Il fatto è che del Volontariato viene riconosciuta la “bontà”, non la competenza di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2021 Mi colpisce l’assenza del Volontariato e di tutto il Terzo Settore dalla nuova Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario, di recente istituita dalla Ministra della Giustizia, tanto più oggi che il Codice del Terzo Settore parla abbastanza chiaro in materia e mette sullo stesso piano la Pubblica Amministrazione e il Terzo Settore stesso, pur nella diversità dei ruoli, ovviamente. Il fatto è che la competenza del Volontariato non viene quasi mai riconosciuta. E invece non credo di essere poco realista se dico che oggi c'è una parte consistente di Volontariato che ha notevoli competenze e che se le forma in un continuo processo di crescita, che poi permette di far crescere anche la qualità delle proposte di attività nelle carceri e sul territorio. Basta guardare la formazione organizzata dalla nostra Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia nel progetto “A scuola di libertà”, che è di altissimo livello culturale, una formazione che ha saputo coinvolgere migliaia di studenti di tutta Italia, insegnanti, volontari, operatori della Giustizia, personalità del mondo della cultura, in un confronto complesso con vittime, figli di persone detenute, detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, con la forza delle testimonianze, ma anche dello studio e dell'approfondimento. Il Volontariato nell’ambito della Giustizia è tra i pochi soggetti in grado di fare proposte innovative di formazione congiunta, portando la ricchezza della sua esperienza (perché una formazione “di settore” senza confronto tra diverse categorie non serve a nulla!). È in grado di proporre iniziative “strutturali” e non progetti spot nell’ambito dell’informazione e della comunicazione su questi temi, basta guardare i Festival della Comunicazione sulle pene e sul carcere organizzati in questi anni dentro e fuori dalle carceri. E ancora, chi potrebbe portare più efficacemente, a proposito di vita detentiva, il punto di vista di quei detenuti, ai quali a tutt’oggi non viene riconosciuta nessuna forma di rappresentanza elettiva? Il Volontariato e il Terzo Settore hanno il coraggio e le conoscenze per non essere “astratti” nelle loro proposte e per sperimentare e condividere strade nuove. E riescono in molte carceri, e oggi anche nell’area penale esterna, a rendere “nuova” e interessante una parola sempre considerata vecchia e fuori moda come rieducazione. Ma visto che, lo ripeto, la nostra competenza non è riconosciuta, voglio far parlare, a partire dall’articolo 55 del Codice del Terzo Settore, persone che sostengono le stesse idee che sosteniamo noi, ma lo fanno con i titoli “giusti” per farlo, nell’attesa e con la speranza di essere anche noi volontari “accreditati a parlare” in prima persona nei luoghi dove si decidono questioni importanti come “l’innovazione del Sistema penitenziario”: - Scrive Laura Formenti, una delle più importanti formatrici nell’ambito della pedagogia e della educazione degli adulti: “I metodi biografici ed etnografici, la ricerca partecipativa, gli approcci riflessivi e trasformativi, nonostante il successo crescente, ancora si scontrano con un mondo dell’educazione e della ricerca che parte da ben altri presupposti: quelli dell’astrazione, della separazione tra il personale e il professionale, della neutralità del ricercatore rispetto ai suoi oggetti e contesti di ricerca, della “purezza” e oggettività del dato rispetto all’irrompere caotico del vivere incarnato, che invece per definizione è contaminato e contaminante, carico di emozioni, valori, implicazioni politiche e etiche, conflitti, errori, ambiguità” (Formenti, Formazione e trasformazione). - Nell’ambito della ricerca “Creare Valore con la Cultura negli istituti di pena” (2018-2019), condotta dall’UniversitaÌ Bocconi in collaborazione con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, i ricercatori hanno mappato tutte le “attivitaÌ trattamentali” condotte nei tre istituti di pena milanesi di Bollate, Opera e San Vittore. Lo scopo? Analizzarne le caratteristiche, misurarne il valore, individuare le criticità. La prima “verità” che emerge dal report, la enuncia Filippo Giordano, ricercatore dell’Invernizzi Center for Research on Innovation, Organization, Strategy and Entrepreneurship, UniversitaÌ Bocconi (ICRIOS), coautore dello studio: «Senza i volontari, in massima parte provenienti dal Terzo Settore, non ci sarebbe reinserimento dei detenuti”, e i numeri in tal senso parlano chiaro, visto che l’80% delle varie attivitaÌ deriva da iniziative provenienti dall’esterno, mentre solo il 20% è attivato da impulsi provenienti dall’interno degli istituti di pena. - Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, nella sua recente relazione sulla Casa di reclusione di Padova, parla della necessità che la fondamentale cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna, si basi “da una parte, sul rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico e, dall’altra, sul riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce. Non un apporto subalterno, quest’ultimo, né di minore rilevanza”. - Stefano Zamagni, professore di Economia, uno dei massimi esperti di Terzo Settore, scrive (Vita 14.09.2021): “Se passasse l’idea che dei volontari si possa anche fare a meno sarebbe un grave arretramento sul fronte dello sviluppo umano integrale. Il volontariato, essendo un bene relazionale in sé, ha una missione primaria da testimoniare, quella di far presente in tutte le sedi in cui opera, che è la relazione di reciprocità — non certo i rapporti di scambio e di comando — a conservare solida nel tempo l’amicizia civile. La reciprocità infatti è un dare senza perdere e un prendere senza togliere”. (…) “Il Volontariato ha il compito, fondamentale per la nostra società, di essere generatore di legami di amicizia civile. ‘Amicizia civile’ è un’espressione coniata per primo da Aristotele 2.400 anni fa ed è lo stesso termine che viene ripreso da papa Francesco nella “Fratelli tutti”. Se ci chiediamo qual è il soggetto collettivo che più di ogni altro è creatore di beni relazionali capaci di generare amicizia civile questo è il volontariato. (…) Ebbene, il problema più serio delle società dell’Occidente avanzato è oggi quello di una carenza di fraternità, vale a dire di amicizia civile”. Articolo 55 Codice del Terzo Settore (D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117) Coinvolgimento degli enti del Terzo settore 1. In attuazione dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell'amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare, le amministrazioni pubbliche (…) nell'esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all'articolo 5, assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona. 2. La co-programmazione è finalizzata all'individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili. 3. La co-progettazione è finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione di cui comma 2. 4. Ai fini di cui al comma 3, l'individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell'intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l'individuazione degli enti partner. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Misure alternative a rischio fallimento. Operatori: “Più risorse umane o è il collasso!” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2021 Sono pochi gli operatori dell’Uepe che rendono operative le misure alternative. Ad oggi, ogni funzionario di servizio sociale gestisce 180 persone e sono già in affanno. Con la riforma Cartabia ci sarà un’onda d’urto insostenibile. Gli operatori chiedono che sia accompagnata da un incremento del personale. I sindacati annunciano proteste se non si risolve il problema. “Non riusciamo a seguire tutti i casi e si rischia di raggiungere una situazione non più fronteggiabile sotto ogni punto di vista!”. A denunciarlo sono circa 250 funzionari del servizio sociale che si occupano della presa a carico degli imputati raggiunti da misure alternative alla detenzione. Il Dubbio ha potuto verificare che con una valanga di lettere, hanno sommerso i sindacati e l’ordine professionale per chiedere aiuto. Gli operatori sono preoccupati, credono fermamente alla missione del loro lavoro, ma si sentono abbandonati a sé stessi. Gli operatori temono che senza nuovo personale la riforma Cartabia venga vanificata - Da sempre hanno salutato con favore l’implementazione dell’accesso alle misure alternative al carcere, ma temono che la riforma Cartabia, senza essere accompagnata da una cospicua iniezione di nuovo personale, rischia di gravare ulteriormente il lavoro e rendere vana la riforma stessa. Le misure alternative alla detenzione sono fondamentali per la deflazione della popolazione detenuta e la riduzione della recidiva. Per renderle efficaci, di grandissima importanza è il contributo dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterno) che instaura un rapporto “collaborativo” con l’imputato inteso a verificare sia l’esatta esecuzione dell’affidamento in prova che il corretto reinserimento nel tessuto sociale. A renderlo operativo sono gli assistenti sociali che prendono in carico la persona, seguendolo passo dopo passo. Oggi il rapporto tra funzionari dell’Uepe e gli imputati o condannati, è uno a 180 - Questo sulla carta, ma nei fatti non è più possibile a causa dell’insufficienza del personale. Il rapporto tra funzionari dell’Uepe e gli imputati o condannati, è uno a 180. Dal punto di vista pratico è già insostenibile seguire tutti e la giusta riforma Cartabia che amplierà la platea degli aventi diritto della messa alla prova, se non accompagnata da un sostanzioso incremento delle risorse umane, rischia di rendere vana la buona intenzione. A lungo, se non a breve termine, rischia di diventare un boomerang e dare linfa vitale a chi vorrebbe rinchiudere a prescindere le persone e buttare via la chiave. I sindacati hanno annunciato iniziative di protesta - I sindacati della Cgil, Cisl e UIL hanno inviato una lettera alle autorità competenti, a partire dal ministero della Giustizia, evidenziando il gravoso problema che affligge le lavoratrici e i lavoratori che si occupano, appunto, dell’esecuzione penale esterna. Già agli inizi di agosto hanno annunciato iniziative di protesta qualora non si fosse fatto fronte al problema. Le prime problematiche già sono iniziate, quando, nel 2014 c’è stato l’ampliamento delle misure alternative e quindi un aumento delle casistiche a carico degli operatori. In effetti, nel 2019 sono state fatte nuove assunzioni. Ma è cambiato poco. Il motivo? Il nuovo personale ha fatto fronte in numero appena sufficiente alla copertura dei pensionamenti intervenuti con quota 100 e dei passaggi di molti assistenti sociali ad altre funzioni richieste dalla nuova organizzazione. Con la nuova riforma aumenteranno le misure alternative - La nuova riforma della giustizia aprirebbe l’accesso all’istituto della messa alla prova anche a reati con pena edittale fino a sei anni, e alcune misure alternative alla detenzione, entro il limite dei 4 anni della pena inflitta, attualmente di competenza del Tribunale di Sorveglianza, verrebbero direttamente comminate dal giudice della cognizione. Una misura importante e favorevolmente salutata dai sindacati poiché - ci tengono a sottolineare - “rappresenta un portato di grande civiltà, ciò attraverso lo sviluppo e l’incremento delle opportunità di accesso alle forme probation giudiziale”. Ma da tutto ciò deriva però che il carico di lavoro degli Uepe accrescerà ulteriormente. C’è il rischio che non potendo seguire tutti la recidiva non si abbassi - Da ribadire che già in questo momento, in media ogni funzionario di servizio sociale gestisce 180 persone contemporaneamente. Senza un giusto e necessario adeguamento degli organici, si rischia di vanificare lo scopo. Non potendo seguire tutti, nascono problemi enormi, a partire dal fallimento dello scopo primario: l’abbassamento della recidiva e il rischio di un aumento di casi di cronaca di chi è in misura alternativa. Ciò verrebbe prontamente cavalcato da una parte consistente della politica e giornali, pronti a creare indignazione per far arretrare il nostro Paese. In altre parole, l’onda d’urto sui carichi di lavoro generata