È tempo di dare ai carcerati gli affetti che gli spettano di Simone Di Meo Panorama, 18 settembre 2021 In Italia non c’è una norma unica per gestire i permessi ai detenuti in modo da assicurare a loro il diritto agli affetti ed all’intimità previsti dalla Costituzione. Un diritto inviolabile, ma di fatto compresso e umiliato. In Italia sono migliaia i detenuti che, estromessi dalla possibilità di accedere ai permessi premio, si ritrovano a dover fare i conti con il muro di gomma che gli impedisce di mantenere un legame stabile e soddisfacente con il proprio nucleo familiare e, inutile negarlo, anche col proprio partner. Al netto di un’unica eccezione, quella di Opera, la totalità delle carceri del Belpaese non è ad oggi attrezzata per concedere momenti di intimità a quelli che, nel gergo penitenziario, vengono definiti “ristretti”. “La privazione di momenti e spazi di affettività con la moglie o con il marito, imposta dall’ordinamento italiano ai reclusi delle sue carceri, deve ritenersi una violazione ingiustificata del diritto alla sessualità. Arrestare, annientare per un periodo prolungato la fisicità dei rapporti di un detenuto significa concretamente menomarlo, amputarlo della sua identità”, è il monito lanciato da Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale. Quello che ne viene fuori è un quadro a tinte più fosche che mai: “Poiché non vi è dubbio - ragiona l’avvocato Tirelli - che l’attività sessuale faccia parte del ciclo vitale dell’uomo, inibirla e interromperla può evidentemente ledere l’integrità e la salute, tutelate dall’articolo 32 della Costituzione, di chi ne sia privato, potendo in questi generare una serie di traumi psicofisici”. Il rischio, ancora una volta, è che la pena da scontare finisca per essere tutt’altro che rieducativa, spingendo anzi il detenuto verso facili recidive e stati di alienazione sociale. Sul punto, la denuncia del presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale è durissima: “L’annichilimento di sessualità e affettività in carcere contribuisce, oltre alla manifestazione di episodi di omosessualità eteroimposta, anche al registrarsi di fenomeni di autoerotismo compulsivo e patologico, di stupri, nonché di atti di autolesionismo e suicidio fra i carcerati. Questo avviene più sovente fra i soggetti condannati a pene detentive lunghe o molto lunghe, così che la privazione di una sessualità condivisa con un partner possa altresì ritenersi, in taluni casi, vera e propria lesione dello scopo rieducativo e risocializzante che, ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione, la pena deve avere”. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, istituiti nel 2015, a seguito dell’ennesima condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia, hanno proposto l’introduzione dell’istituto della visita, diverso dal colloquio, da svolgersi in forma riservata, senza cioè alcun controllo audiovisivo, nelle cosiddette stanze dell’affettività, comode e strumentali unità abitative, edificate o ricavate in ogni istituto penitenziario, le cui manutenzione e pulizia siano affidate direttamente ai detenuti: “Il progetto - commenta amaro l’avvocato Tirelli - è stato però incomprensibilmente accantonato nel 2018, con una riforma dell’ordinamento che si è limitata a dire, sull’argomento, che i luoghi adibiti ai colloqui dovrebbero garantire “ove possibile, una dimensione riservata”. Da qui l’urgenza di un appello che lo Stato non può più permettersi di far cadere nel vuoto: “Ci rivolgiamo al Parlamento - conclude il presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale - affinché si faccia carico di intervenire con una proposta di legge che, approfittando della riforma dell’ordinamento giudiziario attivata dal ministro Cartabia, integri finalmente la possibilità per i detenuti di beneficiare di concreti e periodici momenti di affettività e sessualità”. Vaccini, 13mila agenti penitenziari ancora senza la prima dose ansa.it, 18 settembre 2021 Il caso sollevato dal segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria Gennarino De Fazio. “La decisione del Governo d’imporre l’obbligo del possesso del green pass nei luoghi di lavoro introduce una serie di problemi aggiuntivi nelle carceri. Dai dati forniti dal Dap aggiornati al 13 settembre scorso si evince infatti che sono ben 13mila, più di un terzo, gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che non si sono ancora sottoposti neppure alla prima dose della vaccinazione anti-covid. Cosa succederebbe, allora, in caso di sospensioni dal servizio che si andrebbero a sommare alla gravissima deficienza degli organici già esistente e quantificata, dallo stesso Dap, in 17mila unità mancanti?”. Lo afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria, dopo l’approvazione da parte del Governo del decreto-legge che prevede l’obbligo della certificazione verde in tutti i luoghi di lavoro. “Da considerare, per di più - prosegue De Fazio - che dai report forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è deducibile il numero dei detenuti non ancora vaccinati, essendo indicato solo il totale delle somministrazioni dall’inizio della campagna vaccinale e comprendente, pertanto, anche coloro che sono successivamente stati scarcerati. Ma ogni ambiente del carcere in cui sono presenti detenuti costituisce per la Polizia penitenziaria luogo di lavoro. Come si supera allora la contraddizione?”. Il tema, aggiunge, “pone una serie di problematiche ulteriori, anche di tenuta della sicurezza, in un sistema penitenziario già in gravissima emergenza e su cui lo stesso Governo sinora non ha fatto altro che prendere tempo con annunci seguiti, nella migliore delle ipotesi, dalla costituzione di gruppi di lavoro, ma mai da provvedimenti pragmatici e tangibili”. Carcere, il lusso del No Vax di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 settembre 2021 Reportage dal carcere di Rieti, un anno e mezzo dopo le rivolte. E dopo i lockdown. Tutti i detenuti sono vaccinati, almeno con la prima dose. Come da media nazionale, al contrario di quanto accade nel Corpo di polizia penitenziaria. L’allarme lanciato ieri dai sindacati di polizia penitenziaria è un colpo allo stomaco di chi ha ancora stampata negli occhi l’immagine dei detenuti sul tetto di alcune carceri italiane, emblema dell’inizio del lockdown. “Dai dati forniti dal Dap aggiornati al 13 settembre scorso si evince che ben 13 mila agenti, più di un terzo degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, non si sono ancora sottoposti neppure alla prima dose della vaccinazione anti-Covid”. A sottolinearlo è il segretario nazionale Uilpa Gennarino De Fazio, schierato contro l’obbligo di Green pass per i sui colleghi. Il sindacalista avverte che in caso di sospensioni dal servizio, essendo l’organico del Corpo già in “gravissima deficienza”, arriveranno a “17 mila” le unità mancanti. Un numero che non permetterebbe di garantire la sicurezza delle carceri, è l’avvertimento. Ma dagli stessi dati citati da De Fazio scopriamo che, al contrario, su un totale di 52.593 detenuti presenti al 6 settembre negli istituti italiani, le dosi di vaccino fino a quel momento somministrate ai reclusi sono state 73.155. Ossia la stragrande maggioranza ha ricevuto almeno la prima dose, considerando pure i nuovi giunti e i detenuti delle case circondariali, dove il fenomeno delle porte girevoli è molto elevato. E allora vengono in mente quei primi giorni di marzo 2020, quando la paura del Covid-19 e delle nuove regole che avrebbero limitato ancora di più la vita interna entrava nei penitenziari di tutto il mondo; nei nostri divenne in alcuni casi “rivolta”. La paura di fare “la fine del topo”, “di rimanere ancora più isolato”, di “essere dimenticato del tutto”, “di non avere più i permessi”. Fu l’inizio della protesta, che durò poche ore ma che - in alcuni, sporadici casi, per fortuna - diede inizio ad una terribile scia di violenze e torture inflitte dagli agenti sui detenuti, come vendetta. Da allora, tutto è cambiato dentro le carceri, sia in quelle della “rivolta” - 21 tra cui Rieti, Bologna, Modena, Melfi, Santa Maria Capua Vetere, Foggia, ecc -, sia negli istituti dove i detenuti hanno accettato senza grandi clamori ma altrettanto dolorosamente le misure anti Covid. La vita dei reclusi è sicuramente peggiorata, tanto che ora, a distanza di un anno e mezzo, pur di tornare ai colloqui in presenza, alle attività trattamentali di gruppo, di avere accesso ai permessi vari, e pur di non avere problemi di esclusione dentro le celle e nei reparti (le regole di convivenza che vigono tra i detenuti, da sempre, sono molto rigide e molto rispettate, qualunque sia la provenienza del recluso), la stragrande maggioranza della popolazione carceraria ha accettato - volente o nolente - di vaccinarsi. Loro non possono ribellarsi. Il Manifesto è andato in uno delle carceri della rivolta, a Rieti, dove numerosi detenuti il 9 marzo 2020, poco dopo ora di pranzo, salirono sui tetti e distrussero tutto ciò che potevano distruggere. Qualcuno riuscì a forzare l’infermeria del Sert e a fare incetta di metadone e altri farmaci. Tre detenuti furono ritrovati morti il mattino seguente: Marco Boattini di 40 anni, Ante Culic di 41 anni e Carlo Perez Alvarez di 28 anni. A differenza di altri carceri, come Modena, per esempio, sono tutti morti sul posto. Un istituto nuovo, aperto nell’ottobre 2009, maschile e di media sicurezza, con 9 sezioni penali, due protette per i sex offender, con “sorveglianza dinamica”; un reparto degenza con cinque stanze, un’area sanitaria con studi di radiologia, odontoiatria, oculistica e il Sert. E, prima della rivolta, anche una cucina e una grande sala comune. “Architettonicamente - ci aveva spiegato il garante del Lazio, Stefano Anastasia - uno dei pochissimi carceri che vagamente rispondeva alla previsione del regolamento del 2000, mai attuato, secondo il quale in ogni istituto avrebbe dovuto esserci un refettorio”. Il giorno della nostra visita - il 15 settembre 2021 - vi erano recluse 351 persone di cui poco meno della metà straniere, su 295 posti regolamentari. Nell’istituto, dove ci sono pochi detenuti in custodia cautelare (circa 50), 78 persone sono in carico al Sert (di cui 19 stranieri), ma i consumatori di sostanze e gli alcolisti sono molti di più. Il reato più diffuso è la violazione dell’articolo 73 della legge sulle droghe: è il 36% dei carcerati, “diviso equamente tra italiani e stranieri”, riferisce il responsabile dell’Area educativa, Luca Agabiti. Diffusi i problemi di salute mentale, anche se solo un paio di persone sono in attesa di un posto nelle Rems. “Ma la gestione di queste persone malate ricade non solo sul personale ma anche sulla stessa popolazione carceraria”, fa notare la direttrice Vera Poggetti, un caso più unico che raro di direttore a tempo pieno, dal gennaio 2012. Ha lavorato a lungo con Carmelo Cantone quando era direttore a Rebibbia, uno dei migliori. E si vede. Il carcere di Rieti, attorniato dalle belle montagne, è uno dei pochi che può sfoggiare una dirigenza quasi tutta al femminile, anche se le poche agenti donne non operano nei reparti. Noemi Gennari, la Comandante di polizia penitenziaria e la sua vice Daniela Nobili sono preparate e sensibili. Fanno fatica a parlare di quel giorno, di quei giorni. La direttrice Poggetti si commuove quando ricorda il senso di smarrimento davanti a quella improvvisa protesta, la devastazione che apparve davanti ai loro occhi quando tutto rientrò e, grazie alla mediazione di alcuni detenuti, i rivoltosi tornarono ai loro posti. “Gli operatori in turno non erano sufficienti ad affrontare la drammatica situazione, mi chiedevo come avremmo fatto. Poi ho visto cominciare ad arrivare i colleghi che di spontanea volontà sono tornati a lavoro - racconta con la voce incrinata - ma non sapevamo da che parte cominciare”. In tutto, nel carcere lavorano un centinaio di agenti (l’organico previsto sarebbe 180 unità), 3 educatori, 1 mediatore culturale e nessuno psicologo di ruolo, solo “3 esperti ex articolo 80”, ossia liberi collaboratori. Dal primo lockdown, spiegano, le associazioni di volontariato esterne hanno interrotto le loro attività. Durante la prima ondata non ci sono stati focolai, nella seconda un focolaio Covid con 9 persone positive nel reparto “Protetti”. “Qui i detenuti sono tutti, o quasi, vaccinati con doppia dose”, fa il conto Poggetti. La Dad, per gli studenti reclusi, non è mai partita per carenza di dispositivi, personale e difficoltà di collegamento, anche se gli studi sono andati avanti in qualche modo grazie alle dispense fatte arrivare da maestri e professori tramite gli operatori. “Abbiamo sempre garantito il diritto allo studio”, assicura la direttrice. E allora perché? La domanda viene da sé. “Ce lo siamo chiesto, continuiamo a chiedercelo, non è facile rispondere. La rivolta è stata qualcosa di irreale, pochi hanno dato una risposta al perché. Poi ci sono le indagini in corso…”, risponde Vera Poggetti. C’è stato un consiglio di disciplina per le persone che hanno partecipato alle proteste, in 40 sono stati trasferiti, a molti sono state applicate sanzioni disciplinari. La cucina comune, da cui erano stati divelti gli strumenti usati come clave, è stata chiusa. I farmaci sono stati spostati in posti meno accessibili. Le ore di apertura delle celle sono diminuite (“ora sono aperte per otto ore al giorno”); sono stati revocati i permessi. “Poi, il difficile però è stato recuperare il rapporto, da entrambi i lati. Per molti detenuti la rivolta è passata, è un fatto chiuso. Molti hanno chiesto scusa, noi ancora siamo turbati, ma è solo un ricordo”. Aurelio e Andrea sono due detenuti che erano presenti in quei giorni. Aurelio, 31 anni, detenuto in questo carcere dal 2018 e con fine pena nel 2025, ha partecipato alla protesta “perché in televisione avevamo visto gli altri carceri in rivolta e…”. Sorride dietro gli occhiali da intellettuale, come un ragazzo qualunque, con il suo corpo grande, atletico e tatuato. “Ma non ho mai avuto intenzione di scappare né di fare del male a nessuno. Quando ho saputo dei morti mi è dispiaciuto tanto ma non mi sento responsabile: quei ragazzi erano tossicodipendenti, non dovevano stare in carcere. Ho capito che abbiamo sbagliato. Però ne stiamo ancora subendo le conseguenze”. Andrea, 50 anni, invece si è barricato in cella con i suoi compagni di stanza e guardava quello che succedeva proprio davanti ai suoi occhi con incredulità. “E paura”, confessa. “Io ho famiglia, mi manca un anno per uscire, non volevo conseguenze”. E ora? “Sono sei mesi che stiamo chiusi. Per colpa di qualche testa calda, di quelli che hanno distrutto tutto e che senza buon senso non hanno pensato alle conseguenze, ora abbiamo meno libertà”. I poliziotti? “Si