Affettività nelle carceri, l’Italia è il fanalino di coda d’Europa di Angela Stella Il Riformista, 21 settembre 2021 “Riconoscere un diritto fondamentale”. L’appello di Tirelli, presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale. Un diritto sospeso, che fa dell’Italia uno dei fanalini di coda dell’Europa e del mondo occidentale. Nel Belpaese la maggioranza dei detenuti, se non la quasi totalità, non può ad oggi in alcun modo coltivare in maniera continuativa i rapporti di affetto con la propria famiglia. Di sessualità, poi, neanche a parlare. L’unico istituto deputato allo scopo e attualmente riconosciuto dalla legge è quello del permesso premio, al quale però soltanto pochi ristretti riescono ad accedere. Al fine di cogliere, sul punto, l’effettivo livello di arretratezza del nostro sistema penitenziario appaiono illuminanti le parole dell’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale: “Le visite intime prive del cosiddetto controllo visivo sono attualmente consentite in India, Messico e Israele; in Canada gli incontri di questa natura hanno luogo, sin dagli anni Ottanta, in piccole case mobili posizionate all’esterno delle strutture carcerarie”. In quello stesso periodo il dibattito aveva, pur con una certa “timidezza”, iniziato a decollare anche in Italia. Nonostante gli input arrivati dalla sponda tecnica, nessuna forza politica ha però poi dato seguito a quell’indirizzo. Uno stallo i cui esiti sono presto detti: il nostro Paese si è ritrovato fermo al palo mentre gli altri Stati dell’eurozona hanno fatto importanti passi in avanti. “In Europa sono trentuno gli Stati che permettono ai propri detenuti forme più private di contatto affettivo con il coniuge, il compagno, i familiari e persino gli amici, in assenza di contatto e controllo visivo da parte della polizia penitenziaria”, spiega il presidente Tirelli, mettendo l’accento su alcuni casi particolarmente avanzati. “Fra questi la Svizzera, la Francia e l’Austria. In Spagna - prosegue - il diritto all’intimità è garantito nei confronti di coloro che possano documentare la sussistenza del rapporto, come coppie sposate o costituite more uxorio, nonché di coloro che comunque dimostrino una relazione stabile della durata di almeno sei mesi, precedente alla carcerazione o in costanza della stessa”. E ancora: “Le strutture carcerarie di Norvegia, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi hanno edificato appartamenti in cui poter restare senza sorveglianza per un’ora, su richiesta del detenuto; la Germania prevede altresì, all’interno delle stesse strutture penitenziarie, zone appositamente adibite al soggiorno del ristretto, autorizzato dall’autorità giudiziaria e della durata di alcuni giorni, con il partner e gli eventuali figli”. Al momento in Italia l’unico istituto di pena nel quale il connubio detenzione-affettività è stato reso possibile è quello di Opera, in Lombardia. Un caso che il presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale inquadra senza esitazione come il battistrada da seguire. L’avvocato Tirelli conclude dunque la sua denuncia con un accorato appello: “È necessario che al più presto il legislatore provveda a riempire quel recipiente che è l’articolo 2 della Costituzione attraverso una modifica della legge sull’ordinamento penitenziario, perché esso possa finalmente, anche formalmente, accogliere appieno il riconoscimento del diritto fondamentale in oggetto, dimensione naturale e necessaria di ogni persona e non concessione da parte di uno Stato che pretende di essere uno Stato di diritto”. Resta da capire quale forza parlamentare avrà, se l’avrà, la forza e il coraggio di portare avanti questo iter. Doppia fiducia al Senato per le riforme della giustizia, senza tensioni né per civile né per penale di Liana Milella La Repubblica, 21 settembre 2021 Stavolta, a differenza della Camera, il via libera non riserva sorprese. Solo emendamenti di Alternativa c’è e FdI per il processo penale. I Dem Rossomando e Mirabelli: “Lasciamo ad altri il populismo giudiziario, la strada giusta è quella delle riforme condivise, non certo dei referendum divisivi”. Sulla presunzione d’innocenza alla Camera audizioni di Gratteri, Rossi, Celotto e Manes. Al Senato scoppia la pace sulla giustizia. Il luglio caldo della Camera, con il M5S fino all’ultimo sulle barricate contro l’improcedibilità, è alle spalle. È senza storia la riforma del processo civile. Sono tutti d’accordo. Il pallottoliere degli emendamenti ne conta solo 24. Domani sarà la sua giornata e passerà in prima lettura con la fiducia. Idem il giorno dopo, o al massimo giovedì mattina, per la riforma del processo penale. Giunta alla sua seconda e definitiva lettura. Il prossimo passo sarà quello dei decreti legislativi. M5S accantona le polemiche - Complice il voto per le amministrative, al Senato si stringono i tempi. E in due giorni l’aula licenzierà le due riforme della giustizia su cui punta il governo per i fondi del Pnrr. Due fiducie. Ma stavolta sottotono. Niente polemiche. E il voto sul penale non dovrebbe riservare alcuna sorpresa dai banchi di M5S. Tant’è che nel pacchetto degli emendamenti - circa 1.800 - non figura nessuna richiesta di modifica da parte di M5S, ma solo 23 emendamenti di FdI e tutto il resto del gruppo di Alternativa c’è, gli ex senatori fuoriusciti da M5S. Dalla maggioranza invece neppure una proposta divergente rispetto al testo che pure ha creato a luglio tante polemiche alla Camera. Venti giorni di “passione” con le pressioni di M5S su Draghi, con il presidente Giuseppe Conte e l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede in prima fila, per cambiare le norme sull’improcedibilità e allargare il range dei tempi per evitare che si possano chiudere in futuro i processi per i reati più gravi, a partire dalla mafia. Alla fine, comunque, qualche voto in dissenso, ma soprattutto qualche assenza che ha creato polemiche. Due fiducie in 48 ore - Ma tutto questo fa parte del passato. Adesso la road map della giustizia a palazzo Madama appare del tutto lineare. Domani, a partire dalle 16 e trenta, l’aula voterà la riforma del processo civile che contiene la novità del nuovo tribunale della famiglia. Nel frattempo, in commissione Giustizia, saranno votati gli emendamenti del processo penale, con una raffica di sedute, anche notturne, per portare in aula il testo mercoledì. E anche in questo caso una fiducia porterà al voto, questa volta definitivo, la riforma della Guardasigilli Marta Cartabia. Sì alle riforme, no al populismo giudiziario - Il Pd è convinto che i due voti segneranno una svolta nella politica della giustizia. Dice Anna Rossomando, vice presidente del Senato e responsabile Giustizia del partito: “Si tratta di due provvedimenti fondamentali per ottenere i fondi del Pnrr, il funzionamento e l’efficienza dei tribunali e la tutela dei diritti dei cittadini. Avevamo detto che le riforme si fanno in Parlamento e siamo stati conseguenti”. Poi una stoccata polemica alla Lega: “Il populismo giudiziario lo lasciamo ad altri che la mattina fanno i parlamentari e il pomeriggio raccolgono le firme contraddicendo le riforme del governo di cui fanno parte”. Sotto traccia la polemica sui referendum - La pensa esattamente allo stesso modo Franco Mirabelli, capogruppo dei Dem in commissione Giustizia e vice capogruppo in aula: “Quello che succederà nei prossimi due giorni al Senato conferma che la strada giusta è quella delle riforme condivise, non certo quella dei referendum divisivi”. E Mirabelli, che in commissione ha seguito il lungo iter del processo civile, è convinto che le due riforme abbiano un peso strategico: “Dopo le assunzioni per gli uffici del processo e gli investimenti per la digitalizzazione, con queste riforme si interviene concretamente ed efficacemente su molti dei mali della giustizia italiana garantendo tempi rapidi e certi per i procedimenti. Per noi il rafforzamento dell’ufficio del processo, l’incentivazione dei riti alternativi nel civile e delle pene alternative al carcere e risarcitorie nel penale sono obbiettivi importanti per cui ci siamo impegnati e che indicano una direzione e qualificano le riforme”. Prossima sfida sulla presunzione d’innocenza - Chiuso il capitolo delle due riforme si aprirà quello della presunzione d’innocenza. Il decreto legislativo, che riprende la direttiva Ue e opera una stretta sui nomi alle inchieste, sulle conferenze stampa, sulla terminologia per definire gli arrestati “presunti innocenti”, sforerà il termine dei 40 giorni rispetto al voto in consiglio dei ministri, ma l’agosto di mezzo, il voto amministrativo, nonché le riforme della giustizia, sono una sufficiente giustificazione. Relatore alla Camera Enrico Costa di Azione, e un parterre già fissato di audizioni a Montecitorio che faranno rumore, dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri al direttore di Questione giustizia Nello Rossi, al costituzionalista Alfonso Celotto al penalista Vittorio Manes. Ma ecco anche l’ex parlamentare di An Alfredo Mantovano che oggi veste di nuovo la toga. Voci pro e contro su un dibattito che ancora una volta divide le toghe dalla politica. Ddl Cartabia, il giorno della fiducia. Il Cnf: dal testo rischio caos di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 21 settembre 2021 Oggi pomeriggio verrà discussa in Senato la “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”. Una seduta a Palazzo Madama importante, considerato che, prima della votazione dell’articolato di cui si compone la riforma, l’Aula dovrebbe pronunciarsi sui venti emendamenti con primo firmatario il senatore Alberto Balboni, di FdI. In corrispondenza di questo snodo è però molto probabile che si assisterà all’annuncio della questione fiducia per il governo. Sarebbe la quattordicesima per l’esecutivo Draghi. Di qui le forti perplessità dell’opposizione, rappresentata dal partito di Giorgia Meloni, ma innanzitutto dell’avvocatura. La fiducia che potrebbe essere posta fa riflettere il senatore Balboni, non essendoci scadenze tali da giustificare una mossa del genere. “Il contraddittorio - rileva il parlamentare di FdI, che è anche vicepresidente della commissione Giustizia - verrebbe messo a dura prova per non dire compromesso. La maggioranza, se dovesse essere posta la fiducia, senza lasciare la possibilità di discutere gli emendamenti, dimostrerebbe un atteggiamento poco rispettoso. Anzi, dimostrerebbe una bella faccia tosta. La riforma civile così come la si sta modellando rischia di far male alla giustizia e soprattutto ai cittadini. Non lo dico solo io. L’allarme è stato lanciato direttamente dal Cnf”. Proprio il Consiglio nazionale forense ha più volte ricordato come la lentezza della giustizia civile sia ascrivibile principalmente alla carenza e all’irrazionale allocazione delle risorse umane (magistrati e personale amministrativo), con l’aggiunta dell’inadeguatezza di strutture e dotazioni tecnologiche. Da tempo l’avvocatura chiede di concentrarsi sul piano dell’ordinamento e dell’organizzazione giudiziaria anziché fissarsi sugli interventi da apportare alle regole processuali. Ad esempio, la rivitalizzazione dell’ufficio per il processo è probabilmente utile, osservano le rappresentanze forensi, ma si tratta di un istituto sopravvalutato. Nel dicembre dello scorso anno il Cnf diede un contributo rilevante. Con la sua proposta per il Recovery Plan si approcciò in maniera innovativa con due punti di riferimento molto chiari: la persona e il suo bisogno di tutela al centro del sistema giustizia. Ricordiamo che il disegno di legge sulla riforma del processo civile è stato presentato dal governo Conte bis al Senato il 9 gennaio 2020. Con il governo Draghi, la guardasigilli Marta Cartabia ha costituito la Commissione Luiso. Tre mesi fa, dopo le proposte presentate dal gruppo di esperti, il governo ha presentato i propri emendamenti al testo originario. A luglio il Cnf ha formulato a propria volta le relative proposte e subemendamenti. Ma da dove deriva la critica dell’avvocatura? Il testo finale licenziato dalla commissione Giustizia del Senato, neanche una settimana fa, ha disatteso, come rileva l’avvocato e consigliere Cnf Alessandro Patelli, quanto suggerito dalla massima istituzione forense. Patelli è il coordinatore della Commissione diritto civile e procedura civile del Cnf. “Il testo - commenta - prevede alcuni interventi positivi, ma con specifico riferimento alle innovazioni sulla disciplina del processo civile si profila seriamente il rischio che l’obiettivo perseguito, celerità ed efficienza, non possa essere raggiunto. Anzi si possono paventare ulteriori lungaggini e complicazioni. Si faranno i conti con la crisi di adattamento, conseguente all’abbandono di un modello processuale collaudato e alla possibile coesistenza in via transitoria di due riti differenti. Con l’evenienza, più che probabile, che le innovazioni processuali possano aprire una stagione di incertezze applicative e di contenzioso sull’interpretazione delle nuove regole. Tutto a discapito della decisione sui diritti in contesa”. Quanto licenziato dalla commissione Giustizia, sostengono gli avvocati, fa emergere un modello processuale penalizzante in termini di contrazione dei diritti di difesa e che focalizza l’attenzione sulla fase introduttiva, anziché sulla fase decisoria. Quest’ultima è un vero e proprio collo di bottiglia dello sviluppo procedimentale. Tra le parti che destano maggiori perplessità la fase introduttiva e di trattazione del processo civile di cognizione di primo grado. “Sono state introdotte preclusioni e decadenze anche istruttorie - dice Patelli - che si collocano tra la notificazione dell’atto di citazione e la prima udienza di comparizione, con la previsione di tre memorie da scambiare entro correlativi termini intermedi, peraltro non indicati nell’ultimo testo. Il che presuppone, se si intende rispettare il principio del contraddittorio e garantire l’esercizio del diritto di difesa, che il termine a comparire, ai sensi dell’articolo 163- bis del Codice di proceduta civile, debba essere necessariamente e non solo eventualmente, come si legge nell’ultimo testo, dilatato. In questo modo la prima udienza andrà a cadere più tardi di quanto accade ora”. Altro punto criticato riguarda la fase decisoria. “Continua ad essere - commenta il coordinatore per il diritto civile del Cnf - svincolata da termini certi per quanto attiene alla pronuncia della sentenza e ad essere affidata alla diligenza e alla buona volontà del giudice, che può scegliere tra la discussione orale in una apposita udienza dallo stesso fissata, senza termini, e la discussione in forma scritta con termini per il deposito degli scritti difensivi finali. Questi ultimi decorrono a ritroso rispetto ad una udienza di “rimessione della causa