Le violenze in carcere sono colpa della politica che non fa le riforme di Riccardo Polidoro Il Dubbio, 23 settembre 2021 Droni che portano armi, telefonini e droga che sorvolano gli istituti penitenziari italiani. La criminalità organizzata si è adeguata alle nuove tecnologie e - a dire dei sindacati di polizia penitenziaria - le carceri sono piazze di spaccio dove avere un cellulare o una pistola non è affatto difficile. Ma tutto lascia pensare che non solo dal cielo giunga la “merce proibita”. La maggior parte entra via terra, superando i molteplici filtri posti a garanzia della sicurezza interna e dello stesso Paese. Ritenere, però, che, qualunque sia il mezzo usato, l’ingresso illecito sia dovuto alla cosiddetta sorveglianza dinamica è del tutto fuorviante. Non è impedendo ai detenuti di uscire dalle celle - ma restando comunque all’interno del reparto ovvero a frequentare, nei pochi casi, possibili corsi o laboratori - che s’impediscono attività illecite. Non a caso il detenuto di Frosinone, che ha impugnato una pistola e ha sparato contro altri reclusi che giorni prima l’avevano deriso, era in alta sicurezza e la stanza (cella) in cui era recluso gli veniva aperta per la doccia. Lo Stato deve quanto prima farsi carico di quanto sta avvenendo. Uscendo dall’istituto di Frosinone, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia ha parlato di “fatto gravissimo”. Non vi è dubbio: si tratta di un episodio effettivamente grave, un colpo al cuore alla credibilità delle istituzioni. L’ennesimo! È di pochi mesi fa la “mattanza” a opera degli agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Scene raccapriccianti, da far voltare lo stomaco. E anche lì, subito dopo quanto accaduto, vi è stata - dovuta, ma anche apprezzata - l’immediata presenza dello Stato, in questo caso rappresentato dal presidente del Consiglio Mario Draghi e dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Ancora, nei primi giorni del mese, una detenuta è stata lasciata da sola a partorire nel carcere di Rebibbia: un evento di sicuro non inatteso, solo il caso ha voluto che madre e neonato stiano bene. Un bimbo nato in carcere, dunque, e 26 piccoli ancora ristretti insieme alle loro madri. Al 19 settembre, inoltre, sono 91 i decessi negli istituti di pena e 39 i suicidi. Più di quattro persone al mese si tolgono la vita in carcere. Dinanzi a questo quadro straziante per un Paese civile, non basta certo istituire commissioni, ma occorre agire e subito. Il lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale e delle Commissioni ministeriali per la riforma, durato più di due anni, pur completato e perfezionato con l’elaborazione di schede e di decreti, è stato utilizzato in maniera irrisoria e poco efficace. L’impegno di centinaia di addetti ai lavori - tra i quali docenti, magistrati, garanti, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria e molti avvocati dell’Unione delle Camere penali italiane - non ha trovato il giusto riscontro. La politica ha ancora una volta dimostrato il suo disinteresse per una seria riforma e, pur in presenza di una delega del Parlamento al Governo, non ha ritenuto d’intervenire concretamente. C’è un lavoro già fatto in attesa solo di essere tramutato in legge, mentre oggi assistiamo alla nomina di un’ennesima Commissione che di fatto ha la stessa “mission” delle precedenti. Ci vengono in mente le parole di un illustre giurista: le carte delle Commissioni restano cibo per i topi degli scantinati del Ministero. Oltre un intervento legislativo, occorrono immediate risorse umane ed economiche e comprendere che va rivista la struttura del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai cui vertici, da sempre, sono nominati magistrati spesso lontani da un’esperienza manageriale e di recupero sociale, ma con una cultura esclusivamente securitaria. Anni e anni di fallimenti non hanno fatto invertire la rotta. Il carcere va ripensato e ridimensionato. La nuova esecuzione penale deve puntare su nuove modalità di pena e sull’incremento delle misure alternative, come ci ha indicato la Corte europea dei diritti dell’uomo e come lo stesso Parlamento italiano aveva specificato nella legge delega al Governo. L’obiettivo dev’essere un’esecuzione penale allineata ai principi costituzionali, dove la responsabilizzazione del condannato e il suo reinserimento sociale sono lo scopo primario da raggiungere. La ministra della Giustizia Marta Cartabia l’ha affermato più volte, noi vogliamo crederci e, come sempre, l’avvocatura s’impegnerà affinché ciò avvenga. Carceri colabrodo, dal cielo piovono armi. Sui droni cinque anni di allarmi ignorati di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 23 settembre 2021 In cella arrivano droga, cellulari e pistole, come è successo domenica a Frosinone. La protesta dei sindacati: “Quando si svegliano i vertici del Dap e il ministero?”. Ci sono giorni in cui il carcere di Frosinone sembra un aeroporto di provincia: sei, sette voli di droni ronzanti che recapitano alle mani protese dalle finestre coltelli, microtelefonini, eroina. Domenica scorsa una semiautomatica calibro 7.65. Il detenuto Alessio Peluso detto “o’niro”, 28 anni, ritenuto essere l’esattore del clan Lo Russo, ha afferrato la pistola attraverso una rete di protezione sgangherata. Prima l’ha puntata contro un poliziotto per farsi consegnare le chiavi di due celle che non è riuscito ad aprire. Poi, attraverso la feritoia, ha sparato all’interno contro tre uomini (un albanese e due campani, tra cui Gennaro Esposito, figura emergente dei trafficanti di droga sulla piazza di Roma e vicino a “Diabolik” Fabrizio Piscitelli) che lo avevano picchiato qualche giorno prima. Infine, come se tutto fosse normale, ha estratto dalla tasca un cellulare. “Avvocato, ho sparato a quei tre. Sono venute le guardie. Ora che faccio?”. 5 anni di allarmi inascoltati - È la prima volta che una rivoltella piove dal cielo dentro un penitenziario, e se non siamo qui a raccontare una strage è solo perché Peluso ha qualche problema con le serrature. Ma nessuno può sostenere che quanto accaduto nella casa circondariale di Frosinone (513 posti, 526 detenuti) non fosse prevedibile e, dunque, evitabile. Repubblica ha consultato documenti del ministero della Giustizia dai quali viene fuori che da almeno cinque anni negli uffici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) si accumulano allarmi e segnalazioni di droni-corriere. Eppure - con l’esclusione di un progetto sperimentale di “contraerea” a Rovigo - dal 2016 niente di concreto è stato fatto per bloccare un fenomeno che, stando a quanto denunciano magistrati antimafia e gli stessi sindacati della Penitenziaria, è diventato un’emergenza. Che affligge, al pari del sovraffollamento e dell’organico ridotto (mancano 17.000 agenti), il sistema carcerario italiano. Telefonini nei salami - Quest’anno nelle celle e nelle sezioni di isolamento sono stati trovati quasi 200 cellulari al mese, 6 al giorno. Nel 2020 i poliziotti ne avevano sequestrati 1.761, nel 2019 1.206, una trentina nel 2018. Numeri che disegnano la preoccupante parabola ascendente. Chi pilota i droni utilizza talvolta dei diversivi per evitare di essere intercettato, come si è visto a Taranto nell’ottobre di due anni fa: mentre venivano trasportati dei microtelefonini e dei wurstel infarciti di droga in una stanza al terzo piano del carcere, i complici facevano esplodere fuochi d’artificio all’esterno delle mura. A Poggioreale hanno fermato un drone con sei cellulari appesi. Ma è niente rispetto al clamore che ha suscitato, nel novembre del 2019, la scoperta che Giuseppe Gallo detto Peppe “o’pazzo”, boss di camorra, usava serenamente tre smartphone nella sua cella di massima sicurezza in regime di 41 bis nel carcere di Parma. Non era mai accaduto prima. Se un capoclan può comunicare con il mondo dei liberi, è come se non fosse detenuto. L’indagine sulla modalità con cui sono stati introdotti i tre telefoni è quasi conclusa. La lunga teoria di episodi simili, però, fa pensare a canali diversi rispetto ai colloqui con i familiari o a qualche agente della Penitenziaria colluso. I droni, appunto. La riunione ignorata - Come ha fatto il fenomeno a moltiplicarsi in meno di tre anni? È la domanda che si fanno i principali procuratori distrettuali italiani in una riunione cruciale che si tiene alla fine del 2019 presso la Direzione nazionale antimafia, a Roma. Partecipano, tra gli altri, il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho e l’allora numero uno del Dap, Francesco Basentini. È a Basentini che i magistrati chiedono un intervento immediato e diretto. Le partite sul tavolo sono due: le schermature delle carceri, in modo da rendere inutilizzabili i cellulari. E la predisposizione di un sistema - già utilizzato negli Stati Uniti e in Francia, dove il problema è assai sentito - per intercettare i droni prima dell’atterraggio e individuarne i piloti. Nel 2014 attrezzare un istituto come Rebibbia sarebbe costato intorno al milione di euro, adesso con 300 mila si riuscirebbe. Ma non se ne fa nulla. L’amministrazione non investe. Le ultime promesse - Il 17 luglio del 2020 è il Gom, il Gruppo operativo mobile, che dopo il caso di Peppe “o Pazzo” propone un progetto in tre step con rilevatori di segnale gsm per neutralizzare il funzionamento dei telefonini. Anche in questo caso, niente. E arriviamo a domenica scorsa, alla sparatoria di Frosinone. “Cosa deve succedere ancora affinché i vertici del Dap e il ministro della Giustizia si sveglino?”, si chiede Donato Capece, sindacalista del Sappe. “Cinque anni di silenzio sono una vergogna”, gli fa eco Gennarino De Fazio, della Uil. Dice il capo del Dap, Dino Petralia, dopo i fatti di Frosinone: “Il sistema dei droni è il più attuale e pericoloso. Ora si tratta di vagliare i costi e dare inizio alle procedure amministrative di acquisto”. Nel frattempo, occhio al cielo. Estradare o trasferire i detenuti stranieri: non c’è automatismo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2021 La Cassazione ha accolto l’opposizione di un albanese che verserebbe in condizioni di salute compromesse, non valutate dalla Corte di appello di Roma che non ha neanche acquisito notizie sulla detenzione nel suo Paese. Da sempre, cavallo di battaglia delle destre, dalla Lega al Movimento 5Stelle, è quello di espellere i detenuti stranieri e mandarli a far scontare il carcere nel loro Paese di origine. “Un rimedio per sfoltire i nostri penitenziari”, si dice sempre. Ma lo slogan rimane solo uno slogan. In realtà non può essere un automatismo. La materia dell’estradizione ha le sue regole, ed è disciplinata nell’ordinamento italiano, dalla Costituzione, dalla legge ordinaria, dalle Convenzioni internazionali e dalle norme di Diritto internazionale generale. Prendiamo il caso della recente sentenza numero 29224 di quest’anno. Il cittadino albanese Klement Mece, attraverso il proprio difensore, ha chiesto alla Cassazione di annullare la sentenza della Corte di appello di Roma del 27 aprile scorso, che ha dichiarato l’esistenza delle condizioni per la sua estradizione, richiesta dall’Albania per l’esecuzione della sentenza irrevocabile di condanna alla pena di quattro mesi di reclusione, per il delitto di furto, inflittagli con sentenza del Tribunale di primo grado di Tirana del 12 luglio 2019. Due sono le doglianze proposte dal ricorrente. Quella ritenuta fondata dalla Cassazione riguarda il fatto che l’albanese verserebbe in condizioni di salute particolarmente compromesse, che rendono necessaria l’assunzione di terapie complesse e costose, in mancanza delle quali si troverebbe esposto al rischio di conseguenze di eccezionale gravità; ma, a fronte della relativa deduzione, debitamente documentata, la sentenza impugnata si è limitata ad affermare l’insussistenza di condizioni di salute incompatibili con l’estradizione, senza tuttavia spiegarne le ragioni. Per la Cassazione, questo rilievo è fondato. In materia di estradizione per l’estero, la Corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, le circostanze allegate dall’interessato in merito al rischio di sottoposizione a un trattamento inumano o degradante, acquisendo informazioni individualizzate sul regime di detenzione che sarà riservato all’estradando, e valutando, oltre alle condizioni generali di detenzione esistenti nelle carceri dello Stato richiedente, anche le condizioni di salute e di età dell’estradando. Nello specifico, la Corte d’appello dà atto in sentenza della produzione difensiva di documentazione attestante problematiche di salute dell’interessato di sicuro rilievo (dal momento che ivi si legge di un’accertata compromissione della capacità lavorativa nella misura dell’85 percento), ma si limita ad osservare che “le condizioni di salute del soggetto non appaiono certo incompatibili con la eventuale di lui estradizione”, senza però aver compiuto alcun accertamento e senza spiegare le ragioni per le quali giunge a tale determinazione. Questo riguarda un esempio sull’estradizione. Altra cosa ancora è la procedura del trasferimento delle persone condannate, in base alla quale un condannato che sta già scontando la pena in un Paese viene trasferito in altro, quello d’origine, per proseguire e terminare l’esecuzione della pena.Una procedura che opera su un piano diverso rispetto all’estradizione: persegue, infatti, finalità prevalentemente di carattere umanitario, nel senso che mira a favorire, in determinati casi, il reinserimento sociale delle persone condannate, avvicinandole al Paese d’origine, in modo da superare tutte quelle difficoltà che, su un piano personale, sociale e culturale, oltreché per l’assenza di contatti con i familiari, possono derivare dall’esecuzione della pena in un Paese straniero. Viene pensare da sé, che anche in questo caso vale il vaglio delle condizioni carcerarie del Paese di origine. Non c’è, appunto, alcun automatismo. Ingiusta detenzione, la Corte dei Conti: “Stop al doppio binario per gli indennizzi” Il Dubbio, 23 settembre 2021 Per la magistratura contabile, bisogna impedire “il possibile cumulo delle azioni da cui potrebbe conseguire una duplicazione della spesa” per ingiusta detenzione e responsabilità civile dei magistrati. Nel triennio 2017-2019 è stato rilevato un progressivo aumento della spesa pubblica, in termini di impegni di competenza, per i casi di errori giudiziari/ingiusta detenzione; nel 2020 si è invece registrata una diminuzione. In particolare, mentre nell’anno 2019 (48.799.858,00 euro) la spesa era risultata aumentata più del 27% rispetto al 2017 (38.287.339,83 euro), nel 2020 l’importo complessivo (43.920.318,91 euro) è risultato superiore a quello del 2017 ma inferiore a quelli del 2018 e 2019. È quanto rileva la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti nella Relazione su “Equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari”, che ricorda come la riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione sia prevista dagli artt. 314 e 315 del codice di procedura penale. La disciplina si applica anche ai casi di errore giudiziario regolati dall’art. 643. Tale istituto, spiega la Corte dei Conti, “rappresenta il riconoscimento, a livello normativo, del principio di civiltà giuridica e di attuazione dei valori di un ordinamento democratico in virtù del quale chi sia stato privato ingiustamente della libertà personale ha diritto ad una congrua riparazione per i danni materiali e morali patiti”. Dall’indagine, sviluppata dalla Sezione del controllo esaminando un campione di ordinanze irrevocabili, “è emersa, tuttavia, una difforme applicazione dei criteri di liquidazione di tali ristori da parte delle Corti d’appello. Questo suggerisce l’opportunità di un monitoraggio del ministero della giustizia per l’acquisizione dei provvedimenti giudiziari per i quali si potrebbero prefigurare indennizzi”. Attualmente, osserva la magistratura contabile, “né la normativa