Carcere, contagi e vaccinazioni: è davvero passato il pericolo? di Giusy Santella mardeisargassi.it, 1 settembre 2021 La curva dei contagi risale, dentro e fuori dal carcere, e intanto la campagna vaccinale negli istituti penitenziari arranca. In base agli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia, meno dei due terzi del personale di polizia penitenziaria è stato avviato alla vaccinazione (solo 24216 persone su un totale di 36939), nonostante le somministrazioni siano iniziate ormai molti mesi fa. Gli istituti penitenziari, infatti, sono stati indicati come luoghi in cui avviare le vaccinazioni prioritariamente a causa dell’alto rischio di contagio che li riguarda ma, ciononostante, nessuno ha vigilato sull’andamento delle somministrazioni né sulla necessità di portare avanti una corretta informazione per spingere tutti a essere responsabili e vaccinarsi. La libertà di scelta non incide soltanto sulla propria salute, ma sulla vita di quelli che possono essere considerati coinquilini forzati in una comunità come quella carceraria. Così, se per altri luoghi ritenuti a rischio, come la scuola, si è deciso di restringere di molto l’autonomia decisionale degli insegnanti per tutelare se stessi e gli studenti attraverso l’obbligatorietà del green pass, allora c’è da chiedersi perché la stessa preoccupazione non sia stata rivolta agli istituti penitenziari in cui i detenuti di certo non possono rispettare - per ragioni strutturali e ambientali - le norme precauzionali di distanziamento sociale né particolari attenzioni di carattere igienico, stante l’insalubrità dei luoghi che abitano. La popolazione carceraria non è forse considerata degna di queste attenzioni? Il carcere non è un luogo impermeabile al virus né estraneo alla comunità esterna, dato l’alto numero di cittadini liberi che ogni giorno vi fa ingresso, dal personale di polizia penitenziaria a quello amministrativo, dai volontari ai familiari che effettuano colloqui. Proprio questi ultimi, dopo aver vissuto un lungo periodo di contatti solo tramite Skype, sono tornati in presenza e, se da un lato risultava necessario restituire un briciolo di normalità anche alle persone detenute nell’incontrare i propri cari - la stessa riacquisita all’esterno, del resto - gli incontri rappresentano un grosso rischio per chi vive in carcere, soprattutto considerato che spesso si tratta già di persone fragili e malate. Inoltre, se tali incontri già prima della pandemia erano inumani per l’angustia e le condizioni delle sale in cui avvenivano, oggi rappresentano anche un pericolo per la salute pubblica, soprattutto quando coinvolgono minori. Le ultime notizie diffuse ci parlano di settanta detenuti positivi, tra cui quindici nuovi giunti. Questo dato ci dimostra che anche l’esecuzione di nuove pene detentive è ritornata a pieno ritmo, dopo un breve rallentamento in attuazione delle misure deflattive previste e risultate di gran lunga inidonee. Centododici positivi al Covid si contano anche tra personale penitenziario e amministrativo. Dunque, si sta tornando alla normalità che avevamo dimenticato per qualche mese, ma nessuno sembra preoccuparsi del repentino abbassamento della guardia. Il solito disinteresse è calato, infatti, sul mondo penitenziario e al momento non vengono neppure applicate le blande misure deflattive previste in origine. Nonostante la diminuzione della popolazione detenuta registrata nell’ultimo anno - che ha raggiunto quota di 52mila reclusi circa -, gli istituti rimangono sovraffollati, con almeno 5mila unità in più rispetto alla capienza effettivamente disponibile. 52mila corpi che condividono spazi angusti e promiscui e letti sovrapposti, 52mila corpi che hanno visto ridurre anche il loro spazio vitale, stipati nelle celle per quasi ventiquattro al giorno per evitare le aree, ormai pericolose, di socialità. Eppure, la nostra rappresentanza politica ritiene questa una vita dignitosa e, a quanto pare, quella che viene scontata una pena efficace. Dopo essersi brevemente indignati per quanto avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, sono tornati tutti a voltarsi dall’altra parte, fingendo di non sapere che una tale inumanità non può che essere figlia di un sistema disumano. Quel sistema disumano che come comunità abbiamo costruito e poi avallato da tutte le parti politiche in campo, nessuna esclusa, spinte nel loro agire dalla sola voce vendicativa dell’opinione pubblica. È per questo motivo che non sono state attuate le modalità reali per svuotare gli istituti, per salvaguardare la salute di chi li vive quotidianamente, per rispettare il principio per cui gli uomini hanno pari dignità, siano essi liberi o detenuti. E ora che si prospettano nuovi contagi, non resterà che attendere un bollettino impietoso, che aggiunga morti a quelli che il carcere è già in grado di fare da sé quotidianamente. Allo stesso tempo, la campagna vaccinale è stata fin dall’inizio al centro delle polemiche, a cominciare dalla concessione per i detenuti e il personale di sottoporvisi prioritariamente. E, se al momento non può ritenersi raggiunta un’immunità neppure interna all’istituzione, ci sono delle precise responsabilità da parte di chi ha gestito le vaccinazioni. Un interesse che è stato millantato dalla classe politica per poi ridursi a un pacato invito alla vaccinazione, senza troppa decisione. Senza considerare che si gioca con la vita di decine di migliaia di persone. 70mila somministrazioni tra i detenuti saranno davvero sufficienti se non accompagnate da un radicale cambiamento nel modo di vivere e concepire il carcere che non sia una discarica sociale? Siamo davvero convinti che il pericolo sia passato? Imparare un lavoro, studiare, coltivarsi anche nel carcere di Guido Pietropoli* Il Resto del Carlino, 1 settembre 2021 Anni fa fui ricoverato in ospedale e dissi a un infermiere: “Dev’essere dura la vostra vita, tutto il giorno tra persone sofferenti”. Dopo un attimo d’esitazione, mi rispose: “È vero, però qualche volta riusciamo ad aggiustarli!”. Credo che il paragone tra il carcere e l’ospedale non sia fuori luogo. Anche i detenuti possono essere considerati dei malati, malati di violenza familiare, di sopraffazione e della personale ricerca di espedienti per la sopravvivenza, delle proprie brame predatorie, di fragilità nel rapportarsi agli altri in una società competitiva. Non sembra giusto attribuire alla società buona parte delle colpe che imponiamo a ogni detenuto di scontare. In quest’anno di garante ho incontrato in carcere anche persone consapevoli, di rara cultura e intelligenza. L’affollamento di un carcere è solo uno dei molti problemi. Le mission dell’istituzione carceraria sono due: sottrarre dalla società gli individui pericolosi facendo scontare il loro debito nei riguardi della società e l’altra di restituire alla vita civile individui... nuovamente adatti ad essere inseriti nella vita civile. Il mondo della politica sembra interessarsi delle carceri solo per garantire al cittadino la certezza della pena. Non c’è ritorno di voti per chi vuole capire cosa veramente succede tra le alte mura; anzi i voti piovono generosamente solo quando il politico si dimostra favorevole a richiudere il delinquente e a buttare le chiavi. Qual è il risultato che si dovrebbe ottenere? Non sarebbe meglio che invece di restare attonito fuori dal cancello del carcere chi ha pagato il suo debito fosse messo in grado di rifarsi una vita e di rendersi utile alla società? È questo il versante di maggior interesse dell’istituzione che non può ridursi a una contabilità tribale: “hai sbagliato e ora paghi”. Ma che deve puntare sull’uso più attento e fruttuoso del periodo di detenzione per offrire la possibilità d’imparare un lavoro, di studiare, di coltivarsi, di aumentare la propria umanità. *Garante dei diritti dei detenuti di Rovigo Giustizia. Si riparte disegni legge delega di riforma del processo penale e civile di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 settembre 2021 La ministra riunisce la maggioranza. Sull’accordo per il nuovo diritto a tutela dei minori la frenata del senatore Pillon. Passi avanti ma non ancora decisivi sul disegno di legge delega di riforma del processo civile. La ministra della giustizia Marta Cartabia ha incontrato ieri i senatori della maggioranza, il provvedimento prima della pausa estiva dei lavori è rimasto incastrato in seconda commissione e deve correre per recuperare il tempo perduto. Va di fretta anche l’altra riforma del codice di rito, la delega sul penale che ha monopolizzato le attenzioni a fine luglio malgrado la scommessa del Pnrr sia soprattutto sul civile. In questo caso siamo alla seconda lettura ma l’urgenza vale per tutte e due le riforme e si spiega con l’avvicinarsi della sessione di bilancio. Che quest’anno partirà dal senato ai primi di novembre, dunque a palazzo Madama non ci sono che due mesi di tempo per i lavori ordinari. La pioggia di decreti Covid da convertire non diminuirà ma le nuove regole per diminuire i tempi della giustizia - ha promesso il governo nel Pnrr - vanno approvate definitivamente dal parlamento entro il 31 dicembre. Per questo i lavori parlamentari quest’anno ripartono da dove si erano interrotti, dalla giustizia. Sul processo civile molti nodi sembrano essersi sciolti, del resto gli emendamenti della ministra Cartabia al disegno di legge originale (Bonafede) sono sul tavolo da metà giugno. Acquisita l’impostazione della riforma che punta tutto sulla risoluzione delle liti mediante procedure alternative al processo (Adr nell’acronimo anglosassone, arbitrato, negoziazione assistita e mediazione) resta da trovare un compromesso tra l’impostazione della commissione Luiso che ha assistito la ministra e le preoccupazioni degli avvocati civilisti che chiedono di salvaguardare il contraddittorio tra le parti nella prima udienza in quei casi (residuali) in cui si arriverà al processo. Oggi in commissione al senato si cominceranno a votare i subemendamenti ai 24 emendamenti governativi, prima tutti quelli con il parere contrario poi la prossima settimana si passerà alle questioni aperte. Una innanzitutto riguarda il diritto di famiglia. Sul punto la principale novità della riforma Cartabia rispetto al testo Bonafede è l’introduzione di un procedimento unico in materia di persone, minorenni e famiglie. Il che significa che si completa il percorso iniziato nel 2012 quando la differenza di tutela tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio è stata intaccata. Adesso viene estesa la negoziazione assistita anche alle liti che sorgono nelle famiglie di fatto. Ma lo scontro sarà sui subemendamenti, quelli proposti da Pd e Leu mettono al centro l’interesse dei minori più che la tutela della bigenitorialità (che si ritiene garantita dall’affido condiviso) soprattutto, ma non solo, nei casi di violenze domestiche. È previsto che il giudice possa decidere sull’affido anche nella prima udienze a che la domanda di divorzio possa essere presentata anche durante il giudizio di separazione. Tutte novità che trovano la contrarietà della Lega che in commissione al senato è rappresentata dal preistorico senatore Pillon. Sempre in commissione al senato c’è tempo fino al 7 settembre per gli emendamenti al disegno di legge delega di riforma del processo penale. Il governo punta a una rapida conferma del testo della camera, la sorpresa potrebbe essere il tentativo del M5S di andare incontro alle richieste di chi vuole allargare l’elenco dei reati tutelati dal doppio binario, quello che potenzialmente esclude l’improcedibilità nei casi di mafia e terrorismo. Ma è più importante, sostiene la senatrice Rossomando, responsabile giustizia del Pd “portare a compimento queste riforme che sono la risposta migliore al populismo dei referendum radical-leghisti”. Lo Stato può imporre il rispetto delle norme, ma non di ritenerle giuste di Iuri Maria Prado Il Riformista, 1 settembre 2021 È diffuso un piccolo fraintendimento (piccolo si fa per dire, ovviamente): e cioè che i diritti di libertà, ma direi i diritti in genere, costituiscano beni da “meritare”. E che meritarli significhi subordinarsi a un sistema di valori e farne professione. Ha questo stampo la dichiarazione antifascista richiesta da certe istituzioni municipali per poter partecipare ad attività pubbliche. Ha questo stampo la revoca della semilibertà a un fascista che assiste a un raduno politico. Ha questo stampo la tortura inflitta al mafioso che non si pente. Non si capisce - ed è un segno esemplare dell’incertezza democratica di questo Paese - che si può chiedere al cittadino di rispettare la legge: non di condividere il valore che ne è alla base, e cioè di ritenerla giusta. E non lo si capisce perché si ignora che mentre la legge è un fatto, la giustizia è un valore: e in democrazia è quello, il fatto, cioè la legge uguale per tutti, non la giustizia, che ciascuno concepisce secondo il proprio criterio, a dover essere considerato nella distribuzione degli obblighi e dei diritti. Nel nome delle discriminanti valoriali - quella antifascista e quella anti--mafiosa sopra tutte - si compiono sopraffazioni illiberali di cui ci si vergognerebbe se appena quella parola - democrazia - avesse un contenuto anziché ridursi a un modo di dire. “Referendum? Un boomerang per la Lega. E ci sarà chi accuserà i magistrati” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2021 “Limitare le misure cautelari? Nelle corde dei radicali, meno del carroccio”. Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica a Torino e a Palermo, prevede un effetto boomerang, a proposito dei referendum radicali e leghisti sulla giustizia: “Possibili effetti negativi per l’amministrazione della giustizia e per l’interesse generale, ma anche un boomerang per i promotori”. Dottor Caselli, si riferisce al quesito sulla custodia cautelare? Non solo a quello. Il quinto quesito prevede che i potenziali autori seriali di gravi reati, se questi non sono commessi con armi o con violenza, non possano più essere assoggettati a misure cautelari in base - come avviene ora - alla previsione della possibile ripetizione dei reati. Si possono riscrivere le norme sulla custodia cautelare riducendone gli spazi: è un’operazione nelle corde dei radicali, assai meno della Lega. Se passa il referendum, ci saranno casi delicati e complessi, in cui sarebbe utile se non necessario ricorrere alla custodia cautelare, che non potrà invece scattare, in forza della nuova normativa. L’opinione pubblica, la piazza, rifiuteranno questa situazione, si genererà sconcerto, ci saranno proteste sul funzionamento della giustizia, che sarà accusata di lassismo. Gli effetti, per la magistratura, già in profondissima crisi dopo lo scandalo Palamara, saranno devastanti. Ancora una volta si darà la colpa di tutto ai giudici. Un boomerang per la giustizia. Ma anche per la Lega che è tra i promotori del referendum e che ha sempre chiesto massima severità per chi compie certi reati, come lo stalking. In difesa del referendum è intervenuta anche Giulia Bongiorno, in passato sostenitrice di misure dure per chi compie reati contro le donne... Proprio sul Fatto, la senatrice ha sostenuto che questo referendum vuole evitare gli abusi, ma non riduce le tutele, perché “per applicare le misure cautelari sarà sufficiente che il giudice ravvisi nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità incline al compimento di atti di violenza” e il giudice dovrebbe cercare “i sintomi” di una possibile violenza futura. È una forzatura della legge che genera un cortocircuito. La prognosi astratta di futura effettiva violenza è, se non impossibile, almeno molto difficile, opinabile, sicura rampa di lancio di incertezze, discussioni interminabili e polemiche feroci. Strana alleanza, quella tra i Radicali e la Lega? Ognuno in politica si allea con chi vuole, ma in questo caso tra i due ci sono enormi differenze. L’area radicale comprende l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e ha una filosofia opposta a quella della Lega incentrata sul classico “legge e ordine”. Due mondi così diversi, al punto da far temere un’alleanza strumentale: in un momento difficile per la magistratura, sull’orlo