Presunzione d’innocenza: uno scudo per l’accusato dato per colpevole prima della sentenza di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 20 settembre 2021 Il decreto che attua la direttiva Ue rafforza il principio dell’articolo 27 anche rispetto all’esuberanza dei pm. Che dovranno rettificare le frasi troppo sbrigative sugli indagati. “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, è quanto sancisce l’articolo 27 comma 2 della Costituzione, un principio purtroppo molte volte disatteso dal caos creato dalla costante mediatizzazione dei procedimenti penali. Le conseguenze, come ovvio, sono disastrose per chi è sottoposto alla gogna mediatica: dall’erosione della sfera personale, al danno reputazionale, fino a ledere la dignità personale. Condannato dall’opinione pubblica ancor prima che intervenga la sentenza passata in giudicato: è questo l’esito che travolge indagati/ imputati. E non sono pochi. Già su queste pagine lo scrivente evidenziava come persone ritenute poi innocenti si ritrovino con una magra consolazione, per lo più un trafiletto sull’assoluzione che, come noto, non fa scalpore. Spesso, infatti, nemmeno la sentenza di assoluzione piena ha il potere di ripulire la reputazione frantumata, atto lo scemare dell’interesse per il grande pubblico di casi che vengono consumati, discussi ed interpretati integralmente in una fase processuale embrionale e priva di contraddittorio: quella delle indagini. Il problema è noto tanto agli operatori del settore, quanto agli osservatori operanti nelle sedi Ue, i quali hanno emesso la direttiva 363 del 9 marzo 2016, che intende rafforzare il principio sulla presunzione d’innocenza ex articolo 27 Cost. A distanza di 5 anni le Commissioni parlamentari si sono finalmente viste assegnare il testo del Decreto legislativo in esame, volto per l’appunto ad adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della succitata direttiva Ue e relativo al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza”, segnando un notevole cambio di passo rispetto al passato esecutivo, noto, in ambito Giustizia, soprattutto per iniziative assai discusse come il blocco della prescrizione. Ad ogni modo, sarà necessario apprezzare tutte le suesposte intenzioni all’atto pratico, valutando come il Legislatore abbia intenzione di tradurle sul piano positivo. Di primaria rilevanza è l’articolo 2 del testo in esame il quale dispone il divieto per l’Autorità pubblica di additare come “colpevole” la persona sottoposta ad indagini o imputata fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza di condanna o decreto penale di condanna irrevocabili. Il testo è una valida traduzione dell’articolo 27. L’intenzione del Legislatore è qui palese: tradurre sul piano del diritto positivo una norma costituzionale di principio, che, come noto, non gode dello stesso ascolto. Paradossale, sicuramente, ma così è. Ad ogni modo, come noto, ogni disposizione necessita di essere accompagnata da norme sanzionatorie, affinché il diritto sostanziale possa trovare reale e concreta applicazione. A tal fine il comma 2 del medesimo articolo introduce una sanzione dalla funzione che chi scrive definisce ibrida: preventiva, punitiva e riparatoria. Mantenuto fermo, infatti, l’obbligo del risarcimento del danno, nonché le sanzioni disciplinari ed eventualmente penali - le quali richiederanno il classico iter di accertamento in ordine alle responsabilità del magistrato nella divulgazione di informazioni lesive per l’indagato, ovvero imputato - il Legislatore ha inteso creare un procedimento ad hoc che conferisce all’interessato la possibilità di chiedere al magistrato inquirente una rettifica delle dichiarazioni rese. In pratica: il pubblico ministero, obbligato a rispondere entro e 48 ore dalla ricezione della richiesta, può accogliere così come rigettare l’istanza, dandone avviso all’interessato. In caso di rigetto, infine, è data facoltà all’interessato di impugnare il provvedimento adendo il Tribunale ai sensi dell’articolo 700 c.p.c., articolo disciplinante la tutela cautelare d’urgenza. Come esposto il Legislatore non va ad introdurre vere e proprie sanzioni, le quali potranno essere comminate secondo i classici metodi già offerti dall’ordinamento nostrano, ma si spinge oltre, creando un rimedio ad hoc, rapido e immediato in considerazione della natura del bene leso e l’urgenza della riparazione. Il focus, insomma, si sposta dal piano della forza preventiva della sanzione, al piano della riparazione, concedendo al magistrato di rimediare tempestivamente ad errori talvolta fatali per la reputazione di un soggetto, con tutto ciò che ne consegue. Lo stigma del procedimento penale, come noto infatti, è la prima pena che i coinvolti nella macchina giudiziaria sono chiamati a scontare in via anticipata, indipendentemente che questi siano innocenti o colpevoli, stigma che risulta esponenzialmente amplificato nel caso di dichiarazioni pubbliche dal tenore colpevolizzante. Si sa: un procedimento penale pesa, non solo economicamente, ma in termini di anni di vita per chi - a qualsivoglia titolo - si trova ad affrontarlo. L’esigenza di celerità in casi simili non può attendere i tempi della Giustizia e del tutto vana risulta una successiva sentenza di assoluzione, anche se piena, emessa a distanza di anni. Non a caso, come si anticipava, l’articolo in esame tratta il bene giuridico della presunzione di innocenza come un bene da tutelare in via d’urgenza, consentendo di impugnare il rigetto della pubblica accusa alle rettifiche, ai sensi dell’articolo 700 c.p.c.. Come rilevato da uno dei principali fautori del decreto, il collega e onorevole Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia, in un’illuminante intervista offerta sempre su queste pagine, la norma, a carattere prevalentemente riparatorio, gode tuttavia anche di forza preventiva derivante dalla circostanza che un Tribunale, se adito ex art. 700 c.p.c., possa obbligare il Procuratore a rettificare a proprie dichiarazioni, contrariamente alle intenzioni dello stesso. Secondo Sisto - e sul punto chi scrive è concorde - la “posizione d’imbarazzo” a cui verrebbe sottoposto il magistrato rappresenterebbe elemento tale da conferire alla norma il giusto carattere punitivo e conseguentemente preventivo. A ciò si aggiunga che le eventuali rettifiche andranno rese con gli stessi mezzi utilizzati all’atto della violazione della presunzione d’innocenza. Relativamente all’impugnazione del rigetto ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. è apprezzabile l’intento del Legislatore di ricondurre la violazione della presunzione d’innocenza alla tutela d’urgenza. Sul punto va tuttavia detto che la tutela potrà ritenersi realmente efficacie sulla base del Foro presso cui si fa richiesta ex art. 700 c.p.c., in considerazione delle differenti velocità con la quale viaggiano le Corti sparse sul suolo peninsulare. Pertanto, se i tempi dettati dal Tribunale interessato dovessero risultare eccessivi, si andrebbe a vanificare la reale innovazione del Decreto legislativo in esame, la riparazione tempestiva del danno tramite rettifica. Beninteso, lo schema di D.L. rappresenta in ogni caso un notevole passo avanti rispetto all’attuale situazione normativa, e avrà indubbiamente il pregio di diffondere il sostrato culturale giuridico da cui proviene, quello garantista e coerente col dettato costituzionale, il quale potrà vedersi eventualmente migliorato in futuro qualora la sua reiterata applicazione dovesse portate alla luce dei difetti procedurali. Volendo essere pragmatici, oggettivi e il più lucidi possibili nell’analisi, non si possono non evidenziare quelle che sono le potenziali criticità di un Decreto legislativo necessario che, si auspica, entri in vigore il più celermente possibile, così da adeguare l’Italia a quanto Ue e Carta costituzionale impongono. *Direttore Ispeg Riforma penale: chi è assolto ha diritto a ottenere l’oblio di Sergio Lorusso Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2021 Il cittadino che esce “pulito” può imporre ai media di cancellare i riferimenti. Se la richiesta non avrà riscontro in 7 giorni si potrà far intervenire il Garante. La riforma Cartabia del processo penale contiene una novità finora un po’ defilata ma di grande rilevanza nella nostra società della comunicazione. Si tratta del diritto all’oblio che consente a chi è stato prosciolto o assolto, o oggetto di un provvedimento di archiviazione, di uscire definitivamente non soltanto dal processo ma anche dalla scena mediatica, ponendo fine a quel “danno da processo” che costituisce una delle conseguenze deleterie indirette dell’esercizio della giurisdizione. Il contenuto della nuova norma Nella previsione normativa, che dovrà essere definitivamente approvata in Senato, si afferma il diritto di chi è uscito del tutto dal circuito giudiziario con sentenza favorevole di chiedere la “deindicizzazione” (con un provvedimento che la “garantisca in modo effettivo”, si legge nel testo) - cioè a dire l’impossibilità di risalirvi con i motori di ricerca - delle notizie relative alla vicenda processuale da cui è rimasto “indenne”. Di far calare, insomma, il sipario su quanto è stato detto e scritto nel corso del processo. Particolarmente apprezzabili i termini stringenti adottati per garantire l’efficienza del tutto. Qualora la richiesta, perla quale non sono previste particolari forme, non sia infatti soddisfatta entro sette giorni l’avente diritto può rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali alfine di ottenere un provvedimento di “deindicizzazione”. Il diritto all’oblio è presente nella normativa in tema di privacy (articolo 17 Regolamento generale sulla protezione dei dati) e si traduce nel diritto - in forma rafforzata - a vedere cancellati i propri dati personali, con un meccanismo che consente di bandire dal web ogni riferimento agli stessi e la possibilità di vederli di fatto espunti dal mare magnum della rete. Recepisce nello specifico indicazioni sovranazionali contenute nelle linee guida 5/2019 relative ai criteri per l’esercizio del diritto all’oblio nel caso di motori di ricerca, definite sulla base delle previsioni del regolamento (Ue) 2016/679, nella versione del 7 luglio 2020 adottata dopo consultazione pubblica. Non ha attualmente una copertura a livello processuale. Solo alcune innovative e pur apprezzabili pronunce giurisprudenziali hanno - seppur in parte - cercato di soddisfare tale esigenza, affermando che la conservazione online di un articolo pubblicato anni addietro è equiparabile a una pubblicazione continua, quando ormai il diritto soggettivo privato prevale sull’interesse pubblico divenuto non più attuale e rilevante, imponendola rimozione dal sito o, quantomeno, il diritto a vederlo aggiornato, storicizzando la notizia (Cassazione civile, sezione I, n. 13161/2016). Inutile dire come le ricadute della permanenza dei dati riferiti a una vicenda processuale può avere una portata negativa addirittura maggiore rispetto alle stesse conseguenze del dipanarsi della macchina processuale. Aggiungendosi a quelle pregiudizievoli che nascono da un procedimento pendente: danno all’immagine, danno alla reputazione, danno all’attività di relazione e a quella lavorativa e via discorrendo. Tutte destinate potenzialmente a perpetuarsi con la permanenza dei dati nella rete, nonostante una pronuncia’ che esclude in toto la responsabilità dell’accusato. Si pensi a chi voglia orchestrare una campagna in danno di una determinata persona per presunti precedenti giudiziari - omettendone l’esito - agitando ombre destinate a dissolversi solo successivamente e macchie all’integrità della stessa. Innegabili sono i punti di contatto con la più ampia