Giustizia, con 177 sì il Senato approva la riforma penale: ora è legge di Liana Milella La Repubblica, 24 settembre 2021 Il via libera alla riforma è tra le condizioni poste dall’Ue per erogare i fondi del Recovery Plan. Si chiude, al Senato, la settimana della giustizia. In soli tre giorni doppio via libera per le due riforme portate in aula dalla Guardasigilli Marta Cartabia, che rappresentano la scommessa con l’Europa per incassare i fondi del Pnrr, con la garanzia che i processi civili ridurranno i tempi del 40% e quelli penali del 25 per cento. Martedì sera si è chiusa la partita del processo civile che passa subito alla Camera. Voto definitivo invece oggi per il processo penale che approda alla fase dei decreti attuativi, anche se una parte delle nuove norme, come la regola della improcedibilità, entra in vigore subito, ma riguarderà solo i reati commessi dopo il primo gennaio 2020. Cosa si può leggere andamento del voto? Dissensi rispetto alle due riforme? Vediamo i numeri. Oggi la riforma penale è passata definitivamente con 177 sì e 24 no, pochi minuti dopo l’apertura della seduta mattutina. Ieri le due fiducie sulle due parti della riforma sono passate, rispettivamente, con 236 sì e 28 no la prima, e 200 sì e 27 no la seconda. Martedì sera la riforma civile aveva ottenuto 201 sì e 30 voti contrari. Tra i no ci sono sempre i senatori di Fratelli d’Italia e di Alternativa c’è, costola dissidente di M5S. Ma quanto pesano le assenze? Sono un segno di protesta contro la riforma? Senatori esperti delle dinamiche del Senato parlano più semplicemente di assenze dovute alla campagna elettorale in atto per le prossime amministrative. Soprattutto tenendo conto che, nei lavori in commissione, non si sono registrate polemiche, com’era avvenuto alla Camera, soprattutto sulle nuove regole del processo penale. Anche se la ministra della Giustizia Cartabia, quando parla della riforma penale, insiste soprattutto sulle nuove regole che per ridurre il ricorso al carcere a fronte di misure alternative, nei fatti le norme che hanno suscitato maggiore dibattito nella maggioranza per via dell’opposizione di M5S alla camera, tra i giuristi e tra i magistrati sono quelle dell’improcedibilità, lo strumento che obbligherà i giudici a chiudere i processi entro un limite di tempo, pena la loro stessa estinzione. Come funzionerà? Nella fase delle indagini preliminari e nel corso del processo di primo grado vige sempre la prescrizione, che cambia per ogni reato (corrisponde, in base alla legge Cirielli, al massimo della pena più un quarto). A quel punto la prescrizione si ferma definitivamente. In Appello e in Cassazione vale la regola dell’improcedibilità, cioè il processo, dal 2025 in poi, non potrà durare più di due anni in Appello, con una possibile proroga motivata di un anno, e un anno in Cassazione, con proroga di sei mesi. Per i reati per cui è previsto l’ergastolo il processo non si ferma mai. Per i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale, traffico di droga gestito da organizzazioni mafiose, invece, non c’è un limite alle proroghe che però dovranno essere sempre chieste e motivate dal giudice. Proroghe, ma di entità minore, anche per i reati commessi con l’aggravante della mafia, ad esempio un’estorsione. Ma, fino al 2024, sono previste deroghe per consentire alle Corti di Appello di assorbire progressivamente i processi arretrati. Quindi, in Appello un processo potrà durare 3 anni, più un altro anno di proroga, quindi 4 anni, e 2 anni in tutto in Cassazione. Per i reati gravi (mafia, terrorismo, violenza sessuale, traffico di droga gestito dalle mafie) proroghe illimitate ma sempre motivate. Per i reati con l’aggravante mafiosa possibili 3 proroghe fino al 2024. La nuova giustizia, così cambia il processo penale: il Senato approva la riforma Cartabia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 settembre 2021 Era uno degli impegni presi dall’Italia nel Pnrr. In dirittura d’arrivo anche la revisione del processo civile. La ministra soddisfatta: “Ringrazio i partiti ora la prossima tappa sarà il Csm”. Con 177 voti favorevoli e solo 23 contrari, anche il Senato ha approvato la riforma del processo penale, uno degli impegni presi dall’Italia nel Pnrr. Innestandosi sul disegno di legge del predecessore Bonafede, la riforma Cartabia l’ha modificato in 26 punti. Dopo la prima approvazione in consiglio dei ministri, la sollevazione dei magistrati e dei 5 Stelle aveva indotto il governo a una mediazione, per edulcorare la parte sulla improcedibilità dei processi dopo la sentenza di primo grado. La riforma è subito applicativa per una parte; per un’altra, delega il governo ad approvare decreti specifici. Anche la riforma del processo civile è in dirittura di arrivo, dopo il primo sì della Camera. Quella del Csm dovrebbe essere discussa in Parlamento entro un paio di mesi. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha “ringraziato tutte le forze parlamentari per la solerzia con cui hanno contribuito al cammino delle riforme”. Improcedibilità, tempi lunghi e più proroghe per i reati gravi - La questione prescrizione-improcedibilità è quella che più ha acceso il dibattito. La riforma Bonafede aveva introdotto lo stop al decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020. Norma confermata, ma a cui si aggiunge la nuova formula della improcedibilità (estinzione) dei processi se durano più di due anni in appello (con un anno di possibile proroga) e più di un anno in Cassazione (con sei mesi di proroga). Dopo la trattativa con i partiti, l’entrata in vigore della riforma è stata diluita ed è stato creato un regime speciale per i reati più gravi. Quindi la riforma va a regime nel 2025. Fino alla fine del 2024, i termini previsti per la improcedibilità dei processi saranno più lunghi. Ovvero per tutti i processi 3 anni in appello e un anno e mezzo in Cassazione, con possibilità di arrivare fino a 4 anni in appello (3+1 di proroga) e fino a 2 anni in Cassazione (un anno e 6 mesi + 6 mesi di proroga). Ogni proroga deve essere motivata dal giudice sulla base della complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto e per numero delle parti. Di norma è prevista solo una proroga. Per alcuni gravi reati (mafia, terrorismo, violenza sessuale, traffico di droga) sono previsti ulteriori proroghe sia in appello che in Cassazione. Quindi nel complesso un processo di appello potrebbe durare fino a sei anni e fino a tre in Cassazione nel periodo transitorio, poi cinque e due anni e mezzo. C’è il rinvio a giudizio se la condanna è probabile - Quanto ai criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, la riforma prevede che le Procure, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, individuino priorità trasparenti e predeterminate, vagliate dal Consiglio superiore della magistratura. Rovesciato il senso dell’udienza preliminare: il pm chiede il rinvio a giudizio solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Inoltre la riforma si propone di limitarne la previsione a reati di particolare gravità e, parallelamente, di estendere le ipotesi di citazione diretta a giudizio. I termini di durata massima delle indagini preliminari sono rimodulati rispetto alla gravità del reato. In caso di stasi del fascicolo, si prevede l’intervento del gip, che per indurre il pm a prendere le sue decisioni. È garanzia per l’indagato di non restare sotto indagine troppo a lungo e garanzia per la vittima di dare un impulso al fascicolo fermo, anche per evitare la prescrizione del reato. In linea con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, si prevede che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. Si estende la querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni. Più facile patteggiare e ottenere sconti di pena - Sul patteggiamento si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni (cosiddetto patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero può estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. L’intenzione è diminuire il carico di processi. Quanto al giudizio abbreviato si prevede, tra l’altro, che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto rispetto allo sconto di un terzo già previsto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Si estende l’ambito di applicabilità della causa di non punibilità denominata “particolare tenuità del fatto”. Si prevede come limite all’applicabilità la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, e si delega il governo ad ampliare conseguentemente, sulla base di evidenze criminologiche, il novero delle ipotesi in cui l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità. Sono esclusi i reati di violenza contro le donne. Si prevede che venga dato rilievo alla condotta susseguente al reato, ad esempio alla riparazione del danno, ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa. Anche la messa alla prova (lavoro di pubblica utilità) viene ampliata ai reati, puniti con pena fino a 6 anni: potrà essere chiesta anche dal pm, oltre che dall’imputato. Serve il consenso libero di vittima e autore del reato - La legge delega il governo a disciplinare in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto di una direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Il percorso di riconciliazione tra vittima e reo, sempre su base volontaria, viene valorizzato nelle diverse fasi del processo e dell’esecuzione della pena. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. La legge prevede che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato sia nel processo penale che in fase esecutiva. Un fallimento del programma non produce effetti negativi per autore e vittima. Si disciplina la formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa; si prevede la formazione e l’accreditamento di mediatori esperti, presso il ministero della Giustizia. La riforma introduce per la prima volta la definizione giuridica di vittima. La delega prevede che venga considerato vittima del reato anche il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona. L’uso improprio che si fa dei processi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 settembre 2021 Quando alla sbarra finiscono nomi altisonanti e/o esponenti di partito, o capita che i processi sfiorino o coinvolgano a qualunque titolo alte cariche istituzionali, bisognerebbe evitare ogni tipo di strumentalizzazione e speculazione. Sulla trattativa Stato-mafia è successo il contrario. La sentenza d’appello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha capovolto quella di primo grado: l’accusa ha perso, le difese hanno vinto. Aveva ragione chi ha sempre sostenuto non tanto che la trattativa non è reato, giacché questo non l’hanno mai affermato nemmeno i pubblici ministeri. Piuttosto ha prevalso l’opinione di chi riteneva che il processo costruito intorno all’ipotesi di una minaccia dei boss alle istituzioni agevolata e rafforzata da carabinieri e politici che avevano avviato o tentato un contatto con Cosa nostra, sia stato un errore. Perché non ha retto al giudizio d’appello. Tuttavia altri giudici nella stessa formazione - due togati e sei popolari - nel 2018 erano giunti alla conclusione opposta: il ricatto mafioso, proseguito con le stragi in continente dopo quelle di Palermo, trovò una sponda nel dialogo con i rappresentanti dello Stato. Ora manca il vaglio della Cassazione, ma i verdetti contrastanti fanno parte della fisiologia del sistema giudiziario, secondo il quale l’ultimo giudizio è quello che conta. Il resto non può diventare di per sé motivo di scandalo. In ogni caso, a parte le considerazioni sugli episodi confermati ma valutati diversamente, la sentenza di ieri insegna una volta di più che i processi servono a stabilire se è stato commesso un reato, ed eventualmente da chi. Non ad altro. Certamente non a riscrivere la storia o a fornire interpretazioni socio-politiche di determinati fenomeni, come aveva ricordato il presidente della Corte d’assise d’appello aprendo il dibattimento. Anche se i fatti da valutare fanno parte della storia di un Paese, come per gli attentati del biennio 1992-1993 che hanno inciso profondamente sull’Italia di fine secolo scorso. Questo comporta che anche quando alla sbarra finiscono nomi altisonanti e/o esponenti di partito, o capita che i processi sfiorino o coinvolgano a qualunque titolo alte cariche istituzionali, bisognerebbe evitare ogni tipo di strumentalizzazione e speculazione, oltre a conclusioni affrettate o interessate. Sulla trattativa Stato-mafia, purtroppo, è successo il contrario. Perché da un’ipotesi investigativa che peraltro riprendeva vecchie indagini archiviate, s’è arrivati a reinterpretare i moventi delle stragi, ad accusare i magistrati di fare politica attraverso inchieste e processi, o i politici di essere collusi con la mafia a prescindere dalle pronunce dei giudici. Che servono ad attribuire eventuali responsabilità penali, ma non esauriscono la ricostruzione di ciò che è avvenuto. Giustizia tortuosa, vite rovinate di Marcello Sorgi La Stampa, 24 settembre 2021 Nell’Italia degli Anni Novanta - secondo