in decisione” del tutto inutile e fissata a piacimento”. Giustizia, la riforma della “discordia” cambierà l’Italia e le professioni legali? di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 21 settembre 2021 La riforma della Giustizia firmata dalla ministra Marta Cartabia è incentrata soprattutto su rapidità della giustizia. È questa la strategia seguita e individuata anche alla luce delle linee tracciate nel Pnrr. “Tempi rapidi e certezza della durata dei processi sono le priorità del nostro sistema giudiziario, affinché il nostro Paese possa tornare ad attrarre investimenti - conferma Carlo Gagliardi, managing partner di Deloitte Legal Italia. Occorre introdurre riforme procedurali e ordinamentali per ridurre i tempi dei processi, modernizzare strutture e procedure e aumentare la produttività dei tribunali, anche attraverso l’assegnazione di ruoli a personale con funzioni e competenze manageriali e l’utilizzo di strumenti tecnologici”. Una serie di trasformazioni destinate a modificare anche la professione legale. “Gli avvocati - continua Gagliardi - potranno e dovranno adeguare le proprie competenze e le proprie strutture a un sistema giustizia più organizzato e tecnologico, promuovendone e sostenendone la trasformazione digitale”. Si torna a parlare di mediazione come alternativa ai processi per decongestionare le aule di tribunale. In passato gli avvocati si sono opposti alla mediazione obbligatoria. Oggi è una strada vista con occhi diversi? Può essere una valida alternativa e, soprattutto, una via per velocizzare la macchina della giustizia? “La gestione del contenzioso è ancora affetta da una visione “tribunal-centrica” che vede lo Stato operare in regime di sostanziale monopolio. Attraverso il ricorso alle procedure di Adr (negoziazione diretta, tavoli paritetici, mediazione e arbitrato) si amplia l’offerta degli strumenti di risoluzione delle controversie, senza gravare sulla spesa pubblica. Contemporaneamente si rendono più efficienti i tribunali, il cui carico di lavoro si riduce. Oggi l’efficienza si traduce in competitività: la lentezza della tutela legale è anacronistica e rischia di apparire quale assenza assoluta di tutele. Un profondo cambio di marcia della Giustizia rappresenta un elemento essenziale per la ripresa dell’Italia”. Nella riforma è prevista un’accelerazione del processo telematico. Quali cambiamenti comporterebbe nell’ambito della professione? “Occorrerebbe spingersi verso l’unificazione e implementazione della piattaforma di processo telematico ma senza sacrificare il principio dell’oralità del dibattimento, per semplificare il lavoro dell’avvocato e salvaguardarne l’attività. Simili strumenti consentirebbero, infine, la creazione, la raccolta e l’analisi di dati (big data) utili alla migliore gestione del sistema giustizia: in questo senso la digitalizzazione è un’opportunità che non ci possiamo far sfuggire”. Digitale e intelligenza artificiale rappresentano la nuova frontiera degli studi legali. Quali scelte sta operando Deloitte in questa direzione? “È in atto una trasformazione, per certi aspetti antropologica, delle caratteristiche professionali. Sta nascendo una nuova figura ibrida che si fonda su due elementi sinergici: intelligenza umana e intelligenza artificiale. In Deloitte Legal abbiamo cominciato ad assumere data analist che accompagnino il lavoro dei nostri professionisti con la capacità di leggere i grandi insiemi di dati, concretizzando così la vera trasformazione digitale: quella che ci condurrà a fare valutazioni e assumere decisioni sulla base dell’analisi delle informazioni digitali. Presto saremo in grado di decidere se intentare o meno una causa, prevedendone l’esito, proprio sulla base dell’analisi delle informazioni prodotte da centinaia di migliaia di casi”. Andrea Pamparana: “Il sistema è marcio”, l’ombra del ricatto della magistratura alla politica di Pietro De Leo Libero, 21 settembre 2021 “Alla fine di tutto questo non cambierà nulla”. I verbali sulla loggia Ungheria, e prim’ancora i contenuti del libro “Il Sistema”, in cui il direttore di Libero Alessandro Sallusti dialoga con Luca Palamara sulle degenerazioni della magistratura, stimolano una lunga chiacchierata con Andrea Pamparana. Giornalista di rango, che annovera nel curriculum la vicedirezione del Tg5, rubriche e libri in quantità. Ma, soprattutto visse e raccontò l’inchiesta di Mani Pulite. Cosa insegna la cronaca dei verbali sulla presunta Loggia Ungheria? “È tutto un deja-vu. Un “già visto”. Quando leggo di questa cosa, o dei meccanismi ben illustrati nel libro Sallusti-Palamara, mi viene da dire: ci meravigliamo? Ci stupiamo che vengano passati dei verbali a dei giornalisti? La risposta è no. Ma sono cose che in realtà dovrebbero farci paura, il sistema è marcio”. Perché è marcio? “Per due elementi. Il primo è quello che venne individuato da Giovanni Falcone con il termine “pentitismo”. In Italia, purtroppo, non si hail modello del “collaboratore di giustizia” all’americana, che se non racconta le cose vere non ha alcuna protezione e subisce delle conseguenze. Da noi il primo “pentito” che dice qualcosa contro l’avversario politico di turno diventa “la verità”. E tutto finisce sui giornali”. Quindi il caso Amara è pentitismo? “Nello specifico non lo so, ma vedo che l’uscita dei verbali ripercorre quel meccanismo. Quanto sento dire che un magistrato molto importante andato in pensione, che faceva parte del Csm e io personalmente ho sempre stimato, parlo di Davigo ovviamente, si meraviglia che il verbale sia uscito tramite la sua segretaria, vorrei ricordare come uscì la notizia del famoso invito a comparire a Silvio Berlusconi a Napoli, durante un vertice internazionale”. 1994. Come uscì? “Per un giro interno tra giornalisti...”. E Procura? “Certo! Ma secondo voi davvero possiamo credere che un Procuratore è così ingenuo da consegnare lui al giornalista, magari amico, il verbale? Gli strumenti per fare arrivare i documenti a chi di dovere sono infiniti. È il perverso gioco dell’informazione che si è “appecoronata” al potere della magistratura”. Il secondo elemento, invece? “La mancanza di quel che l’avvocato Giuseppe Frigo, illustre, poi diventato componente della Consulta, definì “un atto di civiltà”, ossia la separazione delle carriere”. In che modo questa potrebbe interrompere il coagulo mediatico-giudiziario? “Perché avresti due comparti precisi, tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, e perfetta simmetria tra accusa e difesa, con il giudice a vigilare al di sopra delle parti. Attualmente, questo non avviene, e anche nell’eventualità in cui il pm dovesse chiedere l’assoluzione per l’imputato, quest’ ultimo nel frattempo è già stato sputtanato a livello mediatico”. La separazione delle carriere è uno degli elementi dei referendum di Lega e Radicali. Questo, assieme a quanto uscito sulla Loggia Ungheria e le rivelazioni di Palamara, portano ad un’accresciuta sensibilità collettiva sul tema. Ci sarà la spinta per una complessiva riforma? “No”. Perché? “Quanti referendum abbiamo fatto che poi non sono stati applicati? Accadrà anche questa volta. Alla fine ci sarà qualche piccola modifica della normativa che renderà vano quel referendum”. Eppure dovrebbe essere anche interesse della politica recuperare il suo primato... “Certo, sempre però che la politica non sia al servizio o sotto ricatto della magistratura. Ricordo che c’è più volte stata occasione per farla, la riforma. I governi Berlusconi avevano un forte mandato popolare”. Neanche allo strapotere delle correnti si metterà mano? “Può darsi che su quel lato uno scossone ci sia, ma dipenderà dal nuovo presidente della Repubblica. Cossiga, che tutti davano per folle, mandò i carabinieri al Csm, ma sono passati più di trentacinque anni!”. Nel 1992 la Procura di Milano era il santuario del moralismo. Oggi abbiamo due protagonisti di allora, Greco e Davigo, l’uno contro l’altro. Che lezione se ne trae? “Mi ricorda certi duelli del lunedì mattina sul calcio tra due immensi avvocati, Peppino Prisco, interista, e Vittorio Chiusano, che è stato presidente della Juve. Delle boutade”. Tutta scena? “A parte il fatto che il pool era meno unito di quanto si possa pensare, direi di sì. Per carità, è una cosa anche rilevante, ma finirà in nulla. Tanto, dopo Greco e Davigo, arriverà qualcun altro che sarà incensato dagli aedi del Fatto Quotidiano e continuerà a fare quel che molti magistrati hanno sempre fatto: politica”. I reati contro le donne puniti come il terrorismo di Valeria Valente* La Stampa, 21 settembre 2021 Che cosa ha di fatto portato alla luce il “caso Palombelli” e perché, secondo me, hanno ragione sia Michela Murgia sia Michela Marzano? Barbara Palombelli non ha fatto altro che dare voce, su una testata televisiva molto popolare, a un pensiero comune, alla cultura patriarcale in cui viviamo. Se una donna viene stuprata, vessata, stalkerizzata, e/o ammazzata da un uomo - spesso il marito, il compagno, il fidanzato, l’ex, ma anche il padre, magari in combutta con i fratelli - è perché in fondo se l’è cercata: era esasperante o insubordinata o vestita in modo succinto oppure voleva lasciare il partner. In sostanza, era ribelle al ruolo stereotipato e subordinato che la società le ha storicamente assegnato e quindi, in fondo, la reazione violenta, che può arrivare all’annientamento, è comprensibile, è giustificabile. L’uomo, il maschio, sta solo reagendo. È questa la narrazione in cui siamo immersi e l’Istat lo documenta, dice che per un italiano su due la donna vittima è anche corresponsabile del reato. Perché, dunque, le parole di una famosa giornalista sono così gravi? Perché i mezzi di informazione sono importantissimi e possono contribuire a cambiare la situazione. Sette femminicidi in sette giorni sgomentano. Ma le leggi ci sono. Dobbiamo trasformare la cultura, ma come riuscirci se i media continuano a riproporre lo stereotipo all’origine di questa strage? Lo dico da presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere: l’Italia ha ormai un robusto apparato legislativo. Dalla riforma del diritto di famiglia alla Convenzione di Istanbul fino al Codice Rosso, la violenza sessuale, domestica e il femminicidio sono considerati crimini contro l’umanità, giustamente puniti in modo severo. Nel corso del tempo le pene sono state inasprite, sono stati introdotti nuovi reati come lo stalking, il revenge porn, il matrimonio precoce. Dobbiamo convincerci, senza più alcun dubbio, che le donne continuano a morire ammazzate perché il femminicidio, come tutti i reati di violenza maschile, sono riconducibili alla profonda asimmetria di potere esistente tra uomini e donne nella società. È un problema strutturale che investe ogni aspetto: il lavoro, le carriere, le istituzioni, i rapporti personali, la famiglia, la giustizia. Dobbiamo comprenderlo fino in fondo, e anche capire che la violenza contro le donne e il femminicidio sono l’altra faccia della stessa medaglia che inchioda le donne ai numeri mortificanti e gravi di cui parla e scrive spesso Linda Laura Sabbadini, direttora centrale dell’Istat, pioniera delle statistiche di genere e Chair del W20. Ecco, io penso che sia arrivato davvero il momento di cambiare passo e che dobbiamo cogliere l’occasione della ricostruzione post-Covid e farne il volano per un cambiamento epocale del paradigma di sviluppo, liberare le competenze e i talenti femminili nella società e le donne dalla violenza, per sempre. Le donne faticano a emergere in una società costruita a misura maschile, nella quale alla differenza sessuale non è attribuito alcun valore positivo, e nei fatti alla maternità non è riconosciuta funzione sociale. Le donne quindi contano meno, hanno meno potere e meno soldi, svolgono la funzione di cura in modo non retribuito, hanno carriere discontinue e retribuzioni inferiori a parità di ruolo. Come ha chiesto il W20 nel corso della prima conferenza del G20 dedicata all’empowerment femminile - evento storico organizzato dalla Presidenza italiana del premier Mario Draghi e della ministra Elena Bonetti - il vertice di Roma fra i capi di Stato e di governo del 30 e del 31 ottobre dovrà concludersi con una “road map” concreta e impegnativa sulla parità di genere. È un’occasione irripetibile, come lo è l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che contiene la clausola fondamentale sull’occupazione delle donne. In questo quadro, assumendo come prima misura il lavoro per le donne quale volano di libertà, a mio avviso sono cinque le azioni per puntare a sradicare la violenza di genere in tutte le sue forme. Primo: gli uomini devono assumere la responsabilità collettiva di contrastare la violenza compiuta da alcuni di loro. Questa piaga non riguarda solo le donne. Combattere la violenza e gli stereotipi riguarda gli uomini, la responsabilità è di ciascuno e di tutti. Servono campagne di educazione e di sensibilizzazione. Secondo: occorre attuare davvero le leggi esistenti e rafforzare le misure di protezione delle vittime, soprattutto di chi denuncia, mettere in salvo le donne e i loro figli, garantire finanziamenti adeguati alla rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio, incentivare l’utilizzo di strumenti già a disposizione dei magistrati, come l’allontanamento dalla casa familiare, il braccialetto elettronico, e altri. Il processo civile e quello penale devono dialogare come dispone la nuova riforma, nelle separazioni in caso di violenza i diritti delle donne e dei minori vanno tutelati di più. Serve formazione per tutti gli operatori della filiera della giustizia. Lo abbiamo verificato nella nostra Commissione: perché le leggi dispieghino tutto il loro potenziale, magistrati, avvocati, forze dell’ordine, consulenti tecnici d’ufficio devono saper leggere correttamente e riconoscere la violenza di genere. Terzo: bisogna approvare la legge sulle statistiche di genere, ferma da un anno alla Camera dopo l’approvazione del Senato. Potendo disporre di numeri incontrovertibili e verificati sulla violenza e sul femminicidio, potremo combattere meglio questi reati e tarare politiche adeguate. Quarto: i reati contro le donne devono diventare eurocrimini, come il terrorismo. Solo facendo convergere mezzi e risorse riusciremo a cancellare un fenomeno che riguarda, in misura ovviamente diversa, tutti gli Stati dell’Unione. Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione, ora il Consiglio Ue deve dare avvio alla procedura di modifica del Trattato. Quinto, ma non ultimo: le molestie sessuali devono diventare reato, con un’aggravante per i luoghi di lavoro e di studio e per questo, insieme a tante altre colleghe e colleghi, ho depositato un disegno di legge in Senato che si aggiunge ad altri già esistenti sul tema. Se una donna non dice esplicitamente sì, è violenza. Il no è no. Anche questo cambia la cultura. *Senatrice Pd, presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere Trattativa Stato-mafia, la difesa degli ex Ros: “È un processo senza prove” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 settembre 2021 I giudici della Corte di Assise di appello sono entrati in camera di consiglio. Passeranno alcuni giorni prima di conoscere il verdetto sul processo trattativa Stato-mafia. Il collegio presieduto da Angelo Pellino con a latere Vittorio Anania, non si allontanerà dal bunker del carcere Pagliarelli. “In un processo, quello che non è provato non esiste. La procura generale ha perso l’ennesima occasione per dimostrare le prove, perché anche nel corso delle repliche non ha detto nulla sulla “minaccia al corpo politico dello Stato”, il capo di imputazione”. Sono le parole dell’avvocato Basilio Milio, difensore del generale Mario Mori, durante la controreplica finale al processo d’appello trattativa Stato-mafia. La difesa si è ritrovata costretta a ribadire concetti, con riferimenti documentali, che il sostituto procuratore generale ha riaffrontato durante la sua replica dei giorni scorsi. Dalla questione del dossier mafia-appalti, come causa dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio, alla collaborazione del pentito Pietro Riggio che nulla a che vedere con gli ex Ros imputati visto che non erano più ai reparti speciali all’epoca dei presunti fatti, alla questione del telefonino sequestrato a Giovanni Napoli (il favoreggiatore della latitanza di Provenzano) e poi restituito dopo aver estratto i dati. Anche l’avvocato Francesco Romito, difensore dell’ex Ros Giuseppe De Donno, ha dovuto controreplicare affrontando la questione Riggio. In particolare il fatto che da infiltrato in Cosa Nostra, secondo il legale era giusto l’arresto dopo che i Ros nisseni (ricordiamo che non c’entrano con gli imputati) hanno scoperto che commetteva dei reati. La figura dell’infiltrato - istituto regolato giuridicamente - non permette di compiere crimini, ma essere solo osservatori. D’altronde, nel nostro Paese, non è contemplato giuridicamente nemmeno l’agente provocatore. Nelle controrepliche è intervenuto anche l’avvocato Francesco Centonze, legale dell’ex senatore Marcello Dell’Utri. “La Pg - ha detto l’avvocato - ci ha intrattenuto su una analisi direi sociologica, casistica e aneddotica sul messaggio mafioso, ma non ha citato fatti relativi a questo processo o documenti relativi a questo processo, o testimonianze relative a questo processo”. I giudici della Corte di Assise di appello sono entrati in camera di consiglio. Passeranno alcuni giorni prima di conoscere il verdetto. Il collegio presieduto da Angelo Pellino con a latere Vittorio Anania, non si allontanerà dal bunker del carcere Pagliarelli. Prima di entrare in camera di consiglio, il presidente Pellino ha annunciato che uno dei giudici popolari si è ritirato per motivi di salute ed è stato sostituito. Vi racconto il processo più scombiccherato del mondo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 21 settembre 2021 Da oggi Camera di Consiglio. Molti imputati già assolti varie volte per gli stessi reati. I presunti capi della congiura sono stati assolti definitivamente. Cosa resta? Solo la speranza di colpire Berlusconi. Se esiste ancora un brandello di questa giustizia a brandelli, fra qualche ora o fra pochi giorni Marcello Dell’Utri dovrebbe uscire assolto in appello dall’ accusa di aver complottato contro lo Stato. Insieme a lui anche gli ex capi del Ros, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni. E il mafioso Leoluca Bagarella, anche in rappresentanza dei defunti Totò Riina e Bernardo Provenzano. Tutti condannati in primo grado senza prove né movente nel processo Trattativa, per una trattativa che non c’è stata. Mai si vide un processo più strampalato, mai si sono visti accomunati nella stessa aula e con la stessa accusa imputati così diversi, così opposti tra loro e le loro vite. Mai è stato contestato un reato come la minaccia a corpo politico dello Stato, cioè un’azione violenta per impedire la libera attività del governo e del parlamento, senza che nessuno se ne sia mai accorto. Andrà in scena nei prossimi giorni la sentenza d’appello del famoso Processo Trattativa, quello che ha messo insieme un gruppo di mafiosi, alcuni alti dirigenti del Ros e alcuni personaggi politici, accusati e già condannati in primo grado per aver congiurato contro lo Stato. Il movente? Aiutare la mafia. In che modo? Non si sa, perché il capo della congiura, Calogero Mannino, nel processo non c’è, assolto in procedimento parallelo, con una sentenza dei giudici indignati anche per l’accanimento dei pubblici ministeri. Come è finita nel 2018 nel processo di primo grado? Dei mafiosi è rimasto solo Leoluca Bagarella, Riina e Provenzano sono morti, il “pentito” Brusca assolto e Massimo Ciancimino ha visto prescritto il suo reato. Sono usciti così dal processo i due grandi accusatori. Dei politici è rimasto solo Dell’Utri, entrato in politica nella seconda repubblica e che nulla aveva a che vedere con la genesi di questa inchiesta. Alla sbarra saranno anche il comandante del Ros dei carabinieri Angelo Subranni, il suo vice Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. I tre non hanno mai negato di essere entrati in contatto con don Vito Ciancimino con lo scopo di usarlo come cavallo di Troia all’interno della mafia per arrivare alla cattura di Totò Riina. Non va dimenticato il fatto che all’epoca del maxiprocesso voluto da Falcone tutti i boss dei corleonesi erano latitanti e che la politica dell’infiltrazione era parsa in quel momento l’unica via da percorrere, non solo ai carabinieri ma anche ai magistrati, compreso Giancarlo Caselli quando era arrivato alla procura di Palermo, non essendo ancora iniziata la stagione del “pentitismo” diffuso su larga scala. Ma le buone intenzioni vengono interpretate come apertura di credito nei confronti della mafia. I tre dirigenti del Ros avrebbero svolto il ruolo di staffette tra Cosa Nostra e lo Stato. Così dicono il “pentito” Giovanni Brusca e il teste farlocco Massimo Ciancimino (condannato per calunnia prima della prescrizione), i due accusatori usciti dal processo. Ma anche quelli che sono rimasti, i cospiratori, hanno visto le proprie fila decimate. Sparito Calogero Mannino, assolto nel processo parallelo con il rito abbreviato che ha fatto a pezzi tutta quanta la costruzione dell’ipotesi d’accusa, definita fantasiosa a arbitraria. Insieme all’esponente democristiano sono finite in fumo le fondamenta dell’inchiesta, perché proprio Mannino sarebbe stato il promotore della congiura, quella di aprire un dialogo amichevole con i capi dei corleonesi in cambio di una serie di favori alla mafia secondo le precise richieste fatte avere da Totò Riina con il famoso “papello”. Che però non è mai esistito, e questo è appurato. La presunta prova era un falso, hanno stabilito i giudici. E Mannino non è mai stato promotore di alcuna trattativa con la mafia per salvarsi la pelle. E la vicenda di quei 300 detenuti in regime di 41 bis (di cui solo una quarantina definibili come mafiosi, ma di basso rango) che il ministro Conso, dopo i pareri degli uffici dei giudici di sorveglianza, aveva singolarmente derubricato con l’invio a un regime di detenzione ordinaria, era stata motivata come conseguenza di una decisione della Corte Costituzionale. La quale, secondo un orientamento che verrà mantenuto anche negli anni successivi fino alle sentenze più recenti, aveva imposto trattamenti detentivi individualizzati e non legati solo alla gravità del reato. Sgombrato quindi il campo dalla presenza del capo dei congiurati, e poi anche del vice capo Nicola Mancino, che era stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza e che è stato assolto, la pubblica accusa avrebbe potuto arrendersi. Invece no. La prima mossa è stato il tentativo, veramente maldestro, di mettere in discussione, con ricorsi alla corte costituzionale, alla cassazione e sa dio davanti a quale organo ancora (perché non al Tar?), la legge del 2017 che impedisce l’accanimento nei confronti di imputati assolti in due gradi di giudizio. E poi con il deposito presso il processo d’appello delle famose 78 pagine firmate dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che cercano di demolire le motivazioni di tutti i giudici, a partire dal gip e dal gup fino a quelli dei tribunali, che hanno assolto Calogero Mannino. Ora, va bene che in Italia, unico paese del mondo occidentale, non si riesca ad attuare la separazione delle carriere. Ma non si è mai visto che l’organo dell’accusa impugni il pennarello blu e sottolinei tutti i presunti errori di valutazione di una serie di giudici. E nel mondo delle toghe come in quello della politica nessuno dice niente, se si esclude un’interrogazione parlamentare di Gianfranco Rotondi. Se il malloppo peserà sulle spalle dei giudici dell’appello che tra poco prenderanno la loro decisione, è difficile da valutare. Ma il presidente Angelo Pellino non ha notato l’anomalia che ha il sapore di prevaricazione finalizzata a influenzare la sentenza? Certo, nelle corti d’assise l’incognita sono i giudici popolari, che subiscono il martellamento mediatico di un solo colore, e non è mai quello del dubbio, quello di sentire anche le ragioni della difesa, oltre a quelle dell’accusa, sempre più altisonanti, sempre più gridate. L’incognita c’è ed è in agguato. Le prime sentenze sulla strage di via d’Amelio con le condanne degli innocenti e la gestione del falso pentito Scarantino sono lì a dimostrarlo. Giudici togati, quindi tecnici del diritto, e giudici popolari si abbeverarono fiduciosamente alle parole del pentito farlocco persino quando lui stesso denunciò di aver accusato persone che con l’omicidio Borsellino non avevano nulla a che fare. Non fu creduto. Furono creduti coloro che il finto pentito lo avevano costruito con le torture nel carcere speciale. Alla vigilia della camera di consiglio e della sentenza sul processo “trattativa” non resta quindi che sperare sul fatto che sia il presidente che il giudice laterale con le loro competenze tecniche da un lato e i giudici popolari con la propria integrità di persone per bene dall’altro, abbiano fatto quel che in genere la stampa non fa, e cioè che abbiano saputo ascoltare. E non abbiano staccato l’orecchio, come sempre fanno i giornalisti militanti in procura, dopo la requisitoria del pm. Ma è ben strano, questo processo. Perché la sceneggiatura è in continua evoluzione. Il testo cominciava con i politici terrorizzati dalla mafia, dopo la sentenza del maxiprocesso e l’assassinio di Salvo Lima nel 1992, che decidevano di accordarsi con la mafia perché non uccidesse più. Però il capo di quella congiura, quello che temeva più di tutti, Calogero Mannino, è stato assolto. Non ha trattato con la mafia. Quindi lo scambio di favori con i corleonesi non ci fu. E Allora? Allora l’hanno risolta in un altro modo, nell’evoluzione del copione. Quindi, se non ci fu trattativa politica nel 1992 e 1993, cioè durante gli ultimi governi della prima repubblica, allora forse un pochettino c’è stata nel 1994, quando presidente del consiglio era Silvio Berlusconi. E qui entriamo nella farsa, perché quell’esecutivo di centrodestra i 41 bis li ha addirittura inaspriti e resi definitivi. Ma poteva mancare Marcello Dell’Utri? No, infatti non manca. Sarebbe stato lui, a fare da messaggero tra i corleonesi e il governo. Per far ottenere alla mafia quale vantaggio? Nessuno. Dell’Utri avrebbe minacciato, quale corpo dello Stato, il governo del suo amico Silvio? E quale “regalo” Totò Riina avrebbe fatto a un esecutivo durato solo otto mesi? E i suoi amici che cosa avrebbero portato a casa? Un 41 bis eterno. Bella Trattativa! Ma Dell’Utri è rimasto nel processo, dopo la condanna in primo grado. È scandaloso, è sotto gli occhi di tutti che questa buffonata, si buffonata, di una Trattativa tra il mondo politico impaurito nel 1992 dopo l’omicidio Lima e la mafia, si risolva con il tenere prigioniero uno che all’epoca neppure faceva parte del mondo politico. Eppure come dimenticare l’epico titolo del solito Fatto dopo la sentenza di primo grado, “La trattativa c’è stata e B è il suo profeta”? Sono preoccupati, i travaglini, e oggi scrivono “Stato-mafia, il bis delle condanne è in salita”. Preoccupazione o avvertimento? Certo questa volta il procuratore generale Roberto Scarpinato rischia la reputazione in modo serio. Già deve raccontare al mondo che il grande complotto contro lo Stato è stato organizzato da Bagarella, tre alti carabinieri e l’ex capo di Publitalia. Senza offesa per Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros, come colpo di Stato pare un po’ miserello. E Scarpinato, che ha mandato avanti le 74 pagine dei suoi sostituti con grave sgarbo istituzionale nei confronti dei giudici che hanno assolto Mannino, rischia di fare il terzo flop. E si, perché la procura di Palermo ci aveva già provato nel 1998 con l’inchiesta “Sistemi criminali”, poi archiviata. Poi di nuovo nel 2000 con la storia del “papello” falso con le richieste di Totò Riina, archiviata. Bisognerà aspettare il 2008 con il teste farlocco Massimo Ciancimino per riuscire a incardinare il processo Trattativa. Che ormai non è più trattativa, ma minaccia contro i corpi dello Stato. In sintesi, i tre vertici del Ros che avrebbero trattato con i boss mafiosi per conto del mondo politico guidato da Mannino per far cessare le stragi in cambio di provvedimenti che alleggerissero le condizioni dei detenuti mafiosi, non hanno più un capo. Il capo dei congiurati è stato assolto. E Dell’Utri, non si sa bene perché, avrebbe complottato contro l’amico Silvio. È veramente il processo del secolo. Da Viareggio a Milano: giustizia a binario unico di Marco Caldiroli* Il Manifesto, 21 settembre 2021 Sicurezza sul Lavoro. Le sentenze sui morti per la strage ferroviaria e dell’inquinamento da amianto al teatro La Scala sono unite da una regressione giurisprudenziale: negano responsabilità del datore se emerge una qualunque azione del lavoratore concausale all’infortunio. La sorte ha voluto che le motivazioni delle sentenze per il crimine ferroviario di Viareggio e gli omicidi da amianto alla Scala di Milano venissero depositate a poche settimane l’una dall’altra, confermando una visione sfavorevole alle vittime di parte della Magistratura. A Viareggio le aggravanti per violazione delle norme di sicurezza sono state disconosciute rispetto ai precedenti gradi di giudizio. Ciò ha determinato una revisione della posizione dei responsabili, tra cui l’ex ad Mauro Moretti, con in vista una riduzione di pena e la tagliola della prescrizione. A questo si aggiunge l’odiosa richiesta di restituzione delle statuizioni