Suicidi in carcere: fatti non individuali che interrogano il “sistema giustizia” di Luca Rondi altreconomia.it, 22 settembre 2021 Trentanove morti in 37 settimane dall’inizio del 2021 negli istituti di pena italiani: il dato, simile al 2020, è preoccupante ma poco dibattuto. “La pandemia non sia una scusa per adagiarsi su un modello di carcere chiuso che aumenta la sofferenza dei detenuti”, spiega il professor Giovanni Torrente di Antigone. “Quando una persona viene affidata allo Stato, quest’ultimo diventa responsabile non solo della privazione della sua libertà ma anche della tutela dei suoi diritti”. Con queste parole l’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale commentava a metà agosto 2021 l’ennesimo suicidio all’interno degli istituti di pena. A Vicenza la persona era morta appena quattro ore dopo il suo ingresso. Il primo settembre, nel carcere di Ferrara un giovane di 29 anni si è suicidato verso le tre del pomeriggio ancora in attesa di essere sentito dal giudice per la convalida dell’arresto: era entrato nella notte, non c’è stato tempo. Sono “solo” due dei 39 suicidi in 37 settimane -dati del Garante aggiornati al 19 settembre- registrati negli istituti penitenziari italiani dall’inizio del 2021. Un numero minore rispetto al 2020, quando al 30 settembre erano stati 50, ma significativo se si considera che nell’anno passato è stato registrato il tasso di suicidio -ovvero il rapporto tra il numero di suicidi e il numero di persone detenute mediamente presenti negli istituti- più alto dell’ultimo ventennio. “Il suicidio non è mai qualcosa di individuale ma sempre connesso al contesto in cui la persona vive. Per questo è importante parlarne, al di là delle ragioni, non conoscibili, per cui una persona sceglie il suicidio. Qualcosa si può e si deve fare”, spiega Giovanni Torrente, ricercatore all’Università di Torino, dove insegna sociologia giuridico-penale, e membro del direttivo di Antigone (antigone.it). Professor Torrente, 39 suicidi in 37 settimane. Perché è un dato preoccupante? I numeri sono l’espressione di un fenomeno che è strettamente legato alla privazione della libertà. In tutti i Paesi del mondo il carcere è a rischio per quanto riguarda i suicidi per una serie di fattori strettamente correlati. L’Italia ha un dato particolare, non proprio invidiabile, che è la maggiore distanza tra il tasso di suicidio della popolazione libera - più basso rispetto a quelli di Paesi limitrofi, come la Francia - e quello della popolazione detenuta, che aumenta in maniera evidente. Questo ci dice che l’ambiente carcerario è particolarmente a rischio. Perché? Negli studi che abbiamo svolto si evidenzia come le persone protagoniste del suicidio portano con sé problematiche già pregresse, gravi, rispetto a cu l’esperienza detentiva costituisce un elemento determinante nella decisione di tentare l’estremo gesto. La letteratura internazionale, d’altronde, ci dice ormai da anni come il suicidio non sia mai qualcosa di individuale: l’azione di una persona nel porre fine alla propria vita è profondamente legata all’ambiente in cui vive. Questo ci impone di affrontare questo fenomeno non soltanto da un punto di vista medico-psichiatrico, che ci deve essere, ma anche da un punto di vista organizzativo. In che senso? È rilevante il “clima all’interno del carcere”. Quando l’ambiente è migliore -meno sovraffollamento, maggior aspettativa di eventi positivi quali ad esempio l’accesso alle misure alternative piuttosto che un maggior impiego delle persone ristrette in attività all’interno degli istituti- ecco che i tassi di autolesionismo e suicidi tendenzialmente diminuiscono. La pandemia ha sicuramente messo in crisi il sistema andando a limitare proprio queste possibilità e ciò potrebbe aver inciso sull’alto numero di suicidi del 2020 e di questi mesi del 2021. L’amministrazione penitenziaria poteva fare di più? La gestione dell’universo penitenziario della pandemia ha rispecchiato pienamente le caratteristiche che siamo abituati a osservare. È stata una reazione a macchia di leopardo: in certi casi abbiamo avuto pratiche in grado, soprattutto nella prima parte, di ridurre l’impatto di un fenomeno che appariva come letale. In molti avevano ipotizzato che le carceri sarebbero diventate come le residenze per anziani ma fortunatamente nella maggior parte dei casi non è avvenuto. Questo è positivo. In altri istituti, invece, sono state messe in atto purtroppo forme di chiusura da parte dell’amministrazione e questo potrebbe aver inciso anche sui suicidi. Ha citato il sovraffollamento come uno dei fattori che incidono sul tasso dei suicidi. Nel 2020 però la popolazione detenuta ha subito una riduzione: il 31 maggio 2020 era formata da 53.387 persone, contro le 61.230 di fine febbraio. Una cifra rimasta pressoché stabile anche nel 2021... Attenzione a questo dato. In questo caso specifico non sono aumentate le uscite dal carcere ma sono diminuiti gli ingressi. L’ultima riduzione della popolazione detenuta è legata a questa tendenza. Ciò significa che la speranza di uscire, per chi è dentro, non si è concretizzata. Si è creato così quel fenomeno, già osservato tante volte nel passato, per cui i fenomeni di autolesionismo e di suicidio aumentano nel momento in cui le promesse di una maggior possibilità di ottenere provvedimenti di clemenza non vengono mantenute. Una volta che la speranza “crolla” la tensione sale a un livello più alto di prima. Per questo motivo la riduzione del sovraffollamento potrebbe non aver inciso così significativamente, in senso positivo, sul numero di suicidi. Muoiono spesso detenuti giovani e con una pena non definitiva. Come affrontare questi aspetti? GT Direi che sono due elementi da analizzare separatamente. L’Italia ha una delle percentuali più alte in Europa di persone non condannate a titolo definitivo presenti in carcere: i suicidi aumentano tra chi non ha una pena definitiva. Questo è un annoso problema del sistema giustizia del nostro Paese. L’aspetto dell’età, invece, riguarda più strettamente anche il sistema penitenziario. Nella ricerca compiuta qualche anno fa avevamo evidenziato il buon funzionamento dei servizi “nuovi giunti”, ovvero quel servizio di accoglienza che, soprattutto negli istituti più grandi, dovrebbe servire a monitorare l’impatto del carcere sui nuovi ingressi. Purtroppo, oggi, notiamo nuovamente un aumento di persone di giovane età coinvolte che suggeriscono come quei servizi non stiano funzionando. Su questo è necessario che l’amministrazione penitenziaria si doti di strumenti più efficaci per affrontare questi momenti. Bisogna cogliere in tempi i segnali di rischio legati al trauma dell’ingresso in istituto, che segue quello dell’arresto e della commissione del reato. C’è un legame tra gli eventi critici che si verificano negli istituti e i pestaggi e le torture -non un caso isolato- nel carcere di Santa Maria Capua Vetere? I fenomeni dell’autolesionismo così come quelli legati alla violenza eterodiretta devono essere letti all’interno di una prospettiva strutturale che certamente, seppur non accomunandoli pienamente, li rende meno distanti. Questi fenomeni accadono laddove il contesto è deteriorato e si verifica quel processo conosciuto come “spirale della violenza” che porta a un progressivo aumento della tensione. Se il carcere si chiude in una logica di stampo autoritario le persone patiscono di più il sistema opprimente e questo può sfociare sia in un aumento degli eventi critici, sia in una maggior violenza tra custodi e custoditi. Le immagini diventate virali in estate sono una conseguenza di questo. Il carcere è ontologicamente un contesto dove la violenza è possibile, frequente: venirne a conoscenza e poterne parlare è un aspetto positivo. Quali conseguenze può avere la pandemia sul sistema carcere? Il rischio è che ci si adagi su un modello di carcere chiuso, con una perdurante limitazione degli ingressi dall’esterno. Non deve succedere. I luoghi di pena possono essere democratici, potenzialmente inclusivi, laddove sono frequentati da soggetti terzi: sia volontari ma anche soggetti che frequentando il carcere lo rendono un ambiente meno duro. Così come stiamo ripartendo in vari campi è necessario che anche nell’amministrazione penitenziaria si torni nuovamente a un’apertura verso il mondo esterno. La pandemia non può diventare una “scusa” per non riprendere i processi di reinserimento che devono accompagnare l’esecuzione delle pene. Il governo tira dritto: fiducia sul civile e sul penale, (poche) proteste in Aula di Simona Musco Il Dubbio, 22 settembre 2021 Testi blindati e raffica di fiducie in Parlamento. Il governo spinge sull’acceleratore per incassare il via libera alle nuove norme sul Green pass e, soprattutto, per mettere in sicurezza le riforme del processo penale e del processo civile, legate alle risorse previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. E così, nel giro di tre giorni Camera e Senato saranno impegnati in un tour de force per votare quattro diverse fiducie. In serata il Senato vota la fiducia posta sulla riforma del processo civile. Oggi l’Aula di palazzo Madama - come già avvenuto nel primo passaggio alla Camera - voterà due diverse fiducie sulla riforma del processo penale (la prima sulle norme direttamente operative, la seconda sulla delega al governo) e giovedì mattina si svolgerà il voto definitivo. Primo sì alla riforma del processo civile, con la fiducia votata ieri dal Senato sul maxiemendamento. Il governo ha incassato 201 sì e 30 no portando a casa il primo dei quattro voti di fiducia che terranno impegnate le Camere in 48 ore, tra i quali quello previsto oggi, sempre al Senato, sul ddl penale, blindato dopo il doppio voto di fiducia alla Camera e quello sul Green pass. Nonostante il sì, non sono mancate, in Aula - dov’era presente anche la ministra Marta Cartabia - critiche al ddl. E i nodi sono sempre quelli evidenziati dal Consiglio nazionale forense, che nei giorni scorsi ha bocciato la scelta di “riesumare” il vecchio rito societario, nonché quella di porre la fiducia, impedendo così un dibattito su un tema così delicato. Critiche che non sono venute soltanto dalla minoranza, ma anche da chi, come Julia Unterberger (Svp), del ddl è stata relatrice. I dubbi riguardano ancora una volta le scelte fatte sul rito, in particolare sul sistema di preclusioni e decadenze. Unterberger, pur parlando di “una riforma epocale del processo civile”, indicando nelle modifiche al diritto processuale della famiglia la parte migliore, ha evidenziato il rischio di una lesione del diritto di difesa. E ciò in quanto viene previsto un sistema di preclusioni che vale “per le parti e i loro avvocati, ma non per i giudici”. “Su questo punto si è presa una strada sbagliata - ha sottolineato -. Non si discuterà più su chi ha ragione e chi ha torto ma su chi ha rispettato i termini e chi no”. A dare ragione all’avvocatura anche Alberto Balboni, di Fratelli d’Italia, che annunciando il no alla fiducia ha definito “incostituzionale” la riforma, denunciando “la compressione dei diritti delle parti” e la riproposizione tardiva del “fallimentare” rito societario, già abbandonato da tempo. “Tutta l’avvocatura italiana ha lanciato allarmi e appelli - ha aggiunto -, tutti da voi disattesi, per fare presente il serio rischio che questa riforma provochi un allungamento dei tempi del processo, visto che anziché intervenire sul momento della decisione, dove si concentrano le vere lungaggini, si concentra sulla fase introduttiva, allungandone schizofrenicamente proprio quei tempi che vorrebbe abbreviare e senza mai prevedere conseguenze per il giudice”. Per Balboni, dunque, la filosofia di fondo è quella di “punire” i cittadini che decidono di rivolgersi al giudice per far valere i propri diritti, attraverso “un processo pieno di formalismi, veri e propri trabocchetti che penalizzeranno sempre di più proprio la parte più debole e indifesa”. Soddisfatta, invece, la vicepresidente del Senato, la dem Anna Rossomando (anche lei relatrice del ddl). “Abbattimento del pregresso, riduzione dei tempi dei processi, tribunale della famiglia e lettura della violenza domestica sono gli aspetti fondamentali della riforma del processo civile, insieme a risorse, innovazione e organizzazione - ha sottolineato -. Il Parlamento è stato in grado di dare una svolta a una delle riforme più attese dal sistema di impresa e dai cittadini, oltre che precondizione per l’ottenimento dei fondi del Pnrr. Il nostro impegno ha riguardato in particolare l’ufficio del processo come misura strutturale, mentre già sono state avviate le 16mila assunzioni e l’ampliamento del ricorso ai riti alternativi contestualmente al ricorso agli incentivi fiscali così da non discriminare cittadini e imprese in base alle possibilità economiche. Sul fronte del diritto di famiglia si introduce una novità sostanziale con la creazione del tribunale e si punta un faro sulla violenza familiare con il rafforzamento della tutela del minore. Queste novità su cui abbiamo lavorato insieme a maggioranza e Governo ci portano a dare un giudizio positivo sulla riforma”. A far discutere, in apertura di seduta, è stato il voto di fiducia sul ddl penale calendarizzato oggi, nonostante ieri la Commissione Giustizia al Senato stesse ancora lavorando sugli emendamenti. A chiedere una modifica del calendario è stato il senatore di “L’Alternativa c’è” Mattia Crucioli, che ha definito “impossibile” votare con così poco tempo a disposizione. “In Commissione l’esame degli emendamenti è iniziato oggi, il calendario ci impedisce la possibilità di votarli, e sono tantissimi perché la riforma modifica profondamente il processo penale. Fare una riforma del genere, che non ha l’urgenza di un decreto, senza poterla discutere, è profondamente antidemocratico”. L’Aula si è però espressa negativamente, scatendano la protesta dei senatori di Ac, che hanno esposto cartelli con su scritto “Impunità di Stato” e “La mafia vi ringrazia”. La protesta si è poi spostata nella sala Koch, dove si sta riunendo la Commissione Giustizia, dove i senatori hanno improvvisato un’occupazione. “Impedire alle opposizioni di discutere e votare gli emendamenti in commissione - si legge in un comunicato stampa -, anche su provvedimenti per i quali non sono previsti termini di scadenza per la conversione di decreti urgenti e che non sono connessi all’emergenza sanitaria, è ingiustificabile. La gravità di quanto sta accadendo risulta ancora più evidente se si rammenta che la norma in questione riformerà in senso peggiorativo la giustizia penale, sancendo l’impunità anche per reati gravissimi e nonostante l’eventuale condanna in primo grado, non appena scatti l’improcedibilità per decorrenza dei termini in appello o in cassazione; e metterà fine all’autonomia delle Procure, imponendo ai pubblici ministeri di sottostare a criteri di priorità sulle indagini dettati dalla politica”. Ma a protestare sono stati anche i senatori di Fratelli d’Italia, che hanno lamentato un esautoramento del Parlamento. “Il problema più grande - ha sottolineato Luca Ciriani - è l’azzeramento del ruolo del Parlamento e del Senato. Qualcuno dovrebbe avere la dignità di alzarsi e dire che così non si può andare avanti. Abbiamo stabilito un record nella storia della Repubblica: quattro fiducie in 48 ore. Il ruolo del Parlamento qual è? A cosa serve intervenire e discutere se il governo sempre e sistematicamente pone la fiducia su tutti i provvedimenti? Le fiducie non vengono messe neanche più in seconda battuta, dopo la discussione in una Camera, ma siamo alla fiducia generalizzata costante, sempre, sui decreti, sui ddl delega, ovunque. Se poi il Parlamento chiede di poter discutere e i tempi non ci sono perché il governo mette fretta, o se i senatori hanno l’ardire di presentare degli emendamenti, le Commissioni vengono convocate all’una di notte e alle 5 di mattina per stroncare ogni possibilità di discussione”. Per Ciriani “non è più un Parlamento democratico quello che sistematicamente impedisce ogni tentativo di confronto o discussione. Meglio chiuderlo il Senato a questo punto”. Cartabia e le riforme: Not in my name di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 settembre 2021 L’esecutivo blinda penale e civile. Ma la ministra avverte: compromesso tra alleati “variegati”. “Il governo è supportato da una maggioranza molto ampia e questo è un bene, ma…”. Il discorso che la ministra della giustizia è andata a fare ieri all’Università di Perugia come si vedrà è assai importante. A partire dalla premessa per la quale la più che solida base parlamentare del governo Draghi non lo mette al riparo dalle difficoltà. È infatti contro la sua maggioranza che l’esecutivo sta rovesciando sulle camere una pioggia di questioni di fiducia. Ieri due, la prima alla camera sul Green Pass, la seconda al senato sulla riforma del processo civile. Che è un disegno di legge delega (quindi scritto dal governo per il governo), in prima lettura, sostituito ieri in aula da un maxi emendamento del governo che ne ha complicato la lettura - il testo diventa un unico articolo di 44 maxi commi - ma ha consentito un solo voto di fiducia. Necessaria invece una doppia fiducia oggi, sempre al senato, per approvare la legge delega di riforma del processo penale. In questo caso si tratta della seconda lettura: una delle riforme sulle quali più ha puntato il governo può dirsi compiuta. O meglio potrebbe dirsi compiuta, visto che avrà bisogno dei decreti legislativi attuativi per i quali serviranno altri 12 mesi. Salvo che nella parte dispositiva che riguarda la prescrizione, dove i pasticci della riforma Bonafede (ai tempi del governo con la Lega) sono stati tamponati con la ormai famosa novità della “improcedibilità”. Un rimedio che è un compromesso, è questo il senso più importante del discorso di ieri di Marta Cartabia, al quale la ministra non è particolarmente affezionata. “Io non amo molto che il mio nome sia associato a nessuna di queste misure - dice a Perugia parlando delle riforme dei processi penale e civile - tutte sono frutto di un lavoro corale e il terreno per queste riforme è stato dissodato già dai governi precedenti”. Non nel mio nome, dice la ministra, che solo sulla novità dell’ufficio del processo vuole mettere la firma, “una cosa in cui veramente mi riconosco”. Questo perché la maggioranza “molto ampia” l’ha costretta alla fine, nel caso della riforma penale, a mettere da parte le proposte che aveva ricevuto dalla commissione di esperti da lei nominata, per fare posto alla mediazione, soprattutto con i 5 Stelle e con una parte della magistratura. “Dimenticare il contesto in cui si elaborano determinate scelte - è l’avviso di Cartabia - significa perdere di vista la ragione per cui certe opzioni vanno da una parte e non dall’altra. Qui sembra che la ministra si stia rivolgendo ai tanti giuristi che hanno criticato la soluzione dell’improcedibilità, prevedendo una censura della Corte costituzionale che certo per lei, che della Consulta è stata presidente, non sarebbe cosa bella. Il compromesso, avverte, è il frutto di questa maggioranza non solo “molto ampia” ma anche “molto variegata”. E “sappiamo bene quanto sia affascinante, laborioso, difficile, precario, delicato trovare dei punti di accordo all’interno della maggioranza”. Anche per questo piovono questioni di fiducia. Piovono sopra le perplessità della destra per il nuovo processo civile (e delle liti familiari) e dei 5 Stelle per quella penale, non essendo stato allargato l’elenco dei reati al riparo dalla improcedibilità (gli ex grillini oggi all’opposizione hanno inscenato una protesta: “La mafia ringrazia”). Diventano allora cinque le fiducie, in tre giorni, considerando il primo passaggio del secondo decreto Green Pass ieri alla Camera e la prossima sullo stesso provvedimento di nuovo al Senato. È vero che le riforme nei riti penale e civile sono previste nel Pnrr e il governo le ritiene precondizioni per la continuità del sostegno europeo, ma blindare con la fiducia la legge che affida al governo stesso la riscrittura dei codici è mossa