speciale, né il codice di procedura penale, prevedono norme di coordinamento tra la disciplina dell’indennizzo per ingiusta detenzione ex art. 314 e 315 cpp e quella di cui alla legge n. 117/1988 relativa a “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”, che, se introdotte, impedirebbero il possibile cumulo delle azioni da cui potrebbe conseguire una duplicazione della spesa per indennizzo e risarcimento del danno”. E conclude: “Poiché anche in ambito europeo sussiste un disallineamento delle tutele previste dai vari Stati per i ristori economici a fronte delle ingiuste detenzioni, la Corte ritiene auspicabile l’attivazione di iniziative dirette alla tendenziale equiparazione dei criteri della loro quantificazione, in considerazione dei riflessi finanziari della sempre più frequente “circolazione” dei provvedimenti giudiziari nell’ambito dell’Unione europea”. Riforma del processo penale, ddl Cartabia al voto finale al Senato per archiviare Bonafede di Antonio Lamorte Il Riformista, 23 settembre 2021 È il momento del Senato, del voto finale sul provvedimento che ha diviso e sfilacciato la maggioranza, sulla riforma del Processo Penale. Palazzo Madama ieri ha approvato la fiducia ai primi due articoli della riforma: il primo che definisce i contorni della delega al governo; il secondo che modifica il codice penale e quello di procedura penale. Approvati rispettivamente con 208 sì e 28 no e con 200 sì e 27 no. La riforma Marta Cartabia a un momento decisivo dunque, frutto di una lunga mediazione all’interno della maggioranza. Il voto finale comincia oggi alle 9:30 a Palazzo Madama. Il provvedimento pone nuovi pilastri al processo penale: con l’Unione Europea che incalza e le nuove norme che dovranno entrare gradualmente in funzione per dare la possibilità agli uffici di adeguarsi e organizzarsi. Si va dalla prescrizione al “regime speciale” per alcuni reati, dal principio di improcedibilità ai criteri di priorità per l’azione penale affidati al Parlamento. L’obiettivo principale è velocizzare i tempi dei processi, attraverso un ricorso maggiore ai riti alternativi, e un’introduzione della “giustizia riparativa”. Tutto frutto di una lunga e complessa negoziazione all’interno della maggioranza e che andrà a modificare il ddl Bonafede, da oltre un anno in commissione. Sarà immesso anche nuovo personale, oltre 20mila unità, secondo l’ultima intesa raggiunta in Consiglio dei ministri sul meccanismo e improcedibilità inserito nella riforma. L’entrata graduale si baserà su una transizione fino al 2024 e un regime speciale per reati di mafia, terrorismo, droga e violenza sessuale. Con richiesta del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà sono state poste due questioni di fiducia sui due articoli che riguardano la riforma del processo penale. Protesta in aula con palloncini rossi, blu e gialli gonfiati a elio, con la scritta “vergognatevi”, di Alternativa C’è nel corso della discussione generale sul ddl. La norma sulla prescrizione dispone che “il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. Nondimeno, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento”. La riforma riguarda solo i reati commessi dopo l’1 gennaio 2020; entra in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge. Andrà a regime nel 2025. In appello, i processi potranno durare fino a 2 anni di base, più una proroga di un anno al massimo. In Cassazione, 1 anno di base, più una proroga di sei mesi. L’improcedibilità avrà tempi più lunghi in un primo momento: per i primi 3 anni, entro il 31 dicembre 2024, i termini saranno più lunghi per tutti i processi (3 anni in appello, un anno e mezzo in Cassazione), con possibilità di proroga fino a 4 anni in appello (3+1 proroga) e fino a 2 anni in Cassazione (un anno e 6 mesi + 6 mesi di proroga) per tutti i processi in via ordinaria. A motivare ogni proroga dovrà essere un’ordinanza del giudice, contro la quale si potrà presentare ricorso in Cassazione. Il regime diverso, quello per reati di mafia, terrorismo, droga e violenza sessuale non pone un limite massimo di proroghe, sempre da motivare dal giudice. Previste due proroghe ulteriore per l’aggravante mafiosa. Esclusi dalla disciplina dell’improcedibilità i reati puniti con l’ergastolo. Gli uffici del pubblico ministero dovranno individuare priorità trasparenti e predeterminare, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure, per selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. Piccola rivoluzione ance per giornali e web: dovranno essere cancellate tutte le notizie dei procedimenti penali instaurati a carico di persone indagate o imputate e quindi assolte attraverso la “deindicizzazione” delle news dopo assoluzione o proscioglimento. Introdotto l’obbligo di arresto in flagranza per i reati di violazione di provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati da un ex. Un apposito Comitato Tecnico Scientifico istituito presso il Ministero di Giustizia si occuperà dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi dei processi. Risultati del monitoraggio che saranno trasmessi al Consiglio Superiore della Magistratura. Delegato il governo a disciplinare in modo organico la Giustizia riparativa nel rispetto di una direttiva europea nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Alti capitoli riguardano la digitalizzazione della Giustizia penale, il patteggiamento e il giudizio abbreviato. Ddl penale, il governo incassa il doppio voto di fiducia al Senato di Davide Varì Il Dubbio, 23 settembre 2021 Il Senato ha approvato la fiducia posta dal governo sull’articolo 1 del ddl penale. I voti favorevoli sono stati 208, quelli contrari 28. Il governo ha incassato la fiducia anche sull’articolo 2 del disegno di legge delega sulla riforma del processo penale con 200 voti favorevoli e 27 contrari. Il voto finale sul provvedimento si svolgerà nella seduta di domani mattina al Senato. Nessuna sorpresa dai tabulati: scorrendo i nomi dei senatori al voto, l’asse di governo ha retto, diversamente da quanto successo alla Camera sul green pass, sia ieri che oggi, con le defezioni leghiste, che sono state, questa mattina a Montecitorio, pari a più di un terzo degli eletti (51 su 132). Alla Camera si votava la norma che introduce il green pass per scuola e trasporti. Tra i nomi degli assenti i deputati Claudio Borghi, Lorenzo Fontana, Andrea Crippa, Raffaele Volpi, Alessandro Pagano, Barbara Saltamartini. Musica diversa al Senato, sul tema della riforma della Giustizia. Per quanto riguarda il primo voto di fiducia, i favorevoli sono stati 208, mentre i contrari (28) si contano tra Fdi e gruppo misto. Nelle file leghiste erano presenti al voto 52 senatori su 64, di cui 11 assenti giustificati, in quanto in missione autorizzata. Sul versante Cinque Stelle solo 1 assente non giustificato, a fronte di 57 presenti, su 74 eletti. Numeri analoghi anche per il secondo voto di fiducia, con qualcuno che aveva già lasciato l’Aula dopo il primo voto. Dalla prescrizione al “regime speciale” per alcuni reati, dal principio della improcedibilità fino ai criteri di priorità per l’azione penale, affidati al Parlamento: sono questi i punti cardine della riforma del processo penale targata Cartabia, frutto di una lunga quanto difficile mediazione all’interno della maggioranza. La riforma è composta da due parti: la prima con norme immediatamente operative, la seconda contiene invece una delega al governo. Le nuove norme vanno a modificare in gran parte il ddl Bonafede, che “giaceva” da oltre un anno in commissione. L’impostazione complessiva della riforma, così come voluta dalla ministra Cartabia, mira a velocizzare i tempi dei processi, andando ad agire anche sui riti alternativi. Viene poi introdotto il principio della “giustizia riparativa”. In base all’ultima intesa raggiunta in Cdm sul meccanismo di prescrizione e improcedibilità inserito nella riforma del processo penale, è prevista una entrata in vigore graduale delle nuove norme, per permettere agli uffici giudiziari di mettere a punto adeguate misure organizzative, anche grazie all’immissione di nuovo personale (oltre 20mila unità). L’accordo prevede norme transitorie fino al 2024 e un regime speciale per i reati di mafia, terrorismo, droga e violenza sessuale. La norma dispone che “il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. Nondimeno, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento”. La riforma riguarda solo i reati commessi dopo l’1 gennaio 2020; entra in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge. La riforma va a regime nel 2025.In appello, i processi possono durare fino a 2 anni di base, più una proroga di un anno al massimo. In Cassazione, 1 anno di base, più una proroga di sei mesi. In un primo periodo i termini previsti per la improcedibilità saranno più lunghi. Per i primi 3 anni, entro il 31 dicembre 2024, i termini saranno più lunghi per tutti i processi (3 anni in appello, un anno e mezzo mesi in Cassazione), con possibilità di proroga fino a 4 anni in appello (3+1 proroga) e fino a 2 anni in Cassazione (un anno e 6 mesi + 6 mesi di proroga) per tutti i processi in via ordinaria. Ogni proroga deve essere motivata dal giudice con un’ordinanza, sulla base della complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto e per numero delle parti. Contro l’ordinanza di proroga, sarà possibile presentare ricorso in Cassazione. Di norma, è prevista la possibilità di prorogare solo una volta il termine di durata massima del processo. Solo per alcuni gravi reati, è previsto un regime diverso: associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti. Per questi reati non c’è un limite al numero di proroghe, che vanno però sempre motivate dal giudice sulla base della complessità concreta del processo. Fortemente voluta dai 5 stelle, la norma è stata inserita durante la fase finale della mediazione in occasione dell’esame alla Camera. Sono previste fino a due proroghe ulteriori, oltre a quella prevista per tutti i reati. Quindi nel complesso fino a 3 proroghe di un anno in appello. Ciò significa massimo 6 anni in appello e massimo 3 anni in Cassazione nel periodo transitorio (fino al 2024), che diventano massimo 5 anni in appello e massimo 2 anni e mezzo in Cassazione a regime (cioè a partire dal 2025).I reati puniti con l’ergastolo restano esclusi dalla disciplina dell’improcedibilità. Gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge del Parlamento, dovranno individuare priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. La norma è stata inserita durante l’esame in commissione alla Camera, con un emendamento riformulato di Azione. Dovranno essere cancellate dal web tutte le notizie dei procedimenti penali instaurati a carico di persone che sono state indagate o imputate e poi risultate innocenti, attraverso la deindicizzazione delle notizie di reato in seguito ad assoluzione o proscioglimento. La norma è stata inserita durante l’esame in commissione a Montecitorio attraverso l’ok a un emendamento di Italia viva. Diventa obbligatorio l’arresto in flagranza per i reati di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati da una ex. introdurre. Viene introdotta una “stretta” sulle indagini cosiddette “fumose”, ovvero che non danno la certezza di terminare con una sentenza di condanna. Si tratta di una delle 26 proposte di modifica della ministra Cartabia che hanno incassato l’ok del Cdm lo scorso 8 luglio. In sostanza, si stabilisce che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna. Si rimodulano i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. Inoltre, alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, fatte salve le esigenze specifiche di tutela del segreto investigativo, si prevede un meccanismo di discovery degli atti, a garanzia dell’indagato e della vittima, anche per evitare la prescrizione del reato associato a un intervento del giudice per le indagini preliminari in caso di stasi del procedimento. Si prevede che un apposito Comitato tecnico scientifico istituito presso il ministero della Giustizia ogni anno riferisca in ordine all’evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi. Il Comitato monitora l’andamento dei tempi nelle varie Corti d’appello e riferisce al ministero, per i provvedimenti necessari sul fronte dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi. I risultati del monitoraggio saranno trasmessi al Csm, per le valutazioni di competenza. Si introduce la “giustizia riparativa”, norma fortemente voluta dalla Guardasigilli Cartabia. In sostanza si delega il governo a disciplinare in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto di una direttiva europea (2012/29/Ue) e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. Si delega il Governo a rendere più efficiente e spedita la giustizia penale attraverso la digitalizzazione e le tecnologie informatiche. Si prevede tra l’altro che il deposito degli atti e le notifiche possano essere effettuate per via telematica, con notevole risparmio di tempo. Sul patteggiamento si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni (c.d. patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. Quanto al giudizio abbreviato si prevede, tra l’altro, che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Inoltre nel caso di mutamento del giudice o del collegio in un giudizio ordinario, si prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Riforma penale, il Governo pone la fiducia: taglio dei tempi (-20%) e giustizia riparativa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2021 Il voto finale atteso per giovedì mattina. Il Ddl è stato già approvato dalla Camera. Istituito un Osservatorio presso il Ministero per monitorare lo smaltimento dell’arretrato e i tempi di definizione dei processi. Il Governo ha posto in Senato due questioni di fiducia sui due articoli che costituiscono la riforma del processo penale. La richiesta è stata fatta dal ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. I due appelli nominali si svolgeranno in giornata, mentre il voto finale sul provvedimento avverrà domani mattina. Il DDl riforma processo penale è stato già approvato già dalla Camera. Ricordiamo che si tratta, per gran parte, di una legge delega, che il Governo dovrà attuare con uno o più decreti legislativi entro un anno dall’entrata in vigore. La riforma è stata dettata dalla necessità di rispettare gli impegni presi con l’Europa, ossia la riduzione del 25% del disposition time (durata media dei processi) per il penale (ricordiamo invece che nel civile l’obiettivo è del 40%). L’Italia, infatti, ha il triste record nella lunghezza dei processi. È il primo Paese nell’area del Consiglio d’Europa, per condanne per irragionevole durata dei proessi: 1202 condanne dal 1959 (data di avvio di attività della Corte di Strasburgo) ad oggi; al secondo posto, la Turchia doppiata con 608, Francia (284), Germania (102) e GB (30), Spagna (16). Cambia la prospettiva: il pm chiede il rinvio a giudizio, solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Il punto di partenza è la percentuale molto alta di assoluzione in primo grado. (pari a circa il 40%). Digitalizzazione e processo penale telematico - deposito atti e notificazioni. Rendere più efficiente e spedita la giustizia penale attraverso la digitalizzazione e le tecnologie informatiche; il settore penale è più indietro rispetto al settore civile. Si prevede tra l’altro che il deposito degli atti e le notificazioni possano essere effettuate per via telematica, con notevole risparmio di tempi (il meccanismo delle notificazioni è farraginoso e dispendioso). Termini di durata delle indagini - Rimodulati i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. In caso di stasi del fascicolo, si prevede l’intervento del gip, che induca il pm a prendere le sue decisioni. Discovery: alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, fatte salve le esigenze specifiche di tutelare il