Cartabia: “È necessario togliere disumanità dal carcere” di Nicola Palma Il Giorno, 19 settembre 2021 “Se non sappiamo dire che cos’è un carcere umano, allora andiamo a vedere e proviamo a dire che cos’è un carcere disumano e partiamo da lì”. Lo ha detto ieri la ministra della Giustizia Marta Cartabia al “Festival dell’Umano” in corso al Museo della Scienza. “È necessario togliere la disumanità” dal carcere”, ha aggiunto. Poi ha osservato: “Forse non sappiamo che cos’è una pena umana, ma che cos’è una pena disumana lo vediamo subito, dentro e fuori da casa nostra”. “C’è un lavoro da fare enorme - ha ammesso la ministra - citando tra l’altro il recente caso della donna che ha partorito un bambino nel carcere di Rebibbia. “Quando una madre partorisce un bambino in carcere da sola - ha detto - c’è qualcosa che non è umano, anche se la responsabilità non è stata del carcere ma di qualcun altro. Anzitutto bisogna togliere la disumanità, quando vedi detenuti malati e abbandonato a se stessi perché il carcere non può curarli ma solo contenerli, questo non è umano”. Cartabia ha citato inoltre l’altro “grande principio della Costituzione, il carcere che serve a dare una seconda possibilità, la rieducazione, una finestra che guarda sull’oltre. Tutti quelli che operano in carcere sanno bene come tante volte da piccoli gesti quotidiani, mille cose diverse possono far scattare la scintilla che fa rinascere una persona. Ho sentito ergastolani recitare Dante e dire il verso “uscimmo a riveder le stelle”. In carcere ho visto cose terribili e sublimi, abissi e vertici di umanità convivere insieme. Bisogna avere visto” ha concluso Cartabia. Che poi è tornata sugli anni del terrorismo. “Ci si chiede che senso abbia dopo 40 anni insistere con le estradizioni” di ex terroristi, “che ormai hanno vissuto la loro vita, che sono anziani”. Ma “l’esigenza della verità, del dire una parola di ricostruzione chiara, leale, è intramontabile” Giustizia verso la riforma: “Al centro la persona, nessuno è un numero” di Elvira Serra Corriere della Sera, 19 settembre 2021 La guardasigilli Marta Cartabia al “Festival dell’Umano”: “Quando una madre partorisce all’interno di un carcere c’è qualcosa che non è umano”. Sulla questione di genere: “Dove non ci sono donne la giustizia è più povera”. Andrea Pezzi: “Il dono italiano è la nostra naturale spontaneità verso l’umano”. La Giustizia che ha in mente non ha la benda, ma mille occhi. “Per acuire la sua capacità di vedere, affinché il suo sguardo arrivi sempre alle persone, sia da una parte che dall’altra”. È la sfida che vinse Atena, istituendo l’Aeropago, “in cui si passa dal restituire il male all’ascoltarsi”, e trasformando infine le Erinni in Eumenidi, divinità della giustizia e non della vendetta. Ed è la lezione dei Miserabili di Hugo, quando l’ispettore Javert si getta nella Senna. “Il suo atteggiamento è cambiato quando ha visto l’umanità di Jean Valjean, che non è solo ladro e malfattore”. Con immagini efficaci la guardasigilli Marta Cartabia ha parlato della sua idea di giustizia nell’epoca di una tecnologia sempre più veloce. “La tecnologia è un’alleata straordinaria”, ha risposto al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana durante il Festival dell’Umano che si è svolto ieri a Milano al Museo della Scienza e della Tecnologia, promosso dall’associazione “Io Sono” fondata da Andrea Pezzi, Cristiana Capotondi e Carlo De Matteo (qui la dichiarazione finale). Ma, ha aggiunto la ministra, resta “fondamentale il fattore umano, imprevedibile, che è anche causa di errore, ma dà vita a una giustizia che guarda negli occhi la persona e la prende in considerazione non come un numero”. Carceri, questione di genere, estradizione - Senza entrare nel merito della riforma della giustizia, di cui ha anticipato solo i temi di due capitoli - uno sulla “giustizia riparativa” e l’altro sullo “status delle vittime nel processo” - Cartabia ha affrontato molti argomenti. Il carcere? “Se non sappiamo dire che cos’è un carcere umano, allora andiamo a vedere e proviamo a dire che cos’è un carcere disumano e partiamo da lì. Quando una madre partorisce in carcere c’è qualcosa che non è umano”. La rieducazione parte da piccoli gesti. “Consentire un colloquio, proporre un’attività, può far scattare la scintilla. Sentire gli ergastolani recitare Dante e concludere “e quindi uscimmo a riveder le stelle” ti fa venire i brividi”. Sulla richiesta di estradizione dalla Francia degli ex terroristi: “Ci si chiede che senso abbia dopo 40 anni insistere con le estradizioni, ormai hanno vissuto la loro vita. Ma l’esigenza della verità è intramontabile”. Sulla questione di genere: “Dove non ci sono donne la giustizia è più povera. Non perché debbano esserci quote. La società è plurale: se manca lo sguardo femminile manca qualcosa”. Sull’Afghanistan: “Sono stati anni molto belli di cooperazione con le istituzioni afghane per la costruzione di uno stato di diritto. Tra protagonisti di questa costruzione c’erano donne di grande coraggio e straordinaria dedizione. Ora rischiano tantissimo. L’Italia ha portato fuori circa 5.000 persone. Salvare loro significa anche salvare la memoria, la possibilità che quel patrimonio di valori non vada perduto”. Ontologia, etica ed estetica - L’intervista ha aperto i lavori del pomeriggio, dove si sono succeduti confronti su ontologia, etica ed estetica. Monsignor Vincenzo Paglia ha raccontato di quando il successore di Bill Gates gli chiese di “accompagnarli nel loro lavoro di ricerca e sperimentazione in Microsoft” perché, disse, “abbiamo bisogno di conoscere dei limiti”. Il genetista Edoardo Boncinelli ha chiarito che “la paura ci fa sbagliare: quando arriva la paura, l’uomo se ne va”. Si è discusso di etica nella finanza (anche) con Umberto Ambrosoli. E il rettore della Statale di Milano Elio Franzini ha parlato del ritorno in aula, della bellezza del sentire, degli odori, laddove il professore di biologia molecolare Carlo Ventura ha ricordato la meraviglia dell’invisibile. “È stata una prima edizione meravigliosa e ora stiamo pensando anzitutto a rafforzare il rapporto con le università e poi a una produzione cinematografica per raccontare questa nostra identità: penso a persone come Faggin, eccellenza in America che rende migliore l’Italia”, commenta alla fine Andrea Pezzi, presidente di “Io Sono”. “Il dono italiano è la nostra naturale spontaneità verso l’umano”. Ermini (Csm) boccia i quesiti sulla giustizia: “Le leggi le fa il Parlamento, rischio pasticci” di Lodovica Bulian Il Giornale, 19 settembre 2021 Ma la raccolta firme vola. Rossodivita: “È forte l’esigenza di cambiamento”. “In una democrazia parlamentare e rappresentativa le leggi le fa il Parlamento, il sistema del referendum previsto dalla nostra costituzione è soltanto abrogativo, per cui pensare di fare le riforme soltanto attraverso l’abrogazione di alcune norme rischia di dare delle norme che non sono omogenee. Credo quindi che sia il Parlamento che deve lavorare”. David Ermini, vicepresidente del Csm, boccia il metodo dei quesiti referendari sulla giustizia promossi dai radicali, sostenuti dalla Lega, Forza Italia e Italia Viva, tra cui la responsabilità civile dei magistrati e la separazione delle carriere. Anche l’Anm aveva fatto muro col suo presidente Giuseppe Santalucia, che aveva evocato “una ferma reazione a questo tipo di metodo”, perché il referendum “fa intendere la volontà di chiamare il popolo a una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Intanto però le firme hanno “superato quota 750mila - dice Giuseppe Rossodivita, responsabile Giustizia del partito Radicale - ma cerchiamo di raccoglierle fino all’ultimo momento utile per presentaci con il maggior numero possibile”. Hanno sottoscritto i sei quesiti “anche elettori di quei partiti che hanno preso una posizione negativa”, su tutti il Pd. Sullo sfondo l’impatto dello scandalo Palamara che ha terremotato magistratura e Csm, e che ha spinto molti ad avvicinarsi ai gazebo: “L’opinione pubblica - continua Rossodivita - ha potuto conoscere certe dinamiche che governano magistratura, e la percezione è che ci sia una necessità urgente di cambiamento. Tra le persone in fila per firmare il 90% ha avuto suo malgrado a che fare con contesti di malagiustizia”. Del resto la riforma Cartabia che ha spaccato la maggioranza prima di essere approvata interviene sul processo penale ma “non sfiora minimamente i temi da noi posti. Non si è mai parlato in questo governo di responsabilità civile, mai di limitazione all’abuso della custodia cautelare, sono temi che non erano neanche nell’agenda iniziale, perché la riforma era legata alla necessità di poter utilizzare i fondi del Pnrr. Queste cose sono rimaste indietro e continuano a non essere nell’agenda”. È in agenda invece la riforma del Csm, travolto nel maggio 2019 dall’inchiesta della procura di Perugia che mentre indagava Palamara per corruzione ha scoperchiato le trame dell’hotel Champagne sulla procura di Roma. “Ma non siamo fiduciosi - spiega Rossodivita - I lavori usciti dalla commissione Luciani sono deludenti e frutto della dettatura dell’Anm”. Nel testo base della riforma il metodo del sorteggio per l’elezione dei togati - considerato da una parte della stessa magistratura l’unico rimedio contro il correntismo - non c’è. Ma c’è un nuovo sistema elettorale che dovrebbe limitare l’influenza delle correnti. “Di sorteggio non se ne parla proprio. Per questo temiamo che sarà solo un piccolo maquillage che servirà a non cambiare nulla. Nell’interesse di qualcuno”. Caiazza: “Magistratura a pezzi, ma continua a sottomettere il Parlamento” di Angela Stella Il Riformista, 19 settembre 2021 Venerdì 24 settembre alle ore 14 partono i lavori del XVIII Congresso Nazionale dell’Unione delle Camere Penali Italiane, dal titolo “Cambiare la Giustizia, cambiare il Paese - Le proposte dell’avvocatura penale per una nuova stagione delle garanzie”. L’appuntamento è all’Hotel Ergife di Roma. Tra gli ospiti illustri la Guardasigilli Marta Cartabia e il Ministro della Giustizia francese Éric Dupond-Moretti. Oltre al dibattito congressuale anche tavoli tematici sulla giustizia. Uno sguardo al recentissimo passato con il dibattito su “La Riforma Cartabia. Tra mediazione politica e scienza giuridica”, nel quale interverranno tra gli altri il componente della commissione Lattanzi, avv. prof. Vittorio Manes, e il professor Giorgio Spangher, alla guida della pattuglia dell’Accademia che ha bocciato su tutta la linea il nuovo istituto dell’improcedibilità. E poi uno sguardo al futuro con il confronto sull’ “Ordinamento giudiziario: la riforma indispensabile” tra Carlo Guarnieri, Ordinario di Sistemi Giudiziari Comparati Università di Bologna e Nello Rossi, Direttore rivista Questione Giustizia. Per inquadrare il contesto all’interno del quale si svolgerà la tre giorni, abbiamo sentito il Presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza. Presidente, la magistratura associata ha criticato la ‘riforma di mediazione Cartabia’ nel metodo e nel merito. Anche dal vostro palco sentiremo le medesime critiche? Ovviamente no. Se rivolgessimo le stesse critiche che rivolge la magistratura significherebbe che qualcosa non va. Questa riforma non è la riforma che avremmo voluto. Il lavoro della commissione Lattanzi, che era molto più vicino alle nostre aspettative, è stato fortemente ridimensionato e riscritto in senso peggiorativo per le ragioni di mediazione politica che tutti conosciamo. Detto questo è innegabile che si tratti di una riforma che segna un drastico cambio di passo rispetto all’epoca del populismo di Bonafede. E non a caso ciò ha determinato, e tuttora determina, la reazione rabbiosa sia della magistratura associata sia dei corifei mediatici e politici del giustizialismo nostrano. A proposito di questo, a ridosso dell’ultimo Comitato direttivo centrale dell’Anm, si è innescata a distanza una polemica tra lei e il presidente Santalucia. Ci spiega meglio? La magistratura torna alla carica e vuole rimettere mano all’improcedibilità, non paga di aver condizionato e concorso a far riscrivere anche con profili di incostituzionalità la norma sulla prescrizione, mediante la diffusione di notizie false e allarmistiche sulla pretesa insufficienza del termine di tre anni per celebrare in appello processi di mafia. Nel recente dibattito alla Festa dell’Unità a cui ho partecipato, il pm Eugenio Albamonte e l’ex procuratore Armando Spataro hanno convenuto che i soli processi che si celebrano con certezza entro il termine non di tre, ma addirittura di due anni in appello, sono proprio i processi di mafia, per evitare che gli imputati possano essere scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Esiste però un potere giudiziario che utilizzando una certa capacità di ricatto politico sul tema del contrasto alla criminalità organizzata interviene indebitamente sulla libera determinazione di Governo e Parlamento. Se dunque l’Anm intende rimediare