del baratro per una crisi terribile, questo per qualcuno potrebbe sembrare il momento giusto per sferrare l’attacco finale, per fare i conti definitivi con i giudici. Ma vorrei segnalare, a questo proposito, un quesito referendario ancor più pericoloso. Quello sulla separazione delle carriere? Sì. Si basa sull’affermazione che i giudici sono appiattiti sul pm, dunque bisogna separarli. È una prospettazione sostanzialmente falsa. In tutti i Paesi in cui la separazione c’è, la conseguenza è sempre una sola: il pm prende ordini o direttive dal potere esecutivo. Fine dell’indipendenza della magistratura, fine della speranza che la legge possa essere uguale per tutti. Così torneremmo indietro rispetto a una situazione che in molti Paesi europei viene invidiata: in un articolo di Le Monde del giugno 2020, autorevoli rappresentanti della magistratura francese indicavano di fatto la situazione italiana come traguardo da raggiungere, per liberare i magistrati d’accusa francesi dal peso di dover analizzare gli affari “sensibili” in base ai possibili interventi del potere. E noi invece in Italia vogliamo fare il contrario. Il pm Musolino: “La legge Costa sull’uso dei tabulati sarebbe un ostacolo alle indagini” di Liana Milella La Repubblica, 1 settembre 2021 Il segretario di Md boccia la richiesta di Enrico Costa di Azione: “Esistono già oggi le garanzie per tutelare la privacy degli indagati”. “Serve coerenza. La riforma Cartabia accelera i processi, una legge sui tabulati li allungherebbe. Oltre ad ostacolare le indagini, in alcuni casi fino a bloccarle”. Dice così il pubblico ministero di Reggio Calabria Stefano Musolino, eletto segretario di Magistratura democratica a fine luglio. Che risponde così ad Enrico Costa di Azione. La querelle sui tabulati telefonici. Legge sì o legge no dopo la sentenza della Corte di giustizia del Lussemburgo? Lei da che parte sta? “Non vedo alcuna necessità di una legge perché il sistema attuale è gia coerente con le indicazioni della Corte di giustizia del Lussemburgo. Il pm italiano, già nella fase delle indagini preliminari, è autonomo e indipendente, e svolge una funzione di garanzia dei diritti dell’indagato, tutelandoli anche in relazione a richieste abusive che giungessero dalla polizia giudiziaria. La legge esistente già prevede dei termini di conservazione dei dati sensibili, graduati in rapporto alla gravità del reato”. Quindi lei dice che una legge non serve, però ci sono molti suoi colleghi che, all’opposto, ritengono che una legge disciplinerebbe in modo chiaro e definitivo l’uso dei tabulati ed eviterebbe il caos delle interpretazioni difformi proprio com’è avvenuto dopo la sentenza europea... “La Cassazione, nell’ultima sentenza di fine luglio, ha già escluso la diretta applicabilità della decisione della Corte di giustizia; sicché non vi è affatto un caos interpretativo, perché le nostre regole già oggi offrono le garanzie richieste dall’Europa”. Lei è un pm, per questo vuole comunque la possibilità di accedere ai tabulati senza ostacoli? “Non è così. L’accesso ai tabulati è una risorsa investigativa talvolta indispensabile ed il sistema attuale lo regolamenta, modulando in maniera ragionevole il diritto alla privacy, con le esigenze di accertamento dei reati.”. Però oggi un pm come lei, di fronte a un delitto, fino a che punto può chiedere i tabulati di un possibile indagato? “Posso muovermi nel perimetro dei soggetti che sono entrati in relazione con il reato da scoprire e con i suoi possibili autori. Il tabulato è un mezzo di ricerca della prova esplorativo, consegna risultati generici ed equivoci che impongono sempre ulteriori verifiche per poter diventare alla fine una prova effettiva nel processo”. Ha letto le dichiarazioni di Enrico Costa di Azione? Lui, sin da marzo quando è uscita la decisione del Lussemburgo, insiste per una legge. Dice che con l’accesso libero ai tabulati la nostra privacy è a rischio... “Non sono d’accordo. Perché già oggi il sistema garantisce in maniera adeguata la tutela della privacy dei cittadini coinvolti nell’indagine. Esclusi ovviamente i casi di eventuali abusi che sono punibili disciplinarmente e che costituiscono, perciò, una patologia del sistema e non certo un suo tratto fisiologico”. Costa, con una sua proposta di legge, chiede che anche per i tabulati valga la stessa regola delle intercettazioni, via libera solo per i reati punti oltre 5 anni. Sarebbe un ostacolo alle vostre indagini? “Certo, sarebbe decisamente un ostacolo. Le faccio un esempio che tutti possono comprendere. Mi riferisco per esempio alle truffe, anche quelle realizzate online. Un reato che già figura sotto i 5 anni di pena, ma per il quale le indagini non possono neppure prendere l’avvio in mancanza dei tabulati telefonici, a partire da quelli della vittima. In sostanza, se la proposta Costa diventasse legge, a fronte di una denuncia di truffa siffatta, la gran parte dei procedimenti sarebbe immediatamente archiviata per l’impossibilità stessa di avviare un’indagine”. Insomma, lei sta dicendo che il risultato di una legge sarebbe un freno alle indagini stesse. Però ci sono alcuni suoi colleghi, come il procuratore aggiunto di Torino Cesare Parodi, che seppur a malincuore, accettano l’idea di una legge… “Un sistema che tollera l’acquisizione - sostanzialmente obbligata - da parte di soggetti privati di informazioni personali anche solo per navigare su internet a tutela di interessi economico commerciali, non può irrigidire l’acquisizione di informazioni assai meno invasive come quelle dei tabulati che invece sono necessarie per scoprire gli autori di un reato e quindi garantire la sicurezza di tutti”. Non teme che la possano accusare di non voler rispettare le garanzie di riservatezza dei potenziali indagati? “La garanzia dei diritti deve sempre conciliarsi con procedure adeguate alla loro tutela. E quelle esistenti già oggi sono sufficienti allo scopo. Prevedere ulteriori superfetazioni aggraverebbe inutilmente il procedimento, ne allungherebbe i tempi, renderebbe più precari gli esiti, senza aggiungere alcunché alla reale tutela dei diritti”. Quindi, mentre si stanno approvando le nuove regole sul processo penale, con l’improcedibilità, e si mettono paletti rigidi sui tempi, una stretta sui tabulati comporterebbe conseguenze negative proprio sulla rapidità del giudizio? “È proprio così. La riforma Cartabia ha preso atto dell’incapacità del sistema di sostenere gli attuali carichi di lavoro, prevedendo perciò dei limiti di tempo che segnano il massimo di tollerabilità per la durata di un procedimento. Ogni ulteriore intervento dovrebbe tenerne conto, preoccupandosi di valutare la compatibilità tra nuove procedure, diritti che si vogliono garantire e tempi complessivi del procedimento. Non mi pare che la proposta Costa vada in questa direzione”. L’orda inutile degli avvocati di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2021 Procedimenti monstre - Il numero impressionante produce tra l’altro lo stuolo dei legali (368 ogni 100.000 abitanti). Molti dei quali, però, vista la lunghezza dei processi, finiscono anche per guadagnare ben poco. Fra referendum (inutili o dannosi) e progetti di riforma inidonei a risolvere i difetti dei sistemi giudiziari e processuali italiani, vale la pena di riassumere quali sono i veri problemi della giustizia italiana, alla luce dei dati forniti dal Consiglio d’Europa (Organismo che raggruppa 47 Stati e quindi molto più ampio dell’Unione europea e che esprime la Corte europea del Diritti dell’Uomo). I dati che seguono sono tratti dal sito dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla base della relazione biennale della Cepej (acronimo che in francese significa Commissione europea per l’efficienza della giustizia). L’ultima relazione pubblicata su tale sito è quella del 2016, ma le variazioni a ogni biennio non sono molte e quelle del rapporto Cepej 2020 (consultabile sul sito del Consiglio d’Europa) forniscono dati similari. Il primo mito da sfatare è che le risorse destinate all’amministrazione giudiziaria siano scarse. L’Italia spende ogni anno per il sistema giudiziario circa 48 euro per ogni abitante, più del Regno Unito e della Francia. Tuttavia quelle risorse non sono sufficienti a far funzionare una macchina in larga misura obsoleta e che deve fronteggiare carichi di lavoro ben più elevati di quelli di altri Stati. Non è neppure vero che i giudici di professione in Italia siano pochi: 6939 contro i 6935 della Francia (esclusi i magistrati addetti al pubblico ministero) pari a 11 ogni 100.000 abitanti contro i 10 ogni 100.000 abitanti della Francia, Paese per certi versi abbastanza simile all’Italia. I magistrati del pubblico ministero in Italia sono 3,4 ogni 100.000 abitanti contro 2,8 in Francia. Anche il personale amministrativo, contrariamente a quanto si dice è in linea con quello della Francia, anche se con un’età media avanzata a causa del blocco delle assunzioni per 25 anni (con la difficoltà di prepararli all’uso di nuove tecnologie). Dove sono allora le anomalie italiane? Il dato che più colpisce è il numero di procedimenti. Nel settore civile, ogni anno, vengono avviate (ma anche definite) un numero di cause che è quasi il doppio di quelle avviate in Francia. Sostanzialmente lo stesso dato riguarda il settore penale. Ritengo che un così elevato numero di procedimenti dipenda dalla sostanziale inefficacia delle pronunzie giudiziarie. Questa, a sua volta, deriva anzitutto dalla durata dei procedimenti (che peraltro dipende soprattutto dal loro numero in un circolo vizioso che si autoalimenta). L’eccessiva durata dei procedimenti danneggia chi ha ragione e favorisce chi ha torto nel civile. Inoltre, anche quando vi è una pronunzia esecutiva, è difficile ottenere il pagamento del proprio credito. Nel settore penale la durata dei procedimenti danneggia le vittime e gli imputati innocenti e favorisce gli imputati colpevoli. Eppure secondo gli indicatori di performance stabiliti dalla Cepej, l’”indice di smaltimento” (Cleareance Rate) e il “tempo medio di definizione dei procedimenti” (Disposition Time), i magistrati italiani hanno una elevata capacità di smaltimento dei procedimenti civili e commerciali, superiore al 100% (precisamente del 119%), riuscendo a definite un numero di procedimenti più elevato rispetto a quelli ricevuti, Nel penale vengono iscritti 2.700.000 procedimenti penali ogni anno ed è un’illusione quella della depenalizzazione. Ciò che si poteva depenalizzare lo è già stato, mentre quello che si può ancora fare non ha rilievo statistico apprezzabile. Occorre quindi percorrere un’altra strada, come ridurre la perseguibilità d’ufficio e soprattutto potenziare i riti alternativi, in particolare l’applicazione di pena (il cosiddetto patteggiamento). In Italia pochissimi patteggiano perché il farraginoso codice di procedura penale consente in molti casi di arrivare alla prescrizione e nessuna pena è preferibile a una pena ridotta. Peraltro l’abbattimento del numero dei procedimenti ha quale inevitabile effetto la riduzione del reddito degli avvocati: se si riuscisse a dimezzare il numero di procedimenti, il reddito di quei professionisti si ridurrebbe della metà (salvo l’improbabile ipotesi che costoro riuscissero a farsi pagare il doppio per ogni procedimento). Già oggi, secondo i dati della Cassa Forense, oltre la metà degli avvocati non supera il reddito di 20.000 euro l’anno. Per non determinare la discesa allo stato di povertà di notevole parte degli avvocati è necessario quindi ridurne il numero impressionante: in Italia 223.862 (ma quest’anno sono diventati oltre 250.000) contro i 62.073 della Francia. La media europea è di 147 avvocati ogni 100.000 abitanti, l’Italia ne ha ben 368. L’imprevidenza della classe dirigente di questo Paese ha lasciato crescere a dismisura il loro numero nonostante gli avvertimenti da molti lanciati, senza imporre a Giurisprudenza il numero chiuso, pur previsto per altri corsi di laurea. Quindi bisogna avere chiaro che non esistono soluzioni di breve periodo o semplici e lo spaventoso debito pubblico italiano non consente la prospettata immissione di ingenti risorse nel sistema giudiziario. Ciò che occorre fare è introdurre subito il numero chiuso a Giurisprudenza o, in alternativa, introdurre il numero chiuso degli avvocati (ma, in questa seconda ipotesi, che ne faremo dei numerosissimi laureati in Giurisprudenza?). In secondo luogo occorre semplificare, almeno nel processo penale, le regole processuali e allargare la differenza fra le pene ottenibili con il patteggiamento e quelle prevedibili in caso di condanna in dibattimento (che non può consistere solo nell’abbattere le pene patteggiate, ma anche inasprire quelle per chi sceglie il rito ordinario). Ma per cambiare la mentalità di tutti i soggetti interessati occorreranno comunque molti anni. Chi promette soluzioni semplici e immediate si illude o mente. La tagliola dell’improcedibilità nei successivi gradi di giudizio non risolve nessuno di questi problemi, ma vanifica il lavoro fatto e le risorse impiegate. A meno che non si ritenga che il servizio giustizia debba funzionare quale ammortizzatore sociale, come una sorte di reddito di cittadinanza. La Cassazione: “Le torture in Libia rilevanti per la protezione umanitaria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2021 Il tribunale di Venezia aveva rigettato l’istanza per la protezione umanitaria di un cittadino della Guinea, la Cassazione ha accolto il ricorso. Il tribunale di Venezia, rigettando il ricorso di un richiedente protezione umanitaria, ha negato la rilevanza delle torture subite nei centri libici. Invece, secondo la Cassazione che ha accolto il ricorso avverso alla decisione, i giudici avrebbero dovuto valutare l’esperienza vissuta in Libia. Parliamo dell’ordinanza numero 23355 del 24 agosto scorso. La vicenda riguarda un cittadino della Repubblica di Guinea, il quale - difeso dall’avvocato Francesco Tartini - ha adito il Tribunale di Venezia, sezione specializzata in materia di immigrazione, a seguito del rigetto da parte della Commissione territoriale di Verona, sezione di Treviso, della sua domanda di protezione internazionale, chiedendo il riconoscimento della protezione umanitaria. A sostegno della domanda, il richiedente ha dichiarato di avere lasciato il proprio Paese per il timore di ammalarsi di ebola, avendola contratta il cugino. Il ricorso del cittadino guineano è articolato in tre motivi. I primi due motivi, unitariamente trattati dal ricorrente, denunciano il primo erronea applicazione dell’art. 5, comma 6 del d.lgs. 286/1998 e il secondo omesso esame di un fatto decisivo, in relazione ai presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria. Si contesta al Tribunale, sotto il profilo dell’erronea applicazione di legge e dell’omesso esame di un fatto decisivo, di non avere considerato la grave emergenza umanitaria, e la situazione socio-economica, in cui si è venuta a trovare la Guinea a seguito dell’epidemia di ebola. Il terzo motivo fa valere la “violazione o falsa applicazione degli artt. 5, comma 6 del d.lgs. 286/1998, 2, lettera h) bis del d.lgs. 25/2008, 17 d.lgs. 142/2015, 8, comma 3 e 3-bis d.lgs. 25/2008 per la dedotta irrilevanza dell’esperienza subita in Libia dal ricorrente, il mancato riconoscimento della sua vulnerabilità e il mancato accertamento delle effettive conseguenze, sul piano psico-fisico delle violenze subite”. Ed è il terzo motivo che, secondo la Cassazione, è fondato. A fronte dell’allegazione da parte del ricorrente delle torture subite durante l’incarcerazione in Libia, provate dall’esistenza di cicatrici, descritte da un certificato medico, il Tribunale ha negato la rilevanza delle vicende “vissute in Libia, in assenza di conseguenze attuali sulla salute e sulla persona del ricorrente”, avendo questi “esclusivamente delle cicatrici”. Per la Cassazione, il Tribunale non ha considerato che il richiamato art. 2, lettera h) bis del d.lgs. 25/2008 (nella formulazione introdotta dal d.lgs. 142/2015) definisce quali persone vulnerabili quelle per le quali è accertato che hanno subito torture o altre forme gravi di violenza. Nell’ordinanza, la