categoria del danno da esposizione mediatica. In questo caso l’acclarata innocenza dell’accusato viene a essere infranta quando è ormai definitivamente uscito dal circuito giudiziario. Quindi la previsione “rimedia” a quello che sarebbe un ingiusto danno per chi è stato coinvolto ingiustamente in un processo. Erano giustizialisti convinti, oggi sono convertiti al garantismo di Valentina Stella Il Dubbio, 20 settembre 2021 “Quando si parla di carcere, “bisogna aver visto”, come ci ricordano le celebri parole di Piero Calamandrei” ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia in visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. E lo stesso vale per la gogna mediatica o per le indagini che ti distruggono vita personale e politica. Quando capita a te o a chi ti è vicino, la visione che fino ad allora avevi della giustizia cambia e ti ritrovi a doverti spesso confrontare con quei principi manettari che ti avevano contraddistinto fino a quel momento. Lo abbiamo visto con l’ex grillino Marcello De Vito che prima ha portato le arance a Ignazio Marino per lo scandalo Mafia Capitale, poi, quando lui stesso finisce in carcere per corruzione, ammette l’errore politico di stampo giustizialista e comincia ad occuparsi di carcere nell’attuale campagna elettorale con Forza Italia. Ma ci sono altri esempi di catarsi garantiste o pseudo tali. Prima tra tutte quelle di Beppe Grillo che, con il figlio indagato per violenza sessuale, in un folle video si scaglia contro il circo mediatico- giudiziario. E che dire di Luca Palamara, ex pm, ex presidente dell’Anm, ora caduto in disgrazia perché radiato dalla magistratura per lo scandalo delle correnti? Ha firmato i referendum proposti da Partito Radicale e Lega, tranne quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, ma dal nostro giornale, in una lettera al direttore, ha tenuto a precisare che “sul tema del garantismo sono in totale coerenza rispetto alle mie posizioni del passato”. Nella stessa missiva al nostro giornale diceva “non scorderò mai la faccia di un imputato in stato di custodia cautelare che a Regina Coeli, durante un interrogatorio di garanzia di fronte al Gip, piangeva a dirotto invocando la sua innocenza. I fatti poi gli hanno dato ragione: era innocente. Quell’episodio mi ha segnato per sempre. Da quel giorno ho ritenuto e ritengo che quando si priva un individuo della propria libertà personale è sempre meglio pensarci un attimo in più che un attimo in meno”. “Da quel giorno, dice... e il giorno prima? - gli ricorda il professor Aldo Berlinguer - È proprio necessario dover assistere alla disperazione di qualcuno per accorgersi dell’importanza del garantismo?”. E poi il compagno Nichi Vendola; è bastata una condanna a tre anni e mezzo per concorso in concussione aggravata, per spingere l’ex presidente della Puglia a dire: “Io mi ribello a una giustizia malata che calpesta la verità. Noi appelleremo questa sentenza, ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Nel caso Ilva c’è stata una malevola torsione dell’inchiesta verso una deriva che è quella del mainstream giustizialista”. Nel 2012 era lo stesso Vendola però ad esortare la classe dirigente a “evitare l’irruzione a gamba tesa nel recinto in cui la magistratura esercita le proprie funzioni”. Forse non tutti ricorderanno Graziano Cioni, deputato e senatore per tre legislature, nel solco del Pci-Pds-Ds, poi assessore a Firenze che, in una intervista al Foglio, disse: “Dopo 8 anni di processo ingiusto e un’assoluzione dico: io ero un giustizialista convinto, che puttanata il giustizialismo. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie, la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione. La sinistra ha difeso i magistrati a prescindere dalla ragione e dal torto. Li abbiamo resi intoccabili”. A proposito di sinistra, come non parlare dell’ex magistrato Luciano Violante, che si è convertito non per sfortunate vicende giudiziarie ma forse per una maturata saggezza. Per tre decenni è stato in Parlamento il portabandiera delle toghe rosse. Francesco Cossiga, come ricorda il ritratto fatto dal Giornale, “lo chiamava “piccolo Vishinsky”, come l’aguzzino delle purghe staliniane, considerandolo l’istigatore dei processi politici degli anni Novanta (Andreotti, ecc)”. Lui però si è sempre difeso: “Quando ero presidente della Commissione Antimafia, scrivevo che c’era uno sfrenato giustizialismo all’epoca e che nessuna società ha tollerato troppo a lungo un governo dei giudici”. E ancora: “Quando Berlusconi nel 1994 ricevette la comunicazione giudiziaria per tangenti, al contrario di molti, io dissi che non si doveva dimettere”. Un’altra mutazione senile è quella di Gherardo Colombo, l’ex pm di Mani Pulite: all’epoca difendeva l’uso della custodia cautelare e spiegava, numeri alla mano, che non c’erano abusi perché in 1000 giorni insieme ai suoi colleghi aveva chiesto la carcerazione preventiva per circa 600 persone e per un centinaio il gip aveva respinto la richiesta: “Utilizzare l’ordine di arresto è un passo doloroso anche per coloro che lo applicano. Ma in alcuni casi non se ne può fare a meno”. Per far confessare e non per reali esigenze cautelari, diranno alcuni commentatori ricordando quel periodo. Ma tornando a Colombo, ad esempio, del 41 bis diceva che serviva a difenderci “nei confronti di chi, anche dal carcere, può influire sugli atteggiamenti criminosi di persone che stanno fuori”. Nel 2013 la svolta con il libro ‘ Il perdono responsabile: Perché il carcere non serve a nulla’ e nel 2017: “Il 41 bis, così come è fatto, è difficilmente in corrispondenza con l’articolo 27 della Costituzione. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Il baratro tra nord e sud nell’efficienza della giustizia civile di Sergio Rizzo La Repubblica, 20 settembre 2021 Nonostante dieci anni di sforzi in Italia, siamo ancora lontanissimi dalle medie europee nei tempi di smaltimento delle controversie. Bella soddisfazione: in dieci anni di sforzi immani per ridurre i tempi biblici della giustizia civile siamo riusciti a recuperare ben 90 giorni. Dai 1.210 che secondo la Banca mondiale erano in media necessari per risolvere una controversia commerciale, ora ne bastano (si fa per dire) 1.120. Peccato che la media dell’Ue a 27 non superi 607 giorni. E in Spagna sia meno della metà: 510 giorni. Che scendono a 499 in Germania e a 447 in Francia. In Europa stanno peggio di noi soltanto in Grecia (1.711 giorni), mentre con la Slovenia (1.160) ce la battiamo ancora. Anche perché quel dato è fermo al 2019, prima della pandemia. Che com’è noto, ha quasi paralizzato anche i tribunali Questo la dice lunga circa la dimensione del problema che dovrà affrontare, almeno fino a quando durerà il suo mandato, la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Duemila giudici civili per 3 milioni e 321 mila cause arretrate, il che significa oltre 1.600 a cranio, sono già una bella rogna, che diventa però gigantesca alla luce dell’obiettivo (encomiabile) che si pone il Piano nazionale di ripresa e resilienza: ridurre del 40% la durata dei procedimenti civili. Nel tentativo di ridimensionare il divario spaventoso di competitività con Germania, Francia e il resto dell’Unione nell’attrazione di investimenti esteri. Quel che è peggio, la questione non riguarda solo la mancanza di risorse, se è vero che la spesa dell’Italia per i propri tribunali è in linea con la media europea. Tre anni e mezzo di lentezze - I dati ufficiali, che non riguardano esclusivamente le controversie commerciali ma l’insieme di tutte le dispute civili, dicono che le cause di primo grado si esauriscono in 419 giorni, cui però ne vanno sommati altri 891 per l’appello. Totale, 1.310 giorni. Tre anni e mezzo, in media. Se le promesse del Pnrr fossero rispettate, tenendo anche conto del calo lento ma “fisiologico” della durata, entro il 2026 si potrebbero risparmiare ancora 301 giorni: questo secondo il calcolo dell’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle. Ipotizzando che la diminuzione “fisiologica” porti comunque in cinque anni la durata media a 1.087 giorni, si scenderebbe teoricamente a 786. Una bella botta, ma ancora troppo poco in confronto al resto d’Europa. Soprattutto se si considera un altro elemento preoccupante che emerge dall’analisi Confartigianato. Cioè le differenze, enormi, di durata dei procedimenti civili fra le diverse sedi giudiziarie. Forse mai come in questa circostanza è profondo il baratro fra il Nord, dove in alcuni casi ci si avvicina ai valori di efficienza europei, e il Sud: dove, all’opposto, la lontananza da quei valori è semplicemente siderale. E qui le riforme che sono state messe in cantiere possono incidere fino a un certo punto. Se a Messina un giudizio di primo grado va avanti in media per 990 giorni, a Potenza per 811 e a Catanzaro per 771, a Milano si può concludere in 282 giorni, a Brescia in 265, a Torino in 205 e a Trieste addirittura in 196. “A Messina - sottolinea la Confartigianato - i tempi dei procedimenti civili sono quasi due volte e mezzo la media nazionale e cinque volte il tempo del distretto più virtuoso, quello di Trieste”. C’è solo un distretto giudiziario meridionale nel quale la durata di una causa in primo grado è inferiore alla media nazionale, quello di Palermo (399 giorni contro 419). Né la situazione è diversa nel caso dei giudizi d’appello. Cambiano esclusivamente i detentori degli opposti primati. Per quello negativo, il posto di Messina lo prende Potenza con la bellezza di 1.356 giorni, seguita da Reggio Calabria (1.301) e Roma (1.161). Nel secondo grado dei giudizi civili i tribunali della Capitale fanno peggio di quelli napoletani, dove l’arretrato è enorme, che esauriscono le cause d’appello in 1.152 giorni. C’è da dire che anche nei distretti di Bologna e Firenze si superano i mille giorni (rispettivamente 1.011 e 1.008), un dato decisamente superiore alla media nazionale degli appelli civili. Quanto al primato positivo, invece, secondo i dati elaborati dall’ufficio studi della Confartigianato Torino subentra a Trieste con appena 280 giorni di durata, contro i 463 di Trento, i 463 di Trieste e i 464 di Perugia. Da una città all’altra - I dati delle Corti d’appello civili amplificano fino all’inverosimile le differenze di efficienza fra diverse parti d’Italia. Sommando primo e secondo grado, a Potenza si toccano (sempre in media) 2.167 giorni. Ovvero sei anni e quasi il quadruplo del tempo necessario invece a Torino (585 giorni). A Reggio Calabria servono 1.934 giorni, a Napoli 1.722. Mentre a Roma, la sede giudiziaria più grande e rilevante per certi aspetti considerando che è competente per le cause che riguardano enti e società pubbliche e spesso i rapporti con gli investitori esteri, ce ne vogliono ben 1.582. Più che a Salerno (1.563), Lecce (1.549) e perfino Messina (1.490), grazie alla singolare circostanza che nel capoluogo siciliano i giudizi civili in secondo grado si esauriscono in metà del tempo impiegato in primo grado: 500 giorni contro 990. Esattamente il contrario di quanto accade nella Capitale. Che a guardare la faccenda con attenzione rappresenta, per la ministra Cartabia, un altro bel problema nel problema più generale. Green Pass, i giudici onorari protestano: “Noi cacciati se non l’abbiamo, unici in Italia” di Liana Milella La Repubblica, 20 settembre 2021 Ennesimo schiaffo per la magistratura onoraria. Nel decreto misura drastica contro di loro: sospensione e revoca dell’incarico in mancanza di certificazione verde. Barone: “Trattati come paria”. Cavassa: “L’ennesima doppia beffa. Per i colleghi ordinari solo un illecito disciplinare”. “Trattati ancora una volta come dei paria”. “Beffati anche sul Green Pass”. Sono