ad alcune parti civili, tra cui i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. In quel caso, i lavoratori interessati (i macchinisti) hanno evitato la morte durante il deragliamento e l’esplosione del treno applicando il diritto (art. 44 d.lgs. 81/2008) alla fuga dal posto di lavoro. Non vi è stato infortunio né decesso di lavoratori, ma il rischio era palesemente lavorativo: un treno è un’attrezzatura di lavoro, come accertato durante il processo, la manutenzione non era corretta e il contesto (la linea ferroviaria) non aveva pieni requisiti di sicurezza, tutti frutti dello spezzatino causato dalla liberalizzazione del trasporto ferroviario. La questione sui rischi lavorativi ferroviari appariva superata dalla sezione IV della Cassazione (sentenza 48376 del 7.12.2015): “Non si rinviene alcuna norma che escluda l’applicazione del d.lgs. 81/2008 per i lavoratori delle ferrovie o che dichiari la sua incompatibilità con le disposizioni del dpr 753/1990 … è esplicitamente previsto che le sue disposizioni si applicano in tutti i settori di attività privati o pubblici”. La sentenza aggira la questione con un distinguo che ha l’amaro sapore del cavillo: “che sia stata violata una norma prevenzionistica (…) non garantisce che l’evento sia stato commesso proprio con violazione di essa”, esplicitato nell’affermazione “nessun potere spetta al datore di lavoro nei confronti di persone circolanti al di fuori della stazione”. Ma il trasporto di sostanze pericolose può determinare rischi non contenibili nella sede ferroviaria, che allora come oggi erano e sono prevedibili e dunque prevenibili per i lavoratori come per i residenti delle zone attraversate. Alla Scala di Milano, la sentenza sulle patologie e i decessi di lavoratori e lavoratrici esposti per decenni all’amianto degli arredi e delle attrezzature del teatro introduce un’ulteriore beffa per le vittime. Secondo il giudice i datori di lavoro che si sono succeduti si sono resi conto del rischio e hanno preso provvedimenti, ma solo dopo l’entrata in vigore della legge 257 del 1992 che vieta l’utilizzo di amianto. In precedenza, quindi, erano dispensati da qualunque obbligo valutativo, preventivo e protettivo. Ma l’asbestosi è una malattia professionale riconosciuta “in qualunque attività …. che esponga a polveri di amianto” dal Regio Decreto 455 del 1943. Se le prime norme esplicite sono solo del 1991 (d.lgs. 277/91) è altrettanto vero che almeno dagli anni ‘50 (dpr 303/1956) che “nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti a impedirne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambienti di lavoro”, inclusa la misurazione e la sostituzione del materiale. Quindi incolpevoli, ma per ignoranza e tardività o imprecisione (le fibre non sarebbero polveri) del legislatore. Ha pesato anche una tesi discutibile, formulata dai migliori scienziati pagati dalle difese, per cui la cancerogenesi da amianto è dovuta a sinergie che non rendono individuabile una dose killer. Il colpevole va ricondotto alla prima esposizione che è molto remota nel tempo (i periodi di latenza dei mesoteliomi sono di 20/40 anni), come se le esposizioni successive fossero ininfluenti. Ciò che unisce queste sentenze è una regressione giurisprudenziale che tende ad assolvere il datore di lavoro ogni qualvolta la sua azione o mancata azione non sia riconducibile a un “esatto, completo e definito nei dettagli” precetto normativo. Sempre più numerose sono perciò le sentenze che negano responsabilità del datore se emerge una qualunque azione del lavoratore concausale l’infortunio. Una direzione opposta a quella che, per azione dei movimenti (Porto Marghera su tutti), si era spinta verso la tutela della dignità e della sicurezza del lavoratore/lavoratrice in attuazione concreta dei principi, oltre che dei dettati normativi. Ricordiamo l’opera e l’azione del giudice del Lavoro di Milano Romano Canosa. “Mala tempora currunt” per i lavoratori, la causa non è lo sfavore degli dei ma il cumulo di norme che prima e dopo il Jobs act hanno tolto loro dignità riportandoli in una realtà di precarietà e ricatti che rendono difficile organizzare l’autotutela. La debolezza e la minorità dei movimenti per la sicurezza favoriscono queste sentenze. Non solo, tra le pieghe della “riforma della giustizia”, vi è la previsione di limitare fortemente che parti civili - associazioni portatrici di interessi generali - possano costituirsi nei processi coadiuvando le vittime nella ricerca delle responsabilità e nella affermazione dei propri diritti lesi. Oltre al danno, la solitudine di fronte al garbuglio della giustizia. *Presidente Medicina Democratica A Roma la mafia c’era eccome, ma tutti hanno finto di non vederla di Nello Trocchia Il Domani, 21 settembre 2021 Dopo tre decenni di impunità, il tribunale di Roma ha riconosciuto l’associazione mafiosa per gli esponenti di vertice del clan Casamonica. La famiglia è considerata il più potente clan autoctono del Lazio, ma ha goduto di una lunga sottovalutazione. Dopo otto ore di camera di consiglio, i giudici della decima sezione, presidente Antonella Capri, hanno condannato i boss per mafia nel maxi processo contro la famiglia che vedeva 44 imputati alla sbarra. Alla lettura del verdetto erano presenti i vertici del clan, collegati in videoconferenza, mentre altri imputati, come Asia Sara Casamonica, Vito Nicola Zaccaro erano presenti nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. In 14 erano accusati di associazione mafiosa, l’imputazione principale non ha retto per Luciano Casamonica che è stato condannato comunque a dodici anni di reclusione, per Antonietta e Asia Sara Casamonica, condannate rispettivamente a sette e due anni di carcere. Tutti gli altri sono stati considerati partecipi “dell’associazione mafiosa denominata clan Casamonica operante nella zona Appia-Tuscolana della città di Roma (con base operativa in vicolo di Porta Furba)”. Spaccio di droga, estorsioni, usura, questi gli affari illeciti della cosca mafiosa della capitale, che ha trasformato il quadrante est della capitale. Al vertice è stato riconosciuto Giuseppe Casamonica, detto Bitalo, considerato il capo: impartiva ordini agli affiliati, estorceva personalmente i commercianti della zona e continuava a comandare anche dal carcere dove è stato rinchiuso dal 2009 al 2018. È stato condannato a venti anni e sei mesi di carcere. Insieme a lui sono stati condannati anche i fratelli, Salvatore Casamonica a venticinque anni e nove mesi di carcere, Massimiliano Casamonica a diciannove anni e quattro mesi di reclusione. Anche le donne del clan, finite sul banco degli imputati, sono state colpite dal verdetto dei giudici: come Liliana Casamonica, detta Stefania, a diciassette anni e nove mesi. La madrina del clan, nel 1997, andò a parlare davanti al santo padre. “Ora non sono emozionata ma domani chissà... e poi vedere il Papa da vicino”, raccontava prima dell’evento. Quel giorno era il grande “Giubileo-gitano”, papa Wojty?a proclamava beato Ceferino Gimenez Malla, detto “El Pelè”, ucciso dai repubblicani nella guerra civile di Spagna del 1936. Quel giorno Guerino, il padre di Stefania, rassicurava i cronisti: “Una volta sono stato in carcere ma i miei figli filano tutti diritti. Ho dato loro una educazione severa. Fino a ieri, i parroci ci cacciavano”. Educazione criminale: i suoi figli sono stati condannati per mafia, a 24 anni dal quel giorno storico. Liliana Casamonica è la reggente del clan, si occupava della gestione della cassa, dei colloqui con i fratelli detenuti e delle comunicazioni agli affiliati. Sotto processo è finito solo l’arcipelago egemone nel territorio della Tuscolana, il clan si compone di circa mille sodali, in questo processo erano 44 gli imputati. Tra gli imputati c’era anche Cristiano Vitale, un maresciallo della Guardia di finanza, spostato in un reparto non operativo, che è stato condannato a due anni sei mesi per favoreggiamento. Condannato anche Vito Nicola Zaccaro, amico di Guerrino Casamonica, che si occupava di spaccio, a quattro anni e un mese di reclusione. Il processo è stato istruito dalla procura di Roma, pubblici ministeri Giovanni Musarò e Stefano Luciani. Nel processo c’erano venticinque vittime, tra cui il noto conduttore radiofonico Marco Baldini. Vittime di usura ed estorsione, nessuna di queste si è mai sognata di denunciare. L’unica vittima che lo ha fatto non c’era perché è morta nell’aprile dello scorso anno. Si chiamava Ernesto Sanità. Aveva la voce rauca, il corpo sfiancato dalla battaglia che conduceva da oltre un decennio. “I Casamonica, quando sono entrati nella mia vita non ho abbassato la testa perché io non dovevo pagare le colpe di mio figlio”, diceva Sanità. Il clan gli aveva tolto la casa per un presunto debito del figlio, Giovanni, morto anni fa in una misteriosa rissa. Sanità aveva denunciato tutto alla polizia e si era rivolto all’Ater, la società pubblica che gestisce le case popolari, per cacciare i Casamonica dall’abitazione che occupavano abusivamente. È andato perfino a riprenderselo da solo, ma i membri del clan, dopo averlo minacciato di morte, hanno occupato di nuovo l’immobile trasformandolo nella loro tana. Non voleva fare l’eroe, ma solo avere ciò che gli spettava per diritto. È rientrato nella sua casa dopo un decennio e successivamente alla retata delle forze dell’ordine contro i suoi estorsori. Era il 2018, due anni prima di morire. Nella capitale di uno dei paesi del G8, un signore settantenne ha dormito sotto i ponti, abbandonato dallo stato, perché un clan disponeva delle vite delle persone, delle case, del loro presente e del loro futuro. E chi denunciava veniva ignorato. “Voglio morì, non ce la faccio più”, diceva Sanità. Ieri sarebbe stato in aula ad ascoltare il verdetto del tribunale. Non voleva sfidare nessuno. Sanità sapeva di contrastare un clan di mafia, mentre una città intera indifferente si girava dall’altra parte, storcendo il naso quando sentiva la parola mafia. Ora un tribunale di primo grado ha riconosciuto l’associazione mafiosa, una sentenza contro la quale le difese hanno già annunciato che presenteranno ricorso. Nessun omicidio, zero feriti, condanne a 30 anni di carcere di Piero Sansonetti Il Riformista, 21 settembre 2021 Aboliamo i reati associativi? Sebbene non siano accusati di omicidio e neanche di ferimenti o altri reati violenti sono stati condannati per associazione mafiosa e quindi è stato possibile decidere per loro pene pesantissime, fino a 30 anni di carcere. Cosa ha spinto i giudici a decidere che la banda dei Casamonica è mafiosa, sebbene operi in un territorio lontanissimo dai territori tradizionali dove la mafia è nata e vive, e sebbene a carico della banda non sia stata mossa nessuna accusa di omicidio? Perché una banda della malavita viene considerata efferata e mafiosa sebbene non abbia ucciso e non sia legata in nessun modo a Cosa Nostra, o alla camorra o alla ‘ndrangheta? Esiste una differenza tra mafia e malavita? Non è chiaro. È più chiaro invece il motivo per il quale, da diversi anni, una parte della magistratura tende a battere la via della mafia per perseguire ogni tipo di crimine. Il motivo è duplice. Da una parte perché contestare a un imputato l’aggravante mafiosa consente metodi di indagine più efficaci e sbrigativi, ma evidentemente meno garantisti, e questo aiuta il lavoro di perseguimento di un reato. Se per esempio ti accuso di furto - per capirci - non posso intercettare te, né tantomeno i tuoi parenti o amici. Se ti appioppo l’aggravante mafiosa posso, e tutto diventa più facile. Poi c’è il secondo motivo e riguarda le pene, il regime speciale di detenzione, l’abolizione dei benefici penitenziari. Ormai in Italia è così: c’è un regime giuridico e penitenziario per i reati ordinari e un regime del tutto diverso per i reati mafiosi. E di conseguenza c’è la tendenza a chiedere con grande facilità l’aggravante mafiosa, per ragioni tecniche o per ideologia. Il problema è molto complesso. Sia perché è assai discutibile la costituzionalità della doppia giustizia. Come si può conciliare il doppio regime con l’articolo tre della Costituzione che impone l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge? Se la legge è legge deve esserlo per tutti, e per tutti con gli stessi modi, gli stessi tempi, gli stessi benefici e la stessa severità. Ma anche per un’altra ragione. Che senso ha il reato associativo? Far parte di un’associazione è una colpa se questa associazione commette crimini; ma allora non sarebbe giusto che il colpevole fosse punito per i crimini che ha commesso e non per l’essere o no lui un associato? Se sono associato e non faccio niente di male, qual è la colpa? Il reato associativo fu introdotto in Italia (e non esisteva in nessuna altra parte del mondo) un po’ dopo la metà dell’800. Per colpire il fenomeno del brigantaggio, che era contemporaneamente un fenomeno di illegalità ma anche un fenomeno politico. Settori vasti del popolo del Sud resistevano a quella che consideravano una invasione piemontese. Allora scattarono le famose leggi Pica (nome di un feroce deputato abruzzese che le propose e trovò l’appoggio del governo Farini), le quali per stroncare l’appoggio da parte della popolazione di gruppi del brigantaggio, decise che il modo migliore era introdurre un nuovo reato che permettesse una repressione di massa durissima e crudele. Che portò perfino alla messa a ferro e fuoco di interi paesi. Le leggi Pica sospendevano lo Statuto Albertino, il quale, come la nostra Costituzione, prevedeva l’uguaglianza dei diritti giuridici. Possibile che più di 150 anni dopo quelle leggi liberticide, lo Stato italiano debba ancora tenere in vigore quei principi, chiaramente in contraddizione coi principi generali del diritto? Negli ultimi decenni l’idea del reato associativo è stata difesa dai settori conservatori (ampiamente maggioritari) dell’establishment e dell’intellettualità, con la necessità di combattere prima il terrorismo e poi la mafia, che seminavano morti. Discutibile che la lotta a fenomeni criminali possa essere condotta in contrasto col diritto. Comunque oggi la situazione è molto diversa. Non stiamo più combattendo contro bande di omicidi. I delitti mafiosi sono dieci volte meno dei femminicidi. Il femminicidio, almeno su basi statistiche, è un’emergenza molto più grande. E allora non sarebbe utile tornare ai principi costituzionali e abolire le legislazioni di emergenza, specie quelle varate contro i briganti dell’800? Sono i “cattivi perfetti” ma lo Stato di diritto c’è anche e soprattutto per i fratelli Bianchi di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 21 settembre 2021 Ci sono fatti di cronaca che generano passioni brucianti nell’immaginario pubblico, specialmente quando alla sbarra appaiono gli “indifendibili”, i super