imporre la revoca dell’immunità. Ma per salvare la faccia, se non l’anima, invece di entrare nel merito delle accuse il Parlamento si è nascosto dietro il cavillo che i reati contestati a Puigdemont risalivano a prima della sua elezione ad eurodeputato. Come se quella elezione da parte dei cittadini catalani non fosse stata la logica continuazione politica del referendum sull’indipendenza indetto dall’allora presidente della Comunidad. Alla commedia degli equivoci si è poi aggiunta la magistratura spagnola, che ha dichiarato non esecutivo il mandato di arresto europeo che aveva emesso contro Puigdemont proprio per convincere il Tribunale della Ue a non revocare la levata dell’immunità. E i giudici di Lussemburgo hanno perfezionato ulteriormente il cavillo confermando la decisione del Parlamento di levata dell’immunità perché, a loro dire, “non vi è motivo di ritenere che le autorità giudiziarie di un altro Stato membro possano eseguire i mandati d’arresto europei emessi nei confronti dei deputati e consegnarli alle autorità spagnole”. Ancora una volta, dunque, dopo il governo spagnolo del conservatore Mariano Rajoy, dopo il Parlamento europeo, anche il supremo Tribunale della Ue si è sottratto allo scomodo dovere di entrare nel merito della questione: se cioè il referendum sull’indipendenza convocato da Puigdemont fosse un crimine o una legittima manifestazione della volontà popolare, ancorché non contemplata dalla Costituzione spagnola. Naturalmente è illusorio pensare che i magistrati italiani che dovranno decidere sulla richiesta di estradizione possano entrare nel merito di una questione politica sulla quale non hanno né gli strumenti né il mandato per giudicare. Ma è indubbio che ora l’Italia e i suoi giudici si trovano a dover risolvere una grana che l’Europa non ha saputo o voluto affrontare. E che lo stesso governo spagnolo del socialista Pedro Sanchez sta finalmente cercando di regolare sull’unico piano possibile, che è il piano della politica e del dialogo. Si può star certi che oggi Sanchez, che ha concesso l’indulto agli altri dirigenti catalani dopo anni di prigione, preferirebbe di gran lunga evitare un processo in Spagna e un nuovo scontro con la destra del Paese che vuole la condanna dell’esule indipendentista. Tuttavia né le autorità italiane, né lo stesso Sanchez, possono ignorare la legalità formale di un procedimento. E dunque, paradossalmente, la speranza di tutti è che i giudici italiani escogitino un ennesimo cavillo per consentire all’eurodeputato di tornare al suo esilio bruxellese e alle sue funzioni di legislatore. Ma il caso Puigdemont, con il suo sorprendente e penoso risvolto italiano, dovrebbe insegnare all’Europa che la politica dello struzzo alla fine si rivela sempre controproducente. Tra i sovranisti alla Orbán, che pretendono di restare in Europa e spillarne i soldi senza rispettarne le regole, e i sovranisti alla Puigdemont, che vorrebbero emanciparsi dalla Spagna ma restare nella Ue che considerano la loro patria, la differenza è evidente. Occorre che l’Europa cominci a rifletterci. Puigdemont è libero, ma resta il nodo dell’estradizione di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 25 settembre 2021 L’ex presidente catalano Carles Puigdemont è di nuovo libero. La notizia del suo arresto all’aeroporto di Alghero giovedì in tarda serata era caduta come una bomba in una Spagna impegnata a seguire con apprensione l’eruzione vulcanica sull’isola de La Palma. Passata una notte in carcere, ieri nel primo pomeriggio Puigdemont è stato ascoltato dalla giudice della Corte d’Appello di Sassari, che lo ha scarcerato senza misure cautelari. Ma la questione è tutt’altro che chiusa: il leader politico indipendentista dovrà ripresentarsi davanti ai magistrati sardi il 4 ottobre. “Sapevamo che c’erano i carabinieri all’aeroporto di Alghero, quindi è una cosa che potevamo immaginare. Ma la decisione del Tribunale Ue è molto chiara”, ha commentato Carles Puigdemont. Resta infatti da dirimere una questione importante: il leader politico catalano è estradabile o no? Non è una questione semplice, e per capire il perché bisogna fare un passo indietro. La giustizia spagnola, o più specificamente, l’Audiencia Nacional - che è l’organo giudiziario che in Spagna è preposto al giudizio dei reati più gravi, come il terrorismo, o, appunto, la sedizione - cerca di arrestare l’ex president dal 2017, anno in cui fuggì da Barcellona a poche ore dal dissolvimento dei poteri della Catalogna da parte del governo spagnolo. Dopo la celebrazione del referendum dell’1 ottobre contro cui l’allora governo Rajoy aveva mosso mari e monti, e dopo la proclamazione un po’ fittizia da parte del parlamento catalano dell’indipendenza, l’esecutivo