assai pesante. Tanto più che stronca l’esame della riforma penale in commissione (dove le opposizioni tentavano l’ostruzionismo). La grande fretta ha a che fare con la sospensione dei lavori parlamentari la prossima settimana (e il decreto Green pass scade il 5 ottobre) eppure la sessione di bilancio che si doveva evitare è ancora lontana. Per fortuna di Draghi la maggioranza è così ampia che anche se a ogni fiducia perde un pezzo resta sempre più che sufficiente. Ieri sera al senato i sì sono stati 201, una sessantina meno di quelli che il governo avrebbe sulla carta. C’è spazio e tempo per fare peggio. Ancora pochi giorni e saremo alla diciottesima questione di fiducia. Mille giorni in meno per un processo civile: pronta la rivoluzione di Liana Milella La Repubblica, 22 settembre 2021 Al Senato, con la fiducia, passa la riforma che rivoluzionerà la giustizia civile, cardine delle nuove norme promesse alla Ue per ottenere i fondi del Pnrr. Più tutele per donne e figli vittime di violenza. Le stime del ministero: con le novità introdotte contenziosi tagliati del 40%. Oggi un processo dura 2.656 giorni in media. Un processo civile più semplice e più rapido. Meno riti e più spazio alla mediazione e alla negoziazione assistita, ma soprattutto nuove garanzie per le donne e per i minori vittime di soprusi e violenze, per le quali si aprono le porte del nuovo Tribunale della famiglia nel quale si concentreranno tutte le questioni, dai divorzi, alle violenze, all’affidamento dei figli. C’è anche questo nei 23 articoli della riforma del processo civile che affronta, al Senato, il primo passaggio parlamentare con la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Votato con la fiducia, andrà subito alla Camera, per giungere il più rapidamente possibile alla fase dei decreti attuativi. In un Paese dove in media un processo civile dura 7,3 anni (2656 giorni, dati 2018), il ministero stima che la riforma porterà a un taglio medio del 40%, ovvero 1593 giorni, circa mille in meno. Un processo civile molto più semplice - La prima udienza non si risolverà più, come oggi, solo in un’apertura formale, perché la causa dovrà giungere in aula già definita, con l’anticipazione delle richieste di prove. Il giudice quindi potrà partire subito, scegliendo quali prove ammettere, quando rimettere il caso in decisione, inviare le parti in mediazione. Anche la fase della decisione sarà semplificata, verrà soppressa l’udienza di precisazione delle conclusioni e di altre udienze “inutili”. Maggiore spazio, dopo l’esperienza fatta durante il Covid, alle innovazioni telematiche come le udienze a trattazione scritta e quelle da remoto. Tra le novità del processo di primo grado anche l’ordinanza immediata di accoglimento o di rigetto. In Appello sarà ridotta la possibilità di sospendere l’efficacia della sentenza di primo grado, entrerà in funzione un filtro sulle ammissibilità sul quale la Corte pronuncia una sentenza che può essere impugnata in Cassazione, dove dovranno valere i principi di chiarezza e sinteticità degli atti in base al principio di autosufficienza. Riti semplificati, via la sezione filtro, ridotte le ipotesi di decisione in pubblica udienza. Tra le principali novità la possibilità del “rinvio pregiudiziale in Cassazione”, per cui il giudice del primo grado potrà investire direttamente la Corte nelle ipotesi di questioni di puro diritto, nuove, di particolare importanza, che presentino gravi difficoltà interpretative, e soprattutto con un carattere seriale, siano cioè suscettibili di riproporsi in numerose controversie. Per evitare che questo strumento sia utilizzato indebitamente e crei appesantimenti sarà il primo presidente della Cassazione a decidere sulla richiesta. Il processo del lavoro e del credito - Viene abolito il doppio binario creato dalla legge Fornero. Ci sarà un unico procedimento per i licenziamenti, con una corsia preferenziale nei casi di richiesta di reintegro nel posto del lavoro. Nello spirito della riforma, l’obiettivo è quello di far sì che aziende e lavoratori restino il minor tempo possibile nel limbo dell’incertezza. Una corsia preferenziale smaltirà anche le domande risarcitorie. Semplificato anche il rito sulla tutela del credito. Nelle procedure di espropriazione saranno possibili deleghe ai professionisti incaricati di coadiuvare i giudici. Viene introdotta la cosiddetta “vente privée”, ossia la vendita dell’immobile da parte dello stesso debitore sotto esecuzione. Vengono introdotte misure pecuniarie di coercizione indiretta nei casi di mancato rispetto dei termini previsti dal processo esecutivo. Mediazione, negoziazione, arbitrati - Come ha annunciato la stessa Cartabia a luglio, quando ha presentato al Senato i suoi 24 emendamenti rispetto al testo base del suo predecessore Alfonso Bonafede, lo scopo è quello di “semplificare i procedimenti civili nelle forme e nei tempi, fornire risposte più celeri alle esigenze quotidiane dei cittadini, favorire l’attrazione degli investimenti stranieri”. Input per favorire il diffondersi della cultura della mediazione. Finché questa strada non si radica nella mentalità di chi affronta una controversia, l’utilizzo di questo strumento di risoluzione delle liti civili sarà obbligatorio. Con un monitoraggio di 5 anni per verificarne gli effetti. Sono previsti incentivi per stimolarla, come forme di credito di imposta, cioè lo scalo dalle tasse delle spese legali necessarie. Per la mediazione e la negoziazione assistita è previsto anche il gratuito patrocinio a spese dello Stato. La mediazione diventerà obbligatoria per i contratti, quando le parti sono legate da rapporti stabili. La riforma prevede anche percorsi di formazione per i mediatori. La negoziazione assistita tramite gli avvocati viene estesa alle controversie di lavoro e a quelle sull’affidamento e il mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, fissando anche l’assegno divorzile in un’unica soluzione. Viene potenziato l’arbitrato rafforzando le garanzie di imparzialità degli arbitri (con l’obbligo di rilevazione di eventuali cause di ricusazione) e attribuendo a loro, se le parti sono d’accordo, il potere di emanare misure cautelari. In aiuto delle donne senza soldi - Donne e minori dunque. Partiamo da qui per scoprire importanti novità. A partire dalla possibilità di tutelare la donna che, in un caso di separazione, si trova in una condizione di inferiorità economica rispetto al suo ormai ex partner. Qualora vi sia effettivamente una parte debole nella coppia dal punto di vista dei soldi, questa può chiedere e ottenere dal giudice che una parte dei redditi possa essere messa a sua disposizione. Facciamo un esempio: una casalinga avrà diritto a una quota dello stipendio del marito, anche se i due non si separano. Dalla parte dei figli maltrattati - Dal sostegno economico ai maltrattamenti. Il futuro codice consentirà ai giudici di mettere in sicurezza i minori, qualora siano vittime di maltrattamenti in famiglia, con una procedura rapida di affidamento ad altri parenti che risultino idonei oppure a una casa famiglia. Che differenza c’è rispetto alle norme già in vigore? Oggi la legge non prevede tempi definiti, per cui può accadere che i bambini vengano messi in una casa famiglia, ma solo in via provvisoria. Con la nuova legge invece il servizio sociale dovrà comunicare alla nuova Procura dei minorenni, entro 24 ore, il provvedimento di affido del minore alle case famiglie. Le procure dovranno presentare dettagliatamente il caso al giudice che a sua volta potrà convalidare o revocare la richiesta. La ratio della misura, come spiegano in via Arenula, è che in questi interventi è necessaria “una valutazione di proporzionalità tra il danno e l’aiuto, perché togliere un bambino alla famiglia è sempre un atto doloroso”. Che di conseguenza va attentamente ponderato. Per questo il giudice dovrà innanzitutto valutare sommariamente la legittimità del provvedimento, e comunque, prima di arrivare alla decisione definitiva, dovrà convocare i genitori. Un passaggio che oggi non è previsto. Si tratta, dice ancora chi lavora con la Guardasigilli Marta Cartabia, di “una misura a protezione del bambino, che riconosce la sua dignità e soprattutto la necessità che ogni intervento debba passare attraverso un giudice del Tribunale della famiglia”. Via il marito o il convivente violento - E sempre lo stesso Tribunale della famiglia, senza ricorrere al giudice penale col rischio di allungare i tempi, può intervenire con mariti e conviventi violenti. Il codice consentirà di emettere, con una misura immediata e urgente, un ordine di protezione per allontanare il convivente violento. Oggi i Tribunali per i minorenni possono intervenire solo qualora ci sia un rischio per i figli. In futuro invece, partendo dal presupposto che la violenza sulla donna rappresenta comunque un rischio anche per i minori, il Tribunale potrà allontanare il marito o compagno violento anche nei casi in cui la convivenza sia cessata. Il giudice non dovrà neppure tentare una possibile mediazione che poi potrebbe avere, come dimostrano i tanti e recenti casi di cronaca, effetti disastrosi per il riacutizzarsi della violenza fino all’omicidio. Dialogo serrato tra giudici civili e penali - A differenza di oggi, i giudici civili e penali che si occupano di famiglia potranno coordinarsi soprattutto nei casi di separazioni in cui si siano verificati episodi di violenza con l’obiettivo di rendere il più rapidi possibili i provvedimenti a tutela sia della donna che dei figli. Proprio per questo il giudice civile potrà compiere dei primi accertamenti anche sommari per verificare se ci sono stati episodi di violenza ed emettere subito misure di protezione. Qualora il giudice dovesse orientarsi per l’allontanamento del minore prima deve ascoltarlo e solo come extrema ratio, nei casi in cui la salute dello stesso bambino risulti a rischio, ipotizzare il ricorso alla forza pubblica. Nei casi molto comuni di un genitore separato che non fa vedere il figlio all’altro genitore, il giudice dovrà dialogare con i due partner, anche utilizzando servizi sociali e Asl, per trovare una via che non arrechi traumi ai figli. Il Tribunale della famiglia - È la nuova istituzione che, senza sopprimere gli attuali tribunali per i minorenni, raggrupperà in un’unica struttura civile e penale tutte le competenze su minori e famiglia. Avrà una sede “distrettuale” e articolazioni “circondariali”, ad esempio una sede distrettuale a Roma oppure a Milano, e sedi circondariali nelle singole province, proprio come oggi. Nel nuovo Tribunale della famiglia ci sarà anche l’ufficio processo, costituito da giudici onorari, le cui competenze, dicono in via Arenula, “saranno un valore aggiunto sia per le sedi circondariali che per quelle distrettuali”. Sarà una riforma processuale che non incide sul diritto sostanziale di famiglia, ma ne incrementa le garanzie nei relativi giudizi. Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie: più armi contro la violenza domestica di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2021 La casa famiglia deve essere un’opzione residuale, il bambino va sempre ascoltato. La casalinga ha diritto a una quota dello stipendio del marito, anche se non si è separata (principio di delega). Tra le principali innovazioni proposte dal Governo al Ddl n. 1662, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile, di cui si discuterà oggi pomeriggio in Senato, vi è l’istituzione del Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie. Secondo Palazzo Chigi si tratta di una riforma processuale, che non incide sul diritto sostanziale di famiglia ma ne incrementa le garanzie nei relativi giudizi. L’articolazione sarà in Tribunali circondariali e, quale organo centrale, un Tribunale distrettuale. I Tribunali per i minorenni non sono soppressi, ma trasformati in queste ultime nuove articolazioni, per valorizzare le loro specializzazioni. Il Tribunale della famiglia sarà supportato anche da un Ufficio del Processo, costituito da giudici onorari, le cui competenze saranno un valore aggiunto sia per le sedi circondariali che distrettuali. Si introducono anche per il giudizio minorile regole processuali uniformi, con l’intento di fornire un assetto organico e coerente, per una più salda garanzia dei diritti delle parti: contraddittorio, rispetto dei tempi, contenuto e deposito degli atti, poteri del giudice, ecc. L’articolo 403 attribuisce all’autorità, la possibilità di mettere in sicurezza i minori (in caso di maltrattamenti ad esempio) o affidandoli a familiari idonei o in una casa famiglia. Sino a oggi invece la legge non prevedeva tempi definiti, per cui poteva accadere che i bambini stessero mesi in una casa famiglia, “in via provvisoria”, senza l’assunzione di adeguati provvedimenti e senza che nulla di fatto succedesse. Nell’ipotesi di riforma, il servizio sociale dovrà comunicare alla Procura dei Minorenni entro 24 ore il provvedimento di affido del minore alle case famiglie. E le Procure riferire al giudice, che può o convalidare o revocare. Il giudice dapprima valuta sommariamente la legittimità del provvedimento e prima di adottare la decisione definitiva convoca i genitori. Prima questo passaggio non era previsto. Si introduce poi una norma giurisdizionale, per un provvedimento che è a protezione del bambino, ma che comunque è un atto molto forte e che ne limita la libertà. L’innovazione mira al riconoscimento della dignità del bambino e della necessità che ogni intervento debba passare attraverso un giudice del Tribunale della famiglia. Attualmente, il Tribunale per i minorenni è solo distrettuale. Con la nuova struttura del Tribunale delle famiglie (articolata come detto in Tribunali circondariali e Tribunale distrettuale) si garantisce invece la prossimità e si cerca di valorizzare la specializzazione del giudice minorile. Attraverso la definizione delle piante organiche, infatti, ci sarà una sezione specializzata del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, presso ogni sede circondariale. Per garantire la prossimità, il nuovo Tribunale non si occupa solo dei minorenni, ma anche delle questioni riguardanti la famiglia. Tipo separazioni, divorzio (in sede circondariale). Casi di violenza - Nei casi in cui - ad esempio in un giudizio di separazione - la donna alleghi di essere vittima di violenza, questo impone ai giudici di adottare provvedimenti di protezione (articolo 342 bis), di accorciare i termini di decisione e di munirsi di poteri di accertamento sommario. In questi casi, il giudice non deve proporre la conciliazione (la Convenzione di Istanbul vieta che in caso di violenza, si tenti la mediazione. In caso di violenza, non si può mediare, la vittima deve essere solo tutelata insieme ai minori, anche loro vittime). Principi già proclamati anche nella configurazione del rito unitario del giudizio di famiglia (nella riforma, con principio di delega, quindi richiede decreti attuativi, ma entra in vigore prima del Tribunale della famiglia che richiede tempi organizzativi più lunghi). Articolo 342 bis: ordine di protezione, si può chiedere di allontanare il convivente violento. È una misura urgente, immediata. Fino a ora, non era consentita al Tribunale dei minorenni, che poteva allontanare il convivente della madre, ad esempio solo se c’era un rischio per i minori. Ora, partendo dal presupposto che la violenza sulla donna rappresenta un pregiudizio anche per i minori, si prevede che lo strumento dell’articolo 342 bis possa essere usato anche dal Tribunale dei minori e anche nei casi in cui la convivenza è cessata. In casi di violenza - emersi nei procedimenti civili- il giudice fino ad ora non aveva strumenti di valutazione, ma demandava al giudice penale. Con inevitabile allungamento dei tempi e rischi per le vittime di violenza. Ora si introduce la necessità di un immediato coordinamento tra autorità giudiziarie: il giudice civile può raccordarsi con quello del penale, se trova, ad esempio nei casi di separazione, tracce di violenza. E a sua volta, la Procura deve mettere a conoscenza del giudice civile, eventuali atti contro il coniuge violento. Il coordinamento tra autorità giudiziarie e forze dell’ordine è importante, per evitare casi in cui eventuali denunce di violenza non siano note al giudice della separazione ad esempio (a volte, è purtroppo successo di violenze ulteriori o omicidi, anche dopo una denuncia). Obiettivo: favorire la rapidità di provvedimenti a tutela della donna vittima di violenza e del minore. Per questo, si rendono ora possibili al giudice civile dei primi accertamenti anche sommari, per verificare la violenza, e la possibilità di provvedimenti di protezione. Casi di allontanamento di minori dalle famiglie - Viene disciplinato con principio di delega anche il momento dell’esecuzione: deve avvenire attraverso l’ascolto anche del minore, il contraddittorio, e solo come extrema ratio, solo quando è a rischio la salute dello stesso bambino, si prevede il ricorso alla forza pubblica; questo deve essere residuale. Per altri casi molto comuni, tipo un genitore separato che non fa vedere il figlio all’altro genitore, prima di tutto il giudice - insieme a servizi sociali e Asl - deve trovare nel contraddittorio forme di esecuzione del suo provvedimento, che non siano tali da determinare traumi nel minore. Ancora, si introducono principi importanti, per disciplinare l’esecuzione dei provvedimenti di famiglia: oggi non è disciplinata. Principio di delega: consente il ricorso alle forze dell’ordine, solo se è in pericolo la salute del bambino. Introdotte più tutele processuali a difesa di minori e donne vittime di violenza. Formazione - In caso di padri violenti, soprattutto per un accertamento tempestivo dei fatti, cresce l’impegno per la formazione dei giudici. Anche per mettere in sicurezza le vittime della violenza, che sono sia donne, che minori. La casa famiglia per i figli deve essere però un’opzione residuale. (Capita che a volte alle donne vittime di violenza vengano tolti anche i figli). Prima di ogni decisione sui figli, va ascoltato anche il bambino, per capire ad esempio le ragioni del perché si rifiuta di vedere un genitore. Formazione anche per consulenti tecnici: non è l’unico mezzo di prova, albi iper specializzati per neuro psichiatria infantile. Tutela della donna, in casi di inferiorità economica - Qualora vi sia una parte debole economicamente, può chiedere al giudice che una parte dei redditi possa essere messa a sua disposizione. Esempio: la casalinga ha diritto a una quota dello stipendio del marito, anche se non si separano. È un principio di delega. Amara, l’autunno caldo della giustizia. Le verità dell’avvocato sul tavolo delle procure di Giuliano Foschini La Repubblica, 22 settembre 2021 L’uomo al centro dei principali scandali giudiziari del paese, ora in carcere, ha ripreso a parlare e sta collaborando con i magistrati. Consegnate alcune registrazioni, si va in cerca di riscontri: alcune conferme, ma anche le prime archiviazioni. Avviso ai naviganti: l’autunno giudiziario italiano avrà un nuovo, vecchio, protagonista. L’avvocato Piero Amara. L’uomo che galleggia tra il ruolo di grande millantatore (complici anche i suoi precedenti penali: oggi è in carcere per scontare un cumulo di pene) e di grande pentito (ha riempito centinaia di pagine di verbali con alcuni dei nomi più importanti del mondo della giustizia, politica e imprenditoria) ha infatti ripreso la collaborazione con la magistratura. Lo sta facendo dal carcere di Roma. E sta parlando con almeno due procure: quella di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, dove è finita la parte principale delle dichiarazioni sulla “Loggia Ungheria”, la presunta loggia massonica di cui Amara ha detto di aver fatto parte insieme con alcuni pezzi della classe dirigente italiana. Quella di Potenza, dove Amara è stato arrestato per i suoi rapporti con l’ex procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo. E chiaramente quella di Milano, dove Amara ha rilasciato i primi verbali. Poi al centro della grande fuga di notizie (o meglio: la consegna dei verbali di uno dei pm titolari dell’indagine, Paolo Storari, a Piercamillo Davigo, affinchè lo tutelasse dal presunto immobilismo dei suoi capi) che ha travolto la procura lombarda, e a scendere fino al Consiglio superiore della magistratura. Amara ha dunque ripreso a parlare. E chi lo interroga ha deciso di adottare un metodo: ascoltare. E verificare punto per punto, perché ormai appare chiaro che non è possibile dare nulla per scontato quando si parla di Amara. L’impressione di tutti gli investigatori è che l’avvocato utilizzi da sempre un metodo - lo ha cominciato a fare un decennio fa nella sua Siracusa - in cui mischia verità, mezze verità e bugie in modo da rendere il suo racconto un calderone verosimile e difficilissimo da interpretare. “Una personalità complessa - ha scritto il tribunale di sorveglianza di Roma, nel confermargli il carcere - di un soggetto invischiato in faccende che si inseriscono in un contesto criminale di spessore che destabilizza totalmente le istituzioni”. Una presenza che ha “dominato e inquinato la storia giudiziaria del nostro Paese degli ultimi anni”. Resta però il lavoro dei magistrati, consci che qualcosa di vero nei racconti ci potrebbe essere. Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, ha secretato i verbali raccolti in estate, in attesa che la Polizia giudiziaria termini il lavoro. Ma sull’asse Milano-Perugia-Roma alcuni primi riscontri stanno arrivando: il suo ex socio di studio, Giuseppe Calafiore, anche lui coinvolto in una serie di inchieste, ha depositato delle registrazioni che proverebbero alcune delle accuse mosse da Amara. Resta però la grande domanda: quanto può essere attendibile uno come Amara? Il tribunale di sorveglianza di Roma, negandogli gli arresti ai domiciliari chiesti dai suoi avvocati (Salvino Mondello e Francesco Montali), ha usato parole durissime: “L’attività collaborativa ben può essere frutto di scelte dettate da opportunità processuale”. In questo senso, alcune procure hanno già valutato diversamente le dichiarazioni dell’avvocato: la procura di Catania ha, per esempio, chiesto l’archiviazione per il procuratore aggiunto di Roma, Lucia Lotti. Il gip ha ora fissato una camera di consiglio. Mentre decine di persone citate nei verbali hanno già annunciato denunce per calunnia e richieste di risarcimento danni. L’autunno, d’altronde, è appena cominciato. Lo Stato processa sé stesso e la trattativa con la mafia di Attilio Bolzoni Il Domani, 22 settembre 2021 Il tribunale di Palermo è a un passo dalla sentenza d’appello sul processo in cui le istituzioni si auto-accusano Secondo i pm e la sentenza di primo grado, ci sono state tre diverse trattative a colpi di bombe e favori Con la morte di Falcone e Borsellino. Cos’è il processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia? È lo stato che si guarda dentro, che imputa a sé stesso colpe gravi, prima fra tutte quella di alto tradimento per essere sceso a patti con il nemico. La parola, trattativa, fa venire i brividi perché il nemico di cui si parla è la mafia siciliana che ha ucciso Falcone e Borsellino. Com’è possibile o solo immaginabile che lo stato possa dialogare con assassini come Totò Riina e Leoluca Bagarella, che in difficoltà estrema chieda aiuto e consigli a un mafioso come Vito Ciancimino, che si agiti convulsamente per agganciare i peggiori criminali del paese allo scopo - nel migliore dei casi - di proteggersi da bombe e ritorsioni? Con pudore, quando scriviamo di trattativa, il più delle volte la facciamo precedere dagli aggettivi “supposta” e di tanto in tanto anche “presunta”, dimenticando che pezzi di stato mercanteggiano con le “classi pericolose” - mafia, camorra e ‘ndrangheta - da quando l’Italia è Italia, cioè da più di un secolo e mezzo. Copiosa è la documentazione che si può facilmente reperire negli archivi storici. Eppure soltanto a sentirla nominare fa sempre scandalo, in molti mostrano meraviglia, incredulità. Perché? Perché dagli scaffali polverosi delle biblioteche quella parola, dopo le stragi, è transitata nelle aule di giustizia. Indagini, pubblici ministeri, imputati eccellenti, avvocati, requisitorie, condanne che hanno provocato lacerazioni nella magistratura e nella pubblica opinione. Lo stato può anche processare se stesso e il suo passato ma mai in un tribunale o in una corte di assise. L’anomalia del processo di Palermo sta in questo passaggio - necessario? spericolato? - ritenuto da taluni scabroso se non addirittura intollerabile. Ed è un’anomalia che nasce da altre deviazioni molto italiane: l’uccisione di Giovanni Falcone e la ricerca di mandanti occulti mai trovati, l’assassinio di Paolo Borsellino segnato dai depistaggi degli apparati, le bombe in Continente del 1993, i maneggi ministeriali o addirittura presidenziali per alleggerire il carcere duro ai boss e poi tutto il resto che è diventata cronaca del mistero degli ultimi trent’anni. Subito dopo queste tragedie nazionali, ecco che abbiamo finto clamorosamente di scoprire all’improvviso che esiste la famigerata trattativa. E, come sempre è accaduto, dal 1861 alla fine della seconda guerra mondiale, non è la mafia che ha mosso il primo passo ma è lo stato che l’ha fatto. Lo sconcerto è solo ipocrisia. Tutt’altro discorso e se, questa, è materia che può diventare oggetto di attenzioni investigative o giudiziarie. Comunque, una sentenza di primo grado ha già condannato nel 2018 alti ufficiali dell’Arma e i vertici di Cosa Nostra, insieme a loro anche il senatore della Repubblica Marcello Dell’Utri, “cerniera”, collegamento stabile fra la mafia siciliana e Silvio Berlusconi, tre volte capo del governo italiano. Il verdetto d’appello della cosiddetta trattativa stato-mafia è atteso da un giorno all’altro. Questa storia così controversa e incandescente ha inizio alla fine dell’inverno del 1992. Palermo, è il 12 marzo del 1992 e fra i vialetti di Mondello i sicari del capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina uccidono Salvo Lima, l’uomo politico più potente della Sicilia e il fedele raccoglitore di voti e di segreti di Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e 21 volte ministro. I killer inseguono Salvo Lima che cerca la fuga, gli sparano alle spalle come si fa con i traditori. Deve pagare perché non ha mantenuto le promesse, “il buon esito del maxi processo” istruito dal giudice Falcone e che appena due mesi e mezzo prima - il 30 gennaio - si è concluso con una raffica di condanne per il vertice dell’associazione criminale. È la prima volta che la mafia viene condannata in quanto mafia, nel marmo della giurisprudenza viene scolpito che la mafia esiste davvero, non è una favola. Il pomeriggio di quel 12 marzo Giovanni Falcone, che intanto è stato nominato direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, si precipita a Palermo e dice a Paolo Borsellino e una mezza dozzina di magistrati riuniti in una stanza della procura della repubblica: “Da questo momento può succedere di tutto”. E di tutto infatti succede. Le condanne in Cassazione rompono un patto fra poteri legali e illegali che resiste da decenni, la mafia siciliana che ha messo in conto gli ergastoli in primo e secondo grado, capisce che senza l’”aggiustamento” sperato è ormai all’angolo. Ma non c’è solo Cosa Nostra alle corde. Alla fine della primavera si vota per il nuovo presidente della Repubblica, la corsa verso il Quirinale di Giulio Andreotti è finita. L’omicidio del suo amico Lima l’azzoppa e per lui è l’inizio di una lunga vicenda giudiziaria che lo porterà alla sbarra con una mezza condanna (reato prescritto) e una mezza assoluzione per insufficienza di prove. Con l’uccisione di Salvo Lima Cosa Nostra si ritrova improvvisamente in Sicilia senza più “copertura” politica. La tensione sale. Tutto ciò che era scontato non lo è più. Lima e Andreotti erano una sorta di punto di equilibrio fra stato e mafia, il delitto del 12 marzo fa saltare il banco. C’è un clima di terrore. Si spaventano in tanti. Il ministro delle Poste, Carlo Vizzini, il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, il ministro della Difesa, Salvo Andò. E naturalmente Giulio Andreotti. Ma il più sgomento - questa è la tesi dell’accusa che però sarà smentita in ogni grado di giudizio - è il ministro siciliano per gli Interventi straordinari per il mezzogiorno, Calogero Mannino. Si sente in pericolo, sostengono i pubblici ministeri di Palermo. E, per salvarsi la pelle, contatta il capo dei reparti speciali dei carabinieri, Antonino Subranni, e il capo della polizia, Vincenzo Parisi, per avviare un patto con i boss. Tesi assolutamente “infondata e totalmente illogica”, sentenzierà la Cassazione. Calogero Mannino, già processato con rito abbreviato, sarà assolto definitivamente nel 2020. Ma Totò Riina è già inghiottito nel suo delirio di onnipotenza e ha già deciso (sicuramente non in solitudine) chi deve abbattere: Giovanni Falcone, il nemico di sempre. Ordina ai suoi di preparare un agguato a Roma, il giudice gira per la capitale senza scorta, va a mangiare con amici e colleghi a Campo de’ Fiori, passeggia tranquillo sul Lungotevere. È un bersaglio facile, i killer lo pedinano. Ma il capo dei capi richiama i sicari in Sicilia, perché Falcone deve morire “in un altro modo”. È il 23 maggio 1992, la bomba, l’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, il cratere. A Palermo la terra trema e a Roma, dopo quindici fumate nere, deputati e senatori non riescono ancora ad eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Poche ore dopo l’attentato viene scelto Oscar Lugi Scalfaro. Sono passate due settimane dall’uccisione di Falcone, il paese è sprofondato nella paura e due carabinieri del Ros - i reparti speciali - il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, cercano l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino per provare a catturare Totò Riina che è latitante dal 1969. Mori e De Donno vogliono il capo dei capi per fermare le stragi. Patteggiano. È la prima trattativa. Autonoma o per conto terzi? “Di nostra iniziativa e per non avere più stragi”, dicono. Ma l’inchiesta di Palermo accerterà che almeno tre persone sono a conoscenza dell’iniziativa di quei carabinieri: il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, il direttore degli Affari penali di via Arenula, Liliana Ferraro (quella che ha sostituito Falcone al ministero), e il presidente della commissione parlamentare antimafia Luciano Violante. È Massimuccio Ciancimino, il figlio più piccolo di don Vito, a svelarlo nelle sue spericolate e fantasiose confessioni ai pubblici ministeri. Forse è la sua sola verità. Basta per aprire un varco alla ricerca di qualcosa che qualcuno vuole tenere segreta. Chi sa, davvero, cosa sta accadendo in quelle settimane d’estate successive all’uccisione di Giovanni Falcone? Cinquantasette giorni dopo la bomba sull’autostrada, salta in aria Paolo Borsellino. Secondo i magistrati di Palermo c’è stata una “accelerazione” nell’ideazione del massacro di via D’Amelio, Borsellino si era messo di traverso al dialogo e l’hanno ammazzato. Poi comincia una seconda trattativa. C’è chi “si fa sotto” con Totò Riina, che intanto prepara il suo “papello”, le richieste per far cessare gli attentati. Vuole benefici di legge per il popolo di Cosa Nostra, nuove norme sul pentitismo, soprattutto vuole ciò che ogni mafioso sogna dal giorno della condanna in Cassazione: la revisione del maxi processo. A Roma il premier è Giuliano Amato, il ministro dell’Interno è Vincenzo Scotti, che però all’improvviso viene sostituito da Nicola Mancino. La data alla quale possiamo - almeno ufficialmente - far risalire l’inizio della seconda trattativa è il 15 gennaio 1993, quando catturano Totò Riina dopo 24 anni e 7 mesi di latitanza. È un arresto misterioso. Lo fanno i carabinieri del Ros, quelli comandati dal generale Subranni e dal colonnello Mori, lo stesso Mori che ha agganciato Vito Ciancimino. Il covo del boss non viene perquisito per 19 giorni, quella mattina non prendono altri mafiosi che erano riuniti in summit, la procura di Palermo guidata da Caselli aprirà un’inchiesta con un ritardo di qualche anno. Alla vigilia del 15 gennaio, il ministro dell’Interno Mancino sa già che il capo dei capi finirà dentro. Ci sono tutti gli indizi per alimentare un sospetto: Totò Riina è stato “venduto”, probabilmente dal suo amico Bernardo Provenzano che è già in contatto con pezzi dello stato per firmare la pace. Dentro Cosa Nostra ci sono due fazioni, quella legata a Riina che trasforma la mafia in terrorismo. I suoi sicari cercano di uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, poi nella notte fra il 26 maggio e il 27 esplode la bomba ai Georgofili di Firenze, cinque morti e 48 feriti. Ci sono attentati anche a Roma e a Milano, i pentiti raccontano che lo “zio Totò” (imbeccato da chi?) vuole buttare giù la torre di Pisa, a Palazzo Chigi c’è un black out che fa temere un golpe al presidente del Consiglio Ciampi. Alla Giustizia non c’è più Claudio Martelli ma Giovanni Conso. E qui, in un’Italia nel panico, prende avvio la terza trattativa. Totò Riina è rinchiuso in un buco di cella, Bernardo Provenzano - l’altra anima di Cosa Nostra - è ancora libero e lo resterà ancora per 13 anni. All’improvviso vengono cambiati tutti i vertici del Dap, il dipartimento dell’amministrazione carceraria. Presidente della Repubblica è Scalfaro, che è stato ministro dell’Interno, il capo della polizia è Vincenzo Parisi. Al Quirinale vengono recapitate minacciose lettere dei familiari dei detenuti al 41 bis, c’è tensione. Come sempre lo stato fa la voce grossa ma sotto sotto cala le braghe. Alla fine di quel 1993, dopo gli attentati di Firenze e Roma e Milano, 441 mafiosi al carcere duro tornano al regime di “normalità”. Il ministro Conso garantisce che è “stata una autonoma decisione”, i magistrati non gli credono e lo indagano “per false dichiarazioni ai pm”. È la “ragion di stato” a dare sollievo a quei 441 mafiosi? La paura? O che altro di indicibile? La Cosa Nostra che fa riferimento a Totò Riina non molla. E sta preparando la prossima mossa. Il vecchio boss in carcere è furibondo, racconta ai suoi “che io non ho cercato nessuno ma mi hanno cercato loro”, dice ai suoi che ci vuole “un altro colpetto”. L’altro colpetto è una strage allo stadio Olimpico di Roma, è fissata per domenica 23 gennaio 1994, si gioca Roma-Udinese. L’obiettivo mafioso è uccidere “almeno 100 carabinieri”. Ma il congegno che deve provocare l’inferno s’inceppa. S’inceppa o la mafia che comanda ha già fatto la pace con lo stato? Tre giorni dopo il “fallito attentato” all’Olimpico, il 26 gennaio, Silvio Berlusconi annuncia la sua discesa in campo con uno spot che viene trasmesso per la prima volta dal Tg4, il famoso “L’Italia è il paese che amo”. Quattro giorni dopo, a Milano, vengono arrestati Giuseppe e Filippo Graviano, gli irriducibili di Cosa Nostra che con Leoluca Bagarella vogliono ancora seminare terrore. E all’inizio di quella settimana del gennaio 1994 - svelerà il pentito Gaspare Spatuzza - lui stesso è faccia a faccia a Roma con Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma. Metterà a verbale: “Mi fece il nome di Berlusconi. Gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il paesano nostro Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il paese nelle mani”. È la fine della terza trattativa. Silvio Berlusconi è al governo, accanto a lui “il paesano nostro”. Tutto è pronto per ricambiare la “cortesia”, è il decreto Biondi su corruzione e concussione, ma contiene anche una norma sulla carcerazione preventiva. Tutto è pronto ma tutto salta perché il governo cade. Dai bracci del 41 bis monta il risentimento contro Dell’Utri che viene considerato “bersaglio di attentati” e contro Berlusconi che - come già in precedenza Lima - non mantiene le promesse. “Iddu pensa solo a iddu “, è scritto su uno striscione dall’inequivocabile significato esposto dai mafiosi alla curva sud dello stadio della Favorita. Ricostruzione firmata dalla procura di Palermo, indagini aperte dal sostituto procuratore Antonio Ingroia e poi proseguita - quando lui ha intrapreso una sfortunatissima avventura politica - da Nino Di Matteo, Paolo Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Scriveranno i giudici della corte di assise nelle motivazioni della loro sentenza di condanna: “Berlusconi sapeva dei contatti fra Dell’Utri e Cosa Nostra”. La pace c’è e non è solo sulla carta. A Palermo, da quel momento, non si spara più. Gli unici botti sono quelli che si sentono al festino per Santa Rosalia, la patrona della città. Questa inchiesta prende corpo anno dopo anno, ma i pm sono investiti da una tempesta di polemiche. Chi li descrive come “romanzieri”, chi come “fortemente ideologizzati”, qualcuno addirittura li accusa “finalità eversive”. Forse l’inchiesta non è impeccabile in ogni sua piega, certo è che quella brutta parola, trattativa, non se la sono inventata i sostituti procuratori della repubblica di Palermo. Per la prima volta compare in un documento del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di stato dell’11 settembre 1993, quattro mesi dopo la strage dei Georgofili. Protocollo 123G/731462. Oggetto: “Attentati verificatisi a Roma, Firenze e Milano”. Testo: “Nel corso di riservata attività investigativa funzionari del servizio hanno acquisito notizie fiduciarie di particolare interesse sull’attuale assetto e sulle strategie operative di Cosa Nostra. I successivi attentati (dopo Falcone e Borsellino e l’attentato di Firenze, ndr) non avrebbero dovuto realizzare stragi - ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo stato, per creare i presupposti di una trattativa, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Non è solo la procura di Palermo a indagare sui misteri di quella stagione di sangue. Lo fa quella di Caltanissetta che scopre un gigantesco depistaggio nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino, lo fa la magistratura di Firenze che ha anche l’obiettivo di svelare l’identità dei “mandanti altri” degli attentati in Continente. Scavando sullo stesso fronte dei pubblici ministeri siciliani e, dopo avere ascoltato testi come l’ex ministro della Giustizia, Giovanni Conso, scrivono agli atti di un chiaro segnale “di cedimento alla mafia”. In mezzo a questo vortice ci sono le telefonate del presidente, quattro conversazioni intercettate fra il capo dello stato Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Mancino quando quest’ultimo è ancora sotto indagine nel processo di Palermo. Ne nasce un confitto violentissimo fra il Quirinale e i magistrati palermitani sulla legittimità di quelle intercettazioni, Napolitano si rivolge alla Corte costituzionale che ordina la distruzione delle telefonate. Come finirà fra qualche ora o fra qualche giorno a Palermo? Come si pronuncerà la corte di appello sui “traditori” della trattativa? Confermerà le condanne di primo grado della corte presieduta da Alfredo Montalto o la corte del presidente Angelo Pellino offrirà un altro quadro di quei drammatici mesi a cavallo fra il 1992 e il 1993? Nessuno è processato per “trattativa” perché non esiste un reato di “trattativa”, il reato contestato agli imputati è “minaccia e violenza a corpo politico dello stato”, disciplinato dall’articolo 338 del codice, qualcosa di difficile da dimostrare. In primo grado gli ufficiali Mario Mori e Antonino Subranni sono stati condannati a 12 anni come anche Marcello Dell’Utri, il colonnello Giuseppe De Donno a 8, il boss Leoluca Bagarella a 28 anni, Totò Riina è morto e l’ex ministro Nicola Mancino è stato assolto perché il fatto non sussiste. Civiltà o caccia alle streghe? La parola ai giudici di Palermo di Piero Sansonetti Il Riformista, 22 settembre 2021 Si aspetta che i giudici di Palermo escano dalla camera di consiglio e annuncino la sentenza di appello del processo che si chiama “trattativa stato-mafia”. Tra gli imputati non ci sono i principali rappresentanti della mafia, ci sono invece diversi rappresentanti dello Stato, alcuni dei quali, in passato, impegnati nella lotta a Cosa