furibondi i circa 5mila giudici e vice procuratori onorari italiani. Una categoria chiave per far funzionare la giustizia, che conta 5mila persone, ma da sempre precaria, nonostante ormai le sentenze della Consulta e della Corte del Lussemburgo, e da ultimo la pronuncia della Commissione Ue che ha invitato l’Italia a mettere in regola questi lavoratori. Ma cosa è successo stavolta? Ancora un brutto sgarbo nel decreto sul Green pass. Andiamo a vedere i fatti. Diventa pubblico il decreto che regola il Green Pass. Le toghe onorarie vanno a leggere il passaggio che riguarda il mondo della giustizia. E scoprono che il decreto distingue le sanzioni per i magistrati di ogni categoria regolarmente assunti e i giudici onorari. I “paria” appunto, come loro stessi si definiscono. Perché il decreto è chiaro: i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, gli avvocati e i procuratori dello Stato, i componenti delle commissioni tributarie non potranno accedere agli uffici se, a richiesta, non esibiscono il Green Pass. Se violano la regola c’è un’assenza ingiustificata e per i magistrati parte una procedura disciplinare. Ma che succede invece per i giudici onorari? Scatta subito “la sospensione dell’incarico” finché il magistrato non esibisce il certificato. Ma se entro 30 giorni il certificato continua a non esserci ciò “comporta la revoca dell’incarico”. In una parola, questo lavoratore già precario viene cacciato. Un’anomalia bella e buona perché questo non avviene per gli altri lavoratori, e che ovviamente è una conseguenza dello stato di precarietà di fondo che caratterizza da sempre il rapporto di lavoro di queste figure professionali. I giudici onorari leggono l’articolo, non credono a quello che leggono, si consultano e protestano duramente. Olga Rossella Barone, giudice onorario a Napoli e presidente del Coordinamento magistratura giudici di pace, che ha appena annunciato lo sciopero dal 16 al 26 settembre della sua categoria, non nasconde l’amarezza per quello che considera l’ennesimo “sfregio” e reagisce con parole dure: “Ci sarebbe da riflettere sul fatto che tra le categorie di coloro che non accettano di vaccinarsi c’è una categoria che appare più paria delle altre. Solo per noi, a differenza degli altri giudici, come unica sanzione dopo un mese senza Green Pass è prevista la decadenza e la revoca dell’incarico. In pratica il magistrato onorario sarebbe l’unico lavoratore a perdere il posto di lavoro. E per giunta questo accade proprio mentre noi scioperiamo e chiediamo un inquadramento come dei veri ed effettivi lavoratori quali siamo”. Parole altrettanto dure da Monica Cavassa, vice procuratore onorario a Milano, componente della Consulta della magistratura onoraria e che ha fatto parte del gruppo di lavoro istituito dalla Guardasigilli Marta Cartabia per riscrivere l’assetto della stessa magistratura onoraria, presieduta dal presidente della Corte di Appello di Brescia Claudio Castelli. Cavassa parla di “ennesima e doppia beffa per i magistrati onorari”. E spiega il perché: “Siamo gli unici lavoratori per i quali è previsto il licenziamento se privi di Green pass, una conseguenza discriminatoria rispetto al trattamento riservato ai magistrati professionali”. Ma non basta, perché Cavassa ricorda che “se, anche muniti di Green Pass, risultiamo positivi perché esposti al contatto quotidiano con l’utenza non vaccinata che entra negli uffici giudiziari, siamo costretti in quarantena senza alcun ristoro economico, mentre ciò non avviene per i dipendenti e i magistrati professionali”. Conclude Cavassa: “Questa è l’ennesima conseguenza aberrante dello status riservatoci da anni, in attesa perenne della giusta riforma che non arriva mai”. Riforma a cui dovrà mettere mano la ministra Cartabia, non appena avrà chiuso i capitoli delle riforme del processo civile e penale, nonché del Csm. Premi condizionati ai detenuti. I permessi a chi prova l’estraneità a consorterie criminali di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 20 settembre 2021 Lo afferma la Cassazione. L’esclusione da commistioni va provata con fatti concreti. Anche al detenuto condannato per reati mafiosi concedibile un permesso premio nel caso di allegazione di fatti che consentano di escludere il collegamento con le consorterie criminali. Lo afferma la corte di cassazione con la sentenza n. 33743/2021 depositata il giorno 10/9/2021. Il caso di specie trae origine dalla richiesta di permesso premio presentata da parte di un detenuto per reati mafiosi. La sua istanza veniva rigettata da parte del magistrato di sorveglianza ed il procedimento proseguiva allora innanzi al tribunale di Bologna che confermava la decisione di primo grado. Alla base del provvedimento di rigetto del riesame veniva evidenziato il difetto di prova certa circa l’assenza di collegamenti tra il detenuto e le associazioni mafiose e come gli stessi avrebbero potuto essere in ogni caso ripresi in futuro tanto da riprendere la loro efficacia ed il loro vigore. Ricorreva allora il difensore del detenuto deducendo a sostegno della propria richiesta di annullamento della sentenza di merito una recente decisione della corte costituzionale. La sentenza portante il numero 253/2019 aveva ad oggetto la facoltà per i detenuti condannati per reati particolarmente gravi di ottenere i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Il giudice delle leggi infatti nella predetta pronuncia pone un ben preciso limite per la facoltà del legislatore ordinario di limitare l’ottenimento dei benefici penitenziari. L’art. 4 bis, comma 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’ esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale) poneva, antecedentemente alla predetta sentenza, il divieto per i detenuti per reati mafiosi, che non collaborassero con l’autorità giudiziaria di ottenere i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Tale norma viene dichiarata costituzionalmente illegittima. Precisavano sul punto i giudici della Consulta come anche nel caso di mancata collaborazione con l’autorità giudiziaria da parte del detenuto “mafioso” possa essere consentita l’ammissione ai benefici penitenziari purché venga data prova del fatto specifico costituito dall’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e dell’impossibilità del loro ripristino in futuro. Alla stregua di tale principio i giudici della corte di cassazione con la sentenza 33743/2021 annullano l’ordinanza emessa da parte dei giudici del tribunale del riesame, rinviando per un nuovo esame della posizione del detenuto. A sostegno della loro decisione i giudici pongono la mancata applicazione da parte del riesame dei principi indicati dalla Consulta con sentenza 253/2019.L’ ammissione ai benefici penitenziari del detenuto per reati mafiosi non sarà più del tutto preclusa, precisano i giudici della Cassazione in ossequio al principio espresso da parte dei magistrati della Consulta. Seguendo il ragionamento espresso dai giudici della Consulta, anche per gli ermellini sarà possibile per il detenuto per reati mafiosi ottenere i benefici penitenziari nel caso in cui vengano allegati fatti che siano di per sé idonei a dare la prova della mancanza attuale di collegamenti con la criminalità organizzata e dell’impossibilità di un loro ripristino. “Nelle carceri rumene condizioni disumane”: no all’estradizione giornaledibrescia.it, 20 settembre 2021 Cassazione Penale, Sent. Num. 31845-2021. Per anni è stato il leitmotiv della destra italiana e della Lega in tema di sicurezza. “Far scontare nel paese di origine la condanna incassata da stranieri presenti sul territorio italiano”. Per quanto riguarda la Romania, la Cassazione scrive: “C’è il pericolo concreto di sottoposizione in carcere a trattamenti inumani e degradanti”. Per questo gli Ermellini hanno stoppato la consegna alla giustizia rumena di un condannato che avrebbe dovuto scontare la pena all’ombra dei Carpazi. La Corte d’appello di Brescia aveva detto sì all’estradizione, ma il procuratore generale bresciano e lo stesso coinvolto attraverso il suo legale hanno impugnato la sentenza, e ora i giudici dovranno riesaminare il caso. È la storia di un 37enne, raggiunto da mandato di arresto europeo per l’esecuzione della pena di quattro anni di reclusione per due condanne incassate per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga e alla clonazione di carte di credito. Era destinato al carcere di Bacau, in uno dei penitenziari segnalati come pericoloso per i detenuti, “nonostante taluni miglioramenti registratisi dopo i pronunciamenti della Corte di Strasburgo e il conseguente piano di azione del Governo della Romania”. Su queste basi la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte bresciana rimandando gli atti in appello, chiedendo di formulare una richiesta di informazioni integrative in merito al trattamento penitenziario e alle condizioni delle carceri rumene e “assicurare, nel quadro dei rapporti tra Stati membri, che il consegnando non sia esposto a pericolo in ragione degli spazi disponibili all’interno delle celle, dalle condizioni igienico-sanitarie degli istituti o dell’esclusione di altre criticità concretamente manifestatesi nel tempo”. Dovrà essere valutata la disponibilità di altre strutture conformi alle indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. “È necessario - precisano i giudici - verificare che la persona ristretta sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che sia scongiurato il rischio di sottoposizione ad uno stress eccedente il livello di sofferenza inerente alla detenzione”. L’ergastolano Papalia: “Il carcere di Parma è un esecutore di condanne a morte” Il Dubbio, 20 settembre 2021 La lettera dell’ex boss calabrese, gravemente malato, per raccontare il suo calvario sanitario: “Non c’è differenza tra commettere un omicidio e chi può salvare una vita e la lascia morire cinicamente”. Di seguito la lettera scritta dall’ergastolano Domenico Papalia ad un amico e pubblicata da Carmelo Musumeci, ex ergastolano ostativo, “per far sapere che nell’inferno delle carceri italiane si muore senza che a nessuno importi nulla”. Carissimo Francesco, ho ritardato a rispondere alla tua lettera perché aspettavo di eseguire alcuni accertamenti strumentali per la salute e dopo aver effettuato risonanza e tac che hanno dato esito negativo per la prostata, ma alcuni noduli nelle ossa del bacino, nei reni e varie parti del corpo. Il 27 luglio 2021 mi è stata fatta la biopsia alla prostata ordinata dall’urologo 15/02/2020 e devo darti una brutta notizia: il tumore alla prostata è maligno ed è andato in metastasi e questa è la causa dei noduli. L’oncologo mi ha ordinato una cura provvisoria in attesa della Pet per vedere fino a che punto è la metastasi. La Pet è fissata per ottobre, mentre qui su 4 farmaci ordinati dall’oncologo uno non ce l’hanno e la dottoressa è menefreghista e dice che non è importante. Pensa, hanno impiegato 17 mesi a farmi la biopsia, nonostante il Psa aumentava sempre e un medico degno di questo nome mi avrebbe preso in tempo la malattia. Invece quando andavo a evidenziare l’aumento veloce del Psa con la dottoressa, mi diceva: “Aspettiamo la biopsia che ho fatto il sollecito”. E questo purtroppo è il risultato. Purtroppo il carcere di Parma è un esecutore di condanne a morte, anche se si è in fin di vita non scarcerano nessuno, sono coalizzati: l’area educativa nelle relazioni mette sempre parere contrario all’esperienza extra muraria. L’Area sanitaria mette nelle relazioni che siamo seguiti e monitorati e compatibili e la magistratura di sorveglianza rigetta tutto. Credo che non c’è differenza di commettere un omicidio e chi può salvare una vita e la lascia morire