Cassazione sottolinea che la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituisce una misura atipica e residuale, volta ad abbracciare situazioni in cui non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, a incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona. L’accoglimento del terzo motivo comporta l’assorbimento dei primi due. “Il provvedimento impugnato va pertanto cassato in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata al Tribunale di Venezia; il giudice di rinvio provvederà anche in relazione alle spese del presente giudizio”, conclude l’ordinanza della Cassazione. Bari. Morto in ospedale, l’avvocato: “Aveva provato a togliersi la vita in carcere” baritoday.it, 1 settembre 2021 Il 44enne Antonio Favale era stato arrestato a febbraio scorso: secondo gli inquirenti sarebbe stato lui a uccidere il 45enne al culmine di un litigio. L’avvocato ha comunicato che presenterà un esposto sulle circostanze del tentativo di suicidio. È morto lo scorso 30 agosto al policlinico di Bari Antonio Favale, il 44enne di Rotondella accusato di aver ucciso a coltellate l’ingegnere 45enne Cristian Tarantino. L’omicidio avvenne per strada nel comune materano il 23 gennaio 2021. Favale era detenuto nel carcere del capoluogo pugliese. L’uomo era stato trasferito al policlinico un mese fa dopo un secondo tentativo di suicidio, dopo quello tentato in seguito alle coltellate mortali inferte a Tarantino, di cui era amico d’infanzia. Un mese fa circa in carcere, Favale si era ferito in modo grave all’addome utilizzando dei frammenti di uno specchio. Nelle settimane passate era stato sottoposto a ripetuti delicati interventi che, tuttavia, non sono stati sufficienti a salvargli la vita. Favale era stato arrestato lo scorso 8 febbraio dai carabinieri dopo essere uscito dal coma. Una circostanza che porta il suo legale, l’avvocato Pietro Ditaranto, a sollecitare un’inchiesta su quanto accaduto nel carcere di Bari. Proprio in virtù del precedente tentativo di suicidio Favale avrebbe dovuto essere sorvegliato a vista. Brindisi. Delegazione della Camera penale in visita al carcere brindisireport.it, 1 settembre 2021 Lunedì 30 agosto, nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dall’Osservatorio carcere dell’Ucpi, una delegazione composta dal presidente della Camera penale di Brindisi avv. Pasquale Annicchiarico, dal referente della Regione Puglia dell’Osservatorio carcere Ucpi avv. Giuseppe Guastella e dall’avv. Michele Fino componente dell’osservatorio carcere della camera penale di Brindisi, ha visitato la casa circondariale di Brindisi. La delegazione è stata ricevuta dal direttore della struttura dott.ssa Maria Teresa Susca, dal vice-comandante dott.ssa Luisa De Simone e dall’ispettore superiore Daniele Buttiglione. La visita durata circa 1 ora e mezza, dopo una conversazione nell’ufficio della direttrice che unitamente al vice comandante ha fornito una serie di dati di particolare interesse (riportati di seguito), ha riguardato tutte le aree della struttura compresa l’area sanitaria e la cucina nonché le sale colloqui ed i cortili dedicati al passeggio. L’edificio ospita attualmente 185 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di 114, così distinti: 114 con posizione definitiva, 11 appellanti, 12 ricorrenti, 12 con posizione mista. Singolare (in ogni senso) la presenza di 1 soggetto in semidetenzione. Gli stranieri sono 30 per la maggior parte di nazionalità albanese. L’area sanitaria formata da 1 dirigente sanitario con assistenza H24 del medico di guardia ed assistenza infermieristica, è dotata di ambulatori di Cardiologia, oculistica, odontoiatria. Le visite specialistiche sono eseguite all’esterno presso gli ambulatori della Asl Brindisi siti alla via Dalmazia (di intesa con la Asl sono dedicati 2 giorni alla settima per le visite dei detenuti); non si segnalano particolari ritardi nella prenotazione e nella effettuazione delle visite specialistiche. L’emergenza Covid è stata gestita in perfetta sintonia con la locale Asl talché non vi sono stati casi di focolai nella struttura; il 60 per cento della popolazione detenuta risulta vaccinata ed il personale quasi nella totalità (solo 10 persone risulterebbero non vaccinate per scelta). La socialità si svolge dalle ore 8.30 alle ore 12, seguita dalla pausa pranzo dalle 12 alle 13, quindi dalle ore 13 alle ore 15 vi è la possibilità di passeggio nel cortile (durante il periodo estivo sono stati installati dei nebulizzatori per lenire gli effetti della calura), dalle ore 15 alle ore 18 nuovamente arco temporale dedicato alla socialità negli pur piccoli spazi dedicati, alle ore 18 le celle vengono chiuse. Le celle, assolutamente ben tenute, sono tutte dotate di bagno con doccia e cucina ed ospitano sino ad un massimo di 4 persone. Prestano attività lavorativa all’interno circa 20 detenuti (cucina, pulizie, spesino, porta-vitto) mentre sono state avviate delle convenzioni per il lavoro all’esterno ex art. 21 o.p. con il Tribunale di Brindisi, il Comune di Brindisi e la Provincia ed altre sono in procinto di essere avviate. Le attività scolastiche disponibili su richiesta: alfabetizzazione, scuola media, biennio superiore. Nota dolente la assenza nella struttura di spazi per le attività trattamentali, anche se è quasi completato un nuovo padiglione con nuovi spazi da dedicare alle attività e che potrà ospitare al primo piano circa 40 detenuti. I colloqui con i famigliari sono suddivisi in due locali uno senza la presenza di vetri divisori sui tavolini per i soggetti con certificazione di avvenuta vaccinazione e l’altra con i vetri divisori per coloro che non sono muniti di certificazione di vaccinazione; altri locali compreso una piccola area verde sono dedicate per effettuare le videochiamate con i famigliari. I locali della cucina sono ben tenuti e molto puliti. I tre, oramai noti, episodi di violenza tutti avvenuti nel mese di agosto, ci è stato riferito, sono stati singoli ed isolati avvenimenti a cui la restante popolazione detenuta non ha partecipato in alcun modo e che comunque sono stati gestiti brillantemente dal personale di Polizia Penitenziaria. È stato anche fornito un interessante dato statistico del periodo intercorrente tra il 01 luglio 2020 ed il 31 luglio 2021: 322 ingressi da libertà o di altri istituti (275 italiani, 47 stranieri). L’età media è di circa 35 anni. I detenuti che hanno usufruito del servizio psichiatrico sono stati 132. Al 30 giugno 2021 i tossicodipendenti erano 46. Nello stesso periodo i detenuti ammessi a misure alternative alla detenzione sono stati 66, in specie 22 ammessi alla misura dell’affidamento In prova, 37 alla detenzione domiciliare e 7 al regime della semilibertà. La maggior parte dei detenuti risponde di reati contro il patrimonio. Durante la visita in ogni reparto si è provveduto ad intervistare alcuni detenuti circa le condizioni di vivibilità ma la risposta è stata univoca ribadendo tutti che nella struttura non vi sono particolari problematiche da segnalare. Da sottolineare la grande attenzione per le persone detenute dimostrata dalla direttrice, dal vice comandante e dal corpo di Polizia penitenziaria nonostante le carenze strutturali e le risorse minime disponibili. Milano. Elezioni comunali: i Radicali candidano Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore milanotoday.it, 1 settembre 2021 Pagano, ora consulente del difensore civico regionale, è stato anche Provveditore lombardo alle carceri. C’è anche l’ex direttore del carcere di San Vittore Luigi Pagano tra i candidati al consiglio comunale di Milano per le elezioni del 3 e 4 ottobre 2021. Pagano si candida nella lista “Milano Radicale”, che sostiene il sindaco uscente Beppe Sala nella coalizione di centrosinistra. Casertano, laureato in giurisprudenza e specializzato in criminologia, Pagano a venticinque anni riceve il primo incarico nel sistema carcerario italiano. Dopo avere diretto vari istituti penitenziari (tra cui l’Asinara, quando viene riaperta per ospitare il boss della camorra Raffaele Cutolo), nel 1989 assume l’incarico di direttore di San Vittore e, nel 2001, anche di Bollate, dove di fatto ‘inventa’ il modello del carcere con le celle aperte durante il giorno. Nel 2004 lascia le direzioni per diventare provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. Tra il 2012 e il 2015 è vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale a Roma. Poi torna al provveditorato lombardo. Attualmente è consulente del difensore civico di Regione Lombardia. Nel 2000 il Comune di Milano gli ha riconosciuto l’Ambrogino d’Oro. Tra i suoi scritti, “Il direttore - quarant’anni di lavoro in carcere”, uscito nel 2020, in cui racconta la sua esperienza professionale e i momenti di cui è stato testimone: come i brigatisti del delitto Moro rinchiusi a Pianosa, suo primo incarico, o l’assassinio di Francis Turatello nel penitenziario di Nuoro, quando ne era direttore; l’Asinara riaperta per Cutolo e San Vittore durante Tangentopoli e Mani Pulite. Pagano ha lavorato molto sulle pene alternative e sul lavoro in carcere e, da vice capo del Dap, contro il sovraffollamento. Gli altri candidati radicali - Il capolista di Milano Radicale è Lorenzo Lipparini, assessore uscente alla partecipazione nella giunta di Beppe Sala. Gli altri candidati sono in ordine alfabetico. Tra gli altri, le dirigenti di Radicali Italiani Giulia Crivellini (tesoriera), Barbara Bonvicini (ex presidente, ora coordinatrice della campagna Eutanasia Legale per il movimento) e Federica Valcauda (segretaria dell’Associazione Enzo Tortora), l’attivista transgender Antonia Monopoli, la giornalista Charlotte Matteini, il chitarrista degli Shandon Moketz, ex primo ballerino della Scala Michele Villanova, il direttore artistico del NoLo Fringe Davide Verazzani e il regista Roberto Manfredi. Napoli. Un murales cancellato con tanta ipocrisia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 settembre 2021 Il Tar ha ordinato di cancellare l’opera che ricordava Ugo Russo giovane ucciso da un carabiniere che stava cercando di rapinare puntandogli contro una pistola finta. Ma nelle motivazioni si parla solo di incompatibilità con l’interesse archeologico della zona. Il quindicenne Ugo Russo ucciso nel marzo dell’anno scorso a Napoli da un carabiniere in borghese mentre, di notte, cercava di rapinarlo dell’orologio puntandogli contro una Beretta 92 finta, era solo un bravo ragazzo nato e cresciuto nel quartiere sbagliato e solo perciò vittima delle circostanze? Lo dirà il processo. E sarà bene lo si faccia presto: solo l’accertamento dei fatti potrà, forse, arginare una polemica via via montata nel capoluogo partenopeo fino ad assumere inaccettabili toni incendiari. Detto questo, la sentenza con cui il Tar ha ordinato con motivazioni squisitamente burocratiche la cancellazione del gigantesco murale che celebra il giovane morto, in attesa del sospirato arrivo dei tintori armati di pennello per ridare la tinta unita alla parete di un condominio del centro e Napoli, è stata francamente sconcertante. Ma come: dopo mesi passati dal prefetto di Napoli Marco Valentini a ripristinare un minimo di decoro rimuovendo una cinquantina di altarini, edicole votive, murales e manifesti sparsi per la città che inneggiavano a ragazzotti di bande giovanili in odore di camorra come fossero dei “ragazzi della via Paal” ribelli agli “sbirri”, quel murale sarà cancellato solo per cavilli estratti dal cappello in una città piena zeppa di provocazioni d’ogni genere e misura? Non una parola sul cattivo esempio che dava quel murale a chi di notte non gira con la pistola e ricorda bene la violentissima devastazione del pronto soccorso del Vecchio Pellegrini assediato per ore e ore da decine di parenti e amici del giovane ucciso al punto di costringere addirittura l’ospedale a chiudere? Dice la sentenza sul murale che “nell’intera area vi è la presenza di numerose vestigia risalenti ad epoca greco-romana, cosicché ogni attività edilizia che fuoriesca dal perimetro della manutentiva ordinaria, va vagliata in via preventiva la compatibilità con l’interesse archeologico”. Quindi, via. Senza un giudizio morale. Per carità, al sindaco napoletano Luigi de Magistris, troppo impegnato nella campagna elettorale per le regionali in Calabria dov’è candidato, il verdetto andrà benissimo. Una patata bollente in meno. Ma i napoletani non avrebbero diritto a vedere l’amministrazione fare delle scelte precise e nette senza affidarsi all’aiutino di giudici merlettai addetti ai codicilli? Mah... Mantova. Il pane dei detenuti va online, presto il sito di e-commerce di Sabrina Pinardi Gazzetta di Mantova, 1 settembre 2021 “Sapori di libertà” pronto a crescere ancora dopo quattro anni di lavoro. Alcuni dei partecipanti hanno subito trovato lavoro, una volta scontata la pena. È partito come progetto sociale, nel 2016, ma ora Sapori di libertà è pronto a camminare sulle proprie gambe. Il pane e i prodotti da forno sfornati dal laboratorio del carcere sono sempre di più (dal forno escono ogni giorno 150 chili di pane fresco) e hanno sempre più acquirenti. E l’e-commerce, in fase di decollo proprio in queste settimane, dovrebbe contribuire a far volare gli acquisti. Da quando Libra Onlus, cinque anni fa, ha fatto partire il progetto grazie al sostegno di fondazioni e benefattori privati, sono più di venti i detenuti, di nazionalità diverse, che hanno imparato il mestiere. Per fare il pane, è stata riqualificata un’ala della casa circondariale. Ma, soprattutto, è stato coinvolto un maestro panettiere, Cristian Sarzi Amadé, che gestisce una sua panetteria, Mantova Pane, a Curtatone. “Mi trovo benissimo con questi ragazzi - racconta Sarzi Amadé - Credo di aver insegnato loro uno stile di vita, più che un lavoro. A settembre inizierà a lavorare da me un ragazzo che deve finire di scontare la sua pena. Spero possa rimanere con me per sempre, come mio braccio destro”. Nella fase iniziale è stato lui a dare indicazioni su come realizzare il laboratorio: forno, impastatrici, piani di lavoro. Poi si è rimboccato le maniche anche per la formazione, che continua a fare anche adesso. Non molla: una o due volte a settimana va in carcere a insegnare e dispensare consigli. I ragazzi, scelti grazie al lavoro di educatori e psicologi, ruotano di continuo e c’è bisogno di dare loro le dritte giuste, perché il pane deve essere pronto tutti i giorni. “Non è mai successo che il pane non uscisse - ricorda orgoglioso Angelo Puccia, presidente di Libra - Dei ragazzi che hanno cominciato quando il progetto è partito ne è rimasto soltanto uno, che ora fa il coordinatore della squadra, composta da cinque uomini, tutti pagati. Due ragazzi, dopo l’esperienza di Sapori di libertà, lavorano a Mantova Pane, un terzo ha trovato lavoro fuori provincia”. I ritmi sono gli stessi di un forno qualsiasi: sveglia all’alba e mani in pasta. Si comincia alle 4 col pane, poi si passa ai prodotti a lunga conservazione. Speciale anche la farina: tutta prodotta con il MantoGrano, la filiera di frumento 100% Made in Mantova promossa da Confagricoltura. “Facciamo 150 chili di pane al giorno. Per il break-even (punto di pareggio, ndr) dobbiamo arrivare a 200/250, ma abbiamo un potenziale di 400 chili a turno” aggiunge Puccia. Gli acquirenti sono mense, gruppi d’acquisto solidali, alcune catene della grande distribuzione, oltre ai clienti del Mercato contadino del Lungorio (grazie alla collaborazione della cooperativa Hortus, che ospita Sapori di libertà anche al mercato del venerdì di piazzale Gramsci) e di Borgochiesanuova (ogni quindici giorni). Canali di vendita ai quali si è aggiunto l’e-commerce, che porta la bontà di Sapori di libertà in tutta Italia. “La Nave” e la capitana coraggiosa di Daria Bignardi Vanity Fair, 1 settembre 2021 Quest’anno a Venezia c’è anche un mio film. Non è proprio un mio film anche se sono citata tra i tre interpreti principali: gli attori veri sono Loris Fabiani e Alessandro Castellucci, io compaio solo nella parte non fiction e meno male, se no avrei rovinato il film, non lo dico per falsa modestia ma perché sono negata per la recitazione e comunque faccio un altro mestiere. Non è neanche un film, a