dall’introduzione della messa alla prova per gli adulti viene scaricata sui singoli assistenti sociali determinando conseguenze inevitabili sulla qualità dell’intervento professionale. “Bisogna garantire che alla riforma Cartabia sia previsto un incremento del personale di servizio sociale nel settore giustizia, proporzionale all’aumento dell’utenza che conseguirà alle nuove misure adottate dal governo”, chiedono le lavoratrici e lavoratori senza se e senza ma. Il servizio sociale nel settore giustizia è fondamentale. È quello che ha permesso la realizzazione delle numerose riforme del sistema di esecuzione penale e la sua evoluzione attraverso i paradigmi della giustizia retributivo, riabilitativo e riparativo. Se non viene incrementato, fallisce tutto. Quasi 29mila le persone prese in carico dall’Ufficio esecuzione penale esterno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2021 Per avere un quadro generale delle misure alternative alla detenzione negli ultimi anni, viene in aiuto l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. Viene rilevato che sono andate sempre crescendo, assestandosi tra il 2019 e il 2021 attorno a quota 29 mila soggetti presi in carico dagli Uepe. L’affidamento in prova al servizio sociale al 31 gennaio 2021 rappresentava il 57,3% delle misure alternative attive, la detenzione domiciliare il 40,2% e la semilibertà il 2,5%. Nel rapporto si legge ancora che soggetti in carico agli Uepe (sono inclusi in questo computo anche i numeri della messa alla prova e di altre misure non alternative alla detenzione come la libertà vigilata ad esempio) al 15 gennaio 2021 erano 103.772, di cui 91.774 uomini (88,4%) e 11.998 donne (11,56%). Gli stranieri erano 18.784 (il 18,1% sul totale) e la maggior parte delle donne straniere, in totale 2.179 (l’11,6%) proveniva dal continente europeo (1.186 ovvero il 54,4% delle donne straniere in carico agli Uepe). Discorso diverso per gli uomini stranieri (in totale 16.605), dove le provenienze dall’Europa e dall’Africa arrivano quasi ad equivalersi in termini assoluti, 6.982 dal continente europeo e 6.276 da quello africano, rappresentando rispettivamente il 42% e il 37,8% sul totale degli uomini presi in carico. Il Paese straniero maggiormente rappresentato al 15 gennaio 2021 era il Marocco con 2.970 persone prese in carico, seguito da Albania (2.717), Romania (2.597), Tunisia (1.045) e Nigeria (711). Le fasce d’età più rappresentate sono quelle tra i 30 e i 39 anni (24,2% sul totale dei presi in carico) e tra 40 e 49 anni (25,4%). Purtroppo non sono accessibili dati disaggregati relativi esclusivamente alle fasce d’età dei soggetti in misura alternativa alla detenzione. Per quanto riguarda i numeri delle persone in misura alternativa alla detenzione, come ribadisce Antigone, sono andati in crescendo dal 2008 ad oggi come può verificarsi dal grafico. A crescere in modo rilevante sono stati i numeri sulla detenzione domiciliare, in modo particolare a seguito dell’approvazione della legge n. 199 del 2010, e quelli sull’affidamento in prova ai servizi sociali. Negli anni 2014-2019 Antigone rileva che le misure alternative hanno conosciuto un aumento in percentuale del + 31,2%. Non siamo noi avvocati causa dei ritardi della giustizia di Francesco Greco* Il Dubbio, 17 settembre 2021 È paradossale leggere o sentir dire che in Italia la giustizia va male perché ci sono troppi avvocati che provocano un ingolfamento del sistema giudiziario. È come dire che la sanità va male perché ci sono troppi malati. E se è vero che il numero dei malati influisce sull’efficienza di un ospedale, è altrettanto vero che in questi casi si interviene sulle strutture sanitarie e sul personale medico e paramedico, aumentandone le dotazioni organiche e migliorando le strutture. Dire che ci sono troppo avvocati che si occupano della tutela dei diritti è come dire che ci sono troppi malati. Fatta questa premessa e dando atto che in Italia il numero degli avvocati è superiore a quello di altri stati europei - circostanza di cui per primi noi avvocati non gioiamo - occorre considerare che l’incremento negli ultimi 20 anni del numero degli iscritti agli albi è stato determinato dall’ingresso di giovani affascinati dalla toga e dal ruolo che la nostra professione svolge, di tutela dei diritti fondamentali. L’avvocatura ha accolto questi giovani, assicurando loro un futuro - a fronte dell’incapacità dell’istituzioni del Paese di offrire altri sbocchi occupazionali - nell’ambito di una professione fondamentale in uno Stato di diritto, oserei dire posta a presidio della democrazia. Dunque, sentirci oggi rinfacciare che la giustizia non funziona a causa degli avvocati è veramente paradossale per non dire provocatorio; quando invece i mali della giustizia vanno ricercati altrove: nelle strutture carenti (vedi l’edilizia giudiziaria, che oggi è un grande problema), negli insufficienti organici dei magistrati - molti dei quali fuori ruolo e distaccati in vari ministeri - e del personale amministrativo, nella inesistenza, soprattutto, di un sistema che si occupi di garantire l’efficienza del comparto giudiziario. A mio avviso, il tema della verifica dell’efficienza del comparto giudiziario è il problema più grande. L’inesistenza di organi deputati a valutare efficienza, o meglio l’inefficienza, della macchina giudiziaria, dell’esito dei processi, del rispetto dei principi del giusto processo è un grande vulnus. Nessuno risponde se un processo, dopo anni ed anni di indagini, di udienze, di risorse finanziare impegnate finisce con un pugno di mosche. Tutto è affidato solo al gravame dei provvedimenti, mentre nessuno risponde dell’inefficienza, che invece costituisce, in qualunque settore, il principale indice di valutazione. Basti dire che in questo anno e mezzo in cui l’attività giudiziaria è rimasta sostanzialmente bloccata per la pandemia, in cui udienze non se ne sono quasi più svolte, ci si sarebbe aspettato un recupero dell’arretrato accumulatosi, che invece sembra addirittura aumentato per la serie di rinvii su rinvii dei processi disposti d’ufficio. Ma di ciò nessuno si occupa. L’efficienza, sembra, non interessare ad alcuno: non ai i capi degli uffici giudiziari, non al CSM (che ha promulgato circolari per cui le centinaia di magistrati che fanno parte dei consigli giudiziari di tutte le Corti Appello d’Italia beneficiano di un esonero, dal carico di lavoro, che può arrivare al 40%), non agli uffici ministeriali né al Governo. L’inefficienza del sistema giustizia rimane a carico dei cittadini. Non si può non ricordare, peraltro, come negli ultimi 20 anni siano state adottate tante riforme rivolte a sgravare la magistratura del carico giudiziario che, tuttavia, di fatto, hanno solo ridotto le garanzie costituzionali del diritto di difesa. A partire dal 1997, quando per smaltire l’arretrato civile venne approvata la legge n. 276 sulle così dette “sezioni stralcio”, con la cui entrata in vigore (l’anno successivo) le cause all’epoca esistenti sui ruoli dei giudici togati furono tutte riassegnate a giudici onorari, reclutati in quella occasione. La magistratura togata fu esonerata dal peso dell’arretrato e ripartì da zero. E mentre le sezioni stralcio, costituite, come detto, solo da giudici onorari in 5 o 6 anni esaurirono l’arretrato, le nuove cause, affidate alla magistratura ordinaria, ben presto si accumularono di nuovo. Nel rito civile sono innumerevoli le riforme che hanno previsto, a carico delle parti, preclusioni, limitazioni alla produzione di nuove prove in grado di appello, condizioni di procedibilità dell’azione, riduzioni dei termini per il deposito delle difese. Nessuna di queste riforme, invece, ha previsto termini perentori per il deposito delle sentenze da parte dei giudici. Nel processo amministrativo è stata persino introdotta la “perenzione del ricorso”, che comporta che se il tribunale amministrativo non fissa l’udienza entro 5 anni da quando il ricorso è stato presentato il procedimento si estingue, a meno che la parte non dichiari, con atto formale, di volere ancora la sentenza. Nel processo penale, per evitare la prescrizione dei reati, è stata abolita la prescrizione, quando invece è ormai accertato che il 60 - 70 % del periodo prescrizionale decorre durante le indagini, quando il processo non è nemmeno iniziato. L’effetto, inevitabile, sarà l’allungamento dei processi. In cassazione, si è raggiunto il culmine, assistendo all’introduzione, da parte della stessa Corte di Cassazione, del principio di “autosufficienza” del ricorso. Concetto assolutamente indefinito nel codice di procedura, grazie al quale la Cassazione dichiara inammissibili la stragrande maggioranza dei ricorsi, senza doversi preoccupare di esaminarne il merito. Smettiamola, dunque, di attribuire agli avvocati le colpe degli altri: riformiamo la giustizia, partendo dalle strutture e dagli organici dei giudici e del personale amministrativo; facciamo rientrare nei tribunali, a scrivere sentenze, le centinaia di magistrati distaccati nei ministeri e nei vari uffici; introduciamo organi che verifichino l’efficienza degli uffici giudiziari, monitorando il numero di procedimenti che vengono annullati dopo anni. Noi avvocati siamo pronti a collaborare e pretendiamo, per i nostri assistiti, un giusto processo, che coniughi celerità ed efficienza. *Consigliere Cnf “Un primo passo per mandare in soffitta il giustizialismo manettaro” di Francesco Boezi Il Giornale, 17 settembre 2021 Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo di Forza Italia al Senato, pensa che la riforma Cartabia sia il “primo passo” per dire addio al giustizialismo manettaro. La riforma del processo civile è arrivata in Senato per un’approvazione veloce. Il governo presieduto da Mario Draghi non ha tempo da perdere. La senatrice Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo di Forza Italia e presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è intervenuta in Aula per ribadire la centralità del provvedimento che sta per essere adottato. Un risultato atteso anni che riguarda pure una svolta sul sistema degli affidi. Più in generale, si tratta di un colpo inferto al giustizialismo. Forza Italia guida il fronte garantista in una fase di svolta per il Paese in materia di Giustizia. Senatrice, finalmente un colpo garantista... “Come chiedevano Forza Italia e il centrodestra, abbiamo gettato le basi per una giustizia veloce, ma soprattutto giusta. Questa riforma pone al centro la persona e le famiglie, che per noi sono il pilastro della società e, pertanto, vanno adeguatamente tutelate”. La riforma Bonafede è un lontano ricordo, ma l’impostazione grillina è rimasta quella... “Si è fatto un primo passo per mandare definitivamente in soffitta il giustizialismo manettaro di sinistra e Movimento 5 Stelle. Il garantismo è la cifra di Forza Italia da sempre: perseguire o condannare un innocente, come ha scritto il presidente Berlusconi, è il peggior crimine che lo Stato possa commettere”. Quali novità principali in materia di riforma del processo civile? “Con la velocizzazione dei processi e, quindi, una più rapida risoluzione delle controversie, si porrà fine alla fuga degli investitori che oggi sono fortemente danneggiati e scoraggiati dalla durata dei contenziosi. Una giustizia rapida ed efficiente ha ricadute positive anche sull’economia, è un tassello fondamentale per la ripresa post pandemia”. Forza Italia è stata fondamentale per l’istituzione del Tribunale della Famiglia... “Per anni ci siamo battuti per avere un unico giudice specializzato della famiglia, sottoposto a regole predeterminate e, soprattutto, uguali in tutto il territorio nazionale: oggi finalmente abbiamo raggiunto uno storico risultato che premia la costanza con la quale abbiamo portato avanti la nostra visione di giustizia a tutela delle persone”. Sul sistema degli affidi c’è la svolta che si attendeva da tempo? “Già due anni fa avevo presentato un ddl per riformare il sistema degli affidi: oggi chiudiamo finalmente l’era di Bibbiano, del business dei bambini strappati ai loro genitori, degli psicologi che decidono discrezionalmente della vita dei minori in spregio alle regole del giusto processo”. Conta sul referendum promosso dalla Lega? “Forza Italia ha contribuito attivamente alla raccolta firme per i referendum che siamo certi potranno migliorare il sistema giustizia. Noi chiediamo