cinicamente. Ti prego di sentire Carmelo e Nadia, se ha voglia Carmelo di fare un articolo per fare emergere la vergogna di questo carcere e il comportamento della magistratura di sorveglianza di Reggio Emilia e il tribunale di sorveglianza di Bologna. La settimana appena passata è venuta la mia avvocata di Perugia, avv. Daniela Pacco e sta preparando la richiesta di detenzione domiciliare, ma qui non danno nulla, la chiede per scrupolo, ma sappiamo che la risposta sarà negativa. Se occorre a Carmelo puoi dare copia di questa tua lettera. Scusa se in questa lettera ho parlato solo del mio problema e spero di trovarti bene. Saluta Mita, Nadia e Carmelo. Ti abbraccio con affettuosa stima. Domenico Papalia Frosinone. Detenuto spara contro le celle. Poi si arrende di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 20 settembre 2021 “L’arma arrivata con un drone”. L’uomo, di 30 anni, con legami con la camorra, è stato bloccato dagli agenti della Penitenziaria e trasferito in un’altra struttura. Nessuno è rimasto ferito. Giorni fa era stato coinvolto in una rissa. Il ministro Cartabia invia il capo del Dap. Una scena da film che preoccupa gli stessi operatori della polizia penitenziaria. Nel pomeriggio di domenica un detenuto di 30 anni del carcere di massima sicurezza di Frosinone, con collegamenti con la camorra, ha sparato alcuni colpi di pistola contro tre celle del suo reparto senza ferire nessuno. Dopo una breve trattativa, sembra in seguito a una conversazione telefonica avuta con il suo avvocato, chiamato con uno smartphone anch’esso entrato clandestinamente nell’istituto di pena, ha deciso di consegnare l’apparecchio e l’arma a un ispettore della polizia penitenziaria. Il giovane è stato quindi trasferito immediatamente in un altro carcere per motivi di sicurezza mentre sono scattate indagini per capire come la pistola e il telefonino siano entrati nell’istituto di Frosinone, già al centro da mesi di aggressioni al personale della Penitenziaria da parte dei detenuti, come anche di episodi di tensione. Dai primi accertamenti sembra che il recluso sia stato coinvolto il 16 settembre scorso in una rissa proprio nel suo reparto ma che non sia stato allontanato dalla cella e trasferito in un altro luogo. Da qui il collegamento con quanto accaduto domenica: il sospetto è che l’uomo possa essere riuscito a entrare in possesso della pistola grazie a contatti con l’esterno e abbia cercato di usarla dopo aver minacciato un sottufficiale della Penitenziaria affinché gli consegnasse le chiavi della cella per uscire. A quel punto, non essendo riuscito nel suo intento, il 30enne avrebbe aperto il fuoco senza colpire nessuno, prima di arrendersi. I sindacati di categoria della polizia penitenziaria sono mobilitati dopo quanto accaduto a Frosinone mentre il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha inviato a Frosinone il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia che lunedì presiederà una serie di riunioni per fare il punto della situazione, insieme con i vertici della Penitenziaria, ma anche quelli delle forze dell’ordine di Frosinone. A dare notizia di quanto accaduto nel carcere è stato per primo il sindacato Osapp con il segretario Leo Beneduci che sottolinea: “Il fatto è di una gravità inaudita e ferme restando le responsabilità riguardo all’introduzione in carcere di un’arma da fuoco, probabilmente solo il caso fortuito non ha condotto a più gravi conseguenze. Peraltro - dice ancora Beneduci - in un’Amministrazione quale quella Penitenziaria, in cui anche grazie alle iniziative della Guardasigilli Cartabia, i Provveditori Regionali fanno i professori e i professori universitari fanno i Provveditori Regionali, tanto da mettere costantemente in dubbio il ruolo della Polizia Penitenziaria, sia a riguardo della sicurezza interna ed esterna delle strutture, sia in ordine alle attività per il trattamento rieducativo dei detenuti, stante l’imperante confusione è legittimo aspettarsi il peggio”. Per il segretario generale del Sappe Donato Capece “quel che è accaduto nel carcere di Frosinone è gravissimo e conferma quel che diciamo da mesi: ossia che le carceri sono allo sbando. Se fossero state ascoltate le continue denunce del Sappe, probabilmente tutti gli eventi critici denunciati e questa stessa evasione non sarebbe avvenuta. E la cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario `aperto´, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria”. Capece chiede al ministro Cartabia “di adottare urgenti provvedimenti per trovare soluzioni sulle criticità del carcere dal versante del Corpo di Polizia Penitenziaria, soprattutto rispetto all’esigenza di sospendere la vigilanza dinamica ed il regime detentivo aperto che sono stati la causa principale della crescita esponenziale degli eventi critici in carcere. Il Sappe - conclude Capece - auspica di potere incontrare a breve la Guardasigilli per sollecitare tutele ai poliziotti per contrastare le aggressioni, le colluttazioni e i ferimenti che si verificano tante, troppe, volte all’interno dei penitenziari”. Per Massimo Costantino, segretario generale della Fns Cisl Lazio, “quanto accaduto nel carcere di Frosinone è un fatto gravissimo, dove un detenuto, napoletano, ha sparato colpi di pistola e minacciato altri detenuti, per un diverbio avvenuto alcuni giorni fa”. Si tratta, spiega ancora Costantino, di un “istituto dove più volte avevano chiesto interventi ed anche ispezioni proprio per la nota e cronica carenza di personale. Solo alcuni giorni fa il Provveditorato, dopo un incontro con le rappresentanze sindacali, aveva previsto l’invio di ulteriori 12 unità in ambito nazionale, che si aggiungevano ad altre inviate tramite mobilità nazionale. Urgono - conclude - interventi urgenti perché altrimenti collassa tutto il sistema penitenziario ed occorrono interventi immediati delle istituzioni ed anche, urgentemente, una ispezione”. E per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa Polizia Penitenziaria, “mentre attendiamo invano da mesi che la ministra Cartabia batta un colpo, nella casa circondariale di Frosinone i colpi arrivano, ma dalla pistola in possesso di un detenuto verosimilmente introdotta con un drone! Solo qualche giorno fa, dopo il secondo parto di una detenuta avvenuto in carcere, ci chiedevamo cos’altro dovesse accadere affinché il Governo facesse seguire alle passerelle e agli annunci atti concreti e tangibili. Ora altro è accaduto, facendo precipitare - è proprio il caso di dire - in un colpo i nostri penitenziari ai livelli di quasi mezzo secolo fa. A questo punto, anziché i gruppi di lavoro dei giorni scorsi, crediamo che serva costituire una vera e propria unità di crisi magari sotto l’egida di Palazzo Chigi”. Oristano. “Carcere sempre più invivibile”, è allarme rosso a Massama La Nuova Sardegna, 20 settembre 2021 Ogni giorno che passa la situazione si fa sempre più delicata. I detenuti della casa di reclusione continuano a reclamare un intervento immediato per risolvere una serie di problemi che stanno rendendo impossibile trascorrere le giornate all’interno del carcere di Massama. È lunghissimo il testo dell’ultima lettera, l’ennesima, che viene indirizzata anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alla ministra della Giustizia Mara Cartabia. Ma gli indirizzi sono tantissimi e la missiva è arrivata a tutte le massime autorità chiamate a gestire le carceri italiane. A rilanciare il caso, è stata ieri Sandra Berardi per conto dell’associazione Yairaiha Onlus che riporta l’elenco delle tante richieste fatte dai detenuti, il cui regime di pena sta diventando quanto mai problematico. A problemi ormai incancreniti e che esistono praticamente dal momento in cui è diventata operativa la struttura di Massama, se ne sono aggiunti di nuovi: in parte sono strutturali, in parte legati all’aumento del numero delle persone detenute, in parte all’emergenza sanitaria che ha costretto a rivedere anche la routine della vita all’interno della casa di reclusione. Così l’associazione prende posizione: “È triste constatare che a distanza di tempo ancora nessuna misura sia stata messa in campo da parte delle autorità e che i detenuti debbano subire un trattamento che poco ha a che fare con il recupero del reo e con la dignità e la funzione rieducativa della pena. È triste che a fronte di richieste più che legittime e ragionevoli i detenuti debbano ricorrere a forme di protesta, anche estreme ed autolesionistiche, per riuscire ad essere ascoltati da chi di dovere”. Torino. Il capo delle carceri minorili del Nordovest candidato No Green Pass di Federica Cravero La Repubblica, 20 settembre 2021 “Protesto in piazza, ne ho diritto”. Antonio Pappalardo, alto dirigente del ministero della Giustizia, corre con Italexit di Paragone e partecipa alle manifestazioni No Vax. “Ho un problema di coscienza: come farò a controllare i certificati verdi dei dipendenti?”. Uomo delle istituzioni - “Lavoro nella pubblica amministrazione da trent’anni, e da venti sono sono dirigente di uffici interregionali del ministero della Giustizia”, dice di sé - e candidato alle elezioni amministrative di Torino con un santino che recita “No Green Pass”. Sono i due volti di Antonio Pappalardo, in corsa per il Consiglio comunale e per la Circoscrizione 8, in cui vive, con la lista “Italexit” di Gian Luigi Paragone, per Ivano Verra sindaco. Pappalardo (solo omonimo del generale a capo dei “gilet arancioni”) è però anche a capo del Centro per la giustizia minorile di Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e provincia di Massa Carrara, che si trova a Torino: di fatto, è Pappalardo è al vertice della struttura che coordina tutti gli interventi in materia di trattamento della criminalità minorile, anche in collaborazione con istituzioni locali, magistratura, volontariato e privato sociale, a proposito dei carceri minorili Ferrante Aporti di Torino, il femminile di Pontremoli in provincia di Massa Carrara, i centri di prima accoglienza e i servizi sociali di Torino e Genova. Un incarico delicatissimo che ha ricoperto dal 2006 al 2017, prima di una parentesi a Firenze. Ora, da novembre 2020, è di nuovo a Torino. Ed è facile immaginare che la sua discesa in politica - per nulla nascosta, vista l’attività frenetica fatta sui social - possa suscitare polemiche. Come datore di lavoro lei dovrà controllare il Green Pass. Come si comporterà? “Al momento ho letto il decreto legge che entrerà in vigore a metà ottobre ma sono ancora in attesa della circolare attuativa che chiarirà molti punti. Certamente dal punto di vista professionale dovrò da un lato eseguire degli ordini che mi vengono impartiti a norma di legge in quanto responsabile e datore di lavoro. Dall’altra però questa norma è in forte contrasto con la mia coscienza. Per questo mi sto consultando con i miei legali per vedere se esista un punto di equilibrio per conciliare entrambe queste circostanze. Spero che possa esistere, ma non ho ancora una soluzione, la sto cercando. Intanto non mi chieda quanti dipendenti tra quelli che sono in servizio alla giustizia minorile non sono vaccinati: non lo so perché è un’informazione che non voglio sapere”. Perché ha scelto di candidarsi con Italexit? “In questo periodo ho approfondito prima come autodidatta e poi all’università alcuni temi e ad aprile ho conseguito la seconda laurea, dopo quella in Pedagogia, Scienze amministrative e giuridiche delle organizzazioni pubbliche e private. Questo mi ha permesso di avere conoscenze più solide sul fatto che il percorso avviato dall’Unione europea con il Trattato di Maastricht ha penalizzato il nostro Paese, privandolo della sovranità monetaria ed economica ma anche avviando una privatizzazione selvaggia, a