sono irrigiditi, giustamente. Però lo voglio dire chiaramente: a me il carcere ha salvato la vita”. Per Aurelio è diverso: “Da quando sto qui ho fatto sicuramente molta strada, ma prima, in altri carceri, mi hanno rovinato: la prima volta che mi hanno arrestato avevo 18 anni, il carcere allora mi ha solo peggiorato”. Capiscono i sentimenti e i risentimenti di chi sta dall’altra parte delle sbarre ma le immagini di Santa Maria Capua Vetere no, quelle fanno solo rabbia. “Non c’è alcuna giustificazione, ne abbiamo parlato qui anche con gli agenti, che sono d’accordo con noi. Anche a loro ha fatto schifo guardare quelle immagini”. Al netto di un’intervista che si svolge davanti alla dirigenza del carcere, Aurelio e Andrea sembrano aver fatto pace con quel luogo, vorrebbero prendersi le proprie responsabilità. E andare avanti, nella vita. I poliziotti penitenziari, coloro che dovrebbero apparire ai loro occhi come un esempio di vita possibile, dovrebbero sempre fare altrettanto. Anche adesso, con il Covid. Con il vaccino e con il Green pass. Costa caro stare in carcere di Attilio Bolzoni Il Domani, 18 settembre 2021 Come si può assicurare un menu di dignitosa qualità con 3,92 euro al giorno? Forse la risposta sta in una spettacolare e molto fastidiosa coincidenza. Chi fornisce il vitto al carcere fornisce anche il sopravvitto. È una condanna nella condanna: la spesa di prodotti scadenti e salatissimi del cosiddetto “sopravvitto”. Il detenuto è il cliente ideale, il più indifeso, la vittima perfetta che non ha la possibilità di scegliere. Avviso alla popolazione detenuta: due pacchi di caffè acquistati insieme, in offerta speciale, vi vengono a costare più di due pacchi di caffè acquistati separatamente. Comprate, comprate, conviene. Firmato la direzione di Rebibbia, il carcere più grande d’Europa. Abitare lì dentro è molto dispendioso e non certo per fare la dolce vita del Grand Hotel Ucciardone della Palermo felicissima, i furgoncini del ristorante “La Cuccagna” che vomitavano aragoste e casse di Dom Perignon, la sala da pranzo nell’infermeria dove bivaccava mezza cupola. Il carcere di Rebibbia è caro perché la spesa è cara. Per i quasi duemila reclusi c’è poco e niente a buon mercato, per mangiare in cella ci vogliono sicuramente più soldi di quelli che servono fuori. Chissà, forse è una tassa per l’espiazione di peccati e reati o probabilmente qualcosa di più tortuoso e ineffabile. È comunque una condanna nella condanna, è la “dittatura” della spesa a scelta zero, quello che in gergo carcerario viene definito “sopravvitto”, la possibilità di acquistare generi di conforto all’esterno ma solo a condizione che si paghi di più. Il detenuto è il cliente ideale, il più indifeso, la vittima perfetta: è il consumatore che non può selezionare né decidere. Caffè a prezzo speciale - La “promozione” del caffè ha solo innescato la miccia, i malumori e le lamentele stavano montando già da prima dell’estate. Sulla salsiccia piena di coloranti, sulle uova a scadenza immediata, sui funghi olandesi finti che sanno di sughero, sui rasoi da barba e sui piatti di plastica e sui cornetti gelato a prezzi proibitivi, tutti destinati a una “popolazione detenuta” che non appartiene certo alla banda dei colletti bianchi o neri, sono frange estreme di marginalità sociale in balìa di un mercato che non è un mercato. A Rebibbia il malcontento dell’estate si è trasformato in qualcosa di più, esasperati i reclusi hanno inviato un paio di reclami ai magistrati di sorveglianza e al provveditore dell’amministrazione penitenziaria. Documenti che ci sono arrivati insieme a dettagliate tabelle sui prezzi all’interno e all’esterno del carcere, tariffari, sfoghi sul “malo mangiare”. Ci è stato recapitato anche il risultato di un’ispezione, effettuata pochi giorni fa dagli agenti della penitenziaria in due supermercati intorno a Rebibbia. Un’indagine per capire se i detenuti avessero ragione. Il monopolio - La protesta non si è placata neanche dopo quell’accertamento, anzi. Perché fuori dal carcere si risparmia tanto. Per certi articoli anche tre volte. La questione del “sopravvitto” è antica nonostante i dossier della Corte dei conti e nonostante le rimostranze per gli appalti che in tutte le carceri italiane dal 1930, quasi un secolo, sono monopolio dello stesso giro di aziende. Qualche anno fa, e anche più recentemente, la magistratura contabile non ha vistato (è accaduto in Lombardia, in Veneto, in Toscana, in Puglia e in Umbria) le procedure per il rinnovo di quei contratti, poi ha ceduto a pressioni provenienti dall’alto. Per spegnere polemiche e allontanare sospetti - già nel 1998 - i capi del Dap avevano invitato con una circolare i provveditori dell’amministrazione penitenziaria “a una particolare attenzione ai prezzi praticati che andranno confrontati con i prezzi correnti all’esterno... perché non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui e?sito l’istituto”. Iniziativa assai lodevole. Ma tutto è rimasto o quasi sulla carta. Questa volta i detenuti annunciano un esposto alla procura della repubblica “per porre fine a questa infinita indecenza”, denunciano. “La speculazione che l’azienda miracolata perpetra”, accusano di “accondiscendenza chi dovrebbe controllare e verificare costantemente la qualità e i prezzi”. In sostanza dicono che “l’amministrazione penitenziaria è complice”. Seguono alcuni esempi, molto significativi, sui prezzi di alcuni prodotti di largo consumo. Prima voce prezzo al supermercato vicino a Rebibbia, seconda voce prezzo allo spaccio del carcere. Una bottiglia di una nota marca di acqua minerale: 0,27 euro e 0,45. Un litro di olio: 4,29 e 5,09. Parmigiano Reggiano, trecento grammi: 4,99 e 5,99. Un cornetto gelato: 2,10 un pezzo in carcere e 3,29 sei pezzi al supermercato. C’è qualche centesimo di differenza in meno per qualche merce (senza specificarne però la scelta) a favore dell’azienda fornitrice, ma sono eccezioni. Dopo il reclamo dei detenuti l’amministrazione di Rebibbia ha inviato quella squadra di agenti nei supermercati per verificare le differenze, il resoconto è in 13 pagine. Cifre che per alcuni prodotti risultano più care in carcere, per altri al supermercato. Cifre che però i detenuti contestano, in un altro documento compilato appena qualche giorno fa. Si firmano “la commissione cucina” del carcere di Rebibbia. Dicono che l’analisi di rilevamento degli agenti della penitenziaria “è uno specchietto per le allodole” in quanto “non è possibile fare una precisa analisi perché le differenze più macroscopiche si sono evidenziate su prodotti di larghissimo consumo”. In realtà, la differenza dei prezzi tra fuori e dentro è notevole sugli articoli più richiesti dai detenuti. Il detenuto macellaio - Supportati dalla consulenza di un macellaio recluso (che per tantissimi anni è stato il capo reparto di un supermercato), criticano le carni di seconda o terza scelta che entrano in carcere rispetto ai prezzi rilevati del manzo danese. E così per la frutta, mai di stagione. E per tutto il resto. C’è per esempio il detenuto XY che racconta di avere ricevuto sei uova con scadenza il giorno successivo. Commenta: “Certo non me le potevo mangiare tutte insieme”. Della questione se ne vuole occupare la Federconsumatori, che già un paio di anni fa era intervenuta sul caro vita a Rebibbia. Dice il presidente Emilio Viafora: “Verificheremo se ci sono gli elementi per chiedere un accesso agli atti e poi sollevare la questione al ministro della Giustizia, non stiamo parlando di Totò Riina ma di persone che finiscono in galera spesso per disperazione”. Dice ancora Viafora: “Tutto ciò è ingiusto per più di una ragione. Primo, perché gli spacci interni di solito hanno sempre prezzi più bassi che all’esterno, poi perché parliamo di una popolazione carceraria che già è in sofferenza, i detenuti eccellenti si procurano il cibo attraverso ben altri canali”. Il problema del “sopravvitto” nasce dal problema del “vitto”. Ecco perché i detenuti di Rebibbia hanno presentato un terzo reclamo al provveditore dell’amministrazione penitenziaria, che si apre così: “Si segnala ancora una volta che la qualità dei generi alimentari per i detenuti è pessima”. Segue un lungo e molto preciso elenco di tutto ciò che non va. “Le carni... trattasi di quarto anteriore bovino provenienza Polonia... Hamburger congelati provenienza Spagna… carne 33 grammi il resto è cuore e soia e altri ingredienti che nulla hanno a che fare con la carne fino a raggiungere il peso di 120 grammi... cozze congelate di provenienza Vietnam... tutta la frutta viene utilizzata fuori dal circuito di vendita al minuto e scartata dalla grande distribuzione”. Una lista con “prodotti scadenti o privi di ogni sapore” e salumi “di infima qualità pieni di grasso, addensati ed emulsionanti”. Un cenno anche per l’azienda che ha l’appalto del vitto a Rebibbia, “la ditta Ventura e alla somministrazione di cibi inadeguati”. Vitto e sopravvitto - Lo stato spende per i 50mila e passa detenuti italiani 3 euro e 92 centesimi al giorno. Ma non si mangia a sbafo. Per legge ogni recluso deve corrispondere - quando uscirà - la cosiddetta “quota di mantenimento”. Fra cibo, acqua ed energia elettrica consumata in cella, dovrà restituire circa 120 euro per ogni mese di detenzione. Il conto che gli presenteranno per la sua colazione è di 0,27 centesimi, per il pranzo 1,09 euro, per la cena 1,37 euro. In totale 2,48 euro al giorno, poco al di sotto di quei 3,92 euro che lo stato spende per loro per garantire i tre pasti. Fra le carte inviate dai detenuti ci sono pure i menù settimanali di Rebibbia. È un misterioso viaggio nella gastronomia carceraria. Due giorni a caso, il lunedì e il giovedì. Lunedi. Colazione; latte e tè, marmellata e fette biscottate, zucchero, pane e frutta. Pranzo: risotto primavera, fettina bovino e patate arrosto. Cena: minestrone con pasta, spalla cotta, insalata mista. E ora giovedì: stessa colazione. Pranzo: gnocchi al pomodoro, bollito, broccoli. Cena: pastina in brodo, sofficini, insalata. La domanda non è complicata: come si può assicurare un menu di dignitosa qualità con 3,92 euro al giorno? Forse la risposta sta in una spettacolare e molto fastidiosa coincidenza. Chi fornisce il vitto al carcere fornisce anche il sopravvitto. “Io, ex grillino, ho provato il carcere e dico: prima di sventolare le manette bisogna aver visto…” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 settembre 2021 Marcello De Vito fu il primo degli eletti dei 5Stelle a Roma, portava le arance al sindaco Marino indagato. Poi la galera e la trasformazione: “Il carcere preventivo va frenato”. Il 20 marzo 2019 la vita dell’avvocato Marcello De Vito, allora presidente del Consiglio Comunale di Roma in quota grillina, ora invece in quella di Forza Italia, viene sconvolta: all’alba i carabinieri del Nucleo Investigativo piombano in casa sua per arrestarlo con l’accusa di corruzione in uno dei filoni dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma calcio. Dopo 107 giorni nel carcere romano di Regina Coeli, arriveranno i domiciliari. Ad agosto dello stesso anno la Cassazione metterà in discussione l’ordinanza di arresto: contro di lui solo “congetture” ed “enunciati contraddittori”. A novembre 2019 fine delle misure cautelari con il parere positivo del pm. Adesso si è ancora nella fase di primo grado di giudizio. Ma intanto quei mesi di reclusione hanno cambiato per sempre la sua vita e anche la sua visione del carcere e della giustizia. Non a caso, ora che è in campagna elettorale, una sua tappa importante è stata una visita presso l’istituto penale per minorenni di Casal del Marmo. Ci vuole raccontare cosa ha significato quell’esperienza di due anni fa? È la prima volta che faccio una intervista di questo tipo, parlando in profondità della mia esperienza in carcere. Mi risulta molto difficile farlo perché significa tornare indietro con la mente a quei terribili momenti e rivivere le emozioni di quei giorni. Mi riesce complicato essere lucido, anche perché col tempo si tende a cancellare alcune parti del racconto di quei mesi, benché ci sono aspetti che rimangono indelebili. Proviamo per quanto possibile... Si è trattata di una esperienza devastante, perché non ero pronto mentalmente ad affrontarla. Se tu stai subendo un processo, metti in conto che ci può essere una sentenza di condanna. Ma essere svegliato improvvisamente alle 5 di mattino con i carabinieri che ti piombano in casa è terrificante. In quel frangente hai pochissimo tempo per capire cosa sta succedendo e per prepararti, anche mentalmente, a quello che sta per accadere. Si tratta di una violenza inaudita, perpetrata anche con metodi eclatanti. È stata una violenza per me che la sera prima ero a cena con degli amici e all’alba vengo prelevato con la forza da casa mia, e anche per la mia famiglia: all’epoca mia figlia aveva solo 12 anni. Poi arriva il carcere... Sì, devastante. Per quindici giorni non puoi parlare con nessuno. La tua famiglia fuori soffre per quanto successo e tu non puoi fare nulla. In più mi vennero bloccati i conti correnti e mia moglie e mia figlia non sapevano come fare per vivere. Inizia la gogna mediatica che incrina la tua immagine personale e la tua reputazione politica. Sui giornali e in televisione vieni condannato. Mentre venivo arrestato erano già uscite le agenzie che pubblicavano stralci delle sit - sommarie informazioni testimoniali: ‘De Vito disse… De Vito fece…’. Perché sono uscite con titoli a sette colonne che mi avevano già dipinto come colpevole? Questo corto circuito va fermato. Poi arriva la decisione della Cassazione, che annulla con rinvio l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, smontando le accuse contro di me: però di questa notizia appare solo un trafiletto sui giornali. Torniamo ai primi momenti in carcere... Il punto è che non tutti riescono ad innalzare l’asticella della resistenza a livelli impensabili: io ci sono riuscito in quel particolare momento della vita ma magari non ci sarei riuscito in un altro momento. E forse tante altre persone non ci riescono e crollano. Intende che si suicidano? Alcuni pensieri possono ammazzarti e devi essere bravo ad azzerarli, ma intendo anche che potrebbe significare dire quello che la tua parte opposta vuol sentirsi dire, pur di uscire. La Procura conduce indagini in mesi, a volte anni ed acquisisce faldoni di documenti su un procedimento oggetto di indagine (12 terabite il volume del fascicolo), tu hai poche ore di tempo per rispondere su quei fatti: le sembra possibile? Fare subito un interrogatorio equivale anche a rovinarsi perché non hai la lucidità, la freddezza ma anche la cognizione per affrontarlo. Nel mio caso ci sono voluti tre accessi agli atti fatti dal carcere solo per ricostruire la vicenda dello stadio. Rendere