spagnolo aveva reagito facendo scattare un articolo della Costituzione mai utilizzato prima che sospendeva tutti i poteri regionali e dissolveva il governo presieduto da Puigdemont. Ma mentre il suo numero due, e ancora segretario generale del partito di Esquerra republicana, Oriol Junqueras, si consegnava alla polizia, lui e un gruppo di altri ex ministri catalani fuggiva in Belgio. Nel frattempo, i politici indipendentisti rimasti in Spagna hanno dovuto affrontare un processo - molto discusso nelle forme e nelle decisioni prese - e durissime condanne per reati come la sedizione, inesistente nella maggior parte dei codici penali europei (come quello italiano). L’Audiencia Nacional intanto emette ordini di cattura europei per Puigdemont e gli altri politici (“in esilio” o “in fuga”, a seconda dei punti di vista), ma questi ordini vengono messi in discussione da tutti i paesi che muovono i primi passi per arrestarli: i magistrati di Germania, Regno Unito e Belgio si rifiutano di eseguirli o perché il reato non esiste nel loro paese, o perché non è proporzionato alla pena o perché mettono in discussione la stessa giurisprudenza dell’Audiencia nacional. Fatto sta che tutti i politici catalani perseguitati dalla giustizia spagnola all’estero rimangono liberi, al massimo passando qualche notte in carcere in attesa delle decisioni dei magistrati (a Puigdemont è successo in Germania per 12 notti). Nel frattempo l’ex leader catalano e altri due ex suoi ministri vengono eletti nel 2019 eurodeputati: anche qui la giustizia spagnola fa i salti mortali per impedire loro di prendere possesso del loro seggio, ma ci riesce solo nel caso di Oriol Junqueras, perché incarcerato, calpestando il suo diritto all’elettorato passivo (l’indulto del governo Sánchez per lui come per gli altri prigionieri politici è arrivato mesi dopo). Ma Puigdemont, Toni Comín e Clara Ponsatí sono invece europarlamentari a tutti gli effetti, con immunità compresa. Fino al 9 marzo di quest’anno: in una controversa votazione, l’Eurocamera decide di dare ai giudici spagnoli l’autorizzazione a procedere. Immediatamente i tre europarlamentari fanno ricorso al Tribunale generale della Ue, il quale prima restituisce loro l’immunità, e poi invece dà ragione al Parlamento, ma specifica che, facendo sua la tesi dell’Avvocatura di stato spagnola (organo controllato dal governo, al contrario dell’Audiencia nacional), sostiene che i tre non corrono il pericolo di essere arrestati perché gli ordini di cattura europei sono sospesi, in attesa che il Tribunale di giustizia europeo si pronunci (non lo ha ancora fatto) sull’invio di sette questioni pregiudiziali inviate dalla stessa Audiencia nacional per evitare che gli stati possano bloccare ancora gli ordini di cattura. Intanto, invece, l’Audiencia nacional ha fatto sapere ai giudici italiani che le sue richieste sono ancora valide. Insomma, un bel garbuglio giuridico che ora i magistrati italiani dovranno dirimere. Sembra che giovedì, essendo arrivato in aereo ad Alghero, Puigdemont abbia fatto scattare nel sistema Sirene (Supplementary Information Request at the National Entries) l’allarme per il suo ordine di cattura. Ma indipendentemente da come sia accaduto, l’arresto del politico catalano di Junts per Catalunya, che ora è socio minoritario del governo catalano presieduto da Pere Aragonés, di Esquerra, arriva nel momento politicamente migliore. È appena partito il complesso tavolo di trattative fra governo catalano e spagnolo, da cui Junts si è tirato fuori e che cerca di screditare, come fa anche la destra spagnola; in più Sánchez ha appena iniziato le trattative per il bilancio 2021, ed Esquerra è fra i principali soci parlamentari del suo governo. Egitto. Su Zaki torna lo spettro dell’ergastolo di Fabio Giuffrida open.online, 25 settembre 2021 Amnesty: “Confermate anche le accuse più gravi. L’ottimismo dal governo italiano era vuoto”. Amnesty spera che il caso Zaki non finisca come quello di Ahmed Samir Santawy, arrestato un anno dopo Patrick e condannato già a quattro anni. Per terrorismo (e di questo è accusato lo studente dell’università di Bologna) si rischia l’ergastolo. “C’è enorme preoccupazione. Sin dal rinvio a giudizio sospettavamo che le accuse più gravi fossero state solo congelate, ma non annullate. Le dichiarazioni dell’avvocata rendono del tutto vuote quelle parole di grande ottimismo pronunciate all’indomani della prima udienza come se tutto fosse risolto o in via di risoluzione grazie a una presunta attività diplomatica del nostro governo”. Questa la denuncia di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che all’Ansa commenta le accuse che, ancora oggi, vengono rivolte a Patrick George Zaki, lo studente dell’università