le accuse - il premier di sette governi della Prima Repubblica Andreotti era il vero capo della mafia; il ministro siciliano e leader locale della Dc Mannino era il negoziatore di un accordo con i boss che prevedeva l’allentamento del regime di carcere duro (il 41 bis) e numerosi altri benefici per i mafiosi in prigione, in cambio dell’impegno a sospendere le stragi come quelle in cui avevano perso la vita i giudici Falcone (con la moglie), Borsellino e i componenti delle loro scorte; il fondatore e organizzatore di Forza Italia Dell’Utri, palermitano, era l’ambasciatore di Berlusconi e del gruppo di comando del centrodestra nel negoziato, proseguito da una Repubblica all’altra, con i “mammasantissima” Riina e Provenzano, che lo continuavano anche dalle loro celle. Gli ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni, Di Donno, del gruppo specializzato Ros, erano gli uomini di mano, che sapevano come si fanno certe cose cancellando le tracce. A questa pesante ricostruzione (“attentato ai poteri dello Stato”) che aveva contribuito a rovinare la reputazione, già lesa da Tangentopoli, di un Paese e una classe dirigente, non certo senza difetti, ma pure senza le qualità per entrare in una specie di parodia dei film di 007, ha posto fine ieri la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo che ha mandato tutti assolti. Tolti Andreotti, scomparso nel 2013, poco dopo esser stato assolto e in parte prescritto, Mannino, a cui già con rito abbreviato era stato restituito l’onore, precisando che era entrato nel mirino dei killer di Cosa Nostra per il suo impegno antimafia, e Dell’Utri, condannato in altro processo, tutti gli altri imputati hanno potuto finalmente tirare un sospiro di sollievo. Dopo più di venti anni di indagini e oltre dieci nei due gradi di giudizio, (ma resta ancora la Cassazione), le accuse e le condanne contenute in una sentenza di ben 5.200 pagine non hanno retto. Adesso le parole “trattativa Stato-mafia” non dovrebbero più essere ripetute, perché hanno perso di senso. E questo, non perché i carabinieri non fossero andati varie volte a parlare con l’ex-sindaco di Palermo Ciancimino, corleonese e per questo in buoni rapporti con l’organizzazione stragista guidata da Totò Riina “u’curtu” e da Bernardo Provenzano, morti in carcere da ergastolani, ma perché lo facevano per cercare informazioni sui latitanti più pericolosi. E fu grazie a quei colloqui se i due super capimafia furono trovati e arrestati. L’ipotesi che Mori e i suoi collaboratori si muovessero per ordine preciso del capo del governo, o di ministri, o di capi partito, in attuazione dell’accordo inconfessabile tra Stato e mafia, non è stata dimostrata. Perfino il “papello”, un foglietto sul quale i boss avrebbero annotato gli ordini che lo Stato doveva eseguire - a partire, appunto, dalla revisione del 41 bis - si è rivelato un falso, una contraffazione. Viene da dire, meglio così. Una giustizia che è in grado di contraddirsi, e rimediare ai suoi errori, malgrado tutto funziona. Un politico è un politico, non necessariamente uno stinco di santo. E così un ufficiale dei carabinieri, specie se impegnato in missioni riservate. Ma far passare un pezzo di classe dirigente e di apparati dello Stato, per giunta ormai in pensione, come un gruppo di componenti della Commissione di Cosa Nostra, non vuol dire solo rovinargli la vecchiaia. Significa perdere di vista le ragioni vere per le quali il giudizio politico sulle loro responsabilità, ormai storiche, deve sempre cercare di essere severo e approfondito. Senza accontentarsi di scorciatoie poco credibili, come quella della trattativa tra Stato e mafia. Dell’Utri assolto al processo Stato-mafia. Assolti anche i carabinieri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 settembre 2021 Cadono le accuse per gli ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno e anche per Marcello Dell’Utri. Quanto ai boss, prescrizione per Brusca, pena ridotta a Bagarella, condanna confermata per Cinà. “Il fatto non costituisce reato”: la trattativa tra i carabinieri e Cosa nostra avviata tramite l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio fu dunque legittima, e non c’era il dolo né la volontà da parte degli ex ufficiali dell’Arma Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno di innescare o rafforzare il ricatto mafioso alle istituzioni. Cadono l’accusa e le condanne per minaccia a un Corpo dello Stato. Lo ha stabilito la corte d’assise d’appello di Palermo con la sentenza pronunciata ieri pomeriggio, dopo tre giorni di camera di consiglio, ribaltando quella di primo grado che il 20 aprile 2018 aveva giudicato colpevoli gli ex carabinieri. Per Marcello Dell’Utri l’assoluzione è ancora più radicale: lui “non ha commesso il fatto”, cioè non ha veicolato la minaccia al governo guidato da Silvio Berlusconi nel 1994, che fu solo “tentata”. Non arrivò dunque a destinazione. Anche l’ex senatore di Forza Italia nel 2018 era stato condannato, come intermediario del ricatto mafioso. Il verdetto d’appello rovescia quindi completamente quello che tre anni e mezzo fa aveva suscitato tanto clamore, sollevandone a sua volta. In questo caso infatti non escono sconfitti soltanto la Procura e la Procura generale che hanno sostenuto l’accusa nei due gradi di giudizio, ma anche i giudici della corte d’assise che avevano individuato reati e colpevoli. E il clamore - per qualcuno lo scandalo, anche se è così che funziona il sistema giudiziario - è ancora più grande perché questo processo non s’è limitato a mettere alla sbarra un pezzo di politica e di apparati investigativi, lo Stato che giudica se stesso; stavolta c’è stato un conflitto istituzionale arrivato ai massimi livelli, coinvolgendo l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intercettato casualmente nei suoi colloqui con l’ex ministro Nicola Mancino. Uno scontro tra il Quirinale e la Procura di Palermo finito davanti alla Corte costituzionale. Furono i danni collaterali dell’indagine sfociata in un processo in cui l’allora capo dello Stato fu chiamato a testimoniare, e le sue dichiarazioni sul ricatto subito dallo Stato con le bombe del 1992 furono tra gli elementi fondanti delle condanne in primo grado. In appello, per quello che si può capire dal dispositivo, è cambiata la prospettiva con cui sono stati interpretati gli stessi fatti. Tutto ruota, nella sostanza, intorno all’iniziativa dei Ros dei carabinieri spiegata dallo stesso generale Mori nel 1998, al processo per le stragi del 1993, sintetizzando il dialogo con Ciancimino: ““Ma che cos’è questa storia? Ormai c’è un muro contro muro, da una parte Cosa nostra dall’altra lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. La buttai lì convinto che lui dicesse “cosa vuole da me?”, invece disse “ma sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. Allora dissi “Provi”“. Per le difese era la semplice spiegazione di un’attività info-investigativa tutta in salita e comunque lecita; per l’accusa e i primi giudici un’offerta di disponibilità a trattare che rafforzò la convinzione mafiosa che le stragi producevano risultati. Ora i giudici d’appello hanno stabilito che non c’era la volontà né la consapevolezza, e nemmeno l’accettazione del rischio che con quella proposta si poteva agevolare il ricatto dei boss. E questo avevano già affermato i giudici che hanno assolto in tutti i gradi di giudizio l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, accusato dello stesso reato ma uscito prima di scena attraverso il rito abbreviato. Può darsi che quella sentenza definitiva dopo la pronuncia della Cassazione (arrivata a dicembre 2020, a proposito di tempi abbreviati...) abbia influito sul verdetto di ieri. Di certo per la Procura Mannino aveva innescato la trattativa temendo - dopo l’omicidio del collega di partito Salvo Lima il 12 marzo ‘92 - di essere la vittima successiva e rivolgendosi al comandante del Ros per salvarsi la vita. Dunque l’anello iniziale della catena s’era già spezzato. Inoltre secondo il verdetto il ricatto al governo Berlusconi fu solo tentato; perciò al boss Bagarella è stato tolto un anno di pena (da 28 a 27), mentre è stata confermata la condanna del medico mafioso Antonino Cinà, considerato un tramite della trattativa che coinvolse i carabinieri. “Non siamo qui per giudicare la storia - aveva detto aprendo il processo il presidente della corte Angelo Pellino -. Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, ma persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto, se si tratta di reati. Questo è l’impegno della corte”. Le assoluzioni di ieri sono figlie di quell’impegno, e le motivazioni che saranno rese note fra tre mesi spiegheranno come ci si è arrivati. Stato-mafia, ecco perché la sentenza è stata ribaltata di Salvo Palazzolo La Repubblica, 24 settembre 2021 Tutti i passaggi cruciali del dispositivo della corte d’appello di Palermo che ha smontato il processo di primo grado: il dialogo segreto con Ciancimino e il tentativo dei boss per agganciare Dell’Utri. Quali ricostruzioni sono cadute. Il presidente della corte d’assise d’appello Angelo Pellino scandisce: “In parziale riforma della sentenza emessa dalla corte d’assise di Palermo il 20 aprile 2018 assolve”. Prima, cita i nomi degli ex ufficiali del Ros dei carabinieri: “Giuseppe De Donno, Mario Mori e Subranni”. Assolti perché il “fatto non costituisce reato”. Poi, cita l’ex senatore Marcello Dell’Utri: anche lui assolto, “per non avere commesso il fatto”. In mezzo, ci sono i mafiosi, che vengono invece condannati. Leoluca Bagarella, il cognato del capo dei capi Salvatore Riina: 27 anni, un anno in meno rispetto al primo grado. Antonino Cinà, il medico personale del padrino: confermata la condanna a 12 anni. Cala un silenzio pesante nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli. I sostituti procuratori generali, ma anche gli avvocati difensori sono immobili. In 50 secondi, due giudici togati e sei giudici popolari hanno cancellato e riscritto tredici anni di inchieste e udienze. Il collegio presieduto da Angelo Pellino, a latere Vittorio Anania, conferma che gli ex ufficiali del Ros intavolarono nel 1992 un dialogo segreto con l’ex sindaco Ciancimino, ma non è reato. Hanno dunque accolto la loro tesi, da sempre ribadita dagli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito: “I contatti segreti con Ciancimino erano esclusivamente un’operazione di polizia, finalizzata alla cattura di Riina. Nulla fu concesso alla mafia”. La condanna del dottore Cinà, l’uomo a cui Riina affidò il “papello” con le richieste per fermare le stragi, documento poi consegnato a Ciancimino, aggiunge un altro tassello importante: conferma la convinzione dei giudici d’appello, dopo la strage di Capaci un dialogo segreto ci fu fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, che verranno depositate fra 90 giorni, per avere il quadro chiaro del ragionamento fatto dai giudici d’appello. Ma una cosa è certa: il fatto, la trattativa, non costituisce reato. Come invece aveva ritenuto i giudici di primo grado, che avevano scritto: “Non può ritenersi lecita una trattativa da parte di rappresentanti delle istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa”. La corte d’assise aveva ricordato un’altra stagione drammatica per il Paese, quella dei giorni del rapimento di Aldo Moro, “all’epoca lo Stato scelse la via dell’assoluta fermezza”. Cosa che non sarebbe accaduta dopo la strage Falcone. Più netta l’assoluzione di Marcello Dell’Utri, che ha ormai finito di scontare una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, per i suoi rapporti con i boss, dal 1974 al 1992. “Assolto per non aver commesso il fatto”, dice la corte. Dunque, per i giudici d’appello non c’è alcuna prova che l’ex senatore abbia fatto da “cinghia di trasmissione” della seconda trattativa messa in campo dai padrini, nei confronti del primo governo Berlusconi, insediatosi nel 1994. In questo caso, un tentata trattativa, dice il collegio, che ha riqualificato l’accusa a Bagarella in “tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello Stato”. I mafiosi puntavano all’alleggerimento del carcere duro e alla revisione dei processi. Avrebbero cercato di riattivare i contatti con Dell’Utri tramite l’ex stalliere di Arcore, Vittorio Mangano. Questo ha raccontato il pentito Giovanni Brusca. Ma non c’è alcuna prova, dice la corte d’appello, che quel contatto sia stato effettivamente riattivato. E dunque nessuna prova del dialogo, che in primo grado era stato dato per certo. Come il favore offerto ai mafiosi, per fermare le stragi: per i giudici di primo grado era il decreto che escludeva l’arresto obbligatorio per i mafiosi, in assenza di “esigenze cautelari”. Norma poi saltata dopo un’intervista dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni. I giudici di primo grado si erano anche spinti oltre, scrivendo in sentenza: “Soltanto Silvio Berlusconi, quale presidente del Consiglio avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato e quindi riferirne a Dell’Utri, per tranquillizzare i suoi interlocutori”. I giudici d’appello