l’interrogatorio nelle prime 48 ore su una procedura così complessa, su date precise, riunioni, nomi, fatti ed atti sarebbe stato impossibile. Per non averlo fatto, sono rimasto in carcere. Per non parlare della motivazione addotta per rigettare poi le richieste di scarcerazione: “ il detenuto non ha assunto consapevolezza del disvalore”. Avrei dovuto confessare qualcosa che non ho fatto? Non averlo fatto mi è costato anche da punto di vista economico: non ho esercitato la mia funzione per otto mesi, tra carcere e domiciliari, per una mancata entrata, tra l’altro, di 52 mila euro lordi. Fuori dal carcere abbiamo visto che l’avevano già condannata. Invece oltre le sbarre cosa ha trovato? In quei primi giorni si sono verificati due episodi contrastanti. Luigi di Maio che, senza passare per i probiviri, disse che dovevo essere espulso perché le mele marce dovevano stare chilometri a distanza da loro. Poi invece non andò così perché l’espulsione fu bloccata grazie anche a quanto deciso dalla Cassazione sulla mia posizione. Insieme a lui tutti mi abbandonarono: neanche un cane si tratta così. Hanno dimostrato una totale mancanza di umanità e mi avevano già condannato. Forse davo loro già fastidio e hanno approfittato della situazione per scaricarmi. Quindi fui poi io a decidere di lasciare il Movimento perché non ero più a mio agio. In carcere, invece, ho trovato innanzitutto tanta umanità. Mi hanno aiutato molto i detenuti soprattutto nei primi giorni che sono i più difficili. Non sai quello che devi fare sotto ogni punto di vista, anche come aprire il conto corrente per farti accreditare i soldi che ti serviranno per la spesa. E poi mi hanno dato i vestiti in quanto ero entrato solo con una tuta e mi hanno fornito la macchinetta del caffè. Nella mia sezione c’erano circa cinquanta detenuti, i due terzi stranieri. Con tutti si è creato un legame e con alcuni di loro mi sento ancora oggi. Con loro in carcere ho fatto tanto sport, abbiamo giocato insieme a pallone. Questo per me è stato fondamentale per scaricare le tensioni. Appena aprivano la cosiddetta ‘Aria’ io uscivo per allenarmi. Poi tornavo in cella, studiavo le carte e leggevo libri. La terminologia che viene usata in carcere è strana, alienante: perché ‘Aria’? Sembra che ti concedano il diritto di andare a respirare. Ora però Di Maio ha chiesto scusa all’ex sindaco Pd di Lodi Uggetti. Sono cambiati i 5 Stelle? Secondo me no, soprattutto nella base. Di Maio forse può aver iniziato un processo di abbandono del giustizialismo sfrenato ma nel 95% degli iscritti c’è una rabbia che è sfociata in maniera sbagliata sul tema delle garanzie. Anche io, con Mafia Capitale, ho commesso un errore politico quando insieme ad altri portai delle arance in conferenza stampa per chiedere le dimissioni di Ignazio Marino. Come è cambiato il Movimento per farlo diventare diverso da quello in cui lei aveva creduto? Ha contraddetto tutti i suoi dogmi ed è diventato un partito in mano a poche persone. Non è più un movimento post ideologico. Le piace Giuseppe Conte? Conte è quello che va bene con tutto. Lei adesso è con Forza Italia. Ha deciso di far parte di questo partito per le sue posizioni garantiste? Nel Movimento sono stato sempre visto come un pentastellato atipico e comunque moderato. Forza Italia era la mia area di riferimento prima che entrassi in politica nel 2012. All’epoca l’Europa imponeva il Governo Monti, le amministrazioni Alemanno e Polverini qui a Roma non furono le migliori e nasceva questo Movimento che voleva portare un nuovo modo di fare politica a cui decisi di aderire. Poi il movimento con il tempo si è perso e sono tornato alle origini. L’indagine è uno strumento della magistratura per rovinare le carriere politiche? Non posso permettermi di toccare dei pilastri, né ipotizzare sviamenti nell’esercizio di funzioni. Poi è logico che ogni funzione è svolta da donne e uomini che comunque hanno le loro idee, i loro convincimenti e le loro appartenenze. Una indagine non è una sentenza passata in giudicato quindi ben venga anche il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza che impedirà anche a tutte le autorità pubbliche di usare una inchiesta per attaccare sui giornali gli avversari politici. Allora qual è la morale di tutta la storia? Bisognerebbe prestare più attenzione e cautela nell’esercizio della carcerazione preventiva. Se succede è perché chi la applica è completamente deresponsabilizzato. Quando si tratta poi di un politico, si deve essere coscienti di interferire con l’esito democratico di una elezione. Io ero stato il cittadino più votato a Roma. Poi ho letto le parole della Ministra Cartabia per cui la pena non deve solo consistere nel carcere e che ‘bisogna aver visto’, ricordando Calamandrei. Ha ragione: mi sembra una Ministra molto illuminata per tante ragioni e che ha equilibrio. Per questo l’utilizzo delle misure alternative al carcere deve essere ampliato. Lei adesso è impegnato con la campagna elettorale. Se si andrà al ballottaggio tra Gualtieri e Michetti, saranno decisivi gli elettori del Movimento Cinque Stelle... Sulle politiche sociali, sull’ambiente, sulla disabilità, sulla riqualificazione urbana, sui progetti di smart city Forza Italia è stata sempre attenta e pragmatica. Sono temi assolutamente in comune con i Cinque Stelle. Per questo i delusi grillini possono apprezzare le iniziative di FI e votare per noi alle prossime amministrative. Tribunale della famiglia, il pm Cascone: “Più risorse e più giudici, altrimenti la riforma fallisce” di Liana Milella La Repubblica, 18 settembre 2021 Al vertice della procura per i minorenni di Milano da sei anni, evidenzia pregi e difetti della riforma che sarà approvata in prima lettura al Senato la prossima settimana con la fiducia. Un voto sul futuro tribunale della famiglia? “Sei meno meno”. È la risposta secca di Ciro Cascone, 55 anni, un passato da pm a Torre Annunziata, da sei anni procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano, in magistratura da 26 anni. “Come si dice a Napoli, senza soldi non si cantano messe...” dice Cascone che alla politica chiede risorse cospicue “altrimenti il nuovo Tribunale rischia di essere una riforma solo di etichette ed a rimetterci saranno i minori”. Avrà sicuramente letto e studiato la riforma della giustizia della famiglia. Che, in prima lettura, sarà approvata la prossima settimana al Senato con il voto di fiducia. Qual è la sua impressione? In pillole, ci dia un aspetto positivo e uno negativo... “L’aspetto positivo è la creazione di un unico Tribunale per la famiglia e i minori, una richiesta che noi magistrati minorili abbiamo sempre caldeggiato, a fronte di progetti semplicemente soppressivi. L’aspetto critico è l’impostazione di fondo: chi scrive questa riforma non ha piena conoscenza dei meccanismi di funzionamento della giustizia minorile. Il Tribunale per i minorenni non funziona come quello ordinario, e quindi va tenuto conto della sua specificità quando si interviene”. Dunque vede luci e ombre in questa futura macchina della giustizia. Per la sua esperienza, tenendo conto che la politica per una volta non si divide, ma che anche da suoi colleghi vengono rilievi critici, ci spiega quali potrebbero gli aspetti positivi? “Sicurante ci sono. Perché dar vita a un unico tribunale è un grosso passo avanti rispetto alla situazione attuale, in quanto si elimina la frammentazione delle competenze”. Ecco, per chi ci legge ma non conosce a fondo come funziona la vostra giustizia dei minori, quando parla di frammentazione a cosa si riferisce? “Parlo del fatto che oggi su questa materia operano diversi giudici, il Tribunale per i minorenni, quello ordinario, e poi il giudice tutelare (che è un’articolazione del tribunale ordinario). E non sempre sono chiari i confini di competenza. Le faccio un esempio con i provvedimenti che limitano la responsabilità genitoriale, che oggi sono di competenza del Tribunale dei minorenni, ma possono passare a quello ordinario nel caso ci sia in contemporanea una separazione o un divorzio che attrae la competenza del caso”. E quindi quali sono gli aspetti positivi? “Il futuro Tribunale si occuperà in modo esclusivo di tutti i problemi della famiglia e dei minori e quindi il giudice sarà a sua volta specializzato. Mentre oggi, nei piccoli tribunali, il giudice civile spesso è costretto a occuparsi anche di divorzi assieme a tutto il resto”. In futuro per un divorzio, per una separazione, per l’affidamento di un bambino maltrattato in famiglia, l’unico referente sarà sempre il Tribunale dei minori? “Sì, il Tribunale della famiglia si occuperà di tutto”. Ma nella riforma c’è una distinzione tra il tribunale di una grande città, come Milano, e quelli della provincia, dove ci sarà un solo giudice. La faccenda è complicata. Ce la spiega? “Cerco di semplificare al massimo. Facciamo l’esempio di cosa succede in Lombardia. Oggi esiste il Tribunale per i minorenni di Milano. Che ha una competenza su otto province. Nelle quali ci sono i tribunali ordinari che si occupano di famiglia. Con la riforma invece a Milano ci sarà una sezione distrettuale del Tribunale della famiglia che avrà sempre competenza sulle otto province, ma solo per alcune materie, tra cui le adozioni. Ci saranno poi otto sezioni distaccate, quelle che la legge definisce “circondariali”, che avranno sede negli otto tribunali ordinari già esistenti, e che si occuperanno di tutto ciò che riguarda la famiglia e i minori”. Un momento, perché qui la faccenda si complica. Voglio capire dove dovrà andare il cittadino quando avrà un problema. Facciamo un esempio. Un divorzio o una separazione di una coppia che vive a Milano e di una che vive a Sondrio da chi saranno decise? “La coppia che vive a Milano si rivolgerà alla sezione circondariale di Milano”. Come? Perché a Milano ci saranno due sedi diverse, una distrettuale e una circondariale? “Sì, certo, a Milano ci saranno tutte e due. Con funzioni e composizione diversa. La sezione distrettuale giudicherà con un collegio di giudici, quella circondariale invece con un giudice solo”. Ma con quale criterio un caso sarà deciso da un collegio, mentre un altro da un solo giudice? “In base alla materia, per le adozioni la competenza sarà del collegio distrettuale, mentre tutto il resto sarà trattato da un singolo giudice, dalle separazioni e dai divorzi agli allontanamenti urgenti dei minori maltrattati”. Siamo sicuri che, rispetto a oggi, sia giusto che un singolo giudice decida su casi a volte molto delicati che oggi vanno davanti a un collegio di quattro persone, due giudici ordinari e due giudici onorari esperti della materia? “Questo è il grosso punto debole della riforma perché in questo modo si spazza via la cultura minorile costruita negli ultimi decenni. Io vedo due grosse criticità, innanzitutto perché una persona sola deciderà quello che oggi decidono più persone con maggiore ponderazione e anche esperienza, domani invece ci sarà una persona che in totale solitudine dovrà prendere decisioni a volte molto delicate e che hanno ricadute molto rilevanti, a volte drammatiche, nella vita delle persone. E che rischia anche una sovraesposizione, specialmente nelle piccole città. Ma non basta. Viene eliminato il fondamentale contributo degli esperti nel prendere queste decisioni”. Sta parlando dei giudici onorari? “Esatto, proprio loro, che danno un importante contributo di competenze e di sapere tecnico anche se spesso a livello di opinione pubblica non godono di buona fama”. Procuratore mi scusi, ma il Senato sta per votare la riforma e la politica la presenta come un’importante passo in avanti, ma lei avanza criticità importanti. Che correzioni suggerirebbe? “Voglio essere lapidario: un recupero di collegialità e di presenza dei giudici onorari anche nelle sezioni circondariali. Per riequilibrare la presenza di un solo giudice che decide questioni importanti”. Eventuali correzioni a parte, il nuovo tribunale dovrebbe partire nel 2024. C’è tempo per metterlo in piedi. Ma cosa serve davvero? “Non vorrei che chi ha scritto la legge pensi che magistrati e cancellieri che oggi si occupano di minori e famiglia siano sufficienti a colmare gli organici e rendere efficiente il futuro tribunale. Non è affatto così. Bisogna veramente incrementare le piante organiche del nuovo tribunale perché, come si dice a Napoli, senza soldi non si cantano messe”. Lei sta chiedendo più giudici e più pubblici ministeri? “Esatto, proprio così. Il disegno della nuova procura, anch’essa specializzata, mi piace perché verranno assorbite le competenze civili delle procure ordinarie, ma la mia richiesta è perentoria. Oggi le procure minorili sono fortemente sottodimensionate. Aumentandone le competenze mi aspetto quantomeno un raddoppio di risorse e soprattutto che anche i nostri uffici vengano finalmente informatizzati, mentre adesso viaggiamo ancora con il cartaceo. Ancora un suggerimento, prevedere anche la figura dei vice procuratori onorari proprio come nelle procure ordinarie. E poi questa faccenda dell’anzianità...”