da sempre un giudice che sia realmente terzo, la separazione delle carriere e tempi certi - civili - per i processi che non possono durare “a vita”. Saranno i cittadini a decidere e quando ciò accade è sempre un’ottima cosa”. Tribunale della famiglia, iniziativa interessante ma senza sacrificare i diritti di Nicola Graziano Il Riformista, 17 settembre 2021 Tra le novità che spuntano all’interno del disegno di legge delega contenente la riforma del processo civile vi è una importante novità contenuta in un emendamento allo stesso ddl a firma congiunta di Fiammetta Modena (Forza Italia), Anna Rossomando (Partito democratico) e Julia Unterberger (Südtiroler Volkspartei). L’intenzione, condivisa da esponenti di varie ideologie politiche, è quella di istituire il Tribunale per persone, minorenni e famiglie al quale verranno affidate le competenze civili, penali e di sorveglianza ora attribuite al Tribunale per i minorenni, nonché tutte le materie riguardanti famiglia, separazioni o divorzio. Ciò dovrebbe consentire di centrare due obiettivi: accelerare i tempi della decisione in una materia particolarmente delicata e accorpare in un unico Tribunale specializzato competenze oggi fra loro frastagliate perché affidata a diverse sensibilità. Un obiettivo davvero ambizioso davanti al quale non si può che plaudere. Ma è tutto oro quello che luccica sotto i riflettori di questa riforma? E nel territorio campano? Quali riflessi? Prima di dare una risposta al nostro interrogativo vi è da chiedersi se una organizzazione così concepita possa solo rispondere a criteri di rapidità ed efficacia davanti a una materia che implica la decisione che verte su diritti indisponibili, prima fra tutti quello dei minori e relativi a fattispecie di violenza e disagi ambientali. Il Tribunale così costituito, infatti, avrebbe il vantaggio di sottolineare l’esigenza di una specializzazione che tradisce l’idea di far emergere quella particolare sensibilità in una materia come quella della persona (si pensi ai compiti affidati al giudice tutelare e non solo), alla famiglia e a minori, anche con riferimento alle idee che stanno alla base della Convenzione di Istanbul. Ecco in sintesi la proposta: vi saranno sezioni distrettuali dei Tribunale istituite presso ciascuna Corte d’Appello (o sezione di Corte d’Appello e quindi, nel caso della Campania, il Tribunale distrettuale sarà a Napoli), e una serie di sezioni circondariali, presso ogni sede di Tribunale ordinario, con diverse competenze. E infatti alle sezioni distrettuali saranno affidate le competenze civili, penali e di sorveglianza del Tribunale per i minorenni, mentre alle sezioni circondariali toccheranno le competenze civili attribuite al Tribunale ordinario in materia di stato e la capacità delle persone e tutti i procedimenti di competenza del giudice tutelare, nonché i procedimenti sul risarcimento del danno endofamiliare. Viene però fissata una fase transitoria fino al 31 dicembre 2024 con una piena operatività del Tribunale nel 2025. Sarà questo tempo necessario a organizzare la struttura del nuovo Tribunale ma, nello stesso tempo, non si può attendere per far fronte alle problematiche da affidarsi alle nuove sezioni distrettuali e circondariali. Alludo, in particolare, alla tutela dei diritti dei minori che rischia di essere affiancata a questioni (pur sempre importanti) che però non sono equivalenti alla tutela della fascia più debole della società, che non può subire alcun pregiudizio che inciderebbe irrimediabilmente sulla crescita psico-fisica del minore. E allora, se da una parte questa idea di accorpamento può in qualche modo far immaginare una svolta positiva, ci si deve interrogare sulle modalità esecutive di tale scelta che devono essere preganti e consapevoli per evitare che resti solo una risposta alle esigenze europee di specializzazione e rapidità. Non ho mai condiviso l’idea una giustizia a due livelli, Nord-Sud, ma il rischio di questa riforma non può non mettere in allarme i Tribunali di regioni del Sud, come la Campania, che potrebbero realizzare una riposta celere a fronte di servizi sociali, consultori e altri attori che allo stesso tempo non possono non essere riorganizzati in questa stessa ottica. È una materia, questa, della quale in passato mi sono occupato e che ogni volta genera speranze e conflitti, “strisciando” fortemente sull’anima delle persone. Serve un’ampia consapevolezza della necessaria convergenza di tutte le sensibilità che sono coinvolte in questa materia, il che impone formazione congiunta e confronto quotidiano. Se così sarà, allora la specializzazione unitaria in questa materia darà una risposta civile a situazioni sociali di indubbia emergenza. È una scommessa da vincere, ma restano tanti gli interrogativi ai quali va data una risposta fin da subito, non al 2025. Campania. Case famiglia per detenute, alla Regione 240mila euro di Viviana Lanza Il Riformista, 17 settembre 2021 Ogni anno, per i prossimi tre anni, la Campania dovrebbe ricevere dallo Stato fondi per 240mila euro da destinare alla realizzazione di case famiglie protette per accogliere donne detenute con una pena da scontare inferiore ai tre anni e figli minorenni al seguito. L’attesa per l’arrivo dei fondi dovrebbe essere ormai agli sgoccioli. Se non ci saranno altri intoppi e se la burocrazia non interverrà a rallentare ulteriormente i tempi, questo potrebbe essere un vero primo passo per togliere dal carcere bambini innocenti. Lo Stato ha messo in campo finanziamenti per un milione e mezzo di euro all’anno su tutto il territorio nazionale e alla Campania è stata assegnata una somma (240mila euro) calcolata tenendo conto del numero complessivo di donne detenute nelle carceri della regione. Secondo tale criterio, dunque, la Campania è al terzo posto dopo la Sicilia e la Lombardia. Il fondo per finanziare l’accoglienza delle donne detenute con figli al seguito era stato approvato circa un anno fa. L’obiettivo è consentire la possibilità di luoghi alternativi dove detenute condannate a pene lievi, con residui inferiori a tre anni, possano vivere assieme ai propri figli minorenni senza che la reclusione diventi una privazione dei diritti più elementari per i bambini. Lo scopo, quindi, è creare realtà alternative alla reclusione dove vengano sì garantiti la sicurezza e il controllo, ma si possa dare più spazio e valore alla funzione riabilitativa e rieducativa della pena, soprattutto nel rispetto dei diritti e delle esigenze dei più piccoli. “Proviamo a tirare fuori dal carcere bambini innocenti. Un primo importante passo è stato fatto”, aveva commentato a dicembre scorso il deputato Paolo Siani, pediatra e capogruppo del Pd nella Commissione Infanzia, dopo che l’emendamento (a sua firma) alla legge di bilancio era stato approvato. In particolare, l’emendamento ha consentito di inserire un articolo (il 56-bis) prevedendo, per il triennio 2021-2023, una dotazione di 1,5 milioni di euro all’anno per finanziare la predisposizione di case famiglia protette. Perché, sebbene gli istituti a custodia attenuata per detenute madri siano tutto sommato bene organizzati, si tratta pur sempre di contesti detentivi e far crescere un bambino in un simile contesto può avere conseguenze molto negative. “Le case famiglia protette - si legge nel nuovo articolo con cui si istituisce un fondo per le alternative alle strutture detentive - sono state previste quali luoghi nei quali consentire a donne incinte o madri di prole di età non superiore a sei anni, di scontare la pena degli arresti domiciliari o la misura cautelare degli arresti domiciliari, o della custodia cautelare in istituto a custodia attenuata. Attualmente, solo poche regioni sono dotate di strutture idonee a consentire l’applicazione di queste misure con la conseguenza che detenute, con figli anche molto piccoli, restano in carcere. Entro due mesi dall’entrata in vigore della legge di bilancio, il ministro della Giustizia, di concerto con il ministro dell’Economia e sentita la Conferenza unificata, provvede al riparto delle risorse tra le Regioni”. Riparto che è finalmente avvenuto. Alla Campania 240mila euro. D’ora in avanti sarà quindi necessario che questi fondi vengano utilizzati nella maniera più appropriata ed efficace per evitare che ci siano ancora bambini in carcere e per fermare un’emergenza che da troppo tempo è stata tenuta in secondo piano. Basti considerare che, negli ultimi mesi, il numero di bimbi in carcere con mamme detenute è aumentato. Siamo arrivati, dati ministeriali alla mano e aggiornati al 31 agosto, a un totale di 14 bambini in Campania (tra cui due neonati, uno nato un mese fa e l’altro appena quattro giorni fa), 26 in tutta Italia. Troppi. Oristano. “Carcere invivibile”, detenuti pronti allo sciopero della fame e della sete linkoristano.it, 17 settembre 2021 In 160 hanno firmato un appello al presidente Mattarella e al ministro Cartabia. Minacciano una serie di proteste pacifiche che potrebbero culminare con lo sciopero della fame e della sete 160 detenuti rinchiusi nel carcere di Massama, istituto che prevede il regime di alta sorveglianza. I detenuti lamentano le difficili condizioni in cui devono vivere all’interno del carcere che ospita oltre 250 ristretti, 80 dei quali condannati all’ergastolo. Chiedono, quindi, una serie di interventi, rivolgendosi con una una lunga lettera-appello, tra gli altri al Capo dello Stato Sergio Mattarella e al ministro della giustizia Marta Cartabia, oltre che ai vertici del sistema penitenziario italiano, alle autorità di sorveglianza competenti e ad alcune associazioni di volontario. “Più volte”, scrivono i 160 detenuti che hanno firmato il documento con nome, cognome e data di nascita, “abbiamo cercato di dialogare con la direzione dell’istituto in modo cordiale e, con altrettanta cordialità, siamo stati trattati, ma i problemi che abbiamo esposto sono sempre rimasti tali ad eccezione di qualche piccolo accorgimento. Ora siamo stanchi di subire ingiustamente restrizioni e privazioni di ogni tipo. Chiediamo solo di vivere i giorni o anni che siano in modo dignitoso e con il rispetto della persona”. Nella lunga lettera i 160 detenuti elencano numerosi problemi da loro lamentati. Ricordano di essere ospitati 20 ore su 24 in celle dove trovano posto tre persone, quando ne dovrebbero ospitare al massimo due e ciò comporta il montaggio di letti a castello. In numerose celle, scrivono, ci sono infiltrazioni d’acqua dal soffitto e si è costretti a utilizzare i secchi per evitare gli allagamenti, mentre si teme per il rischio di corto circuito nelle lampade sulla volta. I citofoni per chiamare le guardie non funzionano più e così lavatrici e asciugatori, si legge ancora nella lettera-appello dove si racconta che le temperature nelle celle durante l’estate hanno raggiunto i 50 gradi e vi è stata l’impossibilità di acquistare un ventilatore. Proteste anche per le limitazioni nell’acquisto dei generi alimentari dall’esterno e i prezzi molto elevati nell’acquisto all’interno. Problemi poi sono indicati a causa di le altre limitazioni legate a varie attività, quali l’istruzione, la cura della persona, le attività lavorative. Da qui la decisione di protestare. L’agitazione dovrebbe scattare il prossimo 10 novembre, se nel frattempo all’interno dell’istituto penitenziario di Massama non saranno attuati i cambiamenti richiesti. I 160 detenuti hanno spiegato che cominceranno rifiutandosi di andare a passeggio per cinque giorni. Poi ogni cinque giorni metteranno in atto un’altra protesta, sempre più dura, sino allo sciopero della fame e della sete. Roma. Il Garante: “Il Ministero della Giustizia faccia luce sul parto a Rebibbia” di Edoardo Romagnoli agenziadire.com, 17 settembre 2021 Nel corso dell’audizione alla IX Commissione della Regione Lazio, Stefano Anastasìa definisce “molto discutibile” la permanenza in carcere della detenuta incinta che ha poi partorito il 31 agosto. Si è svolta questa mattina l’audizione della IX Commissione della Regione Lazio, presieduta dalla consigliera Eleonora Mattia, per fare luce sul recente caso di cronaca di una donna di 23 anni che ha partorito nel carcere di Rebibbia. “La donna è entrata in istituto il 23 giugno in base a un’ordinanza del Tribunale di Roma, quarta sezione penale, di convalida dell’arresto - ha spiegato Alessia Rampazzi, Direttrice aggiunta presso la Casa Circondariale