spazzano via tutta la ricostruzione e assolvono Dell’Utri. “Non è stato il trait d’union fra la mafia e la politica”, dice l’avvocato Francesco Centonze, che ha assistito l’ex senatore con i colleghi Francesco Bertorotta e Tullio Padovani. Per effetto della sentenza di assoluzione viene anche annullato parte del risarcimento che era stato stabilito per la presidenza del Consiglio dei ministri. Non più 10 milioni di euro, ma cinque, che dovranno pagare solo i boss. Non gli uomini dello Stato. Stato-mafia, sconfessati dieci anni di indagini: ma su quella stagione restano ombre di Francesco La Licata La Stampa, 24 settembre 2021 Il processo a Mannino è stato il vero macigno sulla ricostruzione della Procura. Qualche contatto tra guardie e ladri ci fu, ma non si trattò di una vera trattativa. Un decennio di indagini non è stato sufficiente a dire una parola chiara sulla famosa, ma ormai sarebbe più appropriato dire famigerata, trattativa Stato-mafia. Come spesso è avvenuto in passato, quando i processi sono entrati sul terreno scivoloso delle relazioni tra mafia, politica e istituzioni, una sentenza ribalta le decisioni dei giudici di primo grado e azzera una ricostruzione dei fatti che pure era stata analizzata e valutata. Ieri pomeriggio la seconda Corte d’Appello di Palermo, presidente Angelo Pellino, ha assolto gli ex ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, accusati di essersi fatti “portavoce” delle minacce allo Stato di Cosa nostra stragista che cercava di ottenere benefici per i detenuti e addirittura l’abolizione o il cambiamento di alcune leggi divenute insopportabili per i propri dirigenti e adepti. È stato assolto anche Marcello Dell’Utri (in altro processo condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa) che, nella sua veste di parlamentare e dirigente di spicco del partito di maggioranza di Silvio Berlusconi, tra il ‘94 e il ‘95, si sarebbe prestato a sostenere in qualche modo le richieste di Cosa nostra a favore dei propri detenuti. Decisione clamorosa, questa della Corte d’Appello, se si considera che i giudici di primo grado avevano deciso pene severe: 12 anni per Mori, Subranni e Dell’Utri e otto per De Donno. Gli unici condannati, ieri, sono stati i mafiosi Leoluca Bagarella (28 anni) e il medico Antonino Cinà (12 anni), quest’ultimo indicato come la “cerniera” tra i carabinieri e l’ex sindaco dc Vito Ciancimino. Ma questo non deve indurre in equivoco, le due condanne non vogliono dire che la trattativa, secondo i giudici d’appello, sia esistita. Il senso di questa sentenza è un altro e certifica che il tentativo di condizionare le istituzioni, da parte di Cosa nostra, c’è stato, ma questa strategia non è stata “veicolata” né dagli ufficiali dei carabinieri del Ros né da uomini della politica. I più attenti analisti avevano già ipotizzato la possibilità di un ribaltamento della sentenza di primo grado in virtù di quanto accaduto, durante la celebrazione del secondo grado, ad un altro imputato eccellente: l’ex ministro dc Calogero Mannino, indicato dai pm della Procura addirittura come il promotore della “trattativa” instaurata per fini personali, cioè per salvarsi la pelle. Secondo questa tesi, infatti, Mannino aveva saputo di essere nel mirino della mafia e si era rivolto al generale Antonio Subranni per fare tutto il possibile al fine di far cessare la catena di sangue che aveva già portato all’uccisione dell’ex europarlamentare dc Salvo Lima e poi alle stragi di Falcone e Borsellino e, qualche tempo dopo, alle stragi di Roma, Milano e Firenze. Ma Calogero Mannino chiese di essere stralciato, scegliendo il giudizio abbreviato che si concluse, ovviamente, in tempi rapidi e con una piena assoluzione che ha retto fino in Cassazione. Questo è stato il vero macigno caduto sul processo d’appello, soprattutto per le motivazioni ufficiali dei giudici della Corte Suprema, che hanno parecchio criticato lo svolgimento delle indagini portate avanti dai rappresentati delle pubbliche accuse di primo e secondo grado. Con un simile “precedente”, l’assoluzione di Mannino “per non aver commesso il fatto”, sarebbe stato davvero difficile insistere nella tesi che difende l’esistenza della “famigerata” trattativa. Anche alla luce di alcune testimonianze nuove, come quella offerta dall’ex ministro Antonio Di Pietro, che ha raccontato dei suoi colloqui con Paolo Borsellino e dell’interesse di quest’ultimo per il dossier su mafia e appalti, trascurato dalla Procura allora retta dal giudice Pietro Giammanco, successivamente costretto al trasferimento, dopo la strage di via D’Amelio. Una ricostruzione che allontana la morte di Paolo Borsellino dal movente-trattativa per privilegiare una causale più vicina alla necessità, da parte di interessi politico-mafiosi, di stoppare la curiosità di Borsellino verso una stagione (la “tangentopoli”) che abbiamo poi visto essere di una importanza tale da aver cambiato il volto della Repubblica. Curiosità che, ancora prima, era stata esplicitata anche da Giovanni Falcone quando chiese a Mario Mori di riprendere le indagini su Mafia e appalti, visto che il rapporto era stato sapientemente “depotenziato” e privato di alcuni nomi di politici e imprenditori. Certamente bisognerà attendere le motivazioni per esprimere pareri su questa clamorosa sentenza. Ma in qualche modo trova riscontro la diffidenza di tanti nella possibilità che un processo giudiziario potesse fornire certezze su una stagione, su un periodo storico della nostra Repubblica denso di ombre. L’ostinata avversione, anche istituzionale, per il “metodo Falcone” nelle indagini su mafia economia e politica, la fretta di uccidere Borsellino, i cambiamenti epocali in Italia e in Europa, l’uccisione di personaggi centrali del groviglio della malapolitica (basterebbe citare gli omicidi di Salvo Lima e di Ignazio Salvo, mafioso democristiano e grande esattore): sono tutti argomenti che difficilmente, secondo alcuni, potrebbero trovare spiegazione in un’aula di Giustizia, forse perché più consoni ad una sorta di autocoscienza parlamentare, ma solo se si avesse voglia di cercare la verità senza cedere alla “ragion politica” nella difesa degli interessi dei singoli partiti. Resta la certezza che “qualche contatto” tra guardie e ladri c’è stato, come dimostra la vicenda di Vito Ciancimino, avvicinato dagli ufficiali del Ros (che hanno confermato il contatto) per chiedergli di intervenire verso i suoi amici corleonesi e indurre Riina a fermarsi. Una storia raccontata dal figlio dell’ex sindaco, Massimo, non sempre attendibile senza il riscontro certo del “papello”, cioè l’elenco delle richieste di Cosa nostra. Anche se la condanna del medico Cinà, portato dentro il processo da Ciancimino Jr., sembra dare qualche sostegno ai suoi racconti. Ma questa storia è stata valutata come un’azione dei carabinieri azzardata, forse, ma legale: una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. D’altra parte compito dei giudici d’appello è di “valutare la tenuta delle decisioni dei giudici di primo grado” e non di fare ricostruzioni più o meno storiche. Il processo stato-mafia assolve lo stato e condanna la mafia di Attilio Bolzoni Il Domani, 24 settembre 2021 Marcello dell’Utri assolto. I generali dei carabinieri hanno dialogato con Cosa Nostra ma il fatto non è reato L’appello ribalta la sentenza di primo grado ma non restituisce la complessità della storia di quegli anni. Quello che veniva considerato uno dei totem dell’antimafia più intransigente è stato spazzato via da una sentenza. Un verdetto di assoluzione che cancella un verdetto di condanna, il secondo grado che ribalta il primo e dice che la trattativa stato-mafia non è vicenda sostenibile in un’aula di giustizia, che non ci sono le prove che uomini delle istituzioni abbiano negoziato con i peggiori criminali della storia italiana e che solo patti e ricatti abbiano segnato la stagione delle stragi. Sconfessati in tutto e per tutto i giudici della Corte di assise, l’impianto accusatorio è stato demolito, troppa tortuosa la via dell’incolpazione con un reato difficilmente dimostrabile come la “minaccia a corpo politico e amministrativo dello stato”. Tutti assolti gli imputati, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, i generali dei carabinieri Antonino Subranni e Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno. Tutti assolti tranne Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. Alla fine, l’unico colpevole del grande intrigo è un sicario di mafia che è ormai carne morta nei bracci del 41 bis. E con lui Antonino Cinà, il medico personale del capo dei capi, un altro della compagnia corleonese. Hanno minacciato e “trattato” da soli, fra di loro, dall’omicidio di Salvo Lima alle bombe ai Georgofili di Firenze. È una sentenza che fa uscire da un gorgo Marcello Dell’Utri e con lui Silvio Berlusconi e tutti quegli apparati che hanno sostenuto gli ufficiali del vecchio Ros (il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), che fa vacillare anche le certezze di quella parte di magistratura che per anni ha creduto alla commistione fra pezzi dello stato e i capi della Cupola. La sentenza d’Appello mette sotto accusa la “linea” e un’intera filosofia giudiziaria che, fin dal principio, si è scontrata con chi ha sempre negato l’esistenza di un traffico indecente fra uomini in divisa e uomini d’onore. Questa è l’inchiesta che, più di altre dopo le stragi del 1992, ha portato grandi lacerazioni nella magistratura. La sentenza di Palermo ora acquieta mezza Italia, è rassicurante, in armonia con i tempi: lo stato non è traditore, non c’è mai stato l’abbraccio mortale con i boss, non c’è stata l’”interlocuzione illecita e illegittima” con i vertici di Cosa nostra con lo scopo “di interrompere la strategia stragista”. Mafia. Sempre solo mafia. E se il verdetto di condanna di primo grado era sembrato ai più sorprendente dopo la prima assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel 2018 - che processato separatamente, nel rito abbreviato, aveva fatto cadere uno dei pilastri accusatori - quello di secondo grado certifica che è sempre bene mantenere una certa distanza fra realtà giudiziaria e realtà storica. Leggeremo le motivazioni della sentenza ma intanto non è stato riconosciuto il ruolo di Marcello Dell’Utri, l’inseparabile amico di Silvio Berlusconi che gli ha portato in dote i compari palermitani (prima i Bontate dell’aristocrazia mafiosa, poi gli emissari dei Corleonesi) nei mesi in cui nasceva il partito di Forza Italia di cui Dell’Utri è stato co-fondatore, partito che ha cambiato i destini del nostro paese con Berlusconi premier nel marzo del 1994. Marcello Dell’Utri è stato uno dei personaggi centrali dell’ormai fu trattativa, il segretario tutto fare di Silvio, quello che secondo l’accusa “si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio di Cosa Nostra” in cambio di rassicurazioni. Una su tutte: l’attenuazione del regime carcerario per i boss rinchiusi al 41 bis. L’attenuazione in effetti c’è stata ma lui non c’entra niente. E poi ci sono i carabinieri dei reparti di eccellenza investigativa di quell’epoca, il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, il primo a capo del Ros e poi del servizio segreto civile e il secondo suo inseparabile scudiero da un quarto di secolo. E con loro il generale Antonio Subranni. Tutti, dopo una ventina di anni, liberi dalla morsa del famigerato accordo. Scivolati lì dentro con l’incredibile mancata perquisizione del covo del capo dei capi Totò Riina in via Bernini il 15 gennaio del 1993, giorno della sua cattura dopo 24 anni e 7 mesi di latitanza indisturbata. Con la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Con gli incontri ravvicinati con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Passaggi ricostruiti dalla procura palermitana fra una bomba e l’altra, una ricerca di “coperture” politiche mai individuate. Sul giudizio ha pesato decisamente l’assoluzione finale della Cassazione (è datata 2020) dell’ex ministro Mannino. La sua uscita di scena dal processo non poteva che portare a una “rivisitazione” del verdetto di primo grado, anche parzialmente. Se Calogero Mannino non si è attivato per salvarsi la pelle con gli alti ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri - come ha decretato la Suprema corte - come si sarebbe potuto condannare gli alti ufficiali dei carabinieri che avrebbero aperto una negoziazione con i Corleonesi nella persona di don Vito Ciancimino e su input dello stesso Calogero Mannino? Osservatori delle cose di giustizia palermitana alla vigilia della camera di consiglio dell’Appello ipotizzavano una sorta di sentenza “spezzatino”, che smembrava e poi ricomponeva e poi ancora smembrava la sentenza dei magistrati della corte di Assise. Con la negazione della prima e della seconda trattativa portata avanti dagli ufficiali dei carabinieri (gli incontri con Ciancimino accertati e ammessi dagli stessi imputati e i misteri del covo di Riina, poco convincente la versione offerta da Mario Mori) e con il riconoscimento della terza trattativa che aveva come motore Marcello Dell’Utri. Lo “spezzatino” che tutti attendevano non c’è stato, la Corte d’appello ha ritenuto troppo fragile la tesi accusatoria e così ha affossato la prima decisione della Corte di assise. Affossato perché il senatore Dell’Utri è stato assolto “per non avere commesso il fatto” e i generali del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri Subranni e Mori “perché il fatto non costituisce reato”. Hanno fatto ma quel fare evidentemente era legittimo. Dichiarate prescritte le accuse contro Giovanni Brusca, il boia di Capaci. Assolto già in primo grado per falsa testimonianza l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (la procura non ha neanche presentato appello), mai arrivati a processo ministri e capi della polizia coinvolti nell’inchiesta che ci hanno lasciato un decennio fa, nessuna condanna né per Totò Riina né per il suo amico Bernardo Provenzano che sono morti in carcere fra il luglio del 2016 e il novembre del 2017. Il “reo” è solo quel Bagarella che compirà ottant’anni il prossimo febbraio, un fantasma, uno che quando si agita prende a morsi gli agenti della polizia penitenziaria, un avanzo di quella che è stata la mafia del potere e del terrore di un quarto di secolo fa. A lui hanno scontato - misteri della giustizia italiana - un anno di condanna, da ventotto a ventisette. Cosa ci consegna alla fine questa sentenza? Quello che già sapevamo. E cioè che quando parliamo di mafia non possiamo più affidarci - e con tutto il rispetto per la Corte d’appello e con tutto il rispetto per gli imputati assolti - soltanto ai bolli e ai giudici, è troppo riduttivo per spiegare la complessità della Sicilia nella stagione delle stragi. Troppo lontana la ricostruzione nelle aule di giustizia dalle ombre che trent’anni fa si allungavano su Palermo. Trattativa Stato-mafia, crolla la madre di tutti i teoremi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 settembre 2021 I giudici: gli ex Ros Mori, De Donno, Subranni e il senatore Marcello dell’Utri non siglarono alcun patto scellerato con Cosa nostra. Condanne confermate solo per i mafiosi: tentarono di piegare lo Stato, senza trovare sponde. “Mario Mori sta subendo una grave ingiustizia come fu con il caso Tortora”. Lo aveva detto Massimo Bordin durante un convengo del Partito Radicale, l’ultimo perché dopo pochi giorni sarebbe morto lasciando un vuoto incolmabile. E ovviamente ha avuto ragione. Dopo un lungo travaglio giudiziario, la Corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto, al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Assolto anche l’ultimo politico rimasto imputato, ovvero l’ex senatore Marcello Dell’Utri, per non aver commesso il fatto. In sostanza, nessuno di loro ha commesso il reato per il quale erano stati condannati in primo grado: minaccia a corpo politico dello Stato. Restano solo i mafiosi, ad essere condannati, ovvero Bagarella e Cinà. Ma attenzione, con la riqualificazione del fatto come “tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello Stato”. Crolla il teorema: nessun “patto scellerato” tra la mafia e uomini delle istituzioni - Ovviamente si dovranno attendere le motivazioni, ma questa riqualificazione della sentenza si può tradurre in un fatto: non c’è stato alcun patto scellerato tra uomini delle istituzioni e la mafia, non c’è stata la trattativa invece teorizzata dalla Procura generale di Palermo. A compiere la tentata minaccia ai tre governi è stata la mafia stessa, molto probabilmente - ma saranno le motivazioni a spiegarcelo - gli attentati continentali del ‘93 erano serviti per minacciare lo Stato: la finalità era di piegarlo e avere, magari, dei benefici. La Storia ci dice che lo Stato non solo non si è piegato, ma ha reagito con determinazione. Infatti, ribadiamolo, il reato, per la Corte d’appello, è di “tentata minaccia”. Sicuramente è una grande sconfitta per la Procura generale di Palermo. Non è la prima in realtà. C’è Roberto Scarpinato che ha concluso la propria carriera da capo procuratore generale con una chiara decostruzione del suo impianto accusatorio. Crolla, di fatto, pesantemente la tesi giudiziaria portata avanti da decenni. Ovviamente si dirà che la trattativa c’è stata, perché la Corte d’appello dice che il fatto non costituisce reato. Che i Ros abbiano instaurato un dialogo con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nessuno l’ha mai messo in dubbio. Gli stessi Ros non l’hanno mai nascosto. Lo sapeva Paolo Borsellino (del tentativo di dialogo con Ciancimino, e non ebbe alcunché da dire), lo sapeva la dottoressa Liliana Ferraro, lo sapeva la stessa Procura di Palermo presieduta da Caselli. Un dialogo volto alla cattura dei latitanti. Pensare che Totò Riina abbia interpretato tale dialogo come un patto per avere i benefici, non solo non è dimostrato, ma sarebbe addirittura esilarante. Quindi sì, che i Ros abbiano “trattato” con Ciancimino è un fatto oggettivo: se li avesse aiutati a risalire ai latitanti, avrebbero protetto le loro famiglie. Come può costituire reato tale fatto? Il nodo di Cinà, medico di Riina. E il famoso “papello” - Resta il nodo di Cinà, il medico di Riina, colui che ha fatto da ambasciatore. Si aprono diversi scenari. Ovviamente è da escludere il fatto che abbia veicolato il famoso papello, visto che non c’è una sola prova che ne dimostri l’esistenza. Molto più probabile, ma saranno le motivazioni a svelare l’arcano, che abbia bluffato, e questo potrebbe essergli costato chiaro. Ma siamo nel campo delle ipotesi e solo le motivazioni potranno fare chiarezza. L’esito non era scontato. La Corte d’appello è riuscita a non farsi travolgere da uno tsunami mediatico senza precedenti. Messa in onda del film della Guzzanti, tra l’altro datato e superato, due trasmissioni televisive in prima serata e le relative repliche, grandi giornali, convegni promossi da associazioni di destra e di sinistra. Una narrazione unica che non ha eguali. Eppure, i giudici della Corte hanno resistito e applicato il diritto. Valutare le prove, studiare le carte, prendere in considerazione le altre sentenze (non solo quella di Mannino) che hanno già decostruito la tesi della trattativa. Non parliamo di sprovveduti. C’è il giudice Angelo Pellino che ha dimostrato nel passato di essere molto scrupoloso. Basterebbe leggere le motivazioni della sentenza del processo Mauro Rostagno. Dove ha analizzato tutte le piste possibili, comprese quelle più fantasiose, vagliato ogni testimone. Un documento che si legge con facilità, perché la verità è sempre quella più semplice. Attenzione, semplice ma indicibile nel contempo. Un “omaggio” a Falcone e Borsellino - L’assoluzione nei confronti degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno è anche un omaggio a Falcone e Borsellino. O meglio, viene ristabilita la loro dignità. Tutte e due si fidavano ciecamente dei due carabinieri. De Donno era il braccio destro di Falcone: con il verbale recentemente desecretato, ora sappiamo che non solo aveva parlato dell’indagine su mafia e appalti, ma che davanti alla commissione Antimafia aveva voluto sottolineare la loro professionalità. Borsellino si è visto con gli ex Ros riservatamente, si fidava così tanto che aveva detto loro di riferire solo a lui. Ora la coraggiosissima sentenza di secondo grado ci dice che i due giudici uccisi dalla mafia, hanno fatto bene a fidarsi. Non erano stati ingenui. Fiammetta Borsellino: “Processo pompato mediaticamente, mio padre non l’avrebbe mai permesso” Il Dubbio, 24 settembre 2021 Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso da Cosa Nostra, accusa i pm di aver pompato mediaticamente la presunta trattativa “Stato-mafia”. In un’intervista rilasciata a caldo all’Adnkronos, Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio, a Palermo, nel lontano 1992, a distanza di pochi mesi, dalla scomparsa di Giovanni Falcone, esprime tutte le sue perplessità sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, criticando duramente i pm che aprirono le indagini. “Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri ma ho avuto sempre molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato”. “Si è assistito a un lancio mediatico del processo trattativa - ha detto Fiammetta Borsellino - fin dal suo inizio, quando veniva pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme con gli altri. Ripeto, purtroppo io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio. La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta - ha aggiunto - siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la Procura di Palermo”. Secondo Fiammetta Borsellino “si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare sul Procuratore Giammanco. Secondo noi queste erano le piste su cui si doveva indagare, non altre…”“. Qualcuno sostiene che la trattativa accelerò la morte di Paolo Borsellino? “Per noi l’accelerazione è stata data dal dossier mafia e appalti ma non lo dice la mia famiglia - dice ancora Fiammetta - lo dice il processo Borsellino ter, che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho avuto sempre tante dubbi”. Fiandaca: “Il processo sulla trattativa Stato-mafia? Danno d’immagine all’Arma e al Paese” Il Dubbio, 24 settembre 2021 Il professore di diritto penale, Giovanni Fiandaca boccia senza appello i pm e la corte che in primo grado condannarono carabinieri e politici. Il professore di diritto penale a Palermo, Giovanni Fiandaca, lancia accuse durissime nei confronti dei pubblici ministeri che avviarono il procedimento sulla presunta trattativa “Stato-mafia”. Le sue parole sono state riportate questa mattina dal “Corriere della Sera”, nell’edizione cartacea, con le quali boccia sonoramente l’impostazione accusatoria. “La cosa peggiore di questa stagione segnata dalla presunta trattativa adesso sfumata nelle assoluzioni di uomini politici e ufficiali dei carabinieri è il tempo perso e il danno di immagine fatto all’Arma e all’intero Paese, visto che un certo storytelling ha superato i confini nazionali diventando verità assoluta pure per chi non conosce nemmeno le carte…”. Per Fiandaca gli “allievi infedeli”, avrebbero perso tempo perché “era chiaro già all’inizio del processo che mancavano i presupposti giuridici per ipotizzare un concorso nel reato previsto dall’articolo 338 del codice penale per minaccia a un corpo politico. Fiandaca, tuttavia, aveva espresso critiche anche dopo la sentenza di condanna emessa dai giudici di primo grado, nella quale si evidenziavano “i punti deboli sia sul versante della ricostruzione del fatto sia su quello dell’impianto giuridico”, criticando sia i pm che il collegio giudicante, all’epoca presieduto da Alfredo Montalto. “La contraddittorietà degli esiti processali dimostra come l’impostazione accusatoria fosse ben lontana dalla regola probatoria dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. Secondo Fiandaca, infine, l’assunzione di Calogero Mannino “aveva fatto venir meno il primo pilastro dell’originaria impostazione”. “Per una nuova stagione delle garanzie”: al via oggi il Congresso dei penalisti italiani di Vincenzo Comi* Il Dubbio, 24 settembre 2021 Si aprono oggi a Roma i lavori del XVIII Congresso ordinario dell’Unione delle Camere Penali Italiane, dal titolo evocativo “Cambiare la Giustizia, Cambiare il Paese: le proposte dell’avvocatura penale per una nuova stagione delle garanzie”. Il congresso eleggerà il presidente dell’Unione per il prossimo biennio con la candidatura unica dell’uscente Gian Domenico Caiazza. È forte il desiderio di ripartire con rinnovato entusiasmo, proprio nei giorni dell’approvazione in Parlamento della riforma della giustizia penale. Se qualcuno dubita dell’autorevolezza e del ruolo dell’Unione delle Camere Penali Italiane oggi nel panorama politico nazionale sui temi della giustizia penale, questo congresso è la più evidente risposta. I settecento posti disponibili sono stati riempiti in pochissimo tempo, senza covid avremmo dovuto fare i conti con numeri molto più alti. Ci saranno tanti rappresentanti politici e istituzionali, i massimi esponenti dell’accademia e la Ministra Prof.ssa Cartabia. Veniamo da un periodo di emergenza sanitaria che ci ha messo a dura prova durante il quale non sono mancati gli attacchi della politica ai diritti fondamentali dei cittadini. Abbiamo scongiurato il pericolo del processo da remoto; dobbiamo andare avanti su questa linea con la massima fermezza e continuando ad essere protagonisti del dibattito politico. Ai nastri di partenza ora c’è la riforma della giustizia penale che ci chiama necessariamente a un doppio metodo di analisi. Da una parte istituti come l’improcedibilità dell’azione penale suscitano perplessità da un punto di vista tecnico giuridico e altre norme potevano essere più chiare e definite. Dall’altra però non possiamo prescindere da una analisi che tenga conto della situazione politica esistente oggi. Se consideriamo il momento storico e la situazione politica che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo non possiamo che constatare una direzione diversa rispetto al Medioevo culturale che aveva partorito in rapida successione la legge