nostra con successo e a rischio della vita. E oggi vittime della caccia all’uomo lanciata da alcuni magistrati. Non si sa assolutamente quali fossero i termini di questa ipotetica trattativa. Si ignora chi la diresse, da parte dello Stato. I testimoni che raccontano che la trattativa ci fu, e che sono gli unici elementi - non certo di prova ma solo di vago indizio - a carico degli imputati sono un mafioso (Brusca) che però è stato scagionato per prescrizione, e il figlio di un mafioso (Ciancimino) che ha subito una condanna per calunnia. Più che un processo sembra uno spettacolo da circo. I capi della trattativa - secondo l’accusa - erano due leader democristiani, Nicola Mancino e Calogero Mannino, i quali però, in processi paralleli e riti abbreviati, sono stati tutti ampiamente e ripetutamente assolti. Quindi non si capisce chi guidò questa trattativa. L’imputato principale, il generale Mori (insieme al suo vice De Donno) è considerato, da chi conosce la storia, il principale artefice della lotta alla mafia, al fianco di Falcone e Borsellino, ed è l’uomo che ha decapitato Cosa Nostra, catturando Riina. L’altro imputato eccellente, Dell’Utri, al momento della ipotetica trattativa era un dirigente di un’azienda privata e non c’entrava niente né con la politica né con lo Stato. Persino l’accusa è un po’ comica. Gli imputati si sarebbero dati da fare per fermare le stragi mafiose e sventare un attentato a un plotone di carabinieri che avrebbe provocato centinaia di morti, promettendo in cambio privilegi che poi mai furono concessi. C’è però un pezzo di magistratura che si è imbarcato in questa avventura folle, probabilmente con la speranza di colpire Berlusconi. Inutilmente. Ora i giudici hanno la possibilità di porre fine a questa messa in scena e stabilire che l’Italia è un paese serio. Mandando assolti gli imputati. I due giudici togati e i sei popolari sono entrati in camera di consiglio e il povero piccolo Travaglio è terrorizzato, dopo che persino il suo giornale è stato costretto a lanciare l’allarme: la strada di una riconferma in appello della sentenza di condanna per gli imputati del processo “Trattativa” “è tutta in salita”. Così l’articolo, piuttosto equilibrato, di Marco Lillo, che spiegava le difficoltà dei pm dopo l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino, il perno dell’accusa che ha fatto crollare tutto il castello, è stato accantonato e sostituito da un vero urlo di dolore di sapore ricattatorio del direttore del quotidiano delle manette. Nel quale si prospettano suicidi di massa, nel caso, non infondato, di una sentenza assolutoria. Ieri abbiamo raccontato di quanto sia scombinato questo processo, che non solo mescola le mele con le pere, ma che ha costretto gli organi dell’accusa ad aggiustamenti in corso d’opera, ma mano che la fantasia non bastava più, e ne era stata sparsa parecchia, a piene mani. Ma va sempre ricordato che persone innocenti sono state accusate e incarcerate. Basti pensare alle sofferenze sofferte per..quanti anni? venticinque? trenta? da Calogero Mannino. In sintesi - lo ripetiamo per chi potrebbe esser tentato di dar retta a quelli tipo Marcolino - l’ex esponente democristiano nel 1992, terrorizzato per la ferocia della mafia che lo aveva preso di mira come proprio nemico irriducibile, avrebbe cercato, tramite gli uomini del Ros, un accordo con i boss. Per far cessare le stragi e salvare la propria vita. Fino a qui, ammesso che l’ipotesi dell’accusa avesse fondamento (in realtà le cose andarono diversamente), non ci sarebbe neanche niente di strano o disdicevole. Rappresentanti dello Stato che si adoperano per impedire ulteriore mattanza, nella stagione delle stragi. Ottima iniziativa. Ma il punto vero del processo “Trattativa” è la perversione malata di chi l’ha ipotizzata. La mafia non regala niente, ovvio. Quindi, che cosa voleva in cambio della tregua? Ecco il famoso “papello” di Totò Riina con le richieste. Che però è già stato stabilito fosse un falso. E l’unica richiesta che secondo i pubblici ministeri di Palermo sarebbe stata soddisfatta è quella che riguarda la cancellazione dell’applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario ai mafiosi in carcere. Ma questo non è mai successo, a nessun capomafia è mai stato tolto il peso della detenzione “impermeabile” prevista da quell’articolo. Si sono sprecate paginate d’accusa a un ministro della giustizia per bene come Giovanni Conso, solo perché nel 1993 aveva applicato una sentenza della Corte Costituzionale che imponeva quel che del resto già prevedeva la riforma carceraria, e cioè la personalizzazione individuale di ogni modalità di applicazione della pena in carcere. Sentenza che il ministro aveva applicato individuando 336 detenuti cui non venne rinnovato il regime del 41 bis, che non andava replicato, aveva ammonito l’alta corte, in modo automatico. Di questi, solo 18 risultavano aderenti a qualche cosca. E non erano certo dei capi. Argomento chiuso, quindi. Infatti neanche nel grido di dolore di Marcolino di ieri se ne parla più. Procediamo con la fantasia. Nel tourbillion di governi e rotazioni di ministeri che segnarono il biennio finale della prima repubblica, nel 1993 fu anche sostituito il capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A Nicolò Amato subentrò la coppia Capriotti- Di Maggio, in cui l’uomo forte era il vice che infatti inventò prontamente i colloqui investigativi nelle carceri, quelli che prescindevano dall’autorizzazione del pubblico ministero (che non era tenuto neppure a essere informato) e che avevano il compito di costruire il “pentitificio”. Nicolò Amato era l’uomo che aveva collaborato alla riforma Gozzini, era quello che aveva manifestato dissenso alla riapertura delle carceri speciali di Pianosa e Asinara, e che aveva scritto quel documento contro il 41 bis che sarà fatale per la sua destituzione dopo dieci anni dalla presidenza del Dap. Questa è la realtà. Ma… Nella ricostruzione fantasiosa in cui tutto fa il brodo della “trattativa”, anche la destituzione di Amato viene interpretata come la cacciata del “duro” delle carceri per favorire i boss detenuti. Lui stesso, che mai aveva digerito quell’ingiusto siluramento, divenne al processo una sorta di testimone contro al se stesso che era stato, il riformatore contrario alla legislazione dell’emergenza. Così dovrebbe invece passare alla storia, secondo la vulgata travaglista, come il negriero che frustava i detenuti, invece di colui che aveva in orrore i provvedimenti emergenziali e lo aveva dimostrato in ogni sua azione quotidiana, dentro e fuori le carceri. Ci sono decine di atti parlamentari, di sue audizioni a dimostrarlo. Ma tutto fa brodo nel gioco della fantasia. Quindi, ricapitolando, la mafia non ha ottenuto niente dalla “trattativa”. E neanche lo Stato. Perché, dopo l’uccisione di Salvo Lima il 17 marzo 1992, avvenuta un mese e mezzo dopo la sentenza di cassazione del maxiprocesso, cioè il punto di partenza del progetto-trattativa che sarebbe albergato nella testa di Calogero Mannino, ci sono stati l’omicidio di Falcone e poi quello di Borsellino e poi ancora gli attentati del 1993. Le stragi non sono cessate, quindi, anzi si sono molÈ tiplicate con la loro ferocia. Questa sarebbe la prima fase della “Trattativa” tra lo Stato e la mafia. E ancora non si è capito in che cosa sia consistita e quali vantaggi abbiano ricavato le parti contraenti. Certamente non ha vinto lo Stato, con due valorosi magistrati ammazzati e i boss a lungo latitanti (Riina sarà arrestato nel 1993). Sconfitti anche gli uomini del Ros i quali, contrariamente a quel che si scrive e riscrive in modo ossessivo, avevano tentato di usare Vito Ciancimino come cavallo di Troia all’interno di Cosa Nostra proprio per aiutare, in cambio di un sostegno alla sua famiglia, nella cattura dei latitanti. Siamo arrivati nella narrazione al 1994 e ancora di “trattativa” non c’è prova alcuna. Del resto la sentenza di appello, confermata in cassazione, nei confronti di Mannino è molto esplicita e ben più severa di noi che ci limitiamo a parlare di fantasia. I termini ben selezionati dai giudici sono “incongruenza”, “illogicità”, inconsistenza” non solo delle prove, ma di tutta quanta la costruzione dell’accusa. La seconda fase, quella in cui entra in scena come vittima predestinata Marcello Dell’Utri, è addirittura grottesca, insostenibile neppure come ipotesi fantasiosa. Infatti, nel grido di dolore di due pagine del direttore del Fatto, gli sono dedicate non più di dieci righe. imbarazzante il tentativo di tirar dentro a ogni costo in vicende di mafia Silvio Berlusconi. Anche se, in questo caso, sarebbe stato, nella veste di presidente del consiglio, vittima dell’assalto minaccioso di Dell’Utri a un corpo dello Stato. Riportiamo tra virgolette la prosa di Marcolino perché è esilarante - “Il quale (Berlusconi, ndr), vinte le elezioni del ‘94 anche grazie ai voti di mafia e ‘ndrangheta, prosegue la demolizione dell’antimafia…soprattutto con le tre norme filo-mafia contenute nel decreto Biondi...”. Ora, va bene la fantasia, ma il primo governo di centrodestra, durato otto mesi, non dimentichiamolo, purtroppo ha avuto il demerito di rendere definitivo quel provvedimento che era stato solo emergenziale e che si chiama 41 bis. Secondariamente, il decreto Biondi, simpaticamente chiamato fino a questo momento “salvaladri”, non ha scarcerato nessun mafioso. Oltre al fatto che, dopo il suo ritiro da parte del governo, meno del dieci per cento dei detenuti usciti è rientrato in galera. Che cosa c’entra Dell’Utri? Quale sarebbe stato il suo ruolo? Ah già, ci eravamo dimenticati di lui, il più innocente di tutti. Avrebbe riferito del successo conquistato dalla mafia con il decreto Biondi ribattezzato “salva-mafia”, a Vittorio Mangano in alcuni incontri sul lago di Como. Come a dire: visto come siamo stati bravi ad aiutare la mafia con un provvedimento di scarcerazione che non ne ha fatto uscire nemmeno uno? C’è bisogno di aggiungere altro, signori della corte d’appello? Roma. Corte dei Conti: vitto e sopravvitto a Rebibbia irregolare e diritti lesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2021 Per i giudici contabili del Lazio ci sono anomalie nelle procedure di gara e un potenziale conflitto d’interesse: la ditta appaltatrice applica un basso costo (poco più di due euro) al pasto giornaliero, ma guadagna sull’extra. Da tempo i detenuti del carcere di Rebibbia hanno denunciato l’insufficienza del vitto e i costi esorbitanti del sopravvitto rispetto alle offerte di chi vive nel “mondo libero”. Denunce raccolte della garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni. Tutto vero. Qualche giorno fa, la Corte dei Conti del Lazio si è espressa ratificando profili di anomalia a monte della procedura di gara con l’emersione di profili di illegittimità. “Avevano ragione i detenuti, hanno torto quelle istituzioni preposte al controllo che hanno avallato queste irregolarità. Azzerare tutto e ripartire con criteri seri e bandi di gara alla luce del sole”, chiosa la Garante Stramaccioni che segue questa vicenda fin da quando ha assunto la funzione da Garante. La Corte dei Conti è netta. Non solo l’appalto del vitto e sopravvitto nelle carceri romane ha profili di illegittimità procedurale, ma è illegittimo anche sul piano delle garanzie “per i detenuti negli istituti di pena, dei basilari principi umanitari desumibili dagli artt. 27 e 32 della Costituzione”. C’è un passaggio della Corte dei Conti che non passa inosservata. L’aggiudicatario dell’appalto ha offerto un ribasso del 57,98 per cento sulla diaria pro capite di 5,70 euro, con impegno alla consegna delle derrate alimentari necessarie al confezionamento dei pasti giornalieri completi a un prezzo di 2,39 euro. Con poco più di due euro a testa, si voleva garantire ai detenuti colazione, pranzo e cena. La Corte dei Conti del Lazio evidenza anche un’altra grave problematicità. Quella del sopravvitto che diventa, per la ditta vincitrice, utile per compensare sui costi bassissimi offerti per il vitto. Ovviamente, a rimetterci sono i detenuti costretti a spendere il doppio rispetto alle persone libere. Ricordiamo che per sopravvitto si intendono gli alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti. I prodotti in vendita sono gestiti dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce anche i pasti. Cibo insufficiente per via della offerta bassissima, motivo per il quale i detenuti ricorrono al sopravvitto. Ritorniamo alla delibera della Corte dei Conte del Lazio. In sostanza evidenza un potenziale conflitto di interesse. Da una parte l’aggiudicatario dell’appalto fornisce un vitto a bassissimo costo (poco più di due euro a pasto giornaliero), ma dall’altra trova una impropria compensazione guadagnando maggiori introiti ricavabili dal sopravvitto. La Corte dei Conti lo scrive chiaro e tondo: “I dati forniti in ordine al valore economico del sopravvitto per il lotto in esame (superiore al 50 per cento del corrispondente valore del servizio di vitto indicato nel disciplinare di gara) inducono, altresì, a escluderne, anche sotto questo profilo, il carattere meramente accessorio rispetto al servizio principale e obbligatorio del vitto e a rilevare il rischio, nel meccanismo posto in essere, di improprie compensazioni, da parte delle imprese, tra minori costi del vitto e maggiori introiti ricavabili dal sopravvitto, potendo l’affidamento allo stesso soggetto dei due servizi essere foriero di un potenziale conflitto di interessi a discapito della qualità dei servizi alimentari primari offerti ai detenuti, per la qual cosa l’amministrazione è tenuta a vigilare diuturnamente con rigore estremo sulla qualità e quantità del vitto e sulla varietà e i prezzi imposti per il sopravvitto”. Ed è proprio nel caso di specie che l’aggiudicatario - come già detto - ha offerto un ribasso del 57,98 per cento sulla diaria pro capite di 5,70 euro, con impegno alla consegna delle derrate alimentari necessarie al confezionamento dei pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena) a un prezzo, appunto, di 2,39 euro. Per la rilevanza delle problematiche trattate, con riguardo al valore straordinariamente basso del prezzo commerciale del vitto giornaliero corrisposto ai detenuti, la Corte dei Conti ha considerato opportuno la segnalazione di tale anomalia, per le valutazioni di propria competenza, alla Ministra della giustizia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’Autorità nazionale anticorruzione, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale presso il Consiglio regionale. Le stesse irregolarità evidenziate per le forniture di cibo già nel 2018 Il vitto e sopravvitto nelle carceri è contemplato dall’articolo 9 della legge del 26 luglio 1975, n. 354. Ovvero nelle orme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in forza del quale ai detenuti “è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima” con garanzia, altresì, a coloro che ne fanno richiesta, ove possibile, di un’alimentazione rispettosa del credo religioso. La medesima norma (comma 7) consente l’acquisto, a proprie spese, di generi alimentari e di conforto (sopravvitto), entro i limiti fissati dal regolamento; tale attività “deve essere affidata, di regola, a spacci gestiti direttamente dall’amministrazione carceraria o da imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dall’autorità comunale”. La norma, impregiudicato l’obbligo dell’amministrazione di garantire alla popolazione carceraria un vitto sano e sufficiente, pone, a carico della stessa, la scelta, nella stessa attività di programmazione contrattuale, tra autoproduzione o esternalizzazione del servizio di sopravvitto, coerente con il generale canone di buon andamento dell’azione amministrativa previsto dall’art. 97 della Costituzione e tale da imporre un’idonea analisi del fabbisogno di inclusione o meno del sopravvitto nell’oggetto dell’affidamento al mercato, anche alla luce della pregressa esperienza amministrativa. Il problema degli appalti che garantiscono vitto e sopravvitto sono perenni. Basta evidenziare che sempre la Corte dei Conti della regione Lazio, a maggio del 2018, ha rilevato aspetti di criticità negli accordi quadro per tali forniture, legati non solo ai profili di sicurezza connessi all’espletamento dei servizi messi a gara rispetto ai principi di pubblicità e concorrenzialità nei pubblici appalti (stante il rischio di potenziali fenomeni di concentrazione dei soggetti titolari degli appalti), ma anche alla gestione con un’unica procedura, benché le due fattispecie presentino, sotto il profilo tanto giuridico quanto sostanziale, caratteristiche differenti; di qui, l’invito della Corte a valutare, nella prospettiva della predisposizione dei futuri bandi, “l’opzione di diversificare le procedure tra i due servizi oggetto dell’attuale accordo” soprattutto per quanto riguarda la fornitura di generi di sopravvitto, con “procedure di gara atte a garantire la partecipazione di un maggior numero di operatori economici, con evidente beneficio della qualità e della economicità del servizio”. Problemi emersi nuovamente con la pronuncia odierna riguardanti il carcere di Rebibbia. Emergono, infatti, anche sotto tale aspetto, profili di irragionevolezza nelle scelte dell’amministrazione, con scrive ancora oggi la Corte dei Conti - “il conseguente pregiudizio alla ricezione di offerte serie, adeguate e consapevoli e a un effettivo confronto concorrenziale su ciascuno dei due servizi da affidare”. Parma. Il procuratore risponde ai reclami dei detenuti. “Evitare l’effetto muro di gomma” La Repubblica, 22 settembre 2021 Protocollo di intesa sottoscritto da Alfonso D’Avino con il Garante delle persone recluse. I reclami dei detenuti che arrivano sul tavolo del procuratore capo di Parma Alfonso D’Avino avranno un riscontro di cui sarà reso partecipate anche il Garante dei detenuti del carcere locale Roberto Cavalieri. L’obiettivo alla base del protocollo di intesa sottoscritto da D’Avino e Cavalieri è diretto a migliorare le condizioni di vita delle persone ristrette, l’ascolto delle loro segnalazioni di eventuali criticità al fine anche di evitare possibili tensioni all’interno della casa circondariale. Nell’intesa, fra le prime in Italia di questo tipo, ha carattere sperimentale ed è valida fino alla fine del 2022. È previsto in primo luogo che - come tra l’altro già disposto da un ordine di servizio dello scorso aprile - tutte le doglianze dei reclusi in merito alle condizioni o alle situazioni vissute all’interno del carcere saranno trattate direttamente dal Procuratore della Repubblica, “in considerazione della delicatezza delle questioni sottese e della circostanza che tali questioni potrebbero avere rilevanza di carattere generale”. Inoltre, “dove non sia manifestamente palese il carattere strumentale della doglianza” la Procura si impegna ad approfondire le tematiche sollevate, relazionandosi a seconda dei casi con la direzione degli istituti penitenziari o il comando della polizia penitenziaria o le autorità sanitarie. In casi “di particolare rilevanza”, infine, i provvedimenti assunti potranno essere comunicati direttamente ai detenuti che hanno presentato le istanze. Nell’ottica di una reciproca collaborazione la Procura di Parma trasmetterà poi al Garante, per opportuna conoscenza, copia degli atti di esercizio dell’azione penale nei confronti di persone ristrette, relativi a reati commessi in ambito penitenziario ai danni di altri detenuti o del personale della polizia. Per quanto riguarda gli impegni assunti dal Garante, invece, il principale riguarda segnalazioni o reclami promossi da detenuti appartenenti al cosiddetto “regime speciale” (ex articolo 41-bis) che tratterà coordinandosi con il Garante nazionale. Nel corso dell’incontro stampa in Procura, D’Avino ha sottolineato di avere ricevuto 440 lettere in trenta mesi dal penitenziario di Parma. Una mole di istanze che il magistrato ha deciso di gestire in prima persona in modo da garantire una linea di trattazione comune. “La novità consiste nel cercare di fare in modo che il