. E sarebbe? “Parlo dell’anzianità richiesta per far parte di Tribunale e procura della famiglia, ben 12 anni, che trovo eccessiva e addirittura ingiusta nei confronti dei giovani magistrati, che quanto a competenza ed entusiasmo non hanno nulla da invidiare a quelli più anziani, anzi... Oggi dirigo una procura composta prevalentemente da giovani magistrati, che lavorano molto e bene, ma che con la nuova riforma non potrebbero farne parte, e francamente lo trovo irrazionale”. Il caso Eitan, chi se ne sarebbe occupato, il nuovo Tribunale? “Verrebbe trattato dal giudice monocratico circondariale. L’eventuale Appello andrebbe alla sezione distrettuale, analogamente a quanto avviene adesso. Nel caso specifico il giudice tutelare di Pavia ha nominato il tutore, mentre sarebbe il Tribunale per i minorenni di Milano a occuparsi dell’eventuale Appello”. Che cosa accadrebbe invece per i femminicidi? “Per questi casi vi sono competenze concorrenti del giudice penale e di quello civile. In linea generale i provvedimenti civili a tutela della donna maltrattata verranno presi dal giudice monocratico della sede circondariale, mentre oggi vengono assunti direttamente dal tribunale ordinario che emette l’ordine di protezione. Ma a volte, se ci sono figli minori, vengono presi anche dal Tribunale per i minorenni, su richiesta del pm minorile che emette provvedimenti a tutela di madre e figli”. Il baratro tra nord e sud nell’efficienza della giustizia civile di Sergio Rizzo La Repubblica, 18 settembre 2021 Nonostante dieci anni di sforzi in Italia, siamo ancora lontanissimi dalle medie europee nei tempi di smaltimento delle controversie. Bella soddisfazione: in dieci anni di sforzi immani per ridurre i tempi biblici della giustizia civile siamo riusciti a recuperare ben 90 giorni. Dai 1.210 che secondo la Banca mondiale erano in media necessari per risolvere una controversia commerciale, ora ne bastano (si fa per dire) 1.120. Peccato che la media dell’Ue a 27 non superi 607 giorni. E in Spagna sia meno della metà: 510 giorni. Che scendono a 499 in Germania e a 447 in Francia. In Europa stanno peggio di noi soltanto in Grecia (1.711 giorni), mentre con la Slovenia (1.160) ce la battiamo ancora. Anche perché quel dato è fermo al 2019, prima della pandemia. Che com’è noto, ha quasi paralizzato anche i tribunali Questo la dice lunga circa la dimensione del problema che dovrà affrontare, almeno fino a quando durerà il suo mandato, la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Duemila giudici civili per 3 milioni e 321 mila cause arretrate, il che significa oltre 1.600 a cranio, sono già una bella rogna, che diventa però gigantesca alla luce dell’obiettivo (encomiabile) che si pone il Piano nazionale di ripresa e resilienza: ridurre del 40% la durata dei procedimenti civili. Nel tentativo di ridimensionare il divario spaventoso di competitività con Germania, Francia e il resto dell’Unione nell’attrazione di investimenti esteri. Quel che è peggio, la questione non riguarda solo la mancanza di risorse, se è vero che la spesa dell’Italia per i propri tribunali è in linea con la media europea. Tre anni e mezzo di lentezze - I dati ufficiali, che non riguardano esclusivamente le controversie commerciali ma l’insieme di tutte le dispute civili, dicono che le cause di primo grado si esauriscono in 419 giorni, cui però ne vanno sommati altri 891 per l’appello. Totale, 1.310 giorni. Tre anni e mezzo, in media. Se le promesse del Pnrr fossero rispettate, tenendo anche conto del calo lento ma “fisiologico” della durata, entro il 2026 si potrebbero risparmiare ancora 301 giorni: questo secondo il calcolo dell’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle. Ipotizzando che la diminuzione “fisiologica” porti comunque in cinque anni la durata media a 1.087 giorni, si scenderebbe teoricamente a 786. Una bella botta, ma ancora troppo poco in confronto al resto d’Europa. Soprattutto se si considera un altro elemento preoccupante che emerge dall’analisi Confartigianato. Cioè le differenze, enormi, di durata dei procedimenti civili fra le diverse sedi giudiziarie. Forse mai come in questa circostanza è profondo il baratro fra il Nord, dove in alcuni casi ci si avvicina ai valori di efficienza europei, e il Sud: dove, all’opposto, la lontananza da quei valori è semplicemente siderale. E qui le riforme che sono state messe in cantiere possono incidere fino a un certo punto. Se a Messina un giudizio di primo grado va avanti in media per 990 giorni, a Potenza per 811 e a Catanzaro per 771, a Milano si può concludere in 282 giorni, a Brescia in 265, a Torino in 205 e a Trieste addirittura in 196. “A Messina - sottolinea la Confartigianato - i tempi dei procedimenti civili sono quasi due volte e mezzo la media nazionale e cinque volte il tempo del distretto più virtuoso, quello di Trieste”. C’è solo un distretto giudiziario meridionale nel quale la durata di una causa in primo grado è inferiore alla media nazionale, quello di Palermo (399 giorni contro 419). Né la situazione è diversa nel caso dei giudizi d’appello. Cambiano esclusivamente i detentori degli opposti primati. Per quello negativo, il posto di Messina lo prende Potenza con la bellezza di 1.356 giorni, seguita da Reggio Calabria (1.301) e Roma (1.161). Nel secondo grado dei giudizi civili i tribunali della Capitale fanno peggio di quelli napoletani, dove l’arretrato è enorme, che esauriscono le cause d’appello in 1.152 giorni. C’è da dire che anche nei distretti di Bologna e Firenze si superano i mille giorni (rispettivamente 1.011 e 1.008), un dato decisamente superiore alla media nazionale degli appelli civili. Quanto al primato positivo, invece, secondo i dati elaborati dall’ufficio studi della Confartigianato Torino subentra a Trieste con appena 280 giorni di durata, contro i 463 di Trento, i 463 di Trieste e i 464 di Perugia. Da una città all’altra - I dati delle Corti d’appello civili amplificano fino all’inverosimile le differenze di efficienza fra diverse parti d’Italia. Sommando primo e secondo grado, a Potenza si toccano (sempre in media) 2.167 giorni. Ovvero sei anni e quasi il quadruplo del tempo necessario invece a Torino (585 giorni). A Reggio Calabria servono 1.934 giorni, a Napoli 1.722. Mentre a Roma, la sede giudiziaria più grande e rilevante per certi aspetti considerando che è competente per le cause che riguardano enti e società pubbliche e spesso i rapporti con gli investitori esteri, ce ne vogliono ben 1.582. Più che a Salerno (1.563), Lecce (1.549) e perfino Messina (1.490), grazie alla singolare circostanza che nel capoluogo siciliano i giudizi civili in secondo grado si esauriscono in metà del tempo impiegato in primo grado: 500 giorni contro 990. Esattamente il contrario di quanto accade nella Capitale. Che a guardare la faccenda con attenzione rappresenta, per la ministra Cartabia, un altro bel problema nel problema più generale. Giudici di pace in sciopero: “Trattateci come le altre toghe” di Francesca Sabella Il Riformista, 18 settembre 2021 “Negare alla magistratura precaria il legittimo inquadramento e la giusta retribuzione è una vergogna di Stato che, tra l’altro, rende altrettanto precari i diritti dei cittadini e meno attraente per gli investitori stranieri”: ne sono convinte Olga Rossella Barone e Maria Giuseppina Spanò che annunciano l’astensione dei giudici di pace dalle udienze fino al 26 settembre. Una decisione, quella comunicata dalle presidenti delle associazioni che rappresentano i giudici di pace, nell’aria già da tempo. Sono anni, infatti, che la magistratura onoraria lamenta la precarietà del proprio lavoro e chiede di essere inquadrata nell’ordine giudiziario al pari dei magistrati togati. Il che significherebbe stipendio a fine mese, contributi versati, più tutele e più garanzie per circa 5mila professionisti in tutta Italia che, da un ventennio a questa parte, smaltiscono il 70% del contenzioso civile e penale. Una prospettiva di inquadramento sembrava essersi aperta dopo l’assegnazione al nostro Paese dei circa 209 miliardi del Recovery Fund. Niente da fare, invece. Ed è proprio questo che lamentano le rappresentanti del Coordinamento magistratura giustizia di pace e del Movimento autonomo giudici di pace: “In un periodo di grave emergenza giudiziaria, in cui lo Stato dovrebbe garantire ai suoi smarriti cittadini l’accesso qualitativo e quantitativo alla giustizia, e dopo che il 15 luglio l’Europa ha notificato all’Italia l’avvio della procedura di infrazione per le reiterate violazioni ai danni dei giudici di pace e dei magistrati onorari - attaccano Olga Rossella Barone e Maria Giuseppina Spanò - la soluzione più immediata e avvincente per la ministra della Giustizia appare non quella di ottemperare a quanto richiesto, ma quella di continuare a creare figure occasionali e ancillari, così consegnando definitivamente i cittadini e l’avvocatura a una stagione di caos giudiziario che inevitabilmente si ripercuoterà anche sulla struttura economica del Paese”. I giudici onorari, infatti, hanno deciso di scioperare e di scuotere le istituzioni non solo nella speranza di essere finalmente “equiparati” ai magistrati di carriera. Il Coordinamento magistratura giustizia di pace e il Movimento autonomo giudici di pace, infatti, segnalano anche le conseguenze che la precarizzazione della loro attività può scatenare per i diritti dei cittadini e per l’economia italiana. “Mantenere la giustizia in uno stato di precarietà - proseguono Olga Rossella Barone e Maria Giuseppina Spanò - equivale a rendere precari anche i diritti dei cittadini e a privare gli imprenditori italiani e stranieri di quelle certezze indispensabili affinché essi possano investire con serenità e con profitto sul territorio nazionale”. Di qui la decisione di scioperare, dopo la protesta scatenata durante la visita della ministra Cartabia a Napoli, e di ribadire al premier Mario Draghi le richieste della categoria: subito l’inquadramento economico, assistenziale e previdenziale per i giudici di pace “in misura corrispondente alla retribuzione complessiva riconosciuta alla magistratura di carriera”. “Ho fondato i Pac e mi vergogno per il delitto di Pierluigi Torregiani” di Maurizio Caverzan La Verità, 18 settembre 2021 Intervista ad Arrigo Cavallina. “Colpire persone come lui o Sabbadin fu una mostruosità, però io ero già uscito dal gruppo e non ho mai ucciso”. “Battisti? Voleva cambiare le cose. Mi chiese di imboscarlo quando era ricercato”. Di Arrigo Cavallina colpiscono i toni sommessi e a dare giudizi definitivi. Forse è il suo modo di restituire lo sguardo misericordioso di cui egli stesso è stato oggetto non solo nei lunghi anni di carcere. Non era così il fondatore dei Pac (Proletari armati per il comunismo), il gruppo terroristico nel quale arruolò Cesare Battisti, quando lo conobbe Cesare Cavalieri, suo professore di ragioneria a Verona. Era il 1964 e i due già litigavano, stimandosi. Iscritto alla Fgci e contemporaneamente all’Azione cattolica, il ragazzo; membro dell’Opus Dei e fondatore delle edizioni Ares, il docente. Dopo il diploma, le loro strade si separarono. 11 prof. tornò a Milano e Cavallina s’immerse nella clandestinità. Vent’anni dopo, l’arresto per l’inchiesta “7 aprile” li riavvicinò. Appresa la notizia, Cavalieri scrisse all’ex allievo recluso a Rebibbia: “Sappi che non sei solo”. Ne scaturì una corrispondenza durata oltre trent’anni e ora resa pubblica con il titolo “Il terrorista e il professore - Lettere dagli anni di piombo & oltre” (Ares Edizioni). Soprattutto, ne scaturì un’amicizia grandiosa e radiosa, fatta di visite in carcere, presenza ai processi, aiuto concretissimo. Senza aver partecipato ad azioni di sangue, Cavallina detiene il primato di carcerazione preventiva, n anni dei 22 comminati, poi ridotti a 12 per indulto e buona condotta. Tornato in libertà, insieme alla moglie, Elisabetta Antolini, si dedica al volontariato fra i carcerati con l’associazione La Fraternità. Nella prefazione al libro Michele Brambilla sottolinea il mezzo del rapporto con Cavalieri: “Lettere, fogli bianchi scritti a macchina o a mano, imbustati e affrancati e poi spediti...”. Se negli anni Ottanta ci fosse stata la posta elettronica per lei che cosa sarebbe cambiato? “Con la velocità di oggi sarebbe stata una corrispondenza meno ponderata e sofferta. Una lettera scritta a penna o a macchina costringeva a pensare un po’ di più. Poi c’era l’attesa della risposta... Erano riflessioni più meditate”. Il libro s’intitola “Il terrorista e il professore”: almeno un ex davanti ci poteva stare… “All’inizio non volevo che fosse usata quella parola. Il terrorismo colpisce vittime indiscriminate, come nei casi delle bombe di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia o dell’Italicus. Poi il termine è entrato nell’uso comune, perciò ho accettato di definirmi terrorista o ex terrorista, anche se non sarebbe corretto”. Che possibilità c’è per chi ha praticato la lotta armata di costruire un futuro non definito dal passato? “Anche il passato non è definito dal fatto di essere stato terrorista e, nel mio caso, ancor meno assassino non avendo mai ucciso. La persona ha una sua complessità. Perciò non sono d’accordo nel dire che una persona è un terrorista, e basta. Quella persona è quella cosa, ma è anche quell’altra e quell’altra ancora”. Ai Pac da lei fondati si aggregò il delinquente comune Cesare Battisti. Chi è per lei Cesare Battisti? “Era un ragazzo con la voglia di cambiare le cose che soffiava nell’area comunista conosciuto nel carcere di Udine. Successivamente venne a chiedermi d’imboscarlo perché era ricercato. Lo aiutai e ci frequentammo, finché aderì alla banda nascente orientata ad azioni contro il sistema carcerario”. Tra le quali non c’era l’omicidio di Pierluigi Torregiani… “Lo dico con grande vergogna: noi pensavamo che una fascia di emarginati che rifiutavano la legalità, criminali dunque, fosse potenzialmente vicina alle nostre istanze. Si volevano colpire le persone che, come Torregiani e Lino Sabbadin, avevano osato difendersi dai rapinatori, nostri alleati in carcere. Era una mostruosità, con la quale non c’entro perché avevo già lasciato i Pac”. Nei quali ha militato dal 1978… “Eravamo anche amici oltre che combattenti. Progressivamente non mi riconoscevo e non partecipavo. In questa posizione di dissenso sono arrivato ai primi mesi del 1979, non più di un anno in totale. Non ci fu un atto formale di uscita”. Che cosa di preciso le fece prendere le distanze? “Alla base delle tesi dei Pac come le avevamo formulate io e Luigi Bergamin, mio caro amico ora in attesa di estradizione dalla Francia, c’era la critica alla dittatura della merce. Non pensavamo di conquistare il potere come le Brigate rosse, ma di renderci padroni della nostra vita. Anche oggi siamo in un sistema di bisogni indotti, allora associavamo a questa constatazione una visione marxista. L’uso delle armi doveva restare un fatto minore”. Che cosa la fece allontanare? “Quando rapinarono delle armi vidi alcuni militanti giocarci felici. Per loro l’arma era una cosa bella, per me una necessità tristissima”. Cosa suscitò in lei la prima lettera di Cavalieri? “Grande stupore. Ero contento di aver ritrovato una persona che stimavo. Mi colpì così profondamente che gli risposi aprendogli il cuore”. Ma scrivendo: “Leggo con un’insanabile riserva mentale”… “Dopo aver sbagliato abbracciando un’idea totalizzante, avevo forte timore di ripetere lo stesso errore aderendo a un’altra certezza”. Guardare il proprio passato “come in uno specchio rotto” nel quale non ci si riconosce è l’effetto dell’ideologia? “Quando mi chiedevo che cosa c’è all’origine del mostro, di quello che non mi andava di me stesso, l’ideologia era la risposta che mi davo. Ideologia è una parola piena di significati, ma se vogliamo condensare è quella giusta”. Come superare “lo scandalo di me che mi riempie”? “Continuavo a chiedermi: nel processo si può essere sinceri? Posso dire quello che non è vero ai fini della difesa processuale? Posso reggere il peso della menzogna davanti alle persone a cui voglio bene e che mi aiutano? Alla fine ho concluso che m’importava di più essere me stesso. E il processo vada come vada”. Molto duro il suo giudizio sul pentimento che si traduce in meno carcere per il collaboratore di giustizia a fronte di più carcere per altri terroristi… “È un giudizio duro sul pentimento come calcolo, ma non sempre è questo. Bisogna capire le debolezze e le motivazioni. Ci sono persone che hanno detto cose