spazza- corrotti, la legge sulla legittima difesa e infine il “capolavoro” della riforma Bonafede sulla prescrizione. Eravamo arrivati ad un sistema penale che determinava il fine processo mai. E per questo che ci siamo impegnati strenuamente partendo dalle astensioni fino alla maratona oratoria di piazza Cavour che ci ha visto protagonisti di una inversione di tendenza che ha portato oggi il Parlamento (con al Governo la stessa forza politica che ha approvato la norma Bonafede) a ritornare sui suoi passi e all’abrogazione di quella legge indecente. C’è molto ancora da fare e i prossimi anni saranno straordinariamente importanti. È improcrastinabile una riforma della magistratura che restituisca credibilità della funzione ai cittadini e abbiamo sul tavolo la proposta di legge costituzionale per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Dobbiamo però pensare anche a una organizzazione giudiziaria efficiente. È necessario dotare gli uffici giudiziari di adeguate risorse finanziarie e di personale nel rispetto di una proporzionalità di dimensioni che fino ad oggi è stata sottovalutata. Dobbiamo fare in modo che l’accelerazione informatica dell’organizzazione del processo, legata all’emergenza sanitaria, sia un’opportunità di sviluppo reale e non si trasformi in una inutile burocratizzazione tecnologica per mancanza di risorse o di competenza. Dobbiamo tenere accesi i riflettori sulla fase dell’esecuzione penale e sull’ordinamento penitenziario. Oggi la magistratura di sorveglianza - insufficiente nei numeri e nelle dotazioni organizzative è ancorata a una visione carcerocentrica della pena che ritiene le misure alternative solo come un beneficio per i detenuti. Dopo il fallimento degli Stati Generali dell’esecuzione penale è il momento di rimettervi mano e lavorare per una riforma innovativa e nel rispetto dei diritti fondamentali dei condannati. È solo di pochi giorni fa la notizia di una madre detenuta fatta partorire da sola in una cella del carcere di Rebibbia. Solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano si potrà parlare di rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Insomma, dobbiamo essere protagonisti del futuro e per esserlo dobbiamo tenere ben piantati i piedi nelle radici della nostra storia e nei valori che ci contraddistinguono e hanno ispirato le battaglie della nostra associazione. *Presidente Camera Penale di Roma Ma lo sapevate che l’imputato ha anche dei diritti civili? di Simona Giannetti* Il Dubbio, 24 settembre 2021 Esercizio di un diritto o propaganda di regime? Dalle pagine del Corriere della Sera di ieri scopriamo che un imputato non può neanche esercitare il proprio diritto di firmare una proposta di referendum. Peggio ancora se si chiama Carminati o Buzzi ed è stato condannato per il noto processo “Mafia Capitale”; anzi oggi solo “Capitale”, dopo il taglio della Cassazione alle teorie accusatorie della Procura romana. Il motivo del disdegno per la firma della proposta dei quesiti referendari sembrerebbe semplice: essere un condannato. L’articolo inizia cosi: “Roma, Forse vi siete persi una storia...”. La storia è quella di un gazebo per la raccolta delle firme del referendum “Giustizia giusta” - promosso dal Partito Radicale con la Lega - organizzato dal quotidiano Il Riformista e dal suo direttore Piero Sansonetti; non solo, al gazebo si presentano a firmare Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Fine della storia. E invece no, perché sul Corriere si parla di due imputati descritti con il loro passato anche lontano, che stavolta non sono coinvolti in un processo ma in un “sit-in referendario”. Non solo, la storia prevede anche “il divo”: Luca Palamara. Ora, al netto della descrizione di una giornata romana di settembre con sole e gabbiani a pochi passi da Montecitorio, sarebbe stato interessante precisare, dalle pagine di un autorevole quotidiano come il Corriere, che l’articolo75 della Costituzione riserva il diritto di firma ad ogni elettore, purché non sia un condannato definitivo. Ebbene, purtroppo per il Corriere i signori Buzzi e Carminati sono solo degli elettori, molto prima di essere imputati. Ma la notizia, oltre alla minuziosa descrizione dei loro abiti e del loro arrivo al gazebo, è che gli stessi avrebbero anche la pretesa di cambiare la Giustizia. Persa sembra essere stata l’occasione di ricordare che il signor Carminati - precisamente descritto come quello con il casco - in seno al processo del “Mondo di mezzo” lo avevano anche mandato in regime di “carcere duro”, come si chiama in gergo, cioè in regime ex articolo 41 bis, salvo poi dire che il suo reato non era mafia: a quanto pare poco conta, nella narrazione della vita dell’elettore in questione, questo disguido sulla sua libertà personale e dignità, evidentemente lontano dall’obiettivo della divulgazione. Eppure, sarebbe stata buona l’occasione per ricordare la riduzione dell’abuso della custodia cautelare in carcere, che poi è anche un quesito referendario, e magari dedicargli uno spunto di riflessione, soprattutto là dove ci sono milioni di euro spesi dallo Stato italiano per risarcire ogni anno individui incarcerati ingiustamente. In effetti trascorrere una carcerazione preventiva in regime di 41 bis non dovuto potrebbe anche essere un buon motivo per decidere di andare a firmare un referendum per la giustizia giusta: bontà sua, dell’elettore, accidentalmente imputato, che decida di farlo. Ma c’è di più. È un peccato che il giornale storico della Milano degli anni di Tangentopoli, che molto poco si è occupato delle attualissime e localissime vicende del Palazzo della Procura da cui uscirono atti segreti con destinazione la tromba delle scale del Csm, abbia altresì dimenticato di cogliere l’occasione di riportare i numeri di questa campagna referendaria, in cui ormai ben oltre 500mila elettori hanno già firmato, perché sia permesso ai cittadini di occuparsi della riforma dell’ordinamento giudiziario e rompere un abbraccio mortale tra politica e magistratura. Forse si poteva cogliere l’occasione per ricordare che in fondo l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, anch’egli ampiamente citato come presente al gazebo della raccolta delle firme, altro non sia che un capro espiatorio di ciò che da solo non poteva reggere in piedi a suon di chat e messaggini, oltre che inevitabilmente un testimone di quel Sistema, di cui in questo caso non si è letto molto sulle pagine del giornale in questione. Dunque, i signori Buzzi e Carminati vorrebbero riformare la giustizia, e tutto questo sembra decisamente un colpo basso per il moralismo di un’Informazione che gioca sul populista disegno secondo cui se sei un imputato non devi esistere, pensare, avere dignità di elettore. Non solo, non si può neanche fare a meno di pensare male, che, come diceva un noto presidente si fa peccato ma spesso ci si azzecca: ad oggi il referendum potrebbe anche essere una realtà. Forse quel sogno di Marco Pannella ed Enzo Tortora, che camminano a braccetto nei volantini dei gazebo della campagna del Partito Radicale, si sta per avverare. Il messaggio non troppo in bottiglia sembra voler alludere all’idea che se firmi per il referendum, o sei un imputato o sei il suo difensore: la propaganda del Sistema continua, forse. Del resto nessuno ha mai creduto che con l’espulsione di Luca Palamara dalla Magistratura sarebbe cambiato qualcosa. Anzi, è anche troppo facile cadere nella tentazione di ricordare Tomasi di Lampedusa: deve cambiare tutto, perché nulla cambi. E allora perché non andare a firmare per arrivare al milione di firme per la giustizia giusta? *Avvocato e militante radicale Consulta, Conte non ha usurpato i poteri del Parlamento usando i Dpcm nella gestione del Covid di Liana Milella La Repubblica, 24 settembre 2021 La Corte costituzione affronta di nuovo la giungla del rapporto tra decreti legge e Dpcm dopo il caso della Valle d’Aosta. E respinge le tesi del giudice di pace di Frosinone che vede nei decreti legge del governo la porta aperta ai poteri legislativi diretti del premier. L’ex premier Giuseppe Conte non ha violato le regole, né ha infranto la Costituzione, quando, in piena pandemia, ha utilizzato lo strumento dei Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, per affrontare la drammatica emergenza di quei giorni. Dietro quei Dpcm c’erano i decreti legge dello stesso governo che consentivano proprio al premier di intervenire con misure adatte a contenere il diffondersi del virus. E questo non si può considerare come un atto di natura incostituzionale perché il premier, attraverso i decreti legge, non ha ottenuto una delega legislativa che ne sostituiva i poteri, ma ha semplicemente tradotto in norme, ha attuato, le linee guida dei decreti. Dopo la sentenza firmata dal giudice costituzionale Augusto Barbera, del gennaio di quest’anno, che bocciava la legge della Valle D’Aosta meno restrittiva in materia di Covid di quelle del governo, è un’altra toga della Corte, Stefano Petitti, a scrivere una nuova decisione che fissa ulteriori paletti nell’intricato rapporto tra poteri del governo, decreti legge e Dpcm. Altre ce ne saranno dopo questa, ma intanto un ulteriore punto fermo è stato messo, rispetto alla campagna condotta da tanti giuristi convinti che dietro i Dpcm ci fosse una forzatura costituzionale. Petitti invece non rileva che impropriamente, e quindi fuori dagli articoli della Costituzione, ci sia stata - come invece sostiene il giudice di pace di Frosinone che si è rivolte alla Corte - una violazione, in quanto i due decreti legge della primavera 2020, nel momento più caldo dell’esplosione della pandemia, avrebbero affidato al premier in carica, a Conte, una funzione legislativa in aperto contrasto con gli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione, che, in sequenza, fissano il rapporto stretto tra governo e Parlamento nella gestione della legislazione d’urgenza. Ma perché il giudice di pace di Frosinone si rivolge alla Consulta? Nelle sue mani c’è il caso di un cittadino che durante il Covid si vede infliggere una multa da 400 euro perché è uscito dalla sua abitazione quando ciò era vietato in pieno lockdown. E qui, secondo la Consulta sbagliando, il giudice di pace individua la forzatura costituzionale di un decreto legge che consente al presidente del Consiglio di agire attraverso i Dpcm. Una querelle che è andata avanti per tutto il periodo in cui Conte è stato premier nei mesi terribili del Covid. Ma adesso la Corte fa ordine. Innanzitutto, come prima cosa, ha dichiarato inammissibile (e quindi non è entrata nel merito) la censura del giudice di pace sul primo decreto legge - il numero 6 - approvato per il Covid perché, da un punto di vista temporale, non si applicava al caso concreto. Quanto al decreto successivo, il numero 19, la Consulta ha dichiarato non fondate le critiche del giudice di pace perché - come si legge nella nota dell’ufficio stampa che anticipa la decisione della Corte in attesa del deposito delle motivazioni - “al presidente del Consiglio non è stata attribuita altro che la funzione attuativa del decreto legge, da esercitare mediante atti di natura amministrativa”. Per dirla in modo semplice, stante l’emergenza Covid, il decreto, poi convertito in legge, consentiva al premier di firmare dei Dpcm per attuare le precise prescrizioni per contenere la pandemia”. Calabria. Record di innocenti in carcere e lo Stato paga di Giulia Merlo Il Domani, 24 settembre 2021 La Corte dei conti certifica che più di un quarto dei risarcimenti per errori giudiziari viene liquidata dalle corti d’appello calabresi. Dove si aggiunge anche la dilatazione dei tempi: alcuni indennizzi aspettano da trent’anni. La Corte dei conti e il ministero della Giustizia hanno pubblicato i numeri dei rimborsi pagati dallo stato ai cittadini che hanno subito ingiusta detenzione o patito errori giudiziari. Il dato che emerge in modo chiaro è che la regione stabilmente in testa con il record negativo è la Calabria. Il dato è eclatante soprattutto nel 2020, in cui la somma dei risarcimenti confermati dalle Corti d’appello di Catanzaro e Reggio Calabria è esattamente un terzo dei risarcimenti nazionali e la regione è anche in testa per numero di richieste accolte. Tradotto: su circa 37 milioni di euro di rimborsi, 7,9 milioni riguardano ingiuste detenzioni nel distretto di Reggio Calabria e 4,6 milioni quello di Catanzaro. Anche nei due anni precedenti, le due corti hanno toccato cifre record: nel 2019 a Reggio Calabria i risarcimenti sono stati di 10,3 milioni di euro, pari al 21 per cento del totale di quell’anno, che è stato di 48,7 milioni di euro; nel 2018 invece il picco è stato di Catanzaro, con 10,4 milioni di risarcimenti, equivalenti al 22 per cento del totale di 48 milioni. Le cifre non restituiscono il dato qualitativo: chi sono le persone indennizzate, quanto tempo hanno scontato ingiustamente agli arresti e soprattutto quanto hanno aspettato prima di essere risarciti. Inoltre, va sottolineato che i dati dei risarcimenti si riferiscono a casi di ingiusta detenzione che risalgono ad almeno qualche