detenuto, anche quello in ergastolo, abbia la consapevolezza che tutte le sue rimostranze vadano al vaglio dell’autorità giudiziaria. Istanze che vengono lette e approfondite, potendo richiedere anche una relazione al carcere per decide poi sulla fondatezza o meno di quanto riportato. Di questa attività istruttoria si dà conto al detenuto in modo concreto, così che non abbia l’impressione di avere un muro di gomma davanti. Per tutto il procedimento si passerà attraverso il Garante dei detenuti che avrà il compito di essere l’anello di congiunzione tra Amministrazione giudiziaria, detenuto e Amministrazione penitenziaria”. Secondo Cavalieri, che ha riconosciuto a D’Avino di avere dato impulso al protocollo, l’intesa “ha richiesto sei mesi di confronto tra le varie autorità e ha coinvolto anche il Garante dei detenuti nazionale. Speriamo di poter presentare presto questa opportunità ai detenuti per far comprendere loro il valore e l’occasione che hanno di potersi fare ascoltare e avere delle risposte”. L’occasione è stata propizia per il Garante per ricordare la situazione del penitenziario di via Burla, dove sono recluse 700 persone: “Molto spesso la politica con troppa facilità promette soluzioni ma il carcere è un ambiente complesso: governato da molte norme, alcune delle quali andrebbero riviste. C’è una mancanza cronica di risorse, di spazi, percorsi formativi, educativi e culturali legati spesso alla mancanza di personale. I detenuti hanno difficoltà a far valere i propri diritti, ottenere permessi per visite all’esterno e intraprendere il percorso di reintegrazione nella società. Va ricordato che la finalità non è mai morire in carcere ma lavorare per uscire dal carcere, per riconsegnare il cittadino all’esterno”. Livorno. Al carcere di Gorgona i detenuti partecipano a un progetto sociale di Anna Mazzotti Vanity Fair, 22 settembre 2021 Alla scoperta di paradiso naturale e sede di un carcere speciale: qui i detenuti partecipano a un progetto sociale che li impegna nel campo della viticoltura. Per credere nel domani. Il profilo è scuro e incombente come una gigantesca roccia che emerge lentamente dal mare. Avvicinandosi, però, Gorgona muta completamente. È l’isola più piccola dell’Arcipelago toscano (Parco Nazionale) nonché la più nota per la ricchezza della sua biodiversità e per essere l’unica isola-carcere rimasta in Europa. Se la grande bellezza nasce dall’armonia e dai contrasti, allora questo luogo così aspro e dolce, a metà tra paradiso e purgatorio (i detenuti hanno un residuo di pena da scontare non superiore ai 15 anni), è decisamente magnifico, da rapire il cuore. A poco a poco l’ombra scura intravista in lontananza si trasforma in un selvaggio ed esuberante trionfo di verde, dove la macchia mediterranea, con oltre 400 specie di fiori e piante, alcune autoctone, è popolata da conigli, uccelli migratori, falchi pellegrini e gabbiani reali che sfiorano le acque limpidissime. Le poche case dove un tempo vivevano i pescatori, ora usate per brevi soggiorni dai loro eredi - solo la signora Luisa, l’ultra novantenne nonnina dell’isola, ci abita tutto l’anno - di recente sono state dipinte con colori vivaci, regalando uno scorcio illusorio delle Cinque Terre. Gorgona può essere visitata dai turisti, ma solo su prenotazione e accompagnati da guide abilitate che li conducono in lunghe passeggiate, ideali per appassionati di trekking, per ammirare le splendide insenature, le fronde verdi e argentee degli ulivi Bianco di Gorgona, da cui quest’anno verrà ricavato il primo olio, la Torre Vecchia costruita dai pisani, la Torre Nova medicea, la chiesetta di San Gorgonio. Percorrendo la strada che porta ai vigneti terrazzati, si resta inebriati dall’intenso profumo delle erbe spontanee, di santolina, rosmarino (circa 40 varietà), timo, ginepro e finocchio selvatico, note olfattive che si ritrovano nel vino Gorgona, blend di uve Vermentino e Ansonica, giunto alla sua nona vendemmia. Viene prodotto sull’isola da Marchesi Frescobaldi grazie al lavoro di alcuni detenuti che, ogni anno a rotazione, partecipano a un progetto sociale iniziato nel 2012, nato dalla collaborazione del gruppo vinicolo con la direzione della colonia penale. L’obiettivo: permettere ai carcerati di fare esperienza nel campo della viticoltura, imparare un mestiere, sentirsi utili e credere nel domani. Con la supervisione degli agronomi e degli enologi di Frescobaldi hanno coltivato circa due ettari e mezzo di vigneti da cui è stato ricavato “un vino inimitabile, simbolo di speranza e libertà, che racconta l’amore per l’isola, la passione dell’uomo, la speranza di una vita migliore”, ha detto durante la vendemmia il presidente Lamberto Frescobaldi. “È l’essenza di questa terra e di un progetto che non finisce mai di regalare emozioni”. Un vino che ha anche il gusto del riscatto: “Posso dire a mio figlio che lavoro da Frescobaldi e mandare i soldi a casa. Questa bottiglia l’ho fatta anche io e ne sono fiero”: Federico Falossi, agronomo di una delle tenute del gruppo, ricorda le parole di un detenuto. “Imparano un lavoro e hanno una busta paga. La collaborazione può continuare anche all’esterno, a fine pena: cinque di loro sono stati assunti da noi”. La prima bottiglia della nuova annata è stata assaggiata sull’isola per coinvolgere tutte le persone che hanno contribuito a crearla. “Gorgona è cambiata, stiamo riacquistando un senso di comunità”, spiega il direttore del carcere Carlo Mazzerbo. “Gli 80 detenuti hanno un ruolo, si occupano dei vigneti, degli ulivi, degli animali (mucche e pecore), della manutenzione dei fabbricati. Quando escono hanno maggiori possibilità di reintegrarsi. La recidiva è più bassa: con un mestiere si riscopre se stessi e si acquistano responsabilità e autostima. Bisogna lavorare sulle persone, affinché diventino consapevoli delle scelte fatte. È questa la scommessa”. Durante la pigiatura dell’uva, il “veterano” dei quattro detenuti “viticoltori” (arrivato sull’isola da un altro carcere otto anni fa e con altri cinque da scontare) ha sorriso, un po’ emozionato: “Anche se il pensiero è sempre a casa, alla mia famiglia, arrivare qui è stato un premio. È un’altra vita”. Vibo Valentia. Nel carcere iniziati corsi di formazione per pizzaiolo di Ada Cosco corrierenazionale.it, 22 settembre 2021 Nel carcere vibonese iniziati corsi di formazione per pizzaiolo per sei detenuti, del reparto media sicurezza a Vibo Valentia grazie al supporto della Caritas di Mileto. È proprio il caso di dire oltre il carcere c’è di più! Oggi, la vita da carcerati è veramente cambiata: più diritti e attenzioni. E, laddove la società è più comprensiva, l’inserimento diventa più antropico. È già cominciato il 13 settembre scorso il corso per sei detenuti, del reparto media sicurezza a Vibo Valentia grazie al supporto della Caritas di Mileto. I detenuti sono impegnati in un percorso di formazione intensivo per pizzaioli. Che prevede, al termine del cammino, un attestato per aver seguito in maniera costante, l’acquisizione di una certificazione professionale. È un’invariabile normalizzazione non solo correttiva. Ormai, consolidata da qualche tempo. Grazie al Direttore della casa Circondariale Angela Marcello, che continua a perorare la causa della rieducazione all’interno del carcere con la formazione professionale. E, per la dottoressa Marcello, codice di diritto penitenziario in mano, chapeau dei diritti di umanizzazione e diritti del condannato. Nell’ambito del trattamento rieducativo trovano posto le cosiddette “misure premiali”, volte a favorire il processo di reinserimento. Di riduzione del rischio di recidiva tramite l’offerta di opportunità. Proficua diventa quindi, la collaborazione con la Caritas Diocesana di Mileto. Dove il professor Antonio Morelli, che ha interamente finanziato il percorso formativo, porge la sua disponibilità. Un Corso, soprattutto, per dare opportunità ai detenuti di scegliere di studiare. Per acquisire titoli ed essere pronti, per quando saranno in piena libertà, a immettersi nel mondo del lavoro in maniera specialistica e competente. Alla Caritas preme che i progetti e i loro fondi, vadano nella giusta direzione con effetti positivi. A beneficio non solo del singolo ma della collettività. Il corso è diretto dal professor Giuseppe Guarnaccia famoso panificatore e maestro pizzaiolo affiliato Pizzaitalianacademy e Accademia del pane. Rovigo. Il carcere si amplia: 9 milioni di investimenti di Marco Baroncini Corriere del Veneto, 22 settembre 2021 Saranno realizzati due nuovi padiglioni. Ed è polemica: “Ignorato il territorio, qui lo Stato fa ciò che vuole”. Ampliamento della Casa Circondariale di Rovigo in vista con la costruzione di due nuovi padiglioni per un progetto da quasi dieci milioni di euro. Il ministero della Giustizia con decreto del 15 marzo 2019 ha approvato un programma per la costruzione di 25 nuovi padiglioni nelle carceri di 21 città italiane, capoluogo polesano compreso. Una partita già chiusa: per la fine dell’anno o a inizio 2022 sembrerebbero essere attesi i bandi per l’assegnazione dei lavori. In Veneto oltre a Rovigo è interessato anche l’istituto carcerario di Padova. Per il capoluogo polesano il costo del progetto è di 9.052.729,71 milioni di euro. “Siamo sempre alle solite- afferma Livio Ferrari, presidente del Centro Francescano di Ascolto e portavoce del Movimento “No Prison” - ci hanno piazzato un carcere nuovo senza che il territorio potesse partecipare, come per il carcere minorile. Siamo un territorio cuscinetto dove lo Stato fa quello che vuole e senza ascoltare gli enti, le istituzioni. Da un punto di vista politico bisogna avere più forza”. L’ex consigliere, a favore dell’abolizione dell’attuale sistema carcerario, denuncia come “manchi un dialogo con le istituzioni centrali”. I nuovi padiglioni, come annunciato nel decreto del ministero, prevedono 120 posti detentivi in camere singole con bagno e con il piano terra destinato ad una cucina autonoma e spazi per attività istruttive e formative. Sono circa trecento le persone detenute attualmente a Rovigo di cui un’ottantina nelle due sezioni dell’alta sicurezza. “Invece di politiche per la riduzione delle presenze in carcere il ministero continua ad ampliare e costruire carceri denuncia Ferrari -. I dati forniti dall’amministrazione penitenziaria che dicono che chi sconta la pena fuori dal carcere non torna a delinquere, al contrario del 70-80% di chi vi entra”. Ma a storcere il naso è anche Gianpietro Pegoraro, sindacalista della Cgil Polizia Penitenziaria. “Prima dei nuovi padiglioni servono altri interventi - spiega. A Rovigo non c’è un direttore stabile. Mancano circa una cinquantina di addetti per la gestione della struttura, che obbliga i 123 rimanenti a ore su ore di straordinari. La legge Madia ha bloccato le assunzioni e il reparto di massima sicurezza è un aggravio che pesa sul personale già in difficoltà. Con la prospettiva di nuove celle è difficile essere positivi”. Secondo Pegoraro la soluzione starebbe in investimenti diversi. “Invece di nuove costruzioni serve pensare a pene alternative - continua il sindacalista. Penso ai lavori sociali per le situazioni meno gravi. Anche una maggiore rapidità della giustizia aiuterebbe. Ma il ministero continua a parlare solo di costruire nuovi muri”. Torino. Educare i giovani al rispetto delle regole di Gian Carlo Caselli Corriere di Torino, 22 settembre 2021 Torna il festival Torino Crime, dedicato quest’anno al tema “Diritti e delitti”. Il ritorno del Torino Crime Festival è un altro segnale che ci si avvia al post Covid, sia pure con vari problemi ancora da fronteggiare. Il catalogo predisposto dalla direttrice Valentina Ciappina e dai suoi collaboratori è assai interessante: sia per i temi scelti, sia per il livello di coloro che ne tratteranno. Si apre con un libro su La storia del cannibalismo (che non è esclusivo di popolazioni primitive ma si insinua anche nelle pieghe della storia occidentale) e si chiude con una ricerca su Lombroso e il Crimine: briganti, mafia, camorra. Sarà interessante confrontarla con le “nuove” mafie, che arruolano, con laute remunerazioni, operatori specializzati sulle diverse piazze del mondo: persone colte, preparate, plurilingue, con importanti e quotidiane relazioni al servizio del business mafioso, che proprio grazie a loro assume e consolida un’apparenza “perbene”. Il tema centrale della rassegna, Diritti e delitti, è responsabilmente articolato secondo declinazioni che hanno visto alcuni diritti fondamentali messi in pericolo o travolti da violenze anche istituzionali (il G8 di Genova; gli interventi disumani sui detenuti, come quello di Santa Maria Capua Vetere). Ed è inserito nel contesto di un’analisi sulle “Radici dell’odio”, purtroppo sempre più sdoganato, sia per i cattivi esempi persino “in alto loco”, sia per un uso criminale e smodato della rete: fino al “Revenge porn” e allo “Stalking”, cui il Festival dedica un focus apposito. Di speciale attualità sono i temi della crisi dell’Afghanistan e dei crimini digitali, mentre inquietate e scomoda è la terribile tematica delle “Mamme che uccidono”. Meno drammatico e coinvolgente sul piano emotivo è il tema della “Contraffazione di lusso”, che però è di straordinario interesse per la nostra economia e per i giovani. Moltissimi giovani infatti considerano atto socialmente accettato e normale comprare prodotti contraffatti. Quelli che lo fanno non avvertono che nella loro condotta possono esservi fattori di allarme sociale e non si rendono conto delle molteplici implicazioni negative (per l’economia e il lavoro regolari, mentre le mafie trovano qui un ennesimo generoso canale di arricchimento e di inquinamento del sistema). Prevale decisamente, nel comprare merce contraffatta, una certa soddisfazione. Si risparmia e si pensa di poter “punire” le marche che - soprattutto nelle campagne pubblicitarie - vanno per la maggiore: desiderate, ma al tempo stesso odiate per l’inaccessibilità degli originali a causa dei loro costi. Per scalfire a un livello significativo tali attitudini, non vi saranno forze dell’ordine sufficienti né adeguate risposte giudiziarie, né vi saranno confische di materiale contraffatto che bastino, finché ad esse non si accompagnerà una maggiore sensibilità sul tema delle regole. E anche il Torino crime festival può contribuire a fare qualche passo in più in questa significativa direzione. Torino. Liberazioni Festival, quando il teatro costruisce comunità di Paolo Morelli Corriere di Torino, 22 settembre 2021 “Non pensavo di essere ancora in grado di commuovermi, sentirmi umano. E anche se fa molto ma molto male sentirsi umani, se sei un fine pena mai, non mi pento di essermi sentito umano, e non mi vergogno di aver pianto, anche se in carcere chi piange viene considerato una “femminella” e non un vero uomo”. Sono le parole di Pino, detenuto nel carcere di Vigevano, riportate da Mimmo Sorrentino, regista teatrale che con lui ha lavorato. Così si è espresso, al termine di un lavoro realizzato con il regista, uno dei detenuti coinvolti nel laboratorio teatrale. È uno dei racconti che compongono Che tutto sia bene, libro scritto dal regista e uscito per la casa editrice Manni, con la prefazione di Massimo Recalcati. “Se dovessi definire Mimmo Sorrentino in poche parole - scrive lo psicoanalista -, non avrei dubbi nel definirlo come un uomo di teatro nel senso più radicale del termine. Il teatro è sempre stato un’arte sociale”. Sarà il regista stesso a presentare il suo libro domani alle 17.30, ai laboratori di Via Baltea 3, nell’ambito della terza edizione di Liberazioni Festival, organizzato all’associazione Museo Nazionale del Cinema. Con lui ci saranno Valentina Noya, direttrice della manifestazione - che parte oggi alle 17 all’evento lancio delle salette Vr del Museo del Cinema, ma proseguirà fino al 10 ottobre - e il critico cinematografico Edoardo Peretti. L’esperienza di Sorrentino, che ha a lungo lavorato nel carcere di Vigevano, racconta di un teatro che serve a costruire comunità, ponti con il mondo “esterno”, soprattutto per realtà considerate ai margini. Dal carcere alle zone popolari, fino a realtà dove il teatro sembra distante, come il mondo degli ambulanti, ma anche quello degli adolescenti. “Non c’è niente che si possa fare - dice Sorrentino - per essere presi in considerazione agli adulti, gli adolescenti li vedono e si deprimono (lo si vede nel racconto Ave Maria per una gattamorta, ndr) e depressive e narcisistiche sono le azioni che compiono per farsi vedere e ascoltare da loro. Restano la rabbia per essere il più delle volte puniti e il senso di colpa per aver fatto cose che non andavano fatte, quindi la disistima verso se stessi”. Eppure, raccontando queste vicende in uno spettacolo, l’attenzione degli adulti è stata catturata, aprendo un canale di comunicazione fino a quel momento impensabile. La forza del teatro si rivela, così, in ventidue racconti. Arezzo. Musica in carcere, concerto di Oma per i detenuti: “Ponte per abbattere le barriere” arezzonotizie.it, 22 settembre 2021 L’iniziativa è promossa da Associazione Acb Social Inclusion, in collaborazione con l’Oma - Orchestra Multietnica di Arezzo e Officine della Cultura. L’Associazione Acb Social Inclusion, in collaborazione con l’Oma - Orchestra Multietnica di Arezzo e Officine della Cultura, organizza per domenica 26 settembre alle ore 17 un concerto presso la Casa Circondariale di Arezzo rivolto alla popolazione carceraria. Si tratta di una iniziativa voluta fortemente dalle tre realtà aretine per testimoniare la propria vicinanza nei confronti delle persone detenute: un concerto come ponte che supera qualsiasi tipo di barriera, compresa quella sociale. Un ringraziamento speciale va al direttore Giuseppe Renna per aver accettato con entusiasmo il progetto. Al centro dell’impegno quotidiano di Acb Social Inclusion c’è da sempre la valorizzazione della persona, soprattutto quando la stessa è vittima di discriminazioni. “Il carcere non deve essere visto - dichiara Tito Anisuzzaman, Presidente di Acb Social Inclusion - come una zona periferica della città, bensì come un luogo dove le persone che hanno sbagliato possano avere la possibilità di trarre insegnamento dalla propria detenzione. L’iniziativa nasce pertanto dalla volontà di voler superare almeno idealmente barriere: e quale miglior strumento se non la musica per poter raggiungere qualsiasi periferia della società”. All’iniziativa ha risposto con entusiasmo l’Oma, da sempre attenta a simili tematiche. Così Luca Roccia Baldini, presidente dell’ensemble aretino: “Siamo lieti di tornare con i nostri strumenti musicali all’interno della Casa Circondariale della nostra città. Lo facciamo sempre con piacere, con la volontà di raccontare le storie dei tanti viaggi, dei tanti incontri, dei tanti ponti che hanno permesso la formazione della nostra orchestra, ma anche con il desiderio di ascoltare, senza pregiudizi, la storia e le ragioni di chi è chiamato a scontare una pena detentiva. Per l’occasione porteremo alcuni dei nostri ultimi brani, parte del tour “Culture contro la paura” perché la paura, soprattutto la paura dell’altro, si combatte con il dialogo e la conoscenza”. La giornata si concluderà con un momento conviviale, che nel rispetto delle regole di contenimento del Covid-19, proporrà alimenti multietnici. Milano. “Il tempo in cella si fa valore”: l’esordio del giovane rapper Simba di Kento* Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2021 “C’è differenza tra violenza e lotta”. Ed è una differenza bella, importante. Emerge forte dai testi di Alex Simbana, in arte El Simba, un giovane rapper che ho conosciuto dietro i cancelli del carcere minorile Beccaria, di Milano. “Rubare il tempo in cella passandolo a scrivere, trasformandolo in valore”, dice ancora Alex. I giorni per lui passano veloci ultimamente: si avvicina il suo concerto d’esordio, previsto per venerdì 24 settembre proprio al teatro del Beccaria, ma aperto anche al pubblico dei liberi. Puntozero Teatro, la compagnia che gestisce lo spazio, ha organizzato questo evento nei minimi dettagli, curandone