femminile Rebibbia di Roma - con la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Lo stato di gravidanza era a conoscenza dell’Autorità giudiziaria e nonostante ciò, per lei come per le altre - erano 4 donne - erano ravvisabili esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Quindi in base alla legge la donna ha fatto ingresso in Istituto dopo un passaggio obbligato al Pronto soccorso; nel certificato si dava atto che era alla 27esima settimana”. La detenuta viene prima messa in una sezione ad hoc dove i nuovi entrati passano il periodo di isolamento sanitario come misura anti Covid per poi passare al reparto infermeria, sempre in isolamento per 14 giorni. “Il primo agosto è stata presentata dall’avvocato un’istanza di scarcerazione - ha continuato Rampazzi - Il Tribunale di Roma ci ha chiesto l’acquisizione di una relazione sanitaria urgente, richiesta datata il 7 agosto, e noi abbiamo trasmesso subito al dirigente sanitario per l’adempimento ed è stata inviata il 10 agosto. Il 18 agosto la detenuta viene portata in ospedale in via d’urgenza, successivamente alla visita e dopo qualche ora è stata dimessa” e ha fatto rientro in carcere. La direttrice non ha altre comunicazioni da parte dell’autorità giudiziaria così la donna rimane in carcere per poi partorire il 31 agosto alle 1.30 di notte. “Tutto è stato molto veloce - ha concluso la direttrice - tutto è avvenuto nel giro di cinque minuti”. Dalla relazione degli agenti presenti emerge che una volta che la detenuta ha suonato il campanello, alle 1.30, in cella è accorsa un’infermiera che ha successivamente chiamato un medico. Quindi la donna non avrebbe partorito da sola nella cella con l’ausilio di una compagna, come scritto sui giornali, ma sarebbero stati presenti un medico e una infermiera. “Mentre il medico era al telefono con il 118 - ha concluso la direttrice - la donna ha partorito, erano le 1.35, quindi il tutto è avvenuto nel giro di cinque minuti”. Stefano Anastasia, Garante Regione Lazio dei diritti delle persone private della libertà personale, ha sottolineato come “nello svolgimento dei fatti all’interno dell’Istituto di Rebibbia il personale penitenziario e quello sanitario abbiano fatto quello che erano in condizione di fare, in base alle disposizioni di legge, dei loro poteri e della loro organizzazione. Resta molto discutibile la presenza in carcere della signora che ha partorito e delle sue compagne di reato e di detenzione. Resta discutibile l’interpretazione data dei motivi di eccezionale rilevanza che possano superare il divieto espresso nei codici di procedura penale di custodia cautelare in carcere per le persone in stato di gravidanza. Secondo punto è quello relativo alla valutazione della istanza di revoca o di attenuazione della misura cautelare presentata l’1 agosto” dall’avvocato della donna. “Nel tempo di una settimana - ha concluso Anastasia - il giudice chiede una relazione sanitaria, la direzione sanitaria fornisce le informazioni nel tempo di tre giorni e poi però non accade più nulla, questo è il problema. Probabilmente anche perché siamo dentro i turni di ferie nel mese di agosto e le attività del tribunale sono rallentate e selezionate per altri casi di urgenza, ma a mio modo di vedere tutto questo appare ingiustificabile. Spero che l’indagine disposta dal ministero della Giustizia possa approfondire questi aspetti perché mi pare che i problemi siano nella responsabilità giurisdizionale, nell’adozione del provvedimento di custodia cautelare e nel mancato esame di revoca del provvedimento fatta dal legale”, conclude il Garante. Milano. Candidato per Sala dopo 15 anni da direttore del carcere di San Vittore di Simone Bianchin Corriere della Sera, 17 settembre 2021 Luigi Pagano è in lista con i Radicali: “Ogni persona recuperata è un pericolo in meno per la società”. “Ho lavorato a Milano per trent’anni, mi sento molto milanese”. Luigi Pagano, direttore del carcere di San Vittore per 15 anni, dal 1989 al 2004, si candida con i Radicali. Quindi si schiera per la rielezione di Giuseppe Sala. E ciò che gli sta a cuore - spiega - è che i progetti avviati nelle carceri milanesi e lombarde per migliorare le condizioni di vita e le opportunità dei detenuti, si consolidino e proseguano perché, dice, “non è semplice mantenere le posizioni ottenute. C’è sempre il rischio che tra corsi e ricorsi, riforme e controriforme, le cose cambino”. Dal 2004 è stato, per otto anni provveditore regionale degli istituti penitenziari Lombardi e, dal 2012 al 2015 a Roma come vicecapo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è in pensione dal 1 maggio 2019. Come ha vissuto questi ultimi due anni? “Sono stato consulente del difensore civico della Regione sino all’insorgere della pandemia vissuta, come tutti, con grande ansia. Ma, avendo tempo a disposizione, ne ho approfittato, per scrivere un libro di memorie”. Un napoletano che si candida a Milano... “Ho salde radici napoletane che non rinnego, ma Milano mi ha accolto e fatto crescere umanamente e professionalmente. Nel Duemila ho ricevuto anche l’Ambrogino d’Oro per quanto era stato realizzato in ambito penitenziario. Un riconoscimento che ho inteso condividere con i miei collaboratori. A San Vittore, oggi intitolata al Maresciallo Di Cataldo, nonostante i 2mila detenuti presenti abbiamo realizzato il primo call center in un carcere, lavorando in collaborazione con un gestore telefonico esterno. Poi abbiamo creato all’esterno un luogo dove accogliere le donne detenute, che portano con sé i bambini fino a tre anni. E anche lo stesso carcere di Bollate è nato e si è sviluppato su un progetto ideato da operatori penitenziari milanesi”. Come mai con i Radicali? “Mi hanno offerto la candidatura e ho accettato con molto piacere, abbiamo sensibilità comuni, condivisione di valori e di intenti. Ho avuto il piacere di conoscere Marco Pannella, una figura importante per il mondo delle carceri e non solo. E poi sono diventato, negli anni, buon amico di tanti di loro. Spesso ci siamo sentiti per trovare, nelle pieghe dell’ordinamento penitenziario, soluzioni ai problemi che insorgevano. Così mi è sembrato naturale dire di sì, anche se alla politica non avevo pensato”. Che cosa l’ha convinta? “L’idea di poter mettere a disposizione l’esperienza accumulata, nel nostro territorio non ci sono solo carceri, ma anche centri regionali importanti sul “come” si sconta la pena. E il tema è fondamentale per la sicurezza sociale. Ogni persona recuperata è un pericolo in meno per la società”. Ritiene che Sala abbia lavorato bene sul tema carceri? “Sì, credo proprio di sì. Con lui quando era amministratore Expo, e grazie anche all’apporto della Magistratura di sorveglianza di Milano, siamo riusciti addirittura a far lavorare, ed era lavoro retribuito, 100 detenuti ai controlli degli accessi dell’esposizione. Sono stati irreprensibili. Sala ci diede merito di quello che era stato fatto anche dichiarandolo in eurovisione”. Voghera (Pv). La vendemmia di studenti e detenuti: sarà il vino del dialogo e della solidarietà di Alessio Alfretti La Provincia Pavese, 17 settembre 2021 Il progetto della parrocchia di San Pietro, delle scuole superiori e del carcere di Voghera con le cantine Torrevilla. Ogni mattina, di buon’ora, i due bus navetta partono da Voghera con gli operai, destinazione vendemmia nei vigneti di Torrevilla. A bordo, non semplici manovali, ma gruppi di studenti del liceo e detenuti della casa circondariale. Una curiosa combinazione di forza lavoro, che non terminerà con il raccolto delle uve: ragazzi e carcerati proseguiranno il loro impegno sino a creare un vino, con tanto di nome e marchio. “Un modo per sottolineare l’eccellenza di questo prodotto e dell’impegno che vi è dietro” sottolinea con orgoglio don Pietro Sacchi, il parroco della parrocchia di San Pietro a Voghera, che è l’anima del progetto. È grazie infatti alla sua esperienza nelle carceri e a contatto dei giovani che è nata l’idea di unire due mondi apparentemente distanti, ma accomunati dalla voglia di fare esperienza, crescere e guardare avanti. Diverse le motivazioni, molto simili gli obiettivi. A tradurre il tutto in concreto ci ha pensato l’associazione Terre di Mezzo, che ha preso forma nel 2018 proprio dalle competenze accumulate dal don e dai ragazzi con cui ha lavorato. A recarsi ogni giorno tra i filari lungo le colline fuori Voghera sono 30 studenti dei licei cittadini, 3 alunni dell’istituto Maserati e 4 detenuti del carcere di Voghera. Per i ragazzi l’esperienza rientra nell’alternanza scuola-lavoro, mentre per gli ospiti del carcere iriense si tratta di un progetto di inserimento in borsa lavoro. Turnano su squadre da 8 elementi, composta ciascuna da 2 caposquadra, 2 detenuti e 4 studenti. A volte le squadre lavorano unite, in altre occasioni si separano tra i vigneti. Comunque vada la giornata, i gruppi si impegnano sempre, affiatati, senza intoppi e con tanto ottimismo. Il loro lavoro prosegue da alcune settimane e vedrà gli operai calcare i filari sino alla fine di settembre. “Ogni mattina le navette partono da Voghera, con tanto di pranzo al sacco preparato dai detenuti, e raggiungono i vigneti nei quali c’è bisogno di loro, grazie alla collaborazione delle cantine Torrevilla, che segnalano le disponibilità. Terminata la raccolta, grazie al confronto con esperti, si penserà a realizzare il vino. Vogliamo valorizzare l’impegno profuso, con una vendemmia a mano oggi sempre più rara”, spiega ancora il parroco. Non mancano momenti di confronto, con un incontro formativo a settimana, nel corso del quale ragazzi e detenuti dialogano tra loro e con esperti dei vari settori, da quello giuridico a quello pedagogico. Momenti che servono a calibrare il lavoro, ma anche a fare tesoro dell’esperienza. “Non possiamo che ringraziare - prosegue don Pietro - la dirigente dei licei Galilei e Grattoni, Sabina Depaoli, il dirigente del Maserati, Filippo Dezza, la direttrice della casa circondariale, Stefania Mussio, e il presidente della cantina Torrevilla, Massimo Barbieri”. Quest’ultimo guarda soddisfatto al proseguire dell’esperienza: “Siamo sempre aperti a coinvolgere il territorio nelle nostre attività - dichiara Barbieri - e non può che farci piacere veder crescere questo bellissimo progetto”. Siena. Formazione in carcere: al via nuovo progetto a Santo Spirito di Cecilia Marzotti sienanews.it, 17 settembre 2021 Il carcere di Santo Spirito ancora una volta capofila in un progetto bandito e finanziato dalla Regione e approvato dal comune di Siena. Un progetto voluto con ostinazione da una delle due educatrici e approvato dalla direzione della casa di reclusione. A Santo spirito da sempre l’obiettivo primario è il reinserimento basta pensare ai tanti corsi portati avanti nel tempo e il progetto “un’occasione per ripartire” è solo l’ultima fatica. Siamo arrivati a metà del percorso che sta impegnando nove detenuti, tutti giovani, ed era necessario tirare un primo e non definitivo bilancio della parte relativa alla formazione di muratori. Così nella sala polivalente della Casa circondariale oltre alle educatrici sono arrivati il garante per i detenuti, avvocato Cecilia Collini, l’orientatrice del corso, Giada Ridoni, il formatore, Francesco Scialdone e il responsabile della sede territoriale di Chiusi per Toscana formazione srl, Simone Tiezzi. Gli ospiti davanti ai detenuti hanno tracciato quanto fin qui fatto e le concrete possibilità lavorative che i nove detenuti avranno una volta scontata la pena. Ciascuno di loro ha un pregresso diverso, storie ed esperienze differenti ma oggi si ritrovano tutti insieme e formano una squadra ben affiatata che sta lavorando per riportare agli antichi splendori le pareti interne che proteggono l’orto e il giardino risistemato tempo fa dagli studenti dell’istituto agrario di Siena. “Sono contenta per la partenza del corso, ha detto il garante. Spero che ci siano altre iniziative di questo genere. Voi state facendo un lavoro che ha una valenza assoluta. Il tempo che state qui non è solo il tempo della pena”. In effetti i nove partecipanti escono dalle loro celle per sei ore al giorno e sotto lo sguardo attento del formatore e della polizia penitenziaria portano avanti un lavoro che sta dando già i primi risultati. “Mi hanno detto che siete molto motivati” sottolinea una delle due educatrici di Santo Spirito e il gruppo