dirla tutta, è un docufilm. Ma mi riguarda e ci riguarda tutti perché parla di carcere e non fatemi citare Dostoevskij (sì dai: “Il grado di civiltà di un Paese si misura dalle sue prigioni”). Il docufilm si chiama Exit, è diretto da Stefano Sgarella e racconta una storia che ha a che fare col reparto La Nave, ultimo piano del terzo braccio del carcere San Vittore di Milano, dove sono rinchiusi detenuti in attesa di giudizio con problemi di dipendenza. “Exit” parla di volontariato, di musica e di bellezza come chiave per la libertà, racconta anche il blocco traumatico causato dal Covid, passando per la rivolta di marzo 2020, attraverso lo sguardo di Alex (che bravo attore Loris Fabiani!) che ha perso il fratello proprio per una storia di droga. Sarà presentato in anteprima a Venezia in occasione della Mostra il 9 settembre, presso la sede della Fondazione Ente dello Spettacolo, con Gherardo Colombo, Luciano Gualzetti - direttore della Caritas Ambrosiana - e soprattutto con la ministra Marta Cartabia, il primo ministro della Giustizia da quando seguo le cose di carcere - ovvero moltissimi anni - che conosce profondamente la realtà del carcere e ha il coraggio - in Italia ce ne vuole moltissimo - per occuparsene seriamente. La situazione delle nostre carceri è drammatica e la pandemia l’ha peggiorata. Dedicarsi con competenza, umanità, passione e determinazione alla situazione delle carceri italiane è un’impresa talmente faticosa, generosa e apparentemente disperata che soltanto una donna poteva provarci. È stata tua la colpa di Luigi Manconi La Repubblica, 1 settembre 2021 La rassegna di Florinas, nel Nord della Sardegna, ribalta il concetto di autocritica. Che diventa sempre più atto di accusa verso gli altri. Il Festival della letteratura gialla si svolgerà a Florinas, nel Nord della Sardegna, da oggi al 5 settembre. A promuoverlo è l’amministrazione comunale di quel paese (1506 anime, 12 km in linea d’aria da Sassari), ormai da dodici anni. La direzione artistica è affidata alla libreria Azuni di Sassari (quella dello storico liceo classico in cui hanno studiato Palmiro Togliatti ed Elisabetta Canalis, Enrico Berlinguer ed Enrica Bonaccorti) e a Cyrano di Alghero. E qui si trova già un primo indizio di quella intricata investigazione che costituisce la trama del Festival, perché dietro il richiamo al romanzo di Edmond Rostand si scopre un luogo sorprendente: una delle rare librerie-enoteche presenti in Italia. Attenzione: non una libreria dove si può bere un aperitivo, bensì la sede di una felice convivenza tra lettura e alcol. La libreria-enoteca Cyrano di Maria Luisa, Elia e Gian Mario offre, infatti, una grande scelta in materia di vini e, allo stesso tempo, una affettuosa attenzione per gli interessi culturali di chi ritiene che un libro da leggere non sia solo quello in testa alle classifiche dei più venduti. Un luogo, insomma, che avrebbe fatto la delizia - siamo in una città per molti versi “catalana” di Pepe Carvalho, l’investigatore privato inventato da Manuel Vázquez Montalbán. Carvalho ha reso la cultura del cibo e del vino una importante risorsa analitica per indagare il crimine, i suoi autori e le sue vittime. Montalbán è morto da quasi vent’anni e dunque non potrà essere a Florinas, ma vi saranno importanti autori come Ian Manook, Wulf Dorn, Serge Quadruppani, John Woods e Carlos Zanón. E poi gli italiani: da Bruno Arpaia a Barbara Baraldi (sceneggiatrice di Dylan Dog), da Wu Ming 1 a Federica Graziani, da Enrico Pandiani a Stefania Divertito e a Luca Crovi. A scorrere i nomi, balza immediatamente agli occhi che non si tratta esclusivamente di scrittori di genere. E questo è il secondo indizio. La letteratura gialla, o come la si voglia chiamare (se ne discute da mezzo secolo), mette a disposizione, dentro una struttura narrativa compatta e regolata, una serie di categorie utili a interpretare il male nelle sue manifestazioni individuali e nei suoi effetti sul contesto sociale. Insomma, il meccanismo dell’indagine poliziesca svolge la medesima funzione - oso dire - della psicoanalisi, delle scienze sociali e dell’antropologia. Lo si capisce bene ponendo attenzione al terzo indizio (ricordate? Secondo Agatha Christie “tre indizi fanno una prova”): l’edizione di quest’anno di Florinas in giallo ha per titolo “La colpa”. Nella liturgia cattolica, la messa e la celebrazione eucaristica vengono preparate da un atto penitenziale: è il Confiteor, la confessione. Le parole cruciali della versione in latino sono: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa, indirizzate a Dio Onnipotente, ma anche “a voi” (vobis): ovvero coloro che partecipano al rito. L’ammissione della colpa, dunque, viene pronunciata, sì, al cospetto di Dio, ma rivolgendosi ai propri simili. Ci voleva il trauma della Seconda guerra mondiale, dei totalitarismi e del sistema-lager per fare della confessione della colpa un tratto essenziale dello spirito del tempo. Emerge così, nella psiche dell’uomo occidentale novecentesco, il senso di una colpa commessa e non espiata. Intere popolazioni vengono chiamate a rispondere di atroci crimini. E si apre l’epoca del Mea culpa che - come nella liturgia cattolica - si rivolge a vobis: ovvero ai membri tutti del consesso umano. La pratica dell’autocritica, da procedura politica autoritaria, propria di alcuni processi rivoluzionari - quello sovietico e quello cinese - diventa un atteggiamento destinato a invocare perdono e riconciliazione (Commissione per la verità e la riconciliazione è il nome dell’organismo che intendeva sanare le ferite lasciate dall’apartheid in Sudafrica). Si pensi al discorso di Giovanni Paolo II nel 1986 nella sinagoga di Roma. E alla terribile auto-accusa del Presidente serbo Tomislav Nikolic: “Mi inginocchio, chiedo perdono per la Serbia e per il crimine di Srebrenica”. Infine, al senso delle parole del premier rumeno Florin Cîtu, a proposito delle migliaia e migliaia di ebrei perseguitati: “Inimmaginabile sofferenza, crudeltà e ferocia”. Dietro queste ammissioni di colpa si intravede la consapevolezza che non può esservi memoria condivisa e storia comune se non si indagano le responsabilità morali e materiali e se non si riconosce una pena da espiare attraverso una sanzione adeguata. Eppure, tutto ciò, oggi, sembra travolto da una tendenza che va in direzione opposta. È come se l’autoriflessione, la conoscenza di sé, l’esame di coscienza comportassero una fatica talmente logorante da rovesciarsi, fatalmente, nel suo contrario. Si può dire: dall’epoca del Mea culpa alla stagione della Tua culpa. Non è il brillante aforisma di un qualche teorico dello Scetticismo Universale: è, piuttosto, lo slogan più appropriato per il tempo presente. E il tracciato di una traiettoria del sentimento collettivo e dell’umore di massa. In altre parole, si è passati dal rito di un autodafé permanente alla pratica di una ininterrotta delazione. Dall’assunzione della propria responsabilità all’atto di accusa contro “gli altri”. Dalla confessione collettiva al populismo penale come domanda di giustizia esemplare e vendicativa, fino al giustizialismo dei mozzaorecchi assetati di sangue. La narrativa gialla o noir o poliziesca o thriller o crime che si propone a Florinas allude a tutto questo. Spetta a noi raccogliere gli indizi, tradurli in prove, farne strumenti per investigare e conoscere la realtà. Educazione digitale per i minori: unico scudo contro le fake news di Antonino La Lumia* Il Dubbio, 1 settembre 2021 I dati dimostrano che la rete è fonte informativa primaria, se non unica, per i giovani, ma anche come molti di loro non riescano a distinguere le notizie false. Va perciò avviata subito una campagna che crei nei ragazzi consapevolezza e strumenti per riconoscere i messaggi. È l’unico modo serio che abbiamo per evitare che proprio i minori, irretiti dalle notizie inventate, ne alimentino il propagarsi attraverso i dibattiti che quell’informazione sa accendere sui social. La parola ha rappresentato la chiave evolutiva per l’uomo, determinando il passaggio a una società dove la comunicazione costituisce la forma di relazione personale più immediata: comunicare significa vivere, rendere la realtà esperienza condivisa, dare sostanza alle cose riconducendole all’unicità del linguaggio. Nel recente saggio “Elogio della parola”, Lamberto Maffei ne tratteggia l’evoluzione, con finalità difensive, partendo dalla splendida convinzione che “l’uomo, la sua unicità e la sua civiltà siano espressi da una stringa di parole che la ragione infila nella collana della storia”. Oggi - la pandemia lo dimostra, al di là di ogni benevolo dubbio - corriamo il rischio che, priva di ogni residuo di ragione, quella stringa finisca per spezzarsi, mandando in frantumi la collana della nostra attualità: il funambolico vortice delle fonti di (dis)informazione, moltiplicatesi a dismisura nell’oceano della rete, porta ormai a sovrapporre il reale al surreale, in un magmatico flusso mediatico, dove la verità diventa opinabile e le capacità di giudizio di larghe fasce della popolazione (non solo italiana) rispetto alle notizie false si vanno drammaticamente riducendo. Il dato, al di là della stretta cronaca, induce a riflettere, perché le nuove tecnologie determinano effetti irreversibili sui comportamenti e sulle abitudini sociali: l’analisi dei numeri racconta che la metà della popolazione mondiale (3,8 miliardi di persone) utilizza regolarmente i social media (il 98% si collega tramite dispositivi mobili), mentre sono 4,54 miliardi le persone connesse a Internet (Report Digital 2020 di WeAreSocial, in collaborazione con Hootsuite). Le statistiche più sorprendenti fotografano la permanenza online: l’utente medio spende “navigando” un tempo pari a oltre 100 giorni all’anno (6 ore e 43 minuti al giorno): oltre un terzo di questo tempo, 2 ore e 24 minuti al giorno, è dedicato specificamente all’uso dei social network. La perenne immersione nella rete incide anche sulla psicologia degli utenti: più di una persona su due (56%) presta particolare attenzione al tema delle fake news, come potenziale elemento di distorsione dell’informazione, e il 64% manifesta preoccupazione circa la modalità con le quali le aziende utilizzano i loro dati personali. L’eloquenza dei numeri non può che trovare conferma nell’infuocato dibattito che ruota attorno al Covid: secondo l’ultimo rapporto Censis “Disinformazione e fake news durante la pandemia” (aprile 2021), gli effetti della comunicazione confusa sono talmente deleteri che addirittura 5 milioni di italiani (circa il 10% del totale) sono ancora convinti che i bambini non possano ammalarsi con il virus. Questo continuo sovraffollamento comunicativo, alimentato da notizie non verificate o perfino inventate, invece che migliorare il grado di conoscenza di un determinato evento, sta provocando sempre più spesso una visione distorta della realtà, sfociando in situazioni di allarme sociale e comportamenti che portano con sé conseguenze fatali sull’intera comunità. La questione impatta decisamente anche sulla sfera del diritto: la disinformazione, infatti, può essere arginata soltanto con un sistema normativo adeguato al nuovo assetto dei canali di comunicazione, prevedendo parallelamente accordi di principio con le maggiori piattaforme social e promuovendo iniziative di sensibilizzazione sull’uso consapevole della rete. La diversa conformazione della realtà sociale in base al proliferare di una conoscenza gravemente falsata, unita alla dispersione del concetto stesso di comunicazione, determina - sul piano strettamente giuridico - notevoli implicazioni, che attengono all’interpretazione delle regole generali di condotta e, di conseguenza, all’efficacia (o meno) delle norme. Ne stiamo avendo un esempio quotidiano, in queste settimane, con il tema dei vaccini e del cosiddetto green pass: si è ormai ribaltato il normale processo di formazione del pensiero, che origina dall’acquisizione della notizia, la quale, metabolizzata come informazione, diventa patrimonio - individuale e collettivo - di conoscenza. Adesso, al contrario, si forma prima l’idea (ovviamente contrastante con quella “ufficiale”, ritenuta sconveniente e dannosa, seppur basata su verità scientifiche) e soltanto dopo, per supportarla e diffonderla, si costruiscono le notizie deformate ad arte, lasciando che la rete operi da detonatore, generando la più classica scia di opinioni, commenti e invettive: è assodato, infatti, che una fake news abbia una velocità di propagazione sul web anche di venti volte superiore rispetto alle altre. È un brodo di coltura molto pericoloso, perché porta alla creazione di una verità “altra”, che per molti - sprovvisti di mezzi culturali e psicologici adeguati - diventa la verità “unica”. Nella difficile sfida della riconquista di un pensiero autentico, la fascia più critica è quella dei giovani: da nativi digitali, non potrebbero immaginarsi lontani da Internet e, proprio per questo, corrono i rischi maggiori di subirne gli influssi negativi, facendosi coinvolgere - spesso per immaturità - dalla catena delle fake news. In questa prospettiva, giocano un ruolo delicatissimo non soltanto i genitori e la famiglia, primo presidio nella quotidianità, ma anche gli educatori e le Istituzioni: il corretto sviluppo cognitivo dei minori, infatti, è un obiettivo fondamentale per l’intera società, rappresentando il diritto all’informazione la prima fase di consolidamento dell’idea di comunità democratica, fondata su rapporti paritari tra individui consapevoli. La falsa conoscenza, per certi versi peggiore dell’ignoranza, è - invece - in grado di innescare un drammatico domino di inconsapevolezza, che va combattuto sin dai banchi di scuola (o dai primi smartphone, se si vuole): una battaglia che, a buon diritto, può essere ricondotta alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, sottoscritta nel 1989 dall’Assemblea generale dell’Onu, e ai suoi principi fondamentali, tra i quali il diritto alla protezione e al benessere del minore, nonché il diritto all’ascolto e alla partecipazione. Di particolare rilievo, in tal senso, è il primo comma dell’articolo 13, che - riferendosi alla libertà di esternare le proprie convinzioni - presuppone e tutela il diritto alla corretta informazione: “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni e idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo”. È un difficile equilibrio tra libertà e controllo, che - lontano dalle imposizioni - può essere tenuto in piedi unicamente dalla fiducia e dalla coscienza indotta dall’autentica conoscenza: i ragazzi possono ottenere la “piena cittadinanza digitale”, utilizzando la tecnologia in modo sano, senza farla diventare preponderante rispetto alla vita reale e soprattutto gestendola in modo da valutarne appieno vantaggi e criticità. Un approdo raggiungibile mediante una seria e ragionata educazione digitale, che viaggi coerentemente con l’istruzione, come componente primaria dell’apprendimento: non è più concepibile (né utile) un percorso scolastico credibile e realmente formativo che non comprenda - da un lato - l’analisi e il senso stesso della “vita” telematica e - dall’altro - le giuste coordinate per renderla fruibile, secondo canoni di accessibilità e sicurezza. La chiave di volta, in questa semina della crescita, diventa proprio la capacità di muoversi nella rete, distinguendo innanzitutto ciò che è vero da ciò che è artefatto (spesso talmente bene da apparire verosimile): per questo, istruzione, cultura e maturità digitale non possono che evolversi in unica via, attraverso l’esperienza diretta a verificare le notizie. È questo il passaggio più complesso, perché serve far sviluppare uno spirito critico sempre più marcato in soggetti - adolescenti, ma ormai anche preadolescenti - che frequentemente manifestano un’intolleranza “fisiologica” per ogni forma di regola imposta dall’esterno: per tale ragione, diventa indispensabile una formazione costante con un approccio educativo collaborativo, che segua il versante scolastico e quello familiare, avendo come scopo finale quello di rendere spontanea la ricerca di fonti autorevoli. Ecco perché occorre operare direttamente