anno prima della presentazione della richiesta: per vedersi riconoscere l’indennizzo per una ingiusta detenzione scontata in primo grado, per esempio, è necessario attendere la sentenza definitiva di assoluzione. Che nella maggior parte dei casi - e considerata la durata dei processi in Italia - arriva molto tempo dopo. Dunque gli errori risarciti nel 2020 a Reggio Calabria (dove un processo penale dal primo grado alla cassazione dura in media più di sei anni) si riferiscono, con tutta probabilità, a detenzioni risalenti al 2014. Il dato fa riflettere: ogni misura cautelare potenzialmente ingiusta stabilita oggi è soprattutto vessatoria nei confronti di chi la subisce ma sarà anche, tra qualche anno, un costo per le casse dello stato in termini di risarcimento. Gli indennizzi per errori di giustizia si dividono in due tipi: errori giudiziari, previsti quando un imputato viene prosciolto in sede di revisione del processo e non ha dato causa con dolo o colpa grave all’errore giudiziario; e ingiusta detenzione, nel caso in cui l’imputato sia stato prosciolto ma, nel corso del processo, abbia patito una misura cautelare in carcere o ai domiciliari. Circa il 90 per cento dei casi di errore, tuttavia, riguarda l’ingiusta detenzione. Un dato che va accostato con le cifre sulla popolazione detenuta: più del 30 per cento è composta da imputati in attesa di giudizio, secondo un rapporto del Consiglio d’Europa. L’ammontare del risarcimento nella singola corte è soggetto a due variabili: il numero di errori giudiziari, oppure detenzioni molto lunghe poi smentite dall’esito del processo. Ecco come si spiega il fatto che, per esempio, nel 2019 la corte d’appello di Reggio Calabria abbia liquidato 9,8 milioni di risarcimenti per 120 casi di ingiusta detenzione. Tre volte tanto rispetto a Napoli, dove nello stesso anno i casi sono stati 129 ma il risarcimento totale è stato di 3,2 milioni di euro. Con tutta probabilità, i casi di ingiusta detenzione riconosciuti dalla corte reggina hanno riguardato situazioni in cui i giorni di detenzione sono stati molti di più rispetto a quelli di Napoli. La cifra varia anche a seconda della corte d’appello. Non esiste, infatti, una giurisprudenza standard sul calcolo degli indennizzi se non per l’ammontare del risarcimento per un singolo giorno di ingiusta detenzione. Sulla base della cifra massima di rimborso, fissata a circa 516 mila euro, si è sviluppato un criterio per calcolare la somma indennizzabile per un giorno: dividendo l’importo massimo per la durata massima di custodia cautelare in carcere, che è di 6 anni, la cifra è di 235,82 euro. Tuttavia, la cifra giornaliera riconosciuta dalle corti può aumentare sulla base di moltissime varianti, dal sovraffollamento della cella alla distanza del carcere dalla residenza dei familiari. Quanto alla procedura per ottenere i rimborsi, la richiesta va presentata entro due anni dalla sentenza passata in giudicato alla corte d’appello del distretto dove è stata pronunciata la sentenza. Il rimborso, inoltre, non è automatico: la corte d’appello valuterà se il richiedente non abbia concorso a causare l’errore giudiziario che poi ha subito. Secondo i dati del 2020, per esempio, dei 935 procedimenti per ingiusta detenzione svolti, il 77 per cento si è chiuso con una pronuncia di rigetto. Si tratta dunque di casi in cui in effetti un imputato poi assolto ha trascorso del tempo in carcere o ai domiciliari, ma le modalità con cui questo è avvenuto non giustificano il risarcimento. Pur con queste precisazioni, la Calabria è anche in cima alla classifica per numero di casi di errore. Sulle 1023 ordinanze del 2017, Catanzaro è stata la corte con più casi: 159; lo stesso anche nel 2018, con 183 casi su 913. Nel 2019, invece, la maglia nera per numero di errori riconosciuti è di Napoli con 129 casi, seguito da Reggio Calabria con 122 (su un totale di 1020). Di chi è la colpa? Il dato calabrese così significativo, pur con tutti i distinguo, colpisce: in un territorio dove la densità criminale è alto, anche gli errori giudiziari commessi negli anni sono tali. La vulgata sul punto è che si tratti di un effetto inevitabile, vista alla mole di inchieste in corso e di conseguenza degli arresti disposti. Eppure, i numeri di una regione come la Sicilia - altrettanto colpita da fenomeni di criminalità organizzata - sono inferiori sia per ammontare degli indennizzi che per casi. La responsabilità, in ogni caso, va ricercata sia negli uffici di procura sia nei giudici: son o i pubblici ministeri a presentare richiesta di misura cautelare in carcere o i domiciliari, ma è il giudice per le indagini preliminari a valutarla e a disporla. La filiera, quindi, parte da chi ha condotto l’indagine e arriva a chi ha convalidato la misura. A provare a dare una lettura dei dati è l’attuale procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, che tuttavia parte da una premessa: “I dati si riferiscono a ingiuste detenzioni risalenti nel tempo ad almeno sette anni fa (Gratteri si è insediato a Catanzaro nel 2016, ndr) e posso dire che non rispecchiano il quadro attuale degli uffici giudiziari calabresi”. Secondo Gratteri i numeri forniti dalla Corte dei Conti non devono essere letti come valori assoluti, ma vanno interpretati alla luce di alcune peculiarità territoriali. “Va considerata la vastità del territorio calabrese, il numero dei procedimenti aperti, degli arrestati e dei processi - spiega -. In Calabria lavoriamo su 7 tribunali che hanno almeno un processo antimafia al giorno, rispetto ad altre aree dove questo non avviene”. Trent’anni di attesa - Eppure un dato di realtà rimane, anche se non è direttamente riferibile al presente giudiziario della regione: in Calabria è molto più facile finire ingiustamente in carcere rispetto alle altre zone d’Italia. Non solo, su chi chiede ristoro per aver patito un trattamento giudiziario errato ricade un altro dei problemi della giustizia: il tempo lunghissimo dei procedimenti. A quanto risulta presso la corte d’appello di Catanzaro, infatti, i risarcimenti liquidati dal 2018 al 2020 pubblicati nelle tabelle della Corte dei Conti fanno riferimento a fatti che risalgono anche al 1991. Quindi riguardano errori giudiziari commessi trent’anni fa. Con il risultato che sulle spalle di chi ha già scontato una detenzione non dovuta si sommano due ingiustizie: l’errore giudiziario a suo carico, ma anche la patologica lunghezza del processo che ha stabilito la sua innocenza e poi di quello che gli ha liquidato il risarcimento. E di questo secondo aspetto la responsabilità è soprattutto di sistema, visto che gli uffici giudiziari calabresi scontano una significativa carenza di organico. Caserta. Ex Opg di Aversa, “Vi racconto il dramma dei pazienti psichici in cella” di Nicola Graziano Il Riformista, 24 settembre 2021 Ancora sento rimbombare nella mia anima e nel mio stomaco il suono del carcere, che è un misto di silenzio e ossessione, e non mi abbandona l’odore delle celle e il colore verde chiaro che hanno accompagnato i miei giorni di reclusione volontaria e in incognito nell’ospedale psichiatrico-giudiziario di Aversa. Questa sensazione è riemersa durante la lettura dell’articolo di Viviana Lanza apparso ieri sulle pagine di questo stesso quotidiano e che presenta una radiografia in chiaroscuro dei reparti carcerari in cui sono reclusi i malati di mente che, evidentemente, non sono destinati alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. È un elenco grave che denuncia la esiguità dei reparti e soprattutto degli esperti che possono affiancare i detenuti psicotici durante la permanenza in carcere. Ebbene sono passati alcuni anni dalla chiusura definitiva degli opg e molti detenuti sono tornati in carcere in quanto oramai a loro non è più applicabile l’articolo 148 del codice penale per il passaggio in opg e il tema della psichiatria e carcere ha avuto, anche per questo ma non solo, un nuovo vigore. Mi rimetto ai dati gravi già elencati dal garante dei detenuti della Campania e la mia riflessione chiede di andare oltre per indicare una soluzione possibile. L’esperienza mi detta alcuni punti fermi. Che non si immagini nemmeno minimamente di ripensare ai manicomi giudiziari come un rigurgito nostalgico che sacrificherebbe, ancora una volta e come in passato, sull’altare del pregiudizio e dello stigma, una scelta di civiltà giuridica che ha caratterizzato il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, nonostante possa essere ritenuto non ancora del tutto perfetto il sistema delle Rems. Detto ciò, non si può non denunciare il rischio che nelle carceri si possano creare dei mini-manicomi con riferimento alle articolazioni per la salute mentale. E allora il tema centrale è la malattia mentale, la dignità del malato psichiatrico che si trova recluso. Io credo che su questo bisogna investire perché ancora una volta è questo il tema su cui si misura la civiltà di uno Stato democratico, ma soprattutto la sensibilità di un popolo davanti alla diversità. Va ripensato allora il sistema carcerario e l’applicazione delle misure detentive nel caso di infermi di mente. Sul punto mi piace richiamare la definizione contenuta nella proposta di legge a firma del deputato Riccardo Magi che individua, in questo caso, uno stato di salute denominato “condizione delle persone con disabilità psicosociale” sottolineando come, nella nostra società, essa costituisca una condizione di svantaggio, così proponendosi un’attenuazione della gravità delle condotte criminose commesse da queste persone perché di minore disvalore sociale. Questo implica una valutazione chiara ed evidente relativa alla necessità di una revisione della risposta sanzionatoria. Bisogna prevedere misure alternative al carcere come stabilito per altre malattie e - questo è il tema sul quale oggi soffermarsi - se ciò non è possibile bisogna evitare che in concreto le articolazioni per la salute mentale possano perdere di vista il bisogno di cura del malato come obiettivo centrale. Purtroppo ciò non accadeva negli opg perché il carcere era sentito come punizione ingiusta e isolamento posto in essere dalla società civile, col risultato che così si creava una distanza irreparabile che si sentiva sulla pelle, nonostante qualsiasi sforzo di integrazione che pure si attuava. Troppo grave era sentirsi socialmente pericoloso. Nel ripensare alla mia permanenza, credo sia fondamentale immaginare che la cura di questi detenuti “speciali” debba essere garantita dalla presenza del dipartimento della salute mentale in ogni istituto penitenziario e che si debba mettere al centro di ogni considerazione l’uomo con la sua debolezza e i suoi pensieri. Chiudo raccontandovi un breve episodio. Mio involontario compagno di cella nell’ospedale psichiatrico-giudiziario di Aversa era un giovane che, in preda a un raptus, volendo uccidere un adulto, colpì involontariamente la propria figlia che giaceva dormendo nel carrozzino. La colpì al centro della fronte tra i due suoi occhi azzurri facendola sprofondare in un coma poi durato alcuni anni e terminato con la morte. Mi disse piangendo: “Sono stato condannato per omicidio volontario da un giudice che non si è mai chiesto come sia possibile che un padre uccida volontariamente una figlia di pochi mesi. È questa la giustizia? È questa la pena che devo scontare? In questo posto?” All’epoca non seppi rispondere, ma rivolgo questa domanda a chi dovrà necessariamente occuparsi del tema della psichiatria e del carcere affinché rifletta su certe parole che ancora oggi pesano come macigni sulla coscienza di una società che ambisce a definirsi civile. Forlì. Carcere e lavoro: “Avanti con tutti i progetti” di Matteo Bondi Il Resto del Carlino, 24 settembre 2021 Firmati i protocolli con enti, aziende e associazioni per cartiera, laboratorio di saldatura e di assemblaggio in cui operano i detenuti. Sono stati rinnovati ieri i protocolli che danno vita ai tre laboratori nei quali lavorano detenuti della Casa Circondariale di Forlì. Si tratta del laboratorio di assemblaggio ‘Altremani’, di quello di saldatura e della cartiera ‘Manolibera’. La validità di questi protocolli è di tre anni e sono stati sottoscritti dall’amministrazione del carcere e da enti locali, istituzioni e aziende del territorio. “Questo è forse uno dei peggiori carceri d’Italia - ha affermato Palma Mercurio, il direttore della Casa Circondariale di Forlì -, con celle umide e piccole, senza acqua calda e con impianti dell’anteguerra. Ma, nonostante si stia malissimo dal punto di vista strutturale, anche con una carenza di organico che tocca i venti agenti in meno di polizia penitenziaria e la mancanza di tre educatori, siamo il carcere a cui i detenuti aspirano, facendo richiesta di trasferimento qui piuttosto che in altri istituti. Questo perché - la sua sottolineature - qui tutto il territorio compensa questa mancanza di struttura con percorsi come questo, con la vicinanza delle istituzioni e delle imprese. Questi laboratori erano già in essere quando io sono arrivata e in questi anni hanno continuato a svolgersi con sempre più partner che vi