discapito dello Stato, e pesanti tagli alla pubblica amministrazione: e io dal mio osservatorio ho potuto constatare quanto il depauperamento dei servizi abbia anche inciso sulla giustizia minorile”. La sua soluzione? “Mirare a quello che ha fatto la Gran Bretagna. Nel frattempo però ci misuriamo anche con i problemi quotidiani dei cittadini. Il tema che mi sta più a cuore al momento è quello delle libertà individuali che vengono lese dal Green Pass, ora che diventa obbligatorio pur non essendoci un obbligo vaccinale. Ho messo questo punto anche nel mio santino elettorale perché è fondamentale per me”. Lei è vaccinato? Visto che la descrive come una battaglia di principio per la libertà, nulla vieta che la porti avanti anche chi ha scelto di immunizzarsi. “Rispondo come aveva detto Massimo Cacciari in tv: sono fatti miei, è un’informazione che fa parte della sfera sanitaria personale”. Poi però Cacciari ha detto di essersi vaccinato e lo consiglia a tutti. “Noi non siamo sì vax o no vax, le persone devono avvalersi liberamente di questi farmaci che chiamano vaccini. Il tema per noi è il Green Pass, che a nostro avviso è un surrettizio modo di costringere le persone a vaccinarsi. La nostra idea è di spingere verso un modello diverso, per esempio guardando a quello che fa la Danimarca, in cui si fanno tamponi non invasivi a tappeto, a vaccinati e non, e soprattutto gratuiti. Critico fortemente il fatto che i tamponi siano a carico dei lavoratori perché questo crea una discriminazione tra lavoratori vaccinati e non”. Non pensa che, al di là delle scelte personali, la vaccinazione sia anche un’azione di responsabilità collettiva? “Se pensiamo alla responsabilità, credo che il governo Draghi abbia creato una spaccatura nella società, non un’unione. Lo si vede anche dal modo con cui tante persone trattano chi è contrario al Green Pass, facendo l’equivalenza: non vaccinato, allora appestato. “ Va in piazza alle manifestazioni contro il Green Pass? “Certo: a quella di ieri ho incontrato tantissime persone sia dentro il corteo, sia fuori: ho cercato soprattutto di parlare con chi era all’esterno della manifestazione e stava guardando. Molti si giravano dall’altra parte con un’ostilità che a mio avviso deriva anche dall’informazione unilaterale che viene fatta sui vaccini”. Come si pone di fronte alle minacce e alle fake news che, in particolare su Telegram, circolano in molte chat contro il Green Pass? “Vero è che circolano notizie infondate ma rispondo come risponde Gian Luigi Paragone: non ci sarebbero se non ci fosse un’esagerata informazione a senso unico sui media mainstream, che censurano anche autorevoli studi non allineati sui vaccini. Sulle tensioni e le minacce invece sono assolutamente contrario a ogni protesta che non stia dentro la legalità: ci vuole rispetto anche per i giornalisti, pur criticando certe posizioni della stampa, e ci vuole il massimo rispetto per le forze dell’ordine, dove ci sono molti agenti che hanno fatto scelte personali di non aderire alla vaccinazione e adesso sono alle prese con il Green Pass”. Cosa hanno detto i suoi superiori al ministero di questa sua candidatura? “Non sono stati avvertiti, non sono tenuto ad avere un’autorizzazione per candidarmi. Per fare campagna elettorale avrei potuto prendere un’aspettativa, invece mi sono messo in ferie dal momento che avevo accumulato molti giorni: è stata una mia valutazione, fatta comunque per non inficiare la mia carica. In ogni caso sono pochi i ruoli in cui c’è incompatibilità con una candidatura e il mio non è tra questi: per questo è un mio diritto sia l’elettorato passivo sia quello attivo”. E se sarà eletto ci sarà incompatibilità con il suo ruolo da dirigente? “Sì, in quel caso mi metterei in aspettativa”. Prima esperienza in politica? “Mi ero già candidato alle Politiche del 2013 con la lista Rivoluzione civile di Antonio Ingroia. Ma l’esperienza era finita lì, non avevamo fatto eletti”. Non si può dire che scelga battaglie facili al risultato alle urne. “Diciamo che sono contrario alla politica come professione e non apprezzo coloro che si candidano per grandi partiti, qualunque essi siano, solo perché così è più facile ottenere degli incarichi. Io ho una visione dell’impegno politico che riporta all’antica Grecia, che crede in certi valori e cerca di attuarli”. Quali sono altri punti nel vostro programma per la città, oltre alla questione Green Pass? “Stiamo lavorando per valorizzare i prodotti locali, sia agricoli sia artigianali o industriali, con il marchio ‘Fatto a Torino’. Poi vorremmo più sostegno per le famiglie in difficoltà e anche più sicurezza, con un numero maggiore di pattuglie in strada di notte. In questo senso crediamo che si possa superare la vecchia impostazione in cui welfare e sicurezza sono alternativi. Soprattutto crediamo che non siano più il primo appannaggio della sinistra e il secondo della destra. Esiste un punto di equilibrio per garantire entrambi questi aspetti della vita cittadina e andare oltre la vecchia politica”. Se non ci fosse un vincitore al primo turno, avete pensato ad alleanze con altri partiti al ballottaggio? “No, non ci abbiamo pensato e non crediamo di farne. A meno che non arriviamo noi, al ballottaggio...”. La giustizia che riconosce l’umanità di Giovanni Medolago La Regione, 20 settembre 2021 Incontro dedicato alla giustizia riparativa, al Festival Endorfine, con la figlia di Aldo Moro e gli ex Br Adriana Faranda e Franco Bonisoli. 43 anni dopo il rapimento Moro, le ferite non si sono del tutto rimarginate, ma si è recuperata l’idea di “giustizia riparativa”. 16 marzo 1978: il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro esce di casa per raggiungere la Camera dei Deputati, dove dovrebbe dar vita a un governo di centro-sinistra con l’appoggio esterno del Pci di Enrico Berlinguer, il segretario-profeta dell’eurocomunismo (guarda con scetticismo ai compagni del Cremlino moscovita), e soprattutto di quel “compromesso storico” ai suoi occhi più che necessario per scongiurare all’Italia lo stesso destino del Cile, dove lo scontro sinistra-destra aveva portato pochi anni prima (con la complicità della Cia) alla dittatura del ‘carnicero’ Pinochet. Moro vedeva in un governo Dc-Pci la congiunzione delle sue celebri “convergenze parallele”, ma alla Camera non giunge mai. Alle 8.30 in Via Fani un commando delle Brigate Rosse ferma la sua auto e quella della scorta, uccide due carabinieri e tre poliziotti e sequestra il presidente Dc. È certo l’azione più eclatante dei cosiddetti anni di piombo: “Un’incredibile dimostrazione di geometrica potenza militare” la definì Franco Piperno, esponente di spicco di Potere operaio epperò sovente in aperto, duro contrasto con Renato Curcio, fondatore con la moglie Cagol delle Br. Dalla bomba di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) l’Italia viveva uno scontro sociale purtroppo regolarmente ravvivato da qualche omicidio sospetto (Giuseppe Pinelli a Milano, Giorgiana Masi a Roma, Francesco Lorusso a Bologna) e nelle manifestazioni di protesta in varie città spuntavano le P38. Alla “violenza di Stato” le Br reagivano uccidendo o gambizzando quelli che ai loro occhi apparivano pericolosi “servi del potere”. In realtà autentici gentiluomini, come il professor Vittorio Bachelet o il giudice Alessandrini, caduti sotto le pallottole dei terroristi e vittime altresì di chi gridava “lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”. Il tragico epilogo del rapimento Moro, possiamo azzardare oggi, segnò il pur lento declino delle Brigate Rosse, le quali persero gran parte di quelle simpatie così diffuse tra giovani e no che inquietavano Berlinguer. A distanza di 43 anni da quegli avvenimenti le ferite non si sono del tutto rimarginate, ma nel frattempo si è recuperata la nozione di “giustizia riparativa”, concetto antichissimo che vorrebbe affiancare la giustizia penale e “che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte” (G. Zagrebelsky). Ne hanno discusso sabato a Lugano, nell’ambito del Festival Endorfine, alcuni protagonisti (e vittime) della stagione terroristica: Agnese Moro (figlia del politico pugliese), Adriana Faranda e Franco Bonisoli (che spararono in Via Fani, quasi quarant’anni di galera in due) e Giorgio Bazzega, il quale aveva tre anni quando suo padre maresciallo cadde in un conflitto a fuoco col brigatista Walter Alasia a Sesto San Giovanni. Tutti e quattro si sono ritrovati sulla via della “giustizia riparativa” su invito di Padre Guido Bertagna (gesuita e biblista cresciuto alla scuola del Cardinal Martini), con lo scopo ultimo di ricostruire una relazione, quel tessuto sociale che un reato ha strappato o addirittura distrutto. “Non sapevo cosa mi aspettasse - confessa la signora Moro - ma mi colpì il fatto che Padre Guido fu forse il primo a interessarsi del mio dolore intimo. Da tempo sentivo solo domande su Via Fani, su cosa provassi nei confronti di chi l’aveva rapito (covavo sentimenti feroci come odio e rancore), mentre lui mi aiutò a uscire da quelle gocce d’ambra dove mi ero rinchiusa come un insetto, togliendo senz’altro qualcosa a tutti i miei cari”. Anche Bonisoli ha avuto parole di stima e riconoscenza per Padre Guido: “Non gli interessava il mio passato. Voglio sapere chi sei ora!, mi disse. Dopo anni era la prima volta che mi vedevo riconosciuto come persona da qualcuno cui non interessavano le mie colpe. Mi convinsi definitivamente a intraprendere il percorso di ri-generazione quando, al nostro primo incontro, Agnese mi accolse in casa sua dicendomi: “Vieni Franco, amico mio!”. Ci siamo detti cose indicibili, ma ciò mi è servito anche per recuperare il rapporto con mia figlia, che per un certo periodo avevo il terrore che potesse seguire il mio esempio…”. È il turno della Faranda, e si stenta a crederle quando confessa - lei abilissima col kalashnikov - di essere emozionata dinnanzi al folto quanto attento pubblico luganese. “La giustizia riparativa mi è stata indispensabile per recuperare quelle relazioni umane che, quando ho aderito alle Br, mi sembravano false e ipocrite. Ho capito che è possibile andare avanti solo affrontando le mie responsabilità verso chi è rimasto vittima dalle mie scelte e cercando di rimediare all’irreparabile. E ho dato un’altra dimensione al tempo, che ho dedicato all’ascolto, al confronto e al dialogo. Una cesura col passato indispensabile per ritrovare la tranquillità interiore. Ho sofferto soprattutto per l’abbandono di mia figlia: aveva 5 anni quando sono entrata in clandestinità e l’ho ritrovata al momento del mio arresto, quando ne aveva 9. In carcere mi chiese: “Mamma, è vero che sei una spaventatrice?”