vere. Approvo la rivelazione che impedisce ad altri di continuare nel reato ed evita la soppressione di altre vite”. Nell’impegno per la dissociazione, oltre il dualismo tra irriducibili e pentiti, quale risultato è stato più importante? “Essere riusciti a far passare l’idea che una pena retributiva, rendere male per male, induce alla menzogna. Possiamo fare l’esempio di Cesare Battisti. Noi sosteniamo un valore riparatorio della pena. Se so che per ciò che ho fatto non mi viene restituito altrettanto male, non ho difficoltà a riconoscere la verità. La pena riparativa può essere un aiuto a ricostruire una nuova identità”. Perché nella cronologia degli anni di piombo compare l’incontro in carcere tra Giovanni Paolo II e Ali Agca? “Ciò che Giovanni Paolo II ha fatto e detto è stato importantissimo per me. Il tema del perdono è centrale anche nella corrispondenza con Cavalieri. Nel discorso ai detenuti di Rebibbia il Papa affermò la dignità compiuta di ogni persona. Fu sconvolgente: per gran parte della magistratura e del sistema carcerario noi coincidevamo con i nostri reati”. Chi avversava il movimento per la dissociazione? “Il maggior riconoscimento è venuto dagli ambienti cattolici. Le figure della riconciliazione sono state Giovanni Paolo II, il cardinal Carlo Maria Martini, monsignor Luigi Di Liegro, il cappellano di San Vittore e don Matteo Zuppi, allora pretino della comunità di sant’Egidio”. E le resistenze? “Erano maggiori da parte comunista. Anche se Leda Colombini e Angiolo Marroni, vicepresidente della regione Lazio, aiutarono a costruire un ponte tra società e carcere”. Nelle corti giudicanti e in genere nella magistratura? “Noi pensavamo che dietro le posizioni più dure, come quelle espresse nel teorema Calogero, ci fosse il Pci. Ma forse c’entravano le persone più che l’appartenenza”. In risposta a una delle prime lettere di Cavalieri che le suggerisce la necessità di un confronto con un Giudice che contempla il perdono lei sottolinea di non avvertirne il bisogno… “Poi, invece, è diventata la cosa più importante su cui ho riflettuto. Ci ho fatto la tesi di laurea e scritto un libro. È l’argomento di cui cerco di parlare quando vado nelle scuole”. Cavalieri la invita a confessarsi dicendo che la verità esistenziale la aiuterà ad affrontare quella processuale. Non trovava troppo insistenti queste esortazioni? “Al contrario, le ho stimate perché erano dimostrazioni di affetto. Da un lato era giustamente insistente su ciò che secondo lui era il mio bene. Dall’altro mi diceva di sentirmi libero nell’aderire o no. È stata una bella lezione, l’antitesi del settarismo”. Il suo blocco riguarda soprattutto il sacramento della confessione: che cosa glielo fa superare? Nel libro non lo esplicita... “Non voglio avvalorare l’idea della conversione come spartiacque, odi qua o di là. La conversione è una ricerca con delle certezze. La prima delle quali è la persona di Gesù Cristo: questa è la strada che voglio percorrere”. Riferendosi a Cavalieri, scrive: “Qualcuno deve volermi molto bene per avermi mandato uno come te”… “Me lo dico spesso, non solo a proposito di Cesare, ma anche di mia moglie Elisabetta”. Molti ex terroristi hanno trovato nella Chiesa un interlocutore per il proprio cambiamento. Chi ha coagulato l’intellighenzia degli appelli ha scelto di restare nel territorio dell’ideologia? “Ognuno ha scelto una propria strada. Alcuni hanno cercato un significato profondo e altri sono rimasti più in superficie, parliamo di un movimento di migliaia di persone. Una certa intellighenzia ha creato una rete di solidarietà, anche questo può essere un calcolo. Tuttavia, non possiamo sapere se uno, dentro di sé, è cambiato. Molti di coloro che si sono rifugiati all’estero hanno cercato di presentarsi come perseguitati politici e di non ammettere reati gravi per non rischiare l’estradizione”. Perché a suo avviso in Italia il Sessantotto è durato alcuni decenni? “L’ho vissuto poco, per me il Sessantotto era già in ritardo, non lo vedevo come una liberazione. La cosa che mi colpisce di più è la pretesa del marxismo: un’ideologia durata un secolo che, appena ha provato a misurarsi nelle sue conseguenze con la realtà, è crollata”. Ue, violenza di genere tra gli eurocrimini di Giovanna Casadio La Repubblica, 18 settembre 2021 Picierno: “Una vittoria: così i femminicidi saranno al pari di terrorismo e mafia. Lega e FdI astenuti”. La risoluzione approvata dal Parlamento europeo. Soddisfatta la deputata dei “Socialisti e democratici” a Strasburgo che si è spesa per convincere anche i conservatori a votare a favore: “È il riconoscimento che questa è una delle emergenze prioritarie per l’Ue e per tutti gli Stati membri”. “È un grande risultato: il Parlamento europeo ha incluso la violenza di genere tra gli eurocrimini, cioè i reati su cui la Ue ha competenza. Quindi i femminicidi saranno al pari del terrorismo, della tratta, della mafia, del riciclaggio. I colleghi di Fratelli d’Italia e Lega si sono astenuti con la scusa vergognosa che s’ introduceva il concetto di genere”. Pina Picierno è la deputata dei “Socialisti e democratici” a Strasburgo che, nelle commissioni prima, e poi alla vigilia dell’aula, si è spesa per convincere anche i conservatori a votare a favore. Picierno, è soddisfatta? “È un primo passo. Un buon successo perché la risoluzione è passata con 427 voti a favore. Per parte mia sono andata a cercare tutti, a uno a uno anche nelle file degli incerti e dei contrari. Con la risoluzione si propone di modificare l’articolo 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, chiedendo alla Commissione Ue di includere la violenza di genere tra gli eurocrimini, quei reati cioè che vanno combattuti su base comune come il traffico di esseri umani, di droga, di armi, il crimine informatico, il terrorismo, la criminalità organizzata”. Maggioranza ampia, con 427 a favore. “Infatti, una larghissima maggioranza che è davvero una vittoria. Ma nonostante una lista di donne morte ammazzate che In Italia ha raggiunto 84 nomi nel 2021, appena poche ore fa Alessandra Zorzin uccisa nel vicentino e malgrado ogni sei ore una donna venga ammazzata in Europa, malgrado questa mattanza, questo massacro, i leghisti e FdI si sono astenuti, mentre i forzisti si sono divisi”. In genere i conservatori non erano favorevoli. Come mai? “L’alibi, a mio parere inaccettabile, è che si introduce il concetto di genere. Ma le violenze crescono: sono violenze psicologiche e il femminicidio è l’epilogo tragico”. Che le istituzioni reagiscano è necessario: devono essere investite della questione? “Certamente. Rappresenta un segnale della volontà dei cittadini europei. La violenza di genere è un’emergenza. Non è un problema che riguardi solo le donne in quanto vittime, ma è un tema sociale e politico che concerne la stessa definizione della nostra civiltà. Il valore di questo voto a Strasburgo è il riconoscimento che questa è una delle emergenze prioritarie per l’Ue e quindi per tutti gli Stati membri”. Ora quali altri passi occorrono? “La palla passa al consiglio europeo, perché modificare un Trattato comporta una procedura non semplice. Ma Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha ribadito che Bruxelles si impegna a presentare una direttiva sulla violenza di genere. Importante che ci sia una definizione giuridica univoca e delle pene e condotte di base uguali per tutti i Paesi Ue”. Perché? “Significa avere una cassetta degli attrezzi aggiornata che permetterà di combattere tutte le forme di violenza di genere”. Ma sul piano culturale cosa fare? “Non c’è dubbio che la questione culturale è gigantesca. Avere affrontato la parte normativa serve a sottolineare la priorità. Però è necessaria, urgente una educazione all’affettività. Sin dalle scuole elementari. La violenza di genere, i femminicidi sono questioni di cittadinanza. Rifletto sul fatto che donne di diversi Paesi, con libertà, diritti civili diversi, siano drammaticamente accomunate dall’essere oggetto di violenza. È insopportabile”. Veneto. Il Garante regionale chiede urgente nomina dei direttori delle carceri redattoresociale.it, 18 settembre 2021 L’avvocato Caramel ha spiegato le urgenze negli Istituti penali Veneto al ministro Cartabia durante l’incontro con tutti i Garanti delle persone private della Libertà. Si è svolto a Roma, presso il Ministero della giustizia, l’incontro fra la Ministra Cartabia e i garanti, nazionale e regionali, delle persone private della libertà personale. All’incontro, coordinato dal garante nazionale, prof. Palma, hanno presenziato anche il Capo dipartimento della giustizia minorile e di comunità, dott.ssa Tuccillo, e il Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dott. Pertralia. I temi affrontati hanno avuto riguardo, anche alla luce del recente caso di Santa Maria Capua a Vetere e della peculiare situazione dovuta al Covid 19, alle pressanti problematiche che affliggono, sotto vari aspetti, il sistema penitenziario italiano. In tale occasione il Garante regionale per il Veneto, avv. Mario Caramel, in merito alle questioni di carattere generale ha ritenuto opportuno porre l’accento sull’urgenza in Veneto di dare stabilità, con la nomina dei direttori, agli istituiti assegnando le sedi vacanti oggi coperte da reggenti, anche alla luce del fatto che nelle sedi ove vi sono i titolari questi sono sovraccaricati da più reggenze in altri istituiti. L’avvocato Caramel, a fronte della proposta di un collega garante di altra regione tesa a prospettare un ritorno nelle carceri alla sanità statale, ha ritenuto opportuno evidenziare che nel Veneto il Servizio Sanitario Regionale sta svolgendo egregiamente tale ruolo da oltre un decennio con plauso personalmente riscontrato, nelle visite alle strutture, anche dei vertici degli istituti di pena palesatisi, non solo per l’aspetto sanitario, disponibili alla massima collaborazione con le istituzioni locali. Per quanto riguarda la situazione specifica del Veneto, l’avv. Caramel ha ribadito la criticità, sotto l’aspetto della situazione dell’edificio e degli spazi, dell’Istituto Penale Minorile di Treviso, luogo di detenzione per i minori del Triveneto, che secondo i programmi ministeriali dovrebbe essere trasferito nell’ex casa circondariale di Rovigo previa ristrutturazione di tale edificio. A tal proposito la dott.ssa Tuccillo ha garantito che tale situazione è ben conosciuta e che, ora che è passata la fase critica del Covid 19 che ha rallentato le operazioni, è attualmente posta nelle priorità del suo dipartimento”. Sardegna. Sono tanti i detenuti in Alta sicurezza e al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2021 Molto critica la situazione sanitaria e la regione è l’unica a non avere un Garante. Un suicidio e la protesta nonviolenta dei detenuti in As3 del carcere di Massama come riportato su questa stessa pagina de Il Dubbio, riapre di nuovo la questione della Sardegna. L’ unica regione italiana a non avere un garante dei detenuti, nonostante sia una regione dove i circuiti penitenziari sono complessi e pieni di gravi criticità. A partire dalla sanità nelle carceri, una vera e propria emergenza considerando anche che il maggior numero dei detenuti nelle strutture isolane sono anziani, dunque, con tutte le problematiche legate all’età. La Sardegna si caratterizza per un numero elevato di Istituti di pena, superiore alle esigenze territoriali. Inoltre, è stato scelto di trasferire e concentrare nelle strutture detentive dell’isola un gran numero di persone detenute in regime di Alta sicurezza, nonché un numero consistente di coloro che sono detenute in regime del 41 bis, anche cambiando la missione di taluni di essi come per esempio il carcere di Massama che ospita ormai quasi esclusivamente detenuti in Alta sicurezza. Nonostante la forte presenza - come già di un elevato numero di persone detenute in questi regimi “speciali”, nella Regione non è disponibile un SAI che possa essere utilizzato a tutela della loro salute. Fatto, quest’ultimo, ribadito due anni fa dal Garante nazionale delle persone private della libertà. Una regione che, di fatto, raccoglie numerosi detenuti in alta sicurezza provenienti da tutto il territorio italiano. Il Garante nazione, infatti, nel suo ultimo rapporto, ha osservato che questa peculiarità rischia frequentemente di determinare la compressione di diritti fondamentali quali quello alla salute, al mantenimento delle relazioni affettive, all’accesso a piani trattamentali individualizzati, all’espressione della propria pratica religiosa. Per questo, sempre il Garante, ha raccomandato al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria la considerazione soggettiva delle persone assegnate a Istituti della Sardegna in funzione della collocazione più consona ai singoli percorsi riabilitativi e la valutazione delle richieste di trasferimento, anche temporaneo, in termini tali da non pregiudicare i diritti fondamentali della persona in favore di esigenze di sicurezza altrimenti perseguibili. E a proposito del carcere di Massama, sempre due anni fa, il Garante ha rilevato la permanenza di criticità di natura strutturale, della carenza delle offerte formative e trattamentali, dell’assenza di una Direzione stabilmente ed esclusivamente applicata all’Istituto, della restrittività dell’Amministrazione nella considerazione delle esigenze di trasferimento, anche soltanto temporaneo, connesse a ragioni di salute. Ciò nel contesto delle difficoltà intrinseche alla distanza geografica delle persone detenute rispetto ai riferimenti familiari e affettivi. A leggere la lettera odierna dei detenuti, sembrerebbe che dopo due anni, ancora non è stato risolto nulla. Calabria. Siviglia incontra Cartabia: richieste per il sistema penitenziario calabrese citynow.it, 18 settembre 2021 Il Garante regionale dei detenuti ha incontrato il ministro della Giustizia. Il punto sulla situazione del sistema penitenziario in Calabria. Lo scorso 16 settembre si è tenuto presso la Sala Manzo del Ministero della Giustizia l’incontro del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, con la Signora Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, i Garanti regionali ed una rappresentanza dei Garanti territoriali, incentrato sulle azioni, le criticità e i punti positivi del sistema penitenziario nei territori di rispettiva competenza. All’incontro hanno partecipato anche il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia ed il Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, Gemma Tuccillo. “Si è trattato di un confronto molto positivo”, ha detto il Garante regionale della Calabria, Agostino Siviglia, che è intervenuto nel corso dei lavori, rappresentando alla Signora Ministra della Giustizia le principali problematiche, ma anche i punti positivi, del sistema penitenziario