cattivi, quei ceffi sinistri senza sfumature e qualità che vorremmo tenere lontani dagli occhi. L’omicidio di Willie Duarte, pestato a sangue lo scorso anno nel centro di Colleferro dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, è uno di quei casi. Da una parte un ragazzo coraggioso e altruista che accorre a proteggere un amico in grave difficoltà, dall’altra dei bulli palestrati noti a tutti per la ferocia e la violenza dei loro comportamenti. Razzisti, sessisti, omofobi, tribali, ma anche fatui, superficiali, vanitosi; da mesi i media saccheggiano le pagine social degli imputati e tengono alta l’attenzione attorno alla loro saga familiare che garantisce click e visualizzazioni. C’è il format del “ritratto antropologico”, versione snob della più ruspante lapidazione digitale che di solito l’accompagna. Lo scopo è sempre lo stesso: suscitare l’indignazione collettiva. La pubblicazione delle intercettazioni della madre Simonetta Di Tullio a colloquio con il figlio Gabriele nel parlatoio del carcere non ha alcuna utilità nell’inchiesta giudiziaria sulla morte di Willie Duarte ma alimenta questa saga. Che un detenuto si lamenti in privato con un genitore della sua prigionia è cosa del tutto normale, quasi irrilevante, dare le sue parole in pasto al popolo di internet è un espediente cinico per far lievitare le visualizzazioni e incassare qualche like, contando sui riflessi pavloviani della “gente”. Se poi ci si aggiungono le squallide affermazioni di Simonetta Di Tullio infastidita da tutto questo clamore perché in fondo “mica è morta la regina d’Inghilterra”, il pranzo è servito. “Bestie”, “escrementi”, “letame”, “melma”, “feccia”, “dovete morire”, “ci vuole la tortura”, la giostra è subito partita, proprio come volevano i media, molto abili a monetizzare le pulsioni del popolino indignato. E a farla girare ci si sono messi anche i politici, come per esempio Giorgia Meloni che ieri mattina su Twitter augurava ai due di “marcire in galera”, dimenticando che sono accusati di omicidio preterintenzionale, reato per il quale non è previsto l’ergastolo. Inutile dire che l’account di Meloni è stato subito preso d’assalto da chi le rimprovera quasi di essere “la mandante morale” dei fascistissimi imputati in un grottesco crescendo di insulti. Che Marco e Gabriele Bianchi non fossero i fratelli Karamazov si era capito da tempo, il degrado culturale e umano di quel contesto familiare è chiaro ormai a tutti e presumibilmente al termine del processo verranno condannati. Pensare che lo Stato di diritto non debba essere applicato perché antropologicamente dipinti come dei subumani è invece una bestialità che ci mette allo stesso livello di chi ha ucciso il povero Willie Duarte. Sorvegliare a distanza i lavoratori è reato di Matteo Bonetti Il Domani, 21 settembre 2021 La Cassazione ha chiarito che il controllo a distanza dei lavoratori integra una fattispecie penale prevista nel Job Act. La Suprema Corte ha annullato la sentenza di primo grado che aveva assolto il datore di lavoro chiarendo che il divieto di sorveglianza con impianti audiovisivi, integra una fattispecie penale. Sempre nell’ambito della videosorveglianza, la Cassazione ha chiarito che non è invocabile il diritto alla privacy per ostacolare la raccolta delle prove in ambito penale. E’ sempre punita penalmente l’attività di controllo a distanza dei lavoratori con le telecamere poste all’interno del luogo di lavoro. Il tema del controllo a distanza dei lavoratori è sempre un tema caldo, spesso oggetto di singolari interpretazioni e comunque molto dibattuto all’interno delle aule dei tribunali. In modo particolare, il tanto dibatutto Jobs Act (dlgs n. 151/2015), così come definito da una recente sentenza della Cassazione, non ha eliminato le sanzioni previste dal previgente Statuto dei lavoratori. Secondo la Suprema Corte, che ha riformato una sentenza di primo grado, vi è quindi continuità normativa fra la fattispecie abrogata prevista dagli articoli 4 e 38 della legge n. 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori), ora abrogato, e quanto contenuto nell’art. 171 del Job Act. La Cassazione definisce che la continuità delle norme si pone in relazione poi con il dlgs n.196/03: il “Codice in materia di protezione dei dati personali”, per buona parte novellato. Come definito dalla Cassazione - terza sezione penale- con la sentenza n. 32234/2021, il monitoraggio dei dipendenti da parte del titolare dell’attività per mezzo delle telecamere è un reato, così come chiaramente definito dal Job Act. Il processo e il ricorso in Cassazione - Nel caso oggetto dell’impugnativa alla Suprema Corte, il datore di lavoro aveva introdotto all’interno del proprio esercizio commerciale un sistema di videosorveglianza destinato, probabilmente, alla prevenzione dei furti. Detta attività, oltre a prevenire la sottrazione fraudolenta di merci da parte dei visitatori del punto vendita, andava a “controllare l’attività svolta all’interno dell’esercizio commerciale dagli addetti di vendita” (così come indicato nella sentenza della Cassazione). La questione che ha portato al processo è nata dal verbale redatto dagli Ispettori del lavoro, che avevano rilevato all’interno del locale commerciale la presenza di un sistema di videosorveglianza che non rispettava le prescrizioni per legge previste. In primo grado, il giudice aveva mandato assolto il datore di lavoro dal reato previsto dall’art. 4 della legge n. 300/1970 (dallo Statuto dei Lavoratori, appunto) in quanto, così ha stabilito dal Tribunale, “avendo ritenuto che per effetto della entrata in vigore del dlgs. N. 196 del 2003 la condotta contestata non fosse più prevista dalla legge come reato”. Contro la sentenza di primo grado, il Procuratore Generale presso la Corte di appello ha interposto ricorso per Cassazione, osservando che la condotta penalmente rilevante determinata dal datore di lavoro non è stata abrogata. La decisione della Suprema Corte - La Sezione terza penale della Cassazione nella sentenza n. 32234/2021, depositata in cancelleria lo scorso 26 agosto, ha determinato il ricorso come fondato e ha lo ha accolto. La Suprema Corte ha osservato che “anche a seguito dell’avvenuta abrogazione degli art. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970, costituisce reato l’uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, in quanto sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie e quella attualmente prevista dall’art. 171 in relazione all’art. 114 del dlgs n. 196 del 2003, come rimodulata dall’art. 23 del dlgs n. 151 del 2015, avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria”. Secondo la Cassazione, quindi, il Job act (dlgs n. 151/15) ha mantenuto vivo il regime sanzionatorio per questa fattispecie previsto dallo Statuto dei Lavoratori che prevede: “é punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della legge n. 300 del 1970. Trattasi della pena dell’ammenda da lire 100.000 a lire un milione o con l’arresto da 15 giorni a un anno, con applicazione congiunta nei casi più gravi”. Gli ermellini della terza sezione, hanno così annullato la sentenza di primo grado che mandava assolto il datore di lavoro disponendo il riesame da parte del tribunale adito della posizione relativa all’utilizzo della videosorveglianza sui luoghi di lavoro. Lombardia. Alessandra, Annalisa e Francesca “angeli” dei detenuti di Francesco Gastaldi Corriere della Sera, 21 settembre 2021 “Noi in chat per ascoltare le loro storie”. Colloqui in presenza in epoca pre-Covid, un’inedita chat sulla piattaforma Teams dal 20 febbraio. “Sono sempre gentili e comunicativi con noi, vengono al colloquio come a una seduta con lo psicologo”. Sono gli “angeli” a cui rivolgersi quando le mura della cella sono troppo strette. La figura di punta è il Garante - da luglio Gianalberico De Vecchi - ma a tenere i rapporti (quasi) quotidiani con chi sconta la pena sono le tre donne. Colloqui in presenza in epoca pre-Covid, un’inedita chat sulla piattaforma Teams dal 20 febbraio 2020. Ai piani alti del Pirellone le tre funzionarie hanno ideato la chat permanente con i carcerati. I colloqui, di un’ora l’uno, si svolgono nell’ufficio del garante tramite pc; dall’altra parte i detenuti parlano con gli stessi tablet messi a disposizione per gli incontri con avvocati e parenti. Finché l’emergenza Covid non sarà conclusa, si andrà avanti con gli incontri da remoto. “Le rivolte di marzo 2020 (proteste in 27 carceri per le norme anti-Covid con morti e feriti, ndr) ci hanno detto che bisognava inventarsi qualcosa in una fase in cui la fiducia della popolazione carceraria era scesa ai minimi, tra le limitazioni imposte dalla pandemia a visite di parenti e avvocati e la paura del contagio”. Alessandra Negriolli, 59 anni, in Regione dal 2000 e alle Authority regionali come dirigente dal 2019, è l’ideatrice della chat. Con lei Annalisa Cavallo, 56 anni, studi in criminologia, veterana del Garante fin dalla sua istituzione nel 2005. E Francesca Sulis, 31enne avvocato. Al primo giorno di lavoro, Sulis ha ricevuto il battesimo del fuoco: “Mi hanno chiamato a San Vittore, un uomo si era arrampicato sul tetto, protestava perché non riceveva abbastanza farmaci”. È riuscita a calmarlo: “Era in astinenza, sono entrata a San Vittore terrorizzata ma durante il colloquio sono riuscita a farlo aprire, a fargli raccontare il suo caso, ascoltandolo e consigliandolo”. In epoca di pandemia rimane l’unico caso in presenza. Per il resto, solo colloqui da remoto: 84 nel 2020 e altri 81 quest’anno. La maggior parte con detenuti di Monza e Como, ma anche Pavia, Cremona, Bollate, Lodi, Vigevano. “Le richieste - racconta Annalisa Cavallo - riguardano il rapporto con l’amministrazione e l’assistenza sanitaria, ma anche il reinserimento lavorativo e su come intensificare gli incontri con i famigliari”. Non mancano i casi curiosi: “Una volta a Como si sono lamentati del razionamento dello zucchero, ridotto a un chilo a testa, imposto dalla direzione. Si è scoperto che in realtà i ristretti usavano lo zucchero per produrre alcol in proprio con possibili danni sanitari non indifferenti per chi assume psicofarmaci”. Le tre funzionarie giudicano l’esperienza delle chat molto positiva e assicurano che, come donne, mai nessuno degli assistiti ha mancato loro di rispetto: “Sono sempre gentili e comunicativi con noi, vengono al colloquio come a una seduta con lo psicologo. Cercano solo qualcuno a cui raccontare la propria storia”. Frosinone. Sparatoria in cella: né dispositivi anti-droni, né decreto carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 settembre 2021 Prende piede l’ipotesi che Alessio Peluso, detenuto 28enne nel carcere di Frosinone, possa aver avuto la pistola grazie a un drone. La sua azione, che non si verifica fin dagli anni 80, è scaturita come rappresaglia nei confronti di altri reclusi che tre giorni prima lo avevano picchiato e continuato a deridere. Un folle gesto vendicativo che poteva avere esiti drammatici. Fortunatamente i colpi di pistola non hanno raggiunto nessuno, poi il detenuto - ricordiamo in regime di alta sicurezza - avrebbe chiamato, tramite un cellulare, l’avvocato Domenico Dello Iacono che lo ha convinto a consegnare la pistola al personale di Polizia penitenziaria prontamente accorso. Domenica pomeriggio verso le 16, circa mezz’ora prima del momento in cui il detenuto ha esploso ben sei colpi calibro 7,65 all’indirizzo di altri ristretti, come evidenzia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa Polizia Penitenziaria, si sarebbe sentito chiaramente il rumore di un drone nel perimetro del carcere. Pare, inoltre, che la rete di protezione della finestra della cella dell’attentatore sia stata divelta in un angolo, giusto quanto basta per l’introduzione di una pistola. L’utilizzo dei droni non è però una novità. Lo stesso segretario della Uil-pa segnala che il via vai di tali strumenti è frequentissimo in molti istituti penitenziari, ivi compreso quello di Frosinone. Eppure, basterebbe poco per rendere vano questo stratagemma. Si può utilizzare un dispositivo per individuare i droni e inibirne le frequenze su cui avviene il pilotaggio da remoto. “Le strumentazioni esistono, sono poco costose, portatili e di semplice e immediato posizionamento. Perché, allora, non acquistarne un certo numero e dislocarle presso quelli che possono essere gli obiettivi più sensibili, magari anche spostandole segretamente da una parte all’altra in forma deterrente?”, osserva sempre De Fazio. Da una parte quindi c’è il problema specifico, risolvibile, relativo alla sicurezza, dall’altra c’è il degrado all’interno degli istituti penitenziari. Il Dubbio ha segnalato il problema generale, evidenziando la necessità di un decreto carcere varato dalla guardasigilli, una “terapia d’urto” sull’esecuzione penale in grave affanno. Tensioni che riguardano i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari che sono sul piede di guerra. Questo episodio rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso. Un episodio che però va contestualizzato per comprendere il fattore che l’ha scatenato. Non c’entra ovviamente nulla la sorveglianza dinamica, anche perché l’episodio è avvenuto a celle chiuse, ma il sistema stesso. Sempre il segretario della Uilpa parla senza mezzi termini di sistema carcerario fallimentare, di cui anche lo stesso autore del folle reato è vittima. I tre detenuti, nonostante l’aggressione precedente, erano rimasti lì, a pochi metri di distanza dall’autore del gesto. Ma per sistema, si intende anche l’ambiente in cui vivono i ristretti e gli agenti. L’associazione Antigone chiede nuove regole e un innalzamento degli standard della detenzione, riempiendo le giornate dei reclusi di attività educative, lavorative, culturali, sportive, affettive. Ha anche ricordato le problematiche riscontrare nel carcere di Frosinone stesso durante l’ultima vista effettuata a dicembre scorso. Antigone ha rilevato che il carcere presenta problemi strutturali evidenti - diverse sezioni appaiono fatiscenti, il reparto di isolamento versa in uno stato di severo abbandono e ci sono problemi tanto di infiltrazioni d’acqua quanto di razionalizzazione idrica - che rendono particolarmente disagevole la vita delle persone detenute e il lavoro del personale. Sottolinea che le attività disponibili sono pochissime, le relazioni con il territorio scarse e anche la formazione scolastica e professionale è ridotta al minimo, se non del tutto assente. Le poche attività lavorative interne, quali la falegnameria e la serra, sono sospese da anni. Il vecchio complesso dell’edificio presenta un annoso problema all’impianto idraulico che comporta sia frequenti infiltrazioni di acqua in diversi ambienti fino all’allagamento vero e proprio di alcune sale, sia un rifornimento idrico