annuisce all’unisono. Giuseppe, Ibu, Joussef, Antonio, Florian, Giuseppe, Adel, Montasser (all’incontro uno non era presente) si guardano in faccia e spronati dalle domande del garante e degli altri tranquillamente rispondono e alla fine si prendono in giro come accade in gruppi affiatati. Una volta terminato l’incontro tutti di nuovo al lavoro. Ciascuno di loro ha i propri attrezzi e incarichi ben definiti che non possono essere scambiati con gli altri. Alla fine di questo percorso i partecipanti saranno supportati nella ricerca di un’occupazione. La parte idraulica partirà a breve e già ci sono numerose “domande”. Il pesante portone si chiude dietro di noi e ripensando ai partecipanti e alla loro voglia di andare avanti viene in mente quanto detto da Roosvelt: “Ogni volta ti viene chiesto se puoi fare un lavoro, rispondi: certo che posso. Poi datti da fare e scopri come farlo”. Ferrara. La situazione delle carceri al centro degli Emergency Days estense.com, 17 settembre 2021 La situazione delle carceri sarà il tema al centro della seconda giornata, oggi 17 settembre, degli Emergency Days Ferrara con un incontro pubblico, organizzato dalle ore 18.30 e dal titolo “Ingiustizia carceraria”, che vedrà come relatori Alessio Scandurra (responsabile osservatorio nazionale carceri per l’associazione Antigone), Stefania Carnevale (professoressa associata di diritto processuale penale di Unife) e Antonio Amato (ex responsabile dell’area Misure e sanzioni di comunità dell’Ufficio per l’Esecuzione penale esterna di Bologna). Il dibattito, che si svolgerà come tutta la manifestazione al centro sociale Rivana Garden in via Gaetano Pesci 181, verrà moderato da Mauro Presini, maestro elementare specializzato nell’integrazione e curatore, da marzo 2016, della redazione Astrolabio: il giornale del carcere di Ferrara. Dalle 22 spazio alla musica dei Basta Poco, tribute band di Vasco Rossi, che ripercorreranno, con un viaggio entusiasmante, la storia e le canzoni più significative del cantautore di Zocca. Come sempre da non perdere dalle ore 18:30 la libreria tematica per grandi e piccini Librieletture e l’infopoint di Emergency per avere informazioni e materiale sulle attività dell’associazione con la possibilità di firmare l’appello “Nessun profitto sulla pandemia. Tutti hanno diritto alla protezione da Covid-19”: si tratta di un Ice, ossia la modalità con cui i cittadini europei possono proporre una azione legislativa concreta alla Commissione Europea con lo scopo di rendere i vaccini e le cure un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente per tutti e tutte (maggiori informazioni https://noprofitpandemic.eu/it/). Aprirà alle ore 19 lo stand gastronomico gestito dai volontari di Emergency Ferrara, in collaborazione con il centro sociale Rivana Garden e l’associazione Nati in calzamaglia, dove si potranno gustare ottimi piatti o bersi una birra. È previsto dalle ore 18:30 fino alle 20 la possibilità di asporto chiamando il numero 3339940136. Tutto il ricavato della XI edizione degli Emergency Days Ferrara sarà devoluto al programma Italia di Emergncy: un progetto nato dalla volontà di rendere concreto il diritto alle cure nel nostro paese e che dal 2006 ha offerto quasi 450 mila prestazioni. Per accedere alla manifestazione è obbligatorio il green pass ed è vivamente consigliata la prenotazione (tramite form al sito emergencydaysferrara.wordpress.com o al numero di telefono 3339940136), il tutto nel rispetto delle normative anti-Covid attualmente vigenti. Milano. Una mostra d’arte accompagnata dalle voci dei detenuti di Vigevano di Vittoria Mascellaro artribune.com, 17 settembre 2021 La Fondazione Arnaldo Pomodoro ospita una mostra che parla di corpo e assenza. Mescolando alle opere degli artisti Nevine Mahmoud, Margherita Raso e Derek MF Di Fabio le parole dei detenuti della Casa di Reclusione di Vigevano. Come esporre la presenza, quando questa viene meno? Ecco la domanda che fa eco ai lavori di Nevine Mahmoud, Margherita Raso e Derek MF Di Fabio. Così Rosa in mano presenta un assemblage di sensualità mista a erotismo, in cui la figura umana assume una nuova forma di libertà. Viaggio sinestetico tra corpi danzanti, Rosa in mano è un inno alla vitalità. In un gioco tra presenze e assenze, i lavori presentati per questo secondo appuntamento di Project Room tentano di ripensare al corpo nell’era della sua scomparsa. Così le silhouette intrecciate di Margherita Raso sembrano inscenare una danza vorticosa, dove le figure, irriconoscibili, si abbandonano al flusso della leggerezza sul drappo da lei ricamato. Il tessuto, largo oltre 3 metri, cambia la percezione degli spazi, fino a formare un confine oltre il quale non è più possibile scrutare. Difatti lo sguardo sembra rimanere incastrato tra le pareti della Fondazione, che a loro volta si animano grazie alle sculture di Nevine Mahmoud. L’artista londinese presenta una lingua marmorea, che fronteggia il tessuto di Raso. Il muro diviene un’estensione dell’organo, come a indicare che lo stesso spazio può prendere vita. Ad accompagnare la scultura del gusto, i seni in alabastro e vetro. Ecco che la poetica della seduzione di Mahmoud è esaltata e contraddetta dagli stessi materiali. A “espandere” la mostra pensa la collezione di dialoghi realizzati da Derek MF Di Fabio, che si è occupato del display narrativo. Da sempre interessato all’ascolto e all’interpretazione delle situazioni, l’artista ha ideato un’audioguida sui generis. Prende il nome di Cuscini la raccolta di idee, pensieri e citazioni che i detenuti della Casa di Reclusione di Vigevano hanno raccontato dopo aver visto, in anteprima, le immagini di questa mostra. L’insieme delle loro parole ha dato vita a sei tracce musicate, interpretate da lettori italiani e internazionali e pensate per essere ascoltate in cuffia all’interno della Fondazione. L’intimità di questi suoni non solo modella le forme nello spazio, ma assume anche le sembianze di un invito a uscire da una condizione di reclusione per godere della libertà. Di fatto Cuscini è diventata un’opera a sé stante, pronta a essere ascoltata ovunque. Nato a febbraio 2020, il workshop di Derek MF Di Fabio ha avuto una vita molto breve, subendo le conseguenze della pandemia. Facendo di necessità virtù, l’artista ha pensato di trasformare il workshop in presenza nella Casa di Reclusione in un epistolario di lettere ed email che ha scambiato con i detenuti per tutti questi mesi. Attraverso la scrittura ha cercato di indagare la sfera intima di ciascun partecipante, sfidando i limiti burocratici - dati dalla lentezza della comunicazione - e quelli personali - dettati dalla riservatezza che ognuno di loro ha dovuto vincere. La politica non sa più comunicare. Nel vuoto sale il rancore di Roberto Saviano Corriere della Sera, 17 settembre 2021 Più che un vero interesse nei confronti del Green Pass e dei vaccini, una parte significativa dei contestatori è semplicemente incazzata. Così scendere in piazza appare come l’unico modo concreto per ribellarsi e manifestare un disagio che chi governa non riesce più a interpretare. Non esiste nulla di più personale e allo stesso tempo collettivo di un vaccino. Ecco perché tutti, qualunque sia la nostra opinione, abbiamo la necessità di riflettere e confrontarci, anche con chi non la pensa come noi. “Rispetto, libertà, dignità”, queste le parole vergate a mano su un cartello verde mostrato alla manifestazione contro il Green Pass organizzata dai movimenti di estrema destra e dai no vax a Roma, il 24 luglio 2021. Ho scelto questa foto perché non credo sia giusto evocare lo spettro della dittatura quando si discute di vaccini. Quel cartello verde mi ha fatto pensare a Gino Strada, a Gino che in un ospedale di Emergency in Sierra Leone ha combattuto contro il virus di Ebola quando ancora non c’era il vaccino, un vaccino che avrebbe salvato molte vite. Ho provato più volte a comprendere come possa accadere che qualcuno arrivi a insinuare che la vicenda del Green Pass abbia a che fare con le stelle gialle della Shoah, con la compromissione della democrazia. Contro le stelle gialle agiva la Gestapo con arresti e deportazioni, quindi è un paragone intollerabile. Ma attenzione a tirare una linea pensando che da una parte ci siano i buoni, i responsabili, i vaccinati e dall’altra i cattivi, gli ignoranti, gli ingenui, i manipolati, i no vax. Mi sono domandato spesso come si sia arrivati a una tale polarizzazione, e mi sono dato delle risposte. L’assurda incapacità comunicativa istituzionale credo sia alla base di tutto. Non assenza di informazioni, ma informazioni non provenienti da persone di fiducia. Non sto parlando di fonti generiche,ma di persone competenti legate ai cittadini da un rapporto di fiducia. La latitanza, per mancanza di risorse, della medicina territoriale, dei medici di base, ha creato un vuoto che ciascuno ha riempito a seconda delle proprie possibilità, inclinazioni, idee. Carente la medicina di base, fondamentale anello di congiunzione tra le persone e le istituzioni mediche, sono rimaste le opinioni. Non dati, non risultati di ricerche, ma opinioni. E così è accaduto che l’informazione scientifica sia diventata oggetto di dibattito per il tramite dei tanti virologi che hanno occupato gli spazi comunicativi offrendo la loro opinione, cosa legittima in generale, ma rischiosa quando applicata all’ambito scientifico. Nessun dogma, ci mancherebbe, nessuna adesione a nessun pensiero unico, solo l’enorme difficoltà di traslare il dibattito su temi scientifici che spesso ci arriva già masticato e digerito: troppo semplice per essere aderente alla realtà. Ed è la necessità di semplificare tutto che ha generato la confusione che stiamo vivendo ora. Gli Usa fanno una scelta drastica, decidono di far parlare scienziati che in realtà diventano dei portavoce e comunicano il punto finale di un percorso di studi. La differenza tra un risultato e un’opinione non è trascurabile. Faccio un esempio. Se io vado in uno studio televisivo e do una lettura filosofica del contemporaneo, il mio pensiero resta lì: chi mi ascolta può condividere o può respingere, ma sa che si tratta di una mia opinione. Per la comunità scientifica vale un discorso completamente diverso e, per di più, i risultati scientifici sono legati al tempo, sono dipendenti dal tempo, un tempo lungo, dilatato e non compresso, immediato. Un tempo che spesso è foriero di altri dubbi e altre domande. Ed è proprio dalla ricerca di verità e certezze che deriva la diffidenza verso il vaccino e verso il Green Pass. Dall’attesa, l’attesa di una verità che sembra non arrivare mai. Ma ho anche l’impressione che la galassia no vax attiri chi ha grande rancore. C’è una parte significativa del mondo no vax che non ha un vero interesse nella vicenda Green Pass o vaccini, ma è semplicemente incazzata e in quel calderone mette la possibilità di ribellarsi. Non parlo di una ribellione personale, ma di un’insoddisfazione sociale, collettiva. Senti che la politica non ti rappresenta, che i diritti ti vengono sottratti, che il lavoro manca. Non ti fidi ed estendi la mancanza di fiducia anche all’ambito sanitario che ti è lontano, spesso inaccessibile, spesso ostile, come tutto il resto. È lo stesso grande urlo - un urlo sguaiato - non un grido di giustizia ma uno sfogo, che ti portava a votare partiti populisti di cui probabilmente neanche ti fidavi, ma che sceglievi perché speravi ribaltassero il tavolo delle tante promesse non mantenute. La vicenda no vax mostra, ancora una volta, il disagio che la politica democratica non riesce più interpretare: una rabbia confusa, reazionaria, perché quando la strada del dialogo ti sa di ipocrisia tu vai dall’altra parte, non agisci ma reagisci. E la reazione, quali che siano le conseguenze, diventa per alcuni l’unico orizzonte possibile. Pandemia di Covid e disagio mentale: raddoppiati i tentativi di suicidio tra adolescenti di Silvia Turin Corriere della Sera, 17 settembre 2021 La mancanza di relazioni non virtuali, l’assenza dalla scuola e una situazione di stress prolungato hanno inciso pesantemente su un equilibrio psicologico che, per alcuni, era precario. Nel secondo lockdown i ragazzi sono stati spesso soli, più che nel primo. Il ruolo dei genitori. La cronaca del primo giorno di scuola in Lombardia (il 13 settembre) ha restituito la tragica notizia di tre casi di suicidio tra