segreto investigativo, si conferma il meccanismo di discovery degli atti, già previsto nel ddl Bonafede. È garanzia per l’indagato di non restare sotto indagine troppo a lungo; e garanzia per la vittima di dare un impulso al fascicolo fermo, anche per evitare la prescrizione del reato. Recentemente, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per irragionevole durata delle indagini preliminari (Petrella vs Italia, 18 marzo 2021). Criteri di priorità - Si prevede che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, individuino priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure, da sottoporre al CSM. Effetti dell’iscrizione della notizia di reato - In linea con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, si prevede che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato n on può determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. Udienza preliminare - L’udienza preliminare ha mostrato avere una scarsa capacità di filtro, pari al 10%; allunga la durata del giudizio di primo grado, in media, di 400 giorni. Si propone di limitarne la previsione a reati di particolare gravità e, parallelamente, di estendere le ipotesi di citazione diretta a giudizio. Il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere, quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Appello - Confermate le proposte del Ddl Bonafede, quanto ad alcune limitate ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado (es proscioglimento in caso di reati puniti con pena pecuniaria). Resta in via generale la possibilità - tanto del pm, quanto dell’imputato - di presentare appello contro le sentenze di condanna e proscioglimento. Si recepisce un principio giurisprudenziale (SU Galtelli, 2017): inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Cassazione - Si introduce un nuovo mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Cassazione, per dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e riaffermare così i diritti violati. Trattazione dei ricorsi con contradditorio scritto, salva la richiesta di discussione orale in pubblica udienza o camera di consiglio partecipata. È la strada già sperimentata con successo durante l’emergenza covid. Procedimenti speciali - a)Patteggiamento: Si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera due anni (c.d. patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. b)G iudizio abbreviato: Si prevede tra l’altro che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione. c) Mutamento del giudice o del collegio: Si prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Querela - Si estende la querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni, salva la procedibilità d’ufficio, se la vittima è incapace per età o infermità. Pena pecuniaria - Punto di partenza: i tassi di esecuzione e di riscossione della pena pecuniaria sono bassissimi, con perdite enormi per l’Erario; la funzione preventiva della pena è vanificata. Anche a seguito di un monito della Corte Costituzionale, si delega il Governo a razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie; a rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato; a prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione e conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento. Pene sostitutive delle pene detentive brevi - Punto di partenza: oggi, chi riporta una condanna entro i 4 anni di pena detentiva può chiedere, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, entro 30 giorni dalla sospensione dell’ordine di carcerazione, una misura alternativa alla detenzione (semilibertà, domiciliari, affidamento in prova ai servizi sociali). Oggi, in attesa del giudizio del magistrato di sorveglianza, il condannato non va in carcere, ma neanche inizia a scontare la pena alternativa. È la condizione dei cosiddetti “liberi sospesi”. Per evitare questa situazione di limbo, con la riforma si trasformano alcune misure alternative, attualmente di competenza del Tribunale di Sorveglianza, in sanzioni sostitutive delle pene detentivi brevi, direttamente irrogabili dal giudice della cognizione. In questo modo, si dà anche maggiore effettività all’esecuzione della pena. Le pene sostitutive sono delle vere e proprie pene, anche se non comportano la detenzione in carcere: semilibertà, detenzione domiciliare, lavori di pubblica utilità e pene pecuniarie. Si tratta di pene non sospendibili. Particolare tenuità del fatto - Per evitare di celebrare processi per fatti bagatellari (come nel caso del furto di una melanzana da un campo, che ha occupato anche la Cassazione), si estende l’ambito di applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., che nella prassi ha avuto una felice applicazione, specie in fase di archiviazione. A tal fine si interviene in due direzioni: a) si prevede come limite all’applicabilità della disciplina dell’articolo 131-bis del codice penale, in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria (si potrà applicare la disposizione, ad esempio, al furto in supermercato di generi alimentari di modico valore); b) si delega il Governo ad ampliare conseguentemente, se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica, il novero delle esclusioni, cioè delle ipotesi in cui, ai sensi del secondo comma dell’articolo 131-bis del codice penale, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità. Sono esclusi i reati di violenza contro le donne, previsti dalla convenzione di Istanbul; c) si prevede che venga dato rilievo alla condotta susseguente al reato (es., alla riparazione del danno) ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa. Sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (art. 168 bis cp) - Si propone di estendere l’ambito di applicabilità a specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, che si prestino a percorsi di riparazione. Si prevede che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pm. (la norma è stata introdotta nel 2014; al 15 giugno 2021, le persone già in messa alla prova, quindi con procedimento sospeso, erano 22.271, pari a 1/3 di tutte le persone che a vario titolo si trovavano in esecuzione penale esterna. L’affidamento comporta la prestazione di lavoro di pubblica utilità e la partecipazione a percorsi di giustizia riparativa. Giustizia riparativa - Si delega il Governo a disciplinare in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto di una direttiva europea (2012/29/Ue) e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Il percorso di riconciliazione tra vittima e reo - sempre su base volontaria - viene valorizzato nelle diverse fasi del processo e dell’esecuzione della pena. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. Prevede che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato sia nel processo penale che in fase esecutiva. Un fallimento del programma non produce effetti negativi per autore e vittima. Si disciplina la formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa; si prevede la formazione e l’accreditamento di mediatori esperti, presso il Ministero della Giustizia. Disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni - Si conferma la proposta del Ddl 2435 (estinzione per adempimento prescrizioni autorità amministrativa). Vittime di reato - Si delega al Governo a definire la vittima del reato come la persona fisica che ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato. (Si introduce per la prima volta la definizione giuridica di vittima, che mancava). La delega prevede che venga considerata vittima del reato anche il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona. Violenza di genere - Si propone inoltre di estendere la portata delle norme introdotte con la legge sul Codice rosso, in tema di violenza domestica e di genere (l. n. 69/2019) al tentato omicidio e, in genere, ai delitti commessi in forma tentata (es. violenza sessuale). Si tratta di modifiche imposte dall’esigenza di conformarsi al diritto UE. Si prevede l’arresto obbligatorio in flagranza, per chi viola il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima. (in caso ad es. di maltrattamenti o stalking. Ora non era previsto l’arresto obbligatorio e quindi chi violava il divieto restava in libertà, con maggiore rischio di reiterare il reato). Improcedibilità (art. 2) - La riforma riguarda solo i reati commessi dopo 1° gennaio 2020; entra in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge. La riforma entra in vigore gradualmente, per consentire agli uffici giudiziari di organizzarsi; anche tenendo conto dell’arrivo dei 16.500 assistenti dei magistrati, previsti dall’Ufficio del processo; e delle circa 5mila assunzioni per il personale amministrativo. Norma transitoria, fino al 2024 - Per i primi 3 anni, entro il 31 dicembre 2024, i termini saranno più lunghi per tutti i processi (3 anni in appello; 1 anno e 6 mesi in Cassazione). Con possibilità di eventuale proroga (1 anno in appello, 6 mesi in Cassazione). Totale, fino a 4 anni in appello (3+1 proroga); e fino a 2 anni in Cassazione (1 anno e 6 mesi + 6 mesi di eventuale proroga) per tutti i processi in via ordinaria; Ogni proroga deve essere motivata dal giudice con ordinanza, sulla base della complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto e per numero delle parti. Contro l’ordinanza di proroga, sarà possibile presentare ricorso in Cassazione. Di norma, è prevista la possibilità di prorogare solo una volta il termine di durata massima del processo. Solo per alcuni gravi reati, è previsto un regime diverso: associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti. Per questi reati, non c’è un limite al numero di proroghe, che vanno però sempre motivate dal giudice sulla base della complessità concreta del processo. Per i reati con aggravante del metodo mafioso, oltre alla proroga prevista per tutti i reati, ne sono previste come possibili ulteriori due (massimo 3 anni di proroga) sia in appello che in Cassazione. Per 416 bis.1 (aggravante mafiosa) fino a due proroghe ulteriori, oltre a quella prevista per tutti i reati. Quindi nel complesso fino a 3 proroghe di un anno in appello. Ciò significa max 6 anni in appello e max 3 anni in Cassazione nel periodo transitorio (fino al 2024), che diventano max 5 anni in appello e max 2 anni e mezzo in Cassazione a regime (dal 2025). I reati puniti con l’ergastolo restano esclusi dalla disciplina dell’ improcedibilità. Dopo il 2024, a regime - In appello, i processi possono durare fino a 2 anni di base, più una proroga di un anno al massimo. In Cassazione, 1 anno di base, più una proroga di sei mesi. Binario sempre diverso, per reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e mafiosa, senza limiti di proroghe, ma sempre motivate dal giudice e sempre ricorribili per Cassazione. E binario diverso per reati con aggravante mafiosa (416bis.1/comma 1), con massimo 2 proroghe in appello (ciascuna di un anno e sempre motivata) e massimo 2 proroghe in Cassazione (ciascuna di 6 mesi e sempre motivata). Osservatorio - Si prevede che un apposito Comitato tecnico scientifico istituito presso il Ministero della Giustizia ogni anno riferisca in ordine all’evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi. Il Comitato monitora l’andamento dei tempi nelle varie Corti d’appello e riferisce al Ministero, per i provvedimenti necessari sul fronte dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi. I risultati del monitoraggio saranno trasmessi al Csm, per le valutazioni di competenza. In appello, in 19 distretti su 29, la durata media è già inferiore ai 2 anni. (A Milano, è inferiore ad un anno: 335 giorni la media dell’appello; Genova, 680 gg; Palermo, 445 gg; Perugia, 430; Potenza, 699; Salerno, 340; Torino, 545 gg;). Ci sono 3 distretti con tempi medi del giudizio di appello di poco superiori ai 2 anni (Bari, 813 gg; Bologna, 823 giorni; Firenze, 745 gg.). Sette distretti registrano tempi superiori alla media: Napoli, 2.031 gg; Reggio Calabria, 1.645; 1.247 Catania; 1.111 Lecce; 1.142 Roma; 1.028 Sassari; 996 Venezia). Ddl penale, l’ultimatum di Renzi a Cartabia per il Colle prima del voto di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 settembre 2021 Matteo Renzi è intervenuto al Senato, durante il dibattito sul ddl penale, già blindato dal voto di fiducia e poi definitivamente approvato. Annunciato dallo stesso leader di Italia Viva nella sua newsletter come “uno degli interventi più difficili della mia carriera” e motivato dal “dovere di dire parole di verità” sul rapporto tra politica e giustizia, ad un primo ascolto il è suonato invece come una presa di posizione piuttosto estemporanea. Le parole di Renzi, infatti, hanno riguardato interamente un altro disegno di legge, seppur collegato al penale - quello di riforma del Consiglio superiore della magistratura - che per di più si trova in esame nell’altra camera. L’ex premier ha descritto il momento attuale come “il più tragico della storia del potere giudiziario”, ha fatto riferimento alle faide in corso tra magistrati (in particolare quella tra il procuratore capo di Milano Francesco Greco e l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo) e ha concluso dicendo che il problema non è “la separazione delle carriere, è lo strapotere vergognoso delle correnti della magistratura, che sembrano la partitocrazia del 1991”. Trovati i cattivi, ha indicato gli obiettivi da raggiungere: i magistrati devono sentirsi liberi nel loro lavoro anche se non sono iscritti a una corrente; i politici non devono temere che gli avvisi di garanzia blocchino le loro carriere; le guarentigie dei parlamentari devono essere rispettate e non ignorate “dall’uso mediatico delle indagini”. Se i principi sarebbero obiettivamente condivisibili da tutto l’arco parlamentare, è la conclusione del discorso a far capire quale sia l’obiettivo esplicito dell’intervento: il Csm, che verrà rinnovato nel luglio del 2022 con il nuovo regolamento elettorale previsto dal ddl di riforma e che deve “scrivere una pagina nuova”, altrimenti “la vittima della nostra inerzia sarà a credibilità delle istituzioni e la dignità della magistratura”. Le parole di Renzi vanno però decodificate e inserite nel contesto. Ma soprattutto va colto che sono rivolte principalmente alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia e suonano come un avvertimento in vista della partita quirinalizia di febbraio 2022, in cui la guardasigilli è considerata candidata. Per arrivare a febbraio con qualche chance, la guardasigilli deve portare a termine nei tempi stabiliti le tre riforme della giustizia previste nel Pnrr entro il 2021: il ddl penale è stato approvato con la fiducia e il ddl civile avrà lo stesso iter nelle prossime settimane. Manca solo il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario: quello su cui Renzi ha dettato le sue condizioni e implicitamente avvertito che è pronto a fare ostruzionismo. Dal discorso del leader di Italia Viva si evince anche che considera il testo attualmente alla Camera troppo poco coraggioso, in particolare sulla modifica del sistema elettorale. Non a caso, parlando coi giornalisti fuori dall’aula ha dato sostanza al suo attacco: “Pur di abolire le correnti della magistratura prenderei in considerazione l’idea del sorteggio”. Esattamente l’idea bocciata dalla maggior parte dei gruppi associativi, scartata anche dalla commissione Luciani ed esclusa dalla riforma, che si limita - nel testo arrivato alla Camera - ad aumentare il numero e cambiare la geografia dei collegi. Renzi, nel definire le correnti della magistratura la nuova partitocrazia in stile Mani pulite, sta sfidando a Cartabia a scegliere da che parte stare. Con le toghe che oggi sono in crisi, dopo aver fustigato la politica con avvisi di garanzia (Renzi in un passaggio cita anche le sue personali vicende giudiziarie, ancora in corso). Oppure con la politica, che invece la sta legittimando e che potrebbe aprirle la strada del Colle. Anche perchè in Italia Viva non è un mistero che anche Cartabia sia tenuta in considerazione come nome “quirinabile” su cui puntare e - posto che dalla quarta votazione in poi basta la maggioranza dei voti - la pattuglia renziana può avere un ruolo decisivo nell’individuare il nuovo presidente della Repubblica. Quello di Renzi, allora, sembra essere un test per la ministra. La posizione di Italia Viva è tatticamente chiara: lasciar passare i due ddl di sostanza che riformano i riti penale e civile, tirare la corda su quello di minor impatto diretto sulla durata dei processi (che è l’obiettivo finale da raggiungere chiesto dall’Unione europea) ma più mediatico. La necessità di riforma del Csm, infatti, nasce con lo scandalo Palamara e viene vissuta come un secondo round dopo lo strapotere della magistratura degli anni di Tangentopoli. Al netto della mossa politica, esiste una contraddizione di fondo nell’attacco così duro di Renzi ai gruppi associativi: del suo gruppo alla Camera, infatti, siede il magistrato in aspettativa Cosimo Ferri, ex potente capocorrente di Magistratura indipendente in attesa di procedimento disciplinare al Csm proprio per la cena all’hotel Champagne, in cui si discuteva della nomina al vertice della procura di Roma. “Troppe critiche dure alle toghe e troppe responsabilità sulla durata dei processi” di Liana Milella La Repubblica, 23 settembre 2021 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Santalucia contesta le critiche eccessive e strumentali contro la magistratura. Sollecita alla ministra Cartabia la riforma del Csm. Promuove le misure alternative al carcere. E dice: “È tempo per una vice presidente donna al Csm”. “Troppe critiche a tinte fosche sulla magistratura. C’è il rischio che risultino più dannose della crisi che stiamo attraversando”. Parte da qui il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che sollecita la riforma del Csm e dice: “Sì, è tempo di eleggere una vice presidente donna”. Sull’improcedibilità risposta secca: “La rispetteremo, ma si è voluto calare dall’alto un sistema senza prima modificare la struttura dei giudizi di Appello e di Cassazione”. Due giorni al Senato per approvare le riforme del civile e del penale... “Scusi, ma vorrei fare innanzitutto una premessa...”