calabrese. “Ho evidenziato alla Signora Ministra la necessità di un intervento interministeriale, del Ministero della Giustizia e di quello della Salute, per regolamentare in maniera cogente l’assistenza sanitaria in carcere che, specie in Calabria, costituisce una delle principali problematiche, ancor più dopo il passaggio, nel 2008, della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale. In una Regione commissariata da oltre due lustri, per vero, il diritto alla salute non viene garantito adeguatamente, tanto fuori quanto dentro le mura di un carcere, purtroppo. Le morti di Pasquale Francavilla a Cosenza e di Michele Carosiello a Catanzaro, sulle quali stanno indagando le rispettive procure di competenza, chiamano lo Stato ad una ineludibile assunzione di responsabilità in ordine alla tutela del fondamentale diritto alla salute delle persone detenute”, ha affermato Agostino Siviglia, che proprio nei giorni scorsi si è recato presso i due istituti penitenziari di Catanzaro e Cosenza per acquisire tutte le informazioni del caso e predisporre gli interventi di propria competenza. Il Garante calabrese ha poi chiesto un intervento diretto della Signora Ministra per altre tre questioni afferenti il sistema penitenziario calabrese: innanzitutto, sulla mancata apertura della Rems di Girifalco (CZ), i cui lavori di ristrutturazione sono ormai terminati e che per le inefficienze del Dipartimento regionale della salute, ancora, non riesce ad avviare le indispensabili attività funzionali; poi, sull’interruzione dell’attività del Mandela’s Office-Ufficio per la Giustizia Riparativa di Reggio Calabria, che per responsabilità dell’amministrazione comunale reggina, che non riesce neanche ad assicurare il pagamento delle utenze all’interno dell’immobile di via Diana 3, confiscato alla criminalità organizzata, è chiuso ormai da oltre tre anni; infine, ma non di minore importanza, il Garante regionale della Calabria ha chiesto alla Signora Ministra un intervento per l’immediata interruzione dell’applicazione delle schermature in plexiglas alle finestre delle celle del carcere di Cosenza, previste per motivi di sicurezza, ma che non lasciano trasparire la luce, oscurano la vista e rendono l’aria asfittica, integrando così gli estremi di quei fattori negativi previsti in violazione dell’art. 3 della Cedu, in tema di trattamenti inumani e degradanti. Il Garante Siviglia ha poi evidenziato fra i punti positivi l’istituto a custodia attenuta di Laureana di Borrello (RC), fortemente voluto dal compianto Provveditore Paolino Quattrone, che restituisce senso e dignità all’esecuzione della pena. La Signora Ministra della Giustizia ha seguito con grande attenzione l’intervento del Garante regionale della Calabria, assicurando una costante interlocuzione nell’ottica della risoluzione delle questioni poste. “Nel ringraziare la Signora Ministra della Giustizia ed il Garante nazionale per l’invito all’incontro e per l’attenzione riservata, che lascia ben sperare per il futuro, Agostino Siviglia nel terminare il suo intervento ha auspicato proprio che, attraverso un comune impegno quotidiano, si possa davvero restituire un futuro migliore alla Calabria, anche e non marginalmente, in tema di giustizia e di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale e magari, un giorno alla volta, rendere il futuro più presente, del resto la miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta”, ha concluso il Garante regionale. Foggia. Suicidio nel carcere, detenuto si toglie la vita nella sua cella foggiatoday.it, 18 settembre 2021 Nelle carceri pugliesi si tratta del terzo recluso deceduto in pochi giorni. Ieri pomeriggio un recluso si è tolto la vita impiccandosi all’interno della cella in cui era ristretto. Lo comunica Fs Co.sp. Coordinamento sindacale penitenziario. Immediato è scattato l’allarme lanciato dall’agente di sezione che nel frattempo si era recato in cella per un controllo. A nulla sono valsi i tentativi da parte del personale di polizia e medico di salvarlo, nonostante l’intervento tempestivo. Il detenuto era privo di vita. Nelle carceri pugliesi si tratta del terzo recluso deceduto in pochi giorni, “una sconfitta dello Stato” scrive Mimmo Mastrulli: “Serve un cambio di passo, un segnale forte e radicale da parte delle istituzioni centrali e regionali dell’amministrazione penitenziaria” nel penitenziario di Foggia dove nel marzo 2020 ci fu una sommossa e l’evasione di una settantina di reclusi tra cui anche noti e pericolosi criminali. La federazione sindacale Co.s.p. ha chiesto che le unità del ruolo ispettori e sovrintendenti siano impiegate nei reparti anche in sovrannumero, se necessario, ma non negli uffici amministrativi e di segreteria della direzione. “In Puglia mancano oltre 1.000 unità rispetto ai 2.700 poliziotti in servizio. I detenuti superano le 4.100 persone contro le 2.400 regolamentari in 12 strutture carcerarie e il sovraccarico per ogni singolo agente di polizia va oltre ogni misura della reclamata qualità della vita” evidenzia Mastrulli. Nel corso della Tavola Rotonda che si è svolta in Senato il 9 settembre scorso indetta dal gruppo Camera e Senato i FdI e il sindacato Co.s.p, attraverso una interpellanza parlamentare in corso di deposito alla ministra della Giustizia Cartabia, hanno chiesto provvedimenti urgenti e radicali, a partire dalla sostituzione, se necessari per una svolta, di dirigenti e funzionari. Oristano. Detenuto suicida nel carcere di Massama linkoristano.it, 18 settembre 2021 La vicenda risale allo scorso mese di agosto, ma è stata resa nota nelle ultime ore dopo la protesta di 160 reclusi. Un detenuto si è tolto la vita nel carcere di Massama. La notizia è stata resa nota dall’emittente Radio Radicale nel corso della trasmissione Radio carcere, condotta da Maurizio Arena e andata in onda ieri sera. Arena ha dato lettura di una lettera inviata da una persona reclusa nell’istituto di detenzione oristanese, Gianfranco, e confermato che lo scorso mese di agosto nel carcere di alta sicurezza si è verificato un suicidio. A quanto si è appreso successivamente, a togliersi la vita sarebbe stato un detenuto sardo che aveva già manifestato problemi di salute. La notizia arriva a poche ore dall’annuncio della protesta di 160 detenuti che proprio da Massama hanno lanciato un appello rivolto al capo dello Stato Sergio Mattarella e alla ministra della giustizia Marta Cartabia. Minacciano lo sciopero della fame e della sete se non saranno attuati immediati interventi per risolvere numerosi problemi che rendono molto difficile la vivibilità all’interno del carcere. Tra questi le infiltrazioni d’acqua dal tetto e l’insufficienza di spazi. Proprio i problemi di vivibilità sono stati evidenziati ieri sera da Radio Radicale. Nella trasmissione Radio carcere, ancora il conduttore Maurizio Arena, dando conto sempre della lettera ricevuta dal detenuto Gianfranco, ha spiegato che a Massama nelle celle vengono ospitati tre detenuti e non due come previsto: se uno dei tre si deve muovere, costringe gli altri due a stare a letto. Oristano. L’inferno di Massama: 20 ore al giorno in celle allagate e strapiene di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2021 Acqua che perde dal soffitto e costretti a vivere con i secchi per evitare di essere allagati, celle sovraffollate, citofoni che non funzionano e quindi se di notte qualcuno si sente male rischia di non essere soccorso, muffa e umidità, zero attività trattamentali. Parliamo della denuncia sottoscritta da un centinaio di detenuti del carcere di Oristano- Massama, proprio due giorni fa si è avuta notizia di un detenuto che si è suicidato ad agosto. Notizia resa nota da Radio Radicale nel corso della trasmissione “Radio carcere”, condotta da Riccardo Arena. “Siamo stanchi di subire, ingiustamente, restrizioni e privazioni di ogni tipo in modo del tutto gratuito. Sia ben chiaro, non chiediamo niente di straordinario. Chiediamo solo di vivere i giorni, o anni che siano, in modo dignitoso e con il rispetto della persona!”. Questo scrivono i detenuti del carcere di Massama, ad Oristano, allocati al reparto di Alta Sicurezza (AS3). Sono pronti allo sciopero della fame e della sete per far rispettare i loro diritti, quelli minimi e garantiti dalla nostra costituzione. Lo fanno sapere tramite una lettera inviata alle istituzioni, dal presidente della Repubblica al ministero della Giustizia. Lettera che ha ricevuto anche Il Dubbio. I detenuti sottolineano che il carcere sardo di Massama ospita la stragrande maggioranza dei condannati in via definitiva e per questo dovrebbe prevedere una vasta offerta di attività formative, lavorative e ricreative, in modo tale da favorire il recupero del reo. Purtroppo i detenuti denunciano che restano comunque chiusi in cella venti ore su ventiquattro. Le celle, dicono, sono occupate da tre persone mentre ne potrebbero ospitare al massimo due. Per potersi muovere all’interno di esse, hanno bisogno di montare i letti a castello. “Ma, cosa molto più squallida - aggiungono -, è che molte delle camere perdono acqua dal soffitto. Siamo costretti a vivere e dormire con dei secchi in mezzo alla stanza in modo tale da recuperare l’acqua delle perdite ed evitare di allagarci”. Lanciano l’allarme di un pericolo costante di corti circuiti perché la maggior parte delle perdite provengono dai neon che illuminano la stanza. “La muffa e l’umidità ormai fanno parte del nostro quotidiano”, scrivono nero su bianco. Come se non bastasse, i citofoni che servono per chiamare l’agente di sezione, non funzionerebbero da una vita. “Di notte - si legge sempre nella lettera - se qualcuno di noi si sente male è costretto a gridare per farsi sentire svegliando l’intera sezione. Ovviamente il problema è stato fatto notare, ma i citofoni continuano a non funzionare!”. L’unica attività concessa è la scuola che attualmente però sarebbe chiusa a causa del Covid. “Da premettere - sottolineano i detenuti dell’AS3 - che quando ci è possibile svolgere l’attività scolastica veniamo chiusi a chiave, nell’aula, nonostante il docente sia un civile. Non ci è permesso svolgere attività sportive se decidiamo di andare a scuola”. Infatti, per recarsi al passeggio, fare due passi oppure andare a fare una partita al calcetto, i detenuti si ritroverebbero costretti a rifiutare la scuola. “La stessa cosa vale per la palestra, se così la vogliamo chiamare: non c’è un solo attrezzo che funzioni, non c’è un bagno all’interno della stessa. Ce n’è uno adiacente, ma ci chiudono a chiave quando potrebbero chiudere la porta esterna del corridoio e permetterci così di usufruire del wc Perché non ci è permesso?” si domandano. Come se non bastasse, i bagni del passeggio sarebbero otturati da mesi e mesi. In estate, sarebbero stati costretti a rimanere chiusi in celle roventi che hanno raggiunto temperatura insostenibile. I detenuti dicono che gli è stato consentito l’acquisto di un piccolo ventilatore di quattro euro che funziona con batterie mini stilo ed è composto da due eliche. Una denuncia che viene raccolta e rilanciata da Maria Grazia Caligaris dell’associazione di volontariato “Socialismo Diritti Riforme”. “Se queste sono le condizioni - sottolinea l’esponente di Sdr - è evidente che si rappresenta una vita fuori da quei canoni costituzionali che dovrebbero garantire ai detenuti una riabilitazione utile alla società. Troppo spesso infatti si dimentica che trascurare i momenti di formazione, di lavoro, di svago dentro una struttura destinata a far vivere e apprezzare la legalità significa contraddire la finalità del ruolo del Penitenziario”. Avellino. Due bambini nati in carcere a Lauro e a dicembre ci sarà il terzo fiocco di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 18 settembre 2021 Ciambriello: “La maternità non si può conciliare con il carcere, per me è un ossimoro”. “Negli ultimi mesi due detenute di Lauro sono diventate mamme in carcere, la prima a giugno ha partorito Alessio all’ospedale di Avellino, l’altra lunedì scorso ha partorito Alex all’ospedale di Nola. Entrambi i bambini stanno bene. Un’altra donna è incinta e a dicembre diventerà mamma in carcere. Mi chiedo, un reato di furto, anche di 100 euro, può essere espiato in carcere o ci sono misure alternative? Io credo che quanto prima bisogna far uscire le mamme e i figli dalle carceri in strutture residenziali, e vorrei tanto che lo Stato e le Istituzioni si occupassero di queste mamme prima di entrare in carcere”, così Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, all’uscita Dell’istituto a custodia attenuata per detenute madri di Lauro. La visita ha dato possibilità di incontrare singolarmente nei loro mini appartamenti le mamme con i figli, farsi raccontare i loro problemi. Per l’occasione sono stati regalati ai bambini materiale scolastico e vestiti. L’istituto, diretto da Paolo Pastena, che è anche direttore del carcere di Avellino, oltre che con la cooperativa “Eco” per la quale 10 giovani con turni mattutini e pomeridiani svolgono il servizio civile, è impegnato in altri progetti trattamentali finanziati dall’amministrazione penitenziaria, quali “Mondo incantato” e “Bambini in movimento” (che hanno lo scopo di tutelare e rafforzare la genitorialità prevedendo la partecipazione sia di mamme che di bambini). Ciambriello osserva: “In questo istituto la stragrande maggioranza di agenti, 24 su 34, sono di sesso maschile, e credo che sia opportuno che vi sia un rafforzamento di personale femminile, e inoltre che sia rafforzata la presenza costante di pediatra, ginecologo/a e psicologo/a”. Nell’Istituto di Lauro ci sono 14 donne con 15 bambini, 3 dei quali frequentano l’asilo, 3 le scuole elementari, alcune mamme invece frequentano il corso di alfabetizzazione ed altre il biennio scuola superiore. Il Garante campano Ciambriello così conclude: “Mi auguro che quanto prima si arrivi alla riforma della legge 62/2011 (istitutiva degli Icam) con primo firmatario il deputato napoletano Paolo Siani. Mi auguro altresì che, dopo il finanziamento messo in campo dal Governo per istituire case famiglia protette, la conferenza Stato - Regioni metta in campo al più presto standard minimi di accesso per la creazione di queste strutture e che in Campania siano almeno 2 visto che siamo la Regione con il più altro numero di detenute madri negli Icam. Sapere che per molte di queste donne i loro figli vengono vaccinati, vanno all’asilo e alle elementari solo quando entrano in carcere è un paradosso, e credo che occorrerebbe far qualcosa prima. È un ossimoro far vivere la maternità in carcere poiché la tutela degli affetti, l’educazione dei figli è incompatibile con il carcere” Bologna. Dozza, non ancora operativa la sezione nido del carcere bolognatoday.it, 18 settembre 2021 “Puntare su altre strutture