ragazzini, con due 15enni morti e una 12enne gravissima. Solo tre giorni prima, il 10 settembre, si ricordava la “Giornata mondiale per la prevenzione al suicidio” con un dato allarmante in primo piano: con la pandemia si è registrato un raddoppio dei tentati suicidi proprio tra gli adolescenti. Il suicidio costituisce la seconda causa di morte nei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (la prima sono gli incidenti stradali) e l’autolesionismo colpisce in Europa circa 1 adolescente su 5. L’arrivo del Covid-19 e le relative restrizioni alla libertà, circolazione e didattica in presenza per i ragazzi hanno inciso pesantemente su un equilibrio psicologico che, per alcuni, era precario. Presso l’osservatorio dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù il numero delle consulenze specialistiche per ideazione suicidaria e tentativo di suicidio è quasi raddoppiato, così come le ospedalizzazioni per tali motivi: passate dal 17% nel gennaio 2020 al 45% del totale nel gennaio 2021. Per questo, l’ospedale ha predisposto un “Servizio per la gestione dell’autolesionismo e la prevenzione del suicidio in età evolutiva” che si offre come Centro di riferimento, con lo scopo di prendere in carico rapidamente i bambini e gli adolescenti che giungono al Pronto Soccorso, avviando quanto prima un inquadramento diagnostico e un trattamento integrato farmacologico per il paziente e psicoterapeutico per l’intero nucleo familiare. Il Servizio del Bambino Gesù è integrato da una linea telefonica per le consulenze psicologiche urgenti, attiva tutti i giorni 24 ore su 24. “L’autolesionismo esiste da sempre tra i ragazzi - spiega Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù: le statistiche ci dicono che almeno un 20% degli adolescenti in Italia e oltre il 25% nei Paesi del nord Europa fanno attività di autolesionismo, cioè si provocano danni corporali (anche non a scopo suicidario) perché questo comportamento, a loro dire, sarebbe in grado di “contenere” la loro angoscia interiore. È un fenomeno molto diffuso e sottovalutato, spesso associato a un disturbo mentale di tipo depressivo”. La pandemia ha peggiorato il fenomeno: al Bambino Gesù, nel mese di aprile 2020 il 61% delle consulenze neuropsichiatriche ha riguardato fenomeni di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio (rispetto al 36% dell’aprile 2019). A gennaio 2021, durante la seconda ondata pandemica, il 63% delle consulenze è stato effettuato per ideazione suicidaria e tentativo di suicidio (rispetto al 39% del gennaio 2020). I comportamenti autolesivi (soprattutto lesioni da taglio) sono stati rilevati nel 52% dei ricoveri di gennaio 2021, in aumento rispetto al 29% dell’anno precedente. “Questo periodo della pandemia si è portato dietro in generale uno stress individuale e collettivo che è durato moltissimo. I fattori di stress prolungati possono favorire la comparsa di disturbi mentali, anche quelli che stanno alla base di comportamenti autolesivi - illustra Vicari. Non ci sono cause specifiche direttamente legate alla pandemia, ma, osservando le differenze tra il primo e il secondo lockdown, possiamo azzardare alcune ipotesi per spiegare l’aumento delle richieste di aiuto. Durante il primo lockdown abbiamo avuto una riduzione dei ricoveri e di accessi al pronto soccorso. Nel secondo lockdown abbiamo avuto un aumento degli stessi del 30%. Sicuramente nel primo lockdown ha giocato un ruolo il timore di andare in ospedale, ma non solo. Con il primo lockdown le famiglie sono rimaste chiuse in casa insieme: i genitori non andavano al lavoro e i ragazzi non andavano a scuola. Nel secondo lockdown i genitori sono tornati al lavoro, ma le scuole (ovviamente non tutte) sono rimaste chiuse. I ragazzi sono rimasti soli ed è quello che ci raccontano al Pronto Soccorso: ci manifestano la loro solitudine. Durante il secondo lockdown è venuta a mancare una rete di relazioni che consentisse di ammortizzare lo stress percepito così fortemente dagli adolescenti; relazioni positive e valide sia in famiglia, sia a scuola, che nel gruppo dei pari”, dice l’esperto. Non bastava chiamarsi ogni giorno al cellulare con gli amici? “Le relazioni mediate dal cellulare non sono concrete e reali: i ragazzi non sono se stessi sui social, si abbelliscono, si “nascondono” - osserva Vicari -. I ragazzi imparano chi sono nel confronto reale con gli altri. Capiscono se sono simpatici, antipatici, altruisti o egoisti stando in mezzo agli altri, grazie ai commenti del gruppo dei pari. La relazione reale è fatta di comunicazioni non verbali, di manifestazioni corporali e queste si perdono nella relazione virtuale”. E le relazioni in DAD (Didattica A Distanza) con i professori? “A scuola l’adulto non è soltanto, come nella DAD, il dispensatore di competenze, ma anche colui che stabilisce una relazione empatica con i ragazzi. Questo è mancato. È mancato il professore che la mattina ti vede con la faccia scura e ti chiede che cos’hai. La scuola è sempre più un’agenzia di collocamento per futuri disoccupati, cioè ci si preoccupa sempre più di promuovere competenze specifiche del mondo del lavoro piuttosto che il piacere di imparare, il gusto di conoscere le cose, la formazione dell’uomo e del cittadino. L’ambiente, però, è un modulatore fondamentale dei disturbi mentali”, dichiara il professore. In che senso? “Nell 80% dei casi c’è una depressione o un disturbo dell’umore dietro le malattie mentali - chiarisce lo specialista -. In generale c’è una forte base genetica, una familiarità, che è il primo fattore di rischio, ma ci sono anche fattori di protezione, “modulatori” ambientali, come li chiamiamo noi, che possono favorire o meno la manifestazione del rischio biologico. Ad esempio, i traumi ripetuti nell’infanzia, l’incapacità e la difficoltà a costruire delle relazioni valide, la difficoltà a gestire le nostre emozioni: questi sono tutti i fattori di rischio che possono favorire la comparsa del disturbo mentale”. Come affronta lo stress un adolescente? “In alcuni studi si dimostra che il modo in cui i ragazzi rispondono a uno stress è legato a come genitori vivono lo stress, cioè i genitori possono essere nei confronti di un minore contenitivi dell’ansia oppure no. Se i genitori sono contenitivi delle emozioni, cioè sono un supporto emotivo per i ragazzi, i ragazzi vivono molto meglio, se i genitori non lo sono, tutto si moltiplica, si amplifica”, sostiene Vicari. Quali sono i campanelli d’allarme? “Sicuramente i cambiamenti. Un genitore si deve preoccupare se un ragazzino era solare, andava bene a scuola, aveva un sacco di amici, faceva attività sportiva, si godeva la vita e improvvisamente diventa cupo, triste, taciturno, non vuole più uscire di casa, non vede nessuno, non dorme, non mangia più. I cambiamenti che durano per mesi”, spiega l’esperto. Cosa dovrebbero fare (o non fare) i genitori? “Come detto, possono amplificare o contenere il disagio dei ragazzi. Un genitore può essere un elemento che rinforza le capacità dei figli, oppure no. Ci sono genitori giudicanti o non giudicanti. Bisogna esserci, accettando l’idea che loro non vogliano parlarci, perché gli adolescenti sono così, devono viverci come una controparte, imparando chi sono grazie ai litigi con noi, è normale. E bisogna essere un modello per i figli, non fare da amici e confidenti. Questo richiede un grande equilibrio: i genitori per primi sono spaventati delle reazioni dei propri figli, tant’è che li accontentano in tutto; invece devono riscoprire il loro ruolo educativo”, osserva lo specialista. Quanto questo uso smodato dei cellulari contribuisce ai fattori di stress di cui abbiamo parlato? “Non è lo strumento in sé, però ad esempio per spiegare il grande aumento disturbi mentali che stiamo osservando possiamo ipotizzare come concausa la deprivazione del sonno: molti ragazzi dormono meno, perdere ore di sonno aumenta l’irritabilità e si porta dietro una serie di fattori di rischio per i disturbi mentali”, conclude Vicari. Droghe. Tre modifiche per cancellare lo stigma di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 17 settembre 2021 Sono anni che, specie grazie a il manifesto, insistiamo con la necessità di modificare la legge sulle droghe. Dal lancio del referendum online sulla cannabis abbiamo dimostrato la portata politica e il favore popolare della proposta referendaria. Più di un milione e mezzo di visitatori al sito ReferendumCannabis.it e oltre 465.000 firme autenticate in quattro giorni sono numeri straordinari ma non sorprendenti. Dopo la incredibile mobilitazione nelle piazze per il referendum sull’eutanasia legale, è arrivata la controprova su un tema che la politica dei partiti considera “di nicchia”, marginale, poco interessante. Questi numeri dimostrano, invece, quanto sia diffuso a livello sociale e culturale. La cannabis è un tema prioritario per molti e non potrebbe esser altrimenti visto che viene usata abitualmente da sei milioni di persone. È un tema, come tanti, “sensibile”. Ma non nel senso inteso dai Letta o Renzi di turno: è sensibile perché tocca - o ha toccato nel corso della vita - quasi la metà della popolazione adulta italiana! Per sbloccare lo stallo politico e istituzionale serviva un segnale politico forte, grazie alla firma digitale - tra l’altro frutto di un ricorso di Mario Staderini a seguito di una campagna referendaria che articolava una depenalizzazione della cannabis nel 2012 - abbiamo resto immediatamente attivabile il “pieno godimento” dell’articolo 75 della Costituzione. Con il gruppo di lavoro con cui abbiamo discusso quest’estate siamo consci dei limiti dello strumento referendario (che può solo abrogare leggi), e degli orientamenti che negli anni la Corte Costituzionale ha introdotto. Il quesito di quest’estate si pone in dialogo con la Corte e le sue sentenze facendo tesoro delle pronunce sull’ammissibilità dei referendum del ‘93 e del ‘96. Ma da allora sono passati 25 anni. L’ondata proibizionista di Reagan e Craxi è finita come il “mondo senza droghe è possibile in 10 anni” dell’intrepido Pino Arlacchi. Proclami morti e sepolti insieme alle centinaia di migliaia di vittime e desaparecidos vittime della guerra alla droga. Nel 2016 l’Onu ha messo nero su bianco la flessibilità delle convenzioni e la possibilità per gli Stati di innovare: Uruguay, Canada, Giamaica, Messico e 19 stati Usa, la culla del proibizionismo, hanno scelto la regolamentazione legale della cannabis. L’Italia resta ferma alla Jervolino Vassalli di oltre 30 anni fa. Il quesito prevede l’eliminazione del reato di coltivazione di tutte le piante. Tutte, mantenendo il reato per la fabbricazione, produzione e detenzione, condotte più che sufficienti per colpire chi non si coltiva la pianta di cannabis per uso personale. Anche l’hashish non rientra nella “mera” coltivazione. Si rimuove l’ultimo alibi nella legge che induce - nonostante la sentenza a sezioni penali unite della Cassazione - procure e forze dell’ordine a perseguire chi coltiva per uso personale. Si interviene inoltre con l’eliminazione del carcere per la cannabis eliminando le pene detentive per le condotte poste al di fuori del sistema “autorizzativo” già presente nel Testo Unico, per, tra le altre cose, aprire la strada a una più completa regolamentazione legale. Infine, si chiede la cancellazione della sanzione amministrativa più applicata e afflittiva: il ritiro della patente. Questi tre ritagli rimuovono lo stigma verso chi usa una foglia oggi colpita con il ritiro della patente anche a piedi! O segnalate dopo una perquisizione in casa. Chiaramente rimane intatto l’art. 187 del codice della strada che colpisce la guida in stato alterato. Quando abbiamo presentato il quesito in Cassazione il 7 settembre 500.000 firme in 20 giorni sembravano un’impresa quasi impossibile. Oggi sono una realtà. Il referendum è promosso dalle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Società della Ragione e Antigone. Alla proposta partecipano rappresentanti di +Europa, Possibile e Radicali italiani, Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, Potere al Popolo e decine di gruppi. Il referendum sulla cannabis vola. Una lezione per la politica di Franco Corleone L’Espresso, 17 settembre 2021 Quando martedì 7 settembre abbiamo depositato in Cassazione il quesito per il referendum abrogativo di alcune norme superate o particolarmente odiose della