. E sarebbe? “Sono consapevole, e l’ho detto più volte, che la magistratura sta attraversando una stagione di crisi importante di credibilità. Ma, allo stesso tempo, avverto il timore che le critiche a tinte fosche che si inseguono giorno per giorno, in una sorta di gara a disegnare un quadro catastrofico della giustizia e della magistratura del Paese, finiranno per essere assai più dannose della stessa crisi che si denuncia”. Beh... è pur vero che di errori i suoi colleghi ne hanno fatti o tanti... “Io non ho mai voluto nascondere sotto il tappeto difetti e guasti che sono venuti all’attenzione collettiva. Da subito ho detto che sono necessarie tempestive e buone riforme. Che da sole però non saranno sufficienti, perché occorre una profonda rivisitazione del costume giudiziario. Detto questo, mi preoccupano i racconti di quanti vogliono leggere le difficoltà del momento con una tale enfatizzazione e generalizzazione dei dati negativi, cucendo ogni tassello in un racconto di fallimento del ruolo di garanzia della magistratura. Non credo che così si renda un buon servizio. Credo invece che tutti dovrebbero impegnarsi per rinvigorire l’assetto costituzionale della magistratura. Anziché indebolirlo”. Renzi al Senato dice però che la magistratura è condizionata dalle correnti fino all’immobilismo perfino nelle nomine e nelle decisioni disciplinari. “Mi sembra l’esempio di un’analisi fondata su inaccettabili generalizzazioni e semplificazioni che, a mio giudizio, non giova ad avviare a soddisfacente soluzione i problemi”. A fronte di un dibattito al Senato, senza polemiche, sulle riforme della giustizia civile e di quella penale, lei avverte soprattutto un clima di discredito nei confronti dei giudici? “Sì, purtroppo, avverto proprio questo clima ogni mattina quando leggo i giornali. Capisco le voci critiche sui guasti e le inefficienze del sistema giudiziario, ma sento il bisogno di sottolineare un’esigenza fondamentale: ogni giusta e doverosa critica non deve mai perdere di vista che il fine non può essere quello di demolire, ma di ricostruire un tessuto di fiducia tra l’istituzione giudiziaria e la collettività. Perché sennò il gioco diventa assai pericoloso. E non soltanto per i magistrati”. Gioco pericoloso? A che sta pensando? “Intendo dire che le istituzioni democratiche vanno preservate nell’interesse collettivo, tenendole al riparo dalle colpe, anche gravi, dei singoli, pur se se numerosi”. Però ammetterà che, dopo il caso Palamara, dopo il caso Amara con le polemiche Davigo-Greco, dopo le nomine contestate come quelle della procura di Roma e la prossima guerra su Milano la magistratura non ha dato dei buoni esempi. “La sua domanda non mi piace. Lei usa il termine “guerra” quando invece per le nomine si tratta di un normale concorso per un incarico direttivo. Quindi un confronto tra diversi profili professionali, e non certo uno scontro tra magistrati. Quanto al resto noi non sottovalutiamo i segnali di una crisi di credibilità, ma contesto che tutti i singoli episodi elencati siano i capitoli di un’unica storia, del declino inarrestabile della magistratura e della giustizia, come qualcuno tende ad accreditare in improbabili ricostruzioni. Ogni vicenda merita la necessaria e doverosa attenzione, però bisogna evitare di fare di ogni singolo caso la prova di un teorema. Non è certo un approccio dei più corretti”. La riforma del Csm non rischia di arrivare troppo tardi per affrontare tutto questo? “Obiettivamente è un rischio che giorno per giorno diventa sempre più consistente. Attendiamo che la ministra Cartabia presenti i suoi emendamenti al ddl di riforma del Csm, che è fermo in Parlamento da circa un anno. E tra un un anno questo Csm scade e non si potrà andare al rinnovo senza una sostanziosa modifica della legge elettorale”. Pensa potrà essere necessaria una piccola proroga da luglio a settembre 2022 dell’attuale Csm eletto a luglio 2018 (i togati) e poi a settembre i laici? “La proroga è una misura eccezionale, e io spero tanto che l’eccezionalità in questo caso sia messa da parte”. Pensa che la proposta del costituzionalista Massimo Luciani - al vertice del gruppo di studio cui Cartabia ha affidato gli emendamenti al testo del suo predecessore Bonafede - sul sistema del voto singolo trasferibile sia giusta? E comunque, per evitare giochi incrociati, non sarebbe opportuno stabilire per legge che le elezioni per i togati e la scelta dei laici in Parlamento avvenga negli stessi giorni? “Sul sistema del voto singolo trasferibile abbiamo cominciato a discutere in Anm ma dobbiamo attendere le definitive scelte della ministra per farci un’idea approfondita e seria sulla proposta. Mi auguro fortemente che la magistratura e il Parlamento riescano a nominare dei componenti all’altezza del momento, che sappiano interpretare al meglio il ruolo che la Costituzione a loro affida. E mi permetto di sottolineare il ruolo di interdizione dei laici di fronte al pericolo, sempre possibile, di chiusure corporative dei togati. Sta a loro il grande compito di assicurare che la composizione del Csm possa esprimere i valori dell’autonomia e dell’indipendenza unitamente all’apertura della magistratura all’esterno”. Non le sembra arrivato il tempo per una vice presidente donna? “Assolutamente sì, perché le donne in magistratura sono una risorsa preziosa e una vice presidente donna sarebbe un’ulteriore conferma di una realtà che anche negli uffici giudiziari si vive da tempo”. Ci siamo arrivati, entra in vigore l’improcedibilità. L’avevate criticata. Do domani che succede? “Sarà una legge dello Stato e quindi, come sempre cerchiamo di fare, la applicheremo nel modo migliore possibile. Ciò non toglie che gli aspetti critici che avevamo segnalato restano...”. Nonostante le correzioni ottenute da M5S? “Si è voluto calare dall’alto un tempo di vita dei giudizi di impugnazione in Appello e in Cassazione senza mettere prima mano a una loro incisiva riforma”. La magistratura sarà pronta ad affrontare dei tempi così stretti? “Faremo tutto ciò che sarà possibile per evitare che si verifichi ciò che abbiamo temuto e abbiamo ripetutamente e doverosamente segnalato. Cioè che i processi possano “morire” con il sacrifico dei diritti soprattutto delle vittime solo perché si è sforato di qualche giorno, di qualche settimana, di qualche mese, il tempo assegnato”. Sarebbero servite altre correzioni? “Per farlo bisognava cambiare direzione”. Non peserà troppo sui giudici la responsabilità di un processo più lungo? “Questo è uno dei tanti aspetti critici che abbiamo segnalato al Parlamento. Il timore che si scarichino indebite responsabilità sui magistrati è forte”. Nei territori di mafia un giudice che proroga la durata di un processo rischierà la vita? “Mi auguro proprio che questo non accada”. Resta la parola del Parlamento sulle priorità dell’azione penale, diventerà un modo per attenuare le indagini su alcuni reati? “Sarebbe contrario al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale che va preservato e non aggirato, né dai magistrati né dal Parlamento”. Cambia il rapporto pm-gip e il giudice avrà più “potere” sui tempi e sul corso delle indagini. Questo gioca a favore dell’imputato? “Un aumento dei poteri di controllo del giudice non è mai una soluzione dannosa o inutile, ma occorre che il controllo stesso sia ben calibrato rispetto all’andamento dell’inchiesta. Sia chiaro che già oggi i giudici assicurano un adeguato controllo sulle attività investigative”. La riforma disegna una giustizia con meno carcere. Penso al fatto che per le pene fino a 4 anni sono previste soluzioni alternative, all’istituto della messa alla prova, alla stessa stessa giustizia riparativa. Solo una via del svuotare le celle? “Non credo proprio. Il superamento del carcere come unica sanzione penale è un percorso già avviato da tempo. Prevedere un ventaglio di sanzioni ampio ed eterogeneo può essere la soluzione per restituire il carcere alla sua funzione di risocializzazione per i condannati ai reati più gravi. Quindi non parliamo di svuotare le carceri, ma di consentire al carcere di recuperare efficienza secondo il disegno costituzionale”. La riforma del processo civile come la vede? “A titolo personale dico che sarebbe servito più coraggio perché esiste uno scarto troppo ampio tra l’obiettivo estremamente ambizioso di ridurre i tempi dei processi del 40% e gli strumenti messi in campo”. “Il Csm è a rischio, senza una nuova legge sarà delegittimato” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 23 settembre 2021 L’allarme di Albamonte, segretario di Area che si presenta per un secondo mandato nel congresso che comincia domani. “La priorità era quella del nuovo sistema elettorale del Consiglio, manca poco alle prossime elezioni”. Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma, è il segretario di Area democratica per la giustizia, nata otto anni fa come cartello elettorale tra la corrente di sinistra della magistratura, Magistratura democratica, e i “verdi” di Movimento per la giustizia. Da domani a domenica Area tiene il suo congresso a Cagliari, Albamonte si ripresenta per un secondo mandato da segretario. Qual è il suo giudizio sulla legge delega di riforma del processo penale che oggi sarà definitivamente approvata dal Parlamento? È un giudizio differenziato. Alcune parti, soprattutto quelle relative al trattamento sanzionatorio, sono interessanti perché superano la centralità del carcere. E sono previste risorse lungamente attese, assunzioni di personale amministrativo, dotazioni informatiche e ho sentito con piacere dalla ministra anche un piano per le sedi giudiziarie: avere le aule dove svolgere le udienze è fondamentale per accelerare i tempi della giustizia. Gli aspetti critici sono dunque quelli non affidati alla delega e immediatamente in vigore: la prescrizione... Il tema dell’improcedibilità è un’occasione mancata, era il caso di fare scelte più coraggiose. Capisco che siano state impedite dai veti incrociati di cui ha parlato proprio martedì la ministra Cartabia, ma il processo non può essere ostaggio dei puntigli politici, dello scontro tra chi voleva mantenere in piedi il vessillo della prescrizione bloccata e chi voleva solo cancellare le decisioni di una maggioranza precedente. È venuto fuori una specie di papoccchio e il fatto di rinviarne per due anni la piena attuazione non risolve la questione. Semplicemente rimette tutto a un futuro ministro della giustizia che sarà in carica nel 2024. Ma il processo ha bisogno di regole chiare. Erano preferibili le proposte che la commissione Lattanzi aveva presentato alla ministra? Sicuramente. Si poteva tranquillamente ritornare alla prescrizione così come prevista dall’ex ministro Orlando. Ma sono stati proprio molti magistrati in vista a rifiutare queste proposte originarie... La magistratura ha tante voci, bisogna vedere quali sono quelle più consapevoli e coerenti con una logica di sistema e quali voci abbia invece ascoltato la ministra. Sono sicuro che nessuno di quelli che hanno contestato il ritorno alla Orlando possa essere contento di come è andata a finire. Anche per effetto delle sue prese di posizione. Qual è il difetto della “improcedibilità”? Fissare un tempo limite entro il quale svolgere il processo in appello e in Cassazione, raggiunto il quale tutto quello che si è fatto fino a quel momento va al macero, è un’idea scorretta in sé. Pensare di risolvere questo errore concettuale scaricando la responsabilità sul giudice, che dovrebbe decidere sulle proroghe, è un secondo errore perché ne esaspera la responsabilità e apre tutta una serie di polemiche nel processo. Con la quasi certezza di aumentare i ricorsi e allungare di nuovo i tempi. Dopo la riforma della procedura penale arriverà quella della procedura civile e in fondo la riforma del Csm. Secondo lei è un ordine di priorità corretto? In realtà i finanziamenti del Pnrr sono collegati esclusivamente ai tempi del processo civile. Non ci sono richieste specifiche dell’Europa all’Italia per quanto riguarda il resto, il che non vuol dire che non sia importante intervenire sul processo penale. La mia preoccupazione però è che si arrivi in ritardo alla riforma del Csm, specie alla nuova legge elettorale. Tutti diciamo che la legge attuale ha prodotto una serie di guasti, tra i quali anche gli scandali dell’hotel Champagne, allora va cambiata. Un consiglio che venisse eletto con le vecchie regole dal mio punto di vista sarebbe delegittimato in partenza. E i tempi per fare una nuova legge sono ormai strettissimi, le elezioni per il Csm sono a luglio 2022. Che significa fare un congresso come quello di Area nel momento in cui le correnti della magistratura conservano il loro, cito dal dibattito di ieri al senato, “vergognoso strapotere”? Ci sono tutta una serie di concause che hanno determinato questo “vergognoso strapotere delle correnti”… Lei condivide questo giudizio? Condivido che le correnti abbiano esercitato un’influenza inaccettabile sull’autogoverno della magistratura. Ma le correnti non sono nate per fare questo, hanno deviato dal loro percorso e sono diventate, soprattutto alcune, centri di gestione del potere. Le condizioni perché questo accadesse, però, le hanno create anche leggi sbagliate. Penso all’introduzione del sistema delle carriere, previsto dalla riforma Castelli, e come ho già detto al sistema elettorale per il Csm riformato dallo stesso ministro. Ma anche alla dissennata scelta di cambiare, dalla sera alla mattina, l’età pensionabile dei magistrati portandola da 75 a 70 anni, visto che si sono dovuti coprire centinaia di posti rimasti scoperti tutti assieme. Decisione quest’ultima del governo Renzi. La