ai danni causati da questa irresponsabile campagna di doloso quanto infondato allarme sociale, troverà senza esitazione i penalisti italiani al suo fianco. Per quanto concerne la riforma del Csm, qual è il punto su cui non si può arretrare per non rischiare di ripetere gli schemi dello scandalo Palamara? Nella proposta di riforma formulata dalla Commissione Luciani non c’è praticamente nulla che possa avere una incidenza di reale risposta alle esigenze di rinnovamento che la crisi della magistratura pone. Si tratta di interventi, non a caso concordati con l’Anm, che toccano aspetti molto marginali, quali i meccanismi elettorali del Csm, qualcosa sulle porte girevoli e poco altro. La crisi della credibilità della giurisdizione necessita di ben altre risposte. La prima: l’adozione di iniziative volte a riequilibrare il rapporto tra i poteri dello Stato, agendo sullo squilibrio di un potere giudiziario che interviene pesantemente, condizionandoli, sia sul potere legislativo che su quello esecutivo. Per correggere questa grave distorsione, noi proporremo a Congresso di prevedere il divieto del distacco dei magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo. Questa è la prima e ineludibile riforma dell’ordinamento giudiziario. Non esiste in nessun Paese del mondo che la magistratura occupi in modo militare il Ministero di Giustizia e anche altri dicasteri. Anche se questo non è previsto dalla Commissione Luciani, non c’è nessuno che risponda alla nostra denuncia. La seconda proposta di riforma? L’introduzione di rigorosi criteri per le valutazioni di professionalità e degli avanzamenti in carriera dei magistrati che abbia in considerazione anche la qualità e i risultati della loro attività in modo da ricostruire una responsabilità professionale del pm o del giudice che oggi non c’è. Su questo punto, proposto anche dal Pd, il past president dell’Ucpi, Gaetano Pecorella, non è d’accordo. Ho letto l’intervista di Gaetano Pecorella che è sempre per tutti noi un punto di riferimento. Noi non proponiamo un automatismo tra il risultato professionale e la valutazione. Su questo sono d’accordo anche io con Pecorella: non basta dire il processo è andato male, gli imputati sono stati assolti per mal giudicare un pubblico ministero. Questa sarebbe una semplificazione inaccettabile. Noi invece sosteniamo che nella valutazione, che oggi di fatto non esiste perché sono tutti sempre promossi, devono avere un peso - le cui modalità e limiti andranno stabiliti - i risultati, ad esempio gli annullamenti delle sentenze, conseguiti in quattro anni, non nel singolo procedimento. Se un pm arresta 400 persone e ne vengono condannate 20 e questo succede più volte, tale dato deve essere un elemento della valutazione. Separazione delle carriere, riparte la discussione in Commissione Affari Costituzionale: è la volta buona? In politica si valutano sicuramente i risultati finali ma anche il percorso che una idea fa. È difficile immaginare che in questa legislatura, dove non ci sono le maggioranze idonee per questa riforma costituzionale, si arrivi al risultato che noi speriamo. Ma è evidente che giungeremo in tempi ragionevolmente brevi, già nella prossima legislatura, al coronamento di questa grande riforma. La consapevolezza è cresciuta fortemente nelle forze politiche, nel Paese, nella stessa magistratura. Noi stiamo dando un contributo decisivo a questa presa di coscienza. Quindi, far ripartire il dibattito sulla nostra proposta è fondamentale perché ci consentirà di capire a che punto siamo in questo cammino. Per ottenere questo risultato conta anche molto il rapporto che c’è tra magistratura e politica. Quest’ultima è pronta a svincolarsi dalla subordinazione alla prima per fare delle vere riforme? No, incredibilmente no. All’inizio di questa intervista ho ricordato l’intervento pesantissimo a piedi uniti prima di alcuni magistrati simbolo, poi del Csm e dell’Anm sulla riforma della prescrizione. Nonostante la magistratura sia in un momento di enorme difficoltà, ha intatta la forza di scrivere insieme al Governo la propria riforma per l’ordinamento giudiziario e il Csm ma anche quella di interdizione sulla riforma della prescrizione. È talmente inveterata la dimensione ancillare della politica rispetto al potere giudiziario che quest’ultimo riesce a dettare i tempi e il merito delle scelte legislative ancora con una efficacia straordinaria. Questo è il grande terreno di battaglia che noi dobbiamo affrontare nei prossimi anni. Tema carcere: c’è al lavoro la quinta commissione ministeriale. La nostra idea è molto diversa: una delle proposte forti del nostro programma politico che illustreremo al Congresso è quella di rimettere mano di nuovo ai risultati importantissimi e straordinari degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, abbandonato all’ultimo miglio dal Pd, e bruciato in piazza dal primo governo Conte. Non sono possibili palliativi: il degrado delle carceri è evidente, i fatti di Santa Maria Capua Vetere non sono episodici. La Ministra con la Commissione ha dimostrato per l’ennesima volta la sua sensibilità sul tema dell’esecuzione penale ma occorre mettere mano in modo più determinato al problema. Lei è d’accordo con la proposta lanciata su questo giornale dal professor Fiandaca per un viceministro che si occupi solo di carcere? È una bella idea. D’altronde proviene da uno dei giuristi più lucidi e acuti nel nostro Paese. A giurisprudenza sempre meno iscritti. Ma il futuro non è tutto avvocatura-tribunale di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2021 Fa registrare un -38% il numero degli iscritti al primo anno nelle facoltà di Giurisprudenza italiane. Un dato che, da solo, basta a confutare l’esigenza del ricorso al numero chiuso. Rilevante anche il dato riguardante l’intero corso di studi: dall’11,1% si è scesi al 7,2%. Studiare giurisprudenza interessa a un numero sempre minore di giovani? Così sembrerebbe stando ai numeri. A ciò si aggiunge una qualità in uscita drammaticamente scadente con troppi neolaureati incapaci di rispondere alle domande di un settore legale in evoluzione, che richiede sempre di più la presenza di nuove figure professionali. Sembrerebbe trovare riscontro, dunque, l’ipotesi che il mercato del lavoro legale sia saturo. Soprattutto a fronte di una lettura, forse fin troppo superficiale, sul numero degli avvocati. Se, da una parte, l’Avvocatura ha rappresentato per molti una professione a cui guardare come una sorta di ammortizzatore sociale, dato il blocco del turn over nella Pa, dall’altra, occorre sfatare un mito perché non sono troppi i laureati in giurisprudenza rispetto alle attuali possibilità di inserimento che il mercato offre loro. In realtà sono troppo pochi i neolaureati attrezzati e predisposti a entrare in un mercato del lavoro diverso da come se lo immaginavano all’inizio del percorso di studi. In Europa si parla di professione legale 4.0, perché l’impiego giuridico deve essere percepito con una nuova consapevolezza. Si pensi, per esempio, agli smart contracts, alle identità digitali, al cyber crime. Si richiede al laureato in giurisprudenza saperi assai distanti dal radar accademico-didattico di numerosi atenei italiani. A fine laurea, gli studenti rischiano di trovarsi poco specializzati, perché reduci da uno studio mnemonico di norme e codici, a fronte di tipologie di esami che a volte sembrano modellati proprio per incentivare questo tipo di approccio allo studio, solo teorico e manualistico, con tempi dello studio marcatamente professore-centrici, dove sono totalmente assenti le discipline logiche, storiche e delle scienze umane come le sociologie. L’acquisizione di tasks e procedure - che nella mente dello studente dovranno essere apprese e messe in pratica in un futuro piuttosto remoto - rimane sfavorita. Troppi i corsi di laurea che puntano sulla preparazione normativa manualistica tradizionale, poco sensibili alle esigenze pratiche del futuro giurista, che dovrà imparare a saper negoziare col lessico giuridico di lingue straniere, a comunicare con efficacia, a delegare, ad assumere responsabilità decisionali e a dare il feedback. Limitarsi dunque al binomio avvocatura-tribunale può rendere il mercato del lavoro legale più saturo di quel che sembra. Le facoltà dovranno preparare i loro studenti all’eventualità di decidere di volersi allontanare dalle carriere giuridiche tradizionali. L’applicazione del diritto in aree nuove vede tra le rivoluzioni che il mondo legale sta conoscendo, prima tra tutte, quella del processo telematico. Ai neo-giuristi si chiede, infatti, dimestichezza con le nuove modalità di deposito dei ricorsi in quel settore. In questo quadro si inserisce, con la riforma Cartabia, l’”Ufficio del Processo” a cui sembrano guardare con grande interesse, come approdo, molti avvocati insoddisfatti della propria condizione professionale e della marginalizzazione economica a cui è soggetta. Si parla, non a caso di “fuga dalla professione forense” che, se realizzata davvero, concretizzerebbe, in un colpo solo, il sogno di chi vede nel numero degli avvocati la causa unica del carico della giustizia. Ma lo scenario dell’”Ufficio del Processo” comincia già a mostrare una serie di debolezze. Non è dato sapere quali saranno “davvero” i compiti e l’organizzazione di tale “Ufficio”, in che modo si collocherà nel rapporto tra i magistrati e la cancelleria e se sovrascriverà l’attuale presenza dei tirocinanti, dei quali, del resto sembra proprio ricalcare le attività. Sarebbe stato opportuno, viceversa, indicarne sin da subito, con apposite linee guida, il corretto funzionamento e, per evitare sovrapposizioni di ruoli e mansioni, affidare il coordinamento dei funzionari, in relazione all’effettivo carico del Distretto, al Consiglio Giudiziario, sottraendo gli stessi alla signoria del singolo magistrato. Inevitabile la conclusione che, per svolgere tale mansione, non occorra una laurea magistrale né tantomeno ulteriori titoli iper-qualificanti post-laurea. Sarebbe bastato potenziare la laurea triennale in scienze giuridiche per la formazione dei futuri paralegali. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Foggia. Suicidio nel carcere, muore un affiliato alla “società foggiana” Corriere del Mezzogiorno, 19 settembre 2021 Alessandro Lanza, 43 anni, si è impiccato all’interno della sua cella. Doveva scontare altri due anni per mafia e tentata estorsione. Fu coinvolto anche nel blitz “Blauer” del 2011 perché accusato di aver favorito la latitanza del boss Franco Libergolis. Ancora un suicidio nel carcere di Foggia. Un detenuto di 43 anni, Alessandro Lanza, esponente del clan Sinesi-Francavilla si è ucciso impiccandosi all’interno della sua cella. Sono stati gli agenti della polizia penitenziaria ad accorgersi di quanto avvenuto: a nulla sono serviti i tentativi di soccorso del personale medico, giunto tempestivamente. Il 43enne stava scontando un residuo pena di circa due anni per mafia e tentata estorsione nell’ambito del processo “Corona”, l’operazione del 2013 con cui furono arrestati 24 tra affiliati e vertici della criminalità organizzata di Foggia. L’altro episodio - È il secondo suicidio che si verifica dall’inizio dell’anno nel carcere di Foggia. Il 3 aprile scorso si è ucciso Gerardo Tarantino il presunto omicida di Tiziana Gentile la bracciate agricola uccisa nella sua abitazione ad Orta Nova (Foggia) il 26 gennaio. In Puglia in pochi giorni è il terzo recluso morto all’interno dei penitenziari. Lo denuncia il FS-CO.S.P. Coordinamento sindacale penitenziario che ricorda come in Puglia mancano oltre 1.000 unità sugli attuali 2.700 poliziotti. Nelle dodici strutture carcerarie di sono oltre 4.100 detenuti contro i 2.400 regolamentari. Anche per questo il sindacato della polizia penitenziaria ha chiesto nuovamente un intervento della Ministra della Giustizia Marta Cartabia per ottenere “provvedimenti urgenti, radicali e profondi anche eventuali sostituzioni di dirigenti e funzionari se necessari al cambiamento”. Pisa. Il pm ha chiesto l’archiviazione per tutti i detenuti indagati per la rivolta del 2017 La Nazione, 19 settembre 2021 Dopo che un detenuto si era tolto la vita, scoppiò una rivolta nel carcere di Pisa. Era il 2017 e quel tragico e drammatico gesto suscitò le proteste degli altri detenuti che si sono asserragliati in uno dei piani dell’istituto. Scoppiò un parapiglia insieme all’allarme che fece scattare, immediatamente, le misure di sicurezza: all’esterno del carcere si raccolsero mezzi della polizia penitenziaria, della polizia di stato, dei carabinieri e della guardia di finanza. La protesta durò quasi tre ore. E, secondo le informazioni che emersero, furono lanciati oggetti, suppellettili e venne anche dato fuoco ad alcune lenzuola e cuscini, rendendo necessario l’intervento con estintori. All’interno intervennero gli agenti della polizia penitenziaria mentre gli uomini delle altre forze dell’ordine vigilarono l’esterno. All’esito delle indagini