di Bologna in carcere in Egitto da un oltre un anno e mezzo. Le accuse sono di propaganda sovversiva e terroristica. Il pericolo è che la storia di Zaki possa finire come quella di Ahmed Samir Santawy, arrestato un anno dopo Patrick e condannato già a quattro anni: “Ci auguriamo che non finisca allo stesso modo, con una condanna inappellabile, ma purtroppo dobbiamo essere preparati anche a questo scenario”. Imputato per terrorismo - A lanciare l’allarme, per prima, era stata la legale di Zaki, Hoda Nasrallah, secondo cui le accuse più gravi a carico del suo assistito - quindi propaganda sovversiva e terroristica - non sono mai state archiviate ma, anzi, persistono ancora oggi nel processo in Egitto sulla diffusione di notizie false attraverso un articolo online. “Il rinvio è avvenuto con tutte le accuse e ci sono altri atti che verranno aggiunti in due fotocopie”, ha detto Hoda all’Ansa. Gli altri atti non sono altro che “articoli” mentre “l’articolo online” a cui si fa riferimento è quello sulle persecuzioni dei cristiani d’Egitto. Dovrebbero restare, intanto, le accuse per istigazione alla protesta, “al rovesciamento del regime”, “all’uso della violenza e al crimine terroristico”. Reati che, secondo Amnesty, gli fanno rischiare 25 anni di carcere o addirittura l’ergastolo, stando a un’altra fonte legale egiziana. Se si limitassero solo alla prima accusa, allora Zaki rischierebbe cinque anni di galera che si ridurrebbero a tre anni e cinque mesi (visto che una parte l’ha già scontata). La prossima udienza è fissata per martedì 28 settembre, sempre a Mansura. Afghanistan. “Riprenderemo amputazioni delle mani ed esecuzioni, servono alla sicurezza” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 25 settembre 2021 Nooruddin Turabi, il nuovo responsabile del sistema carcerario afghano, ha detto che la pratica di mutilare i condannati, o di condannarli a morte, riprenderà: “Ma forse non in pubblico”. In forse la ripresa della lapidazione per le donne adultere. Ci risiamo. Il nuovo regime talebano sta seriamente considerando di tornare alle forme estreme di punizione del passato come il taglio delle mani per i ladri e le esecuzioni capitali per i reati più gravi. Ancora non parlano di lapidazione per le donne adultere, però il tema è nell’aria. A dichiararlo è un pezzo grosso del vecchio Emirato che dominò a Kabul tra il 1996 e il 2001. Si tratta del mullah Nooruddin Turabi, ex ministro della Giustizia e del famigerato Ministero per la Protezione della Virtù e la Persecuzione del Vizio (appena riaperto al posto di quello per i Diritti delle Donne) e attualmente responsabile del sistema carcerario. “Le amputazioni punitive sono necessarie per garantire la nostra sicurezza interna”, ribadisce in alcune interviste ampiamente riprese dalla stampa internazionale e dai media afghani. A suo dire, tali forme punitive potrebbero non svolgersi in pubblico, come invece avveniva a scopo “deterrente” due decenni fa. Gli abitanti di Kabul hanno ancora la memoria delle lapidazioni di fronte alla folla nello stadio municipale e nel piazzale della grande moschea Ein Gah. Ma praticamente ogni città e villaggio del Paese aveva i luoghi preposti a quei macabri spettacoli, che spesso avvenivano dopo le funzioni nelle moschee ogni venerdì a metà giornata. Il Mullah Turabi ne era un convinto sostenitore. Lui stesso aveva perso un occhio e una gamba combattendo da giovane contro l’esercito sovietico. Negli ultimi giorni si è espresso a favore dell’umiliazione pubblica dei ladruncoli di strada. Le pattuglie talebane hanno la facoltà di picchiarli, tingere i loro volti di nero e mostrarli alla gente nei cassoni dei loro gipponi con le scarpe infilate in bocca. Turabi ribadisce adesso che sono scelte che vengono fatte esclusivamente dai dirigenti talebani. “Nessun altro ha il diritto di dettare quali saranno le nostre leggi”, afferma, rifiutando le proteste delle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. D’altro canto, è anche evidente che la dirigenza talebana resta divisa tra conservatori radicali e invece elementi più moderati e preoccupati di essere riconosciuti dalla comunità internazionale. Resta forte la speranza di far sentire le proprie ragioni il prima possibile di fronte all’assemblea dell’Onu. Nelle ultime ore il mullah Mohammad Yaqoob, neoministro della Difesa e figlio del leader fondatore del movimento Mullah Omar, ha condannato duramente quelle che ha definito le “esecuzioni e le vendette per motivi personali”. A suo dire tutti i responsabili e funzionari dei vecchi governi che hanno collaborato con la coalizione internazionale a guida Usa sono stati amnistiati. E i casi di violenze e abusi nei loro confronti vanno investigati con eventuali