legge antidroga del 1990 eravamo consapevoli di compiere un tentativo pieno di follia. Ci dicevamo che solo un miracolo poteva farci raggiungere l’obiettivo delle 500.000 firme entro il mese di settembre. Alcuni di noi hanno dedicato tempo e anni per raccogliere firme nei mitici banchetti con tutte le difficoltà organizzative per l’autenticazione e la certificazione. La firma on line non vale meno: ha lo stesso spessore democratico e non può essere demonizzata. È accaduto qualcosa di straordinario. Una vera valanga per abbattere una persecuzione che dal 1990 ha mandato in carcere centinaia di migliaia di persone per detenzione e piccolo spaccio delle sostanze stupefacenti vietate. Per il semplice consumo di uno spinello oltre un milione di giovani sono stati criminalizzati e sottoposti alle angherie delle sanzioni amministrative. La guerra alla droga nel mondo è stata superata con scelte di legalizzazione della canapa, prima in Uruguay, poi in tanti Stati degli Usa e infine in Canada. Le Convenzioni della Chiesa della Proibizione so di fatto superate con il prevalere della interpretazione prevalente della flessibilità e non possono essere utilizzate per impedire il referendum. Siamo stati comunque attenti alla formulazione del quesito per non fornire appigli alla inammissibilità da parte della Corte Costituzionale. Fra le diciassette condotte elencate nell’articolo 73 del Dpr 309/90 abbiamo espunto solo la previsione della coltivazione perché la giurisprudenza consolidata nei tribunali e in Cassazione ha stabilito che si deve intendere riferito alla modalità domestica di poche piante; altre previsioni sono coperte dalla produzione, dal trasporto, dalla messa in vendita. Abbiamo mantenuto per la canapa la sanzione penale con l’irrogazione della multa, ma eliminando la detenzione in carcere. Infine tra le sanzioni amministrative abbiamo eliminato solo il ritiro della patente. È evidente che il referendum abrogativo può solo eliminare le storture più gravi. La riforma della politica delle droghe richiede un profondo intervento, che come Società della Ragione assieme alle associazioni che si occupano di questo tema, abbiamo formulato da anni. I testi giacciono in Parlamento, anche un modesto intervento sulla riqualificazione dei fatti di lieve entità è impantanato in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Il successo della raccolta delle firme rappresenta una sconfitta per la politica. Ricordo che se non ci fosse stata la cancellazione da parte della Corte Costituzionale (relatrice Cartabia), avremmo ancora la legge iperproibizionista e iperpunitiva, la nefasta Fini-Giovanardi. Ora la raccolta di adesioni deve proseguire (www.referendumcannabis.it), evitando una discriminazione con gli altri referendum (quelli della Lega) che possono essere depositati entro il mese di ottobre; poi affronteremo una discussione pubblica per evitare che il diritto del popolo di decidere su un reato senza vittime, non sia scippato da decisioni politiciste e non giuridiche. Finalmente l’Italia non sarà il fanalino di coda ma parteciperà al cambiamento e soprattutto si ridurrà il sovraffollamento nelle carceri per un’ideologia salvifica che uccide. Il referendum sulla cannabis fa male ai clan e salva i giovani di Roberto Saviano Corriere della Sera, 17 settembre 2021 Il proibizionismo non ha funzionato: la droga leggera circola e fa ricche le mafie. I risultati ottenuti da chi ha legalizzato. È importante che l’Italia diventi capofila di un percorso di legalizzazione antimafia. Legalizzare per contrastare le mafie è la principale forma di aggressione al patrimonio mafioso e che questo avvenga nel paese con le organizzazioni criminali più antiche del pianeta fa la differenza. Sarebbe la svolta, la grande svolta. Sabato 11 settembre è partito il Referendum Cannabis, dopo che è stato depositato presso la Cassazione un quesito referendario che propone di cancellare tutte le pene detentive per le condotte legate alla cannabis e rimuovere il ritiro della patente oggi previsto per chi viene trovato in possesso di cannabis indipendentemente dal fatto che questo si trovi alla guida al momento del fermo. La raccolta, che ha raggiunto 400 mila firme in meno di quattro giorni dal lancio del Referendum, è stata proposta da un gruppo di esperti, giuristi e militanti, da sempre impegnati contro il proibizionismo, coordinati dalle associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione. Alla proposta hanno aderito anche rappresentanti dei partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani. I danni - Chi vi scrive non ha nessun culto dell’erba, sono cresciuto circondato da persone che hanno sempre fumato marjuana e hascisc, e nella parte maggiore dei casi se la procuravano dai pusher, in casi più rari riuscivano a coltivare l’erba per uso personale da soli. Non mi piace fumare erba, così come non mi piace bere superalcolici, eppure sono un sostenitore della legalizzazione. Proprio perché non mi piace fumare le canne voglio che le canne siano legali, in questo modo tolgo soldi alle organizzazioni criminali e posso iniziare un ragionamento sui danni (come si è fatto sulle sigarette). Come rendere gli alcolici illegali ha generato immensi profitti alle mafie, allo stesso modo, rendere illegali le droghe leggere ha generato la fortuna delle organizzazioni criminali di tutto il pianeta. Un’immensa letteratura scientifica dimostra che queste sostanze non hanno effetti più devastanti dell’alcol e del tabacco. La ricerca più recente è quella del team di David Nutt (pubblicata su The Lancet) che classifica la pericolosità delle sostanze in base ai fattori del danno fisico e sociale: l’alcol è al 5° posto, il tabacco al 9°, la cannabis all’11°. In Italia, l’Istituto superiore di sanità stima che ogni anno muoiano oltre 17 mila persone a causa dell’alcol e circa 93 mila per il tabacco. E ancora, nel dicembre 2020, l’Onu ha rimosso la cannabis dalla tabella delle sostanze più pericolose, riconoscendone e favorendone l’uso medico. Il controllo dello Stato - A chi vi racconta la stupidaggine “non voglio vivere in uno Stato in cui la droga sia libera” dovete ricordare che la droga è già libera, venduta da migliaia di pusher e controllata da camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra; con la legalizzazione la sottrai al loro controllo e la poni sotto il controllo dello Stato. E a chi dice “non mi fido dello Stato” domando: ti fidi dei criminali? Due Procuratori nazionali antimafia si sono dichiarati a favore della legalizzazione. Federico Cafiero de Raho ha dichiarato: “Legalizzare le droghe leggere toglierebbe spazio alle mafie. Le norme sono vetuste”. Anche il predecessore Franco Roberti chiese al Parlamento di valutare provvedimenti di decriminalizzazione della cannabis per liberare risorse da destinare a un più efficace contrasto alla criminalità; ora tocca alla politica rispondere con l’atto più antimafia che possa fare: legalizzare. Il quesito - Ma cosa chiede il quesito referendario? “Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, limitatamente alle seguenti parti: Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”; Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”; Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni”? Gli effetti - Ecco a questi quesiti rispondo fortemente SÌ. Ma cosa comporterebbe la legalizzazione? I consumatori di cannabis sono oltre 6 milioni (dati Istat). Il mercato degli stupefacenti muove attività economiche illegali per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al consumo di derivati della cannabis e quasi il 32% all’uso di cocaina. La legalizzazione potrebbe portare nelle casse dello Stato fino a 7 miliardi di euro l’anno e circa 35 mila nuovi posti di lavoro. Oggi questi soldi vanno alle mafie. Il narcotraffico è l’attività criminale più redditizia: investi 1 e guadagni 10. Questo flusso di denaro è riciclato in attività legali: negozi, hotel, supermercati... E, soprattutto in un momento di fragilità economica come questo, rappresenta una grave minaccia al nostro stesso vivere democratico. Leggi severe - L’Italia ha le leggi sulle droghe più severe d’Europa: il 35% dei detenuti è in cella per aver violato il testo unico sugli stupefacenti, contro una media europea del 18%. Nel nostro ordinamento la cessione è punita con il carcere fino a 20 anni, l’omicidio intenzionale con 21 anni di reclusione, lo stupro con 12 anni. Inoltre, sette volte su dieci, le forze dell’ordine arrestano anche in casi di lieve entità, come confermato dal Generale della Guardia di Finanza, Antonino Maggiore, in audizione alla Camera. Insomma, i reati legati alle droghe vengono puniti più spesso e più severamente. Guerra alla droga - Nonostante questo, parlare di guerra alla droga è quantomeno fuorviante. Sarebbe più corretto parlare di guerra alla cannabis (che riguarda oltre l’80% delle operazioni di sequestro) e di una criminalizzazione che punta al basso: ai piccoli spacciatori, ai tossicodipendenti (un detenuto su quattro), agli imprenditori della cannabis light, ai ragazzini nelle scuole. E persino ai malati che della cannabis avrebbero bisogno per curarsi: come Walter De Benedetto, finito a processo davanti al tribunale di Arezzo per le piante che aveva coltivato in giardino per lenire gli spasmi della sua artrite reumatoide, visto che la Asl non riusciva a fornirgli la terapia con continuità e nella quantità necessaria. La sua vicenda giudiziaria si è conclusa con un’assoluzione piena, e con il riconoscimento - per la prima volta in una sentenza - dell’uso medico della sua auto produzione. Eppure concluse non sono le vicende di troppi altri pazienti, come Cristian Filippo: 24 anni calabrese di Paola, affetto da fibromialgia. Filippo ha fatto un mese di arresti domiciliari, due di obbligo di firma, e sta affrontando un processo per aver coltivato due piante di cannabis nel suo box doccia per alleviare i sintomi di una patologia severa. In una regione dove non c’è una legge che fornisca medicinali cannabinoidi, e dove la ‘ndrangheta coltiva gran parte della cannabis destinata al mercato nero. La legalizzazione comporterebbe, dunque, meno processi inutili e più risorse per il contrasto vero dei narcotrafficanti e al lavoro dei tribunali. Il bene dei giovani - Ma c’è anche un altro argomento che dovrebbe convincere gli scettici, e persino i proibizionisti: il bene dei giovani. Che oggi, per procurarsi qualche canna, sono a diretto contatto con la criminalità organizzata, che comprano una cannabis tagliata con sostanze tossiche (piombo, lana di vetro, lacca) e che trovano, dallo stesso spacciatore, droghe molto più pericolose senza avere alcuna consapevolezza sul consumo e sui rischi. Lo sapeva bene il premier canadese Trudeau che, nel 2018, all’avvio del processo di legalizzazione nel suo Paese disse di volerlo fare “per il bene dei nostri figli”. In Canada il consumo di cannabis tra i giovani in tre anni non è aumentato, non ha inciso sugli incidenti stradali, non ha causato disordini sociali. Ha inciso, invece, sulla creazione di posti di lavoro e sulle entrate nelle casse dello Stato. Lo stesso è accaduto in Colorado, il primo stato Usa ad aver legalizzato nel 2021. In Europa la percentuale più bassa di giovani consumatori si trova in Portogallo: 14%. Paese che ha decriminalizzato l’uso di ogni sostanza nel 2001, puntando a interventi sociali invece che repressivi. In Italia il 28% degli studenti ha fatto uso di sostanze nell’ultimo anno. Il 6% dice di aver iniziato prima dei 13 anni. La legalizzazione è finora l’unica misura che ha allontanato i giovani dal consumo e il proibizionismo, sì il proibizionismo, che vi piaccia o meno, ha miseramente fallito. “Legalizzare la cannabis sì, ma no alla cultura dello sballo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 settembre 2021 Parla il deputato Pd Walter Verini: “La legge si fa in Parlamento. La stiamo facendo”. “Se siamo d’accordo nello schierarci contro quella sottocultura che esalta l’abuso di sostanze, allora dico che la cannabis deve essere legale. Perché ora è liberalizzata, e non va bene” Manifestazione per la legalizzazione della cannabis Walter Verini, tesoriere Pd e membro della commissione Giustizia delal Camera, lei non ha firmato per il referendum sulla cannabis legale promosso da Radicali Italiani, Meglio Legale, +Europa, Forum droghe e da una