e degli approfondimenti, pero, il pubblico ministero per i 13 indagati di resistenza, danneggiamento, minaccia e uno anche per calunnia, ha chiesto l’archiviazione perché, pur con una condotta sbagliata, i detenuti avevano dato vita ad una protesta. Una dimostrazione messa in piedi con metodi non consoni, ma senza però l’intenzionalità di compiere il reato. la richiesta di archiviazione è arrivata ieri davanti al GUP Castellano, alla quale si sono associati i difensori degli imputati. Il giudice si è riservato la decisione. Napoli. Processo “Cella zero”, tour de force per scongiurare la prescrizione di Viviana Lanza Il Riformista, 19 settembre 2021 Ormai è una corsa contro il tempo. I giudici provano a mettere il turbo al processo sui presunti pestaggi denunciati da quattro ex detenuti del carcere di Poggioreale nel lontano 2012-2014. Secondo il nuovo calendario di udienze, si procederà al ritmo di una seduta ogni quindici giorni. Dopo i lunghi rinvii del passato, il processo noto anche come “Cella zero”, dal numero della cella più temuta del grande carcere cittadino, si appresta ad arrivare alla fase conclusiva del dibattimento provando a evitare la prescrizione che rischia di incombere. Cinque gli episodi indicati al centro delle accuse che, a vario titolo, sono contestate ai dodici agenti della polizia penitenziaria sotto processo, e all’epoca dei fatti (parliamo di quasi dieci anni fa) in servizio presso la casa circondariale di Poggioreale. Si va dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute al reato di maltrattamenti. Perché, secondo la denuncia di quattro ex detenuti, sarebbe stato con la violenza che una squadretta di agenti avrebbe regolato i rapporti con i reclusi, punito sguardi o parole di troppo. “Il metodo Poggioreale” lo ha definito qualcuno. La stessa definizione è emersa anche, più recentemente, dalle chat dell’inchiesta sui pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quello sulla “Cella zero” è a Napoli il primo processo incentrato su ciò che accade nel chiuso di un istituto di pena. I dodici agenti imputati si difendono, respingendo le accuse. Finora, nel dibattimento, lo scontro tra le tesi di accusa e difesa si è concentrato sull’attendibilità dei riconoscimenti degli imputati da parte delle vittime. Anche l’udienza di giovedì è stata dedicata all’analisi delle attività investigative svolte per dare un nome e un volto agli autori delle umiliazioni e dei pestaggi denunciati dagli ex detenuti, alla verifica delle testimonianze con riscontri sui registri delle presenze degli agenti in servizio nei giorni in cui si sarebbero consumati i soprusi. Secondo il racconto di chi in quella cella ha detto di esserci finito, tutto accadeva di notte. Che la squadretta fosse in azione lo si capiva dal rumore dei passi e dal suono delle mazze di ferro battute contro le sbarre della cella. Bastava che ci fosse stato nella giornata un battibecco, una risposta dai toni più duri, un commento di troppo. Entrare nella cella zero voleva dire essere costretto a spogliarsi, fare flessioni e prendere le botte, stare poi in isolamento fino a quando non si riusciva a reggersi di nuovo in piedi sulle proprie gambe. Nel ricordo degli ex detenuti la cella zero era una stanza senza arredi. “Mi fecero spogliare, mi fecero togliere anche gli indumenti intimi e in tre iniziarono a picchiarmi, a insultarmi e farmi eseguire flessioni sulle gambe - si legge in una delle testimonianze degli ex detenuti finita al vaglio degli inquirenti - Si alternavano a picchiarmi con schiaffi mirati alla testa e calci alla schiena”. Per gli ex detenuti “cella zero” era un luogo di umiliazioni e violenza. Oggi a Poggioreale quella stanza al piano terra, spoglia e arredata solo con un letto ancorato al pavimento con delle viti, non esiste più. Esiste nelle ricostruzioni al centro di un dibattimento iniziato nel 2017 e ancora in corso in primo grado, sospeso tra vari rinvii e ora sottoposto a un’accelerazione che si spera possa servire a portare il processo alla sua naturale conclusione. Tra coloro che hanno raccontato le torture di “cella zero” c’è anche Pietro Ioia, attuale garante dei detenuti di Napoli. Sulmona (Aq). Ambulatorio sovraffollato, crisi del servizio odontoiatrico nel carcere ilgerme.it, 19 settembre 2021 Con una nota ufficiale inviata dai responsabili di categoria della Uil-Fpl e Uil-Pa L’Aquila ai vertici della Asl sono stati chiariti i problemi che affliggono l’ambulatorio del carcere sulmonese di via Lamaccio. Liste d’attesa troppo lunghe e rallentamenti dovuti al rispetto dei protocolli anticovid hanno creato più di un disagio per il servizio odontoiatrico della casa circondariale. “Sulla base delle rilevanze fatte ne è conseguita la scelta di inviare un altro odontoiatra in supporto alla professionista ivi di ruolo - si legge nella nota - Tale provvedimento però non sta dando i risultati sperati soprattutto in ordine all’abbattimento delle liste di attesa, al regolare soddisfacimento dei lavori che necessitano di più accessi in ambulatorio e agli interventi d’urgenza segnalati dal medico di medicina generale. Va altresì evidenziato che il tutto risulta aggravato dai limiti imposti dalle politiche anticovid che ne rallenta ulteriormente l’iter”. “Ci ritroviamo - continua la nota - di fronte una situazione che vede la Casa circondariale dell’Aquila ospitare quasi la metà dei detenuti reclusi rispetto al penitenziario sulmonese ma con un monte ore assegnato superiore se si rapporta al numero dei detenuti presenti. Premesso quanto sopra, al fine di evitare spiacevoli situazioni visto che il non soddisfacimento delle richieste avanzate dai detenuti si riverbera negativamente su tutto il sistema penitenziario sulmonese”. Tra le richieste dei sindacati ci sono un incremento orario settimanale pari a 6 ore al fine di meglio contemperare le molteplici esigenze che la professionista si trova faticosamente a fronteggiare e la riduzione della lista d’attesa. Ferrara. “In carcere servono più occasioni di socialità e lavoro” di Martina De Tiberis estense.com, 19 settembre 2021 “Ingiustizia carceraria” è il tema trattato venerdì 17 settembre dagli Emergency Days Ferrara. Nella serata di venerdì 17, durante gli Emergency Days, si è tenuto il secondo incontro, presso il Rivana Garden, dal titolo “Ingiustizia carceraria”. Mauro Presini, maestro elementare specializzato per l’integrazione e, per l’occasione, mediatore dell’evento, ha voluto commemorare l’importanza della figura di Gino Strada, fondatore di Emergency, e dei suoi precetti, rivolti soprattutto verso gli ultimi della società. Alessio Scandurra, membro del Comitato Direttivo e Coordinatore dell’osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, ha descritto le pessime condizioni delle carceri italiane. “Oggi quello che noi osserviamo quando giriamo per gli istituti - afferma il coordinatore di Antigone - è un carcere che ancora fatica a tornare quello che era. Per una comunità che ha l’isolamento nel proprio sangue, aprirsi è un processo lento e faticoso. È importante che la comunità esterna chieda a gran voce questa apertura nei confronti delle carceri”. La questione dei diritti dei detenuti è stata affrontata, in maniera minuziosa e analitica da Stefania Carnevale, professoressa associata di Diritto processuale penale presso l’Università di Ferrara, ricordando il concetto fondamentale di diritto umano, sulla scia degli insegnamenti di Gino Strada, un diritto che è qualcosa di inalienabile, congenito in ogni persona dal momento della nascita. “Il diritto alla salute e alla vita è un diritto fondamentale: non può e non deve soccombere dinanzi a timori per la sicurezza. Quest’ultima va tutelata in altro modo. Le persone detenute devono mantenere la loro dignità in ogni ambito della quotidianità. I diritti sono la cosa più preziosa che abbiamo perché sono una forma di tutela che la collettività ci assicura per esserne parte, anche se si è tradito il patto sociale”. Queste le parole della professoressa dinanzi alla situazione attuale degli istituti penitenziari attuali. Il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara si è fatto promotore di un lodevole progetto, denominato “sportello carcere”, in collaborazione con l’associazione L’Altro Diritto: il servizio prestato concerne specifiche esigenze dei detenuti che, grazie ad uno sportello di orientamento legale, possono ricevere assistenza, da parte di esperti in materia, su temi che riguardano la condizione carceraria. Antonio Amato, ex responsabile dell’area Misure e sanzioni di comunità dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Bologna, ha definito il carcere come un luogo “antieconomico e criminogeno”, un’esperienza che non ha alcuna valenza educativa, poiché l’utenza che vi transita è un’utenza debole, composta da persone in condizione di notevole disagio economico, sociale e affettivo. “Sarà necessario investire in campagne di sensibilizzazione per smuovere l’animo dei cittadini. Bisogna creare maggiori occasioni di socialità e lavoro per i detenuti”. Con queste parole, pronunziate da Amato, si è concluso il dibattito. Genova. Green pass a Palazzo di giustizia: “Il 15% dei lavoratori non lo ha” di Matteo Indice La Repubblica, 19 settembre 2021 Quasi 100 degli oltre 600 dipendenti non ha la certificazione, anche alcuni magistrati non sono vaccinati. Polemiche dai sindacati. La prima stima compiuta dai capi dei diversi uffici non è stata delle più confortanti: quasi 100 degli oltre 600 lavoratori del palazzo di giustizia genovese (un 15% a spanne secondo le ultime proiezioni) è sprovvisto del Green Pass. E con il decreto che obbliga i dipendenti pubblici a possederlo dal 15 ottobre per poter accedere al luogo di lavoro, la situazione rischia di farsi (parecchio) complessa. Quella che si profila nella cittadella giudiziaria da ora in avanti è una specie di corsa contro il tempo, condita già da qualche polemica. I costi dei tamponi - “È chiaro - precisa Beatrice Nucera, Rsu Cgil - che gli oneri devono essere comuni ed eventuali ricorrenti tamponi non possono impattare in maniera differente sui semplici dipendenti amministrativi o sui magistrati”. Per orientarsi occorre fissare qualche paletto, e partire dalla branca più corposa del Palazzo ovvero il tribunale (le altre principali sono la Procura della Repubblica e poi Procura generale e Corte d’appello). Qui i magistrati in servizio sono 90 e i lavoratori amministrativi 230: 320 persone - circa la metà di tutto il personale che opera nell’ex Pammatone - sulle quali non ci sono dati troppo precisi in merito all’avanzamento della vaccinazione e sul possesso del Green Pass. “Cambi in corsa” - Ecco perché il presidente del tribunale stesso, Enrico Ravera, non può che ragionare in prospettiva: “È difficile dire oggi come ne usciremo, ma mi permetto un’osservazione. Noi con la campagna vaccinale eravamo partiti a spron battuto, raggiungendo in breve tempo già un buon livello d’immunizzazione. È chiaro che il cambio di linea sulle priorità, quindi lo stop ad alcune categorie per concentrarsi sull’aspetto anagrafico, ha fatto un po’ venir meno la progressione. Un mese è a mio parere un intervallo comunque ragionevole per organizzarsi. Soprattutto: è necessario trovare regole omogenee, per non andare in ordine sparso e non creare iniquità. La normativa è fatta, ora va gestita unitariamente”. Richiama a tempi stretti l’attuale capo dei pubblici ministeri Francesco Pinto, che guida il secondo ufficio più numeroso: 33 magistrati in servizio, 160 amministrativi per un totale di 193 persone che a partire dal 15 ottobre dovranno esibire il certificato verde per poter svolgere le proprie mansioni. Riunioni urgenti - “Il primo passo - spiega quindi Pinto - sarà quello di riunire la cosiddetta “Commissione manutenzione”, per fissare aspetti tutt’altro che agevoli da definire oggi: chi controlla il possesso del Green Pass (attualmente il filtraggio all’ingresso del palazzo di giustizia è organizzato su due lati da un istituto di vigilanza privata, cui sono affiancati due carabinieri, ndr) come, quali sono le conseguenze immediate per chi non lo detiene, considerato che lo smart working non è contemplata come alternativa. Io credo che, perlomeno sulle prime, il problema per chi non possiede il certificato verde potrebbe essere risolto con una massiccia esecuzione di tamponi, ma non si profila semplice come sistema”. Altro nodo che rischia di rivelarsi piuttosto complesso da sciogliere è quello della fisiologica discrepanza fra chi all’interno del Palazzo ha il proprio posto di lavoro e chi invece lo frequenta in maniera estemporanea, ovvero il pubblico (imputati e in generale “parti” dei vari processi, sia civili sia penali) e gli avvocati. Pure su questo fronte i sindacati sono pronti ad affilare le armi, ed è il motivo per cui già la prossima settimana dovrebbe svolgersi un incontro chiarificatore fra i diversi dirigenti (un altro centinaio di lavoratori è suddiviso