. Era la sua infantile definizione di terrorista, nata dal suo desiderio di proteggermi e consolarmi”. Giorgio Bazzega ricorda che quando Curcio fu scarcerato si sentì tradito dallo Stato (“Ero io l’ergastolano, con addosso la pena eterna del dolore”) e che addirittura aveva stilato una lista di terroristi da uccidere per vendicarsi. “Fu l’incontro con Mario Milani, marito di una delle vittime della bomba di Brescia (1974), a farmi cambiare prospettiva: mi colpì la sua serena quanto ferrea determinazione nel voler ritrovare un certo equilibrio interiore. Abbandonai poi ogni desiderio di vendetta quando Agnese mi diede la sua definizione di perdono: riconoscere l’umanità in chi abbiamo di fronte, qualunque siano le colpe di cui si è macchiato”. In fondo, un pensiero che va benissimo anche per riassumere il complesso concetto di giustizia riparativa. Festivafilosofia, il tema del prossimo anno sarà Giustizia di Paolo Petroni ansa.it, 20 settembre 2021 Sarà Giustizia il tema trattato il prossimo anno dal Festivalfilosfia di Modena, Carpi e Sassuolo dal 16 al 18 settembre 2022, come ha annunciato il sindaco modenese Giancarlo Muzzarelli. “Un tema connesso a quello di quest’anno, Libertà, perché è evidente che se non c’è giustizia non c’è libertà”, come sottolineato subito Massimo Cacciari, membro del comitato scientifico della manifestazione, assieme a Marc Augé, Michelina Borsari e Barbara Carnevali. Un tema di attualità in un momento di proposte di una grande riforma del nostro sistema giudiziario. È stato anche fatto dal direttore scientifico Daniele Francesconi un bilancio di questa edizione che si conclude stasera, facendo notare come tutto si sia svolto tranquillamente secondo regole e sistemi di sicurezza previste dalle norme antipandemia, che prevedevano anche una limitazione delle presenze, legate a prenotazioni. Nonostante questo si sono superate le 35mila presenze per le 45 lezioni magistrali, il che equivale a un quasi tutto esaurito e a un bilancio già migliore di quello dello scorso anno. Del resto, ricorda Francesconi, per certi relatori come Cacciari, Galimberti, Marzano, Recalcati le richieste di prenotazione sono state quattro o cinque volte quelle possibili. “In questi giorni si è risentita l’energia che questo festival riesce sempre a mettere in circolo - dice Borsari - e serviva quindi un tema forte e questo di Giustizia si lega a quello di diseguaglianza, che secondo le ricerche storiche è in diminuzione da tre secoli, ma ha subito forti rallentamenti negli ultimi dieci anni, con una parte minima che accumula sempre più ricchezze aprendo drammaticamente la forbice col resto della popolazione. Allora si dovrà mettere una lente critica su tutti i meccanismi che hanno giustificato nel tempo le diseguaglianze, per parlare appunto di Giustizia”. Che bisognerà anche lavorare sui nuovi soggetti di giustizia che in un’ottica riparativa diventano protagonisti, dai minori agli animali o la natura, solo per fare esempi di attualità, aggiunge Carnevali. Per Cacciari, sul piano più teorico, si dovrà cominciare dal giustificare e esaminare il termine Giustizia in tutta la sua storica problematicità, quindi passare al rendere giustizia affrontando i temi possibili. Tutto senza dimenticare che la giustizia deve giustificarsi, così, solo per dare alcune prime possibilità di discussione e indagine: le leggi devono giustificarsi, avendo una propria necessità e ragione nella capacità di fare giustizia, e lo stesso vale per le pene, che, se sono violente e non hanno una funzione di recupero e reinserimento, cessano di essere giustificate e di poter essere legate al tema appunto della giustizia”. Il sindaco Muzzarelli ha sottolineato e l’importanza che la cultura sia tornata ancora una volta, in questi tre giorni, a essere protagonista, “perché è questa alla base di uno sviluppo sostenibile in un momento in cui si vuole ridisegnare la mappa di una città migliore, proprio con sociologi e filosofi assieme a urbanisti e architetti. È pericoloso fare politica cavalcando la paura di Mauro Magatti Corriere della Sera, 20 settembre 2021 A proposito della questione immigrazione, una parte della popolazione vuole uno Stato più interventista e attivo. Ma sul Covid si critica proprio questo comportamento. Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, l’evidenza ci dice che, anche nelle società avanzate, le emozioni contano tanto quanto (e in alcuni casi più) degli argomenti razionali. In particolare, la paura rimane una chiave preziosa per comprendere le dinamiche della vita sociale contemporanea. La cosa non dovrebbe sorprendere: in una società presa nella spirale di una trasformazione continua e accelerata e (di conseguenza) esposta a forti shock (per esempio il terrorismo, la crisi finanziaria, il Covid, etc.), ci ritroviamo spesso in situazioni che non conosciamo e che, rimettendo in discussione le nostre certezze, presentano un tratto minaccioso. La sedimentazione del cambiamento ha i suoi tempi che non possono essere compressi più di tanto. Come vediamo con le resistenze ai nuovi vaccini usati per combattere il Covid, la paura costituisce un effetto collaterale non trascurabile dell’innovazione. Anche perché, nella realtà dei fatti, anche i sistemi più avanzati hanno mostrato di essere ben più vulnerabili di quanto di solito non si voglia ammettere. La lezione di questi anni è che i discorsi razionali su progresso, innovazione, scienza, crescita tendono a sottovalutare i lati oscuri che questi stessi processi producono e che tendono poi a scaricarsi - o almeno a essere percepiti in modo più acuto - su una quota minoritaria (ma non trascurabile) della popolazione. Si tratta di un problema strutturale che non solo condiziona la dinamica democratica, ma rischia anche di pregiudicare il raggiungimento di obiettivi di interesse generale (come vediamo oggi con la campagna vaccinale). Proprio il persistere della paura spiega la discrasia che continuamente si manifesta tra il piano della conoscenza, che tende alla “certezza” scientifica e alla universalità della dimostrazione, e il piano della democrazia, che vive di opinioni ed emozioni. Gli effetti sono ben evidenti. Oggi in Italia si è vaccinato più del 70% della popolazione e il ministro Speranza afferma che sia possibile arrivare all’80% a fine settembre. Da tanti punti di vista un successo senza precedenti. D’altro canto, il 20% di italiani non vaccinati sono 10 milioni di persone di cui molti in età a rischio. Così, noi oggi prendiamo atto di un problema per certi versi nuovo: in democrazia decide la maggioranza e la minoranza si deve adeguare. Ma ci sono situazioni (come quella della campagna vaccinale) in cui il rapporto tra maggioranza e minoranza diventa più complicato. Ponendo questioni oggettivamente delicate, come quella dell’obbligo vaccinale. Come tutte le emozioni, la paura - che nasce dalla percezione di una minaccia - è volubile e contraddittoria. Cosi, la protesta di queste settimane contro il green pass rivendica più libertà, denunciando il pericolo di una intromissione nella vita personale da parte dell’autorità pubblica. Tutto il contrario di quello che invece si chiede a proposito della questione immigrazione, dove si vuole uno Stato più interventista e attivo. Anche se opposti, questi due atteggiamenti sono accomunati dalla difficoltà di adattamento di una parte della popolazione ai cambiamenti associati al nostro modello di sviluppo. Il punto che continuamente si sottovaluta riguarda le difficoltà di ordine pratico e cognitivo che vivere in una società avanzata comporta. Più che la tradizione, oggi è l’innovazione la fonte della fatica, dell’ansia, della paura. Mentre l’insofferenza verso i migranti esprime il disagio di chi si sente esposto a fenomeni globali senza una protezione adeguata, la contestazione del green pass è il sintomo del malessere che nasce dalla quantità di regole, standard, procedure, protocolli che progressivamente vengono introdotti per raggiungere obiettivi di interesse generale: siano essi la salute pubblica, la sostenibilità ambientale, la lotta alle infiltrazioni mafiose. Una tendenza (destinata solo a peggiorare) che concretamente si traduce in un carico di vincoli che pesano sulla vita delle persone e delle organizzazioni, producendo un forte senso di soffocamento. Di fatto, il governo di sistemi complessi tende a tradursi in un inasprimento regolamentativo che finisce per intrappolare la libertà. Qui nasce la questione dell’uso politico delle paure presenti nella nostra società. È noto che le spinte populiste - che nel corso degli anni hanno cambiato la natura dei partiti di destra - si alimentano di questi stati d’animo diffusi. D’altro canto, rappresentare questa parte di società non solo è legittimo, ma doveroso. Peggio sarebbe abbandonare a loro stessi questi gruppi, col rischio della loro radicalizzazione. E tuttavia, per questi partiti rimane da capire come fare per rendere politicamente sensata e produttiva la protesta, senza limitarsi a sfruttarla ai fini elettorali. Tanto più quando si decide di assumere una responsabilità di governo. La storia insegna che pensare di governare cavalcando la paura porta a disastri. Il problema è scavare dietro lo smarrimento di molti, riconducendolo alle tensioni e alle contraddizioni associate al nostro modello di sviluppo per arrivare così a soluzioni concrete, cioè efficaci e proprio per questo impegnative ed esigenti. L’alternativa, come si è visto in diversi Paesi nei mesi dell’emergenza Covid, è prendere in giro i cittadini e indebolire la democrazia, col rischio di scatenare una rabbia sociale fuori controllo. Femminicidi: sto con Murgia, ma le leggi ci sono di Michela Marzano La Stampa, 20 settembre 2021 Quanto vale la vita di una donna? Basta introdurre misure repressive sempre nuove per salvare una vittima? Da quando, nel 2013, fu ratificata la Convenzione di Istanbul, sono state tante le leggi approvate dal Parlamento per contrastare le violenze domestiche, i maltrattamenti, lo stalking, la diffusione illecita di immagini e video, i matrimoni forzati e i femminicidi. Norme molteplici e complesse che hanno via via modificato non solo il Codice penale, ma anche il Codice di procedura penale, aumentando le pene, costruendo nuove fattispecie di reati e introducendo corsie preferenziali per le denunce di stalking e le indagini preliminari. Ma allora com’è che, nel nostro Paese, le violenze e i femminicidi non diminuiscono? Ha ragione Michela Murgia quando scrive che “non trattiamo le denunce di stalking con gli stessi strumenti con i quali affrontiamo persecuzioni di altra natura”? Fa bene Antonio Padellaro ad attaccare la ministra Cartabia perché, in seguito alla sua riforma, uno stalker potrà essere assolto invocando il “reato tenue”? Sono ovviamente d’accordo con molte delle critiche di Murgia e Padellaro: di fronte alla quantità spaventosa di femminicidi - sette negli ultimi dieci giorni - non possiamo non arrabbiarci, non invocare pene sempre maggiori oppure anche l’intervento del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica che agisce nei casi di minacce da parte della criminalità organizzata. Ma sono pure profondamente convinta che molte leggi approvate negli ultimi anni siano giuste, e che ciò che manca sia soprattutto una loro corretta applicazione. Quanti sono, d’altronde, gli uomini denunciati cui viene davvero impedito di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalle vittime? Quanti di questi uomini sono realmente controllati attraverso l’uso dei braccialetti elettronici? Quanti soldi arrivano ai Centri antiviolenza? Quanti membri delle forze dell’ordine hanno seguito corsi di formazione e di sensibilizzazione? Se non si proteggono adeguatamente le vittime e non si agisce a livello culturale, possiamo anche continuare ad approvare nuove norme punitive, ma non cambierà mai niente. Nulla riporta in vita una donna ammazzata. Esattamente come nulla ripaga del dolore e delle umiliazioni subite coloro che, per anni, non sono state ascoltate o accudite o accompagnate o liberate. La violenza che alcuni uomini fanno subire alle donne non potrà essere efficacemente contrastata finché si continuerà a sottovalutarne le radici, le cause e le diramazioni. Non basta infatti invocare la permanenza del patriarcato o la brutalità del maschio per capire quanto accade ogni giorno in tante case e in tante famiglie. Ormai abbiamo bisogno di analisi più articolate e di categorie leggermente diverse. Anche semplicemente perché gli uomini violenti sono spesso persone fortemente disturbate, persona da curare e accompagnare prima che commettano l’irreparabile. Insicuri e incapaci di sapere chi sono veramente, questi uomini si convincono pian piano che le responsabili di ogni loro