citazione sul “vergognoso strapotere” era proprio del senatore Renzi... I due politici presenti all’hotel Campagne erano vicini a lui, l’avrà dimenticato. Ddl civile blindato tra le incertezze dei partiti: la forzatura del governo di Errico Novi Il Dubbio, 23 settembre 2021 Tra fine vita, riforma Csm e Manovra, c’è il rischio che si neghi ai deputati il riesame del testo, e che si debba rimediare coi decreti attuativi. Beffa sugli incentivi ai legali. È fatta. La sola chiosa che il governo plausibilmente può concedersi sull’ok al processo civile è di sollievo. È fatta, dal punto di vista di Marta Cartabia e Mario Draghi, perché martedì sera Palazzo Madama ha dato via libera, dopo la fiducia, a una riforma ampia ma controversa. È certamente controversa sull’unica opzione adottata direttamente, dalla guardasigilli e dalla maggioranza, per rendere più “serrato” il tempo della causa: la “concentrazione” di tutte le attività difensive in una fase precedente la prima udienza. Che “nelle richieste dell’Ue non poteva più essere di solo rinvio”, ha avvertito la ministra. Risultato: sulle parti e i loro legali incomberanno preclusioni e decadenze così stringenti da rendere impervio l’esercizio dei diritti di difesa. È un timore condiviso da troppe voci per essere pretestuoso. Lo sostiene da mesi l’avvocatura, Cnf e Unione Camere civili innanzitutto. Lo ha rilevato l’Associazione fra gli studiosi del processo civile, a inizio estate, con una nota inviata a governo e Parlamento. Lo ha scritto nel proprio parere sulla riforma persino il Csm, e a chiare lettere. Ma il dato forse più sorprendente è che a esprimere preoccupazione per le forzature siano stati anche parlamentari di maggioranza. Basti ricordare il senatore di Forza Italia Franco Dal Mas, che in Aula ha dichiarato: “Dico sì al testo solo perché il regolamento del Senato non prevede un voto distinto sul provvedimento e sulla fiducia”. Fino a una delle tre relatrici di Palazzo Madama, la parlamentare delle Autonomie Julia Unterberger: “Non si discuterà più su chi ha ragione e chi ha torto ma su chi ha rispettato i termini e chi no”. È esattamente il rilievo che da più di un anno muove l’avvocatura. Ma potrebbe non esserci più tempo per correggere il tiro. Ddl civile a Montecitorio - Approvato in prima lettura due giorni fa al Senato, il ddl delega sul civile è atteso ora a Montecitorio, dove però si rischia di dover limitare l’esame al sì su un testo fotocopia, immodificabile e discusso in tempi fulminei. La Camera sarà impegnata nei prossimi giorni a esprimersi sul decreto che attua la direttiva Ue in materia di presunzione d’innocenza. Poi, come ha segnalato ieri Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia, ci si dovrà concentrare fine vita, testo atteso in Aula per il 25 ottobre: “Abbiamo già fatto un grande lavoro di sintesi, ora stabiliremo nel primo ufficio di presidenza utile il calendario per l’esame e il voto degli emendamenti, circa 400”, ha chiarito il deputato 5 Stelle. Dopo le due incombenze citate, ci sarebbe un margine di appena un paio di settimane prima che inizi la paralizzante sessione di Bilancio. Senza considerare che la tabella di marcia del Recovery impone un impulso rapido anche al ddl delega sul Csm, incardinato sempre nella commissione presieduta da Perantoni e sospeso in vista degli emendamenti di via Arenula, già rinviati l’estate scorsa per dare precedenza alla riforma pensali. Con un traffico simile, non sarà semplice per il Parlamento assicurare al testo sul civile spazi tali da ipotizzare ripensamenti: entro dicembre l’Ue pretende l’ok definitivo. In un’intervista al Dubbio, la senatrice di FI Fiammetta Modena (che oggi si confronterà col consigliere Cnf Alessandro Patelli in diretta sulla pagina facebook del nostro giornale), anche lei relatrice del civile come Unterberger e Anna Rossomando del Pd, ha fatto notare come la delega lasci un margine per sciogliere nei decreti legislativi i nodi sulle decadenze e le preclusioni. Anche sul rischio che si perda tempo a decidere chi ha rispettato le nuove regole processuali. Sempre Modena assicura che ulteriori complessità come quelle relative alle chiamate di terzi e alle cause “plurisoggetive” saranno oggetto del fine tunig in fase attuativa. Sembra quasi che la partita possa giocarsi solo in quella sede. Ma è chiaro che, viste le diverse valutazioni nella stessa maggioranza, la guardasigilli sceglierebbe così la via di una vera e propria scommessa. Maggiori compensi ai legali, il no della Ragioneria - Nelle ultime convulse fasi dell’esame a Palazzo Madama, peraltro, è saltata una norma che valorizzava uno degli aspetti positivo, per l’avvocatura, della riforma, la possibilità che le istruttorie stragiudiziali condotte dai difensori fossero acquisite dal giudice per definire la causa. In realtà la chance è rimasta, ma senza l’incentivo di un maggiore compenso (del 20 per cento rispetto ai parametri ex Dm 55 del 2014) per l’avvocato che si fosse assunto quell’onere. Niente da fare perché la Ragioneria di Stato ha liquidato la storia con un parere negativo giacché la norma avrebbe agevolato “una serie di attività di natura “stragiudiziale”, prodromica all’eventuale svolgimento del giudizio, normalmente rientranti, almeno in parte, nell’attività consulenziale normalmente rimessa all’avvocato”. Della serie: il difensore è gia pagato anche per quello, non merita altro. Accelerare il processo sì, ma solo con un maggior peso da scaricare sulle parti e i loro avvocati. Ecco la filosofia imposta dal Mef e inevitabilmente recepita nel testo finale, che ha visto cancellato quel 20 per cento in più. Uno spirito che ora i decreti attuativi dovranno davvero faticare per correggere. Consigli per Cartabia: un software per accelerare la giustizia civile di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 settembre 2021 È un bene che il ministro Marta Cartabia abbia messo mano alla riforma della giustizia penale, ma il problema più grave è la lentezza della giustizia civile che ha costi molto maggiori e più diffusi per i cittadini e lo sviluppo economico. In una serie di lavori scientifici, con Decio Coviello e Nicola Persico, abbiamo misurato differenze elevate e persistenti di velocità nello smaltimento dei processi tra giudici con lo stesso carico medio di lavoro per quantità e qualità. Oltre la metà della differenza tra i più veloci e i più lenti è spiegata dal grado con cui il giudice adempie l’obbligo di concentrare le udienze di un processo, trattando i casi assegnati il più possibile in sequenza, non in parallelo. Per capire la ragione di questo risultato è utile immaginare un gommista che debba cambiare le gomme a 10 macchine a lui consegnate tutte insieme alle 8 del mattino. Se procede cambiando prima la ruota anteriore sinistra di ogni macchina, poi la destra... e così via, consegnerà le macchine ai clienti quasi tutte insieme, ma dopo molto tempo dall’inizio del lavoro. Per esempio, se cambiare una ruota richiede 15 minuti, i clienti dovranno aspettare 8/10 ore per avere la macchina. Se invece il gommista cambia subito tutte le ruote della prima macchina, poi tutte le ruote della seconda e così via, riuscirà a consegnare in pochissimo tempo la prima auto, poi via via le altre, mentre solo il decimo riceverà l’auto esattamente nello stesso momento in cui l’avrebbe ricevuta con il primo modo di procedere. In altre parole, se il gommista lavora in modo sequenziale, il primo cliente riceve la macchina dopo un’ora, il secondo dopo due ore … il decimo dopo 10 ore: la durata media in questo modo si riduce a 5.5 ore, quasi la metà rispetto al tempo impiegato lavorando in parallelo. Considerando ogni ruota come l’udienza di un processo, la maggior parte dei giudici italiani lavora nel primo modo, ossia “parallelamente” su molti processi. I tempi si accorcerebbero invece “meccanicamente” (per il semplice principio matematico esemplificato dal gommista), se i giudici lavorassero in modo “sequenziale e concentrato” su un numero limitato di processi, cercando di chiuderli prima di aprirne di nuovi. Questo modo di procedere, associato alla pubblicazione del “Calendario del processo” fin dall’inizio del giudizio (come previsto dall’art. 81-bis disp. att. c.p.c.), avrebbe anche l’effetto di rendere la durata di un caso meno incerta. Non è un vantaggio da poco perché anche l’incertezza dei tempi di un processo, non solo la lunghezza, è costosa per i cittadini. Per lavorare in modo sequenziale, tuttavia, il giudice ha bisogno di un’agenda elettronica che sia in grado di identificare le prime date disponibili nelle quali fissare le udienze di un processo e di offrire questo servizio in modo differenziato a seconda della categoria e del livello di urgenza dei casi assegnati. Attualmente il ministero della Giustizia non offre ai giudici un software di questo tipo, e infatti la maggioranza dei magistrati usa le agende di Google o Outlook, quando va bene, o addirittura quelle di carta. Strumenti però con i quali applicare il principio del gommista efficiente al lavoro del magistrato è impossibile. La Fondazione Giuseppe Pera insieme al software house Centro Nuova Comunicazione, finanziate da CariLucca e altri donatori, tra cui le maggiori associazioni imprenditoriali italiane, ha creato l’agenda elettronica A-Lex che aiuta il giudice a concentrare le udienze di ciascun processo nelle prime date disponibili e a lavorare in modo il più possibile sequenziale sui casi assegnati, aumentando la velocità di smaltimento dell’arretrato. Quattro anni fa il software è stato offerto in donazione al ministero, che per ora non ha accettato la donazione e non ha messo A-lex a disposizione dei giudici, nemmeno in via sperimentale, anche se alcuni di loro hanno iniziato a usarla con successo. Sarebbe davvero un’altra notizia positiva se il governo Draghi, e in particolare i ministri Cartabia e Colao, volessero invece approfittare di questa opportunità a costo zero per provare a ridurre i tempi della giustizia civile. L’agenda A-Lex è stata presentata mercoledì al convegno su “Measuring and evaluating public administration efficiency” organizzato dalla Banca d’Italia e dalla World Bank. Babele tribunali: il green pass non sarà obbligatorio per tutti di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 settembre 2021 Solo i magistrati e i cancellieri hanno l’obbligo di green pass per entrare in tribunale. Il decreto prevede invece espressamente che così non sia per avvocati, periti, imputati, parti civili e testimoni. Magistrati e cancellieri hanno chiesto invece che anche gli avvocati abbiano l’obbligo, visto che il senso della norma è quello di tutelare la salute pubblica e il tribunale è un luogo di grande passaggio. Gli avvocati, invece, sono soggetti a un doppio regime: nessun obbligo di green pass per andare in tribunale, ma l’obbligo ci sarebbe per stare in studio, in quanto liberi professionisti. Mentre è ancora contingentato secondo le regole emergenziali l’accesso alle cancellerie. Dal 15 ottobre entrerà in vigore l’obbligo di green pass per i lavoratori introdotto dal governo. Come si declini questo obbligo per chi opera nel settore giustizia, tuttavia, è ancora incerto e sta sollevando discussioni tra avvocati e magistrati. Il tribunale, infatti, è un luogo di passaggio di moltissime figure professionali e il legislatore ha scelto un regime promiscuo. Per i magistrati e i cancellieri ha espressamente stabilito l’obbligo di possedere il green pass per accedere e tenere le udienze. Quest’obbligo, invece, non è stato allargato agli avvocati, periti, imputati, parti civili e testimoni. Questo diverso regime sarebbe giustificato dal fatto che impedire l’accesso ai legali senza green pass significherebbe condizionare il diritto di difesa dei cittadini e provocare ulteriori rallentamenti della macchina giustizia. Tuttavia i tribunali sono un luogo ad alto rischio di contagi a causa del grande via vai di persone e rischiano di rimanerlo, se alla gran parte di chi vi accede non è richiesto il green pass. Magistrati e cancellieri si sono schierati contro la scelta del governo di escludere gli avvocati dall’obbligo di green pass. Il gruppo associativo Magistratura indipendente ha scritto in una nota di ritenere indispensabile che nella “battaglia per la riconquista della normalità” sia riconosciuto “il giusto posto anche all’avvocatura”, estendendo anche ai legali l’obbligo di green pass per l’accesso agli uffici giudiziari. Sulla stessa linea anche i sindacati del personale di cancelleria, che hanno inviato una nota congiunta al ministero della Giustizia chiedendo che l’obbligo sia “esteso a tutti i soggetti che accedono a qualunque titolo negli uffici giudiziari”, visto che il senso della norma è quello di “tutelare dal contagio tutti coloro che accedono agli uffici giudiziari, luogo pubblico particolarmente frequentato anche da semplici cittadini”. La confusione per gli avvocati è doppia. Da un lato, infatti, sono esplicitamente esclusi dall’obbligo di green pass quando vanno in tribunale. Dall’altro, non è chiaro quali regole si applichino ai liberi professionisti: per gli studi, infatti, esiste l’obbligo di green pass sia per i clienti che vi si recano che per i professionisti che vi lavorano. Tradotto: obbligo di green pass per stare in studio, non per andare in tribunale. Per capire quali regole i professionisti dovranno applicare, si è in attesa delle linee guida del governo che dovrebbero chiarire proprio questi aspetti. Nel mentre, però, varie associazioni hanno preso posizione. Dall’inizio della pandemia e dello stato di emergenza, infatti, gli avvocati lamentano le grandi limitazioni nell’accesso ai tribunali: ancora oggi, infatti, in molti uffici giudiziari l’accesso alle cancellerie è possibile solo con prenotazione o a orari ridotti e questo complica la vita quotidiana dei professionisti. Di qui la richiesta in particolare dell’Associazione giovani avvocati di estendere l’obbligo di green pass anche agli avvocati: “Il fatto che ci abbiano esclusi comporterà la permanenza delle riduzioni di accesso alle cancellerie e agli uffici giudiziari - ha detto il presidente di Aiga, Antonio De Angelis -. Chiediamo che anche per noi venga disposto l’obbligo ma che però vengano ridotte o eliminate le limitazioni di accesso alle cancellerie”. Proprio il regime di apertura degli uffici, infatti, è il grande scoglio da superare per poter parlare di un ritorno alla normalità del settore giustizia. Lo stato di emergenza è prorogato per decreto fino al 31 dicembre 2021 e fino a quella data non arriva dal ministero alcuna intenzione di eliminare i limiti di accesso. Tuttavia il Dipartimento per gli affari di giustizia starebbe iniziando un ciclo di interlocuzioni tra tutti gli operatori del settore per studiare il modo migliore per la ripresa del lavoro senza più restrizioni, ma solo in vista di gennaio 2022. Gabrielli: “Allarme terrorismo e clan criminali, l’intelligence europea è un controsenso” di Francesco Grignetti La Stampa, 23 settembre 2021 Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi: le persone devono essere consapevoli del pericolo. Ovviamente non ama passare per allarmista, Franco Gabrielli, ex direttore della Protezione civile, ex capo della polizia, oggi sottosegretario alla Presidenza con delega ai servizi segreti. L’uomo che sussurra alle spie per mandato di Mario Draghi. No, non gli piace il ruolo di chi getta allarmi invano. Ma questo è il suo ruolo: sovrintendere ad uno degli apparati più delicati e misteriosi dello Stato, e allo stesso tempo avvertire gli italiani che non viviamo nel migliore dei mondi possibili. E quindi precisa: “Se recentemente ho detto che c’è un rischio immanente del terrorismo islamico, non l’ho certo fatto, come qualcuno maliziosamente ha suggerito, per mettere le mani avanti. Del tipo “io l’avevo detto” a scanso di responsabilità. Anche perché, se accadesse un qualcosa, le responsabilità