sul campo, guidando e coinvolgendo i ragazzi nella scoperta delle insidie della rete e portandoli - nel modo più intuitivo possibile - a rendersi conto di come le notizie, anche apparentemente verosimili, possano essere identificate come fake news, attraverso l’analisi di alcuni particolari: immagini contraffatte, storie costruite ad arte per essere più credibili, nomi falsi dei siti, linguaggio scientifico usato impropriamente soltanto per rendere verosimile un’opinione non supportata da riscontri oggettivi. Il tutto anche per evitare che i giovani siano portati a partecipare a tutte quelle inutili (e anzi dannose) discussioni, che montano a margine di episodi di disinformazione, con l’unico effetto di renderli ancora più virali. Bisogna, in altri termini, operare - individualmente e collettivamente - per limitare al massimo il fenomeno della cosiddetta overconfidence, ossia quella eccessiva fiducia dei minori nelle proprie capacità di giudizio rispetto alle notizie, derivante dall’innegabile abilità nell’uso degli strumenti tecnologici: non è un caso, d’altronde, che, secondo una recente ricerca della Fondazione Mondo Digitale per il progetto “Vivi internet al meglio”, condotta - in collaborazione con Google e Altroconsumo - su giovani tra 14 e 19 anni, ben 3 su 5 considerino la rete la prima fonte per informarsi e, nonostante il 90% sia a conoscenza dell’esistenza di news non autentiche, più di un terzo degli intervistati (36,3%) dichiari di non essere mai stato vittima di disinformazione e comunque il 43,2% sostenga di esserlo soltanto poche volte all’anno. La consapevolezza dell’autodifesa dal virus della disinformazione diventa, pertanto, la più potente arma di contrasto al proliferare delle notizie false: il controllo delle fonti, attraverso un’attività costante di fact-checking, rappresenta il modo più semplice ed efficace per farlo. È il messaggio fondamentale da trasmettere ai giovani nella ripida e malferma scala dell’educazione digitale, così da poter tornare al condivisibile concetto primario di informazione, sostenuto da Hegel già nel 1820 e sempre attualissimo: “La preghiera dell’uomo moderno è la lettura del giornale: ci permette di situarci nel mondo storico, quotidianamente”. Situarci nel mondo storico, appunto. Con notizie vere. *Avvocato del Foro di Milano No vax, stazioni dei treni presidiate. Lamorgese: “Non saranno tollerate illegalità” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 1 settembre 2021 In risposta alle manifestazioni dei gruppi “no vax” e “no green pass” annunciate per oggi, 1 settembre, la ministra dell’Interno mostra fermezza. Monta la violenza sul web: minacciati Di Maio, Salvini, Meloni. Si aspetta per oggi l’invasione delle stazioni dei treni da parte dei no-vax, cinquantaquattro quelle prese di mira (ma si teme anche per metro e bus, ndr). Oggi che entrerà in vigore l’obbligo del green pass per trasporti, scuola, università. Il popolo dei no-vax ha minacciato di voler bloccare le partenze dei treni. Alta l’attenzione da parte delle forze dell’ordine. “Non saranno ammesse illegalità in occasione delle iniziative di protesta nei pressi delle stazioni ferroviarie pubblicizzare sulla Rete”, garantisce la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Lamorgese: “Indaghiamo sugli attacchi, toni inaccettabili” - E mentre montano sulla Rete minacce e ingiurie colme di violenza, la ministra Lamorgese è determinata: “Esprimo la più ferma condanna per gli attacchi mossi con toni inaccettabili sulla rete contro esponenti di Governo, politici, medici e giornalisti in relazione al green pass e alle misure di contenimento della diffusione del Covid-19. Tutti questi episodi sono oggetto di indagini da parte della polizia giudiziaria”. Minacciato “l’uso del piombo” contro Salvini, Meloni e Di Maio - La protesta monta con grande violenza. Contro Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giorgia Meloni è stato minacciato “l’uso del piombo”. Ma anche il ministro degli Esteri ha mostrato fermezza: “Il clima d’odio fa male al Paese e non fermerà la campagna vaccinale. Le minacce dei no-vax non sono tollerabili e vanno denunciate senza esitazione. Parlano di libertà, vita e poi minacciano di morte le persone. Si sta superando ogni limite”. Non ha dubbi il ministro Di Maio, per il quale la solidarietà è arrivata praticamente unanime: “La risposta migliore che possiamo dare è vaccinarci”. Aggredito Bassetti - Una risposta intanto sta arrivando dalla procura di Genova che sta valutando anche il carcere per le aggressioni e le minacce via social che potrebbero essere considerate stalking. Lo spunto arriva dopo l’aggressione da parte di un no-vax all’infettivologo Matteo Bassetti, per il quale si sta pensando anche l’adozione della scorta. La Digos ha denunciato otto persone che da dicembre ad oggi hanno riempito il web di aggressioni verbali, ma intanto nelle ultime ore le minacce e le aggressioni si stanno moltiplicando, senza risparmiare nessuno. Minacciati anche Azzolina, Bonaccini, Prodi e J-Ax - È di ieri la minaccia social all’ex-ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, che aveva stigmatizzato le violenze. Per lei frasi ben più che violente (“i proiettili fanno paura quando li senti cantare vicino”, tra queste.). In un crescendo senza controllo sono stati presi di mira pure i governatori del Piemonte Alberto Cirio e dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Non è passato indenne alla violenza della rete nemmeno l’ex-premier Romano Prodi. E insieme ai politici anche esponenti del mondo dello spettacolo, nel mirino è finito anche il cantante J-Ax. “Stiamo monitorando costantemente la situazione e ci sono indagini in corso, perché si tratta di reati”ha detto Nunzia Ciardi direttore del servizio della Polizia postale. “La Costituzione stabilisce il diritto dei cittadini a riunirsi pacificamente e senza armi” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 1 settembre 2021 Intervista a Sabino Cassese. Proteste in decine di città italiane contro l’obbligo di green pass sui mezzi di trasporto a lunga percorrenza. Alla vigilia dell’entrata in vigore dell’obbligo di green pass sui mezzi di trasporto a lunga percorrenza, fatto per cui si attendono proteste e disordini in decine di città, chi prova a fare un po’ di chiarezza nella galassia dei no vax e dei contrari alla certificazione verde è Sabino Cassese, giurista e giudice emerito della Corte costituzionale. Ricorda, in vista delle proteste annunciate per domani, che l’articolo 17 della Costituzione parla di “riunioni pacifiche e senz’armi” e sullo scetticismo nei confronti dei vaccini spiega che “grazie al progresso della scienza sono state debellate malattie prima mortali e l’età media si è alzata di molto: basterebbe questo a capire che i benefici sono di gran lunga superiori ai rischi”. Professor Cassese, decine di associazioni hanno annunciato che occuperanno i binari dell’alta velocità per impedire partenze e arrivi dei treni. Teme degli scontri? A quei gruppi di persone, sia che siano contrari al vaccino, al green pass o a entrambe le cose, che hanno annunciato dei disordini, bisognerebbe ricordare che l’articolo 17 della Costituzione dice che tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi, cioè senza atti di violenza. Di conseguenza, quanto scritto nella Carta deve essere fatto rispettare dalle forze dell’ordine, nel caso in cui il carattere pacifico delle manifestazioni o il divieto di portare delle armi venga meno. C’è ancora una sacca di popolazione, stimabile in una cifra vicina al dieci per cento, che rifiuta categoricamente la vaccinazione, temendone eventuali conseguenze. Come si convincono queste persone? Le faccio un esempio: quando delle persone salgono su un autobus, su una nave o su un aereo, visto che siamo in tema di trasporti a lunga percorrenza, sanno che stanno mettendo la loro vita nelle mani di un’autista o un pilota, e di conseguenza vogliono, giustamente, che questi abbiano la patente e sia in grado di guidare il mezzo del quale è al comando. Si tratta di fiducia reciproca tra persone. Inoltre mi chiedo: se un no vax deve operarsi di appendicite, penserebbe mai di rifiutare l’anestesia e quindi l’operazione? O piuttosto ha fiducia nel progresso della medicina e rispetta la competenza dei medici? È a queste domande che i no vax dovrebbero rispondere. La medicina ha fatto passi da gigante, ma alcuni errori di comunicazione, come quelli su Astrazeneca, hanno generato timore e insicurezza. Come si risolve? Guardando ai fatti e ai numeri. L’Istat ha spiegato che negli ultimi 70 anni la vita degli uomini si è allungata di 17,5 anni, quella delle le donne di 18,2. Questo significa che se invece che nel 1935 io fossi nato settant’anni prima sarei già morto. Dobbiamo fidarci del progresso enorme della medicina e di come si sono sviluppate le scienze della vita. A inizio novecento la mortalità infantile era molto alta perché non c’erano quei vaccini e quelle cure che oggi li proteggono. La politica si interroga sull’introduzione dell’obbligo vaccinale e il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha parlato di concertazione europea. È prevedibile l’entrata in vigore di qualche tipo di obbligo? Debbo qui di nuovo richiamare la Carta, nella quale, all’articolo 32, è scritto che la legge può disporre trattamenti sanitari obbligatori, senza specificare per quante persone. Un’applicazione razionale di questo articolo comporta che prima di esser stabilito per tutti possa essere introdotto o per coloro che più facilmente possono essere colpiti dal virus, o per coloro che, magari per questioni lavorative, possono essere più facilmente vettori di contagio. E infatti esistono già atti con forza di legge che dispongono l’obbligo, ad esempio, per i sanitari. Insomma è possibile circoscrivere un obbligo senza che questo sia generalizzato e mi sembra che questa sia la strada che si sta prendendo. Come convincerebbe i dubbiosi del vaccino, cioè coloro che magari non credono a teorie del complotto o affini ma che non hanno del tutto fiducia nei farmaci fin qui approvati dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema) e dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa)? Direi loro che il problema deve essere affrontato in maniera razionale: dobbiamo sapere che in ognuna delle nostre scelte ci sono dei rischi; calcoliamo quali sono questi rischi, che sono estremamente rari, rispetto agli innumerevoli benefici prodotti dal vaccino e dai progressi della scienza. Basti vedere, come accennavo poco fa, agli anni di vita guadagnati nel corso del tempo grazie agli stessi vaccini che oggi rifiutiamo. Questo dovrebbe farci riflettere. Braccianti, il contratto della vergogna: “Chi è nero è pagato un euro in meno” di Antonio Giaimo La Stampa, 1 settembre 2021 La denuncia dei sindacati che svelano soprusi e angherie tra i raccoglitori di frutta. “I lavoratori devono imparare a conoscere i loro diritti”. “Se sei bianco la tua paga è di sette euro l’ora, se sei nero sei”. Sono tutti qui i termini contrattuali fra un datore di lavoro e un gruppo di uomini e donne che aspirano a essere assunti per raccogliere la frutta. A raccontare la sconcertante vicenda sono stati ieri a Pinerolo i sindacalisti della Flai Cgil al debutto di un progetto che vuole prevenire e contrastare lo sfruttamento in agricoltura. Con un pulmino bianco i sindacalisti percorrono le strette stradine di quest’angolo di Piemonte tra le province di Torino e Cuneo, terre di sterminate distese di alberi da frutta. Cercano raccoglitori. Si viaggia piano e si scruta fra i filari e quando si vedono i grandi cassoni di plastica che servono a raccogliere le mele ci si ferma. “Siamo del sindacato vi abbiamo portato un cappello di paglia, una maglietta e una bottiglietta di acqua minerale. Non vogliamo interrompere il vostro lavoro ma se avete un problema...”. Ed ecco che sulla bottiglietta dell’acqua viene mostrata un’etichetta con i numeri del sindacato. “Questa è un’attività che in gergo chiamiamo di emersione - spiega Denis Vayr, segretario generale della Flai Cgil Piemonte - è il nostro modo di fare sindacato di strada, incontrare i lavoratori per far conoscere i loro diritti”. Ieri il pulmino bianco si è fermato ed è ripartito più volte spostandosi dalla provincia di Torino, fra le coltivazioni ai piedi della Rocca di Cavour, per entrare nella provincia di Cuneo. È lì che si raccolgono storie di sfruttamento, caporalato e discriminazione. Come quella di un giovane proveniente dal centro Africa: “Mi pagavano 6 euro l’ora perché sono nero. Ai bianchi che lavoravano con me, italiani o stranieri non importa, ne davano 7. Così me ne sono andato”. Ha trovato lavoro da un altro produttore: “Qui mi trattano bene, non mi lamento”. Nel recente passato non sono mancati gli episodi di vessazione, come nel caso di un giovane arrivato dalla Nigeria con la speranza di un lavoro e di una vita felice: “Era stato assunto con un contratto per 20 ore di lavoro settimanali ma ne lavorava il doppio. Il datore di lavoro gli aveva trovato una casa a dieci minuti di bici ma gli scalava l’affitto dalla paga - racconta Teresa Bovino, coordinatrice regionale del progetto -. Cominciava alle 6 e smetteva alle 7 di sera. Quando ha chiesto la busta paga gli è stato risposto che a lui non serviva. Quando qualcuno andava in cascina lui doveva nascondersi e stare zitto. Quando un colpo di tosse ha tradito la sua presenza sono arrivate le bastonate”. “Le vittime sono sempre i più deboli - fa osservare Andrea Ferrato, responsabile della Camera del lavoro di Pinerolo - un tempo erano i giovani, gli studenti a raccogliere la frutta, oggi sono tanti migranti che si spostano dal Nord al Sud e viceversa: oggi le mele e fra un poco saranno in Sicilia per le arance”. “In questa fase, mentre giriamo tra i frutteti, non emergono subito situazioni paradossali - spiega Teresa Bovino - ma si stabilisce con i lavoratori e con la rete a cui appartengono un primo contatto. Loro adesso sanno dove trovarci in caso di necessità”. Per fortuna non sempre nelle campagne si respira un clima di sfruttamento. Tra i filari Aziza, una donna marocchina, raccoglie le mele e dice: “Sono ben trattata, mi pagano puntualmente e lavoro qui da 15 anni”. Sorride, indossa il cappello di paglia e beve un sorso d’acqua, si volta e continua a staccare le mele dalla pianta. Poco più in là il suo datore di lavoro manovra il trattore e uno dopo l’altro infila i cassoni con le mele rosse. “I raccoglitori li pago 7 euro e cinquanta l’ora, ho tutto in regola, lavorano con impegno e noi imprenditori abbiamo bisogno di loro, anzi a volte non ne troviamo”. Il pulmino bianco si rimette in marcia alla ricerca di altri lavoratori, la stradina taglia i campi coltivati, i sindacalisti mettono in ordine le schede del lavoro svolto, sanno che ne avranno per giorni, sono 12 492 i braccianti agricoli extracomunitari in Piemonte. Il sole tramonta e se chiedi a un bracciante quante ore lavora tutti ti diranno “otto, nove, dieci finché serve”. Il razzismo contro i braccianti continua a esistere e le leggi non cancellano i caporali di Michela Marzano La Stampa, 1 settembre 2021 C’è chi pensa che il razzismo, in Italia, non esista più. E che continuare a parlarne significhi non rendersi conto delle trasformazioni del nostro paese, oppure concentrarsi su fatti episodici di violenza estrema, oppure far prova di buonismo. C’è pure chi è convinto dell’inutilità della presenza del termine “razza” nella nostra Costituzione, ovviamente per ragioni opposte a chi nega l’esistenza del razzismo - sostenendo, a giusto titolo, che le razze non esistono, e che ogni essere umano è uguale a tutti gli altri in termini di dignità e di valore -, sebbene molte discriminazioni esistano proprio perché c’è ancora chi crede che essere bianco o nero significhi appartenere a razze diverse. C’è quindi, per farla breve, un universo di pensieri, giudizi e pregiudizi contrapposti che può pure essere interessante da esplorare da un punto di vista intellettuale ma che, a conti fatti, si scontra sistematicamente con ciò che accade nella vera vita. Cos’altro si cela d’altronde dietro la diversa remunerazione