garantito solo in alcune fasce orarie. Inoltre, i termosifoni risultano inadeguati per l’ampiezza degli spazi da riscaldare, gli infissi sono montati malamente in diverse celle e alcune delle finestre non dispongono di vetri, con la conseguenza che all’umidità si aggiungono spifferi gelati. Antigone ha fotografato una realtà impetuosa del carcere di Frosinone che rende complicata la funzione della pena dettata dalla costituzione. E rende complicato anche il lavoro degli agenti penitenziari. Nel 2019 l’Interpol chiedeva al Dap di prendere contromisure per evitare l’utilizzo dei droni Da qualche anno si è intensificato l’utilizzo dei droni nelle carceri. Sia per introdurre droga che cellulari. Ora scopriamo che è possibile introdurre anche le pistole. Nel gennaio del 2019, La stessa Interpol (International Criminal Police Organization) ha pubblicato una nota diretta al Dap affinché si prendessero contromisure all’utilizzo sempre più frequente dei droni nei penitenziari. Lo ha spiegato molto bene Giovanni Battista De Blasis, l’editorialista della rivista on line del Sappe, poliziapenitenziaria.it. Vengono comunemente chiamati droni, ma questi oggetti volanti tecnicamente sono definiti Sistemi Aerei a Pilotaggio Remoto e, per il Codice della navigazione, sono aeromobili con tanto di comandante responsabile ai comandi. La definizione di aeromobile evidenzia che, indipendentemente dalla posizione del pilota, le operazioni devono rispettare le regole e le procedure degli aerei con pilota ed equipaggio a bordo. Come ha spiegato De Blasis in un suo articolo nella rivista on line del Sappe, l’utilizzo dei droni è ormai consolidato per usi militari ed è crescente per applicazioni civili, ad esempio in operazioni di prevenzione e intervento in emergenza incendi, per usi di sicurezza non militari, per sorveglianza di oleodotti, con finalità di telerilevamento e ricerca e, più in generale, in tutti i casi in cui tali sistemi possano consentire l’esecuzione di missioni ddd, “noiose, sporche e pericolose” (dull, dirty and dangerous), quasi sempre con costi economici ed etici inferiori rispetto ai mezzi aerei tradizionali. Ma, appunto, possono essere usati anche per scopi illegali. In realtà lo strumento per neutralizzarli c’è. Il Triveneto ha recentemente sperimentato presso il carcere di Rovigo un sistema per il “rilevamento e l’inibizione di aeromobili a pilotaggio remoto”. Lo fa, appunto, per rilevare e intercettare droni in grado di effettuare ‘consegne illegali’ ai detenuti. Ma è finito lì, senza alcun seguito. Il Dubbio ha potuto verificare che in realtà i sistemi anti drone possono essere anche economici. Principalmente ci sono i sistemi che utilizzano la semplice radiofrequenza, di fatto emettono onde radio molto potenti che inibiscono o meglio rendono “sordo” il drone nel ricevere i comandi impartiti dal controller. Il nome di questi dispositivi in gergo è Jammer e ce ne sono di diverse misure, anche portatili, con diverse potenze e abbinati o meno a una serie di antenne esterne per aumentarne la portata e l’efficacia. Ma il costo si abbassa notevolmente se si cercano altri tipi di sistemi che lavorano a livello informatico, sniffando indirizzi Mac address ed eseguendo una serie di procedure atte a saturare non la banda radio, ma il protocollo stesso. Tolmezzo (Ud). Detenuto morì per Covid, i familiari pronti alla denuncia di Daniele De Salvo Il Giorno, 21 settembre 2021 Doveva scontare una sentenza a 15 anni e 6 mesi di carcere, invece è stato condannato a morte per Covid-19: una barbarie non prevista da alcun verdetto e vietata da qualsiasi legislazione in un Paese civile e democratico. Per questo sono pronti a sporgere denuncia i familiari di Mario Trovato, morto a causa di un’infezione letale da Coronavirus lo scorso dicembre all’età di 71 anni nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Trieste, dove era stato trasferito per un tracollo delle sue condizioni di salute dal carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine, dove stava saldando il suo ennesimo debito con la giustizia di tre lustri di prigione per delitti di associazione e stampo mafiosi, dopo essere stato arrestato nell’aprile 2014 nella maxi inchiesta Metastasi “sulle zone grigie” di contatto con politici e locali. Era il fratello minore di 2 anni del boss della ‘ndrangheta Franco Coco Trovato, il capo dei capi della ‘ndrangheta lombarda, prima che nel 1992 venisse catturato nella sua fortezza di Wall Street e rinchiuso al 41 bis per scontare quattro ergastoli. Anche lui era finito nella retata di Wall Street e negli atti di inchiesta delle principali successive indagini antimafia che in qualche modo lo hanno sempre coinvolto. Per investigatori, inquirenti e giudici oltre che il suo “fratellino” sarebbe stato anche il suo legittimo erede e il reggente della mala organizzata lecchese. “I suoi familiari stanno presentando una denuncia”, conferma l’avvocato Marcello Perillo. Non hanno fretta, il tempo è dalla loro parte: “Per l’omicidio colposo non ci sono termini di prescrizione”, spiega sempre il legale, lasciando intendere, in attesa di depositare l’esposto, il possibile reato che intende contestare, cioè l’omicidio colposo, perché chi di dovere sarebbe stato negligente e o non avrebbe rispettato le norme e i regolamenti per scongiurare un simile epilogo, che invece - a loro dire - si sarebbe potuto evitare. Oltre al successore del padrino, l’anno scorso, durante la seconda ondata della pandemia, si sono contati circa 150 contagiati tra i detenuti del penitenziario di Tolmezzo e con loro anche una trentina di agenti della Penitenziaria, oltre ad un altro centinaio di reclusi e guardie al carcere Al Coroneo di Trieste. Contestualmente alla denuncia per omicidio colposo si presume verrà avanzata anche una richiesta di risarcimento danni. Genova. Radicali in carcere per la raccolta firme sui referendum giustizia e eutanasia legale lavocedigenova.it, 21 settembre 2021 Saranno presenti Jennifer Tocci della Cellula Coscioni, gli avvocati Giulia Polese e Valentina Vivi in rappresentanza della Camera Penale della Liguria e l’animalista Stefania Brunettini. “Oggi pomeriggio una delegazione del Partito Radicale e della Cellula Coscioni di Genova si recherà presso la Casa Circondariale di marassi a raccogliere le firme sui 6 referendum per la giustizia giusta e su quello per la legalizzazione dell’eutanasia”. Lo scrivono i responsabili del Partito Radicale di Genova Stefano Petrella e Deborah Cianfanelli. “Saranno presenti con noi Jennifer Tocci della Cellula Coscioni, gli avvocati Giulia Polese e Valentina Vivi in rappresentanza della Camera Penale della Liguria e l’animalista Stefania Brunettini. L’iniziativa si tiene in tutta Italia e si propone di garantire l’esercizio di un diritto di legge e costituzionale ai cittadini detenuti. L’abbiamo estesa anche al referendum per l’abolizione della Caccia per permettere ai detenuti di avere una occasione di sottoscriverlo. Siamo stati a Marassi in occasione del ferragosto in carcere e ne abbiamo ancora una volta verificato le problematiche condizioni con un carico di oltre 670 detenuti su 450 posti regolamentari, numerose e non ingiustificate proteste dei detenuti e una gestione provvisoria che si protrae ormai da oltre 9 mesi: ci auguriamo possa avere presto un nuovo Direttore di ruolo di cui ha bisogno e vedere rafforzata (e non ostacolata) l’attività trattamentale e lavorativa su cui è necessario investire, come lo sarebbe in altri istituti della nostra regione (Sanremo e Pontedecimo per esempio) che ne sono particolarmente carenti. Anche per questi motivi la Liguria non può attendere oltre la nomina da parte del Consiglio Regionale del Garante Regionale dei Detenuti. I Referendum sulla Giustizia sono già stati richiesti al Governo da 7 Consigli Regionali (inclusa la Liguria), quello sull’eutanasia è stato sottoscritto da oltre 900.000 cittadini e potrebbe esserne presto discussa l’adesione alla richiesta da parte del Consiglio Regionale; la raccolta firme sui primi proseguirà fino a metà ottobre”. Trani. L’appello del vescovo per una giustizia riparativa: “Anche i detenuti hanno una dignità” di Carla Anna Penza Giornale di Trani, 21 settembre 2021 Ieri, nella giornata conclusiva dei Dialoghi di Trani, sono intervenuti Mons. Leonardo D’Ascenzo, Vescovo dell’Arcidiocesi Barletta-Andria-Trani, il professore di Criminologia Adolfo Ceretti e il giornalista Domenico Castellaneta. In questo incontro è affiorata una riflessione sulla pena detentiva che trova una chiara spiegazione con il pensiero del Cardinale Martini, per il quale il crimine indebolisce e deturpa la personalità dell’individuo ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale. Il professor Ceretti ritiene perciò che “le leggi dovrebbero operare in funzione dell’affermazione dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona e la pena dovrà pertanto essere concepita come un graduale cammino individuale del reo verso il recupero dei valori e della dimensione etica del suo io. Questo perché - continua Ceretti - nella persona c’è sempre qualcosa di buono e quindi le istituzioni devono favorire l’inclusione ed adottare una giustizia riparativa piuttosto che punitiva, una giustizia “dell’incontro”, efficace mezzo per rimarginare le ferite delle vittime”. Per Ceretti è importante il riconoscimento della colpa e quindi l’incontro consensuale tra il reo e la vittima porterebbe ad alleviare il dolore esistenziale di entrambi. “La vittima - spiega -, spesso presa da un istintivo moto di vendetta, riuscirebbe con questo incontro ad elaborare il dolore che è un fotogramma della vita congelato nella memoria di chi ha subito un danno. È giusto il carcere, ma la repressione di un male attraverso la detenzione risulta efficace solo per un primo momento, perché incapsulare il male e neutralizzarlo dietro le sbarre per salvaguardare la società non porta a nessuna soluzione del problema. È necessario relazionarsi con il reo e fare un lavoro ricompositivo e riconciliativo in uno spazio non giudicante, affinché esca dal suo silenzio e prenda consapevolezza dell’azione compiuta”. Mons. D’Ascenzo intende la giustizia riparativa come “ricomposizione della dignità umana: l’uomo può commettere azioni sbagliate, ma la sua dignità non può mai essere sminuita ed oscurata con azioni repressive. “Inoltre - afferma Mons. D’Ascenzo - non si deve dimenticare che un atto criminoso è causa di sofferenza non solo per la vittima, ma il dolore riguarda persone vicine al colpevole che soffrono in silenzio, come per esempio i figli dei criminali emarginati e stigmatizzati dalla società in quanto tali. Questo percorso di recupero dei valori riguarda un po’ tutti: tutti meritano la possibilità di riscattarsi e riabilitarsi ad uno stile di vita migliore del precedente”. Mons. D’Ascenzo ha ricordato che “Adamo ed Eva, dopo aver peccato, si nascosero per paura del giudizio di Dio, ma Dio subito attuò un processo riparativo nei loro confronti, portandoli alla consapevolezza dell’azione peccaminosa e dando loro, attraverso le dure prove della vita quotidiana, una nuova possibilità. Dio ha messo Adamo ed Eva di fronte alla fatica ed alla sofferenza della vita non per punirli, quanto piuttosto per fare comprendere la fragilità dell’essere uomo e il bisogno incessante di ogni creatura di relazionarsi e vivere in comunione con gli altri”. Larino (Cb). Il teatro torna in carcere e diventa uno spot turistico primonumero.it, 21 settembre 2021 A metà dicembre uno spettacolo innovativo che sarà una sorta di itinerario turistico da vivere in presenza e con strumenti digitali grazie al lavoro di Frentania Teatri coi detenuti dell’alta sicurezza. Torna il teatro in carcere a Larino e lo fa con uno sguardo al Molise e alla riscoperta della nostra storia. “Dopo la pausa forzata dovuta alle restrizioni anti covid19, finalmente quest’anno è possibile riprendere il lavoro bruscamente interrotto a fine 2019, con i detenuti a regime di alta sicurezza della Casa Circondariale di Larino impegnati nel laboratorio teatrale dal 2017” fa sapere il direttore artistico di Frentania Teatri, Giandomenico Sale. Frentania Teatri APS, in collaborazione con la Casa Circondariale di Larino e l’Ipseoa “Federico di Svevia” di Termoli, grazie al contributo della Regione Molise, nell’ambito di Turismo è Cultura 2021, e del fondo Otto per mille della Chiesa Valdese, dà il via ad un progetto innovativo di teatro in carcere finalizzato al turismo regionale. Un progetto che nasce da un’idea del direttore del laboratorio teatrale, il regista Giandomenico Sale, e che vuole rendere partecipi i detenuti della riscoperta del territorio molisano, attraverso il testo “Viaggio nel Molise” di Francesco Jovine. “Il teatro in carcere, da una visione superficiale, può apparire poco consono come strumento di promozione del territorio molisano. In realtà ‘Teatro in Carcere - Viaggio nel Molise’ ha valenza turistica, culturale e sociale: è un supporto a quanti vogliono conoscere il Molise e le sue tradizioni ed è terapeutica per i detenuti, che prendono parte al progetto. Il laboratorio parte dallo studio del testo di Francesco Jovine ‘Viaggio nel Molise’. I detenuti che prenderanno parte alla fase preparatoria del progetto, saranno formati per presentare al pubblico una ‘cartolina’ di quelle che sono le tradizioni, i rituali e le bellezze molisane da scoprire, riscoprire o approfondire”. Chiaramente nei prossimi mesi ci sarà la possibilità di ammirare - in un formato particolare - i detenuti nella performance teatrale che prepareranno. “Dopo il periodo laboratoriale di preparazione dei detenuti, le porte del carcere di Larino saranno aperte al pubblico che, raggiungendo la casa circondariale, prenderà parte a questo esperimento, dove i detenuti/attori, in veste di ciceroni, proporranno un percorso turistico tratto dal testo di Jovine. Verranno presentate le località di questo percorso turistico virtuale, attraverso l’interpretazione di brani di Viaggio nel Molise, permettendo di conoscerne il paesaggio, le sue tradizioni arcaiche, i suoi prodotti tipici, gli antichi rituali contadini”. La doppia valenza turistica del progetto viene data dalla pubblicazione, che richiama la performance svolta in carcere, di un opuscolo da distribuire in tutta la regione, dove verrà presentato il progetto, sarà illustrato l’itinerario da svolgere, con informazioni e curiosità delle varie località molisane toccate. Il tutto sarà arricchito da foto di scena dello spettacolo precedentemente tenutosi nella Casa Circondariale. Per ogni località il turista, attraverso un QR code da scansionare con il cellulare, il turista potrà ascoltare la presentazione delle località interpretata del detenuto/narratore. Con questa nuova edizione del laboratorio