sarebbe ben difficile scansarle”. E allora, sottosegretario Gabrielli, affrontiamoli questi rischi, senza drammatizzare, ma neanche sottovalutare... “Guardi, sono cose che in realtà vado dicendo da tempo. Abbiamo un problema che è la vulnerabilità psicologica. Io credo che sia un bene preparare le persone alla consapevolezza per gestire anche le emozioni. È ovvio che fa un certo effetto, un evento terroristico. Però dobbiamo anche dire che in Europa, dal 2015 a oggi, diciamo dopo la strage a Parigi di “Charlie Hebdo”, si sono registrate oltre 350 vittime per attentati. Ora, soltanto sulle strade italiane, ogni anno dobbiamo lamentare 3400 morti per incidente stradale. Questo non per fare paragoni impropri, ma per dire che nella realtà ci sono dei rischi che accettiamo. Se vogliamo salvaguardare i valori delle nostre società occidentali, libere, aperte, democratiche, dobbiamo da un lato pretendere che gli apparati di sicurezza facciano il massimo per proteggerci, ma dall’altra dobbiamo anche accettare un margine di rischio. E la vulnerabilità psicologica ci porterebbe a una reazione che in pratica farebbe soltanto il gioco di chi vuole farci cambiare stile di vita. Ecco perché, quando parlo di minaccia immanente, non intendo mandare un messaggio di paura, contribuendo proprio io a fare del terrorismo psicologico. È esattamente il contrario. Io intendo dire: attenzione, questo rischio purtroppo fa parte delle nostre società aperte”. A proposito di forze di polizia, lei ha ricordato che rischiano di essere un target dei terroristi... “Premesso che occorre una grande attività di prevenzione per intercettare una minaccia terroristica prima che si realizzi, dobbiamo riconoscere che abbiamo di fronte un avversario sfuggente. Ricorro a una definizione dello studioso francese Gilles Kepel: esiste il “jihadismo d’ambiente” che va al di là dei “lupi solitari”. Nel jihadismo d’ambiente non occorre un’attivazione da lontano. Né ci sono filiere da ripercorrere”. Perché sono soggetti che si radicalizzano da soli, imbevuti di follie che trovano su Internet... “Come è facile capire, è un’ulteriore evoluzione negativa. La possibilità di intercettarli e prevenirli è molto più complicata. E quindi la risposta degli apparati in questo caso dev’essere tesa soprattutto alla riduzione del danno, ovvero intervenire e neutralizzarli il prima possibile. Da questo punto di vista, la differenza è la reattività degli operatori. Innanzitutto una intelligente pianificazione delle presenze sul territorio e la prontezza dei reparti speciali, ma anche la reattività del singolo agente o carabiniere del presidio territoriale. E quest’ultima, invece, non sempre la percepisco. Le esperienze straniere, peraltro, soprattutto francesi, mostrano come la gran parte degli obiettivi vestiva una divisa”. Si dice che dopo la vicenda dell’Afghanistan, sul web sia ripartita alla grande la propaganda jihadista. Lei pensa che possa fare da innesco a una ripresa terroristica? “Assolutamente sì. L’intera storia, anche per le modalità con cui le truppe alleate hanno lasciato l’Afghanistan, è devastante. La narrativa jihadista se ne è subito impadronita e tende a raccontare che non soltanto è possibile resistere agli eserciti più potenti del mondo, ma addirittura vincere. Nella loro propaganda, un esercito approssimativo, quasi un esercito di straccioni, il che non è, può combattere alla pari con un esercito super-armato e super-tecnologico perché motivato da qualcosa di più grande, che è questa perversa visione religiosa. Tutto carburante per il jihadismo d’ambiente”. Due giorni fa, però, lei ha ironizzato sul fatto che sembra svanita dal radar la criminalità organizzata... “Certo. Ora va di moda, lo dico tra virgolette, parlare della minaccia terroristica. Ma quella criminale? E quella cibernetica? Ce ne accorgiamo solo quando mettono in ginocchio la sanità del Lazio? Sono cose che sempre più faranno parte della nostra condizione, e a cui siamo chiamati a rispondere sempre, tutti i giorni”. Ecco, il presidente Mario Draghi ha appena riaffermato che si vigilerà sull’uso dei miliardi europei, perché gli appetiti delle mafie già s’avvertono. Possiamo immaginare che l’intelligence sia proiettata su questa partita? “Non posso che plaudire alle scelte del ministero dell’Interno e del Dipartimento di Ps. All’indomani della mera notizia che sarebbe arrivata dall’Europa una cospicua mole di miliardi per combattere gli effetti della pandemia, sono stati subito attivati degli organismi di vigilanza. Sa, i clan della criminalità organizzata non sono Onlus. La loro unica ragione d’esistere è l’illecito arricchimento. Va però sottolineato che il nostro Paese, ahimé, per la sua storia di illegalità, dispone di un robusto apparato legislativo e repressivo. E ovviamente il comparto d’intelligence è stato attivato”. Senta, ma non teme l’approssimarsi di una tempesta perfetta, tra risveglio del terrorismo internazionale, attivismo probabile delle mafie, tensioni fortissime che spaccano la società italiana per vaccini e Green Pass? “Se dicessi di non essere preoccupato, direi cose non vere. Preoccupato, ma non terrorizzato. E torno al discorso sulla vulnerabilità psicologica. Ricordo a tutti che questo Paese è uscito da crisi peggiori. Nel 1992 si sommò l’implosione della Prima Repubblica, la crisi del Sisde, un Presidente della Repubblica che andò in tv a gridare “Non ci sto”, e le bombe di mafia. Eppure ne siamo usciti. I rischi ci sono ed è giusto spiegarlo agli italiani. Allo stesso tempo, certo catastrofismo, come se fossimo sull’orlo di chissà quale baratro, non è corretto e non ci aiuta. La stragrande maggioranza dei cittadini di questo Paese sta lavorando per riprendersi. I dati macroeconomici raccontano di un Paese che ha la capacità di traguardare verso un futuro migliore”. E intanto il mondo corre non si sa verso dove. Il Patto tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti prefigura una nuova guerra fredda contro la Cina, ma scuote anche l’Occidente. C’è chi pensa che sia il momento di una Difesa comune europea e anche di un’intelligence della Ue. Lei come la vede? “Guardi, è un dibattito stimolante. Ma io penso che ipotizzare un’intelligence europea, significa che non si è capito che cosa è l’intelligence. L’intelligence è presidio della sovranità nazionale. Faccio un esempio: è normale attività che l’intelligence nella ricerca informativa svolga attività non convenzionali, anche commettendo reati, che vengono rigorosamente autorizzati e circoscritti dall’autorità politica. Questo prescrive la legge in Italia, come dappertutto. Ora, mi domando, questa futura intelligence comune a quale soggetto politico dovrebbe fare riferimento? Si dice di una regia europea. E chi dovrebbe fissare le priorità, se poi non c’è un singolo argomento su cui i ventisette governi siano d’accordo?”. Resta comunque un dibattito... “...Stimolante”. Campania. Detenuti con problemi mentali: pochi reparti e senza psicologi non vengono curati di Viviana Lanza Il Dubbio, 23 settembre 2021 Quello dei detenuti con problemi psichiatrici è un dramma nel dramma. La storia di Mariano Cannio, il 38enne in carcere con l’accusa di aver preso in braccio il piccolo Samuele Gargiulo per poi lasciarlo cadere nel vuoto dal balcone della casa dove lavorava come domestico, riaccende i fari su una questione delicata e ancora poco discussa. Da lunedì Cannio è in cella, sarà in isolamento per i primi dieci giorni come prevede la normativa anti-Covid per poi essere recluso assieme ad altri detenuti. Per lui inquirenti e difensore stanno valutando un incidente probatorio e una perizia psichiatrica per valutare le condizioni di salute mentale e il grado di capacità di intendere e di volere. Nel carcere di Poggioreale, però, non c’è un’articolazione specifica per detenuti con problemi di salute mentale. Eppure dalla relazione annuale del garante regionale dei detenuti emerge che ogni anno, nel carcere cittadino, transitano o restano reclusi centinaia di detenuti coinvolti in percorsi psicologici o seguiti, prima della carcerazione, da servizi di salute mentale. Come nel caso di Mariano Cannio, in cura, secondo la testimonianza che ha fornito agli inquirenti, presso il centro di Santa Maria Antesaecula e ora al centro di un caso giudiziario e mediatico per via di un reato terribile, la morte di un bambino. Caso giudiziario, perché ci sono indagini in corso e si cerca di risalire al movente dell’omicidio, e caso mediatico, perché il clamore creatosi attorno alla tragedia ha fatto sentire schiacciati non solo Cannio ma anche la famiglia della vittima e i residenti nella zona della tragedia che sono arrivati a chiedere “per pietà” di smetterla con foto e video. Il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello parla di “populismo penale e politico” pur riconoscendo la assoluta gravità di un reato come l’omicidio. Il garante conosce bene i drammi e le criticità del mondo penitenziario, soprattutto quando si affronta il tema della salute mentale. “In tutte le carceri della Campania - afferma - ci sono decine e decine di detenuti di cui sappiamo poi che erano in cura presso dipartimenti di salute mentale. Ma non in tutte le carceri ci sono articolazioni dedicate alla salute mentale”. Ed ecco che il cortocircuito, la criticità, il dramma è dietro l’angolo. Pensiamo a Poggioreale, il più grande carcere cittadino. Dalla relazione annuale del garante risulta che nel 2020 ha ospitato 170 detenuti coinvolti in percorsi psicologici e 168 detenuti che prima della detenzione erano in cura presso un centro di igiene mentale, ma conta appena 12 psicologi nell’organico del personale penitenziario. C’è una sproporzione nei numeri evidente. In Campania, inoltre, di istituti di pena con un’articolazione appositamente attrezzata per la gestione di detenuti con patologie psichiatriche ce n’è uno per ogni provincia: il carcere di Secondigliano, quello di Santa Maria Capua Vetere, quello di Benevento, e Sant’Angelo dei Lombardi e Salerno. Cinque in tutto, su un totale di quindici strutture penitenziarie presenti nella regione e una popolazione detenuta, al 31 agosto, di 6.432 persone. E pensare che secondo le statistiche più recenti i disturbi mentali e le sindromi ansiose in carcere sono aumentati. Nell’ultimo report redatto dal garante campano sullo stato delle carceri regionali si sottolinea che il 4% dei detenuti risulta affetto da disturbi psicotici, contro l’1% della popolazione generale, e che la depressione colpisce il 10% dei reclusi, mentre il 65% convive con un disturbo della personalità. Nel 2020, inoltre, la percentuale di psicofarmaci somministrati ai detenuti risulta aumentata e rappresenta il 43% dell’utilizzo complessivo di farmaci. Parma. Ecco il protocollo tra Garante dei detenuti e Procura per gestire le criticità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2021 Il Garante dei detenuti di Parma Roberto Cavalieri e il procuratore Alfonso D’Avino, hanno deciso che tutte le doglianze saranno trattate dal Procuratore. Martedì scorso, presso l’Ufficio della Procura di Parma, il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri del carcere di Parma e il procuratore Alfonso D’Avino, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa riguardante la gestione di profili di eventuale criticità nelle condizioni detentive presso gli Istituti penitenziari di Parma. All’esito di incontri preliminari, è apparsa opportuna la redazione di un protocollo di intesa per disciplinare le relazioni reciproche, affinché, nell’ambito e nei limiti delle rispettive competenze, la Procura, da un lato - ed il Garante, dall’altro -, possano contribuire al miglioramento dei rapporti tra la popolazione carceraria e l’amministrazione della giustizia, individuando possibili criticità nella gestione dei detenuti e corrispondenti soluzioni migliorative. Due sono gli articoli sottoscritti che riguardano un reciproco impegno. La procura assicura cura e attenzione nella valutazione del contenuto delle memorie, istanze, missive, provenienti dalle persone ristrette presso gli Istituti di Parma, aventi ad oggetto doglianze sulle condizioni di vita detentiva, sulla qualità dell’assistenza sanitaria, su eventuali rapporti conflittuali all’interno delle strutture. A tal fine, come espressamente previsto nel progetto organizzativo della Procura, “tutte le doglianze del detenuto in merito a condizioni/situazioni all’interno del carcere - si legge nel protocollo d’intesa - vengono trattate direttamente dal Procuratore, in considerazione della delicatezza delle questioni sottese e della circostanza che tali questioni potrebbero avere rilevanza di carattere generale”. Si legge ancora che la Procura si impegna ad approfondire le tematiche esposte nelle missive dei detenuti. Dei provvedimenti di definizione dei fascicoli instaurati, la Procura prende l’impegno di dare comunicazione al Garante mediante trasmissione via mail del provvedimento stesso, nell’ottica di dare conto dell’attenzione palesata alle istanze, e -in casi di particolare rilevanza- valuta l’opportunità di trasmettere copia del provvedimento direttamente all’interessato (per il tramite del Comando della Polizia penitenziaria) e/o alla Direzione degli Istituti penitenziari, in vista dell’adozione di eventuali provvedimenti di competenza, qualora le doglianze -pur non riferibili a fatti costituenti reati- siano riconducibili ad aspetti organizzativi o di altra natura, suscettibili di miglioramento. La Procura trasmette al Garante locale Cavalieri, per opportuna conoscenza, copia degli atti di esercizio dell’azione penale nei confronti di persone ristrette, relativi a reati commessi in ambito penitenziario ai danni di altri detenuti o del personale della Polizia penitenziaria. Per quanto riguarda l’impegno del Garante di Parma, egli mantiene il raccordo tra le persone detenute presso gli Istituti penitenziari di Parma e la Procura. Può farsi portavoce, presso la Procura, di istanze, memorie, doglianze delle persone detenute. Non solo. Quando ciò appaia necessario o opportuno, può contribuire ad illustrare alle persone detenute i provvedimenti adottati dalla Procura. Potrà, inoltre, trasmettere alla Procura le decisioni della Magistratura di Sorveglianza e della Amministrazione penitenziaria che possano concorrere alla conoscenza delle indicazioni e obblighi, tanto verso la Direzione degli Istituti penitenziari che della popolazione detenuta, che incidono sulla gestione dei reclusi e sui loro diritti. Per quanto invece attiene le condizioni di detenzione o reclami promossi da detenuti al 41 bis, si coordinerà con il Garante nazionale che, a sua volta, coopera all’attuazione del presente protocollo inviando, ove necessario, informazioni alla Procura relativamente a detenuti al 41 bis. Roma. Reinserimento dei detenuti: casa e lavoro dopo il carcere, accordo Capidoglio-Dap di Viviana Lanza Il Dubbio, 23 settembre 2021 Favorire il rinserimento sociale dei detenuti grazie al sostegno delle istituzioni. E’ questa la sintesi del nuovo protocollo d’intesa firmato nella giornata di oggi tra Roma Capitale e il ministero della Giustizia - Provveditorato Lazio-Abruzzo-Molise del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Cosa prevede il protocollo? Alla base del neonato accordo, si legge in una nota del Campidoglio, c’è la valutazione preventiva dei servizi erogati da Roma Capitale, in ambito socio assistenziale, culturale, di orientamento e inserimento lavorativo, attività anagrafiche e di stato civile, da rendere disponibili ai detenuti. L’obiettivo è quello di favorire il reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure di privazione della libertà personale, promuovendo attività di accoglienza, informazione, orientamento e accompagnamento mirate al benessere in termini di qualità della vita e delle relazioni, accesso ai servizi e aumento delle opportunità. Lo scopo ultimo, pensato dalle