fra la Procura generale e la Corte d’Appello, posizionati nei piani più alti dell’edificio. I casi giudiziari - Non va inoltre dimenticato che proprio sul Green Pass, sempre la prossima settimana, dovrebbero arrivare i primi pronunciamenti sui ricorsi presentati da una decina di lavoratori di altri comparti, dove il certificato è già obbligatorio. Una delle possibilità è che i giudici rinviino la valutazione alla Corte Costituzionale. Se la statistica anticipa la politica di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 19 settembre 2021 Due grandi messaggi passavano di bocca in bocca durante il lockdown. Ve li ricorderete. “Ce la faremo!” come espressione positiva e della volontà di reagire nei momenti più duri dell’epidemia. E “Niente sarà più come prima”. Ne siamo ancora convinti. È una realtà e allo stesso tempo è una vera sfida. Abbiamo bisogno di “ri-generazione”, su tutti i fronti. Nuovi valori, nuovi strumenti di misurazione, nuove politiche. È questo il tema del Festival della statistica e della demografia organizzato da Istat e Società italiana di statistica, in corso a Treviso, dove statistici, data scientist, ingegneri, filosofi, economisti e altri esperti si confrontano. Qualcuno ha affermato che quello della pandemia era un evento imprevedibile. Non è proprio così. Una epidemia da virus senza scudo vaccinale è un evento che potremmo definire eccezionale, ma è anche vero che quattro eventi simili (Sars, Suina, Aviaria e Mers) sono avvenuti proprio negli ultimi venti anni, seppur con contagiosità e severità minori. E soprattutto i virus non avevano varcato tutti i confini dei Paesi avanzati. La statistica e in particolare l’epidemiologia ci dicono che avremmo dovuto tenerne conto. Abbiamo pagato un caro prezzo per non averlo fatto, innanzitutto in termini di vite umane, ma anche per le conseguenze sociali ed economiche. È evidente che il Servizio sanitario nazionale dovrà profondamente ridisegnare la sua offerta anche tenendo conto di shock di domanda come questo, non più eccezionali come in passato in un mondo in cui l’interconnessione è la regola. Sarebbe suicida non farlo. Questo ci deve insegnare questo elettroshock. Purtroppo non si tratta solo di epidemia. Pensiamo alla demografia. Lo hanno ricordato con molta chiarezza ieri il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo e la ex ministra del Lavoro Elsa Fornero. Ma da quanti anni i demografi hanno lanciato l’allarme? Il calo della fecondità non è arrivato all’improvviso. Sono anni che il nostro Paese è a permanente bassa fecondità. Sono anni che la statistica produce previsioni demografiche ed elabora scenari. La demografia ha anticipato la politica e la società. Ma chi l’ha ascoltata? Chi ha tratto le necessarie conseguenze? Eppure le evidenze dei dati dicevano chiaramente che lo scarto tra numero di figli desiderati e numero di figli reali è elevato. Da anni. Il primo è 1,2, il secondo 2. Che si è fatto per trasformare il desiderio di avere figli in realtà? Che si è fatto per alleggerire il carico di lavoro familiare sulle spalle delle donne? Per redistribuirlo nella coppia e nella società? Non si è fatto. Punto. E ora raccogliamo i cocci. Proprio quando la situazione è compromessa strutturalmente. E l’invecchiamento della popolazione avanza inesorabilmente. La statistica deve rigenerarsi, affinarsi. Deve essere sempre più in grado di integrare ai livelli più alti dati di fonti diverse, dalle tradizionali e irrinunciabili survey, fondamentali per cogliere il sommerso di tutti i fenomeni, la complessità del reale e le fonti amministrative, ai big data. I giacimenti informativi sono enormi e possenti. Le statistiche devono crescere in qualità, rapidità, granularità. Ma attenzione, la statistica ha già messo a nudo i nodi strutturali da affrontare. Se non verrà ascoltata, se non verrà usata adeguatamente dai policy makers come guida per l’azione, se non si investirà con risorse, seriamente, su di essa, servirà a poco. Il Pnrr potrà essere un banco di prova. La sfida è aperta. Rigeneriamoci. *Direttora centrale Istat Le armi legali dei femminicidi di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 19 settembre 2021 Un fenomeno al quale il Viminale dedica da qualche anno un report con aggiornamenti periodici. Che, però, non specifica un punto fondamentale: l’arma utilizzata. Non è un elemento secondario. Perché se è vero che si può uccidere con tutto, è altrettanto vero che - come evidenziano diverse ricerche - soprattutto negli omicidi familiari e di tipo relazionale, l’arma del delitto non rappresenta un mero strumento per eseguire un assassinio, ma costituisce un fattore psicologico di particolare pregnanza nell’ideazione e nella preparazione dell’azione delittuosa. Otto donne uccise negli ultimi dieci giorni. Ottantasei da inizio anno. Tra queste, 72 sono vittime di omicidi in ambito familiare-affettivo e in 51 casi l’assassino è il partner o l’ex. Sono i numeri, impietosi e agghiaccianti, dei femminicidi in Italia. Un fenomeno al quale il Viminale dedica da qualche anno un report con aggiornamenti periodici. Che, però, non specifica un punto fondamentale: l’arma utilizzata. Non è un elemento secondario. Perché se è vero che si può uccidere con tutto, è altrettanto vero che - come evidenziano diverse ricerche - soprattutto negli omicidi familiari e di tipo relazionale, l’arma del delitto non rappresenta un mero strumento per eseguire un assassinio, ma costituisce un fattore psicologico di particolare pregnanza nell’ideazione e nella preparazione dell’azione delittuosa. Lo dimostrano i casi degli ultimi giorni. Lo scorso 15 settembre una giovane mamma, Alessandra Zorzin, 21 anni, è stata uccisa a Montecchio Maggiore (Vicenza) da Marco Turrin, guardia giurata di 38 anni residente a Padova: l’uomo, poi suicidatosi, non ha utilizzato la pistola che usava per lavoro, ma un’altra regolarmente registrata che si era portato da casa. L’altro ieri, un anziano di 88 anni, Stellio Cerqueni, è partito dalla sua abitazione a Monfalcone (Gorizia) ed è andato a Sarmeola di Rubano (Padova) dove ha ucciso la figlia, Doriana, con un’arma legalmente detenuta. In dieci giorni, due femminicidi su otto, dunque, sono stati commessi con armi legali. Non è un dato casuale: dall’analisi degli omicidi riportati nel database dell’Osservatorio OPAL, emerge infatti che lo scorso anno a fronte di 93 omicidi di donne ben 23 sono stati commessi da legali detentori di armi o con armi da loro detenute. Ciò significa che un omicidio su quattro che ha visto come vittima una donna è stato compiuto con un’arma legale. È un dato impressionante se si considera che in Italia solo una persona su dieci tra la popolazione adulta ha una regolare licenza per armi. “Avere un’arma in casa - riporta il Censis - rappresenta una formidabile tentazione di usarla e molti assassini sono in possesso di regolare licenza”. Non esiste una soluzione semplice per contrastare la violenza sulle donne e per prevenire la piaga del femminicidio: bisogna agire su vari fronti e in modo sinergico. È necessaria un’opera di lungo corso per estirpare le radici della cultura maschilista e patriarcale attraverso un’azione capillare di educazione, formazione e informazione: azione alla quale non contribuiscono parole come quelle pronunciate da Barbara Palombelli in riferimento ai femminicidi (“È lecito chiedersi se le donne hanno avuto un comportamento esasperante”) che tendono a vittimizzare le donne. Ma è necessario, fin da subito, togliere dalle mani dei potenziali assassini quelle armi che poi usano per uccidere. Armi che nella gran parte dei casi detengono legalmente con la complicità, va detto chiaro, di norme che ne permettono il facile accesso. L’arma del femminicidio è sempre più un’arma da fuoco legalmente detenuta. E lo sarà ancora per molto se non si cambieranno le norme. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa - Opal Il referendum sulla cannabis raggiunge le 500 mila firme di Concetto Vecchio La Repubblica, 19 settembre 2021 Magi (+Europa): “Un colpo al cuore del narcotraffico”. Promosso dalle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone e dai partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani è il primo a essere esclusivamente online. Si stima che metà delle sottoscrizioni sia arrivata dagli under25. Mezzo milione di firme in sette giorni. Il referendum sulla cannabis taglia il traguardo grazie alla spinta degli under 25: metà delle sottoscrizioni sono venute da loro. L’altro aiuto è arrivato dalla possibilità di firmare online, un’innovazione introdotta il 20 luglio. Esultano i promotori: le associazioni Luca Coscioni, Meglio legale, Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone e i partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani, Sinistra italiana. Le firme vanno consegnate in Cassazione entro il 30 settembre. La raccolta proseguirà ancora per garantirsi un margine di sicurezza. Si voterà in primavera: referendum abrogativo. Cosa s’intende abolire? La punibilità. Non si finirà più in carcere per le canne. Si cancella così l’articolo 4 della legge sugli stupefacenti, depenalizzando la coltivazione, il possesso e quindi l’uso. Abolita anche la sanzione amministrativa della sospensione della patente per chi viene trovato in possesso (è capitato a un milione e 400mila italiani), ma resterà in vigore il ritiro per chi guida in stato di alterazione. Sono sei milioni i consumatori di cannabis in Italia. Il 40 per cento del mercato della droga è appannaggio della marijuana. Secondo i promotori il primo effetto sarà togliere alla criminalità potere ed entrate. “Un colpo al cuore del narcotraffico”, dice Riccardo Magi di +Europa. L’altro vantaggio è di avere un controllo dello stupefacente, che sarà quindi possibile acquistare legalmente in forme che spetterà poi al legislatore decidere in caso di approvazione del quesito. Al momento, sostiene Magi, un consumatore è nelle mani di un pusher e non sa cosa compra, né come la droga è stata trattata. Laddove la legalizzazione è già avvenuta, come in Canada e negli Stati Uniti, affermano i promotori, non si è registrato nessun aumento dei consumi. Il grande afflusso di richieste sul portale dell’Associazione Coscioni ha a volte rallentato la sottoscrizione. In una settimana sono stati raccolti 145mila euro in donazioni; ne servono 355mila per coprire i costi, poiché ogni firma digitale ha un costo di 1,05 euro. “Questo è un giorno straordinario” ha commentato Emma Bonino. “La strada delle libertà e l’unica contro i sovranismi. Ed è una spinta politica a un Parlamento che dorme da tanti anni”. “Il totale silenzio dei capi dei grandi partiti, così come sta accadendo per il referendum sull’eutanasia legale, è un segnale preoccupante non tanto per i referendum, quanto per lo stato di salute della nostra democrazia e di partiti ormai sempre più autoreferenziali, ridotti fare il tifo pro o contro le decisioni di Draghi”, ha commentato Marco Cappato, del Comitato promotore. “I vari Salvini, Letta, Meloni, Conte e Berlusconi sono ancora in tempo a rendersene conto e uscire dal silenzio, prima di perdere contatto con i loro stessi elettori”. La destra si schiererà contro, come hanno annunciato Giorgia Meloni e Matteo Salvini. E il Pd? Enrico Letta ha preso tempo. Una decisione sarà assunta nelle prossime settimane. “Sono dispiaciuto del fatto che liquidi questa iniziativa”, ha reagito il sottosegretario agli esteri, Benedetto della Vedova. “Cosa c’è da capire? Se ne discute da anni, è tutto chiarissimo, bisogna dire solo sì o no”. Nessuno poteva immaginare un simile risultato sette giorni. La firma digitale rappresenta una nuova frontiera. E come per l’eutanasia sono stati decisivi i giovani: una generazione che preme alle porte della politica. “La firma digitale? È rivoluzionaria, abbatte lo strapotere del palazzo” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2021 Ora il Parlamento non può permettersi di ignorare i temi scomodi”. Mario Staderini è il politico che nel 2019 ha fatto condannare l’Italia dall’Onu per le “irragionevoli restrizioni” nella possibilità di promuovere un referendum popolare. “Con le firme online i referendum tornano in mano ai cittadini, che possono intervenire sull’agenda politica e attivarsi per cancellare leggi ingiuste. Prima questa facoltà era riservata ai grandi partiti”. Le consultazioni diventeranno troppe? “Non tutti i temi scaldano i cuori, non tutti i promotori sono credibili. Ad esempio, la raccolta firme per abolire il Reddito di cittadinanza non l’ho ancora vista”. “Perché la firma digitale è una rivoluzione? Perché abbatte lo strapotere del palazzo. Ora gli elettori potranno imporre alla politica i temi più scomodi, e i parlamentari non si sentiranno più al sicuro ad approvare le leggi peggiori”. La riassume così Mario Staderini, il politico che ha aperto la strada alla rivoluzione della democrazia diretta in Italia: la possibilità - introdotta per la prima volta al