punizioni per i colpevoli. Afghanistan. Contro l’ideologia talebana, l’impegno non si spenga di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 25 settembre 2021 L’oppressione degli studenti coranici ha una sua specificità insormontabile. Solo individuandola è possibile combattere insieme alle donne afghane. Senza far spegnere i riflettori. Una manifestazione nazionale a favore delle afghane non solo è necessaria per dare voce alle donne che vengono ridotte al silenzio e allontanate dalla vita pubblica da un regime totalitario che non ha eguali al mondo, ma è dovuta, viste le responsabilità dell’Italia nella ventennale occupazione militare dell’Afghanistan e il fallimento dell’impegno alla ricostruzione del sistema giudiziario. I diritti delle donne (anche delle afghane) sono diritti universali e quindi non possono essere scissi dalle rivendicazioni che le donne portano avanti in tutto il mondo. Tuttavia non individuare le radici ideologiche dell’oppressione feroce che i taleban fondano su un integralismo religioso oscurantista non fa emergere la specificità afghana. L’appello per la manifestazione “La voce delle donne per prendersi cura del mondo” è sicuramente molto ambizioso e anche suggestivo, ma le voci che ci arrivano dall’Afghanistan in questi giorni tragici ci parlano di una schiavizzazione delle donne che difficilmente possiamo individuare nell’immaginario suggerito dalla definizione dell’Afghanistan, contenuta nell’appello alla manifestazione, come “il tragico specchio del cinismo di tutti i poteri, dei torbidi inganni del paternalismo della cura”. Nei giorni scorsi una rappresentante di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan) è stata ascoltata dal Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Camera dei deputati: le sue parole pesano come macigni, la richiesta di aiuto è concreta - cibo, medicinali - e rivoluzionaria - libertà, uguaglianza, istruzione e lavoro anche per le donne… “Chiedete ai vostri governi di non riconoscere il regime dei taleban”. La presenza di donne nel governo, sostiene Rawa, non cambierebbe la natura del regime, le sostenitrici dei taleban le abbiamo viste in piazza coperte da diversi strati di veli neri che ne annullano non solo la visibilità ma l’esistenza stessa. Richiamare questi bisogni “primari” non è per disfattismo o per ridurre l’importanza di una mobilitazione, che sicuramente avrà successo e l’ha già avuto nelle numerosissime adesioni sollecitate anche dalle notizie e dalle immagini che ci giungono dall’Afghanistan, ma per esplicitare un impegno che deve seguire una manifestazione. Occorre innanzitutto evitare che si spengano i riflettori, come è accaduto in passato, su una tragedia che gli afghani e le afghane hanno già vissuto, ma che non vogliono rivivere. “Le nuove generazioni non vogliono fare la fine dei loro genitori, non permetteremo ai fondamentalisti di rimanere al potere”, ha detto la donna di Rawa. Un’ipersensibilità verso la questione afghana mi deriva forse dal fatto di aver frequentato quel paese anche al tempo del primo emirato, di essere stata costretta a portare il burqa che faceva vedere il mondo a quadretti e a inciampare sulle strade dissestate, di aver visto frustare le donne, a volte anziane, da parte di energumeni esaltati. Sono gli stessi di allora quelli tornati al potere, forse non vieteranno le fotografie perché con i cellulari sarebbe quasi impossibile, non costringeranno le donne a mettere il burqa ma solo il niqab che ha una fessura (senza retina) all’altezza degli occhi, le donne saranno costrette in casa e potranno uscire solo se accompagnate da un guardiano (maschio di famiglia), per “problemi di sicurezza” naturalmente. Questo è sempre stato il mantra dei taleban fin dagli anni 90. Quindi, al di là di queste specificità, se vogliamo parlare di cura chi meglio di queste donne recluse dentro le mura domestiche potrà occuparsi della famiglia e solo della famiglia! Un ruolo sicuramente basato sulla disuguaglianza, l’ingiustizia, lo sfruttamento di essere umani, citati nell’appello per la manifestazione di sabato. Lo sfruttamento della terra (intesa in questo caso proprio come terreno da coltivare) è completamente in mano ai coltivatori di oppio, di cui l’Afghanistan gode il primato nel mondo. Certo, se così non fosse gli afghani non dipenderebbero completamente dalle importazioni per gli alimenti e non rischierebbero la fame nel momento in cui le frontiere sono chiuse. Anche in questo l’intervento occidentale ha fallito, l’Occidente non era interessato allo sradicamento della coltivazione dell’oppio ma ai gasdotti. Partecipare a una manifestazione arricchendo l’appello di contenuti non può che ampliare la platea e renderla più partecipe.