istituzioni, è lavorare a percorsi costruiti sull’esigenza personale di ciascun detenuto. Lavoro, istruzione, attività sociali e culturali: sono tutti strumenti pensati per la riacquisizione dell’autostima e dell’autonomia, con l’obiettivo di porre solide basi per facilitare un percorso di partecipazione attiva alla vita sociale al di fuori degli istituti penitenziari. Il lavoro del Garante - “Sono molto soddisfatta di questa intesa, perché guarda al presente”, dice al Riformista la Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni. “L’accordo ratifica il lavoro avviato in questi anni su cui il Comune di Roma ha lavorato molto e per cui è stato molto attivo, tanto da istituire nel 2003, la figura del Garante: un primato rispetto ad altre città”, spiega la Garante dei detenuti di Roma. “L’intesa prevede l’introduzione di servizi innovativi, come l’ufficio anagrafe per il rilascio di documenti ai detenuti, così come il miglioramento dei servizi già esistenti: infatti sono aumentati i posti in appartamenti e gli alloggi da destinare ai detenuti in uscita; per le mamme con i minori a carico, invece, è previsto l’ingresso nella Casa di Leda”, facendo riferimento alle strutture protette in cui le donne possono garantire un ambiente sicuro per lo sviluppo e la crescita dei figli, stando lontani dal contesto carcerario. Ma c’è anche altro, spiega la Garante: sono messe a disposizione borse di lavoro per garantire l’ingresso nel mondo del lavoro dei detenuti. Un percorso realizzabile anche grazie all’erogazione del sistema della consultazione dei libri grazie alla collaborazione con le Biblioteche di Roma. Non per ultimo, è garantito anche un servizio trasporti e una ludoteca all’interno del carcere di Rebibbia per rafforzare i rapporti familiari, condizionati dalla detenzione. Per coordinare gli interventi finalizzati alla realizzazione degli obiettivi è istituita una Cabina di Regia con cadenza bimestrale a cui partecipa anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale. Sassari. “Bancali, in carcere è emergenza sanitaria” La Nuova Sardegna, 23 settembre 2021 La denuncia del Garante dei detenuti Unida: “Serve un reparto ospedaliero dedicato alle persone detenute”. “La situazione carceraria a Bancali è ogni giorno più esplosiva e la lunga emergenza sanitaria da Covid-19 ha ulteriormente aggravato le cose, soprattutto sotto il profilo sanitario”. Così Antonio Unida, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. “Ritengo - spiega - necessario e urgente rivedere il modello di erogazione delle attività sanitarie all’interno delle carceri in generale e a Bancali in particolare, dato che fra le 190 Strutture in Italia, quella di Bancali è di fondamentale importanza strategica nazionale, non foss’altro per la presenza del 41/bis e anche degli As2 (terrorismo islamico). Molte prestazioni, come esami invasivi, sedazione venosa, non possono essere erogate dentro gli Istituti di pena. Per questo poche settimane fa il presidente della società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) il professor Luciano Lucania, ha proposto la creazione di Reparti di Medicina Protetta all’interno degli ospedali, con una sicurezza di tipo detentivo”. “Io da due anni a questa parte sono un fermo sostenitore della necessità che nella nostra Regione debba esserne istituito almeno uno - continua Unida - un reparto ospedaliero penitenziario, prendendo ad esempio l’esperienza positiva dell’Ospedale San Paolo di Milano. I fondi ci sono, il Recovery Plan, verrà elargito con progetti, ecco, uno di questi può certamente essere attuato, bisogna creare le giuste sinergie fra l’attuale Governatore della Sardegna Cristian Solinas e la ministra Marta Cartabia, io lo riterrei auspicabile, per evitare così un ingente impiego di agenti della polizia penitenziaria per i piantonamenti, per evitare l’utilizzo di mezzi di trasporto, per evitare che la persona detenuta e agenti creino problemi in un reparto dove ci siano altri pazienti non detenuti, oltre che per tutelare la riservatezza della persona detenuta ammalata”. “Il carcere di Bancali - continua il garante - in questo periodo pandemico, si caratterizza soprattutto per l’alto tasso di patologie psichiatriche. Bisogna anche qui rivedere la normativa secondaria che riguarda sia le Persone che hanno commesso reati da infermi di mente, sia quelle che hanno commesso un reato in completa imputabilità, ma la cui patologia psichiatrica è insorta successivamente. Di fronte a questo, una sola residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza a Capoterra in provincia di Cagliari, è del tutto insufficiente, in un totale silenzio assordante della politica, sia regionale che nazionale”. Bari. Covid: nel carcere 20 detenuti contagiati, nessun ricoverato di Cinzia Semeraro Corriere del Mezzogiorno, 23 settembre 2021 Mentre l’Asl procede a effettuare 400 tamponi nel carcere barese, il sindacato degli agenti della polizia penitenziaria (Osapp) protesta dal prefetto per le condizioni di sovraffollamento di tutti i carceri pugliesi. È salito a 20 il numero dei detenuti contagiati nel carcere di Bari. Dei circa 400 tamponi molecolari che la Asl ha eseguito dopo il focolaio scoppiato nei giorni scorsi che aveva già accertato la presenza di 11 casi, quasi la metà è già stato processato dando come esito altri nove positivi al Covid. Si attende ancora l’esito degli altri circa 200 tamponi che riguardano anche gli agenti della polizia penitenziaria. A quanto si apprende, nessun detenuto è attualmente ricoverato in ospedale e tutti i contagiati sono asintomatici e in isolamento all’interno della struttura penitenziaria. L’esistenza del focolaio è stata scoperta durante uno degli screening periodici che vengono effettuati in carcere. Quasi a fornire una spiegazione delle cause del diffondersi del Covid a Bari, il sindacato degli agenti penitenziari, Osapp, denuncia la situazione nelle carceri pugliesi: “Taranto è il più sovraffollato d’Italia, con 650 detenuti a fronte di una capienza di 350 e, in tutta la Puglia, le strutture penitenziarie ospitano almeno mille detenuti in più, circa 3.800 rispetto alla capienza di 2.700. In questa situazione, c’è una carenza di almeno mille agenti di polizia penitenziaria, costretti a turni massacranti e a continue aggressioni”. I vertici dell’Osapp si sono presentati oggi davanti alla Prefettura di Bari per consegnare simbolicamente le chiavi delle carceri pugliesi in segno di protesta. “Consegniamo queste chiavi alla prefetta di Bari - spiega Pasquale Montesano, segretario generale aggiunto - perché le consegni al presidente del consiglio Draghi e alla ministra Cartabia. Chiediamo iniziative concrete per dare sostegno alla polizia penitenziaria con un aumento adeguato degli organici. Non tollereremo ulteriori soprusi nei confronti degli agenti”. Il sindacato conferma lo stato di agitazione e si dice pronto a “una manifestazione eclatante con uno sciopero bianco e il blocco dei servizi. Renderemo le carceri invivibili se non ci daranno ascolto”, conclude Montesano. Bari. In carcere da innocenti: 250 casi in tre anni nel distretto di Vincenzo Damiani Quotidiano del Sud, 23 settembre 2021 Nel 2019 il ministero dell’Economia e delle finanze ha risarcito 78 persone per ingiusta detenzione, dopo che la Corte di appello di Bari ha preso atto che gli imputati erano stati prosciolti, assolti in via definitiva o dopo revisione. Lo Stato ha sborsato 2,5 milioni di euro per “ripagare”, se mai fosse possibile, uomini e donne che erano finite in carcere da innocenti. E’ quanto rileva la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti nella relazione su “Equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari”. In tre anni, dal 2017 al 2019, i risarcimenti per ingiusta detenzione nel distretto di Corte di appello di Bari, che comprende anche Foggia e Bat, sono stati 250 per un totale di 8,5 milioni di euro di indennizzi riconosciuti. Nel 2017 sono stati riconosciuti dalla Corte di appello 94 episodi di detenzione in carcere ingiusta; nel 2018 i casi sono stati 78, alla pari del 2019. Nel 2019 si sono registrati più risarcimenti solamente nei distretti delle Corte di appello di Napoli (129), Reggio Calabria (120), Roma (105) e Catanzaro (83). La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è prevista dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale e la disciplina si applica anche ai casi di errore giudiziario. La giustizia italiana, insomma, si rivela fallibile, ogni anno sono numerosi i casi di errori giudiziari che causano anche la detenzione ingiusta, a volte anche per anni. “Nel triennio 2017-2019 - evidenziano i magistrati della Corte dei Conti - è stato rilevato un progressivo aumento della spesa pubblica, in termini di impegni di competenza, per i casi di errori giudiziari/ingiusta detenzione”. Nel 2020 c’è stata una lieve diminuzione, anche se bisogna fare la tara rispetto ai procedimenti rinviati per via dell’emergenza Covid. In particolare, mentre nell’anno 2019 (48.799.858,00 euro) la spesa era risultata aumentata più del 27% rispetto al 2017 (38.287.339,83 euro), nel 2020 l’importo complessivo (43.920.318,91 euro) è risultato superiore a quello del 2017 ma inferiore a quelli del 2018 e 2019. Alcune volte la custodia cautelare dura mesi, momenti vita strappati a qualcuno che poi il Tribunale stesso dichiara innocente. La legge italiana prevede, però, un risarcimento per ingiusta detenzione. È la stessa Costituzione italiana ad affermare che la legge deve determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. Certo nessuno potrà mai restituire anni di vita persi e il marchio che una detenzione può stampare a vita su una persona però il procedimento esiste e costa ogni anno allo stato milioni di euro. “Tale istituto - spiega la Corte dei Conti - rappresenta il riconoscimento, a livello normativo, del principio di civiltà giuridica e di attuazione dei valori di un ordinamento democratico in virtù del quale chi sia stato privato ingiustamente della libertà personale ha diritto ad una congrua riparazione per i danni materiali e morali patiti. Dall’indagine, sviluppata dalla Sezione del controllo esaminando un campione di ordinanze irrevocabili, è emersa, tuttavia, una difforme applicazione dei criteri di liquidazione di tali ristori da parte delle Corti d’appello. Questo suggerisce l’opportunità di un monitoraggio del ministero della Giustizia per l’acquisizione dei provvedimenti giudiziari per i quali si potrebbero prefigurare indennizzi”. Ascoli. Csi, a Marino del Tronto si “riaprono i cancelli” per il Mio Campo Libero picenonews24.it, 23 settembre 2021 Riparte, dopo la pausa estiva il progetto il Mio Campo Libero del Centro Sportivo Italiano, organizzato e promosso all’interno del Carcere Marino del Tronto, dal Comitato Provinciale di Ascoli Piceno, con la solerte e competente collaborazione del Tecnico Valentino d’Isidoro. “Quando si accendono le relazioni di ognuna di esse, si è responsabili per sempre! È impensabile credere che un processo educativo si possa attuare a singhiozzi, noi del Csi, crediamo nello sport come uno strumento educativo di grande valenza. Il mio Campo Libero è un progetto che, oramai da diversi anni, insieme alla direzione ed agli uffici del Carcere di Marino del Tronto, si rinnova continuando la sua opera e, in questi anni del Covid, trova ancora maggiore valenza nella sua presenza attraverso il rispetto di ogni Protocollo anti-covid.” “La Costituzione dice che il detenuto debba espiare la pena, ma la detenzione deve essere un momento di crescita e non di regressione. Lo sport è un grimaldello che permette di rompere certe catene - dichiara il presidente del Csi di Ascoli, Antonio Benigni- lo sport è un insieme di regole, di forza, disciplina e quindi portare i principi dello sport all’interno delle carceri significa dare alle carceri gli strumenti di crescita civile”. “Questi sono i principi che animano il nostro progetto. Ogni anno, sempre in accordo con la Direzione, cerchiamo di essere uno strumento per contribuire a rendere fattibile quel processo di crescita civile che tutti auspichiamo in alcuni particolari contesti. L’attività sportiva rappresenta un elemento positivo per contribuire non solo al mantenimento di uno stato soddisfacente della salute psico-fisica della popolazione detenuta, ma anche per migliorare la convivenza all’interno degli Istituti, contribuendo ad abbassare il livello di tensioni e di conflitti; in quest’ottica il nostro impegno non vuole fermarsi alla sola proposta verso i detenuti, ma la fine di contribuire al benessere di tutta la popolazione carceraria, il Csi sta lavorando, insieme ai suoi collaboratori e tecnici per programma sportivo annuale rivolto al personale dell’Amministrazione penitenziaria finalizzato a favorirne il benessere psico-fisico”. “È ovvio che ogni progetto, ogni attività si può attuare grazie al contributo generoso di quanti condividono con noi tali finalità, di questo ne siamo immensamente riconoscenti a tutti coloro che in questi anni ci hanno permesso di continuare la nostra opera e quanti ci aiuteranno nel futuro per questo progetto rivolto non solo ai detenuti ma anche a componenti del D.A.P. Grazie a tutti e buon inizio anno sportivo con il Mio campo Libero”. Il commercio illegale di dati come la droga di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 23 settembre 2021 I cybercriminali fanno incetta di dati personali e aziendali. Il Mese europeo della sicurezza informatica può servire a diventarne consapevoli e a difendersi meglio dagli attacchi. Tutti gli eventi italiani sul sito di Clusit. Ci sono persone di alto livello che non distinguono un phon da un computer ed è ora che imparino a farlo. Non siamo noi a dirlo ma Franco Gabrielli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’intelligence. Durante un incontro col sindacato di polizia Coisp, Gabrielli ha detto infatti che “il governo sta facendo cose importanti sulla cybersecurity, come l’Agenzia nazionale, ma continuiamo a scontare un’arretratezza tecnologica spaventosa e anche una certa arretratezza culturale, con persone anche di alto livello che non distinguono un phon da un device”. E ha aggiunto: “Fra i compiti che ci aspettano figurano “la costruzione di una forza lavoro dedicata non povera come l’attuale”, “il raggiungimento di una autonomia tecnologica” e “l’incremento della consapevolezza culturale dell’importanza del tema, della sua centralità e dei rischi che comporta”. Come dargli torto? Per fortuna i prossimi mesi sono densi di eventi sulla sicurezza informatica che hanno l’obiettivo di contribuire a colmare almeno in parte queste lacune. Ottobre, in particolare, è il Mese europeo della sicurezza informatica, la campagna dell’Unione Europea per promuovere la conoscenza delle minacce informatiche e dei metodi per contrastarle. Sul sito del Clusit, l’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica, sono elencati tutti gli eventi che si tengono in Italia, dai webinar alle conferenze vere e proprie che promuovono questi obiettivi. I temi principali riguardano soprattutto il lavoro ibrido e la spinta alla trasformazione digitale di aziende e pubbliche amministrazioni, con una ricaduta sulle modalità di interazione online dei cittadini. “Cyber Sicurezza a casa” e “Primo soccorso in caso di attacco” saranno temi centrali nelle attività promosse da Clusit in collaborazione con esperti, centri di ricerca e università con l’aiuto di una mappa interattiva ospitata sul sito web dell’iniziativa europea che mostrerà per ogni stato membro dell’Ue i servizi dedicati ai cittadini in caso di attacchi informatici, quali frodi negli acquisti online, furti di identità e intrusioni negli account nei social media. È sempre Gabrielli che aiuta a spiegare l’importanza di questa iniziativa. “Non c’è bene più prezioso oggi del dato. Oggi c’è un commercio illegale che in quota parte ha soppiantato