esterne”. “Non si può non fare, non agire - è la sollecitazione della garante regionale dell’infanzia, Clede Maria Garavini- il testimone deve passare alla prossima amministrazione del Comune di Bologna”. Inaugurata ma non ancora aperta la sezione nido del carcere della Dozza di Bologna, varata lo scorso luglio, e quindi non ancora operativa. “Nessuno si augura venga usata più di tanto, in realtà, ma manca ancora “un passaggio con le organizzazioni sindacali e la Polizia penitenziaria - spiega alla Dire la direttrice della casa circondariale Rocco D’Amato, Claudia Clementi - perché gli spazi necessitano di un posto di servizio della Polizia ulteriore” e dedicato. La riunione è già convocata e le previsioni sono di poter “comunicare la partenza entro fine mese, per poi procedere a eventuali assegnazioni” delle sezioni a mamme con bambini fino ai tre anni- aggiunge Clementi, in occasione della commissione in Comune che due giorni fa ha fatto il punto sulla questione. Come ribadito più volte anche durante l’inaugurazione degli spazi, nessuno tra garanti e rappresentanti delle istituzioni vede nelle due stanze, allestite comunque con tutti gli accorgimenti possibile, la giusta soluzione per la vita di mamme detenute con figli: bisognerebbe puntare su altre strutture esterne per evitare in ogni modo la presenza di bambini e bambine all’interno di quella penitenziaria, a partire dalle case-famiglia protette per detenute madri, in custodia cautelare o in espiazione di pena definitiva. “Questa è la soluzione privilegiata - ribadisce Marcello Marighelli, garante regionale delle persone private della libertà - che aggiunge “l’’urgenza di ripartire territorialmente gli 1,5 milioni di euro previsti all’anno, per tre anni, appositamente. Si tratta di fondi previsti dalla legge di Bilancio 2021 che però, al momento, non sono ancora stati sbloccati”. Antonio Ianniello, garante delle persone private della libertà del Comune di Bologna, chiede un’azione tempestiva per poter “sfruttare i 4,5 milioni di euro totali. L’autorità nazionale di garanzia per l’infanzia e l’adolescenza ha chiesto un aggiornamento al Governo”, ma la tappa successiva sarà un impegno da parte delle istituzioni regionali e locali. “Non si può non fare, non agire- è la sollecitazione della garante regionale dell’infanzia, Clede Maria Garavini - il testimone deve passare alla prossima amministrazione del Comune di Bologna”. Su questa priorità - prosegue la nota della Dire - si dice d’accordo anche il consigliere Pd Francesco Errani, che butta giù una serie di punti chiave: “Garantire ai minori l’accesso a scuola e a servizi territoriali e di quartiere, portare avanti una collaborazione con le associazioni e le realtà già attive sul territorio, come anche le strutture del privato sociale che possono mettersi a disposizione”. La letteratura scientifica e le leggi tracciano la linea per soluzioni alternative alle sezioni nido, anche perché “i casi di recidiva di mamme con bambini in carcere non sono pochi- ricorda Marighelli - meglio puntare su strutture che possano mettere in contatto con i servizi sociali”. E poi ci sono i risvolti sulla crescita dei minori: “In un luogo come quello del carcere, con persone autoritarie che esercitano un potere sulle loro stesse madri e che in un certo modo violano la loro intimità, provoca una ferita all’immagine che il piccolo ha di sé e delle proprie possibilità”, conclude Garavini. Firenze. A Sollicciano più che il cemento serve un ponte Corriere Fiorentino, 18 settembre 2021 Il carcere di Firenze è nato male e vive peggio. Com’è costume di ogni fallimento, s’ipotizza continuamente di costruire un nuovo istituto di detenzione. Un progetto in realtà non c’è, però se ne parla come fosse qualcosa di inevitabile. Il fato penitenziario, quando entra in crisi, ricorre invariabilmente a strategie comunicative ambigue. I tre pilastri dell’emergenza carceraria sono declinati in quest’ordine: edilizia penitenziaria, incentivo alle misure alternative, incremento del personale di polizia. Il nostro problema non è però sapere quale sarebbe il sistema penale ideale. Il nostro compito è, piuttosto, quello di mettere in luce le contraddizioni di un sistema che, per esempio, spinge per l’edilizia penitenziaria da un lato e dall’altro per le misure alternative. Noi non siamo portatori di speranza e cerchiamo di osservare la realtà del nostro sistema di pena per quello che è, nella sua agghiacciante quotidianità. Il carcere è il risultato finale di questo processo, il calcestruzzo per costruire nuovi padiglioni la sua ragion d’essere e la marginalità sociale la sua carne viva. Il sovraffollamento carcerario è un’emergenza che non avrebbe ragione di esistere se fossero applicate le leggi in vigore nel nostro ordinamento per l’esecuzione esterna di pena. La nostra giustizia, però, è di classe. Lo dicono le statistiche. È secondo la classe cui si appartiene, secondo le proprie possibilità finanziarie, secondo le posizioni sociali che si occupano, che si ottiene giustizia. Non serve costruire un nuovo carcere a Firenze, e non servono neanche nuovi padiglioni. Occorre solo guardare in faccia la realtà, e lavorare per costruire un rapporto diverso con la stessa città di Firenze. L’articolo 27 della nostra Costituzione dovrebbe essere applicato nella sua semplice e densa progettualità, dando vita al recupero, alla risocializzazione, alla responsabilizzazione dell’individuo e alla riparazione del danno, sconfiggendo così le sirene della punizione e della rieducazione come elementi storici dell’esecuzione di pena nel nostro ordinamento. Occorre, dunque, creare un ponte fatto di idee e di progetti concreti per una continua interazione tra Sollicciano e Firenze, e tra la città e il carcere. Lo Stato e gli enti territoriali potrebbero fare la loro parte potenziando la magistratura di sorveglianza, l’esecuzione penale esterna e le strutture di accoglienza per i semiliberi. Così facendo, si potrebbe davvero porre fine al sovraffollamento e risolvere la situazione di permanente sotto organico di tutti i corpi funzionali del carcere: polizia penitenziaria, personale amministrativo e sanitario, rieducatori. È una strada da seguire, che oltretutto aiuterebbe ad alleggerire le sezioni per ripararne anche le mura, i corridoi, le celle e le fondamenta. Un’opera lunga e faticosa, meno, però, della costruzione di un nuovo istituto. E più economica. Oggi tira una brutta aria a Sollicciano, un’aria che puzza di calcestruzzo. Anche in città, però, si respira una brutta aria. Firenze si è trasformata in una sorta di recinto per il consumo diffuso, dove chi non si adegua viene spinto ai margini. Le trasformazioni corrono veloci. Noi nutriamo la ragionevole illusione che dalla ristrutturazione del carcere di Sollicciano (e non dalla costruzione di un nuovo carcere) possa partire una stagione di rinnovamento dei diritti individuali e sociali per impedire che la sorveglianza carceraria, grazie a nuove tecnologie politiche, si dilati all’intero corpo della società e per dare senso compiuto all’articolo 27 della Costituzione italiana. Giovanni Michelucci progettò il Giardino degli Incontri per rendere meno disumano l’ambiente architettonico di quell’istituto. Noi vogliamo costruire un Giardino degli Incontri grande come l’intera città, che modelli una nuova cultura nella direzione dell’inclusione sociale e di misure alternative riparative. Sottoscrivono: Massimo Lensi, Dmitrij Palagi, Grazia Galli, Emanuele Baciocchi, Sandra Gesualdi, Antonio Iocca, Antonella Bundu, Donella Verdi, Sergio Staino, Tomaso Montanari, Simone Maggiorelli, Maria Milani, Valentina Adduci, Serena Pillozzi, Maurizio Brotini, Roberto Di Loreto. Trento. La Garante dei detenuti dalla ministra Cartabia: “Mancano agenti e educatori” giornaletrentino.it, 18 settembre 2021 Antonia Menghini ha presentato le difficoltà della struttura di Spini: troppi avvicendamenti alla direzione, così non si può progettare. Le principali criticità che affliggono la casa circondariale di Spini di Gardolo sono state illustrate ieri (16 settembre) dalla Garante dei diritti dei detenuti del Trentino Antonia Menghini nel corso di un incontro con la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Menghini ha rimarcato che dal novembre 2019 la direttrice della casa circondariale di Spini di Gardolo, Annarita Nuzzaci, ha riassunto anche la direzione della casa circondariale di Bolzano, senza contare il numero rilevante di avvicendamenti alla direzione che hanno caratterizzato i primi dieci anni di vita dell’istituto di Spini “dove di fatto è sempre mancata, salvo che per brevi periodi, una direzione in grado di garantire una progettualità di lungo periodo”. “Altrettanto deficitari - ha aggiunto la Garante - risultano essere i ruoli dei funzionari giuridici pedagogici, senza il lavoro dei quali non è pensabile la predisposizione del programma trattamentale, primo tassello ineludibile di qualsiasi percorso rieducativo. A Trento gli educatori sono, anche a causa di alcuni distaccamenti, meno di quanti dovrebbero essere (4 invece di 6), rispetto ad una pianta organica già sottostimata perché rapportata a numeri di presenze largamente inferiori alle attuali”. “Anche la polizia penitenziaria - ha aggiunto Menghini - permane in sofferenza soprattutto rispetto alle figure chiave di Ispettori e Sovraintendenti che a Trento dovrebbero essere, da pianta organica, circa novanta unità e che invece risultano essere non più di dieci unità complessive. Secondo Menghini, “centrale diventa l’investimento sulla formazione professionale e sul lavoro interni al carcere, così come detti investimenti risultano, più in generale, fondamentali per fornire una concreta possibilità di reinserimento sociale a chiunque, privo di mezzi, stia eseguendo la propria pena all’interno di un istituto di pena”. Cremona. “In carcere troppi detenuti con patologie psichiatriche” di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 18 settembre 2021 Visita a Cà del Ferro delle delegazioni del Partito Radicale e della Camera Penale per la raccolta firme del referendum “Giustizia giusta”. Una delegazione del Partito Radicale e una delegazione della locale Camera penale hanno fatto visita alla Casa Circondariale di Cremona oggi pomeriggio per procedere alla raccolta delle firme sui 6 referendum per la Giustizia Giusta. Le due delegazioni erano composte da Sergio Ravelli e Gino Ruggeri, consiglieri nazionali del Partito Radicale, e dagli avvocati Alessio Romanelli e Laura Negri, rispettivamente presidente e segretario della Camera penale Cremona-Crema. Nel corso della visita Ravelli ha lanciato un allarme: “Dai dati forniti dalle associazioni del terzo settore risulta che in carcere siano presenti tanti detenuti sotto terapia psichiatrica. In Lombardia sono 480 con patologie conclamate, 102 a Cremona”. E poi: “Queste persone non dovrebbero essere in carcere, ma accedere alle Rems ossia strutture sanitarie predisposte per accogliere gli autori dei reati affetti da patologie psichiche. In Italia ci sono 31 Rems, in Lombardia una sola”. La proposta? “Finanziare le Rems e allargarle consentendo così di poter accogliere quei detenuti che si trovano in una particolare condizione di patologia psichiatrica”. Gorgona (Li). Il carcere apre le porte al pubblico grazie al teatro livornotoday.it, 18 settembre 2021 Detenuti in scena con “Ulisse o i colori della mente”. Sabato 25, domenica 26 e lunedì 27 settembre gli spettacoli, prenotazione obbligatoria entro lunedì 20. Il teatro in carcere aperto a tutti. Per un momento di condivisione sociale che serve ad abbattere barriere e pregiudizi. È con questo intento che la casa circondariale dell’isola di Gorgona apre le porte al pubblico (sabato 25, domenica 26 e lunedì 27 settembre) portando in scena “Ulisse o colori della mente”, lo spettacolo vincitore del premio “ANCT 2020 Catarsi - Teatri della Diversità” che vede protagonisti i detenuti/attori del penitenziario. Primo episodio della trilogia “Il teatro del mare”, lo spettacolo “Ulisse o colori della mente” presenta molti richiami al poema omerico ma racconta un’altra Odissea, contemporanea, di un uomo di oggi nel mondo di oggi. Ideato dal regista e drammaturgo Gianfranco Pedullà, con Francesco Giorgi e Chiara Migliorini all’interno del laboratorio “Teatro in Carcere” della Regione Toscana e in collaborazione con la Casa di Reclusione, lo spettacolo si inserisce in un progetto più ampio che ha la finalità di offrire ai detenuti un’esperienza fondata sulla comunicazione sociale attraverso i linguaggi della scena. Presentato in anteprima lo scorso settembre, “Ulisse o colori della mente” si è aggiudicato il premio come “miglior spettacolo di teatro sociale in Italia nel 2020” che sarà consegnato a Roma il prossimo novembre. Nei mesi, scorsi lo spettacolo è uscito dal carcere in occasione del Contamina Festival 2021, a Piombino, ed Effetto Venezia 2021 a Livorno. L’incontro con gli artisti e la visita sull’isola - Chiunque fosse interessato ad assistere allo spettacolo deve inviare una richiesta di prenotazione entro lunedì 20 settembre all’indirizzo pubblico@tparte.it, indicando nome, cognome, luogo, data di nascita e allegando copia della carta d’identità. Questo il programma della giornata: partenza alle 8 di mattina dal porto di Livorno con il traghetto Superba, durata del viaggio 70 minuti e spettacolo alle 11. A seguire pranzo a buffet sulla terrazza dell’istituto, mentre nel pomeriggio sarà offerta la possibilità di incontrare gli artisti e visitare l’isola. Ripartenza per Livorno alle 18, costo complessivo di 25 euro compresi viaggio, spettacolo e pranzo a buffet. Per informazioni: Compagnia Teatro Popolare d’Arte - Tel. 055 8720058 - pubblico@tparte.it. Disegni intricati per le istituzioni di Valerio Onida Corriere della Sera, 18 settembre 2021 Sarebbe auspicabile non mettere in discussione i lineamenti fondamentali del sistema costituzionale. La discussione, un po’ sotto traccia ma non tanto, sulla elezione del prossimo presidente della Repubblica alla scadenza (fine di gennaio 2022) dell’attuale capo dello Stato sembra procedere soprattutto partendo dai nomi di due persone, non contrapposte politicamente fra loro, e che appaiono godere - anche per ragioni diverse - della stima e del favore generali, oltre che poter rispondere a interessi politici di vario genere: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Vale quindi la pena di ricordare alcuni elementari principi istituzionali che in questa materia dovrebbero essere in ogni caso rispettati. La Costituzione di per sé non vieta la rielezione del presidente in carica, anche se sembra non volere incentivare ambizioni in tal senso, attraverso la previsione del divieto di scioglimento delle Camere (che rappresentano il grosso