mondo nel nostro Paese - di sottoscrivere online le richieste di referendum tramite Spid o carta d’identità elettronica. Una conquista raggiunta a luglio con l’emendamento al Dl Semplificazioni proposto da Riccardo Magi (+Europa) che ha dato il via a una valanga di adesioni ai due quesiti su eutanasia e cannabis legale (con quest’ultimo che ha raggiunto la soglia di 500mila firme in appena sette giorni). E già attira pareri critici secondo cui, in questo modo, raccogliere le adesioni necessarie diventerà persino “troppo facile”, col rischio di svilire l’istituto referendario. “Ma è il contrario: era troppo difficile prima”, spiega Staderini, avvocato ed ex segretario dei Radicali italiani che nel 2019 ha ottenuto la condanna dell’Italia da parte del Comitato diritti umani dell’Onu proprio per le “irragionevoli restrizioni” a cui la nostra legge subordinava la possibilità di promuovere referendum d’iniziativa popolare. “Un diritto costituzionale era stato reso impossibile da esercitare, perché i partiti, dei referendum, hanno sempre avuto paura”. Quando è iniziata la vostra battaglia? Nel 2013, con i 12 quesiti che proponemmo come Radicali italiani (su temi che andavano dal divorzio breve all’abolizione del reato di clandestinità, ndr): ne depositammo sei, che però si fermarono a 200mila firme a causa degli ostacoli di legge alla campagna. Soprattutto la difficoltà di trovare autenticatori: servivano consiglieri comunali, alti funzionari pubblici o cancellieri giudiziari (che però vanno pagati). I grandi partiti o sindacati ne hanno a disposizione un esercito, mentre soggetti più piccoli fanno fatica. E bisogna raccogliere 500mila firme in tre mesi. Il risultato è che negli ultimi dieci anni - dai referendum su acqua pubblica e nucleare del 2011 - tutte le grandi consultazioni sono state richieste dai parlamentari o da cinque Consigli regionali, mai dai cittadini. Abbiamo concluso che bisognava fare qualcosa. Da qui il ricorso all’Onu... Lo abbiamo presentato nel 2015 insieme a Michele De Lucia, sostenendo violazione del Patto internazionale dei diritti civili e politici, che impone agli Stati firmatari di garantire la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ad assisterci è stato Cesare Romano, professore di diritto internazionale alla Loyola University di Los Angeles. Nel frattempo però abbiamo messo in piedi altre iniziative: una petizione online, un appello al capo dello Stato perché intervenisse sul Parlamento, una protesta che ci ha visto per quaranta sabati in piedi di fronte al Quirinale e ai palazzi delle istituzioni. Poi, a dicembre 2019, il Comitato ha condannato l’Italia: la sentenza creava un obbligo di diritto internazionale a rimuovere gli ostacoli entro 180 giorni, termine ovviamente non rispettato. Ma noi abbiamo continuato a fare pressione e nella legge di Bilancio 2020 siamo riusciti a far approvare l’emendamento Versace, che introduceva la firma digitale a partire dal 2022. Poi, lo scorso giugno, Marco Gentili (co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, ndr) ha trovato un accordo con il ministro Vittorio Colao per anticipare i tempi: da qui l’emendamento Magi. Che è stato votato all’unanimità, ma con parere negativo del Governo... In realtà, come ho appena detto, il ministro Colao era d’accordo, così come la ministra dell’Interno. A opporsi è stato il dicastero della Giustzia di Marta Cartabia, forse per un riflesso burocratico dell’organo responsabile del controllo delle firme - l’Ufficio centrale per i referendum - o forse per paura di questa rivoluzione proprio durante la campagna per il referendum sull’eutanasia. In Parlamento, però, hanno votato tutti a favore, mentre nel 2017 un emendamento simile era stato bocciato: da un lato c’è stata la condanna Onu, dall’altro una cultura digitale che nel frattempo si è evoluta. Se si obbligano gli italiani a usare lo Spid per interagire con la pubblica amministrazione, per la sanità e il cash-back, sarebbe stato il colmo negarlo per raccogliere le firme per i referendum. La firma digitale esiste da poche settimane e ha già terremotato il quadro politico. Ve lo aspettavate? Il successo straordinario è la prova che davvero i referendum popolari erano ostacolati da quelle “irragionevoli restrizioni” di cui parla l’Onu nella sentenza di condanna. Ora non c’è nessun diritto “nuovo”: si rispetta la Costituzione, e questo appare rivoluzionario. I referendum tornano uno strumento in mano ai cittadini, che possono imporre temi scomodi all’agenda politica (come nei casi dell’eutanasia o la cannabis) o attivarsi facilmente per cancellare leggi ingiuste. Prima questa facoltà era negata al popolo e riservata ai grandi partiti, con i propri parlamentari e consiglieri regionali. Che adesso hanno paura: sanno che non si dovrà più passare da loro per avere gli autenticatori a disposizione, e che nemmeno i media mainstream saranno più essenziali, basta usare i social media. C’è chi dice che così i referendum saranno troppi, che si chiederanno in modo disinformato, con costi troppo alti e il rischio di uno squilibrio tra popolo e Parlamento... Lo squilibrio è quello che c’era prima, con il Parlamento che si sentiva libero di votare le leggi peggiori, protetto dalla sicurezza che il referendum era “roba loro”, dei partiti. Adesso sarà più difficile. I costi: il problema non sono certo quelli per far funzionare la democrazia. Al massimo, se proprio si vuole, si può fare come in Svizzera, dove si vota in due sessioni l’anno per tanti quesiti insieme. O accorpare i referendum alle elezioni. I referendum non saranno “troppi” perché non tutti i temi sono sentiti come eutanasia e cannabis, non tutti i promotori sono credibili, quindi le firme non arriveranno sempre in massa: insomma, ci sarà una selezione naturale. Per esempio, è da mesi che sento parlare del famoso referendum sul Reddito di cittadinanza proposto da Renzi, ma non mi risulta che la raccolta firme sia partita. Meno che mai quella digitale. Voi Radicali non finirete per avere nostalgia dei cari vecchi banchetti? Si faranno lo stesso, anzi se ne faranno di più, perché non servirà dare la caccia agli autenticatori ma basterà portarsi dietro un tablet. Anzi: con la firma digitale ogni luogo potrà trasformarsi in un banchetto. Anche una cena con gli amici o una chiacchierata al bar. Cannabis, già 500 mila firme. Ora troppi referendum? I costituzionalisti si dividono di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 19 settembre 2021 Il minimo necessario era 500mila sottoscrizioni ed è bastata una settimana per raggiungere l’obiettivo. Grazie soprattutto alla firma digitale, vola il referendum sulla cannabis, la prima raccolta in Italia che si è tenuta esclusivamente online. 1 promotori - Associazioni Luca Coscioni, Meglio legale, Forum droghe, Società della ragione, Antigone e i partiti +Europa. Possibile e Radicali italiani - parlano di risultato “straordinario” ma comunque “non sorprendente” e adesso vogliono soprattutto mettere in sicurezza l’approdo del quesito in Cassazione il 30 settembre: per questo puntano a raccogliere il 15% in più di adesioni. “Ci siamo ma non basta. Continuate a firmare per via telematica perché è anche una spinta politica a un Parlamento che dorme da tanti anni”, esorta Emma Bonino. La velocità con cui sono state raccolte le firme per il quesito - che interviene sul Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope - sia sul piano della rilevanza penale che delle sanzioni amministrative - non ha scatenato solo un dibattito politico tra contrari (il centrodestra), i favorevoli come i 5 Stelle o i “tiepidi’ come il Pd. Perché l’innovazione della firma digitale ha innescato anche una discussione sulla necessità o meno di rivedere i meccanismi che regolano l’istituto referendario, per esempio innalzando la quota di firme necessarie. Per Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, tuttavia, non è tanto una questione di numeri, quanto di consapevolezza con cui si aderisce. “L’essenziale è che la firma digitale dia certezza della conoscenza vera, e non per sentito dire, del quesito, altrimenti rischia di essere una sorta di sottoscrizione in bianco o comunque più di indirizzo che di contenuto”. Il costituzionalista Enzo Cheli vede invece “con favore” lo slancio che la firma digitale ha dato a “questo strumento di democrazia diretta”. “Non ritengo necessario che si aumenti la soglia delle firme previste, almeno non per ora. Se poi si dovessero verificare degli abusi, allora se ne potrebbe riparlare. Piuttosto, sono d’accordo con una riforma, di cui si parla da un po’, che prevede che si anticipi il pronunciamento della Corte sulla legittimità del quesito già dopo 100mila firme”. Un tema, questo, che viene posto anche da Beniamino Caravita di Toritto, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico alla Sapienza, secondo cui potrebbe anche essere necessario aumentare il numero delle firme, ma bisogna soprattutto rivedere il meccanismo su un paio di punti”. Oggi il rischio è che con la raccolta online possa essere sottoposta a referendum ogni cosa con grande facilità. E. allora, per esempio diventano incongrui i termini a disposizione previsti dalla legge del 1970 e diventa problematico tenere un sistema politico-istituzionale appeso a un giudizio della Corte che arriva solo alla fine”. A giudizio di Giovanni Guzzetta, docente di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università Roma Tor Vergata. quello del quorum delle sottoscrizioni è un falso problema. “La Costituzione prevede che si raccolgano 500mila firme, non che si raccolgano a passo di lumaca. Se noi riconosciamo alla firma digitale un valore equivalente alla firma fisica, non vedo perché non si debba applicare anche al referendum”. Non è che si finisce per snaturare l’istituto? “Io ritengo - spiega ancora - che il problema sia riqualificare la democrazia rappresentativa facendo quelle riforme che da 50 anni non si fanno e che forse sminerebbero il rischio di un ricorso eccessivo a questi strumenti”. Anche per Massimo Villane, professore emerito di Diritto costituzionale alta Federico II di Napoli, il problema non è tanto di riforma dell’istituto quanto di equilibrio. “La Costituzione ha una preferenza per la democrazia rappresentativa, l’articolo 75 sul referendum di fatto è un correttivo, lo non credo che l’allargamento alla possibilità della raccolta ordine possa portare a uno snaturamento. Dobbiamo anche considerare che oggi la democrazia rappresentativa non gode certo di buona salute”. Insomma, secondo il suo parere, “bisogna eventualmente contrastare il cattivo uso, non buttare a mare lo strumento istituzionale”. “Referendum, con le firme online la legge deve essere cambiata” di Paolo Foschi Corriere della Sera, 19 settembre 2021 Il costituzionalista Gaetano Azzariti: così la raccolta delle firme è troppo facile, si rischia di alterare l’equilibrio fra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. “Non c’è dubbio, la legge sui referendum deve essere cambiata. Con la raccolta delle firme online, la soglia delle 500 mila adesioni è troppo facile da raggiungere, lo dimostrano sia la campagna per l’eutanasia, sia quella sulla cannabis, senza entrare sul merito dei due quesiti che sono comunque sentiti e importanti. Come diceva Stefano Rodotà, si rischia di trasformare la democrazia rappresentativa nella democrazia dell’immediatezza telematica”: Gaetano Azzariti, costituzionalista e professore ordinario alla Sapienza di Roma, lancia l’allarme sui referendum al tempo di Internet. “Se non si interviene, si va incontro a diversi problemi”. Quali? “Prima di tutto è concreto il rischio di delegittimare le istituzioni, che si reggono su un delicato equilibrio fra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. La decisione inevitabile di accettare le firme raccolte online rende almeno in teoria molto facile l’avvio dell’iter per chiedere i referendum, altera appunto questo equilibrio. Inoltre si rischia di ingolfare la Corte Costituzionale di richieste su questioni minori o, peggio, su temi controversi, creando poi un collo di bottiglia che penalizzerebbe anche i referendum più importanti”. Secondo lei è necessario alzare il numero di firme da raccogliere? “Sì, ma non è solo questo il punto. Credo che sia razionale, anche se insufficiente, la proposta del Pd di introdurre il giudizio della Corte Costituzionale dopo le prime 10 mila firme, per evitare che vengano bocciati referendum dopo che magari hanno avuto l’adesione di un milione di persone”. L’utilizzo di Internet per la raccolta delle firme rende il referendum uno strumento più forte? “Il rischio è che ne esca indebolito sia per il possibile eccesso di richieste, sia per la mancanza di dibattito che era invece necessario per convincere le persone a firmare in presenza”. Ceccanti (Pd): “Portiamo a 800mila le firme necessarie per i nuovi referendum” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 19 settembre 2021 “Bisognerebbe pensare di alzare il numero minimo di firme e portarle almeno a 800mila, cioè il due per cento di chi vota per le politiche. E poi il quorum resta altissimo, bisognerebbe quindi riparametrare lo togliendo dal conteggio chi di solito non vota alle politiche, e mettendolo al 50 per cento più uno di chi ha votato alle politiche” Onorevole Ceccanti, in che modo la possibilità di firme tramite Spid sta cambiando l’istituto referendario nel nostro paese? Il fatto di togliere gli ostacoli burocratici è senz’altro positivo, perché bisogna favorire la partecipazione. Tuttavia si manifestano una serie di problemi. Il primo è rispetto a ciò che prevede la Costituzione, sotto un duplice profilo: in primo luogo, se raccogliere le firme diventa molto facile bisognerebbe pensare di alzare il numero minimo di firme e portarle almeno a 800mila, cioè il due per cento di chi vota per le politiche; in secondo luogo, il quorum resta altissimo, perché il 50 per cento più uno corrisponde a chi vota per le Amministrative e anche rispetto alle politiche c’è sempre un 25- 30 per cento di astenuti. Bisognerebbe quindi riparametrare il quorum togliendo chi non vota alle Politiche, e mettendolo al 50 per cento più uno di chi ha votato alle Politiche. Altrimenti abbiamo un sistema in cui è facilissimo raccogliere firme ma difficilissimo vincere i referendum. Di quali altre incombenze si deve tener conto nell’analisi del nuovo movimento referendario che passa dalla giustizia, dall’eutanasia e dalla legalizzazione della cannabis? C’è un problema di conflitto con la Corte costituzionale. Avendo previsto a livello di legge ordinaria che si faccia il controllo dopo tutte le firme raccolte, si rischia di raccoglierne milioni che poi vengono colpite dalla Corte sulla base dell’articolo 75 della sua giurisprudenza, con la conseguenza di far saltare i quesiti e aumentare la frustrazione di chi ha firmato. Sarebbe ragionevole che il controllo della Corte avvenisse dopo un certo numero di firme, ad esempio centomila, per poi riprendere la raccolta. La maggiore facilità di raccolta firme aumenta la possibilità di buona riuscita di un referendum? Non è detto che tutti i quesiti siano dichiarati ammissibili da parte della Corte. È più facile raccogliere firme ma non è affatto scontato che poi i quesiti vengano sottoposti a referendum. L’articolo 75 e la giurisprudenza della Corte in questo senso delimitano fortemente il terreno d’azione dei referendum. Quali altre prerogative della Corte andrebbero modificate per rendere l’istituto referendario più adeguato ai nostri tempi? C’è un ulteriore problema che meriterebbero di essere affrontato: il controllo della Corte è solo sui requisiti dell’articolo 75, cioè se i quesiti rientrano nelle leggi che non possono essere sottoposte a referendum. Ma quasi mai la Corte entra sul fatto che la normativa di risulta sia o no costituzionale. Cioè magari si ammettono i quesiti perché non riguardano materie proibite, si supera il quorum ma poi la legge che ne deriva viene dichiarata incostituzionale. Quello sull’eutanasia può darsi che sia ammissibile (ci sono varie discussione sulla tecnicalità del quesito) ma l’idea che si possa passare a una depenalizzazione dell’omicidio del consenziente va oltre e potrebbe essere dichiarata incostituzionale. Il conflitto tra Parlamento e movimenti popolari è destinato ad aumentare nei prossimi anni? Credo che coloro che raccolgono le firme abbiano come obiettivo prioritario quello di far decidere il Parlamento. Il testo base sull’eutanasia è un buon testo e cerca di disciplinare il suicidio assistito secondo i paletti messi dalla Corte. Un conto è se si fa la legge in Commissione, in Parlamento e si dosano gli equilibri secondo i vincoli della Corte. Un altro conto è se si sostiene un quesito che passa all’estremo opposto, cioè alla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente. Gli stessi promotori non sarebbero d’accordo con una soluzione così drastica. È corretta l’accusa di lentezza e inerzia nei conforti del Parlamento su temi così sensibili? Il problema è questo: il Parlamento riesce a legiferare relativamente bene quando le cose possono essere decise all’interno di una maggioranza di governo e quindi si possono superare le divergenze mettendo la fiducia. Un classico esempio è l’ottima legge sulle unioni civili. Fu trovato un punto d’equilibrio e messa la fiducia. Di fronte a governi sorti per emergenza come quello attuale, in cui queste materie non fanno parte del programma, è difficile mettersi d’accordo. Crede che ci sia un problema di mancanza di dialogo tra promotori dei quesiti e politica? I promotori non sono sempre innocenti, nel senso che qualche volta potrebbero trovare soluzioni migliori rispetto a quelle drastiche individuate dai quesiti. Hanno ragione i Radicali quando dicono che la legge sulla responsabilità civile dei giudici fu congegnata dal Parlamento con una serie di esenzioni per cui non si può far valere praticamente mai. Ma allora non capisco perché non sia stato fatto un quesito che restando nella logica della responsabilità indiretta togliesse alcune di quelle esenzioni. Passare a un quesito che parla di responsabilità diretta mi sembra una scorciatoia. Il quesito referendario riesce a ottenere sempre quello che i promotori si augurano? Ci sono casi in cui il referendum ha un effetto minimo. Viene permesso ai firmatari una cosa che obiettivamente il quesito non può ottenere. Riguardo a quello sul sistema elettorale del Csm, i firmatari sono convinti che cambi il sistema elettorale del Csm. Ma non è così: si limita a togliere le modalità di presentazione dei candidati, ma il sistema cosiddetto correttocratico non è assolutamente scalfito dal quesito. Il Movimento 5 Stelle aveva proposto un testo per l’introduzione del referendum propositivo. Come lo valuta? In astratto, si può anche concepire l’idea di un referendum propositivo, perché alcuni referendum abrogativi hanno effetti surrettiziamente propositivi. Ma il propositivo consente ai cittadini di scrivere in positivo la legge, e quindi se ci sono limiti all’abrogativo tanto più ci devono essere rispetto al propositivo. Purtroppo quel testo sottovaluta la forza del propositivo e aveva limiti troppo blandi. Si parla in queste ore dell’introduzione del green pass in Parlamento, osteggiata dal leghista Claudio Borghi. È corretto l’obbligo di green pass anche per deputati e senatori? Borghi solleva il problema se si possa in Parlamento mettere questo limite. Un limite che non mette il governo ma gli organi parlamentari. Con tutto il rispetto per lui, l’invito del governo è rispettoso dell’autodichia e assolutamente ragionevole. Nel momento in cui mettiamo vincoli per i luoghi di lavoro, che si possono mettere perché non c’è nessun aggancio costituzionale che li impedisca, allora deve valere anche per il Parlamento, che non è una zona franca. Per questo il ragionamento non funziona. Tra l’altro la legittimità costituzionale varrebbe anche nel caso si decidesse di imporre l’obbligo vaccinale, come spiega l’articolo 32 della Carta. La dittatura dei social network: digito, ergo sum di Francesca Petretto* Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2021 Questa è un’epoca storica che ha del surreale. Non solo è flagellata da una pandemia che finora ha causato più di 4 milioni e mezzo di morti, ma esiste pure uno svariato numero di persone che considera “dittatura sanitaria” la raccomandazione di indossare una mascherina per evitare il contagio e che sostiene che il vaccino è un mezzo subdolo dei poteri forti (?) per inserire un microchip sottopelle, attraverso il quale ci manovreranno come robot. Una roba che a confronto Black Mirror è una telenovela sudamericana. Al contrario degli altri che vivono da schiavi, soggiogati da una pericolosa casta di sadici virologi e di medici senza scrupoli, loro sono quelli che hanno capito davvero come va il mondo, sono stati illuminati da rivelazioni fondamentali per la sopravvivenza su questo pianeta. Rivelazioni che hanno ovviamente letto o ascoltato in qualche video su Facebook. Sì, perché occorre precisare che per molti di loro, la vita si svolge quasi interamente sui social network. È lì che trovano ispirazione per indignarsi o per eccitarsi, è lì che finalmente hanno l’impressione che il loro parere conti qualcosa, è lì che esistono davvero. Digito, ergo sum. A dire il vero, durante questa pandemia, l’uso compulsivo e disfunzionale dei social ha raggiunto livelli apocalittici non solo tra i complottisti più accaniti. Persone che faticano persino a esprimersi in italiano corretto e che alla voce “istruzione” scrivono “Università della vita”, sui social diventano improvvisamente luminari in qualcosa, a seconda dell’argomento di tendenza: virologia e microbiologia, giurisprudenza, economia politica, critica cinematografica, per non parlare di tutti i potenziali allenatori di calcio che pullulano incompresi in rete. Tutti hanno pareri su tutto e quel che è peggio è che li esprimono senza nessun tipo di remora, spesso anche in maniera molto aggressiva. Sui social si vive una nuova realtà, di solito molto distante da quella reale e molto spesso si finisce per esistere esclusivamente attraverso il proprio profilo, attraverso il quale ci si sente liberi di amare morbosamente oppure odiare fino ad augurare la morte a qualcuno. Seppur nati con il nobile intento di favorire la socialità, i social network hanno in realtà contribuito a creare una dimensione parallela nella quale le persone smettono di avere un’identità e diventano semplicemente profili, mentre le emozioni sono definite da cuoricini, faccine tristi o arrabbiate. La socialità nei social è paradossalmente assente. Si parla addirittura di solitudine di massa, un fenomeno a dir poco inquietante che si sta diffondendo un po’ in tutto il mondo e che trova la sua origine proprio nella digitalizzazione. In Italia, nell’ultimo anno, su 50 milioni di persone on line, 35 milioni sono attive sui social. C’è un’applicazione per ogni cosa: fare acquisti on line, cibo a domicilio, fare la spesa, rimorchiare. Il risultato è che, complice anche la pandemia e l’ormai famigerato distanziamento sociale, i rapporti umani stanno attraversando una fase di crisi davvero preoccupante. Iper connessi col mondo intero, ma completamente disconnessi dalla propria realtà. La nuova identità è basata esclusivamente sui like e sui follower, cartine tornasole del proprio successo o del proprio fallimento, che naturalmente si ripercuote sulla vita di tutti i giorni. Perciò si arriva a pianificare tutta una serie di azioni quotidiane in base a un potenziale riscontro sui social. Ci si veste, si va in vacanza, si mangia in determinati ristoranti, si sceglie di guardare determinati film e serie tv, nei casi più estremi si fanno figli con l’unico scopo di poter postare sui social la foto del secolo, quella che avrà più like e più interazioni in assoluto. Tra le priorità non c’è più quella di essere felici, ma di sembrare felici, specialmente quando non lo si è affatto. Perciò, la frustrazione covata quotidianamente viene riversata sui social attraverso la propria bacheca o peggio, commentando su quelle altrui. Non esiste la critica costruttiva, ma solo bieca smania di insultare e denigrare chi viene percepito come una minaccia per quella finta felicità instagrammabile così faticosamente costruita. I social network sono la nuova finestra sul mondo e tutto ciò che passa attraverso le bacheche più popolari diventa verità assoluta. Non c’è ricerca, approfondimento, non c’è tempo che meriti di essere speso per leggere l’intero l’articolo di un quotidiano on line, è più che sufficiente fermarsi al titolo: ciò che conta è trovare conferma delle proprie convinzioni e dei propri pregiudizi. In questa nuova percezione distorta della realtà, essere social equivale a essere fighi, a “stare sul pezzo”, perciò è importante seguire i trending topic del momento, non dimenticando mai di postare accorati Rip commemorativi per le morti celebri, anche se non si sa assolutamente nulla del defunto in questione. Nella beata illusione di essere unici e diversi da tutti, si nasconde in realtà un disperato bisogno di essere come gli altri, perché nell’omologazione ci si sente più sicuri e soprattutto meno soli. In questa preoccupante tendenza al conformismo, chi funge da traino ed è in grado di condizionare le scelte della massa, ha un posto in paradiso. La figura dell’influencer rappresenta al giorno d’oggi la nuova frontiera occupazionale per giovani e non, la massima aspirazione di realizzazione personale, ma soprattutto è diventata il cavallo vincente sul quale i più grossi brand del mondo decidono di puntare tutto. Data la portata immane di traffico sui social, per la pubblicità diventa essenziale appoggiarsi a chi riesce a catalizzare su di sé l’attenzione di milioni di persone, influenzandone le preferenze. Ecco che sui red carpet di tutti gli eventi più importanti