la produzione e la regia, mentre le musiche sono prodotte da Gianluca Messina di Suoni Sonori, magistrale nello spaziare dal classico boombap anni Novanta ai suoni più contemporanei. I biglietti si possono acquistare online e, se siete in zona, vi consiglio di non perdervi l’appuntamento. Sono ormai parecchi i ragazzi che, dopo un periodo di detenzione, provano a fare strada nel mondo della musica, e qualcuno ci è già riuscito. Ma Simba non assomiglia a nessuno di quelli che avete già sentito, e dimostra una consapevolezza e una maturità decisamente in contrasto con la giovanissima età. Dietro le sbarre ha avuto modo di misurarsi con il palco sia come rapper che come attore teatrale, e il rapporto con i giganti che ha portato in scena - da Sofocle a Shakespeare - ha ispirato la sua penna quanto il rap italiano e d’oltreoceano. Non nega gli errori e le scelte sbagliate fatte in passato, ma cerca nella musica un’occasione di riscatto e di espressione urgente e necessaria. Partecipare a questo spettacolo sarà un’occasione unica anche per capire che tipo di attività si possono svolgere in un carcere minorile quando si incontrano volontà, passione e impegno. Ma fate presto a prenotare, perché pare che i posti stiano andando a ruba. *Rapper e scrittore Il Parlamento è vittima della sua debolezza di Massimo Villone Il Manifesto, 22 settembre 2021 La velocità con cui sono state raccolte le firme online per i referendum sulla cannabis e l’eutanasia ha sorpreso e sconcertato molti. Invero, era da tempo agli atti la richiesta di semplificare le barocche modalità che circondavano le richieste referendarie. Vedremo come andrà. Tenendo conto che le nuove tecnologie tendono a imporsi, magari lentamente, ma ineluttabilmente. Basti pensare, ad esempio, che nella raccolta delle firme per i referendum il problema non era solo dato dalle complicazioni dei banchetti, ma anche successivamente dalla trasmissione dei certificati elettorali da parte dei comuni, talora in ritardo o del tutto inerti. Ora l’articolo 38 quater del decreto-legge 77/2021, convertito in legge 108/2021, estende la digitalizzazione ai comuni. Ma quanti potranno ottemperare? Prima o poi si capirà che la tecnologia disponibile consentirebbe una verifica sui certificati elettorali fatta in tempo reale, all’atto stesso della richiesta di firmare per i referendum, dalla stessa piattaforma che si dovrà (dovrebbe) attivare. Questo cancellerebbe complesse - e ormai inutili - fasi organizzative. Del resto, qualcuno vuole scommettere che di qui a qualche decennio useremo ancora in via esclusiva la tessera elettorale da timbrare in presenza al seggio? O voteremo anche online, per elezioni politiche e locali oltre che per i referendum? Le regole del gioco cambiano. Non c’è dubbio che la Costituzione abbia una preferenza per la democrazia rappresentativa. Non a caso il costituente ha scritto nell’articolo 75 la richiesta di 500mila firme. Nell’Italia del tempo, senza la televisione e i social, quella cifra significava consegnare le chiavi dell’accesso referendario a uno o più dei grandi partiti di massa, o un forte sindacato: i soli soggetti in grado di raccogliere tante firme. E il costituente certo non anticipava il grave indebolimento di quei soggetti, e il contemporaneo sorgere di nuovi canali di formazione del consenso. Ha ragione Pallante quando su queste pagine scrive che il problema è il parlamento. Quello che accade non è un attacco all’istituzione, ma un esito della sua debolezza. Ma come si rafforza un parlamento? Come si può recuperare una capacità rappresentativa dopo lo sciagurato taglio? Fa senso vedere chi non ha contrastato allora il populismo di palazzo preoccuparsi ora del populismo che può nascere fuori del palazzo. E il parziale correttivo di una legge elettorale proporzionale volta a popolare le assemblee di autorevoli rappresentanti scelti dai rappresentati? La prospettiva si allontana ogni giorno di più. E si può rafforzare un parlamento senza consolidare i soggetti politici che in esso operano? Come, e con quali esiti? A meno di sorprese, gradite quanto improbabili, il futuro sembra riservarci per un tempo non breve un parlamento debole e poco rappresentativo. E allora non demonizziamo un più agevole correttivo referendario. Oggi preoccupa alcuni che sia nelle mani di minoranze combattive, su temi divisivi o di nicchia. Si teme una destabilizzazione e un populismo dilaganti. E se domani invece servisse alle opposizioni, in un parlamento nel quale una legge in vario modo maggioritaria e i numeri ridotti consentono alla maggioranza di mettere la mordacchia a ogni dissenso? Una maggioranza magari di destra reazionaria e non di illuminato conservatorismo? Una maggioranza che sacrifica al dio mercato diritti e libertà? Il popolo sovrano potrebbe essere il vero argine. La pressione potrebbe in parte scaricarsi anche sulla corte costituzionale. Qui può tornare utile il suggerimento, avanzato su queste pagine da Fabozzi, di anticipare il giudizio di ammissibilità. Senza farsi però troppe illusioni. La proposta non è nuova, e voleva fin qui evitare un carico inutile per gli organizzatori e per la cassazione. Servirebbe domani a difendere la stessa corte costituzionale da assalti di populismo da social. E la corte sarebbe probabilmente chiamata a ripensare le maglie con cui ha ingabbiato il referendum ex articolo 75. Ci aspettano anni difficili, e di cambiamento. Si imporranno nuovi modi di fare politica. È possibile che cerchino l’agone referendario temi che sarebbe meglio lasciare a un più meditato dibattito. È accaduto, accade (ad esempio, per quelli sulla giustizia), accadrà. Nel caso, bisognerà battersi perché falliscano l’obiettivo. Ricordando che togliere preventivamente la parola al popolo sovrano affatica la democrazia molto più che darla. La guerra alla cannabis colpisce anche chi non fuma di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 settembre 2021 Carceri sovraffollate, tribunali intasati, affari miliardari delle mafie sono gli effetti (non collaterali) del proibizionismo. Le storie personali, i numeri ufficiali e la dimensione sociale della criminalizzazione dell’erba. Un pomeriggio di marzo di cinque anni fa Marco (nome di fantasia) entra da un antiquario sotto casa per incontrare un operaio che dovrebbe sistemargli dei mobili d’epoca. Esce diverse ore dopo circondato da quattro carabinieri. Gli agenti, che tenevano d’occhio il negozio al centro di Roma, fanno un blitz mentre lui, l’antiquario, l’operaio e un’altra persona sono all’interno. Dagli scaffali vengono fuori dei barattoli con alcuni grammi di marijuana. Per tutti gli avventori scatta la perquisizione domiciliare. “Avevo quattro piante di erba”, racconta l’uomo, 63 anni e un passato in Egitto al servizio del governo italiano. Gli agenti trovano delle piante in una seconda casa e nelle altre modiche quantità di sostanze, per un totale di circa 130 grammi. Per tutti scattano gli arresti domiciliari e il giorno seguente la direttissima. La sentenza di primo grado li condanna a 2 anni e 9 mesi per spaccio in concorso. “Ho coltivato per non alimentare il mercato criminale e ora dicono che sono uno spacciatore. Questi processi ti rovinano la vita, ti fanno diventare impresentabile: nel mondo del lavoro, della politica, davanti ai figli”, dice Marco. A Roberto i carabinieri entrano in casa il 14 marzo scorso, sempre a Roma su via Prenestina. “Qualcuno li aveva avvertiti della presenza di uno strano odore che si sentiva dalla strada”, racconta il ragazzo, 36 anni, cuoco e antropologo. Nella sua stanza scoprono 28 grammi di marijuana e hashish sul tavolo e quattro piante appese a seccare in un armadio. Dopo una notte in cella finisce dritto in tribunale. “I carabinieri erano mortificati. Al giudice hanno detto che non avevano notato alcun via vai di gente dalla mia abitazione, che i soldi trovati in casa non provenivano da attività di spaccio e che ero stato molto collaborativo”, ricorda. Nelle piante, però, risulta un contenuto di Thc molto alto e per una strana equazione sono equiparate a 2.200 dosi. Roberto rifiuta il patteggiamento. “Rischio tra 3 e 8 anni di carcere, ma voglio dimostrare di essere innocente. Ho coltivato per uso personale - afferma - Mi chiedo soltanto quanto avrà speso lo Stato tra pedinamenti, arresto e processo alla fine di tutta questa storia. Per quattro piante”. Filippo Blengino la sua piantina l’ha fatta crescere in diretta Facebook. 21 anni, è il segretario dei Radicali italiani di Cuneo. Il primo settembre si è ripreso in un video vicino ai rami ormai fioriti per annunciare un corso di autocoltivazione di cannabis, organizzato in piazza Foro Boario il 18 del mese. “È venuta la Digos e mi ha portato in questura. Sono stato denunciato per istigazione a delinquere e all’uso di droghe. Il mio è stato un gesto di disobbedienza civile contro una legge assurda”, dichiara. Quelle di Marco, Roberto e Filippo sono le storie delle migliaia di persone che subiscono direttamente gli effetti della guerra alla droga e più nello specifico della guerra alla cannabis. Nel 2020 il 74% dei 32.879 segnalati per detenzione di sostanze psicotrope e il 43% dei 31.355 denunciati per reati droga-correlati avevano a che fare con hashish e marijuana. Dal 1990 sono state fatte 1.312.180 segnalazioni per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale, di cui quasi un milione (il 73,28%) per derivati della cannabis. Sono i numeri che si leggono nell’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia e nel dodicesimo Libro bianco sulle droghe. Cifre che restituiscono la dimensione sociale della criminalizzazione della cannabis e mostrano come i problemi causati dal proibizionismo non riguardino solo i consumatori. Oltre al tempo e alle risorse impiegate da forze dell’ordine e tribunali per vicende che nella maggior parte dei casi ruotano intorno a poche piante o modiche quantità di prodotto, questi studi sollevano, da prospettive diverse, almeno altri due temi: i profitti realizzati dalla criminalità organizzata e il sovraffollamento delle carceri. Dei 16,2 miliardi in cui viene stimato il business degli stupefacenti in Italia, il 39% è attribuibile alla cannabis e ai suoi derivati. Soldi che la legalizzazione potrebbe indirizzare nelle casse pubbliche, magari a sostegno di sanità e politiche sociali. Al 31 dicembre 2020 dei 53.364 detenuti presenti nelle carceri italiane 12.143 lo erano in virtù di un solo articolo di una singola legge dello Stato: il 73 del Testo unico sulle droghe (sostanzialmente per detenzione ai fini di spaccio). Altri 5.616 erano dietro le sbarre per il combinato degli articoli 73 e 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti), mentre 938 solo per il 74. In pratica il 35% dei detenuti sono dentro per reati di droga. Con una spesa per la carcerazione che si aggira intorno al miliardo di euro l’anno. “Il sovraffollamento carcerario ha un’origine precisa: non è un effetto collaterale, ma il risultato della criminalizzazione delle persone e dei consumatori”, ha dichiarato Franco Corleone, del comitato scientifico della Società della ragione, nella conferenza stampa alla Camera con cui il 24 giugno scorso è stato presentato il Libro bianco sulle droghe. La pubblicazione è intitolata War on Drugs. 60 anni di epic fail. La Convenzione unica sugli stupefacenti, infatti, risale al 1961. L’accordo che ha imposto su scala globale il regime proibizionista, poi rinforzato a livello internazionale e dai singoli Stati, si proponeva l’obiettivo di eliminare le produzioni illegali di oppio entro il 1984 e quelle di cannabis e coca entro il 1989. Un “fallimento epico” visto che nulla di tutto ciò è mai avvenuto, mentre hanno acquisito sempre più potere politico ed economico organizzazioni mafiose e criminali e sono cresciuti perfino dei veri e propri narcostati. Per questo gli estensori del Libro bianco sostengono l’urgenza di “decriminalizzare il consumo di tutte le sostanze, legalizzare la canapa e valorizzare le buone prassi della riduzione del danno”. A livello globale il vento sembra aver cambiato direzione: sempre più paesi stanno depenalizzando l’utilizzo di sostanze psicoattive, mentre Uruguay e Canada hanno legalizzato la marijuana. Altrettanto è avvenuto in nove stati Usa, cioè nell’epicentro mondiale delle politiche proibizioniste. Il referendum per la depenalizzazione della cannabis, che ha superato in pochi giorni le 550mila firme e presto sarà sottoposto al vaglio di Cassazione e Corte costituzionale, può essere l’occasione per voltare pagina anche in Italia. Legalizzare la cannabis senza educare le persone è l’opposto della libertà di Daniele Mencarelli Il Domani, 22 settembre 2021 Il traguardo è raggiunto. Le cinquecentomila firme sono state raccolte: avremo il referendum sulla legalizzazione della cannabis. Tutti hanno, abbiamo, esultato. Quanto più si toglie terra sotto i piedi della criminalità tanto è meglio, e su questo poco o nulla si ha da dire. Senza contare un altro dato meno sottolineato dai tanti commenti: il controllo della sostanza. Anche le droghe leggere, la canapa indiana, come ogni altro elemento della natura può essere lavorato, manipolato, tanto è vero che moltissima erba e hashish proveniente dal nord Europa è dichiaratamente ogm. Il motivo è presto detto: un aumento delle percentuali di Thc nella sostanza. Il Thc, tetraidrocannabinolo, è il principio psicoattivo della cannabis. Quindi, droghe leggere più forti, droghe che di leggero, al dunque, hanno davvero poco. Basta andare ad Amsterdam, oggi meno di ieri per la verità, per fumare varietà di marijuana non molto diversa, per effetti, da sostanze come Lsd o altri psichedelici. Avremo meno crimini legati al consumo di cannabis e maggiore controllo della qualità. Altro dato positivo: legalizzare vuol dire svuotare le carceri del nostro paese, piene allo sfinimento, di tutti quei detenuti per reati correlati alla cannabis. E visto lo stato del nostro sistema penitenziario, anche qui, chi può dire qualcosa? Si vada al voto per il sì. Con la speranza di vincere. Tutto giusto, lineare, inappuntabile. Poi? Dopo la legalizzazione? Dopo che ogni cittadino italiano potrà acquistare cannabis liberamente, cosa accadrà? Una prima vocina maligna, da adolescente sballato, s’insinua sussurrando: “Non avete capito un cazzo, a noi del fumo interessa, certo, ma avete mai provato Xanax e Rivotril assieme a mezza bottiglia di grappa?”. Cosa ci vorrà dire questa vocina? Semplice. Oggi il mondo del consumo di sostanze psicotrope si è ibridato, ballando costantemente al limite tra droga illegale e sostanza legale, usata in termini impropri ovviamente. Dunque, la prima vocina adolescente dice: siete un poco arrivati tardi. Siete proprio vecchi, roba da secondo Novecento. Ma ecco una seconda vocina di quindicenne entrare nelle orecchie: “Grazie, così non dovremo comprarla alla stazione ma al tabacchi, ma sempre ai parcheggi del centro commerciale andremo, dalle 14 del pomeriggio sino alle 21 di sera, a fumare, otto, nove grammi di fumo buono controllato dallo stato”. Questa seconda vocina esprime chiaramente, drammaticamente, un’altra questione, forse la più importante di tutte. Al centro non c’è mai la sostanza, al centro dovremmo esserci noi, noi esseri umani, le persone. Quando il nostro paese avvierà un’educazione al consumo di stupefacenti? Perché vietarle è da imbecilli, ma liberarne il consumo senza spiegare con conoscenza e disponibilità gli effetti possibili rischia di diventare un crimine contro l’umanità. Non lo dice lo scrivente, ma l’Oms. L’esplosione della malattia psichiatrica al di sotto dei venticinque anni è in rapporto uno a uno con il consumo di sostanze. Avete capito bene. Le droghe, anche quelle leggere, sono la porta del disturbo psichiatrico, spesso grave. Ma cosa vuol dire mettere al centro la persona ed educare al consumo? Vuol dire essere consapevoli di tutta una serie di fattori umani, sociali, che non possono essere nascosti sotto il tappeto. Una sostanza, legale o illegale, ha un effetto a seconda della persona che la assume. Date a un malato di ulcera un’aspirina a stomaco vuoto e dovrete portarlo in ospedale. L’esempio banale serve solo a rendere chiaro il concetto. La sostanza ha un effetto diverso per ognuno di noi, senza contare altri aspetti che in pochi considerano, ma che sono noti a chi ha fatto uso di sostanze e ha vissuto dipendenze. Nel consumo di droghe tutto conta, a partire dalla psiche, ovviamente, ma non di meno conta la struttura fisica, il peso. Non è un caso che molti farmaci vengano prescritti in dosi diverse proprio obbedendo a queste caratteristiche. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Non glorificare - Ma il dato ancora più grave, per certi aspetti infame, è un altro ancora. Le droghe esistono, tra ricchi e poveri, tra chi ha strutture sociali ed economiche pronte a sorreggerlo in caso di difficoltà e chi queste fortune non le possiede. Le droghe le consumano i giovani e i vecchi. I vecchi che sono arrivati alla tarda età continuando a consumare sostanze, spesso tra le più pesanti, hanno avuto semplicemente la fortuna di avere dalla loro un fisico di buona tempra e la dote più importante di tutte. Rullo di tamburi. La capacità di sapersi gestire, di saper dialogare con la sostanza, il rispetto del proprio corpo. Ma è una capacità che si scopre a posteriori. Lo scrivente, per esempio, non ce l’ha avuta. Educare al consumo. Smetterla con questo bigottismo insopportabile, la demonizzazione idiota, ma finirla pure con la glorificazione facile facile. Perché che sia in un testo di canzone, in un film o un libro, fare l’occhiolino ai giovani su questo tema fa sempre fatturare. Una volta fatevi una bella passeggiata al centro di salute mentale che avete più vicino casa, fatevi una chiacchierata con chi lavora lì dentro, lottando, amando i propri pazienti. Liberare sempre, educare anche di più. “Non abbiamo ancora depositato le firme che già protestano. Cose dell’altro mondo”. di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 22 settembre 2021 Parla Emma Bonino: “I referendum danno fastidio a chi nel Palazzo, in tutti questi anni, non ha affrontato questioni decisive come giustizia, eutanasia, cannabis”. La senatrice di +Europa Emma Bonino interviene in difesa dei referendum su giustizia, eutanasia e cannabis: “Non abbiamo ancora depositato le firme che già il Palazzo protesta. Cose dell’altro mondo”. “La guerra tra pm è uno specchio dello scontro politico e i partiti hanno giocato con la magistratura la partita inconfessabile che il memoriale Palamara ha svelato”. A sostenerlo è una persona che ha legato buona parte della sua vita politica nelle grandi battaglie Radicali per una giustizia giusta: Emma Bonino, leader storica dei Radicali, già ministra degli Esteri e Commissaria europea, oggi parlamentare di +Europa. Giustizia, referendum, green pass, elezioni amministrative. Scrive Piero Sansonetti: “Ormai dentro la magistratura italiana, in particolare fra i pm, è scoppiata la guerra civile. Si combatte con tutti i mezzi, anche con armi non convenzionali”. E la politica che fa, sta a guardare? La politica non è esente da responsabilità nella formazione di queste fazioni e poi, nella guerra, altro che stare a guardare. La guerra tra pm è uno specchio dello scontro politico e i partiti hanno giocato con la magistratura la partita inconfessabile che il memoriale Palamara ha svelato. Pannella, a dire il vero, ha denunciato da solo, per anni, l’uso politico della giustizia che, a tratti, è degenerato nella sua forma eguale e contraria, ovvero in strumentalizzazione della politica da parte dei magistrati. Spero che la ministra Cartabia si applichi con la stessa determinazione con cui ha elaborato i testi di riforma della giustizia civile e penale, a lavorare su separazione delle carriere, riforma del Csm, responsabilità civile dei magistrati, ovvero sui temi che grazie ai referendum la politica dovrà affrontare. Poi occorre sperare che la politica smetta di cercare complici fra i magistrati e che i magistrati smettano di scimmiottare i