teatrale in carcere si vuole superare il limite delle sbarre, portando il lavoro dei detenuti a tutti i turisti e i cittadini molisani grazie all’uso del cellulare e di un opuscolo. L’opuscolo, frutto di questo progetto, sarà un dono alla collettività che potrà essere utilizzato anche nei prossimi anni, creando un primo input per far conoscere ai turisti che raggiungeranno il territorio molisano, oltre all’itinerario che fu di Jovine, anche l’autore stesso”. Si tratta quindi di una modalità innovativa, capace di superare gli attuali limiti. “Teatro in carcere - Viaggio nel Molise” è cultura e apertura mentale. Fare Teatro all’interno di un istituto di pena permette al detenuto di sfogare le proprie frustrazioni e conoscere le proprie potenzialità, permettergli di conoscere il territorio che indirettamente lo ospita. Una persona aperta agli altri è pronta a sopportare il confronto con la società, grazie al lavoro su se stesso del laboratorio, alla fine della pena l’obiettivo è di rendere gli ex detenuti cittadini pronti al reinserimento sociale. Il contesto di riferimento del progetto è quello della Casa Circondariale di Larino e, nello specifico, il lavoro volge al recupero e coinvolgimento di detenuti a regime di Alta Sicurezza. Un lavoro necessario per cercare di tirar fuori dall’isolamento mentale questi ragazzi che tendono a chiudersi in loro stessi e reprimere i propri sentimenti. Problema accentuato in questo periodo in cui, a causa delle restrizioni dovuti al covid 19, i detenuti hanno visto meno tutta una serie di attività che prima si svolgevano regolarmente. Avvicinarsi al teatro è risultata una terapia vincente in questi anni e permettere di far conoscere, attraverso il turismo, l’impegno per il reinserimento in società dei detenuti. Dal 2017 Frentania Teatri APS, attraverso l’operato del suo presidente, Giandomenico Sale, svolge un lavoro educativo con i detenuti a regime di Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Larino. I risultati raggiunti in questi anni sono stati entusiasmanti sia per il coinvolgimento dei detenuti sia per la risposta del pubblico esterno agli eventi conclusivi del laboratorio teatrale. Il progetto della durata di 3 mesi è partito a metà settembre 2021 e terminerà intorno alla metà di dicembre 2021 con la performance Viaggio nel Molise”. Carinola (Ce). Uno spettacolo di musica neomelodica per i detenuti casertanews.it, 21 settembre 2021 L’evento organizzato presso il teatro del carcere di Carinola. Anche quest’anno l’associazione culturale “Chiocciola TV”, da sempre vicina al mondo dei detenuti e delle loro problematiche, intende donare uno spettacolo di musica neomelodica a favore delle persone recluse a Carinola. Questa mattina, alle ore 10, ci sarà uno spettacolo musicale con cantanti professionisti del mondo neomelodico napoletano che avrà luogo presso il teatro dell’istituto di Carinola. All’evento parteciperanno circa 50 detenuti, stante le attuali disposizioni in materia di contenimento e prevenzione della diffusione del Covid-19. ln totale sicurezza, e con un po’ di leggerezza, i detenuti potranno godere della loro musica preferita, interpretata da giovani artisti e nomi oramai consolidati della tradizione neomelodica partenopea. Si prospetta una mattinata all’insegna della bella musica per i detenuti di Carinola, un bel regalo che permetterà una lecita evasione. I messaggi vocali di Noemi, la ragazza morta per overdose, svelano la città degli invisibili di Salvo Palazzolo La Repubblica, 21 settembre 2021 Un libro ripercorre la drammatica vicenda della giovane palermitana. “Dormo in mezzo alla strada, oggi è stata una giornata piena di pioggia”. Il 5 dicembre 2020 a Palermo viene rinvenuto il cadavere di Noemi, una giovane donna di circa 30 anni. Sembra una delle tante morti per droga, ma non lo è. L’inchiesta porterà alla luce una vita rifiutata, di amore e rabbia. Di solitudine e dolore. Una vicenda consumatasi per anni nella Palermo sconosciuta degli invisibili, in pieno centro storico, sotto gli occhi di tutti. È la storia drammatica di una donna che vi sorprenderà, che vi colpirà e che lascerà il segno nei vostri cuori. S’intitola “Noemi Crack Bang” (La banalità del male), il libro scritto da Victor Matteucci e Gilda Sciortino ed edito da Mediter Italia, prefazione di Leoluca Orlando, che racconta la storia vera di Noemi Ocello, morta a 32 anni presumibilmente per overdose. Un libro inchiesta di 392 pagine, contenente una ricca e inedita documentazione cartacea e audio, supportata da una serie di testimonianze inedite e a un’incredibile mole di documenti originali che la stessa Noemi ha lasciato nelle sue comunicazioni telefoniche della durata di ore. “Nino Ciao, da ieri dormo in mezzo alla strada perché quella amica mia, diciamo amica, non è più venuta a prendermi”, dice in un messaggio vocale. “Sto girando tutti i posti del mondo - sussurra in un altro - Dallo Sperone a via Messina Marine. Dalla stazione a Ballarò”. È il mondo di Noemi Ocello, morta di overdose a 32 anni, il 7 dicembre dell’anno scorso. In tanti la conoscevano a Palermo, chiedeva l’elemosina nelle vie del centro. “Non ho raccolto neanche un euro oggi”, diceva in un altro vocale. E poi, ancora: “Ieri, è stata una giornata piena di pioggia e in mezzo alla strada. Oggi, in mezzo alla strada senza pioggia. Almeno spero… senza ombrello, senza niente”. La voce trema, s’interrompe, è soffocata dai clacson e dal traffico. “Ho fatto una colletta per l’ombrello, ma poi l’ho scordato, prima della grande pioggia” . Il 3 settembre 2019, alle 10.41 dice: “Sono sempre in bilico… a piazza Bellini, buttata per terra, che aspetto le sette di sera”. Dal telefonino di Nino Rocca, l’instancabile volontario che aveva provato ad aiutarla, emergono i messaggi di una giovane che si era persa nelle strade di Palermo. “La drammatica realtà è che nessuna istituzione è riuscita ad aiutarla”, accusa Gilda Sciortino, giornalista impegnata nel sociale, che a Noemi Ocello ha dedicato un bel libro, scritto insieme a Victor Matteucci, si intitola “Noemi crack bang. La banalità del male” (Edizioni Mediter Italia). I messaggi vocali di Noemi sono il drammatico diario della città degli invisibili. 5 febbraio 2019: “Ho la febbre e ho molto freddo, c’è stata la bufera e me la sono presa tutta, sono tutta bagnata”.È il 6 febbraio: “Volete capire che sono una madre con un figlio? Lui chiede di me, vuole la mamma, dice: “Vieni stasera?”. E piange” . Il figlio è stato affidato alla madre di Noemi. “Va bene, ora mi rimettete nel centro di accoglienza. E cosa succede? Lo riavrò adesso mio figlio?”. Noemi è seguita dal Sert, dai servizi sociali. “Ma nessuno ha una visione di insieme” , dice Gilda Sciortino. E Noemi è sempre più sola nelle strade di Palermo, che immortala nei suoi scatti. E poi posta le foto su Facebook. Si vedono i vicoli della Vucciria che attraversa, le luci della notte, le persone di spalle in via Maqueda. Dodici febbraio: “La voce va meglio, ma ho la tosse - dice ancora a Nino Rocca - sono rimasta due giorni senza dire una parola. Non demordo. Oggi ho disegnato” . Tredici febbraio, è ospite in un centro di accoglienza: “Non ho nemmeno fatto colazione, perché non c’era nulla. Ho chiesto mille volte se possono aiutarmi a prendermi gli assorbenti, ma nemmeno quello è possibile. Cavolo, ho delle esigenze. Non credo di essere un cane randagio e i signori vengono pagati dal Comune”. Torna in strada. La notte del 17 febbraio, dorme in un vicolo di Ballarò, vicino piazza Brunaccini. Due giovani la immobilizzano, la violentano. La sera dopo, risponde a Nino Rocca, che l’ha cercata per tutto il giorno: “Sto molto male - dice il messaggio vocale - per fortuna mi hanno ospitata, ma non tornerò al dormitorio”. Siamo al 21 marzo: “Sono appena uscita dalla Posta, ho concluso la domanda del reddito di cittadinanza… ma intanto ho perso 10 chili in un mese” . Noemi non riesce a uscire del tutto dal giro della droga. Negli ultimi mesi va ad abitare in un vecchio pub abbandonato in Discesa delle Capre, una traversa di via dei Candelai. Ha conosciuto Mario, un ragazzo della Costa d’Avorio, un tempo faceva l’animatore nei locali della movida, poi anche lui è caduto nella spirale della droga. E trascina nuovamente Noemi nel baratro, vanno a stare in una fabbrica abbandonata dello Sperone. “Puzza in modo incredibile - dice lei - quando l’abbraccio poi puzzo pure io… non posso continuare così… lui non può stare senza di me, sono il suo aiuto. Ma io non mi posso sdirrubbare così”. Noemi continua a fare colloqui con gli psicologi e gli assistenti sociali. Nino Rocca continua invece instancabile il suo lavoro di collegamento fra tutte le istituzioni che dovrebbero intervenire. Ma Noemi resta in strada. Un giorno si sfoga: “La legge deve vedere quello che faccio per cambiare, la legge lo vede che sono sola come un cane?”. Qualche giorno prima dell’overdose, manda un messaggio ad alcuni amici: “A tutti voi un in bocca al lupo con il leit motiv della mia canzone preferita: “21 grammi”. Fa così: “ Il destino corre troppo e non ha orecchie per sentire. A volte senti il peso, è una domanda che ti opprime. Quindi vivi cercando il tuo posto per un lieto fine”. Io no, non sono pronta a rassegnarmi”. Se il Parlamento è il primo nemico di se stesso di Francesco Pallante Il Manifesto, 21 settembre 2021 Democrazia “diretta”. Beninteso, il Parlamento è in molti casi responsabile per la propria incapacità d’azione, come nel caso dell’eutanasia, che non è stato capace di disciplinare, nel termine di un anno assegnatogli dalla Corte costituzionale, con una legge compatibile con la Costituzione. La soluzione, tuttavia, è rafforzare, non indebolire il Parlamento. Il primo nemico del Parlamento? Il Parlamento stesso, verrebbe da rispondere alla luce della riforma che ha travolto la normativa di attuazione degli istituti di democrazia diretta con la previsione della raccolta telematica delle firme. È bastato un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge su semplificazioni e Pnrr (d.l. n. 77/2021, convertito nella legge n. 108/2021) per cambiare tutto. Se fino a ieri le 500mila firme necessarie a proporre un referendum abrogativo (art. 75 Cost.) o costituzionale (art. 138 Cost.) e le 50mila firme con cui sostenere una legge d’iniziativa popolare (art. 71 Cost.) andavano raccolte fisicamente, con i banchetti distribuiti sul territorio e i militanti per le strade, discutendo con gli elettori per convincerli a fermarsi e ad apporre la loro sottoscrizione, oggi tutto ciò è un ricordo. Grazie alla nuova normativa è, infatti, oramai sufficiente attivare la piattaforma pubblica o aprire un sito internet e - così recita la norma - raccogliere le firme “mediante documento informatico, sottoscritto con firma elettronica qualificata”, senza necessità di successiva autenticazione. Tutto ciò, in attesa che, a partire dal 1° gennaio 2022, la piattaforma pubblica consenta di procedere senza doversi assumere alcun onere (attualmente, l’utilizzo della piattaforma pubblica è a pagamento per i promotori, mentre l’impiego di appositi siti è economicamente oneroso anche per i sottoscrittori). Bene ha fatto per primo Andrea Fabozzi a sollevare su queste pagine interrogativi e perplessità, sottolineando come proprio il clamoroso successo della nuova normativa, applicata alla raccolta delle firme per il referendum sulla cannabis, ne mostri appieno la problematicità. La soglia delle 500mila firme è stata raggiunta in una settimana, aprendo subito la strada a nuove iniziative: in particolare, quelle per la soppressione del c.d. green pass. È come se il termine del 30 settembre previsto per il deposito delle firme dalla legge n. 352/1970 - in modo da consentire le successive verifiche di legalità e di legittimità da parte della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale e l’eventuale svolgimento del referendum nella finestra temporale compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno di ogni anno - avesse perso buona parte del suo significato. Un tempo, valeva a costringere i promotori a organizzarsi in anticipo, calibrando il proprio impegno attraverso un’adeguata mobilitazione delle risorse umane, strumentali ed economiche che dovevano condurli a ottenere tutte le adesioni necessarie. Tra l’approvazione di una legge e la votazione della sua abrogazione referendaria necessariamente si poneva uno iato temporale e una mobilitazione politica che rendeva possibile la discussione, l’approfondimento, il confronto. L’emotio della contrapposizione, che aveva portato all’approvazione della legge contestata, aveva modo di raffreddarsi e la ratio poteva tornare a farsi sentire, assicurando una pur minima riflessione su una questione altrimenti ridotta a una conta tra Sì e No. Oggi, la decina di giorni che ci separa dalla fine del mese è - evidentemente - ritenuta adeguata a una mobilitazione telematica che, al di là dell’esito, non potrà che essere impulsiva, emozionale, vendicativa. Ci avete imposto l’obbligo del green pass? Benissimo, e allora vi rendiamo immediatamente pan per focaccia con il referendum abrogativo. Beninteso, il Parlamento è in molti casi responsabile per la propria incapacità d’azione, come nel caso dell’eutanasia, che non è stato capace di disciplinare, nel termine di un anno assegnatogli dalla Corte costituzionale, con una legge compatibile con la Costituzione. La soluzione, tuttavia, è rafforzare, non indebolire il Parlamento. Tanto più trattandosi di un Parlamento incapace di cogliere l’effetto di delegittimazione delle sue stesse decisioni: nel caso in commento, oltretutto, nonostante il parere contrario del governo, che giustamente avrebbe voluto circoscrivere l’innovazione della firma telematica alle persone con disabilità. Viene da chiedersi se davvero ha ancora senso attribuire il nome di “partiti” a entità, come quelle che esprimono i gruppi parlamentari di Camera e Senato, che sempre più si mostrano distanti da quei soggetti politici, consapevoli del proprio ruolo istituzionale e sociale, che i costituenti avevano posto alla base della nostra democrazia parlamentare. Il giornalismo d’inchiesta e la democrazia in crisi di Emiliano Fittipaldi Il Domani, 21 settembre 2021 La funzione prioritaria del giornalismo d’inchiesta è portare sotto i riflettori vicende che il potere in ogni sua incarnazione vuole tenere nascoste dalla pubblica opinione. Domani è nato con la convinzione che una democrazia sana necessiti di cittadini informati, messi nelle condizioni di approfondire notizie che svelano i lati oscuri di chi guida le istituzioni. Nel suo primo anno di vita Domani ha provato a raccontare conflitti di interesse di parlamentari e ministri, segreti nascosti e vicende giudiziarie evitando logiche di parte o scandalismi. Secondo una