fallimento siano le donne. Narcisisticamente fratturati, odiano tutte coloro che non riescono a ripararli. Frustrati e insoddisfatti, covano rabbia e violenza. Che riversano poi contro le donne, anche se poi, dopo averle distrutte, non resta loro altro che suicidarsi. Il dramma delle violenze contro le donne inizia molto presto. Ha radici nell’infanzia e nell’adolescenza e non è certo la paura della pena che può salvare le donne dalla furia dei propri persecutori. Fino a quando non si affronteranno in maniera seria la questione della presa in carico degli uomini maltrattanti e il tema della prevenzione, non si riuscirà a fermare nessuno di questi assassini né, tantomeno, a evitare che la violenza venga trasmessa da una generazione all’altra. Consiglio d’Europa. Carceri, impatto della pandemia di Covid-19 sulla salute mentale coe.int, 20 settembre 2021 Gli effetti della pandemia di Covid-19 sulla salute mentale di detenuti e del personale penitenziario e il maggiore utilizzo delle nuove tecnologie saranno al centro del programma della conferenza annuale del Consiglio d’Europa dei direttori dei servizi penitenziari e di libertà vigilata, che si terrà il 20 e il 21 settembre a Funchal sull’isola di Madeira (Portogallo). Organizzata congiuntamente dai servizi penitenziari e di libertà vigilata portoghesi sotto il tema “Getting ahead of the pandemic” (conseguire un vantaggio sulla pandemia), l’evento analizzerà in che modo la pandemia ha colpito la salute mentale di detenuti e personale penitenziario e gli insegnamenti da trarre, compreso il trattamento dei detenuti con disabilità mentali e disturbi psicologici. La conferenza esaminerà inoltre gli aspetti etici e organizzativi dell’aumento dell’uso delle nuove tecnologie, in particolare dell’intelligenza artificiale, da parte dei servizi carcerari e di libertà vigilata, che ha registrato un dinamico sviluppo durante la pandemia. I partecipanti discuteranno ugualmente dei dati statistici relativi alla pandemia raccolti nel corso degli ultimi mesi e della gestione delle persone incriminate o condannate per reati sessuali, questione sulla quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sta preparando una serie di raccomandazione rivolte agli Stati al fine di guidare le autorità nazionali nelle loro legislazioni, politiche e prassi. Apriranno la conferenza Francisca Van Dunem, Ministra della Giustizia del Portogallo, e l’Ambasciatore Christian Meuwly, Rappresentante permanente della Svizzera presso il Consiglio d’Europa e Presidente del Gruppo dei relatori del Comitato dei Ministri sulla cooperazione giuridica. Apriranno la conferenza, Jan Kleijssen, Direttore della società dell’informazione e della lotta alla criminalità del Consiglio d’Europa; Jorge Carvalho, Segretario per l’Educazione, la Scienza e la Tecnologia del Governo Regionale di Madeira, e Irineu Barreto, Rappresentante della Repubblica per la Regione Autonoma di Madeira. Il discorso introduttivo sarà pronunciato da Alan Mitchell, Presidente del Comitato per la prevenzione della tortura. Egitto. L’attivista Abdel Fattah dal carcere: “Penso al suicidio” di Alessandra Fabbretti agenziadire.com, 20 settembre 2021 Il blogger, detenuto nel carcere di Tora dove è stato anche Patrick Zaki, è accusato di terrorismo e diffusione di notizie false. “Ho iniziato a pensare al suicido. Per favore fate le condoglianze a Laila, mia madre, per me”. Queste parole sono state pronunciate dall’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah, così come hanno riferito i suoi avvocati alla famiglia. L’uomo le ha pronunciate in presenza anche del giudice durante l’udienza che si è svolta il 12 settembre scorso per il rinnovo della detenzione cautelare, un fermo che è stato poi rinnovato. Fattah, che oggi ha 40 anni, è stato uno dei principali animatori delle proteste popolari che a Piazza Tahrir, nel 2011, portarono alla fine del governo del presidente Hosni Mubarak. L’attivista, difensore per i diritti umani e blogger, però, è stato arrestato e rilasciato varie volte tra il 2013 e il 2015 e infine condannato a cinque anni di carcere con l’accusa di aver organizzato una protesta non autorizzata. Scontata la pena, è uscito nel marzo del 2019, ma nel settembre successivo è stato arrestato nuovamente durante le manifestazioni popolari che riportarono nuovamente a piazza Tahrir centinaia di egiziani, stavolta contro il governo di Abdel Fattah Al-Sisi. Contro il blogger sono stata formulate accuse di terrorismo e diffusione di notizie false. Andel Fattah è stato rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Tora, dove sconta la detenzione cautelare in isolamento. “Le privazioni cui Alaa è soggetto includono il divieto di leggere e fare attività fisica. Durante le interminabili giornate in cella perde la cognizione del tempo e non sa che ora sia, perché non gli è permesso avere un orologio”. Così ha denunciato Laila Soueif, docente universitaria e madre di Abdel Fattah, intervistata dall’organizzazione EgyptWide. Anche la donna è finita nelle cronache quando nel maggio del 2020 fecero scalpore le foto che la ritraevano addormentata sul marciapiede accanto all’ingresso del carcere del Cairo, dove aveva deciso di pernottare pur di ottenere informazioni sulle condizioni di salute del figlio, che aveva iniziato coi compagni uno sciopero della fame per protestare contro la morte in cella di un detenuto. In quell’occasione, venne arrestata anche la figlia di Soueif e sorella di Alaa, Mona. Ad EgyptWide, la docente ha tenuto a precisare: “Centinaia, forse migliaia di persone subiscono abusi come quelli di Alaa, e forse anche peggiori. In certi casi, per anni vengono negate le visite familiari. In questo senso, è irrilevante che le accuse contro Alaa siano fondate o meno. Niente può giustificare il trattamento cui è sottoposto in carcere”. Dopo il messaggio che Alaa Abdel Fattah ha fatto pervenire alla sua famiglia, la madre ha lanciato una campagna social per la sua liberazione e, parallelamente, come riporta EgyptWide, “ha inviato una richiesta formale all’autorità carceraria del penitenziario di Tora 2 circa la mancata attuazione dei provvedimenti per il miglioramento delle condizioni detentive di Alaa che era stata promessa mesi prima, ma che non ha ancora prodotto risultati concreti”. EgyptWide continua: “La dottoressa ha inoltre presentato un nuovo esposto alla Procura e al dipartimento competente presso il ministero degli Interni contro l’agente della sicurezza nazionale (Nsa) che ha aggredito Alaa al suo ingresso nel carcere subito dopo il suo arresto nel settembre 2019. Nonostante la famiglia avesse già presentato diversi esposti contro l’agente, l’aggressione non è mai stata investigata”. Alcuni giorni fa, Alaa ha scritto una lettera alla madre per tranquillizzarla del fatto che non intende mettere fine alla sua vita: “Mi dispiace averti fatta preoccupare - si legge nella missiva, che sta circolando sui social media degli attivisti - ma è stato un periodo molto duro e sento che dovrò trascorrere il resto della vita qui, perennemente sotto sorveglianza, almeno fino a quando sarò ritenuto troppo vecchio per costituire una minaccia. Non riesco a immaginare come potrò essere un padre per Khaled (il figlio di Alaa, ndr), che posso vedere per venti minuti una volta ogni qualche mese fino a quando sarà adolescente. La mia capacità di immaginare il futuro si è spenta”. Il blogger continua: “La cosa più difficile però, è dover restare rinchiuso per 24 ore al giorno senza poter fare nulla di utile, senza niente per tenere impegnata la mente. Le uniche attività che mi vengono concesse sono una partita a scacchi al giorno” probabilmente da solo, precisa EgyptWide, dal momento che non gli è permesso incontrare nessuno, “e di poter cucinare una volta ogni tanto”. L’attivista tuttavia alla madre promette: “Sarò forte. Ho promesso a me stesso che sarei stato io a organizzare il tuo funerale e a ricevere le condoglianze per la tua scomparsa, e non il contrario, ed è questa promessa a tenermi in vita”. Diverse organizzazioni per i diritti umani stanno denunciando da tempo arresti e detenzioni arbitrarie in Egitto, che colpirebbero in particolare gli oppositori di Al-Sisi e i difensori dei diritti umani. Anche le Nazioni Unite e un gruppo di deputati del Parlamento europeo hanno esortato Il Cairo a porre fine a questa situazione. In Italia, il caso più noto riguarda quello dello studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, anche lui rinchiuso nel carcere di Tora dal 2020 ma rinviato a giudizio solo a inizio mese per diffusione di false notizie per un articolo in cui denunciava le vessazioni subite dalla minoranza copta. Pochi giorni fa, il governo egiziano ha pubblicato un documento in cui ha definito la nuova Strategia nazionale per i diritti umani, un testo accolto con diffidenza dalle associazioni. Nelle ultime ore il presidente ha anche annunciato che sarà presto costruito il più grande istituto penitenziario del Paese. Da quando il generale Al-Sisi è salito al potere, in Egitto sono stati costruite almeno tredici carceri. In questo quadro, nonostante gli appelli a fare pressioni sul governo del Cairo, il Dipartimento di Stato americano ha rinnovato gli aiuti militari che ogni anno vengono accordati al governo egiziano, pari a 1,3 miliardi di dollari, stabilendo che solo 130 milioni verranno sbloccati a patto che “l’Egitto prenda misure precise in materia di diritti umani”. Egitto. L’uomo che marcia per Zaki di Chiara Baldi La Stampa, 20 settembre 2021 Dal Garda a Roma, l’impresa di Marino per chiedere la cittadinanza per lo studente egiziano. In un mese un milione e mezzo di passi: “Nel lockdown ho capito che dovevo fare qualcosa”. Un milione e mezzo di passi attraverso cinque regioni, dalla provincia di Brescia a Roma. Trenta giorni di tempo per coprire a piedi 880 chilometri, con la sola compagnia di uno zaino di 11 chili e di Francesco, un amico torinese che lo raggiungerà a Bologna per accompagnarlo in questa impresa. Marino Edoardo Antonelli, 59 anni, partirà questa mattina dalla sua casa di Rezzato, nel Bresciano, per raggiungere il 19 ottobre Roma: nel mezzo, tante tappe - Bologna, Firenze, Assisi - che raggiungerà passo dopo passo seguendo l’antica via di San Francesco. L’obiettivo è chiedere al governo italiano di riconoscere la cittadinanza a Patrick George Zaki, lo studente dell’Università di Bologna di origini egiziane che dal 7 febbraio 2020 è detenuto in un carcere del suo Paese con l’accusa di aver fatto propaganda sovversiva: il 14 settembre, nel corso di una udienza durata cinque minuti, sono decadute le accuse più gravi come quelle per “istigazione a commettere atti di violenza e terrorismo” e “appello al rovesciamento dello Stato”, per le quali il ricercatore rischiava una condanna fino a 25 anni. “Ho appena finito di fare lo zaino, è stata una bella impresa perché ho dovuto selezionare le cose che posso portarmi dietro”, racconta Antonelli la sera prima di mettersi in viaggio. Tre paia di pantaloni, tre maglie, tre t-shirt bianche con la faccia di Zaki stilizzata e la scritta “freedom for” (“libertà per”, ndr) e il Qr-Code che rimanda alla raccolta firme per il ricercatore. Oltre a tanti ricambi per l’intimo e vari carica-batterie per il telefono - con il quale documenterà la sua impresa - e i farmaci. “Tra le cose che ho messo nello zaino, poi, c’è anche la “credenziale di San Francesco” che è una sorta di passaporto che viene compilato con un timbro e la data non appena si arriva in una delle tappe del percorso. È come la conchiglia per chi fa il camino de Santiago”. “Conto di potermi lavare ogni tre giorni per cui è necessario avere cambi a sufficienza. E spero davvero che