del mondo, gli influencer sfilano accanto a nomi del calibro di Brad Pitt o Penelope Cruz, confermandosi così come le nuove star del millennio. Ma anche nel mondo degli influencer vale il principio per cui uno su mille ce la fa, il resto viene inghiottito dal gorgo profondo dei social network, nel quale un profilo vale l’altro e nessuno vale davvero. Così, in questa spasmodica ricerca di approvazione social, si crea quasi una sorta di dipendenza da like, che in molti casi genera solo ulteriore frustrazione e depressione. Lo scenario è sconfortante e, a voler scomodare le teorie dei sopracitati complottisti, si ha quasi l’impressione di vivere davvero in una dittatura: la dittatura dei social network. *Attrice Libia. Riflettori spenti su una catastrofe “silenziata” di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 19 settembre 2021 La catastrofe afghana ha spento i riflettori mediatici sulla tragedia libica. Una tragedia umanitaria che continua. A darne conto su Avvenire è Nello Scavo, uno dei pochi che la realtà libica conosce nel profondo. “Il nuovo rapporto Onu sulla Libia - annota Scavo - è un continuo atto d’accusa. Con il segretario generale Antonio Guterres che denuncia “le continue restrizioni all’accesso umanitario e al monitoraggio da parte delle agenzie umanitarie nella Libia occidentale”. Nessuna pietà neanche per i bambini. “Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia ha riferito che i bambini - scrive Guterres nel suo ultimo dossier (Unsmil) - hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione a Tripoli e dintorni, senza accesso alla protezione di base e ai servizi sanitari e senza ricorso all’assistenza legale o al giusto processo, e spesso sono stati detenuti con gli adulti”. Quasi non c’è più alcuna distinzione tra uomini in uniforme e trafficanti. “Le donne migranti e rifugiate hanno continuato ad affrontare un rischio elevato di stupro, molestie sessuali e traffico da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti transnazionali, nonché funzionari della Direzione per la lotta all’immigrazione illegale sotto il ministero dell’Interno”. I continui divieti alle agenzie Onu, a cui è impedito di ispezionare i campi di prigionia, sono motivati dalla volontà di nascondere i fatti. “A giugno, l’Unsmil ha documentato ripetuti episodi di violenza sessuale perpetrati - si legge ancora - contro cinque ragazze somale di età compresa tra i 16 e i 18 anni”. Abusi avvenuti in strutture ufficiali da parte di agenti e militari libici. Alla data del 14 agosto, la guardia costiera libica aveva intercettato e riportato nel Paese 22.045 migranti e rifugiati, con 380 morti confermati e 629 persone considerate disperse. “Ma l’aumento del numero di migranti e rifugiati rimpatriati ha portato a un maggior numero di persone detenute arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali della Direzione per la lotta all’immigrazione clandestina, senza un controllo giudiziario e sottoposte a trattamenti e condizioni disumane”, insiste Guterres. Ad attenderli non c’è alcun tentativo di impedire i crimini, ma “tortura, violenza estrema, abusi sessuali e accesso limitato a cibo, acqua, servizi igienici e cure mediche, in alcuni casi con conseguente morte o lesioni”. All’inizio di agosto i prigionieri erano 5.826 migranti, contro i 1.076 dichiarati a gennaio. Per le milizie l’approvvigionamento di esseri umani è essenziale per far pesare la propria presenza sia ai tavoli interni che nei negoziati con l’Ue a colpi di barconi. Ancora una volta è il clan di Zawyah a fare scuola, dove gli uomini del comandante Bija e dei fratelli Kachlav non perdono occasione per rilanciare la sfida. E mentre per le strade si torna a combattere, tra faide e regolamenti di conti come quelli avvenuti ancora una volta ieri proprio a Zawyah, viene fomentato l’odio. ‘Durante il periodo di riferimento, Unsmil ha documentato - riferisce ancora Guterres nel dossier inviato al Consiglio di sicurezza - un aumento delle dichiarazioni pubbliche contro i migranti e contro i rifugiati oltre a incidenti xenofobi contro gli stranieri’. È bastato che un certo numeri di lavoratori subasahariani protestasse contro l’impunità garantita agli xenofobi, perché scoppiassero dei disordini. Centinaia di uomini, donne e bambini sono stati arrestati e portati in una struttura di detenzione a Zawiyah gestita dalla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale. Si tratta proprio del campo di prigionia statale gestito dal clan di Bija. Notizie compatibili con l’aumento delle partenze da quelle coste”. Così Scavo. La denuncia di Amnesty - Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, descrive con dovizia di dettagli le orribili condizioni nei centri di detenzione in Libia: “Nell’ultimo periodo abbiamo parlato con oltre 50 migranti, alcuni dei quali anche 14enni, che sono stati riportati in Libia dalla guardia costiera libica e sono stati sottoposti a detenzione arbitraria in condizioni orribili. Migranti e rifugiati ci hanno raccontato di essere regolarmente picchiati, privati del cibo, sottoposti ai lavori forzati e ci hanno spiegato che a loro viene richiesto un riscatto in cambio della libertà. Le donne vengono stuprate dalle guardie oppure costrette ad atti sessuali in cambio di cibo e acqua. Le guardie impediscono loro di usare i bagni per diverse ore e questo succede anche alle donne incinte. Quelle che provano a resistere vengono picchiate”. E poi il possente j’accuse rivolto all’Europa e in essa all’Italia. “Queste situazioni si verificano in centri di detenzione che lo Stato ha riservato a soggetti vulnerabili e questa condotta ha, di fatto, legittimato quelli che prima erano casi di sparizione forzate, sostenuti dal governo libico. Tutto questo - rimarca Eltahawy - sta avvenendo col sostegno degli Stati membri della Ue e in particolare dell’Italia, che continua vergognosamente ad aiutare la guardia costiera libica a riportare la gente sulle sue coste. Amnesty International ha raccolto tantissime testimonianze di migranti e di rifugiati che sono stati intercettati dalla guardia costiera libica e costretti a tornare in Libia. Molti ci hanno raccontato il comportamento violento, pericoloso e incauto della Guardia costiera libica che spesso in alto mare ha messo in pericolo la vita dei migranti invece che fornirgli assistenza e salvarli”. E ancora: “Questo comportamento ha causato l’annegamento di diverse persone, nonostante i migranti avessero già avvistato gli aerei della Ue o altre navi che sono venuti meno all’obbligo di assistenza. Come risultato di questa mancanza di soccorso, i migranti sono stati riportati in Libia dove sono stati incarcerati in condizioni orribili, vedendosi negati tanti altri diritti umani e subendo torture, lavori forzati, stupri e altre violenze. Tutto questo - ribadisce la responsabile di AI - accade ormai da oltre 10 anni, grazie anche al supporto della Ue e dei suoi Stati membri. Amnesty International chiede con forza alla Ue di sospendere immediatamente la cooperazione col governo libico per quanto riguarda l’immigrazione e il controllo delle frontiere. Solo in questo modo la vita umana avrà più valore rispetto alla politica”. Dieci anni dopo - Di grande interesse è il bilancio tracciato da Neil Munshi, in un documentato report sul Financial Times, tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale. “A dieci anni di distanza, gli effetti collaterali della caduta di Gheddafi - un dittatore che per 42 anni guidò un regime corrotto, che violava sistematicamente i diritti umani - si fanno ancora sentire ben oltre i confini della Libia: nelle morti dei migranti a bordo di piccole imbarcazioni nel Mediterraneo; nei campi di schiavitù e nei centri di prostituzione sulla terraferma; nell’instabilità diffusa nel Sahel dove sono morte migliaia di persone e altre milioni sono state costrette ad abbandonare le proprie case, e dove la Francia è rimasta impantanata in quella che alcuni considerano la sua guerra permanente - scrive Munshi - “La Libia è diventata un ventre molle, un punto vulnerabile per tutti i paesi confinanti”, afferma Mathias Hounkpe, capo dell’ufficio Mali della Open society initiative for West Africa. “Mali, Niger, Ciad: tutti questi paesi stanno avendo problemi perché la Libia non è stabile... La scomparsa di Gheddafi ha avuto conseguenze devastanti in Libia. Il paese è stato travolto da violenze e caos fin dalle elezioni contestate del 2014, dopo le quali fazioni rivali hanno diviso il paese in feudi, mentre gruppi armati, bande criminali e trafficanti di esseri umani hanno approfittato in tutti i modi della debolezza dello stato. Nel marzo di quest’anno ha prestato giuramento un governo unitario, il frutto di un processo sostenuto dalle Nazioni Unite per porre fine a una guerra civile che aveva attirato sulla Libia militari delle potenze regionali e provenienti da paesi come Ciad, Russia, Siria e Sudan. La nuova amministrazione dovrebbe guidare il paese fino a dicembre, quando sono previste le elezioni”. Elezioni tutt’altro che in discesa - A darne conto su Inside Over è Alessandro Scipioni. A poco più di tre mesi dalle elezioni parlamentari e presidenziali in Libia del 24 dicembre 2021, “la situazione nel Paese nordafricano sta assistendo a dei nuovi e rapidi sviluppi dagli esiti ancora imprevedibili. A Tripoli sono ripresi gli scontri armati tra milizie rivali, finora senza vittime, mentre il rilascio di ex esponenti del passato regime, tra cui spicca il nome di Saadi Gheddafi. terzogenito del defunto rais ucciso quasi 10 anni fa, potrebbe aprire la strada alla discesa in campo di Saif al Islam Gheddafi alle presidenziali. La guerra interna tra il ministro del Petrolio, Mohamed Aoun, e il presidente della National Oil Corporation, Mustafa Sanallah, ha visto il secondo uscire vincitore, ma i blocchi dei terminal petroliferi dell’est rischiano di prosciugare l’unica fonte di reddito di un Paese che vanta le maggiori riserve di petrolio dell’Africa e che fino a dieci anni fa era primo alleato dell’Italia nel Mediterraneo. Intanto, il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ha consegnato all’Onu una legge elettorale presidenziale sostanzialmente inaccettabile a Tripoli, firmata solo da lui stesso, con il risultato di aver alimentato le tensioni tra est e ovest. Il tutto sotto al naso dell’impotente inviato Onu, Jan Kubis, ormai in balia delle machiavelliche macchinazioni dei politici libici”. E in questo scenario tutt’altro che pacificato, a dettar legge è la “diplomazia delle armi”. Il Fronte per l’alternanza e la concordia del Ciad (Fact), il gruppo ribelle che nell’aprile scorso ha rivendicato l’uccisione del presidente ciadiano Idriss Deby Itno, ha accusato la brigata Tariq Bin Ziyad (legata al generale Khalifa Haftar) di aver attaccato una delle sue postazioni al confine libico con il sostegno delle milizie mercenarie sudanesi e con la supervisione delle forze speciali dell’esercito francese basate in Libia. Secondo fonti di Agenzia Nova, Haftar e i francesi con l’ausilio di mercenari sudanesi hanno inoltre cercato di catturare - senza riuscirvi - il leader del Fact, Mahamat Mahdi Ali, uccidendo con un drone francese diversi ufficiali e comandanti dei ribelli ciadiani. Ali sarebbe invece rimasto illeso. “Informiamo la comunità internazionale, l’Unione europea, l’Unione africana, il Comunità degli Stati dell’Africa centrale (Ceeac), l’opinione nazionale francese e ciadiana nonché i media francesi che tra le file degli aggressori ci sono cinque ufficiali francesi addetti al lancio di mortai. L’obiettivo di questo attacco affidato alle forze speciali francesi era catturare e/o uccidere il presidente del comitato esecutivo Fact (Mahamat Mahdi Ali)”, afferma il Fact in un comunicato. Israele. Catturati gli ultimi due detenuti palestinesi evasi, erano in fuga dal 6 settembre ansa.it, 19 settembre 2021 L’esercito israeliano (Idf) ha annunciato stamattina l’arresto degli ultimi due dei sei palestinesi evasi quasi due settimane da una prigione nel nord di Israele. L’operazione è avvenuta a Jenin, il settore settentrionale della Cisgiordania occupata da cui provenivano i sei prigionieri. Il 6 settembre sei prigionieri palestinesi imprigionati per violenze anti-israeliane sono fuggiti dal carcere di massima sicurezza di Gilboa, attraverso un tunnel scavato sotto un lavandino e che conduceva a un buco nel terreno fuori dal penitenziario. I sei fuggitivi, subito qualificati come “eroi” dalla parte palestinese, erano diventati gli uomini più ricercati in Israele, che aveva schierato rinforzi militari e droni per cercare di trovarli. Il fine settimana successivo a questa fuga le forze israeliane hanno arrestato quattro dei latitanti nella zona di Nazareth, città araba nel nord di Israele. Le autorità avevano in particolare arrestato e poi iniziato a interrogare Mahmoud Ardah, membro della Jihad islamica incarcerato dal 1996 e considerato la mente dell’operazione, e Zakaria