del corpo elettorale del capo dello Stato) negli ultimi sei mesi del mandato del presidente uscente (il ben noto “semestre bianco”). Ma la Costituzione non contempla una elezione per un periodo diverso dai sette anni previsti. Il carattere monocratico della carica e la sua funzione di garanzia esigono una stabilità del mandato; e la sua durata che travalica quella della legislatura ne sottolinea il relativo distacco rispetto alle contingenti dinamiche di breve termine del sistema politico. Dunque una eventuale cessazione anticipata del presidente rieletto non potrebbe certo essere “contrattata”, né potrebbe essere decisa o programmata a priori, ma dovrebbe in ogni caso essere frutto di una (sempre possibile) autonoma e libera determinazione del presidente, sulla base di circostanze sopravvenute. Il precedente della rielezione di Giorgio Napolitano il 20 aprile 2013 e delle sue successive dimissioni è in parte anomalo. La rielezione giunse dopo numerosi tentativi andati a vuoto di eleggere un esponente del centrosinistra (prima Marini, poi Prodi), e sembrò quasi il rimedio a una sorta di impotenza conclamata del Parlamento e dei partiti a individuare con una sufficiente maggioranza un nuovo titolare della carica (triste spettacolo quello di un Parlamento che appare incapace di scegliere, e che non trova di meglio che invocare una rielezione provvisoria del presidente in carica, destinato a restare poi per meno di due anni, fino al gennaio 2015!). Anche oggi chi chiede il bis di Mattarella sembra puntare su un breve secondo mandato, in vista delle elezioni politiche che avranno luogo al più tardi all’inizio del 2023 e che potrebbero ridisegnare il quadro politico-parlamentare, ponendo anche fine all’esperienza del governo in carica (che si vorrebbe durasse fino ad allora), e consentendo poi la successiva elezione dell’altro candidato di cui si parla, cioè lo stesso Draghi, a presidente della Repubblica: senza dovere a questo scopo anticipare la fine del governo da lui presieduto prima della scadenza della legislatura, mentre nessuno sembra saper indicare fin d’ora il possibile prossimo presidente del Consiglio. Come si vede, sembra delinearsi un disegno complesso che coinvolgerebbe entrambi i candidati di cui si parla, il primo rieletto per un breve periodo in attesa che si concluda “naturalmente” l’esperienza governativa del secondo, il secondo come preconizzato successore prossimo dell’altro nella carica di capo dello Stato. La politica, come si sa, conosce infiniti e intricati disegni e svolgimenti. Ma sarebbe auspicabile che questi non giungessero a mettere in discussione i lineamenti fondamentali del sistema costituzionale: fra questi il ruolo ben distinto del capo dello Stato e del presidente del Consiglio; la durata certa del mandato del primo; l’ancoraggio del mandato del secondo alla formazione e alla permanenza di una maggioranza parlamentare che lo esprima e lo sostenga. Referendum sulla cannabis a un passo dal traguardo di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 settembre 2021 Antiproibizionismo. Oltre la metà dei quasi 500mila firmatari hanno meno di 25 anni. I promotori: “La campagna vada avanti”. 495.030 firme. È l’ultimo dato ufficiale della raccolta per il referendum cannabis, diffuso ieri alle 16.30 dai promotori. Manca ormai pochissimo a quota 500mila, cioè il numero di sottoscrizioni necessarie a portare il quesito davanti a Cassazione e Corte costituzionale e chiedere il via libera al voto per la prossima primavera. Nonostante il ritmo sia calato rispetto all’exploit dei primi giorni, solo tra sabato e lunedì scorsi avevano inserito nome e cognome sul sito referendumcannabis.it in 250mila, l’obiettivo è ormai dietro l’angolo. “Quella delle 500mila è la soglia psicologica, ma per stare sicuri ne servono molte di più. Quindi è importante in questi giorni continuare a parlare della campagna e sollecitare chi ancora non l’ha fatto a firmare”, ha detto Riccardo Magi (+Europa) nel punto stampa che si è tenuto ieri. Il deputato è tornato a chiedere al governo che anche la raccolta firme per la depenalizzazione della marijuana possa concludersi il 31 ottobre, come quelle degli altri referendum (eutanasia, giustizia, caccia). Al momento la scadenza prevista è il 30 settembre: un problema più per gli uffici comunali di chi ha firmato, che devono inviare le certificazioni, che per i promotori ormai a un passo dal traguardo. I tempi stringono, dunque, ma da parte del governo non ci sono state ancora azioni concrete in questo senso. Ieri, oltre ai numeri complessivi, si è parlato per la prima volta anche dell’età dei firmatari: più della metà hanno meno di 25 anni. Secondo Marco Cappato (associazione Luca Coscioni) la rapidità della campagna non dipende solo dal nuovo strumento della firma digitale, ma soprattutto “da un sentimento diffuso che esiste. Ci sono tanti fumatori, abituali o occasionali, e sempre più persone che non fumano ma si rendono conto che la gestione criminale della cannabis fa danni anche a loro”. All’incontro virtuale con i giornalisti hanno preso parte anche le forze politiche che appoggiano il referendum. “C’è un silenzio imbarazzato nel mondo dei partiti progressisti. Sono 30 anni che si dice: non è la priorità, non è il momento giusto, non è corretto il modo. Grandi classici che ritornano”, ha dichiarato Emma Bonino (Radicali Italiani). Per Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) è urgente invertire la rotta: “A chi dice che c’è una crisi e bisogna pensare ad altro rispondiamo che dove la cannabis è stata legalizzata si è prodotta economia e nuovi posti di lavoro”. Secondo Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista): “questo referendum può rappresentare uno spartiacque nella storia italiana”. Durante la diretta è arrivata l’adesione ufficiale della Cgil, che ha dato indicazione alle sedi locali di firmare. Intanto mercoledì scorso alcuni dei promotori del referendum, con l’associazione Antigone, hanno incontrato la ministra per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone (M5S) con cui hanno discusso della Conferenza nazionale sulle droghe che dopo ben 12 anni di silenzio è stata riconvocata il 27 e 28 novembre a Genova. “Avremmo voluto che il processo di formazione di gruppi di lavoro e tavoli di approfondimento fosse più trasparente”, ha detto Marco Perduca (associazione Luca Coscioni). Interpellata sul referendum cannabis Dadone avrebbe risposto: “L’ho visto, ma non ho firmato”. Salvate dall’ergastolo l’eroe di Hotel Rwanda di Vincenzo Giardina La Repubblica, 18 settembre 2021 Celebrato da Hollywood per aver protetto i tutsi nel genocidio del 1994, Paul Rusesabagina è ora sotto processo perché si oppone al regime di Kigali. A difenderlo è rimasta sua figlia. L’indice puntato in faccia e quelle parole, ripetute due volte: “Mi ricorderò di te”. Ruanda, 1994, e poi Hollywood, dieci anni dopo. Don Cheadle interpreta Paul Rusesabagina, direttore dell’Hôtel des Mille Collines a Kigali, la capitale del Paese africano. Al soldato che lo minaccia consegna un foglio con la lista dei clienti, ma ci sono solo nomi europei. “Mi prendi per stupido?” gli urla contro il militare. “Quelli se ne sono andati via tutti. Voglio gli “scarafaggi”: altrimenti li ucciderò uno per uno, e comincerò da te”. Sono i giorni del genocidio. Nelle strade ci sono file di corpi, la terra è macchiata di rosso. E poi c’è l’Hôtel, unico rifugio possibile per almeno 1.268 persone che scampano ai machete. Alcune sono a bordo piscina: hanno sete e bevono acqua dalla vasca, accanto al bar che era frequentato da diplomatici o funzionari dell’Onu. “Tagliate gli alberi alti” - Dopo lo schianto dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana, colpito da un missile terra-aria presso Kigali in circostanze mai chiarite, è caccia ai tutsi. “Tagliate gli alberi alti” gridano su Radio Télévision Libre des Mille Collines, pronunciando la sentenza di morte per gli “scarafaggi” nel nome del “potere hutu” contro chi avrebbe rubato le terre con l’aiuto dei colonizzatori belgi. Storia di orrori ed errori, anche internazionali. Ignorata, rimossa e però anche raccontata al cinema, grazie a Hotel Rwanda di Terry George, tre nomination all’Oscar nel 2005. L’uomo che ha ispirato quel film non è stato dimenticato, neanche dai suoi nemici. È in carcere, come si fosse realizzata la minaccia di 27 anni fa. Finzione e realtà. Per i magistrati ruandesi non è un eroe ma un criminale. Di più, un terrorista: avrebbe finanziato le Forze di liberazione nazionale, falange ribelle responsabile tra il 2018 e il 2019 dell’uccisione di nove persone. L’obiettivo? Destabilizzare il governo di Paul Kagame, capo dello Stato già liberatore di Kigali dopo le almeno 800 mila vittime del genocidio. La sentenza nei confronti di Rusesabagina, che ora ha 67 anni, cittadinanza belga e green card americana, è prevista per lunedì prossimo. “Il suo avvocato, Vincent Lurquin, non è mai riuscito a incontrarlo e ad agosto è stato espulso dal Paese, ma questo è stato da subito un processo senza diritti, fondato su prove di trasferimenti di denaro inventate” ci dice Carine Kanimba, una dei sopravvissuti dell’Hotel Rwanda. Oggi ha 28 anni e vive negli Stati Uniti, allora era una bimba tutsi orfana dei genitori. Insieme con la sorellina Anaise fu adottata da Rusesabagina, hutu sposato con una tutsi. “Mio padre ha avuto il cancro e soffre di pressione alta”, riprende Carine, “in carcere è stato privato di cibo e medicine”. L’invidia del presidente - Torniamo indietro di qualche anno. A Kigali, allo stadio Amahoro, la prima del film è un successo. Le cose però cambiano rapidamente con la notorietà del protagonista, che già vive all’estero. “All’origine di tutto c’è la gelosia di Kagame, che non può tollerare l’idea che in Ruanda ci siano altri eroi oltre a lui” denuncia Carine. “Mio padre è stato insignito della Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza degli Stati Uniti al valore civile. Ha sentito di dover utilizzare questa nuova visibilità per denunciare le violazioni dei diritti umani commesse in Ruanda e ha fondato il Partito per la democrazia. È stato allora che a Kigali è partita la campagna per screditarlo, perfino come “negazionista” del genocidio, un’assurdità totale”. L’operazione non ha risparmiato il film. Basta leggere qualche pagina del libro Hôtel Rwanda ou le génocide des Tutsis vu par Hollywood. “Rusesabagina è un cittadino ordinario divenuto un criminale” sentenzia l’autore Alfred Ndahiro, oggi consigliere di Kagame. “A salvare chi stava nell’albergo fu in realtà il fatto che davanti all’ingresso stazionavano soldati della missione dell’Onu e che tra i rifugiati c’erano diplomatici, giornalisti, dipendenti di ong ed esponenti dell’alta società ruandese”. La trappola - Quella raccontata da Carine è tutta un’altra storia: “Quando vivevamo in Belgio hanno cercato di uccidere mio padre buttandolo fuori strada con un’automobile e poi ci sono entrati in casa, rubando documenti e perfino la foto con George Bush che gli mette al collo la medaglia. Ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, ma non è bastato”. La trappola scatta il 27 agosto 2020, durante uno scalo a Dubai. Rusesabagina crede di ripartire per il Burundi, dove un pastore lo ha invitato a tenere discorsi. Si imbarca su un charter, pare utilizzato già altre volte dal governo ruandese: lui non lo sa e all’atterraggio, a Kigali, scattano le manette. Lunedì ascolterà la sentenza insieme con altri 20 imputati, che si sono dichiarati colpevoli. In caso di condanna per terrorismo rischia l’ergastolo. Difficile possano aiutarlo le alleanze internazionali. Il Ruanda è infatti da tempo partner degli americani nella regione dei Grandi laghi, dal Congo fino al nord del Mozambico, in un’area ricca di idrocarburi dove opera la compagnia statunitense ExxonMobil e i militari di Kigali fronteggiano gruppi ribelli. Carine è convinta che la sentenza sia “già stata scritta” ma non si arrende: “All’inizio del processo il Parlamento europeo ha condannato il Ruanda per violazione dei diritti umani. E Washington potrebbe approvare sanzioni: 41 deputati, democratici e repubblicani, hanno scritto a Kagame chiedendo il rilascio di mio padre per tutelare i rapporti bilaterali”. Myanmar. L’ultimo appello di Duwa Lashi La di Paolo Lepri Corriere della Sera, 18 settembre 2021 Il leader provvisorio dell’opposizione nel Myanmar cerca di coinvolgere nella causa della lotta al regime autoritario i soldati, invitati a disertare e a unirsi alla rivolta, e i dipendenti pubblici. Le parole del videomessaggio diffuso su Facebook il 7 settembre risuonano lontane. Ma il loro significato è chiaro. Chi le pronuncia è Duwa Lashi La, presidente ad interim del governo di unità nazionale (Nug), costituito da parlamentari della Lega nazionale per la democrazia (il partito di Aung San Suu Kyi). È lui l’uomo che lancia il drammatico appello per una “guerra difensiva” contro la giunta militare che ha preso il potere in febbraio nel Myanmar arrestando la vincitrice del premio Nobel per la pace, che ha guidato il Paese in questi anni difficili, e trascinando l’ex Birmania in una spirale di violenza. Molto sangue è stato versato. Le vittime, durante le manifestazioni di protesta dei mesi scorsi, sono state oltre un migliaio. L’esercito è all’attacco. Si registrano scontri in varie zone. Per l’esecutivo “ombra” è quindi scoccato il momento di “una rivoluzione pubblica”. “Rimuoveremo il generale Min Haung Hlaing - conclude Duwa Lashi La - e rovesceremo la dittatura. Saremo così in grado di costruire un’unione democratica federale e una pace durevole”. Ex maestro di scuola, avvocato appartenente alla minoranza etnica dei Kachin, il leader provvisorio dell’opposizione birmana ha chiesto alla popolazione di evitare viaggi non necessari e di fare scorta dell’essenziale. La sfida è quella di coinvolgere nella causa della lotta al regime autoritario la maggior parte delle milizie etniche di un paese frammentato. I soldati vengono invitati a disertare e a unirsi alla rivolta. “I funzionari pubblici - afferma ancora il messaggio - non devono presentarsi al lavoro”. L’appello è stato definito “una vuota dichiarazione” dalla giunta dei militari. Ma la situazione dovrebbe preoccupare molto anche loro perché il Myanmar, colpito da una grave crisi alimentare e minato dalla pandemia, è sempre più sull’orlo del tracollo. La diplomazia internazionale, che sta tentando di procrastinare il problema del riconoscimento del regime, è per adesso impegnata sul fronte degli aiuti umanitari. Ma il rischio è anche una lunga guerra civile. Soluzioni di pace sembrano quasi proibitive, come lo è scalare il Hkakabo Razi, la montagna alta 5.900 metri non lontana dai luoghi in cui Duwa Lashi La è nato.