partecipano”. I corsi sono gestiti da Techne, la società dedita alla formazione i cui soci sono i Comuni di Forlì e Cesena. Da ben 15 anni si tengono i laboratori che permettono ai detenuti di imparare un lavoro ed essere assunti mentre scontano la pena, operando nelle aziende del territorio. “Sono stati 80 i detenuti assunti in questi 15 anni - ha spiegato Lia Benvenuti, direttore generale di Techne - mentre altri stanno finendo il periodo di prova. Il primo laboratorio istituito, 15 anni fa, fu quello del recupero dei Raee, i rifiuti elettronici. A questo, nel corso degli anni, si sono aggiunti gli altri, da ultimo quello della saldatura, che compie giusto un anno di attività, ma che vede già un detenuto assunto presso un’azienda e quattro in fase finale di tirocinio”. Alla cerimonia di firma dei protocolli erano presenti tutti gli enti firmatari, in particolare Gian Luca Zattini, sindaco di Forlì; Milena Garavini, sindaco di Forlimpopoli; Marianna Tonellato, sindaco di Castrocaro Terme e Terra del Sole; Alberto Zambianchi, presidentedella Camera di Commercio della Romagna; Alessandro Ranieri, direttore dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro, sede di Forlì. Vi erano anche le associazioni di categoria e le varie aziende che poi ospitano e gestiscono praticamente i laboratori. La speranza è che presto tutto il carcere possa trasferirsi nella nuova struttura in costruzione al Quattro, opera come noto in forte ritardo. La sua costruzione, dopo un ulteriore rinvio, “sarebbe dovuta terminare nel 2023 - spiega la direttrice della Casa Circondariale -, almeno così mi era stato detto nel 2019. Adesso però vedo che i lavori sono di nuovo fermi. Ho giusto inviato un quesito formale al ministero per meglio capire a che punto siamo”. San Gimignano (Si). Cento lampade ai detenuti per poter studiare quinewssiena.it, 24 settembre 2021 Iniziativa della Diocesi, il Cardinale Lojudice “la cultura rende liberi”. La consegna lunedì 27 settembre al carcere di San Gimignano. Lunedì prossimo, 27 settembre 2021, alle 9 presso la Casa di reclusione di Ranza (San Gimignano - SI) il Cardinale Augusto Paolo Lojudice, Arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa - Montalcino consegnerà al direttore del carcere, Giuseppe Renna, una fornitura di 100 lampade a led, con particolari caratteristiche di fluorescenza, destinate alle camere di pernottamento dei detenuti del Polo Universitario. Le lampade speciali sono funzionali a una illuminazione che consenta lo studio autonomo anche nelle ore in cui l’impianto centrale non sia attivato. Questo per dar modo così agli studenti detenuti della struttura di studiare in orari autonomamente decisi e gestiti da loro stessi. Il Cardinale sarà accompagnato dai professori Fabio Mugnaini e Massimo Bianchi, delegati del Magnifico Rettore dell’Università di Siena per il Polo Universitario Penitenziario. “La cultura rende liberi - spiega Cardinale Augusto Paolo Lojudice, Arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa - Montalcino - ed è per questo che abbiamo deciso, in accordo con i delegati rettorali, di accogliere la donazione di una fornitura gratuita di lampade speciali che possano permettere ai detenuti di studiare e di proseguire un percorso decisivo per cambiare la loro vita”. “Un detenuto alcuni anni fa - aggiunge il Cardinale - mi ha confidato che da quando aveva iniziato a studiare si sentiva un uomo libero, anche da dietro le sbarre. Questa storia è emblematica e ci comunica speranza e la voglia di rinascere e dimostra che anche nelle condizioni più difficili la vita ci presenta sempre una nuova opportunità”. “Nel carcere di san Gimignano verranno accese idealmente 100 lampadine - conclude il Cardinale Lojudice - come segno di speranza e di volontà di riscatto. Il carcere in tale contesto potrà diventare veramente un luogo di riabilitazione e di cambiamento e tutto questo grazie ad una perfetta sinergia tra l’Arcidiocesi e l’Università di Siena”. Spagna. L’ex presidente della Catalogna Puigdemont arrestato in Sardegna di Alessandro Oppes La Repubblica, 24 settembre 2021 Fermato all’aeroporto di Alghero e portato in carcere a Sassari. Oggi avrebbe dovuto partecipare a un incontro internazionale della cultura catalana. Il suo avvocato Gonzalo Boye: “Atto illegale, l’ordine europeo di detenzione era sospeso”. L’ex presidente della Catalogna Carles Puigdemont è stato arrestato dalla polizia ad Alghero e trasferito al carcere di Sassari. Puigdemont era arrivato in serata da Bruxelles - dove vive in autoesilio dal 2017 e dove svolge le funzioni di parlamentare europeo - all’aeroporto di Alghero: qui nel fine settimana avrebbe dovuto partecipare alla 33esima edizione del Adifolk, il festival internazionale della cultura catalana. Oggi saranno in Sardegna anche autorità di primo piano dell’attuale amministrazione regionale catalana, dalla presidente del Parlamento, Laura Borràs, alla “ministra” degli Esteri, Victòria Alsina, oltre a diversi sindaci della regione autonomista. Puigdemont avrebbe dovuto incontrare anche il governatore della Sardegna Christian Solinas. Domenica prossima si sarebbe dovuto trasferire a Oristano per assistere come ospite d’onore alla Corona de Logu, l’assemblea degli amministratori locali indipendentisti sardi. La notizia dell’arresto è stata accolta con sconcerto dalla Generalitat, il governo regionale, secondo fonti dell’amministrazione catalana contattate da Repubblica. La convinzione era infatti che l’ordine europeo di arresto emesso nei confronti di Puigdemont dal Tribunale Supremo spagnolo - che lo vuole processare per l’organizzazione del referendum illegale del 1° ottobre 2017 - fosse attualmente sospeso. Nel marzo scorso, il Parlamento europeo aveva deciso di ritirare l’immunità tanto all’ex presidente come agli altri due ex assessori del suo governo Toni Comín e Clara Ponsatí che avevano lasciato la Spagna poco prima dell’ondata di arresti dei politici indipendentisti (condannati a pesanti pene nel 2019 e tornati in libertà nel luglio scorso grazie all’indulto concesso dal governo di Pedro Sánchez). Il 2 giugno scorso il Tribunale generale dell’Unione europea aveva nuovamente concesso, in via provvisoria, l’immunità ai tre politici, accogliendo la richiesta dei loro avvocati che avanzavano il timore che potessero essere arrestati, in particolare durante i trasferimenti in Francia per le sessioni dell’Europarlamento a Strasburgo. Ma a fine luglio il Tribunale, con sede in Lussemburgo, aveva revocato quella decisione sostenendo che “l’immunità che protegge i deputati durante i loro spostamenti al luogo della riunione e al rientro resta giuridicamente intatta”. La garanzia di non essere arrestati era legata dunque solo ai trasferimenti da Bruxelles a Strasburgo e ritorno. Ma c’è un elemento ulteriore che aveva convinto Puigdemont e i suoi avvocati che non esistessero rischi anche nel caso di uno spostamento verso un altro Paese della Ue. Ed è la questione posta dal magistrato del Tribunale Supremo spagnolo, Pablo Llarena, al Tribunale di giustizia dell’Unione europea perché determini in base a quali criteri un Paese europeo può rifiutare di consegnare un cittadino reclamato dalla giustizia di un altro Paese. Il quesito è legato al fatto che di recente la corte d’appello di Bruxelles ha respinto la richiesta di estradizione presentata dalla Spagna nei confronti dell’ex assessore catalano Lluis Puig. Sul quesito posto dal giudice Llarena il Tribunale di giustizia europeo non si è ancora pronunciato. Ed è proprio per questo motivo che tutto lasciava pensare che, in attesa di questa pronuncia, l’ordine di arresto nei confronti di Puigdemont fosse momentaneamente sospeso. E infatti è questa la linea del suo avvocato Gonzalo Boye, che ha definito l’arresto “illegale”. Puigdemont, dice il legale, “è stato vittima di un arresto di polizia per un ordine fraudolento in materia di diritto dell’Unione” che, a suo avviso, è rimasto in vigore anche se non poteva esserlo. Secondo El País, che cita fonti giuridiche, l’udienza sarà alle 9 del mattino. Il giudice dovrà decidere “se rilasciarlo o ordinare l’estradizione” in Spagna, secondo la nota dell’entourage dell’ex presidente catalano.Il governo Sánchez, attraverso una nota della Segreteria di Staot per la comunicazione, ha manifestato “rispetto per le decisioni delle autorità e dei tribunali italiani”, aggiungendo che l’ex presidente “deve sottomettersi all’azione della giustizia esattamente come qualsiasi altro cittadino”. L’attuale presidente della Catalogna, Pere Aragonès, condanna invece l’arresto: “Di fronte alla persecuzione e alla repressione giudiziaria, la più energica condanna: questo deve finire”. Puigdemont era già stato arrestato in Germania nel 2018, mentre attraversava il Paese in auto di rientro a Bruxelles da un viaggio in Danimarca. Ma il tribunale dello Schleswig-Holstein l’aveva rimesso in libertà perché, in base alla legislazione tedesca, non poteva essere estradato per il reato di ribellione imputatogli dal Tribunale supremo spagnolo. Stati Uniti. I migranti haitiani verranno deportati a Guantánamo di Andrea Cegna Il Manifesto, 24 settembre 2021 E dopo le scene di caccia al confine si dimette l’inviato Usa: “Trattamento disumano”. Usare Guantánamo per la detenzione di oltre 14.000 migranti arrivati a Del Rio. Questa la decisione presa dal governo Biden secondo quanto ha scritto, per primo, axios.com. Diversi organi di stampa riportano che il centro di detenzione, limitrofo alle aree carcerarie dove ancora sono rinchiusi 39 prigionieri della cosiddetta guerra al terrorismo, avrebbe la capacità di ospitare tra 120 e 400 persone, e la “popolazione giornaliera stimata” al suo interno non sarà inferiore a 20. È la risposta politica degli Stati uniti alle polemiche suscitate dalle immagini della polizia di frontiera a cavallo che frusta i migranti. Non è chiaro se Washington abbia intenzione di trasferire anche i “senza documenti” nella base militare, dove già l’esecutivo guidato da George H.W. Bush, tra il 1991 e il 1993, sotto la supervisione dell’allora procuratore generale William Barr, aveva rinchiuso circa 12.000 richiedenti asilo haitiani. “È molto preoccupante che l’amministrazione possa prendere in considerazione l’utilizzo di Guantanamo per detenere richiedenti asilo, poco importa se haitiani o di altri paesi”, ha detto a Nbc News Wendy Young, presidente del gruppo di difesa degli immigrati Kids in Need of Defense. E con le dimissioni di Daniel Foote, inviato speciale degli Stati uniti ad Haiti, la crisi al confine sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente. In una lettera destinata al Presidente, e inviata anche ai quotidiani, il funzionario dichiara di non volere essere associato alla scelta, definita “disumana” e “controproducente”, di deportare migliaia di rifugiati nel loro paese d’origine, vista anche la situazione interna all’isola. Fernando Castro Molina, consulente migratorio per il Centro America, aggiunge che nelle ultime settimane è aumentato il numero delle deportazioni di migranti dagli Usa: 5.000 per via aerea e 28.000 via terra. Dopo l’arrivo di migliaia di caraibici a Tapachula (ribattezzata da attivisti e migranti “città prigione”), nel sud del Messico, a causa del caos esploso ad Haiti con l’omicidio del presidente Moise (lo scorso 7 luglio), il terremoto e gli uragani Eta e Lota, si è assistito ad una nuova trasformazione dei flussi migratori. Se infatti le carovane migranti avevano sostituito le partenze in solitaria, ora la repressione delle carovane ha portato uomini e donne ad organizzarsi in piccoli gruppi autonomi cambiando anche traiettoria di viaggio: non si muovono più verso Tijuana o Mexicali, ma verso il Coahuila. Senza il clamore della partenza collettiva, i riflettori della stampa, del dibattito politico, la mediazione dei “leader” di carovana, ma con la tutela del gruppo agile, compatto e piccolo, sono riusciti a superare i blocchi di polizia migratoria e Guardia Nazionale in Messico e arrivare a Del Rio, punto di contatto tra lo stato del Coahuila ed il Texas. Il cambio di strategia migratoria ha sorpreso le autorità di Guatemala, Messico e Stati uniti. È bene ricordare che tra gli espulsi la maggioranza sono uomini, donne e minori provenienti dal Centro America. A Tapachula, ormai divenuto il luogo centrale del confinamento dei migranti nel viaggio verso gli Usa, nell’ultima settimana si sono riversati nelle strade circa 800 migranti haitiani al giorno, mentre almeno 12.000 sono quelli che si sono messi in viaggio. Nella piccola città chiapaneca si contano non meno di 125.000 migranti intrappolati dalla repressione poliziesca a fronte di una popolazione locale di poco meno di 200.000 persone. Il rapporto tra Haiti e Stati uniti, in merito alle migrazioni, è certamente particolare e per capirlo occorre guardare indietro, per lo meno al primo governo Obama. Nel 2010, dopo un grave terremoto, il governo statunitense concesse ai cittadini haitiani, per diversi anni, la protezione temporanea e ciò spinse migliaia di persone a partire in cerca di fortuna. Tuttavia, nel 