celebre frase attribuita a George Orwell, il giornalismo è “l’atto di dare alle stampe ciò che qualcun altro non vorrebbe mai veder pubblicato: tutto il resto sono pubbliche relazioni”. L’aforisma è semplicistico, ma il postulato è certamente corretto quando si fa giornalismo d’inchiesta. Che ha una funzione prioritaria, basica: portare sotto i riflettori vicende che il potere in ogni sua incarnazione (politica, economica, lobbistica o di apparato) vuole tenere nascoste alla pubblica opinione. Domani è nato con la convinzione che una democrazia sana necessiti di cittadini informati. Messi in condizione di scegliere i loro rappresentanti non solo attraverso spin e propaganda che media e social diffondono senza quasi intermediazione, ma approfondendo notizie che riescano a svelare - quando è necessario - i lati oscuri di chi guida istituzioni pubbliche e aziende private. Un genere giornalistico che a parte poche eccezioni gode in Italia di poca fortuna, a causa di un’autocensura diffusa nella categoria, di editori ingombranti, di leggi e prassi che non consentono alla libertà di stampa di dispiegarsi appieno come previsto dalla Costituzione. La nostra democrazia è fragile anche perché figlia di questo deficit culturale. In un anno di vita Domani ha provato a raccontare conflitti di interesse di parlamentari e ministri, segreti nascosti e vicende giudiziarie evitando logiche di parte o scandalismi. Con l’obiettivo di provare ad avvicinare la verità dei fatti evitando condizionamenti o scelte dettate da simpatie politiche personali: abbiamo indagato sulle consulenze di Matteo Renzi in Arabia Saudita, ci siamo occupati degli affari del segretario del Pd Enrico Letta a Parigi, e contemporaneamente delle fatture di Giuseppe Conte svelate dal faccendiere Piero Amara, passando dalle eredità misteriose del leghista Attilio Fontana ai rapporti dell’ex sottosegretario Durigon con uomini dei clan e i business del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. “Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere”, diceva Giuseppe d’Avanzo. Convinto che libertà e buona informazione sono valori inscindibili, come dimostrato anche dall’investigazione sulle violenze della polizia penitenziaria sui detenuti inermi a Santa Maria Capua Vetere. Eventi ridimensionati e occultati per mesi anche da ministri tecnici considerati più capaci di populisti e vecchi impresentabili, eppure caduti anche loro nei soliti vizi del potere. Quelli che i giornalisti devono raccontare senza timore, nell’interesse unico dei lettori. L’Europa rimanda i migranti al post elezioni di Francesca De Benedetti Il Domani, 21 settembre 2021 Prima le elezioni in Germania, poi il tempo perché il nuovo governo tedesco si metta comodo, infine le presidenziali in Francia: “Per cominciare ad affrontare i problemi reali, e sbloccare il patto sulle migrazioni, aspettiamo maggio”. Così dice Margaritis Schinas, il commissario europeo con delega alla “European way of life”, una delega inventata da Ursula von der Leyen e che si traduce per lo più nel controllo delle frontiere esterne. Schinas si trova a Roma perché è invitato dal partito popolare europeo, che in via Veneto si dà appuntamento fino a mercoledì, e soprattutto per incontrare chi da Bruxelles si aspetta risposte in tema di migranti. Luciana Lamorgese per prima: “La ministra mi ha riferito che estate ha passato l’Italia in termini di flussi”, dice Schinas. E pure la Santa sede: “Ho incontrato il segretario di Stato, Pietro Parolin, la chiesa ha una posizione forte per l’accoglienza”, spiega in una saletta di via Veneto. A Lamorgese, che aveva chiesto alla Commissione un segnale, Schinas porge un garbato “la ministra sta facendo un buon lavoro”, poi però chiede di aspettare, ancora. “Il momento per il patto sulle migrazioni è arrivato”, sì ma “dopo le elezioni, da maggio”. “La Commissione sostiene Roma finanziariamente e operativamente, con le agenzie”. Schinas parla di Frontex, coinvolta nei respingimenti, e che lui vuole irrobustire ancora. Il patto bloccato - “Ma non è un segreto che il livello di ricollocamenti non è affatto quello sperato, e molti governi non faranno nulla finché non c’è il patto. Sono certo che se avessimo quello, tutto sarebbe diverso”. La proposta è stata presentata da Bruxelles un anno fa, prevedeva indurimento delle frontiere esterne e un sistema flessibile per gli stati, che potevano accogliere ricollocando o sponsorizzare rimpatri. Schinas si rammarica che sia passato un anno, e promette di sbloccare il patto - “dobbiamo riattivare la schedule” - ma comunque dopo le elezioni chiave in Europa, a riprova che Bruxelles va al traino dei governi. A chi gli chiede se l’accoglienza dei rifugiati afghani potrà togliere ulteriori risorse e sostegno Ue ai paesi europei mediterranei, Schinas risponde di stare tranquilli: non si ripeterà una crisi come quella siriana. “Stiamo affrontando la questione afghana in modo mirato, assicurandoci che gli afghani che potrebbero lasciare il paese trovino rifugio nei paesi dell’area piuttosto che partire verso l’Europa”. Afghanistan. Se si vuole affermare la democrazia è necessario debellare la povertà di Giovanni Casciaro Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2021 La caduta di Kabul, con la fuga degli Stati Uniti e dei loro alleati dall’Afghanistan, è un evento su cui riflettere. L’intervento bellico, “Operation Enduring Freedom”, durato 20 anni, ha provocato altissimi costi umani ed economici. Vi sono stati 241mila morti. La popolazione civile ha pagato il prezzo più alto con oltre 70mila morti; vittime anche fra gli operatori umanitari e i giornalisti; ingenti perdite fra i militari e i poliziotti afghani, i talebani e gli altri oppositori; perdite consistenti fra i militari e i contractor Usa, fra i militari alleati, anche italiani. Vi sono stati molti feriti e traumatizzati, milioni di profughi e sfollati. Un vero disastro umanitario. Smisurati anche i costi economici. Gli Usa hanno speso oltre 2.300 miliardi di dollari; Italia, Gran Bretagna, Canada, Germania e Francia hanno contribuito con decine di miliardi. Molte di queste risorse sono state assorbite dall’apparato militare, una parte destinate a privilegi e corruzione, pochissime utilizzate per far fronte alla povertà diffusa e oppressiva. Costi elevatissimi per i contribuenti, ma lauti profitti per il settore bellico, vero vincitore di questa come di altre guerre. È incredibile l’affermazione del presidente Usa Joe Biden: la guerra è stata fatta per “vendicare” l’abbattimento delle Torri gemelle, che fu opera di terroristi di Al Qaeda in massima parte sauditi. E il nome dell’operazione: “Libertà Duratura”? In Afghanistan vi è stata così una ulteriore conferma del fallimento della strategia delle guerre “umanitarie” per “esportare la democrazia”. Si è verificato quanto previsto da Gino Strada, che con Emergency ha dedicato la propria vita a offrire cure alle vittime della guerra. Non solo non è stata “esportata la democrazia”, ma vi è stato un attacco alla libertà d’informazione negli stessi paesi occidentali. Julian Assange, fondatore di Wikileaks, e Chelsea Manning, analista dell’intelligence Usa, sono vittime di una pesante persecuzione per aver osato svelare una verità occultata: quanto sono disumane le “guerre umanitarie”. Mentre in Italia fu calpestata la democrazia sostanziale quando, malgrado le grandi manifestazioni e una volontà diffusa dei cittadini contro la guerra, il governo decise l’intervento militare. Purtroppo su quelle decisioni si verificò il sostegno di quasi tutti i partiti italiani, e oggi non vi è alcuna profonda riflessione critica su quelle scelte, tutte subalterne agli Stati Uniti. Ai politici occorrerebbe ricordare che se si vuole “diffondere la democrazia”, non si dovrebbero considerare “amici” i governanti autoritari, a volte sostenitori dei gruppi terroristici, solo per mero calcolo economico e geopolitico; non si dovrebbero armare e finanziare gruppi estremisti, come è successo in passato per i talebani da parte degli Usa. Basta con il “realismo” politico o, meglio, con il cinismo dagli evidenti esiti nefasti. Inoltre, è noto che le popolazioni in povertà possono essere facile preda dell’estremismo politico, religioso e dei signori della droga, e sono in una condizione che ostacola l’esercizio dei diritti politici. Se si vuole affermare la Democrazia è necessario debellare la povertà. Le ingenti risorse impiegate nelle guerre si dovrebbero utilizzare per affermare il diritto al lavoro, all’educazione, alla salute e all’informazione libera. Come si dovrebbe realizzare una equa distribuzione delle risorse, invece dell’attuale ingiusta accumulazione da parte di ristrette minoranze, locali o straniere. Infine, data l’evidente corresponsabilità e per senso di umanità, è doverosa la nostra solidarietà a favore del popolo afghano e, in particolare, verso le donne afghane. Per evitare poi una continua tragica ripetizione della storia, bisogna richiedere una politica estera, italiana ed europea, non subalterna alle logiche di guerra, che permetta di realizzare la soluzione dei conflitti e delle crisi in modo pacifico, attraverso le istituzioni internazionali e secondo quanto previsto dalla Costituzione italiana. Iran. 72 morti in carcere in 11 anni e nessuno è stato mai chiamato a risponderne di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2021 Al termine di una ricerca durata anni, il 15 settembre Amnesty International ha denunciato che dal gennaio 2010 al settembre 2021 almeno 72 detenuti sono morti nelle carceri iraniane e, nonostante ampie prove dell’uso della tortura, dei gas lacrimogeni o delle armi da fuoco da parte degli agenti penitenziari, nessuno è stato mai chiamato a risponderne alla giustizia. L’ultimo caso è quello di Yaser Mangouri, morto nella prigione di Urmia, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, neanche due settimane fa, l’8 settembre. Era stato arrestato il 17 luglio. La versione ufficiale delle autorità sull’accaduto è che è perito durante uno scontro a fuoco al momento dell’arresto. La famiglia ha replicato che Mangouri era stato arrestato appena uscito di casa e che non aveva armi. Le autorità hanno rifiutato di restituire il corpo. L’elenco stilato da Amnesty International non comprende le decine di casi in cui la morte sarebbe stata causata dal diniego di cure mediche. I 72 decessi, la maggior parte dei quali è avvenuta a partire dal 2015, sono stati registrati in 42 prigioni e centri di detenzione di 16 province. In 46 casi, sulla base di quanto accertato da Amnesty International, la causa del decesso è stata la tortura. Altri 15 prigionieri sono stati uccisi durante le rivolte contro la diffusione della pandemia da Covid-19 nelle carceri del paese. Negli altri 11 casi, le circostanze sospette della morte devono essere ancora chiarite. Dei 46 decessi avvenuti a seguito di torture, nella maggior parte dei casi queste sono state praticate durante la fase iniziale delle indagini: 28 detenuti sono morti entro pochi giorni dall’arresto, uno subito dopo e un altro addirittura durante il trasferimento dal luogo dell’arresto a quello di detenzione. Su 24 delle 46 morti sotto tortura, le autorità iraniane hanno fatto dichiarazioni ufficiali, attribuendo il decesso a suicidio in sette casi, a infarto o altri problemi di salute in 12 casi, a overdose in tre casi, a scontri a fuoco durante l’arresto in due casi. *Portavoce di Amnesty International Italia Ruanda, l’eroe Rusesabagina condannato per terrorismo di Pietro Veronese La Repubblica, 21 settembre 2021 L’ispiratore del film Hotel Ruanda dovrà scontare 25 anni di prigione. Il Dipartimento di stato americano: “Non ha avuto un giusto processo”. La parabola di Paul Rusesabagina da eroe protagonista del film Hotel Rwanda a reo di terrorismo si è conclusa ieri, in un’aula del Tribunale di Kigali, con la condanna a 25 anni di prigione. Per la verità lui non c’era: è da marzo che rifiuta di presentarsi davanti alla Corte, non riconoscendo la legittimità del processo di cui è stato il principale imputato. Questo non ha impedito al giudice Béatrice Mukamurenzi di sentenziare che Rusesabagina “ha fondato un’organizzazione terroristica che ha attaccato il Ruanda, ha finanziato attività terroristiche, ha inventato un codice per nascondere queste attività”. Raramente una singola persona è stata oggetto di narrative così totalmente contrapposte. Rusesabagina il salvatore, che a rischio della propria vita salvò centinaia di Tutsi, vittime predestinate del genocidio del 1994; e Rusesabagina il traditore, che un quarto di secolo dopo ha finito per armare e finanziare gli eredi politici dei genocidari Hutu di allora. Bisogna dire però che questo rovesciamento non è avvenuto in un giorno. È da molti anni che diversi sopravvissuti del genocidio hanno messo in discussione il ruolo dell’uomo alle cui spalle si sono chiuse le porte della prigione. Nei terribili cento giorni dell’aprile-luglio 1994, in cui furono messi a morte oltre un milione di Tutsi, Paul Rusesabagina era manager del migliore albergo di Kigali, il Mille Collines, l’Hotel Rwanda del film, nel quale avevano cercato scampo dagli assassini qualche migliaio di disperati. Fu in quel ruolo, narra la pellicola che lo ha reso famoso, che egli si prodigò per trarre in salvo quei condannati a una morte certa. Ma diversi sopravvissuti che si erano rifugiati nel Mille Collines raccontano una storia diversa, descrivendo un Rusesabagina corrotto e in affari con i genocidari, che esigeva cifre da capogiro in cambio del suo interessamento. Il principale di questi accusatori è forse Edouard Kayihura, ex magistrato che vive da anni negli Stati Uniti, autore nel 2014 (vent’anni dopo i fatti e dieci dopo il film) di un libro significativamente intitolato Inside Hotel Rwanda. A quel tempo Rusesabagina viveva già da diversi anni in Belgio, Paese di cui oggi è cittadino, e negli Stati Uniti. Era diventato un oppositore del presidente Paul Kagame, l’uomo che alla testa del Fronte patriottico ruandese aveva messo fine con le armi al genocidio del ‘94. Per questo i suoi sostenitori affermano che le accuse sul suo passato hanno una motivazione politica. E criticano il processo che ha portato alla sua condanna. I diritti della difesa sono stati calpestati, dicono, e le prove fabbricate; e ricordano anche che l’imputato è stato portato in Ruanda con l’inganno, praticamente un rapimento di Stato, da Dubai dove si trovava di passaggio. Di quell’operazione viceversa il governo ruandese va fiero, sostenendo che le attività terroristiche di Rusesabagina la giustificavano ampiamente. A queste critiche si è aggiunta l’autorevole voce del Dipartimento di stato americano: “L’assenza di garanzie di un giusto processo rimette in causa l’equità del verdetto”.