il tempo sia migliore di come è ora, visto che a Brescia oggi (ieri per chi legge, ndr) sta piovendo da ore. Se dovesse fare un mese di temporali sarà difficile mantenere gli obiettivi prefissati, che sono di 30-35 chilometri al giorno. Un crono programma che mi consentirà di arrivare a Bologna tra il 25 e il 26 settembre, a Firenze intorno al 29-30 settembre e, infine, sulla via di San Francesco verso la marcia della Pace di Assisi il prossimo 10 ottobre. Infine, prevedo l’arrivo a Roma il 19 ottobre: nella capitale mi fermerò tre giorni per poi tornare a Brescia in treno”. L’idea della “Walking for Zaki”, Antonelli l’ha avuta nel corso del primo lockdown: “Mentre noi in Italia eravamo chiusi in casa per un periodo di tempo limitato eppure ci lamentavamo costantemente di questa “reclusione”, a pochi chilometri dal nostro Paese c’era un giovane che senza alcuna colpa stava scontando una reclusione durissima. Ecco, pensando a questo, ho capito che dovevo fare qualcosa. E alla fine a me piace camminare, ho fatto tanti cammini in passato, anche più volte quello di Santiago de Compostela, e ho pensato che fosse simbolico un cammino per Patrick, perché anche lui possa tornare a camminare”. Per oltre un anno, dunque, Antonelli ha organizzato nei minimi dettagli il suo cammino. Poi a luglio di quest’anno ha conosciuto la community “Station to Station” che ha promosso su Change.org la raccolta firme per chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana in favore dello studente: da quelle 274 mila firme erano nate poi le mozioni approvate in Parlamento ormai cinque mesi fa. All’arrivo a Roma saranno proprio i ragazzi di “Station to Station” a tenere un flashmob per sollecitare il governo a portare a compimento l’iter di conferimento della cittadinanza a Zaki. “Con il mio pellegrinaggio non voglio dire alle istituzioni cosa fare nel gestire i rapporti con l’Egitto ma credo che a questo punto sia necessario che il governo intervenga per fare in modo che Zaki diventi un cittadino italiano”, conclude Antonelli. Afghanistan. A Herat dentro la base italiana Campo Arena: ecco cosa resta di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 20 settembre 2021 Per 15 anni è stata la principale base italiana nel Paese, ora tutto è ancora così come l’hanno lasciato i militari italiani a inizio giugno. I talebani: “Avete solo sprecato un mucchio di soldi”. Dal nostro inviato a Herat - Entrati nel perimetro di Campo Arena è difficile non essere colti da un senso di melanconico sgomento. Uno spreco di risorse, speranze, progetti, energie che supera ogni immaginazione. Questa è stata per un quindicennio la base militare italiana principale in Afghanistan. A circa tre mesi dal ritiro dell’ultimo contingente, mostra il volto triste e abbandonato di una clamorosa sconfitta, costata miliardi e a tutti gli effetti assolutamente inutile. “Voi italiani, assieme agli americani e agli altri componenti della coalizione internazionale avete garantito un mucchio di aiuti alle forze di sicurezza afghane: armi, addestramento, sostegno logistico. Però non avete dato loro un elemento fondamentale: la volontà di combattere, il morale di resistere. La loro sconfitta era inevitabile”, dice Mohammad Israil, il comandante talebano oggi in controllo dell’aeroporto civile, che il 13 agosto entrò in modo del tutto pacifico dalla porta principale di Campo Arena e da allora ne è responsabile della custodia, senza peraltro saper bene cosa fare di tutto ciò che ancora contiene. Una fuga frettolosa - Passare per la vecchia piazza d’armi dove si sono svolte le cerimonie per l’avvicendarsi dei contingenti e dei loro comandati, visitare i locali polverosi della mensa, le camerate, i bar, le pizzerie, le palestre si scoprono le conseguenze di un’evacuazione che qui appare piuttosto una fuga frettolosa. Ci sono camerate ancora perfettamente funzionanti, con brandine, materassi, cuscini. Nei container usati come depositi si trovano migliaia e migliaia di bottiglie d’acqua intatte, cassoni interi di bicchieri di carta e kit posate per la mensa, montagne di articoli per la cancelleria, sacchi di pasta e farina, materiale medico, sanitario, razioni di cibo. Alcuni uffici sembrano essere stati abbandonati soltanto ieri, con le macchine fotocopiatrici intatte, confortevoli poltroncine ergonomiche, le lavagne con scritti i programmi delle attività. Alcuni sono datati agli ultimi giorni di giugno. Nei bagni sono appesi i cartelli con le indicazioni anti-Covid e sui lavandini restano decine di disinfettanti pronti all’uso. Non è chiaro quanto tutto questo sia stato lasciato a bella posta in regalo all’esercito afghano, che ai primi di luglio prese in consegna la base, oppure semplicemente si sia deciso di lasciarlo per velocizzare la partenza. Certo è che gli afghani ne fecero pessimo uso. “Appena partiti gli italiani, i militari afghani corrotti organizzarono 16 camion per trasportare ciò che restava di valore nella base e venderlo a mercato nero in tutta la provincia di Herat. Fu una rapina in piena regola”, raccontano gli addetti civili dell’aeroporto. Una vicenda che si è ripetuta in serie nelle varie basi abbandonate dai contingenti in tutto il Paese. Nessun segno di battaglia - “Per noi catturare Campo Arena fu una passeggiata. C’erano stati alcuni scontri a fuoco nella periferia di Herat ai primi di agosto. Ma, quando i nostri comandanti ordinarono di avanzare, i circa 200 soldati rimasti nell’ex base italiana se ne andarono senza sparare un colpo. Abbiamo trovato molte uniformi abbandonate. Alle otto di mattina del 13 agosto, abbiamo preso l’aeroporto e tutto ciò che vi stava vicino”, dice ancora Israil. Attorno non ci sono segni di battaglia, non un foro di proiettile, i muri perimetrali sono intatti. Il comandante talebano confessa che da allora questa è solo la seconda volta che entra nel cuore della base italiana. Chiede di vedere qualche vecchia foto per capire com’era. Si mostra stupefatto dalla ricchezza di mezzi e materiali. Non si capacita dalla massiccia presenza di ripari coperti di sacchetti di sabbia e bunker in cemento anti-mortaio. “In pratica noi non abbiamo mai sparato contro questo campo. Avete sprecato un mucchio di soldi per difendervi”, dice. E sorride quando gli si traduce una scritta sulle scale dei dormitori. “Tenetevi al corrimano”, si legge. “Ma voi dovete dare queste istruzioni ai vostri soldati?”, esclama. Nella zona cucine una gigantesca forma di Parmigiano Reggiano marcisce al sole ancora torrido. Nel padiglione Rivoli le camerate degli interpreti locali hanno ancora i loro nomi appesi alle porte. Sparsi sul pavimento ci sono vestiti, scarpe da tennis e scarponcini tattici seminuovi. In una delle palestre si trovano le macchine per il sollevamento pesi e pile di materassi per gli esercizi a terra. Magari questi guerriglieri, che hanno vinto una guerra ventennale in ciabatte, cominceranno ad allenarsi. Afghanistan. Kabul, nella casa della famiglia colpita dal drone americano di Barbara Schiavulli La Repubblica, 20 settembre 2021 “Vogliamo giustizia, le scuse non bastano”. Chiediamo che chi ha schiacciato quel maledetto bottone paghi, ma vogliamo anche un risarcimento e soprattutto essere portati fuori da qui, anche negli Stati Uniti se necessario”, dice il fratello di Zemari Ahmadi, uno dei dieci componenti della famiglia distrutta per errore da un missile americano dopo l’attentato dell’Isis all’aeroporto di Kabul. L’ultima cosa che Zemari Ahmadi ha visto prima di morire sono state le facce sorridenti dei bambini che gli correvano incontro per gettarsi nella macchina che aveva parcheggiato nel cortiletto di casa. Poi un rumore, e nel giro di pochi secondi un missile ha colpito in pieno la macchina uccidendo 10 persone tra cui Zemari, 43 anni, suo cognato Naser Nejrabi, che aveva servito nell’esercito afghano nella provincia meridionale di Kandahar, un nipote di 16 anni e 7 bambini, due dei quali avevano due anni. Una carneficina. A Kabul si è abituati ai razzi lanciati da talebani o chi per loro, ma nessuno avrebbe mai immaginato che il razzo che aveva distrutto una famiglia in un popoloso quartiere della capitale avesse la firma degli Stati Uniti. Non solo, Ahmadi aveva tutte le carte in regola per salire su uno dei voli umanitari che hanno portato fuori dall’Afghanistan decine di migliaia di persone. La strage del 29 agosto - La strage è avvenuta il 29 agosto, tre giorni dopo il devastante attentato che aveva colpito l’aeroporto di Kabul provocando 180 morti, tra cui 13 soldati americani. Tutti sapevano che gli americani avrebbero colpito i jihadisti dell’Isis che avevano rivendicato l’attacco. Nessuno poteva neanche solo immaginare che a farne le spese sarebbe stata un’intera famiglia. Avevano già impacchettato tutto, aspettavano solo di essere scortati all’aeroporto. Ora, invece, 19 giorni dopo, il Pentagono è stato costretto ad ammettere l’errore e chiedere scusa e mentre la Cnn dice che la Cia aveva avvertito che c’erano dei bambini nelle vicinanze, il fratello di Ahmadi, Ajmal, si dispera, chiede aiuto e giustizia, seduto in una sala le cui finestre danno su due macchine carbonizzate nel cortile. Il quartiere di Khoja Boghra è fatto di stradine dove nel centro scorre un canaletto a cielo aperto della fognatura, lungo i lati dei muri, al di là dei quali ci sono delle casette, una attaccata all’altra, i muri le dividono, mentre all’interno si snodano una serie di stanze. Nel blocco a due piani di Ahmadi vivevano i quattro fratelli con le relative famiglie per un totale di 25 persone. E quella domenica di fine agosto qualcosa è andato molto storto. “Come è possibile che non abbiano visto che c’erano dei bambini? Le immagini satellitari sono ben chiare. La macchina di mio fratello è stata seguita per tutto il tempo, perché hanno sparato quando ha parcheggiato e i bambini gli sono corsi incontro?”, mormora Ajmal senza darsi pace. Tira fuori il cellulare, ha le foto dei corpi carbonizzati delle sue nipotine, le foto del nipote di 16 anni ferito a morte, stava scendendo le scale quando è stato investito dall’esplosione, ha fatto due passi e poi è caduto a terra. “Non appena è accaduto, la gente è accorsa, io stavo arrivando e ho visto il razzo e poi la colonna di fumo, mi sono messo le mani tra i capelli. Era l’inferno, mi faceva male tutto il corpo dal dolore che provavo dentro. Erano bambini. Erano innocenti. Abbiamo dovuto staccare i pezzi dei miei nipoti dal tetto, c’era sangue sui muri, i vetri rotti erano diventati rossi, e di Farzad, uno dei nipoti più giovani, sono state recuperate solo le gambe”. “Un tragico errore” - Il giorno dopo gli Stati Uniti hanno sostenuto che avevano colpito un facilitatore dell’Isis-k, e Amal, un altro fratello che ha perso la figlia di tre anni, pochi giorni dopo ha urlato al mondo: “Datemi le prove e poi uccidetemi se questo è vero”. Due giorni fa gli americani hanno ammesso che è stato un “tragico errore”. “Vogliamo giustizia - insiste Ajmal - vogliamo che chi ha schiacciato quel maledetto bottone paghi, ma vogliamo anche un risarcimento e soprattutto essere portati fuori da qui, anche negli Stati Uniti se necessario, dobbiamo ricominciare, accettiamo le scuse, ma non basta, le madri di questi bambini non vogliono più dormire in questa casa”. Accanto a lui segue tutta la conversazione Samir, che ha 10 anni e per due notti ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva i suoi cugini. “Per quanto tempo dovrà svegliarsi vedendo le carcasse delle macchine dove i suoi amici e cugini sono morti? Non siamo ricchi, siano persone normali, soprattutto non siamo terroristi, per giorni i nostri vicini ci hanno guardato sospettosi, ora finalmente la verità è uscita, ma non basta”.