traffici redditizi come quelli della droga. I big data sono una merce pazzesca, con cui si fanno cose straordinarie che possono arrivare a mettere in difficoltà le nostre stesse vite”. Una frase che fa tremare in relazione agli ultimi attacchi informatici che negli ultimi mesi hanno fatto incetta dei nostri dati. Come riporta l’Agi, lo stesso procuratore della Corte dei Conti Lazio, Pio Silvestri, ha detto che se il “vile” attacco al Ced della Regione Lazio non ha penalizzato l’efficienza della campagna vaccinale esiste “un generalizzato difetto di coordinamento e propulsione del sistema da parte delle strutture amministrative regionali, unitamente a una sostanziale autarchia delle aziende sanitarie regionali nel ricorso alle forniture dei programmi informatici, all’assistenza e alla manutenzione. Lo stato di non completo governo e di limitato controllo unitario del settore (con conseguente anomala dipendenza dai fornitori di software e di assistenza) emerge dalla frequente sostituzione, da parte di alcune aziende, dei propri programmi e/o delle relative applicazioni”. Un altro tema da affrontare in maniera massiccia, anche in relazione alle nuove regole di procurement e certificazione imposte dal Perimetro Nazionale di Sicurezza Cibernetica. A novembre? Referendum, i promotori della cannabis: “La politica smetta di creare ostacoli” di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 23 settembre 2021 In una lettera i sostenitori della legalizzazione rispondo indirettamente alle limitazioni proposte dopo il boom di adesioni. “Le oltre 500.000 firme lampo dimostrano che tolti gli ostacoli la gente partecipa”. E chiedono a Draghi di spostare al 31 ottobre la scandenza per consegnare le sottoscrizioni. È una replica alle obiezioni avanzate negli ultimi giorni, quella messa nero su bianco dal comitato promotore della cannabis legale, fautore della racolta firme che in una sola settimana è riuscita ha raggiungere la soglia minima del mezzo milione: un record. “Che i referendum siano da sempre malvisti dalla politica dei partiti non è una novità”, scrivono in una lettera Riccardo Magi, Marco Perduca, Leonardo Fiorentini e Antonella Soldo. Il comitato risponde alle critiche e chiede di posticipare al 31 ottobre il termine ultimo per depositare le sottoscrizioni: una proroga valida solo per i referendum su giustizia ed eutanasia, ma non per la cannabis. La campagna per la depenalizzazione era partita l’11 settembre scorso. Sulla scia del boom di adesioni alla campagna pro eutanasia, anche i sostenitori della cannabis legale avevano deciso di organizzare una raccolta firme per indire un referendum che punta a depenalizzare la coltivazione. Grazie alla firma online - valida da metà agosto - la campagna, nel giro di appena sette giorni, è arriva a raggiungere la soglia minima delle 500 mila adesioni Un risultato che ha sollevato il dibattito sulla necessità o meno di rendere più stringenti i requisiti per indire una consultazione o proporre una legge. “Se dal 2021 l’Italia ha ampliato la platea di chi certifica le firme e se esiste la firma digitale per proposte di legge d’iniziativa popolare e i referendum è perché la Repubblica italiana è stata trovata in violazione dei suoi obblighi internazionali derivanti dalla ratifica del Patto internazionale sui diritti civili e politici”, è la replica dei promotori. Una parte del Pd, attraverso il deputato Stefano Ceccanti, ha proposto di alzare a 800 mila la soglia minima di sottoscrizioni necessarie per indire un referendum. “Le oltre 500.000 firme lampo dimostrano che tolti gli ostacoli la gente partecipa, opporsi sarebbe un colpevole ritorno all’illegalità costituzionale”. La lettera non cita le obiezioni avanzate negli ultimi giorni, ma parla indirettamente degli “irragionevoli ostacoli” - per usare le parole del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite - che hanno portato l’Italia alla “violazione dei suoi obblighi internazionali derivanti dalla ratifica del Patto internazionale sui diritti civili e politici”. La colpa, secondo i promotori è di quelle “norme che invece che facilitare la piena applicazione dell’Articolo 75 della Costituzione hanno complicato la vita, e svuotato le tasche, di chi negli anni l’ha voluto far vivere”. Il comitato respinge le critiche al mittente e rilancia: “Torniamo quindi a chiedere al Presidente Draghi e al Presidente Mattarella che il referendum sulla cannabis, come gli altri presentati prima del 15 giugno scorso, goda dell’estensione al 31 ottobre per completare gli adempimenti previsti dalla legge per la consegna in Cassazione”. La scadenza per la consegna delle firme, infatti, è attualmente fissata per il 30 settembre. Una data valida solo per il referendum per la cannabis. Giustizia e eutanasia hanno potuto usufruire della proroga a fine ottobre prevista a causa del Covid. Uno spostamento che servirebbe per mettere in sicurezza il risultato, nonostante la soglia minima del mezzo milione sia ormai stata raggiunta e superata. Sentenza shock in Olanda, la polizia può fermare le persone in base alla loro etnia di Alessandro Pirovano Il Manifesto, 23 settembre 2021 Un tribunale de L’Aia ha giudicato legittimo il fermo di polizia eseguito in base alle sembianze etniche del fermato. Sdegno delle associazioni che si battono per i diritti civili, che annunciano ricorso. Il fermo di una persona da parte della polizia per la sua etnia non è una pratica discriminatoria. Lo afferma la sentenza emessa mercoledì da una delle corti della capitale olandese, L’Aia, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle pratiche e dei controlli messi in atto dalle forze dell’ordine nei confronti delle persone che entrano nel Paese in aereo, in treno, in pullman. “Ogni volta che rientro in Olanda vengo fermato per la mia etnia”, ha denunciato una delle parti in causa, il consigliere di Eindhoven, Mpanzu Bamenga. L’episodio che lo ha visto direttamente protagonista è avvenuto nel 2018 in aeroporto quando è stato fermato e sottoposto a un controllo oltremodo attento da parte della polizia, insospettita dal suo aspetto giudicato non olandese. Dopo aver denunciato l’episodio, ha ricevuto la solidarietà di varie organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, a partire da Amnesty International e altre realtà antirazziste che lo hanno affiancato nella sua battaglia legale per chiedere la messa fuori legge della pratica dell’”ethnic profiling”, la profilazione etnica da parte della polizia. La corte de L’Aia, però, si è espressa diversamente, definendo l’etnia uno dei legittimi criteri guida delle azioni della polizia. Con questo verdetto, contro cui è già stata espressa la volontà di fare ricorso da parte dei ricorrenti, “ribadiamo l’impegno a porre fine alla profilazione etnica” ha scritto la sezione olandese di Amnesty su Twitter, si alimenta la discussione su un tema già incandescente come il razzismo e le pratiche discriminatorie messe in atto dalle istituzioni olandesi. Proprio l’accusa di aver saputo delle frodi fiscali a danno di migliaia di famiglie, soprattutto di origini straniere, aveva spinto il governo Rutte a dimettersi a gennaio di quest’anno. Egitto. L’offerta ai detenuti: liberi se parlate bene di al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 settembre 2021 Inchiesta di Mada Masr: promessa la grazia in cambio di buona pubblicità per il regime. Gli Usa minacciano di tagliare gli aiuti al regime. Il Cairo lancia una strategia per i diritti umani, ma manca del tutto la lotta seria all’impunità di Stato. La nuova frontiera dei diritti umani egiziani è l’accondiscendenza. Non quella paternalistica dell’autorità ma quella rassegnata delle sue vittime: secondo un’inchiesta dell’agenzia indipendente Mada Masr, da un paio di mesi funzionari della Nsa (la temibile National Security) girano per le prigioni di Tora, Minya e Wadi al-Natrun alla caccia di detenuti a cui concedere la grazia in cambio di buona pubblicità. “Cosa diresti a un’iniziativa pubblica se il presidente o il ministro degli interni ti chiedessero delle condizioni di vita in prigione?”. Questa la domanda posta a centinaia di prigionieri secondo tre avvocati sentiti dall’agenzia in condizione di anonimato. Nel caso di risposta “consona” alle aspettative dei servizi segreti, ai detenuti è stata promessa la grazia presidenziale, da finalizzare entro ottobre (forse il 6, in occasione della giornata delle forze armate, o il 18, il compleanno del profeta Maometto). Molti di loro sarebbero già stati trasferiti in altre carceri. L’idea dietro la manipolazione è fare bella figura. L’iniziativa in questione - una grande conferenza a cui prenderanno parte sia il presidente al-Sisi che il ministro degli interni Tawfiq - vedrà la partecipazione di detenuti, anche politici, da cui ci si aspetta una descrizione dettagliata delle condizioni di vita in carcere. Descrizione falsata: sono innumerevoli i rapporti di organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali e le testimonianze di ex prigionieri che raccontano l’indicibile sofferenza di una vita dietro le sbarre in Egitto. Celle sovraffollate, sporche, umide e buie, torture, carenza di assistenza medica, isolamento punitivo, suicidi e morti per gli abusi subiti. Sarebbero quasi 1.100 i detenuti deceduti in carcere dal 2013, anno del golpe dell’allora generale e ministro della Difesa. I motivi di tanta fretta sono rintracciabili nelle pressioni che sul regime di al-Sisi sta compiendo l’alleato statunitense. Subito dopo la vittoria di Joe Biden, i consiglieri del presidente lo avevano avvertito della necessità di una virata sulla questione dei diritti umani. La scorsa settimana lo ha detto chiaro e tondo il portavoce del segretario di Stato Antony Blinken: Washington tratterà 130 milioni di dollari in aiuti militari dei 300 annualmente versati all’Egitto se le violazioni restano strutturali. Il giorno dopo lo stesso al-Sisi ha annunciato l’intenzione di lanciare nelle prossime settimane la costruzione di un istituto penitenziario “in stile americano”, a cui ne seguiranno “altri sette o otto”: “Anche se una persona ha commesso un crimine, non deve essere punita due volte. I prigionieri sconteranno la loro sentenza in modo umano: movimento, sussistenza, sanità, servizi umanitari e culturali”. Salirebbe ancora il numero di carceri nel paese: al momento sono già 79, di cui ben 27 (oltre il 30%) costruite sotto la presidenza al-Sisi, anche per contenere il numero record di prigionieri politici, stimato tra i 60mila e i 100mila, almeno sei volte quelli dell’era Mubarak. Ma che una “punizione” fosse nell’aria era già chiaro e Il Cairo era già corso ai ripari. Nel luglio 2020, con un ritardo di quasi due anni, ha iniziato i suoi lavori il Comitato supremo permanente per i diritti umani (presieduto dal ministro degli esteri e formato da funzionari dei dicasteri di difesa, interni, giustizia, dai servizi segreti e dalla procura generale) e la scorsa settimana il presidente ha potuto annunciare il lancio di “una strategia nazionale per i diritti umani”, di cui ancora si sa poco. Mada Masr, che ha potuto visionare le 78 pagine, ha individuato quattro aree di interesse: diritti civili e politici, diritti economici e sociali, diritti di donne, bambini, anziani e disabili, educazione nel campo dei diritti umani. Se alcuni rappresentanti della società civile parlano di passo in avanti significativo seppur ancora limitato soprattutto in riferimento alle detenzioni politiche e ai diritti civili e politici, altri sono più critici: a mancare del tutto è la volontà di porre fine alle violazioni attraverso una seria lotta al clima di impunità che regna nei vari ingranaggi dello Stato, i responsabili principali degli abusi. In piazza per le nostre sorelle afghane di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 23 settembre 2021 Vi rendete conto che prova di coraggio stanno dando le donne afghane? Che forza. Che lezione per tutti noi. Manifestano e rischiano la vita per la loro libertà. Dobbiamo farlo anche noi. Abbiamo il dovere di sostenere le nostre sorelle. Lo vediamo in questi giorni di proteste in cui le donne afghane si mettono a rischio, cerotti sulla bocca, le forme più disparate di una lotta sotterranea e poi visibile, e di nuovo sotterranea e poi visibile, per la libertà femminile. Loro rischiano la vita per affermare la libertà, una parola diventata anche lì densa di significati. Noi dovremmo prenderci cura della nostra e della loro libertà. Della nostra, perché a volte la bistrattiamo e non ci rendiamo conto del suo valore. E perché ancora dobbiamo scardinare quegli ostacoli a una sua fruizione reale ed effettiva. Della loro, perché lì è tutt’altra cosa, parliamo di schiavitù delle donne, non di necessità di passare da libertà formale a sostanziale, come da noi. Da un giorno all’altro hanno avuto il divieto formale di studiare e crescere culturalmente. Il 70 per cento è ancora analfabeta ma tra le giovani, e a Kabul, molto meno. Far crescere la loro cultura significa far incrementare la coscienza di sé, la loro possibile autodeterminazione. I taleban sanno che le donne sono il nemico più temibile. E poi il divieto al lavoro. Le donne non possono permettersi neanche di non avere un marito, di essere nubili né vedove, pena essere costrette al matrimonio forzato con i “combattenti”, alla schiavitù sessuale, allo scempio tragico dei loro corpi, schiave nel 2021. Tanto possiamo fare. Primo, in termini umanitari. Accoglienza individuale, sostegno materiale e finanziario. Secondo, collettivamente, unendo le nostre voci di sdegno e solidarietà. Facendo pressione sul nostro governo perché sia parte attiva di una soluzione che difenda i diritti delle donne e i diritti umani in Afghanistan. È dovere farlo per i Paesi occidentali dopo la terribile resa ai taleban. Le donne afghane sono nostre sorelle. Dobbiamo sostenerle, devono poter sperare anche nella forza delle donne del mondo. La nostra forza darà loro più forza. Il loro coraggio immenso deve essere ripagato con la nostra solidarietà totale e permanente. E non credete che non serva a chi sta lì in pericolo di vita sapere che tante donne si commuovono, sono loro vicine, si stringono intorno a loro, si mobilitano per loro. Fa bene alla loro anima. Dà la forza di continuare a combattere. E rafforza anche noi tutti. Ci insegna a essere più solidali, a condividere, a essere generosi con chi sta peggio di noi. Sorellanza deve significare questo. Essere tutte unite. E pronte a sostenere chi tra noi sta peggio, anche nel nostro Paese, dove la crisi della cura ha peggiorato la situazione di molte di noi. E i segnali per affrontarla e risolverla sono ancora troppo deboli. Per questo penso sia importante sabato prossimo ritrovarci a Roma a piazza del Popolo alle 14 alla manifestazione delle donne organizzata dall’assemblea della Magnolia *Direttora centrale dell’Istat Cina. Appello per la scarcerazione della giornalista che raccontò la pandemia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 settembre 2021 Quarantacinque Ong hanno rivolto un appello al presidente cinese Xi Jinping sollecitandolo ad annullare la condanna e disporre la scarcerazione di Zhang Zhan, la giornalista che per prima raccontò dello scoppio della pandemia da Covid-19 nella città di Wuhan. Zhang Zhan sta scontando una condanna a quattro anni di carcere, emessa il 28 dicembre 2020 al termine di un processo durato solo tre ore, per aver fomentato dispute e provocato problemi. La sua unica colpa è di aver dato voce all’angoscia delle famiglie delle prime vittime del Covid-19. La detenuta rifiuta di assumere cibo dal maggio 2020, poco dopo essere stata arrestata. Da allora viene alimentata a forza attraverso una cannula nasale. Secondo quanto denunciato dai suoi familiari, nell’agosto 2021 è stata ricoverata per 11 giorni in ospedale per poi essere riportata in carcere, nonostante le precarie condizioni di salute.