al-Zoubeidi, ex capo del braccio armato del partito Fatah per il campo palestinese di Jenin, baluardo della ribellione armata. Oggi i militari hanno annunciato l’arresto a Jenin degli ultimi due latitanti, Ayham Kamamji, 35 anni, e Munadel Infeiat, 26, entrambi membri della Jihad islamica, un movimento armato islamista palestinese, durante un’operazione congiunta con speciali unità antiterrorismo. I due uomini “sono attualmente interrogati”, hanno sottolineato in un breve messaggio alla stampa, senza fornire per il momento maggiori dettagli su questa operazione speciale nella roccaforte dei sei ormai ex fuggitivi. Originario di Kafr Dan, vicino a Jenin, Kamamji è stato arrestato nel 2006 e condannato all’ergastolo per il rapimento e l’omicidio di Eliahou Asheri, un giovane colono israeliano. Infeiat era stato arrestato nel 2020 ed era in attesa di condanna dopo essere stato incarcerato in diverse occasioni in passato per le sue attività all’interno della Jihad islamica. Israele. Il caso al Zubaida riaccende i riflettori sulle carceri di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2021 Il fratello e del detenuto palestinese Zakaria al Zubaida, che era evaso con altri cinque compagni dalle carceri israeliane, ha rivelato che al Zubaida è stato assoggettato, dopo essere stato catturato, a torture, in particolare l’applicazione di corrente elettrica. L’avvocato israeliano Avigdor Feldman, che difende al Zubaida, ha denunciato l’effettuazione di umiliazioni e pestaggi nei suoi confronti. La drammatica situazione di al-Zubaida ha suscitato un’ampia e intensa campagna di mobilitazione sui social media, che è tuttora in corso. Maltrattamenti e vere e proprie torture nei confronti dei detenuti palestinesi costituiscono del resto la regola e la detenzione dei Palestinesi risulta quasi sempre illegittima e rappresenta di per sé una grave violazione del diritto internazionale umanitario. Il trattamento riservato a al-Zubaida è quindi per un verso espressione di una prassi seguita dalle autorità israeliane, mentre per un altro costituisce il risultato di una volontà di rivalsa da parte di chi si era sentito beffato dall’evasione e ha inteso infliggere ai suoi protagonisti una punizione esemplare. In ogni caso esso costituisce una condotta vietata dall’art. 1 della Convenzione in materia, secondo il quale “il termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”. Negli ultimi vent’anni il blocco occidentale capeggiato dagli Stati Uniti ha distrutto almeno quattro Stati (Iraq, Siria, Afghanistan, Libia), provocando danni enormi all’intera comunità internazionale e la morte di milioni di persone, civili e militari, compresi i propri soldati. Anche le violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani dei Palestinesi compiute dallo Stato di Israele costituiscono una tragica e vergognosa pagina dell’Occidente, che ha sempre protetto il governo di Tel Aviv qualunque cosa esso facesse. Tale atteggiamento di complicità a mio avviso omertosa è il risultato di molteplici fattori. Esiste a mio avviso un profondo, e in buona parte giustificato senso di colpa dei governi europei, protagonisti o comunque corresponsabili dello sterminio di milioni di ebrei da parte del nazismo hitleriano e dei regimi ad esso collegati, compreso il fascismo italiano, senso di colpa che rivive di fronte a uno Stato che accoglie oggi molti degli eredi dei superstiti di tale sterminio. Esiste l’abituale inettitudine della politica estera europea, ammesso e non concesso che di una politica estera europea si possa parlare, dato che siamo in realtà da sempre di fronte a varie politiche estere nazionali che solo superficialmente ed occasionalmente convergono. Ed esiste, soprattutto, l’interesse strategico dell’Occidente, così come incarnato e interpretato dai vari presidenti statunitensi che si sono succeduti, a garantire sempre e comunque quella che io considero un’impunità di Israele da essi intesa, sicuramente a torto, come unica garanzia di sopravvivenza dello stesso. Questa impunità, che viene fornita mediante l’esercizio del diritto di veto in Consiglio di sicurezza, non viene meno quale che sia la gravità dei crimini commessi. La relativa pervicace volontà è emersa nettamente nella volontà statunitense, espressa colla massima violenza e determinazione da Trump, di impedire il giudizio della Corte penale internazionale in merito. Lunga e la lista di situazioni criminose sulla quale si viene ora svolgendo, sia pure in sordina, l’istruttoria della Corte penale internazionale. Quest’ultima, in conformità al suo Statuto, è chiamata a giudicare sui crimini di guerra, sui crimini contro l’umanità e sul crimine di genocidio. Tra i crimini contro l’umanità quello di tortura, richiamato espressamente alla lettera f dell’art. 7 dello Statuto. Sarebbe ora che la comunità internazionale riuscisse a por fine a questo scempio, ennesimo grave motivo di discredito e di vergogna per tutti e soprattutto per l’Occidente e in particolare per l’Europa, oggi imbelle o addirittura complice di fronte alle gravi violazioni dei diritti dei Palestinesi come lo fu a suo tempo di fronte alla Shoah. *Giurista internazionale Afghanistan. Strage di civili a Kabul, l’esercito statunitense ammette l’”orribile errore” di Marina Catucci Il Manifesto, 19 settembre 2021 Un missile americano il 29 agosto ha ucciso 10 persone. Zamarai Ahmadi, obiettivo del drone, lavorava per una organizzazione umanitaria Usa. L’esercito americano ha ammesso che l’attacco dei droni del 29 agosto a Kabul, in cui sono morti 10 civili afgani, tra cui 7 bambini, è stato un “orribile errore” e che era stato condotto, a seguito di numerosi calcoli errati, da comandanti certi che un operatore umanitario stesse trasportando esplosivi nella sua auto. Questa ammissione segna una brusca inversione di narrativa rispetto a quella sostenuta fino ad ora, e annulla la precedente dichiarazione del Pentagono in cui si insisteva sul fatto che l’operazione avesse impedito un imminente attacco suicida contro le forze statunitensi. In realtà, il conducente dell’auto, Zamarai Ahmadi, non trasportava esplosivo, ma “taniche d’acqua per la sua famiglia”, riporta il Washington Post. Dopo essersi fermato vicino a un edificio sospettato di essere un rifugio dell’Isis-k, e aver fatto delle commissioni, l’uomo alla guida mentre tornava a casa è stato seguito da un drone armato. “Era padre di quattro figli - ha raccontato al WaPo il fratello della vittima - e aveva una tradizione con loro: usciva dall’auto e lasciava che i figli finissero di parcheggiare”. Pochi minuti dopo l’arrivo di Ahmadi, il comandante ha sparato un singolo missile Hellfire contro il veicolo, distruggendolo. “L’operatore del drone non ha visto i bambini quando il missile è stato lanciato, ma mentre era già in volo si potevano vedere 3 bambini, proprio mentre il missile colpiva” ha detto il generale Frank McKenzie, capo del comando centrale degli Stati Uniti, La notizia arriva mentre l’amministrazione Biden è sempre in mezzo alle critiche per come ha gestito il ritiro Usa dall’Afghanistan, e una settimana dopo la pubblicazione di un’indagine del New York Times in cui si rivelava che l’obiettivo colpito dal drone lavorava per un’organizzazione umanitaria americana. Il generale Mark Milley, presidente del Joint Chiefs of Staff, all’inizio di settembre aveva definito l’attacco “giusto”. Venerdì ha riconosciuto l’errore, definendo il raid americano “straziante” e “un’orribile tragedia di guerra”, ma che deve essere valutata “nel contesto della situazione sul campo”. Milley ha ricordato che pochi giorni prima un attentato suicida dell’Isis-k aveva ucciso 13 militari statunitensi e più di 100 civili. Nelle 48 ore precedenti al raid, i militari Usa avevano “un corposo report dell’intelligence” dove si parlava di un altro attacco programmato dall’Isis-k servendosi di una Toyota Corolla bianca: la stessa macchina di Ahmadi. Su questa base i militari Usa avevano iniziato a sorvegliare la sua auto, e ad osservarne i movimenti per 8 ore. L’attacco con il drone è stato eseguito alle 16,53, orario in cui i militari avevano stabilito che ci sarebbe stato poco potenziale di vittime civili, ha detto McKenzie. Quella valutazione si è rivelata sbagliata, ha riconosciuto il generale, che si è rifiutato di dire se ci saranno conseguenze disciplinari per qualcuno, sottolineando che l’indagine è ancora in corso. Addio a Bouteflika, concordia e corruzione in Algeria di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 19 settembre 2021 La morte dell’ex presidente. Venti anni al potere, poi nel 2019 il movimento dell’hirak lo costringe a dimettersi in condizioni umilianti, su ordine dei militari. Una storia che inizia con la guerra d’indipendenza e ha il suo momento di svolta con la fine del terrorismo islamista. Ha governato sorretto dalla manna del petrolio e da un sistema che prende il nome di Bouteflikismo. Aveva 84 anni. L’ex presidente algerino Abdelaziz Bouteflika è morto venerdì sera, all’età di 84 anni, nella sua residenza di Zeralda trasformata in infermeria per assicurargli le cure necessarie. Il presidente che più a lungo ha governato l’Algeria, vent’anni, da quando era stato colpito da ictus nel 2013 non era stato più in grado di assolvere ai suoi compiti. Tuttavia è rimasto al potere fino al 2019 quando, di fronte alla pretesa di candidarsi per la quinta volta, l’Algeria è insorta dando vita al movimento dell’hirak che lo ha costretto a dimettersi in condizioni umilianti, su ordine dei militari, il 2 aprile. Si tratta della vittoria più importante del movimento che vuole estromettere dal potere tutta la nomenklatura corrotta che l’ha paralizzata per anni, senza riuscirci per ora. Sotto accusa è finito il bouteflikismo, che ha portato alla sbarra e in carcere molti collaboratori del presidente, anche il fratello, ma non ha mai toccato lui e molti si sono chiesti perché. La carriera di Bouteflika, nato in Marocco, a Oujda, da una famiglia di Tlemcen, comincia all’età di 19 anni, con la partecipazione alla guerra di liberazione dalla colonizzazione francese, dove entrerà nelle grazie di Houari Boumediene, di cui sarà segretario particolare. Nel 1962, a soli 25 anni, diventa Ministro della gioventù, degli sport e del turismo dell’Algeria indipendente con il governo di Ben Bella, oltre a far parte della costituente. In seguito da Ministro degli Esteri gioca un ruolo importante nel colpo di stato del 1965 contro Ben Bella - che voleva le sue dimissioni - che porta al potere Houari Boumediene. Seguono gli anni più brillanti della diplomazia algerina: l’Algeria diventa portavoce del terzo mondo, ospita gli incontri dei movimenti di liberazione, sostiene la lotta contro l’apartheid in Sudafrica e Bouteflika accresce la propria reputazione di abile interlocutore. Si riteneva “il degno” successore di Boumediene e non ha mai accettato la designazione di Chadli Bendjedid. Il suo allontanamento dal potere coincide con l’accusa da parte della Corte dei conti di aver dirottato fondi verso cancellerie algerine all’estero. Per Bouteflika inizia l’esilio di sei anni, trascorsi nei paesi del Golfo. Rientrato in Algeria nel 1980 rifiuta proposte di incarichi ministeriali e perfino di capo dello stato, quando sarà nominato Liamine Zeroual. Nel 1998 ritiene sia giunta la sua ora e si candida come salvatore della patria, sfruttando anche l’accordo raggiunto durante la presidenza Zeroual (nel 1997) tra esercito e islamisti per lanciare il progetto di “concordia civile” che si trasformerà poi in “riconciliazione nazionale”. Bouteflika, abile comunicatore, deve la sua popolarità all’immagine dell’uomo che ha portato la pace dopo un decennio di terrorismo, poco importa se la concordia non ha fatto chiarezza sui responsabili dei massacri e ha garantito l’impunità sia agli islamisti che ai militari, l’importante era porre fine al decennio nero. Bouteflika ha saputo convincere anche esponenti dell’opposizione - di allora - che sono entrati a far parte del suo governo. Altre coincidenze hanno favorito la sua presidenza, come l’aumento del prezzo del petrolio che gli ha permesso di eliminare un pesante debito estero. Sono stati anni in cui la manna del petrolio ha permesso la costruzione di grandi infrastrutture, di sostenere progetti per i giovani penalizzati dalla disoccupazione e che per questo l’hanno sostenuto. Ma le vacche grasse non durano in eterno e i progetti faraonici - come la costruzione della grande moschea con il minareto più alto d’Africa - potranno soddisfare l’ego di un capo di stato narcisista ma erodono la popolarità e la credibilità di un presidente che non ha mantenuto le promesse, innanzitutto quella di non far più dipendere l’Algeria solo dagli introiti degli idrocarburi. L’entourage di Bouteflika si è mostrato corrotto e ha premiato i personaggi che hanno costruito le proprie ricchezze sfruttando le coperture garantite dal potere. È morto Abdelaziz Bouteflika, il bouteflikismo sopravvivrà?