dei braccianti agricoli che stanno raccogliendo la frutta in provincia di Torino, se non un razzismo bieco, stupido, cocciuto e insopportabile? Cos’altro può spiegare il fatto che un bianco sia pagato sette euro all’ora mentre un nero, di euro, ne riceve solo sei per lo stesso identico lavoro? Il contesto è sempre (e inesorabilmente) lo stesso. Quando arriva l’epoca della raccolta di frutta e legumi, in tutt’Italia, si sfrutta la manodopera, pagando braccianti e operai molto meno rispetto alle tariffe regolamentari. È il tristemente celebre fenomeno del caporalato che - nonostante l’approvazione nel 2016 di una legge per il contrasto del lavoro nero e, appunto, del caporalato -non solo continua a persistere nel Meridione, ma è anche ormai presente nel Nord d’Italia. Sebbene ciclicamente accada qualche tragedia, e ci si concentri sull’orrore del cinismo e dell’avidità che porta a sacrificare tante vite umane, la situazione non cambia. Purtroppo. E nonostante alcune lodevoli eccezioni - come è accaduto quest’anno a Foggia dove l’azienda agricola “Primo Bio” ha selezionato una cinquantina di braccianti extracomunitari per la raccolta dei pomodori e li ha assunti con regolare contratto di lavoro stagionale -, sono tanti, troppi, i produttori che preferiscono trasgredire la legge e puntare alla massimizzazione dei guadagni. Il caso della provincia di Cuneo, però, è diverso, peggiore. Visto che alcuni datori di lavoro non solo hanno deciso di continuare a pagare in nero i propri braccianti, ma hanno anche scelto di fare una distinzione fra “braccianti bianchi” e “braccianti neri”, pagando meno i neri. Perché? Il colore della pelle influisce sul rendimento nei campi? Essere nero significa essere più lento, meno accurato, meno preciso? Oppure cosa? Un nero ha meno valore? E di quale valore stiamo parlando? Di un valore strumentale (che, in genere, hanno le cose e non persone) o del valore intrinseco (che è sempre lo stesso indipendentemente dalle differenze specifiche di ciascuno di noi)? “Non riesco più a sostenere il loro sconcerto, il loro mettersi sulla difensiva, mentre tentano di scendere a patti col fatto che non tutti sperimentano il mondo esattamente come loro”, scrive Reni Eddo-Lodge nel 2014, in un post diventato immediatamente virale e intitolato: “Why I am no longer talking to white people about Race”. A meno di non essere costretta a farlo, continua Eddo Lodge - che ha poi pubblicato sullo stesso tema un bellissimo libro - non parlerà più né di razza né di razzismo con le persone bianche. La blogger e scrittrice britannica sottolinea come non sia purtroppo vero che oggi le persone siano tutte uguali e che, per lottare contro quello che definisce il “privilegio bianco”, sia più che mai necessario “vedere la razza”. E quindi rendersi conto di quanto il colore della pelle abbia tutt’oggi un peso, portando alcuni a comportarsi in maniera diversa a seconda che siano di fronte a un bianco o a un nero, fino a escludere dalla narrazione di essere umano tutte le persone nere. Allora sì, dobbiamo continuare a parlare di razzismo di fronte a situazioni come quella dei braccianti nel cuneese. E forse anche di “razza”. Perché non è il termine “razza” che alimenta il razzismo. Il razzismo si alimenta ogni qualvolta si tacciono o minimizzano episodi di discriminazione, pensando che quest’orribile ideologia possa esprimersi solo attraverso forme estreme di violenza verbale o fisica. Droghe e salute mentale. Un pensiero critico in campo di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 1 settembre 2021 La storia delle politiche sulle droghe è, anche, storia del tentativo di sottrarle ai processi di psichiatrizzazione e al sistema dei trattamenti psichiatrici, restituendo alla realtà dei consumi di droghe, legali e illegali, la complessità che le caratterizza come fenomeno sociale e culturale, che ha ricadute anche in termini di salute individuale e pubblica, ma non può essere letto e trattato secondo il riduzionismo biomedico e l’approccio morale. In parte questa sottrazione è stata formalmente riconosciuta dalle due successive leggi, la 685 del 1975 e la 309 del 1990, anche sotto il profilo dei modelli organizzativi, che si sono resi autonomi, e tuttavia si tratta di un processo rimasto ambiguo e mai del tutto compiuto. La tenaglia della patologizzazione da un lato e della criminalizzazione e stigmatizzazione delle persone che usano droghe dell’altro ha di fatto tenuto sempre aperta la porta a continue, ricorrenti e diverse incursioni da parte della psichiatria più istituzionalizzante. Negli ultimi anni è in corso a livello globale un processo di ri-psichiatrizzazione delle droghe molto aggressivo, in cui gioca un ruolo decisivo il neo-bio-determinismo che legge i consumi e i problemi correlati in termini di “malattia del cervello” (brain disease), secondo una pessima (e sbagliata) interpretazione riduzionista, appunto, di quanto le neuroscienze vanno indagando. Prospettiva ancor più paradossale quando si consideri come i consumi di droghe si siano normalizzati, quanto si affermino culture, norme sociali e processi di apprendimento a sostegno di un consumo controllato, e quanto la ricerca abbia messo in evidenza che chi usa droghe abbia la capacità e le competenze, in un contesto adeguato e non ostacolante, di regolarne l’uso in maniera sostenibile. Per rilanciare una critica ragionata a questa tendenza la Summer School 2021 di Forum Droghe e CNCA è dedicata a La salute di chi consuma droghe e la salute mentale. Saperi critici a confronto per una alternativa alla patologizzazione. Quello che si discuterà non è solo una strategia difensiva contro la tendenza restauratrice di riportare le droghe nella psichiatria (cosa per altro già in atto con l’ingresso delle dipendenze nei Dipartimenti di Psichiatria di alcune ASL e il progetto di farne modello nazionale, assai criticato in entrambi gli ambiti), e tanto meno si intende dare voce a logiche corporative. Quello di cui si parlerà è la messa in campo di una prospettiva alternativa, critica e radicale contro i processi di patologizzazione e stigmatizzazione che insieme caratterizzano tanto l’ambito delle droghe quanto quello della salute mentale. Il citato “esproprio di soggettività” a favore di una oggettivazione incapacitante è infatti un tema che fortemente avvicina il mondo critico delle droghe alla critica che Franco Basaglia portò alla psichiatria: non solo critica alla istituzionalizzazione, al manicomio, ma più a fondo critica alla medicalizzazione e ai processi di controllo ad essa correlati. Tanto che ancora oggi uno dei temi al centro del movimento basagliano - e che più sfida e spaventa la psichiatria mainstream - è proprio quello della “restituzione della soggettività”, della critica all’arroganza della diagnosi, della contestazione del bio-determinismo, della lotta allo stigma. Di questa contestazione, in entrambi i campi, è ora urgente approfondire e individuare sintonie, assonanze e alleanze. Perché in entrambi i campi ci sono alternative alla patologizzazione, ci sono esperienze, c’è ricerca, ci sono soggetti - persone protagoniste e operatori - in movimento. E perché queste alternative sono, in entrambi i campi, sotto la minaccia di un grave ritorno al passato. Per info e iscrizioni: https://www.fuoriluogo.it/summer2021 *Forum Droghe-Comitato Scientifico L’esitante Europa di fronte alle crisi mondiali di Paolo Mieli Corriere della Sera, 1 settembre 2021 Da decenni è un continente specializzato nell’arte di “salvare la pace” ricorrendo esclusivamente alla diplomazia. Ora si annuncia una forza di pronto intervento comune ma di qui alla creazione di una struttura militare continentale il passo è lunghissimo. Adesso che, con l’uscita dell’ultimo militare americano, in Afghanistan si è voltata pagina, va detto che negli ultimi giorni l’atteggiamento dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti è stato poco generoso. Assai poco generoso. Nell’antico continente si sono levate voci quasi esclusivamente critiche come se noi europei negli ultimi venti anni o anche negli ultimi venti giorni fossimo stati coinvolti solo inconsapevolmente in quell’avventura. Censure all’operato dell’amministrazione americana sono venute - è vero - anche da moltissimi intellettuali e politici statunitensi: ma quasi tutti i critici americani hanno messo in evidenza il loro precedente coinvolgimento in quel che è accaduto nell’ultimo ventennio. Noi no. Anzi qui in Europa si è ritenuto che, quantomeno nel discorso pubblico, fosse questa l’occasione propizia per rimettere in discussione i fondamenti dell’intera alleanza occidentale. A partire, ovviamente, dalla Nato. Non per “rompere” l’Alleanza Atlantica, ha precisato sul Messaggero Romano Prodi, ma per renderla “più efficace” e “più capace” di affrontare le nuove realtà del pianeta. La nostra accusa a Washington è stata sostanzialmente di non averci avvertito dei rischi che avremmo corso al momento dell’evacuazione. E di non aver voluto ascoltare quel che avevamo da dire sulle modalità dell’esodo. Il primo rimbrotto, quello di non averci messi in guardia sui pericoli insiti nell’abbandono del campo in cui siamo stati sconfitti, è, comunque lo si formuli, davvero puerile: chiunque fosse sul posto aveva gli strumenti per comprendere da sé quel che poteva accadere. Limitiamoci perciò a prendere in considerazione la seconda parte del rilievo: a quel che si intuisce, gli europei - se interpellati - avrebbero suggerito di non lasciare, a luglio, la base di Bagram così da far decollare dall’aeroporto di quell’istallazione militare gli aerei predisposti all’espatrio delle truppe Usa. Può darsi che fosse un consiglio sensato (anche se la strada che conduce a Bagram è priva di protezioni e ripari, al punto d’essere stata ribattezzata “la via del tiro a segno”). Ma in buona sostanza l’accoglimento di questo consiglio non avrebbe cambiato granché l’ordine delle cose. Né avrebbe attenuato la drammaticità dell’uscita da una guerra perduta. A meno che queste critiche sottintendessero la voglia dei Paesi europei di rimanere in Afghanistan, sostituendo con propri soldati quelli americani in partenza. Ma non sembra che fosse questa l’intenzione dell’Europa. Di nessun Paese europeo. E, in tema di sottintesi, proviamo ad analizzare quali potrebbero celarsi dietro la messa in discussione della Nato. L’Alleanza Atlantica ha perso la propria funzione primaria ben trentadue anni fa, con il crollo del muro di Berlino. Da allora è sopravvissuta come struttura militare, sostanzialmente a guida Usa, atta ad intervenire nelle crisi in ogni angolo del pianeta. Laddove un’Europa “parassita” (magistralmente ritratta da Sergio Fabbrini su Il Sole 24 Ore) non era ad ogni evidenza disponibile a fare la propria parte. Mai. Neanche negli incendi che si sviluppavano ai propri confini. All’Europa è stato concesso di addossarsi solo il 20% dei costi della Nato e anche per questo, ragionevolmente, la pari dignità ai vertici è stata pressoché formale. Adesso - dopo una serie di sconfitte - è chiaro che la Nato (forse) sopravviverà ma di interventi come quelli del passato non ne vedremo più. Ora si vedrà cosa è capace di mettere in piedi il nostro continente. Al momento l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, ha annunciato (su questo giornale, a Federico Fubini) la creazione di una “Initial Entry Force” di “cinquemila soldati in grado di mobilitarsi a chiamata rapida”. Un ottimo inizio, anche se su quella “mobilitazione a chiamata rapida” è lecito nutrire qualche perplessità. Ma di qui alla creazione di una struttura militare continentale in grado di affrontare le crisi che - è immaginabile - si prospetteranno, il passo è lunghissimo. Senza contare che un tal genere di struttura militare sarà efficace solo se avrà alle spalle un’entità politica unitaria e - come ha efficacemente messo in evidenza su queste pagine Angelo Panebianco - richiederà “una proiezione esterna, con finalità di pacificazione, nelle zone più turbolente del Medio Oriente o dell’Africa, da cui possono arrivare le minacce all’Europa”. Per avere questo genere di “proiezione” il nuovo esercito europeo dovrebbe essere dotato di quella speciale “licenza” atta a prevenire le crisi con libertà di movimento - come è da sempre per tutti, proprio tutti gli eserciti - lungo alcune linee di confine tra la luce e l’ombra. Niente di tutto questo, però, si intravede all’orizzonte. L’Europa è da decenni un continente specializzato nell’arte di “salvare la pace” ricorrendo esclusivamente alla diplomazia. Non c’è Paese europeo che esiti al cospetto della prospettiva di mediare, interloquire e dialogare. Meglio se con i regimi più illiberali della terra. È l’unica cosa che sappiamo fare. Nei giorni del lutto si versano lacrime e si alza la voce. Poi si torna immediatamente a mediare, interloquire, dialogare. Il che può apparire positivo a fronte di grandi sconvolgimenti come quelli di questi giorni. Ma non è detto che un insieme di 27 Paesi mediatori - talvolta in ordine sparso - del tutto incapaci di far valere, neanche in casi estremi, la forza, sia in grado di dar vita ad un mondo più pacificato di quello che ci lasciamo alle spalle. Afghanistan, l’Europa chiude le porte di Marco Bresolin e Francesco Grignetti La Stampa, 1 settembre 2021 Sostegno sì, ma a distanza. Al Consiglio Affari Interni dell’Unione europea dedicato alla crisi in Afghanistan prevale la linea “aiutiamoli a casa loro”, o al massimo nei Paesi vicini. Bruxelles è pronta a sborsare 600 milioni di euro per gli Stati della regione, a patto che si facciano carico dell’accoglienza dei rifugiati. L’obiettivo principale è piuttosto chiaro: non devono arrivare in Europa. Persino la commissaria Ylva Johansson, che si sta attivando per mettere in piedi uno schema europeo basato sui corridoi umanitari, è costretta ad ammettere che “i reinsediamenti non possono essere la soluzione per l’Afghanistan” e che al massimo serviranno per “alcuni casi particolari”. Nelle prossime settimane ci sarà un forum ad hoc durante il quale la Commissione spera di strappare impegni concreti ai governi dell’Unione, ma i segnali emersi ieri non promettono molto di buono. I ministri di Austria, Danimarca e Repubblica Ceca si sono presentati a braccetto con un messaggio congiunto, articolato su tre pilastri: bisogna aiutare gli afghani a casa loro e nei Paesi vicini; è necessario pattugliare i confini dell’Ue e degli Stati sulle principali rotte migratorie; vanno evitati tutti i messaggi che possano costituire un incentivo all’immigrazione illegale verso l’Ue. Per esempio si è deciso di non fissare il numero di afghani che l’Europa è disposta ad accogliere. “Non credo sia molto saggio parlare di cifre - ha sottolineato il tedesco Horst Seehofer - perché questo innescherebbe un effetto-calamita che vogliamo evitare”. Sul fronte opposto, tra i più determinati a chiedere maggiori sforzi, c’era Jean Asselborn, ministro del piccolo Lussemburgo: “Bisogna attivare un programma per tornare a dare speranza, l’Ue deve dare un segnale”. Ma la sua posizione, seppur non isolata, è parsa decisamente minoritaria nel pomeriggio di discussioni al tavolo di Bruxelles, definite “vivaci” dalla presidenza slovena che infatti a un certo punto ha dovuto interrompere i lavori per una pausa. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, è arrivata al vertice con due obiettivi ben chiari. Il primo: ottenere una deroga straordinaria al Regolamento di Dublino per gli afghani. Il secondo: richiamare tutti i partner e la Commissione agli impegni presi prima dell’estate per l’Africa e in particolare per Libia e Tunisia. “L’emergenza nuova non scaccia l’emergenza vecchia”, è il ritornello che si sente al Viminale in questi giorni. Dove le prospettive non sono affatto rosee. Sul versante afghano, a parte la complessità di accogliere in maniera degna 5000 profughi giunti nel giro di pochi giorni, c’è l’incubo di quel che accadrà nei prossimi mesi. Secondo i dati dell’Unhcr, ci sono 6 milioni di profughi che gravitano nell’area e una parte di essi potrebbe prendere la strada dell’Europa passando per la Turchia. E s’è già visto che dalla Turchia giungono in Italia o via mare, approdando in Puglia, o via terra, in Friuli Venezia-Giulia. Ecco perché la Lamorgese ha voluto chiarire che se si tratta di emergenza umanitaria, tutti gli eventuali profughi afghani non dovrebbero restare nel Paese di primo approdo come vuole il Regolamento di Dublino. Ma siccome la rotta del Mediterraneo centrale non s’è affatto affievolita, anzi, il nostro governo e la ministra Lamorgese in particolare hanno richiamato tutti a tenere ben presente anche quell’altra emergenza. Erano stati promessi molti soldi a Tunisia e Libia. “È stato fatto un riferimento a tutte le rotte, quindi un’attenzione particolare da parte di tutti i Paesi, da parte della Commissione europea, a tutte le altre rotte che comunque hanno delle complicazioni analoghe”, ha dichiarato al termine del vertice. Il concetto di solidarietà tra i Paesi Ue sul dossier immigrazione sta però prendendo una piega molto chiara. Ecco un esempio: “La Slovenia ha donato alla Lituania dieci chilometri di barriera per proteggere la propria frontiera (dall’arrivo dei migranti, ndr). Il mio Paese ha solo due milioni di abitanti e ho fatto un calcolo: se tutti gli altri Stati Ue facessero altrettanto, a quest’ora quel confine sarebbe al sicuro”. A pronunciare queste parole è stato Ales Hojs, ministro dell’Interno sloveno, che in questo semestre guida la presidenza dell’Unione. Poco prima, parlando dei profughi afghani, aveva ricordato che “non tutti quelli che vengono in Europa sono vulnerabili, ci sono anche uomini e tutti rappresentano una potenziale minaccia che dobbiamo combattere”. “Ora salviamo gli avvocati e i magistrati afghani in pericolo” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 1 settembre 2021 La lettera della ministra Cartabia e dei guardasigilli europei all’Ue: “Chi difende diritti e libertà fondamentali rischia la vita”. “I giudici, i pubblici ministeri e gli avvocati afghani rischiano attualmente di pagare con la vita per aver contribuito all’opera di giustizia e alla creazione dello Stato di diritto”. L’allarme lanciato dalla ministra Cartabia non potrebbe essere più chiaro: dopo la caduta di Kabul nelle mani dei talebani, gli operatori della giustizia, e in particolare le donne, sono esposti a un rischio enorme. E spetta ai singoli paesi, di concerto con le istituzioni europee, garantire la massima solidarietà verso chi ha contribuito fino ad oggi alla promozione dei diritti fondamentali, così evitando di “cancellare gli sforzi profusi negli ultimi vent’anni dai nostri rispettivi governi - sottolinea Cartabia - per promuovere l’indipendenza della giustizia, salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali e sviluppare la formazione giudiziaria”. L’appello è rivolto in particolare al commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, il cui intervento è sollecitato attraverso una lettera firmata dalla guardasigilli e dal suo omologo Francese, Éric Dupond-Moretti, spagnolo, Pilar Llop Cuenca, e dalla ministra Sam Tanson per il Lussemburgo. “In aggiunta alle numerose azioni già intraprese a livello di Unione Europea per tutelare le donne e gli uomini afgani particolarmente minacciati - si legge nella lettera - noi riteniamo che debba essere esercitata la solidarietà nei confronti degli appartenenti alle professioni legali con una vigilanza particolare. Infatti, il rilascio da parte dei talebani di detenuti già condannati in precedenza fa pesare, in particolare su giudici, pubblici ministeri e avvocati, la minaccia di imminenti rappresaglie”. Si tratta di una preoccupazione condivisa fin dalle prime ore della crisi afghana dall’avvocatura istituzionale e dalle associazioni forensi che si sono subito mobilitate per mettere in piedi una rete di sostegno a favore dei colleghi in pericolo attraverso un’attività di monitoraggio internazionale promossa dal Consiglio Nazionale Forense. La stessa guardasigilli riconosce l’impegno e “l’aiuto di associazioni di magistrati e ordini di avvocati” che hanno iniziato “a stilare un elenco di operatori della giustizia che necessitano di una particolare tutela” con l’auspicio - prosegue la lettera - di “poter unire i nostri sforzi per accoglierli quanto prima” e di raccogliere, attraverso un’azione congiunta, le “prove di gravi violazioni dei diritti dell’uomo che fossero commesse dal nuovo regime talebano”. “Io stessa negli anni scorsi avevo conosciuto alcune magistrate afgane, con cui ora ho avuto dei contatti. Anche se gli eventi delle ultime ore sembrano andare in tutt’altra direzione, spero comunque di poter fare la mia parte, di concerto con l’intero governo, in aiuto di queste professioniste, che già da mesi vivevano in una condizione di sempre maggiore pericolo”, racconta la ministra al Corriere della Sera, raccogliendo l’appello dell’Associazione donne magistrate italiane che ha ricordato come il brutale omicidio di due magistrate della Corte Suprema afghana, avvenuto nei mesi scorsi, preannunciasse una condizione di pericolo sempre maggiore per le donne. Con il “rischio - chiosa Cartabia - che tutto possa tornare a prima delle riforme iniziate nel 2005”. Il Csm, intanto, garantisce la massima attenzione in relazione alla crisi afghana e alla tenuta dello Stato di diritto. Tema al quale saranno dedicati i primi incontri una volta ripresi i lavori, al fine di promuovere e aderire alle iniziative sollecitate attraverso l’attività della IX Commissione per gli affari internazionali. Mentre il Cnf ha ribadito nelle scorse settimane “l’impegno a fare rete”, con l’ausilio delle commissioni consiliari di riferimento, “recependo e veicolando - spiega la presidente Masi - anche le iniziative dei Coa, dei Cpo, delle associazioni e dei singoli avvocati e avvocate”. “Il tutto - aggiunge la presidente Cnf - realizzando iniziative, alcune già in corso, per la salvaguardia dei diritti delle categorie a rischio nonché sollecitando le autorità competenti affinché venga attuata un’adeguata attività di monitoraggio sul rispetto delle convenzioni internazionali e, in sinergia con il Consiglio degli ordini forensi europei (Ccbe) e l’Osservatorio internazionale avvocati in pericolo (Oiad), promuovendo azioni umanitarie finalizzate a conferire aiuti concreti e sostegno mirato a realizzare condizioni ambientali di sicurezza”. Come ha ricordato il consigliere del Cnf e presidente dell’Oiad Francesco Caia sul Dubbio, la massima istituzione forense ha quindi sollecitato la creazione di corridoi umanitari internazionali per consentire alle donne afghane che ne fanno richiesta di lasciare il paese, garantendo “il massimo sforzo” a tutela di avvocate e avvocati. L’Oiad, in particolare, si è subito attivato per la vicenda di Latifa Sharifi, la legale afghana impegnata nella difesa dei diritti delle donne respinta a metà agosto all’aeroporto di Kabul mentre tentava di riparare all’estero insieme alla famiglia. “Questo è il momento di agire - spiega Caia - di tentare di fare qualcosa di concreto per aiutare in primis coloro che rischiano la vita restando in Afghanistan”. Afghanistan. I talebani e l’editto del silenzio: vietare la musica significa negare la vita di Ernesto Assante La Repubblica, 1 settembre 2021 Provate a immaginare un mondo senza musica. No, non è possibile. Eppure accade, oggi, a poche ore di volo dalla vostra casa, nel nuovo Afghanistan talebano. E’ una notizia terribile e che non va sottovalutata. Anche perché i talebani hanno già iniziato a costruire il loro mondo senza musica: “La musica è proibita nell’islam, ma speriamo di poter persuadere le persone a non fare queste cose, invece di fare pressioni”, aveva dichiarato qualche giorno fa al New York Times il portavoce Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani. Ma le “pressioni” sono già iniziate e domenica è giunta la notizia dell’uccisione di uno dei più noti folksinger afghani, Fawad Andarabi. Secondo i familiari del musicista, Andarabi aveva avuto assicurazioni dai talebani che lui e la sua famiglia sarebbero stati al sicuro, invece pochi giorni dopo alcuni miliziani sono andati a casa sua, lo hanno portato all’esterno e lo hanno ucciso. “Era innocente, un cantante che intratteneva la gente”, ha detto all’Associated Press il figlio di Andarabi, Jawal, “gli hanno sparato in testa nel cortile della fattoria”. È solo l’inizio di una nuova fase di terrore, di una nuova fase di silenzio. Certo, c’è chi pensa che senza musica si possa vivere lo stesso, anche dalle nostre parti, ma chi lo sostiene non comprende che vivere senza musica è non vivere, è negare la natura stessa della nostra esistenza. La musica è l’unica arte immateriale creata dall’uomo, non la si può guardare, toccare, afferrare, esiste solo nel momento in cui qualcuno suona o canta, esiste solo quando noi la ascoltiamo. La conserviamo in file e in dischi che sono naturalmente muti, in cui la musica, a pensarci bene, non si manifesta finché non la ascoltiamo. E così è nostra vita, che c’è nel momento esatto in cui la viviamo, così è la libertà, che è tale solo quando la pratichiamo. Negare la musica significa negare la vita, vietare la musica vuol dire ingabbiare l’anima delle persone, molto più che il loro corpo. E’ già accaduto in Afghanistan, quando i talebani presero il potere nel 1995 quando arrivarono per la prima volta al potere nel paese i talebani vietarono la musica completamente, arrivarono addirittura a distruggere l’archivio musicale di stato, a fare roghi pubblici di strumenti musica, vietarono tutto con un editto, l’editto del silenzio: “È fatto divieto di diffondere cassette musicali nei negozi, negli alberghi, nei mezzi di trasporto. Se un negoziante viene trovato in possesso di una cassetta verrà arrestato e il negozio verrà chiuso, se verrà trovata in un veicolo il guidatore verrà arrestato e il veicolo sequestrato... Sono vietate la musica e la danza nei matrimoni. In caso di violazione il capo della famiglia verrà arrestato e punito... È vietato l’uso di strumenti musicali...”. Sarà di nuovo così, come afferma Zabihullah Mujahid, che in molti credono possa diventare il prossimo ministro della cultura. In realtà la battaglia attorno alla musica nell’Islam va avanti da centinaia di anni, a seconda delle interpretazioni del Corano viene limitata e bandita o praticata liberamente, i Wahabiti, ad esempio, hanno una linea di opposizione durissima verso la musica, i Sufi, al contrario, ne hanno fatto parte integrante della loro pratica religiosa, e in alcuni paesi le regole sono addirittura cambiate nel tempo, in Iran dopo la rivoluzione khomeinista la musica fu bandita, negli anni seguenti via via liberalizzata. Chi ha paura della musica ha paura della vita, l’assenza di musica segnala solo e soltanto l’assenza di vita. I talebani vogliono sostanzialmente impedire che le persone soffrano e gioiscano, amino e piangano, che la vita scorra liberamente per le strade, nelle case, sfuggendo al loro controllo. La musica è fatta della stessa materia dei sogni e i talebani vogliono impedire alle persone di sognare, vogliono impedire alle persone di vivere. Non sono soli, comunque. Lo scorso 25 febbraio Freemuse, la più importante organizzazione non governativa che lavora per combattere la repressione dell’arte, documentando le violazioni della libertà artistica e lanciando iniziative per la difesa degli artisti, in particolare nelle aree maggiormente a rischio, ha pubblicato il suo rapporto annuale sullo stato della libertà artistica nel mondo. Il report ha documentato e analizzato 978 atti di violazione della libertà artistica in 98 paesi. 17 artisti sono rimasti uccisi nel 2020, 82 imprigionati, 133 arrestati, e la repressione non si è fermata nemmeno nel tempo del Covid e del silenzio imposto dalla pandemia. Il dato più allarmante è che il 26% di tutte le restrizioni della libertà artistica hanno avuto luogo in Europa, in casa nostra. Il 22% nelle Americhe, il 19% nel Medio Oriente e nel Nord Africa, il 15% nella regione asiatica e pacifica, il 9% in Africa e il 9% in quel “non luogo” che è Internet. Il 74% di tutti gli arresti di artisti nel mondo sono avvenuti a causa delle loro critiche alle politiche e alle pratiche dei loro governi. Il 44% degli artisti che sono finiti in prigione vivono nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ora, è ovvio che la notizia della causa contro i Nirvana per la copertina di Nevermind, accusata di sfruttamento della pornografia infantile non ha la portata della repressione dell’arte e della musica che avvengono in Afghanistan o in altre parti del mondo. Ed è chiaro che quello che muove l’avvocatessa Maggie Maibe non è certo la difesa dei minori ma la possibilità di far guadagnare soldi al proprio cliente. Ma è il clima in cui una simile causa nasce ad essere preoccupante, perché è un clima puritano, repressivo, illiberale, che ha trovato e trova consenso, sempre di più, dalle nostre parti. Censurare l’arte, anche quando è scomoda, eccessiva, trasgressiva, quando mette in scena la vita con tutte le sue bellezze e le sue brutture, è l’anticamera di qualcosa di peggio, mai di un miglioramento di alcun genere. Mettere in discussione la libertà degli artisti non ha mai portato ad un mondo migliore, mentre il contrario certamente si. I talebani lo sanno e lo praticano, non vogliono un mondo migliore, vogliono il loro mondo, silenzioso e cupo. E i puritani che vivono in Occidente potrebbero non sognare un mondo molto diverso. Opporsi a gli uni e agli altri significa difendere la vita. Segreto degli avvocati, la Francia ferma i pm: “Diritto inviolabile” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 1 settembre 2021 Il Parlamento approva una legge su perquisizioni e intercettazioni che blinda il segreto professionale tra avvocato e cliente, salvaguardando il diritto di difesa. “Gli studi legali sono dei luoghi sacri, non può esistere difesa senza segreto professionale”, aveva tuonato lo scorso maggio il ministro Eric Dupond-Moretti in Assemblea nazionale mentre presentava la sua riforma del sistema giudiziario francese. Un progetto ambizioso al centro di ruvide polemiche con la magistratura, in particolare l’Union syndicale des magistrats (Usm), il più importante sindacato di categoria, che denuncia il presunto conflitto di interesse del guardasigilli in quanto avvocato penalista. “È in malafede e imparziale, sta lavorando per i suoi amici avvocati”, insinuano dall’Usm, “difendo lo Stato di diritto contro dei metodi da spie”, la secca replica di Dupond-Moretti. Tra veti incrociati e compromessi inevitabili la riforma subirà delle modifiche, ma intanto il ministro può segnare un punto in suo favore. L’Assemblea ha infatti approvato un emendamento che estende e rafforza il segreto professionale degli avvocati transalpini e va a modificare il codice di procedura penale, un voto unanime, dalla sinistra radicale di Jean Luc Mélenchon ai neogollisti, passando per i macroniani della République en marche tutti si sono espressi a favore. Il testo riposa su un principio semplice: l’indivisibilità del segreto professionale tra avvocato e cliente e la protezione del diritto di difesa. Niente più intercettazioni selvagge, niente più perquisizioni e sequestri negli studi legali, le conversazioni e la corrispondenza tra difensori e assistiti saranno protette da quella che ormai è diventata una consuetudine nelle inchieste giudiziarie francesi, in particolare per i sospettati di reati di corruzione e contro la pubblica amministrazione. Casi politico-giudiziari che attirano i pruriti giustizialisti dei media che spingono a furor di popolo le offensive delle procure. Esattamente come avviene in Italia. L’affaire des écoutes che coinvolge l’ex presidente Nicolas Sarkozy e il suo storico avvocato Thierry Herzog è in tal senso emblematico: i due sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione per traffico di influenze e corruzione (Herzog è stato anche sospeso dall’esercizio della professione), sulla base di informazioni raccolte nel corso di intercettazioni illegali. È cioè da conversazioni private tra Sarko e lo stesso Herzog. Una violazione persino “scolastica del segreto professionale”, peraltro in un’inchiesta andata avanti per tre anni senza che i