2016 le politiche “obamiane” si indurirono e l’ingresso negli Usa divenne più complesso. Con l’arrivo di Trump migliaia di uomini e donne di Haiti hanno dovuto fermarsi in Messico e costruire delle vere e proprie comunità, come quella di Tijuana che conta alcune migliaia di persone. I flussi migratori dalle isole caraibiche, così come dai paesi a sud del Rio Bravo, non sono certo novità così come non lo è la violenza scomposta con cui i governi Usa rispondono a chi scappa dalle macerie sociali, economiche e ambientali imposte dal neoliberismo e dalle politiche statunitensi. Egitto. Il “Gramsci egiziano” beffa i suoi carcerieri e denuncia il regime Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2021 Lo chiamano l’Antonio Gramsci d’Egitto. E non a caso, il 26 novembre 2019, dalla cella di una prigione ha fatto sapere: “Certo, mi sforzo di applicare la teoria di Gramsci riguardo ‘il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà’, ma qui c’è una tale negazione della volontà che devo fare esercizio di ottimismo della ragione prima di incasinare i miei compagni”. Chi scrive è Alaa Abd el-Fattah, nato a Il Cairo nel 1981, blogger e attivista politico, uno dei protagonisti della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011. Ritenuto da Amnesty International un “prigioniero di coscienza”, è sicuramente il più famoso tra le migliaia di detenuti politici nelle carceri egiziane. Finito in prigione per la prima volta nel 2006, Alaa Abd el-Fattah ha passato gli ultimi sei anni della sua vita praticamente sempre detenuto, costretto a fare a meno dei libri e della carta per scrivere. La voce dal carcere del dissidente egiziano giunge ora in Europa, in Italia e in Inghilterra, con la raccolta dei suoi scritti, Non sei ancora stato sconfitto, pubblicata dalla casa editrice torinese Hopefulmonster (pagg. 192, euro 23), tradotto dall’arabo da Monica Ruocco e con una ricca introduzione di Paola Caridi. Il volume, come si spiega, esce grazie “a una rete internazionale di editor e giornalisti, alla famiglia dell’autore, ad Amnesty International che da anni segue il caso dello scrittore tuttora in carcere, ad Arci e alla collaborazione con l’editore londinese Fitzcarraldo, che pubblicherà contemporaneamente il testo nella traduzione inglese”. Gli scritti di Alaa Abd el-Fattah, sottolineano i curatori, sono “in grado di restituire la drammatica situazione dell’Egitto nelle cui carceri si stima siano reclusi oltre 60.000 detenuti politici e di coscienza, sottoposti a torture, esecuzioni capitali, ingiusto processo e lunghi periodi di detenzione preventiva, in palese violazione dei diritti umani e civili”. A questo combattente per la libertà, l’Egitto di al-Sisi nega la possibilità di leggere e scrivere. Rammenta Paola Caridi: “Assieme alla libertà, carta e penna sono negati ad Alaa Abd el-Fattah anche oggi, al momento della pubblicazione dei suoi scritti nella traduzione italiana. Nella prigione di Tora in cui è rinchiuso, al Cairo, nella prigione in cui ha trascorso sette degli ultimi otto anni, Alaa Abd el-Fattah non ha carta e penna su cui imprimere, nero su bianco, il suo pensiero. Sono gli stessi anni in cui, al potere in Egitto, siede un presidente ed ex generale, Abdel Fattah al-Sisi, il cui incarico poggia su un golpe militare attuato nell’estate del 2013”. Nel paese in cui è stato assassinato Giulio Regeni e incarcerato Patrick Zaki, del resto, la libertà di pensiero e di espressione è considerata terrorismo. Proprio Antonio Gramsci, nel 1928, annotava dalla cella: “Non mi è stato concesso di avere carta e penna a mia disposizione, neppure con tutta la sorveglianza domandata dal capo, dato che passo per essere un terribile individuo, capace di mettere il fuoco ai quattro angoli del Paese o giù di lì”. Come Wole Soyinka, il futuro premio Nobel per la Letteratura messo in isolamento nel 1967 per 28 mesi, per l’opposizione alla guerra nel Biafra, anche il prigioniero di al-Sisi è stato costretto a scrivere su quadretti di carta igienica e pacchetti di sigarette. Dal carcere di Tora, nell’aprile 2017, Alaa Abd el-Fattah ha detto: “Difendete la complessità e la diversità: nessun cambiamento che riguardi la struttura o l’organizzazione di Internet può rendere la mia vita più sicura. Le mie affermazioni online vengono spesso usate contro di me nei tribunali e nelle campagne diffamatorie, ma non è questo il motivo per cui vengo perseguitato. Vengo perseguitato per la mia attività offline. Il mio defunto padre ha scontato una pena simile per il suo attivismo prima che esistesse una rete. Ciò che Internet ha veramente cambiato non è il dissenso politico, ma il dissenso sociale”. Leggere Alaa, osserva Paola Caridi, “una delle menti politiche più lucide che è possibile trovare in tutta la regione araba, è ancor più necessario a noi - italiani ed europei. Per conoscere una dissidenza di cui così poco sappiamo, nonostante l’estrema solidità del suo pensiero”. In un messaggio del 2019, Alaa ha scritto che “chiunque ha governato e governerà il Paese, vuole governare per tutta la vita; e chiunque abbia governato e governerà il Paese vuole mettere in prigione tutti quelli che gli si oppongono”. Per questo motivo, dunque, “siamo tutti potenziali reclusi”. Russia. Nel gelo della Siberia. La santa ortodossa russa Tatiana Grimblit di Donatella Coalova L’Osservatore Romano, 24 settembre 2021 “Sempre / sempre / nella preghiera / sarò un grazie a Te, Signore, / perché la vita è passata / tutta sotto la tua mano. / Ho amato il più possibile; / la mia ricompensa è stata la pace”. Questi versi di Tatiana Nikolaevna Grimblit, composti nel 1931, riassumono bene tutta la sua esistenza. In una terra gelida come la Siberia, in un periodo storico travagliato, devastato dall’odio e dalla violenza, ella fece brillare la calda luce dell’amo - r, andando a cercare le persone che soffrivano di più, i detenuti, per aiutarli con la sua premurosa carità. Continuò la sua nobile missione nonostante le persecuzioni, senza mai stancarsi, fino a sacrificare la sua stessa vita. Per decreto del santo sinodo della Chiesa ortodossa russa, il 17 luglio 2002, è stata annoverata tra i santi. Così questa ardente attivista e delicata poetessa, i cui versi purtroppo non sono ancora mai stati tradotti in italiano, è ora venerata come santa Nuova Martire della Russia. Tatiana Nikolaevna Grimblit nacque a Tomsk, nel sud della Siberia, il 14 dicembre 19°3. Entrambi i suoi genitori, Nikolai Ivanovich Grimblit e Vera Antoninovna Grimblit, erano profondamente credenti. Inoltre la piccola fu segnata dagli insegnamenti e dalla testimonianza di suo nonno, l’arciprete ortodosso Antonin Alexandrovich Misyurov. Ella conservò sempre una memoria commossa della sua infanzia felice, dei giochi con la sorellina e i due fratellini, della sua casa piena di amore, costantemente benedetta dalla soave luce delle candele poste davanti alle sacre icone. In una poesia scrisse: “Oh, i giorni / dei bambini / senza preoccupazioni e dolore / li ricorderò sempre / con dolcezza / e il cuore dirà: sono terminati. / L’anima piangerà il passato”. Tatiana si iscrisse al ginnasio femminile Mariinskij della sua città, dove terminò i suoi studi nel 192o. Proprio in quell’anno morì suo padre, che era stato uno stimato funzionario pubblico. Ella trovò subito lavoro come insegnante in una scuola per bambini, impegnandosi a dare loro un’educazione profondamente cristiana. Ma i tempi erano tragici. I rivoluzionari, giunti al potere, mandavano i loro avversari nei terribili gulag della Siberia. In catene, continuavano a giungere a Tomsk gli oppositori del regime. Mentre tanti si lasciavano avvelenare dall’odio e tanti si chiudevano nell’egoismo e nell’indifferenza, cercando disperatamente di salvare solo se stessi e di sopravvivere alla bufera, Tatiana, a soli 17 anni, decise di dedicarsi ad alleviare le sofferenze dei prigionieri, portando loro del cibo e abiti pesanti. Accompagnava ogni pacco con una lettera piena di parole di incoraggiamento. Chiedeva alle guardie della prigione di consegnare le provvigioni a quei detenuti che non ricevevano sostegno da nessuno. A Tatiana stava a cuore di assistere chi era più solo, si trattasse di carcerati per motivi politici, a causa della fede o per reati comuni. Si inseriva così in una tradizione di misericordia presente da tempo fra gli abitanti della Siberia, documentata fra l’altro dalla lettera in data 22 febbraio 1854 di Fedor Dostoevskij al fratello Michail in cui lo scrittore, raccontando il suo arrivo in catene a Tobolsk, ricordava gli involti di vestiario che gli furono inviati dalle mogli dei decabristi. L’attività di Tatiana tuttavia non fu sporadica, ma sempre più sistematica. Ella cercò di sensibilizzare anche altre persone a quest’opera di carità. Dal canto suo aumentò i sacrifici personali. Interrogata perché conducesse una vita tanto frugale, rispose: “Preferisco vestirmi più modestamente e mangiare più semplicemente e poi usare i soldi risparmiati per inviare qualcosa a chi ha bisogno”. In una fotografia, infatti, la vediamo vestita da contadina, ma l’umile fazzolettone che le copre i capelli non può nascondere l’ovale perfetto del volto, né lo sguardo dolcissimo degli occhi. Pensando a chi soffriva nel gelo dei gulag, scriveva: “Oh, quanto fuoco / ho nella mia anima per riscaldarti”. Spinta da un amore ardente per il Signore, Tatiana mise in piedi una rete di aiuti, con un raggio sempre più vasto di azione. Nel 1923, quando fu necessario recarsi a Irkutsk con un viaggio lungo e faticoso, ella non si tirò indietro, poiché riconosceva il volto di Cristo in quello di ogni sofferente. Ma a Irkutsk la sua attività destò sospetti: fu arrestata, accusata di attività antirivoluzionaria e messa in prigione per quattro mesi. Nel 1925, a gennaio e a maggio, altri due arresti. Nel 1926 le autorità decisero di mandare Tatiana in esilio nel distretto autonomo di Zyryan per tre anni. Di conseguenza, ella dovette lasciare il suo lavoro di insegnante. In data t° luglio 1926 fu portata a Ust-Sysolsk, poi nel remoto villaggio di Ruch. Proprio qui, molto probabilmente, ebbe una serie di preziosi incontri con vescovi e laici esiliati. Per impedire tali rapporti, la spostarono nel Turkestan. “Piccione dolce / vola / di’ alla mia famiglia / che sono molto più vicina / anche se vado dall’altra parte”, scriveva Tatiana. Finalmente, in seguito a un’amnistia, il 16 marzo 1928 poté partire per Mosca. Dopo tante persecuzioni, il suo animo non era affatto spezzato, e anzi ella riprese il servizio a favore dei detenuti con un tale zelo che i suoi contemporanei la dissero emula di san Filarete il Misericordioso. Ma il 14 aprile 1931 fu nuovamente arrestata e condannata a tre anni di lavoro in un campo di concentramento nella regione degli Urali. In questo periodo, con grande sacrificio, ella riuscì a trovare un nuovo modo per aiutare il prossimo: studiò medicina e iniziò a lavorare come paramedico. Rilasciata nel 1932 col divieto di vivere in dodici città dell’Unione Sovietica, scelse Jur’ev - Polskij come suo luogo di residenza. Lavorò con grande zelo come infermiera in questa città, poi a Mosca e in alcuni villaggi della zona, donando quasi tutto ciò che guadagnava per soccorrere i prigionieri. In un quadernetto riversava lo splendore della sua anima, scrivendo poesie vibranti di fede: “Sola / con tutta la mia anima / sulla croce / ti amo. / Per sempre/ nel mio petto / hai versato la bellezza / col tuo richiamo”; “Amore, / con la croce sposata, / mi chiama / avanti, avanti /”; “Con questa coscienza / con la croce sulle spalle / vedete Cristo davanti / coraggiosamente, per la verità. / Il Signore è sempre con noi. / Il mio angelo è puro”; “O Crocifisso, / ti imploro, / dammi la forza di tacere e sopportare. / Sola in una notte buia buia / che io canti canzoni di lode. / Non ho bisogno / di più felicità / voglio solo servire il mio prossimo. / Di notte, mio Salvatore, / voglio lodarti dal profondo del cuore”; “Fuori / passeggiata d’argento / nella natura. / La Sua luce radiosa / illumina l’intero campo”. L’ultimo arresto avvenne il 6 settembre 1937. Proprio quel giorno Tatiana aveva scritto: “Per Dio non solo in prigione, ma anche nella tomba andrò con gioia”. Durante il processo confessò a viso aperto la sua fede. Interrogata sulla croce che portava al collo, rispose: “Per la croce che porto darò la mia testa. Finché sarò viva, nessuno me la rimuoverà. Se qualcuno cerca di rimuovere la croce, la toglierà solo con la mia testa, perché l’ho indossata per sempre”. Il 23 settembre 1937 fu fucilata nel poligono di Butovo, “il Golgota russo”, dove tantissimi ortodossi vennero uccisi. L’H ottobre 1991 la Procura dell’Urss riabilitò la figura di Tatiana Grimblit, riconoscendone la totale innocenza. La giovane martire è oggi una delle sante più venerate in Russia. Nel 2010 la regista Inga Monaenkova le ha dedicato il film Dare tutto. Nello stesso anno è nato in Russia il Servizio dei volontari ortodossi di Santa Tatiana Grimblit che si offrono per l’assistenza dei malati, dei piccoli affetti da tumore e degli anziani.