politici. Quella per una giustizia giusta è da sempre un cavallo di battaglia dei Radicali. Oggi questa battaglia s’invera nei referendum. La butto giù brutalmente: perché a sinistra e nella stampa mainstream si preferisce “silenziare” il confronto e glissare sulle indicazioni politiche? È davvero deprimente dover registrare come - a fronte della straordinaria risposta di partecipazione democratica alle raccolte di firme in corso - i primi commenti si focalizzino sull’innalzamento del numero di firme. Ma come? Centinaia di migliaia di persone chiedono (anzi richiedono perché questi stessi temi furono già oggetto di proposte referendarie) una radicale riforma istituzionale degli apparati di giustizia, che tutte le forze politiche ammettono essere indispensabile, e invece di iniziare a discutere del merito delle proposte in campo, il riflesso dei partiti è quello di cercare subito di limitare l’uso del referendum? E questo naturalmente non vale solo per la giustizia, ma anche per l’eutanasia e la cannabis: ma è un vecchio ritornello a cui siamo abituati. La sinistra ha un problema importante con la magistratura di sinistra (che è maggioritaria) che si traduce spesso in un atteggiamento di sudditanza. È un caso di eterogenesi dei fini: cercando di esercitare controllo e condizionamento si finisce per essere controllati e condizionati. La destra - per parte sua - impugna il garantismo non per adesione ideale ma come forma opportunistica di autodifesa. Il più illiberale e autoritario Ministro degli interni che l’Italia repubblicana abbia mai avuto, si reinventa paladino di una giustizia da lui stesso mortificata. In realtà la “giustizia giusta” per i cittadini non sembra interessare davvero i partiti politici, che appaiono piuttosto concentrati chi a conservare e chi a conquistare quel potere di condizionamento della giustizia, che si è rivelato un’arma tanto impropria quanto potente. Sempre sui referendum. C’è chi li considera un reperto di archeologia politica e chi ne contesta l’abuso. Come la mettiamo? La mettiamo che il “Palazzo”, in varie forme, di tutto vuole parlare, anche a vanvera, tranne che occuparsi del merito delle questioni che noi poniamo. Fa ridere che non abbiamo ancora neanche depositato le firme, la Cassazione non le ha verificate, e poi c’è la Corte costituzionale, eppure già sono tutti in armi al grido “sono troppi”, ovvero “sono troppo poche le firme”. Cose dell’altro mondo. Tutto pur di evitare i temi di merito che vengono proposti. Ed è veramente bizzarro. Non è che basta Paragone che dice, con Freccero, faccio un referendum sul Green Pass. Intanto bisogna raccogliere 500mila firme, che costano circa 500mila euro: la firma telematica si paga 0,90 da parte di chi la raccoglie. Non è partita ancora neanche la macchina che già tutti vogliono tirare il freno a mano. Un tempo, in un’altra fase della vita del Paese e della politica, la raccolta di firme era anche un modo per esercitare un protagonismo dal basso... Lo è anche oggi. Faccio un paio di esempi: il referendum sull’eutanasia. Sono state raccolte più di 500mila firme ai tavolini e le altre, quando è passata la legge, per via telematica. E allora? Non è più dal basso? È dall’alto? Ora parliamo del referendum sulla cannabis. Anche qui, la partecipazione è andata oltre le più rosee aspettative. La politica non vuole saperne, nonostante anche la Corte Costituzionale abbia chiesto di mettere ordine in questa materia. Siamo stati anche troppo pazienti. Adesso cominceranno a dire che è troppo facile o è troppo difficile. Noi li lasciamo ai loro turbamenti e intanto verifichiamo che c’è stata una straordinaria risposta popolare. Ciò vuol dire che la gente la pensa diversamente da dentro il palazzo. Da trenta anni, prima questi temi si ignorano, poi li insultano, poi cercano di guardare altrove e poi alla fine vinciamo e tutti sono padri e madri di queste iniziative. Invece di strologare su queste cose fantasiose, perché non ci occupiamo del merito dei temi e discutiamo di questi? Fa ridere questa alzata di scudi, quando nessun referendum è ancora stato né depositato, né esaminato dalla Cassazione e tanto meno dalla Corte costituzionale. Devo dire che l’affluenza è stata abbastanza sorprendente. Sono abituata a tavolini in cui bisogna spiegare ai cittadini la questione in modo da attirarli e questa volta è completamente diverso. E questo è un bene per la democrazia tutta. Altro tema caldo è quello dell’obbligo del Green Pass. C’è chi scomoda la Costituzione per denunciare la “dittatura vax”... È surreale: Sabino Cassese ci ricorda, fin dalle prime settimane dell’emergenza pandemica, che l’art. 32 della Costituzione prevede espressamente la possibilità che la legge possa imporre a tutti un trattamento sanitario. Poi è chiaro che questa possibilità va usata con intelligenza e moderazione. Ma è quello che il governo sta facendo attraverso il Green Pass, che non è un obbligo vero e proprio ma uno strumento importante per riacquistare quelle libertà che non ci sono state sottratte da nessuna dittatura ma dalla pandemia. Siamo ormai a ridosso di un appuntamento elettorale che riguarderà circa 20 milioni di italiani e investirà alcune delle più grandi città italiane, da Milano a Roma, da Torino a Bologna, da Napoli ad altre importanti città medio piccole. Quali ricadute sul quadro politico nazionale e sul futuro del governo Draghi? Non credo che ci saranno contraccolpi sul governo, che sta affrontando bene sfide ben più impegnative della bassa cucina post elettorale, dalla pandemia alle riforme del Next generation eu. Piuttosto speriamo che da queste elezioni vengano segnali per i partiti, di volare un po’ più alti di quanto si sia fatto finora. Con +Europa lavoriamo per l’aggregazione di un’area liberal-democratica, europeista e ambientalista che abbia il coraggio di affrontare anche temi delicati come eutanasia e cannabis. Magari tra le elezioni e i referendum di primavera qualcosa di buono succederà. A proposito di Mario Draghi. Su “La Stampa”, Donatella Di Cesare esorta ad alzare il livello della critica verso il presidente del Consiglio, definito “timoniere di una democrazia sospesa”. Come la vede? Francamente non capisco neanche la definizione. Io vedo che Draghi tira avanti nel programma che aveva annunciato in Parlamento e su cui aveva chiesto e ottenuto la fiducia. Questo è quello che vedo, poi i retroscena li lascio a chi ha la palla di vetro. Non è che la democrazia è sospesa perché c’è Draghi. Se vogliamo parlare seriamente di “democrazia sospesa” allora dovremmo parlare degli ultimi anni. Draghi non è il problema, al contrario è parte della soluzione, sennò eravamo qui bloccati tra le risse interne ai partiti e qualche altra geniale polemica del giorno. C’è chi vedrebbe molto bene Draghi subito al Quirinale ed elezioni anticipate prima della fine naturale della legislatura. È una trappola? Stiamo calmi! A parte il fatto che ognuno ha i suoi desideri, più o meno inconfessati e inconfessabili, ma qui c’è da portare a casa le riforme per poi utilizzare il Next Generation Eu. E se non c’è Draghi non riusciamo a farlo. Sembra che viviamo su Marte? La politica che manca all’Europa di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 22 settembre 2021 L’Unione europea dice di voler costituire forze armate comuni senza stabilire preliminarmente, però, chi avrà il potere di decidere come e dove impiegarle e attraverso quale procedura. Alla fine la brutale evidenza dei fatti ha avuto la meglio e nei giorni scorsi i vertici dell’Unione europea e dei maggiori Stati che la compongono hanno dichiarato praticamente all’unanimità che è giunta l’ora che la Ue abbia un esercito comune (e anche un’intelligence comune, si sono spinti a dire). Un esercito - sembra di capire - concepito non già per le cosiddette “missioni di pace” - come quelle che i vari eserciti europei conducono da decenni, coordinati ma ognuno per proprio conto e con non eccelsi risultati - bensì per fare ciò a cui da alcuni millenni servono gli eserciti: per fare la guerra o minacciarla. Ma è difficile, assai difficile, che alle intenzioni seguano i fatti. Per una ragione soprattutto: e cioè che l’Unione europea dice di voler costituire un esercito senza stabilire preliminarmente, però, chi avrà il potere di decidere come e dove impiegarlo e attraverso quale procedura. Una dimenticanza non da poco. D’ora in avanti, infatti, non si tratterà più, com’è sempre avvenuto finora per i vari eserciti europei, di aderire a decisioni d’intervento prese da organismi terzi, tipo la Nato o le Nazioni Unite. D’ora in avanti, viceversa, s’immagina che ci sia una qualche autorità specificatamente europea investita del potere di alzare il telefono e - con un’iniziativa del tutto autonoma, svincolata da qualsiasi altra - di ordinare al comandante dell’esercito dell’Unione di intervenire in questa o in quella parte del mondo. Ma quale sarà mai l’autorità dotata di un simile potere? Un potere tanto più grande in quanto, tra l’altro, il previsto esercito europeo non è certo pensato soltanto come uno strumento difensivo, per rispondere a una (del tutto inimmaginabile) aggressione contro uno Stato dell’Unione (caso, eventualmente, di immediata pertinenza della Nato), bensì in tutt’altra ottica. Esso dovrebbe servire infatti come strumento operativamente offensivo, a tutela di interessi chiave della Ue da definire di volta in volta. Con una decisione intrinsecamente di politica estera, insomma, implicante una proiezione militare che in qualche modo potrebbe dar luogo anche ad un conflitto bellico sia pure di portata limitata. Ma allo stato attuale quale istituzione europea potrebbe mai prendere una decisione così gravida di conseguenze? Evidentemente solo il Consiglio dei capi di Stato e di governo. Cioè un organismo di vertice composto di 27 persone, (forse) abilitate in questo caso a decidere - come suggerisce la prassi (perché una materia del genere non è prevista né regolata da alcun trattato) - all’unanimità. Il che solleva subito la domanda cruciale: è mai immaginabile che 27 capi politici - espressione di elettorati, tradizioni, interessi enormemente diversi tra di loro - decidano di imbarcarsi in un’azione militare che può divenire bellica e costare la vita a qualcuno dei propri connazionali oltre a creare complicazioni di una gravità imprevedibile? E che lo facciano, si ricordi, non già sotto la minaccia di un pericolo grave ed imminente, di un attacco da parte di un nemico, ma “solo” per un interesse politico-strategico sia pure importante quanto si vuole? Lascio ai lettori la risposta. La storia insomma si vendica del peccato che è all’origine della costruzione europea. Il peccato commesso dai suoi padri fondatori quando s’illusero di esorcizzare il fallimento dell’iniziale progetto di unificazione - quello della Ced, della Comunità europea di difesa: progetto tutto politico, che non a caso aveva al suo centro la costituzione di un esercito comune - quando essi s’illusero, dicevo, di esorcizzare quel fallimento imboccando la strada dell’unificazione economica, nella speranza che prima o poi si potesse arrivare in questo modo anche all’unificazione politica. Tuttavia sono passati settant’anni (settant’anni!), è cambiato il mondo, ma dall’economia è nata solo l’economia: confermando che la politica - e la guerra che ne è un suo compendio supremo - sono tutt’altra cosa. Oggi per la Ue il ritorno alla politica sembra quanto mai difficile. Tra l’altro anche perché nel frattempo sulla base di quella lontana scelta di settant’anni fa tutto il vasto establishment europeista ufficiale ha costruito una vera e propria “ideologia dell’Europa”, un senso comune diffuso, che va in una direzione esattamente opposta. Ha messo radici infatti la formula - ripetuta a proposito e a sproposito da tutte le mezze calze progressiste in cerca di una bella formula demagogica - dell’Europa “potenza civile”. È stata costruita l’immagine, cioè, di un’Europa “spazio di libertà e di giustizia” che intende riporre tutto il suo potere e il senso di se stessa unicamente nel diritto e nelle decisioni delle corti (quasi che poi da che mondo e mondo l’una e le altre, ahimè, non avessero bisogno, per contare qualcosa, anche di uno straccio di polizia e di qualche triste prigione). E insieme, naturalmente, l’immagine di un’Europa che proprio perché “civile” è sempre pronta a discutere, a promettere benefici, a trattare, a convincere, ma mai disposta a battere i pugni sul tavolo, a essere “potenza” militare in quanto portatrice di una propria determinata e forte identità politica. All’Europa insomma la politica, una vera esistenza politica, continua drammaticamente a mancare, e sembra davvero difficile che da questo vuoto possa sorgere domani, quasi come una miracolosa araba fenice, un esercito degno del nome. L’Onu in cerca di una missione di Stefano Stefanini La Stampa, 22 settembre 2021 La 76ma Assemblea Generale di Onu si è aperta ieri con un appello alla cooperazione multilaterale - del Segretario Generale - e una risposta che lo ha raccolto - del presidente americano. Il Palazzo di Vetro si riuniva sotto una cappa internazionale pesante. Le Nazioni Unite sono impotenti a risolvere le tensioni fra grandi potenze, in particolare l’ormai aperto confronto fra Cina e Stati Uniti. Coraggiosamente, il Segretario generale Antonio Guterres ne ha evocato i rischi. Di più non può fare e lo sa. Ma c’è molto che l’Onu può fare là dove la cooperazione internazionale è la via d’uscita indispensabile: pandemie, cambiamenti climatici, diseguaglianze mondiali. Su questo terreno la risposta di Joe Biden è stata impeccabile. Il presidente americano ha giocato la carta multilaterale per accreditare una nuova leadership americana. Che non è più affidata alla potenza militare ma alla diplomazia senza fine (“relentless diplomacy”). Nella sala avrà aleggiato qualche scetticismo dopo le recenti carenze di comunicazione agli alleati, su Afghanistan e sommergibili. Saranno i fatti a mettere alla prova questa nuova impostazione che, a parole, capovolge l’America first di Donald Trump. Raramente un leader statunitense ha mai avuto accenti così spiccatamente multilaterali. In parte strumentali alla posizione americana dopo il ritiro dall’Afghanistan, in parte per autentica convenzione sulla necessità e urgenza di uno sforzo mondiale collettivo per salvare il pianeta dalle devastazioni climatiche prima che sia troppo tardi, in parte per rassicurare gli alleati e serrare le fila intorno a democrazia e diritti umani. Il risultato complessivo è stato di proporre gli Stati Uniti come Paese guida di una nuova era di cooperazione internazionale su sfide che toccano tutti e quindi vanno affrontate da tutti insieme. Su questo punto Biden è stato chiarissimo: siamo pronti a lavorare con chiunque indipendentemente dalle divergenze in altri campi. Ascoltavano Pechino e Mosca? Il contesto è difficilissimo. Ieri, la lunga ombra di Covid gravava tangibilmente su leader e delegati, seduti a religiosa distanza sociale, nel Palazzo di Vetro. È un fronte ancora aperto specie nei paesi meno ricchi dove vive la maggioranza dell’umanità. La comunità internazionale è profondamente divisa, confronto e tensioni fra grandi potenze si inaspriscono, segnate dalla competizione fra Washington e Pechino, il campo occidentale si incrina nella controversia fra Francia e Stati Uniti sui sommergibili australiani, le avvisaglie afghane confermano che donne e diritti umani stanno già pagando il prezzo del ritorno dei Talebani al potere. Non si può chiedere all’Onu di dissipare molte di queste ombre. Le controversie dividono gli stessi paesi, come Cina, Usa e Russia, che col veto possono bloccare il Consiglio di Sicurezza. Le Nazioni Unite restano però l’unica valvola di sfogo politico - almeno ci si parla, ed è un peccato che Xi, Putin e Macron, abbiano rinunciato ad essere presenti a New York. Soprattutto, fanno da catalizzatore della comunità internazionale nelle questioni che hanno una dimensione globale e non sono soggette alle tensioni fra potenze, come i cambiamenti climatici. E pensiamo anche all’assistenza umanitaria all’Afghanistan; o interviene il Pam o quest’inverno la popolazione rischia la fame. Chi, se non le Nazioni Unite possono mettere in piedi la massiccia campagna di vaccinazioni di cui ha bisogno l’Africa? Bisogna pertanto concentrare gli sforzi di questa 76ma Assemblea Generale nelle direzioni cooperative. Guterres l’ha chiesto. Biden gli ha risposto a tono. Hanno entrambi toccato temi cari a Mario Draghi. Domani, quando a sua volta prenderà la parola, il Presidente del Consiglio avrà buon modo di riprenderli. Gli serviranno anche come premessa al G20 di Roma in ottobre, grande carta che l’Italia gioca in campo internazionale. L’inferno dei campi di detenzione libici: “Quando ti picchiano, ti vedono gridare e ridono” di Lorraine Kihl* La Repubblica, 22 settembre 2021 Il racconto di un sopravvissuto ai Centri dove dall’altra parte del Mediterraneo vengono rinchiusi i migranti che tentano il viaggio verso l’Europa. Ehiss ha una trentina d’anni e non ama parlare del passato. Gli fa tornare alla mente troppe cose dolorose. Ma questa notte, a bordo della Geo Barents, dopo che gli altri nigeriani sono scesi, si è trovato di nuovo senza nessuno della sua comunità. Circondato da persone che parlano arabo (la lingua dei libici), ha ripensato a tutto ciò che ha vissuto negli ultimi tre anni: la fuga con Miracle, l’orrore del naufragio, i centri di detenzione, le violenze, gli amici, la sopravvivenza, l’amarezza. Al mattino, seduto in una fila ordinata, con una piccola sacca ai suoi piedi, racconta tutto, come se dovesse chiudere questo capitolo prima di toccare terra. Era il primo settembre 2018, “L’imbarcazione era sovraccarica: a bordo c’erano centottanta persone, tra cui una ventina di bambini. Siamo salpati da Khoms, in Libia, verso mezzanotte. Erano le due del pomeriggio quando il gommone ha iniziato a imbarcare acqua e a sgonfiarsi. Ricordo che secondo la bussola ci trovavamo a duecento chilometri da Malta. Abbiamo chiamato la guardia costiera. Tutti urlavano, tutti erano spaventati. Un aereo è passato due volte sopra le nostre teste. Al suo terzo passaggio eravamo in acqua. Quel giorno tutti i bambini sono morti. C’erano due neonati. Sono morti anche loro, mentre le madri sono sopravvissute”. Tra le vittime c’era anche Miracle, la sua ragazza, incinta di otto mesi. “L’aereo ci ha lanciato dei galleggianti e dell’acqua. Il mare era calmo, è per questo che alcuni di noi si sono salvati. Hanno fatto tutto il possibile. Davvero, ci hanno provato. Siamo rimasti un po’ là. È passato un elicottero, ci ha fotografati. Poi, verso le quattro o le cinque sono arrivati i guardacoste libici. Erano tutti armati. Ci hanno lanciato una corda, dicendo: “Non andrete in Europa”. Siamo saliti a bordo solo in venticinque. Ehiss, che per ottimizzare le sue probabilità di sopravvivenza in acqua si era sbarazzato degli abiti, resta in boxer per tutto il tragitto, sino alla costa. Ricorda di aver visto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e la Croce Rossa. Poi il carcere. Una volta condotti al molo, i migranti intercettati in mare vengono spediti sistematicamente nei centri di detenzione. Secondo la legge libica, il fatto di trovarsi in una situazione irregolare sul proprio suolo nazionale è un reato che prevede multe, detenzione, lavori forzati ed espulsione. Il diritto internazionale invece prevede il ricorso alla detenzione solo in casi specifici. “In pratica, i rifugiati e i migranti non vengono mai perseguiti né portati a giudizio per questo ‘reato’, ma rimangono in carcere a tempo indefinito sulla sola base del loro stato migratorio, senza una valutazione delle vulnerabilità del caso né la possibilità di presentare ricorso”, fa notare Amnesty International in un suo recente rapporto sui centri di detenzione. L’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), se presente al momento dello sbarco riesce talvolta a negoziare e a far prendere in carico dai propri servizi i cittadini di alcuni Paesi. Nel 