diretti interessati fossero a conoscenza di essere sotto la lente d’ingrandimento della procura parigina. Il provvedimento approvato dai parlamentari, ribadisce invece l’inviolabilità del segreto: “Non si tratta di proteggere gli avvocati ma i giustiziabili e il diritto alla difesa”, aveva spiegato alla vigilia la deputata della République en marche Naïma Moutchou, tra gli estensori del progetto di riforma Dupond-Moretti. Se il Senato (non elettivo) confermerà il voto a metà settembre, sarà molto meno facile per i pm e la polizia giudiziaria intercettare conversazioni protette dal vincolo del segreto professionale, mentre verrà stabilito il diritto a chi subisce una perquisizione domiciliare a non consegnare documenti che riguardano la corrispondenza avvocato-cliente. Se per il momento la magistratura non commenta esplicitamente, rispettando per una volta il principio di non esprimere opinioni su delle leggi non ancora in vigore, non sono poche le voci di dissenso, specie tra i vertici delle authority e degli organismi di controllo della pubblica amministrazione. Tutte accomunate da lo stesso refrain: si vogliono indebolire le inchieste, in particolare quelle per corruzione e frodi fiscali: “Se il testo non verrà modificato sarà quasi impossibile acquisire documenti utili a dimostrare una frode, verrà penalizzata la lotta contro il riciclaggio e i reati fiscali, tutta la guerra contro la delinquenza finanziaria ne risentirà in modo grave”, afferma Jérôme Fournel, Direttore generale delle finanze pubbliche (Dgfip), organismo di controllo associato al ministero dell’economia. Non poteva poi mancare la stoccata nei confronti degli avvocati: “In questo modo i loro studi saranno dei veri santuari al di fuori della legge”. Virginie Beaumeunier, direttrice dell’authority per la concorrenza, il consumo e la repressione delle frodi (Dgccrf) si accoda a Fournel e lancia insinuazioni velenosissime sul ruolo paracriminale che potrebbero giocare gli studi legali: “Alle imprese basterà spedire dei documenti a un avvocato per impedire che vengano sequestrati. È un modo per incentivare le strategie di aggiramento delle norme anti-corruzione”. Una levata di scudi cavalcata dai media (Le Monde in testa) ma che non fermerà l’approvazione definitiva di una legge che per una volta mette il freno agli abusi delle procure. Marocco. Ikram Nazih, parla la ragazza liberata: “Tutto per colpa di uno screenshot” di Laura Cappon Il Domani, 1 settembre 2021 “C’è solo un modo per definire la detenzione, e la parola è disperazione perché senti di non avere più speranza”. Ikram Nazih ha i capelli corvini e gli occhi sorridenti, quelli di chi ha ritrovato la libertà. Sono passati nove giorni dalla scarcerazione della giovane studentessa italo-marocchina, nata a Vimercate e ora residente in Francia. La raggiungiamo in videochiamata a Tangeri, in Marocco, dove finalmente ha potuto riabbracciare i suoi parenti. Un momento atteso per due mesi perché il 19 giugno, appena atterrata all’aeroporto di Rabat, Ikram è stata messa in stato di fermo dalle autorità marocchine e trasferita a Marrakesh. Poi, il 28 giugno, la sentenza di primo grado: 3 anni e mezzo di reclusione e una multa di circa 4800 euro. Ikram è colpevole di blasfemia, stabilisce il tribunale di Marrakesh. Nel 2019 ha condiviso un post dove con un gioco di parole trasformava la sura 108 del Corano, nota come sura dell’Abbondanza, in sura del whisky. Una card tenuta sul suo profilo Facebook per solo 15 minuti, un tempo sufficiente a far scattare una denuncia da parte di un’associazione religiosa musulmana locale. Passano i giorni, Ikram è in cella e si aspetta il secondo grado. Il caso viene portato anche in parlamento con tre interrogazioni a cui risponde il sottosegretario agli Affari Esteri Manlio di Stefano che assicura che la vicenda giudiziaria della ragazza è seguita dalla Farnesina. Intanto, Domani lancia una petizione per la sua liberazione che viene firmata da più di 50.000 persone. Le speranze sembrano perse quando il 23 agosto l’udienza di secondo grado viene anticipata di una settimana e la linea difensiva dell’avvocato, scelto insieme alle autorità consolari italiane, funziona. La Corte di Appello di Marrakesh stravolge la sentenza precedente: la condanna viene ridotta a soli due mesi di carcere, che la giovane studentessa ha già scontato. Anche la sanzione economica viene annullata e Ikram è finalmente libera. “Quando ho ascoltato il verdetto, ho pianto. E anche mio padre lo ha fatto. Non lo avevo mai visto piangere così tanto”. Ikram, torniamo a quel 19 giugno, quando sei arrivata in Marocco. Cosa è successo all’aeroporto? “Erano le 8 di sera, mi trovavo allo sportello del controllo passaporti dell’aeroporto di Rabat. La polizia di frontiera mi ha portato via i documenti e mi ha detto di aspettare. Poco dopo, mi hanno preso il telefono e mi hanno chiesto di seguirli. Non hanno specificato quale fosse la causa. Tre ore dopo il mio arrivo, ero chiusa in una cella. Poi, il giorno dopo, mi hanno portata al commissariato di Marrakesh. Cosa hai pensato in quel momento? “Non avevo alcuna idea di cosa stesse succedendo, hanno controllato la mia valigia, ero sotto shock. Non mi hanno permesso di telefonare a nessuno. La polizia ha chiamato una mia cugina che vive in Marocco, è stata lei a trovarmi il primo avvocato. Ho avuto molta paura, la mia mente era bloccata, non sapevo nemmeno cosa pensare, chiedevo spiegazioni e nessuno me le dava”. Hai capito subito che tutto partiva dalla pubblicazione di quel post? “No, non avevo capito. L’ho scoperto il giorno dopo, il 20 giugno, quando sono stata interrogata a Marrakesh. È lì che mi hanno mostrato il post chiedendomi se avevo condiviso quella foto. Ho risposto di sì, ma in realtà non sapevo bene neppure cosa ci fosse scritto: io sono nata in Italia, vivo in Francia e parlo un po’ di dialetto marocchino ma non l’arabo classico, che è molto diverso”. Ti ricordi cos’era successo dopo averlo condiviso? “Era l’aprile del 2020, e non il 2019 come è stato detto inizialmente. Lo avevo condiviso perché era diventato virale ma una mia amica, dopo che l’ho postato, mi ha consigliato di toglierlo subito perché avevo degli amici marocchini su Facebook che vedendolo avrebbero potuto reagire. E’ quello che è successo: uno di loro ha fatto lo screenshot della mia condivisione e lo ha diffuso sul web. Da quel momento ho ricevuto moltissimi insulti, ma non pensavo che in Marocco fosse partita addirittura una denuncia. Sono partita senza sapere nulla di quello che mi stava per succedere”. Come hai trascorso la detenzione? “La polizia non mi ha trattato benissimo all’inizio: gli agenti mi dicevano che avrei meritato 5 anni di reclusione per ciò che avevo fatto. Dopo il rinvio a giudizio, il 21 giugno mi hanno portato in carcere. Solo quando sono scesa dalla macchina ho capito che era una prigione. Non leggevo i cartelli ma dalla struttura si capiva benissimo. In quel momento la testa è andata subito ai miei genitori. Loro erano in Francia, ho pensato al dolore che avrei causato loro ma a quel punto non avevo scelta, dovevo farli avvisare. C’è una cosa che non dimenticherò mai: il mio ingresso in cella, ero nel panico, non riuscivo a respirare. Per fortuna, ho conosciuto una ragazza che era già con me in commissariato e con cui ho condiviso un breve periodo di detenzione. Era finita dentro perché aveva aggredito un ragazzo, lo aveva fatto per difendersi dalle sue molestie. Sai quante donne c’erano in carcere senza motivo? Tante. Per esempio, un’altra mia compagna di cella è stata denunciata dal marito solo perché chattava con un altro uomo. Io ero sotto shock. Ero in Marocco solamente per divertirmi, per me questo paese non era quello che ho visto in prigione. Lì dentro c’è tutta un’altra realtà e ci sono persone che, a differenza mia, non hanno nessuno a cui chiedere aiuto”. Perché credi di aver subito una condanna così dura in primo grado? “Il 28 giugno mi hanno portato in aula. Sono entrata e mi hanno chiesto come si chiamassero i miei genitori e cosa fosse successo, ma mentre rispondevo il giudice non mi guardava nemmeno in faccia. Non avevo neppure un traduttore. L’avvocato ha fatto il suo meglio per difendermi ma anche se non capisco l’arabo, era chiaro quanto si trovasse in difficoltà di fronte alla Corte. Soltanto tre giorni dopo ho saputo da mia madre che ero stata condannata a tre anni e mezzo di carcere e alla multa. Quando l’ho appreso, sono piombata nello sconforto. Io mi vedevo lì già per tre anni e mezzo o addirittura cinque, che è la pena massima per il reato di blasfemia, e mi sarebbe potuta arrivare in secondo grado”. Invece il 23 agosto la sentenza è stata ribaltata. Cosa è successo secondo te? “Il processo di appello è stato molto diverso, il giudice è stato gentile. Si è mostrato come una figura paterna, mi ha detto che sono ancora una ragazza e aveva capito che io non sapevo cosa stessi postando sui social. Alla fine mi ha spiegato che potevo uscire perché la mia condanna era stata ridotta a due mesi. Non ci potevo credere, ho pianto di gioia”. Sul tuo caso ci sono state tre interrogazioni parlamentari e una campagna di raccolta firme a cui hanno aderito più di 50.000 persone. Hai avuto modo di confrontarti in questi giorni con la solidarietà che molti italiani ti hanno espresso? “Sì, e mi ha colpito moltissimo. Pensavo che gli italiani, essendo di origine marocchina, non si sarebbero interessati di me. E invece mi ha resa felice vedere queste persone che hanno firmato la petizione di Domani o hanno speso anche solo una parola sui social per me. E’ come se anche ora, rivedendo tutto quello che hanno fatto, mi aiutassero a superare il momento che ho passato. L’ambasciata italiana è stata importantissima, senza il loro intervento forse sarei ancora in prigione. Ho appena incontrato il sottosegretario Enzo Amendola e anche a lui ho detto che senza l’Italia forse non sarei qui”. Sui social giravano degli account con il tuo nome che avevano l’emoticon del bicchiere di whisky e postavano foto osé. Secondo te sono stati creati per screditarti? “Quegli account non sono i miei. So che esistono e credo facciano parte della campagna che si è scatenata contro di me insieme alla denuncia da parte dell’associazione religiosa”. Cosa hai fatto subito dopo la liberazione? “Ho mangiato la pizza e il sushi perché mi mancavano, anche se in Marocco non sono così buoni. E poi ho incontrato mio papà. Durante la detenzione, da Tangeri veniva ogni giorno a Marrakesh per sapere come stavo, anche se gli hanno permesso di visitarmi solo una volta, a cause delle norme Covid. Stava malissimo, non riusciva più a mangiare né a dormire: riabbracciarlo è stato bellissimo. Non lo avevo mai visto piangere così tanto nella mia vita”. Cosa farai ora? “Tra una decina di giorni tornerò all’Università di Marsiglia, a maggio mi ero iscritta alla laurea specialistica e non ho avuto la possibilità di proseguire perché sono finita in carcere. Cercherò di spiegare all’ateneo quello che mi è successo e spero di farmi riassegnare il posto”. In Tunisia altri arresti politici, la società civile ne ha abbastanza di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 1 settembre 2021 Sindacati e associazioni iniziano a protestare dopo il colpo di mano del presidente Saied. Fermato in Algeria il magnate Karoui, ex sfidante alle presidenziali del 2019. In cambio Tunisi potrebbe “cedere” ad Algeri l’attivista Bouhafs. Nell’ottobre 2019 erano l’uno contro l’altro al secondo turno delle elezioni presidenziali. Uno è famoso per parlare in arabo classico e aver condotto la sua campagna elettorale con meno di 30mila euro. L’altro possiede il canale privato Nessma TV e durante la tornata elettorale si trovava in carcere con le accuse di riciclaggio di denaro e frode fiscale. Il primo si chiama Kais Saied, da due anni è il presidente della Repubblica e da un mese governa la Tunisia con poteri straordinari. Il secondo è Nabil Karoui, ha passato i primi sei mesi del 2021 nella prigione di Mornaguia e domenica scorsa è stato fermato a Tebessa, est dell’Algeria, con suo fratello Ghazi. Le sue tracce si erano perse il 25 luglio scorso quando, a seguito delle manifestazioni contro il governo di Hichem Mechichi e il partito di ispirazione islamica Ennahda, il presidente ha applicato l’articolo 80 della costituzione congelando il parlamento, togliendo l’immunità ai parlamentari e sciogliendo il governo. Saied contro Karoui. Due mondi agli antipodi che si sono incrociati nuovamente in una calda giornata di fine agosto. Da un mese a questa parte il responsabile di Cartagine sta arrestando deputati e uomini d’affari implicati in casi di corruzione, uno dei dossier a lui più cari e uno dei più sentiti anche dalla popolazione. In questa vicenda c’è spazio per una terza storia che ha già fatto esprimere profonda inquietudine da parte della società civile: l’arresto in terra tunisina di Slimane Bouhafs, militante politico algerino che dal 2020 godeva dello status di rifugiato da parte dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. “Diverse testimonianze hanno riportato che macchine con delle targhe sospette si sono presentate il 25 agosto a casa sua e l’hanno portato verso una destinazione sconosciuta”, si legge nel comunicato rilasciato lunedì scorso da più di 40 organizzazioni tunisine. Bouhafs fa parte del Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia (Mak), classificato come “gruppo terroristico” da Algeri. Nel frattempo è già stato consegnato alle autorità del suo paese e il sospetto, sollevato da diversi media, è che faccia parte di uno scambio tra Tunisia e Algeria: Karoui per Bouhafs. “Le relazioni con un paese amico non devono instaurarsi sul mancato rispetto degli obblighi internazionali che proteggono i rifugiati e i richiedenti asilo”, prosegue la nota. L’arresto e l’estradizione di Slimane Bouhafs non sono gli unici aspetti che stanno preoccupando la società civile. Saied non ha ancora nominato un governo e le sue reali intenzioni sul futuro istituzionale del paese non sono state espresse pubblicamente. A una settimana dal 24 agosto, giorno in cui il responsabile di Cartagine ha fatto sapere di volersi rivolgere direttamente alla nazione dopo avere prorogato i propri poteri sine die, niente è dato sapersi. “La messa in moto della fase post 25 luglio - si legge nella petizione firmata sabato scorso, tra gli altri, dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) e dal Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt) - deve instaurarsi su un largo dibattito all’interno della società al quale possano contribuire le istituzioni della società civile e le forze democratiche e nazionali del paese. Le buone intenzioni non bastano per costruire un progetto per lo Stato”. Tuttavia nelle scorse settimane Saied aveva già risposto a queste domande. A chi gli chiedeva una mappa programmatica chiara, la sua risposta è stata “cercatela sulle cartine geografiche”. “Nel mese che ha seguito la presa di poteri da parte del presidente della Repubblica, quest’ultimo ha fatto spesso ricorso a delle interdizioni arbitrarie per i viaggi all’estero, aspetto che riguarda il potere giudiziario”. In un terzo comunicato in poco meno di una settimana, anche Amnesty International si è espressa su una delle storture istituzionali che interessano la Tunisia dal colpo di mano di Saied. Il presidente ha imposto dei limiti alla mobilità per quei uomini d’affari o personalità politiche sospettati di corruzioni o altri reati. “Io non ho nessuna accusa pendente e non ho mai subito processi di alcun tipo - ci dice Anouar Bechahed, deputato del gruppo parlamentare Courant Démocrate - Sono andato all’aeroporto di Tunisi il 15 agosto per tornare in Francia dalla mia famiglia. Ai controlli di polizia mi hanno preso i documenti e dopo 20 minuti mi hanno detto che non potevo proseguire. A oggi non so ancora il perché, il tutto è avvenuto a voce e non è stato rilasciato un verbale”. Sempre secondo Amnesty, sono almeno 50 persone tra giudici, alti rappresentanti dello Stato e parlamentari a cui è stato proibito viaggiare. Il problema? Non esiste decreto presidenziale che lo prevede.