2021, però, stando ai dati dell’Unhcr, la detenzione è stata risparmiata solo al tre percento dei superstiti: la maggior parte di loro è stata infatti portata al centro di detenzione Al-Mabani, a Tripoli. Quando Ehiss, nel settembre del 2018, venne trasferito nel centro di detenzione di Khoms, solo una parte di queste prigioni era gestita dalla Direzione libica di lotta contro l’immigrazione illegale (Dcim), che rappresenta l’autorità. Le altre carceri erano controllate dalle milizie, che spesso sono coinvolte nel traffico e nella tratta di esseri umani. Negli ultimi anni, le testimonianze di torture, uccisioni, stupri e sfruttamento sono state talmente numerose da indurre le autorità libiche ad annunciare che avrebbero ripreso in mano questi centri. Alcuni sono stati chiusi, altri hanno aperto, talvolta nel medesimo luogo. Secondo Amnesty International la riforma attuata è di tipo “cosmetico”. Il dirigente di Tajoura, ad esempio, un centro di detenzione teatro delle peggiori estorsioni, sarebbe stato integrato nell’amministrazione, e oggi gestisce il centro di Al-Mabani, a Tripoli. Nella “prigione” di Khoms, la tazza del gabinetto rappresentava per Ehiss e gli altri detenuti l’unico accesso all’acqua. Ehiss voleva tornare a casa, ma per lasciare il centro occorreva pagare, e lui i suoi soldi li aveva spesi tutti per finanziare la traversata. “Un giorno è arrivato un poliziotto. Ha scelto cinque persone per una giornata di lavoro nella sua fattoria. Non siamo stati pagati. Non ci hanno dato nemmeno da mangiare, solo dell’acqua salata”. Alcuni operai, mossi a compassione, li aiutarono a scappare. “In quel momento non ero più veramente me stesso. Avevo perso la mia compagna, mio figlio. Ancora adesso, quando vedo dei bambini che giocano, mi dico: “Mio figlio oggi avrebbe la loro stessa età”. In Nigeria Ehiss faceva il camionista, e Miracle era la figlia del suo capo. Il padre, che non ne voleva sapere del loro legame, aveva iniziato a minacciarli. I due allora sono fuggiti. Prima a Kano, nel nord del Paese. Poi la minaccia di Boko Haram li ha spinti oltre, più a nord, in Libia - dove avrebbero potuto trovare lavoro. Ma non era così facile: Miracle, che non parlava arabo, si ritrova intrappolata, senza lavoro. Poiché hanno del denaro, gli viene suggerito di tentare la fortuna in Europa. “Avevo abbastanza soldi per finanziare il mio passaggio”, precisa Ehiss. “Anche Miracle, che faceva la pasticcera, aveva qualche risparmio, ma non bastava. Ha chiamato sua madre per chiederle del denaro, fingendo di essere malata e di avere bisogno di medicine. Alla vigilia della partenza però l’ho convinta a chiamarla di nuovo per dirle la verità. Era pericoloso, aveva il diritto di sapere”. Era pericoloso. Dopo la fuga, Ehiss raggiunge un gruppo di “fratelli” nigeriani che lo convincono a ritentare la via del mare, di non mollare. Gli undici nigeriani condividono un appartamento di quattro stanze a Khoms e lavorano insieme nei cantieri. Una notte, nel giugno del 2019, qualcuno bussa alla porta. “Hanno finto di essere poliziotti. Fanno sempre finta di essere poliziotti… Ci hanno picchiati, hanno portato via tutto il denaro, i telefoni. Siamo scappati in una casa in costruzione, dove abbiamo trascorso la notte. Avevo con me solo il lenzuolo in cui dormivo. Il resto è rimasto tutto là”. Le violenze subite in Libia in quegli anni hanno lasciato dei segni. Nel corpo - come quei venti colpi di frusta sulle piante dei piedi, ricevuti per non aver pagato gli scafisti abbastanza velocemente dopo essere entrato nel Paese. Mentre racconta, Ehiss mostra un giovane pachistano seduto al suo fianco che lo sta ascoltando. La parte interna degli avambracci del ragazzo è segnata dalle cicatrici causategli dai trafficanti che lo hanno rapito. La tortura è stata filmata, e il video inviato alla sua famiglia per convincerla a versare un riscatto. Altri segni rimangono nella mente: Ehiss non sopporta più di sentir parlare arabo. “In Libia l’unica cosa che puoi fare è dire grazie. Ti prendono a schiaffi? Grazie. Quando ti picchiano ti guardano urlare e ridono. Ci davano da mangiare nella ciotola del gatto. Si può essere contenti solo di essere vivi”. Il secondo tentativo di traversata - da Zawiya, nell’agosto del 2019 - dura poco. “Eravamo in acqua da meno di un’ora quando è arrivata la guardia costiera. I poliziotti ci hanno detto che gli scafisti li avevano chiamati subito dopo averci fatto partire. In Libia nascondersi non serve... Ci hanno picchiati con le loro armi, hanno portato via il nostro denaro e i gioielli delle donne. Non hanno nemmeno avuto bisogno di farci scendere. Due di loro sono saliti a bordo, hanno fatto ripartire il motore e se ne sono andati”. Negli ultimi anni le accuse di collusione tra guardacoste e trafficanti sono state ampiamente documentate dalle ong, dai giornalisti e dall’Onu. Ecco cosa scriveva Amnesty International nel 2017 a proposito di Zawiya: “Esiste un rapporto simbiotico tra i guardacoste libici e le milizie. Tenuto conto dell’influenza di Zawiya, dell’accesso al mare e del giro di affari che circonda il traffico, l’unità dei guardacoste della città collabora con le milizie. I guardacoste locali si occupano delle intercettazioni in mare e portano gli intercettati nel centro di detenzione del Dcim. Le autorità incaricate della detenzione ne approfittano per estorcere ai rifugiati e ai migranti detenuti nel centro del denaro in cambio della libertà. E, rilasciando gruppi di migranti direttamente nelle mani degli scafisti, contribuiscono a loro volta ad incrementare l’attività dei trafficanti”. Ehiss viene spedito al centro di detenzione Oussama, a Zawiya. “Quel luogo è l’inferno. Ci sono più di trecento persone, l’acqua si prende dalla tazza del gabinetto”. Un altro superstite, passato per Oussama un anno più tardi di lui, ne fa la stessa descrizione. “Alcuni sudanesi e dei somali hanno provato ad evadere, e le guardie gli hanno sparato contro”, prosegue Ehiss. “Ne hanno ucciso qualcuno. Poi sono tornati nella prigione e hanno picchiato tutti. Per due giorni non ci hanno dato né cibo né acqua”. Lo scorso maggio, la missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ha riportato di due incidenti simili avvenuti nel 2021 nei centri di detenzione di Tripoli Abu Salim (costato la vita a fine febbraio ad almeno cinque persone) e Mabani (almeno un morto e alcuni feriti in aprile). Romeo Romy, un camerunese soccorso dalla Geo Barents, si trovava a Mabani al momento della sparatoria. Faceva parte del gruppo di migranti che stavano tentando di fuggire. “Verso le quattro del mattino i poliziotti sono arrivati con dei rinforzi. Hanno sparato dei colpi, e due sudanesi e un guineano hanno perso la vita. Siamo stati percossi con la frusta. Le ong e i giornalisti hanno chiesto di poter fare un sopralluogo, ma sono stati minacciati e hanno dovuto rinunciare. La notte successiva siamo stati trasferiti a Inzarah perché i giornalisti non potessero incontrarci. Di solito, quando sparano in quel modo lo fanno solo per intimidire. Quella volta però hanno preso la mira per colpire le persone”. Dopo qualche settimana di detenzione Ehiss riesce a far leva sulle sue conoscenze, ottenendo l’aiuto di un sudanese influente che lo fa liberare. Per i mesi successivi lavora per lui per una paga minima, che però gli permette di ripagare il proprio debito. Ehiss gli è riconoscente. Ritrova un suo equilibrio a Tajoura, dove lavora e prende in affitto un appartamento. La Libia è considerata, a ragione, un luogo senza legge ed estremamente pericoloso per i migranti. Ma è anche un Paese accogliente, in cui centinaia di immigrati vivono e lavorano. La svolta arriva con un post di Facebook. A scriverlo è una sopravvissuta del naufragio dell’estate 2018. Si trova in Europa, ha appena avuto un bambino. “Ho ripensato alla mia compagna”, racconta Ehiss. “Mi sono detto che avrei dovuto ritentare. Che dovevo andare sino in fondo”. La sua imbarcazione viene individuata da un aereo dei Piloti Volontari, che ne segnalano la posizione alla Geo Barents. “Quando abbiamo visto arrivare gli Zodiac abbiamo capito che si trattava di aiuti internazionali, perché i libici si accontentano di lanciare una corda. Non so come spiegare, ma è stata la gioia più grande della mia vita. Avrei solo voluto che ci fosse lei. Avrei solo voluto che fosse ancora viva”. *Traduzione di Marzia Porta Giornata della Pace, a Gaza una generazione perduta che finora ha conosciuto solo la guerra di Paolo Pezzati Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2021 Oggi a Gaza è un giorno come tutti gli altri, in cui la speranza di una vita normale senza la minaccia e gli effetti della guerra con cui fare i conti, appare un tenue lumicino in fondo ad un tunnel di cui non si intravede la fine. A quasi quattro mesi di dagli ultimi scontri e dai pesanti bombardamenti dell’operazione israeliana “Guardiano delle Mura”, la situazione umanitaria nella Striscia resta gravissima: l’80% della popolazione dipende dagli aiuti umanitari per sopravvivere, il 60% delle persone soffrono di insicurezza alimentare e ogni giorno per quasi tutti è una strenua lotta per procurarsi l’acqua pulita per i bisogni più essenziali. Solo 1 famiglia su 10 ha accesso diretto all’acqua potabile. Durante gli 11 giorni di bombardamenti di maggio, più di 2.000 abitazioni sono state distrutte 330 scuole, 10 ospedali, 22 ambulatori medici danneggiati, colpite le reti elettrica e idrica. “Le condizioni di vita a Gaza peggiorano giorno dopo giorno, la popolazione continua a crescere e le risorse diminuiscono. Il blocco imposto ha paralizzato tutti gli aspetti della vita. A Gaza hai la formula completa per la disperazione e l’agonia, e le persone devono sforzarsi ogni giorno per mettere il cibo e l’acqua potabile in tavola. I pazienti devono aspettare a lungo i loro permessi di viaggio per ricevere i farmaci in Cisgiordania o in Israele, i bambini in molti casi devono viaggiare da soli negli ospedali perché ai loro genitori viene negato l’ingresso, per non parlare delle scarse infrastrutture sanitarie a Gaza, che non sono in grado di gestire i pazienti Covid-19”. Così la settimana scorsa Sami Alhaw, responsabile della comunicazione di Oxfam a Gaza, ha raccontato la crisi ad un gruppo di parlamentari italiani nel corso di un incontro sulla crisi. Già perché nel frattempo la ricostruzione non è ancora iniziata e quel che si è fatto è semplicemente liberare le strade dai detriti. Sappiamo che solo da pochi giorni - attraverso il varco di Karem Shalom - hanno iniziato ad entrare i primi materiali, a seguito di un lungo negoziato (mediato dall’Egitto) per un cessate il fuoco di lungo periodo. Conosciamo però come ha funzionato la ricostruzione a seguito dell’operazione “Margine di Protezione” del 2014: male e lentamente. Il Gaza Reconstruction Mechanism - un accordo tra Nazioni Unite, Autorità Palestinese e Governo di Israele formalmente nato sia per superare le difficoltà imposte dal blocco e per garantire la sicurezza di Israele - si è rivelato uno strumento di controllo da parte di Israele che ha legittimato e rafforzato il blocco su Gaza. Tra i vari punti critici di una situazione che appare di stallo permanente, vale la pena evidenziare la questione della “dual use list”: un elenco di beni destinati teoricamente a un uso sia militare che civile, e che per questo subisce controlli e ritardi anche di 8-12 mesi. Di fatto con questo meccanismo sono proprio i materiali edili e infrastrutturali, agricoli (fertilizzanti, pesticidi) necessari a ripartire che non entrano a Gaza. Come Oxfam chiediamo quindi che la comunità internazionale impari dagli errori del passato e, quale che sia l’accordo per la ricostruzione, promuova un sistema capace di rimuovere le barriere allo sviluppo economico della Striscia, superando una volta per tutte la logica del blocco, che altro non è che una punizione collettiva che dura da 14 anni. È cruciale assicurare un piano con vincoli temporali e meccanismi di controllo e verifica degli avanzamenti intermedi, utile a chiarire le responsabilità in caso di mancato avanzamento. Perché a fare le spese della situazione attuale sono oltre 2 milioni di persone che in questo momento non hanno un futuro. L’età media della popolazione di Gaza è di 18 anni. Ebbene, in questi 18 anni abbiamo assistito a 4 operazioni militari e un blocco di 14 anni che limita gravemente l’ingresso e l’uscita di persone e beni. Gaza è il posto dove le falde acquifere sono inquinate, dove gli scarichi finiscono direttamente in mare, dove c’è una delle densità abitative più alte del mondo e dove c’è energia elettrica solo per poche ore al giorno. Nel 2012, un “famoso” rapporto delle Nazioni Unite prevedeva che Gaza nel 2020 sarebbe diventato un luogo invivibile: gli indicatori attuali sono peggiori delle previsioni, ma nulla sembra cambiare. Oggi si ricorda la Giornata Internazionale della Pace e la domanda è: come si può pensare ad una Pace duratura quando un’intera popolazione ha visto e sperimentato solo fame, restrizioni e distruzione? Messico. Amnesty International denuncia le conseguenze delle mancate indagini sui femminicidi La Repubblica, 22 settembre 2021 All’origine c’è la negligenza delle autorità, col risultato che le prove vanno perse, i filoni d’indagine non vengono seguiti e si diffonde la certezza che questi crimini rimangano impuniti. In un nuovo rapporto sui femminicidi preceduti da sparizione forzata nello stato del Messico (parte dell’omonima federazione), Amnesty International ha denunciato la mancanza d’azione giudiziaria e la negligenza delle autorità, col risultato che le prove vanno perse, non tutti i filoni d’indagine vengono seguiti e la prospettiva di genere non viene applicata correttamente. Questi fattori aumentano le probabilità che tali crimini rimangano impuniti. Questo fallimento della giustizia è analogo a quello riscontrato in altri casi, come per esempio oltre 20 anni fa a Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua. “Ogni femminicidio ha un impatto tremendo sulle famiglie delle vittime: cercano verità, giustizia e riparazione e finiscono per diventare vittime a loro volta. Continuiamo a chiedere alle autorità federali e statali messicane di dare massima priorità al contrasto alla violenza contro le donne”, dice Edith Olivares Ferreto, direttrice generale di Amnesty International Messico. Nel 2020 assassinate 3.723 donne. Nel 2020 non c’è stato uno dei 32 Stati messicani in cui non vi sia stato un femminicidio. In totale, sono state assassinate 3.723 donne e 940 di queste morti sono state indagate come femminicidi. Nel suo rapporto, Amnesty International descrive quattro casi di femminicidio preceduto da sparizione, spiegando in che modo le indagini sono state inadeguate: Nadia Muciño Márquez, uccisa nel 2004; Daniela Sánchez Curiel, scomparsa nel 2015 e che la famiglia sostiene sia stata vittima di femminicidio: Diana Velázquez Florencio, scomparsa e poi uccisa nel 2017; e Julia Sosa Conde, scomparsa e uccisa nel 2018. In ciascuno di questi quattro casi la scena del delitto non è stata esaminata in modo corretto, le prove non sono state conservate o messe in sicurezza, non sono state svolte analisi forensi, sono andati persi dati, oggetti, sostanze e testimonianze. Difficile anche conservare le prove in Procura. A questo quadro generale, vanno aggiunti i carichi di lavoro eccessivi all’interno della Procura dello Stato del Messico, la mancanza di luoghi ove conservare in sicurezza le prove e il fatto che talvolta gli stessi funzionari devono pagare di tasca propria i materiali necessari per svolgere le indagini. Il rapporto di Amnesty International contiene una serie di raccomandazioni alle autorità giudiziarie e politiche dello stato del Messico e a quelle federali affinché le procedure d’indagine siano rese efficienti, i diritti dei familiari delle vittime siano tutelati e sia ammessa pubblicamente l’esistenza di un enorme problema quale i femminicidi preceduti da sparizioni. Perché curare l’Afghanistan di Makhdoom Shah Mahmood Quereshi* La Repubblica, 22 settembre 2021 Il mondo deve unirsi per aiutare l’Afghanistan a evitare un tracollo economico. Dopo aver sofferto per decenni, l’Afghanistan è a un bivio storico, dove può finalmente porre fine ai cicli di conflitto e instabilità, o cadere in un fallimento statale che porterebbe un’indicibile miseria al suo popolo e influenzerebbe la regione. Dopo lo stesso Afghanistan, il Pakistan è quello che ha sofferto di più per l’imbroglio afgano. Abbiamo avuto 80 mila vittime. Abbiamo subito perdite economiche dell’ordine di 150 miliardi di dollari e continuiamo a ospitare circa quattro milioni di rifugiati. Ma restiamo saldi. Non abbiamo mai avuto l’opzione o l’inclinazione, semplicemente, di andarcene. Come vicini immediati non abbiamo il lusso di disimpegnarci. Il Pakistan ha tenuto aperti la sua Ambasciata e i suoi Consolati in Afghanistan. La nostra compagnia aerea nazionale, Pia, ha affrontato tutti i rischi per evacuare il personale delle Missioni Diplomatiche, delle Organizzazioni Internazionali, delle Ong e dei media. Mentre il Pakistan è impegnato a fare ciò che può, è essenziale avere una prospettiva realistica man mano che la situazione si evolve. La crisi afgana, il suo peggioramento e la sua continuazione non sono stati causati dal Pakistan, ma abbiamo cercato di aiutare a raggiungere una fine negoziata alla “guerra per sempre”. Il Pakistan esorta i “disturbatori” a desistere dall’ostacolare il processo di stabilizzazione dell’Afghanistan. L’Afghanistan è un’entità profondamente ferita che ha bisogno di guarigione, non di ciniche manipolazioni. Alla comunità internazionale diciamo: mantenete la rotta e aiutate l’Afghanistan a evitare un disastro economico e umanitario. Non ripetete le azioni precipitose del passato che hanno approfondito le crepe nella società afgana, esacerbate dall’azione militare, dalla cattiva gestione e dalla corruzione massiccia. Incentivare attraverso un impegno costruttivo e una messaggistica positiva. Al nuovo Afghanistan, diciamo: cercate di mettere in atto una genuina riconciliazione e create una politica dove nessuno si senta in pericolo a causa dell’etnia o del sesso. Come attore responsabile, il Pakistan non solo ha facilitato il processo di pace, ma sta anche lottando per un approccio regionale sull’Afghanistan. Abbiamo anche raggiunto i Paesi occidentali e tutte le fazioni politiche afgane per lavorare insieme per una pace duratura e la stabilità in Afghanistan. Il Pakistan invita ogni attore internazionale a promuovere la riconciliazione intra-afgana. L’Afghanistan ha avuto abbastanza conflitti. Le sofferenze del Pakistan sono state seconde solo a quelle dell’Afghanistan. La visione del Primo Ministro per un Pakistan trasformato è incentrata sulla sicurezza economica. Il Pakistan ha fatto uno spostamento politico dalla geopolitica alla geoeconomia. Desideriamo una regione pacifica e prospera che contribuisca alla sicurezza e alla stabilità internazionale, che aiuterebbe anche a realizzare il nostro programma di connettività per l’integrazione economica regionale. Fornire un generoso sostegno all’Afghanistan lo aiuterebbe a compiere una vera transizione da un’entità fratturata e mal amministrata a uno stato responsabile. Aiutare l’Afghanistan aiuterebbe a prevenire un tracollo economico e una crisi di rifugiati. La stretta finanziaria in questa fase si aggiungerebbe alla sofferenza degli afgani. Dovremmo allungare le nostre mani per sollevarli, non per soffocarli. La velocità insensata con cui il castello di carte guidato da Ashraf Ghani è crollato ha generato molte ipotesi; c’è anche angoscia e un senso di perdita dovuto agli investimenti sprecati di un attore regionale che voleva l’Afghanistan come un cavallo di Troia anti-Pakistan. Il Pakistan esorta tutti gli attori responsabili a imparare dagli errori del passato. Non ripetiamoli. Cogliamo l’opportunità di inaugurare un’era in cui un Afghanistan stabile e pacifico ci aiuti a sbloccare il vero potenziale della regione. *Ministro degli Esteri del Pakistan