sessantina di altre associazioni, che ha raccolto in pochi giorni già 465 mila firme delle 500 mila necessarie. Perché? Distinguo tra i referendum che come questo, nascono dal basso, rappresentano uno stimolo e vengono promossi con un obiettivo trasparente, dai referendum - come quello sulla giustizia del “garantista” Salvini - che rischiano di delegittimare il parlamento e che hanno - almeno per alcuni promotori - l’obiettivo di colpire l’indipendenza della magistratura. Ma proprio in questi giorni, sia pur con ritardo, in commissione Giustizia siamo riusciti dopo tanti anni a votare un testo base che è l’avvio di un cammino, sia pure tortuoso e difficile. Se lo firmassi in questo momento, lo considererei un atto di autodelegittimazione. Perché sono in contraddizione le due cose: il referendum e la legge in parlamento? Lega e l’estrema destra hanno già detto che faranno di tutto per fermare l’iter. Se con il referendum si riuscisse a cambiare l’attuale assetto legislativo, non sarebbe una spinta e una bussola per il parlamento? Temi come questi necessitano qualcosa di più di un sì o un no. Perché il messaggio semplificato che rischia di passare è: siete a favore o contro la droga? Con Salvini e Meloni a rappresentare la pancia del Paese e a fare la parte di chi è contro la droga. La logica referendaria per sua natura rischia di semplificare troppo una questione molto delicata, su cui non ci sono ancora posizioni univoche. E così facendo si rischia di affossare, anziché agevolare, la legge. Con questo non voglio dire che il referendum non debba andare avanti, dico solo perché non l’ho firmato io. Credo che un parlamentare, come sulla riforma penale, civile e del Csm, anche su temi come eutanasia e cannabis debba fare di tutto perché finalmente il parlamento adempi al suo dovere, come richiesto anche da una sentenza della Corte costituzionale e dalla Cassazione. Eppure da giorni in Italia si discute finalmente di una questione che da decenni riguarda milioni di italiani. Cosa manca a questo dibattito? Bisognerebbe dire chiaramente - e Magi è venuto su questa linea, gliene do atto - che le droghe fanno male. Che siamo contro la cultura dello sballo. Che comprende anche l’alcolismo, per certi aspetti il tabagismo e l’abuso di tutte le sostanze psicotrope che danno dipendenza. Il punto è che, per essere contro la cultura dello sballo, il proibizionismo da solo non regge. Quindi una volta detto che bisogna dare ai giovani strumenti di vita e socialità per contrastare il disagio, colpire la cultura dello sballo - che non è uno spinello - solo in questo quadro possiamo dire che non legalizzare la cannabis è un’ipocrisia. Perché oggi la cannabis non è legale ma è liberalizzata, si può comprare dappertutto e da chiunque. E la cultura dello sballo semmai si è creata in questo contesto, non in quello della cannabis legale... Certamente. A favore della legalizzazione si sono schierati don Ciotti, i procuratori antimafia Cafiero de Raho e Roberti… Sostengono che legalizzandola si tira un colpo alle organizzazioni criminali e si combatte anche il piccolo spaccio. Sta di fatto che il 30% di detenuti sono piccoli spacciatori, che però sono legati alla criminalità organizzata. E dunque perché il Pd non riesce a prendere una posizione chiara su questo? Il Pd in commissione ha dato un contributo importante a disincagliare il testo base. Ora c’è l’aula, c’è il resto dei gruppi parlamentari che vorranno dire la loro. Bisognerà trovare una maggioranza. C’è chi capisce che il proibizionismo ha fallito ma dice che non è questa la strada per combattere le organizzazioni criminali. Di loro bisogna tenerne conto. Quello che mi auguro è di arrivare ad una legge che combatta la cultura dello sballo e che legalizzi un consumo individuale pienamente consapevole. Ma a parte i suoi parlamentari, il Pd sta- o dovrebbe - sul territorio. Perché è completamente silente su questioni così sentite come eutanasia e consumo? Perché, parafrasando le parole del vice segretario, Provenzano, pur senza farsi travolgere dall’onda referendaria non vuole intercettarla? In questa fase il gruppo del Pd in commissione Giustizia ha tenuto un atteggiamento unanime. Ma è evidente che il partito nelle prossime settimane, quando prenderà corpo un dibattito parlamentare più ampio, prenderà una posizione “ufficiale”. È una cosa di cui abbiamo già cominciato a discutere. Comunque già la festa nazionale dell’Unità ha ospitato per la prima volta un dibattito con i soggetti impegnati sul tema. Insomma, il Pd le intercetta eccome, queste tematiche, anche attraverso i suoi canali. Però, siccome è un partito plurale preferiamo non usare la clava. Se avessimo insistito in questo modo durante la scorsa legislatura non avremmo neppure avuto la legge sulla cannabis terapeutica. Il riformismo è anche questo. Ma il referendum non è sempre un po’ così? Sì o no, anche sull’aborto lo era... Partecipai alla campagna per il no all’abolizione della legge 194, so di cosa parlo. Riconosco ai Radicali la spinta, ma se a condurre quella campagna fossero stati solo loro al referendum avremmo preso il 20%. Invece vincemmo. Perché non parlammo mai di aborto come diritto, ma solo del diritto di autodeterminazione della donna, di maternità e paternità consapevoli. È per lo stesso motivo che secondo lei che nel M5s, che pure ne ha fatto un proprio cavallo di battaglia da sempre, sul referendum si è pronunciato a favore solo Grillo? Non lo so, non voglio entrare in dinamiche interne che non conosco ma credo che anche il M5s che ha contribuito con noi a sbloccare l’iter, ha bisogno di maturare una sua posizione compiuta, più definitiva. Questo conferma che su temi come questi ci vuole tanta pazienza oltre che determinazione. Il partito avrà successivamente il mondo di sintetizzare una posizione che tenga insieme tutte le sensibilità perché non siamo una caserma. Ma i tempi non sono più che maturi ormai? Arriviamo buon ultimi nel mondo occidentale su questi temi… È vero che arriviamo ultimi, per questo il parlamento deve approvare una legge seria. Altrimenti ci sarà il referendum. Danimarca. Relazioni sentimentali e social vietati agli ergastolani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 settembre 2021 Il ministro della Giustizia: “Le prigioni non sono centri per appuntamenti”. Niente storie d’amore per gli ergastolani in Danimarca. Il governo della premier Mette Frederiksen ha deciso che la misura era colma dopo il clamoroso caso di una 17enne, Camilla Kurstein, che ha ammesso di essersi innamorata di Peter Madsen, l’inventore condannato per il brutale assassinio della giornalista svedese Kim Wall che era andata a intervistarlo sul suo sottomarino nel 2017. Un disegno di legge, presentato ieri in Commissione giustizia, prevede il divieto per chi è stato condannato all’ergastolo di iniziare nuove relazioni amorose durante i primi 10 anni di detenzione. La norma dovrebbe essere approvata dal Parlamento il prossimo autunno con una larga maggioranza, dato che anche l’opposizione di destra è favorevole, ed entrerà in vigore all’inizio del 2022. “Questo tipo di relazioni devono ovviamente essere interrotte. Criminali condannati non dovrebbero utilizzare le nostre prigioni come centri per appuntamenti o piattaforme mediatiche per vantarsi delle loro malefatte”, ha detto il ministro della Giustizia danese Nick Haekkerup. Kurstein, come racconta la Bbc, si era scambiata lettere e telefonate con Madsen per due anni ed era rimasta anche molto male quando lui nel 2020 si è sposato in carcere con la 39enne russa Jenny Curpen. La nuova legge stabilisce che i detenuti condannati all’ergastolo potranno contattare solo le persone con cui hanno avuto una relazione per i primi dieci anni della loro prigionia. Inoltre sarà vietato anche postare sui social media o comunicare attraverso podcast. Anche questo provvedimento è scaturito dal caso di Madsen, che confessò l’omicidio della giornalista durante la puntata di un documentario nel 2018. “Abbiamo avuto esempi disgustosi negli ultimi anni di detenuti che hanno commesso crimini abominevoli e poi dal carcere hanno contattato giovani per ottenere la loro simpatia e attenzione”, ha sottolineato il ministro della Giustizia. Dubbi sulla proposta vengono espressi da Maria Ventegodt dell’Istituto danese dei diritti umani: “Esamineremo la proposta nelle prossime settimane - ha detto alla Bbc - ricordo che le relazioni familiari sono protette dalla Convenzione Europea dei Diritti umani. Bisogna capire se è una misura legale e se è proporzionale rispetto al pericolo”. Egitto. Al Sisi progetta la costruzione di nuove carceri “in stile americano” di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 settembre 2021 Il nuovo piano porterà il numero delle carceri in Egitto a 79. L’amministrazione del Generale ne ha costruite 27, più di un terzo. L’annuncio dopo la stretta di Biden sugli aiuti. Evidentemente non gli bastavano quelle che già ha, strapiene di oppositori ingiustamente incarcerati. Il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, ha annunciato l’intenzione di inaugurare il più grande complesso carcerario del Paese entro poche settimane. Il tutto mente il mondo intero gli chiede di rilasciare le migliaia di detenuti politici, tra cui anche lo studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, rinchiuso da 19 mesi nel carcere di Tora, uno dei peggiori del mondo. Mercoledì, in un’intervista telefonica con un canale televisivo locale, Al Sisi ha affermato di essere pronto a lanciare “una prigione in pieno stile americano”. A queste ne seguiranno “altre sette o otto”. “Il prigioniero nel complesso sconterà la sua pena in modo umano: godrà del movimento, della sussistenza, dell’assistenza sanitaria, delle cure umanitarie, culturali e riformatorie”, ha affermato il Generale. Al Sisi ha anche annunciato che le carceri ospiteranno le autorità giudiziarie in modo che i prigionieri non debbano essere trasferiti. “Non ci sarà molto movimento. Non dovranno essere trasportati dai mezzi di deportazione perché lì si troverà anche la magistratura”, ha spiegato. Il nuovo progetto porterà il numero delle carceri in Egitto a 79. L’amministrazione di Sisi ne ha costruite 27, più di un terzo. Immediate sono partite le proteste. “Crediamo che aprire più prigioni in stile americano non sia la soluzione. L’Egitto ha bisogno di un sistema legale completo che rispetti gli standard minimi per il trattamento dei prigionieri”, ha dichiarato Ahmed Mefreh, direttore del Comitato per la giustizia con sede a Ginevra, che tiene traccia delle violazioni all’interno delle carceri egiziane, ha affermato che le prigioni in Egitto “non soddisfano gli standard minimi richiesti per vivere”. Quasi 1.100 detenuti sono morti in quelle prigioni da quando Al Sisi è salito al potere, a causa di negligenza medica, maltrattamenti o torture, ha aggiunto. L’annuncio di Al Sisi arriva dopo che l’amministrazione di Joe Biden ha annunciato l’arrivo di 170 milioni di dollari in aiuti militari all’Egitto per l’antiterrorismo, la sicurezza delle frontiere e la non proliferazione, e di altri 130 milioni di dollari “a condizione che l’Egitto ponga fine alle violazioni dei diritti umani contro 16 attivisti”. Una decisione che i gruppi per i diritti egiziani e statunitensi hanno condannato come “sconcertante”, chiedendo all’amministrazione di Biden di tagliare tutti i 300 milioni di dollari in modo da costringere davvero il presidente egiziano a cambiare politica. I gruppi per i diritti umani hanno accusato il suo governo di aver imprigionato decine di migliaia di oppositori pacifici con il pretesto di combattere il terrorismo. Il presidente, tuttavia, ha negato che il Paese avesse prigionieri politici, aggiungendo: “Non ci sono forme di violazione dei diritti umani in Egitto”. In questo quadro un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, intitolato “Tutto questo finirà solo quando sarai morto”, denuncia l’operato dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa), i servizi segreti civili egiziani che si occupano prevalentemente di casi politici e di terrorismo. Si tratta, secondo l’organizzazione per i diritti umani, di un vero e proprio “sistema della paura” che, attraverso convocazioni illegali, interrogatori che costituiscono trattamenti crudeli, inumani e degradati e misure cautelari sproporzionate cerca di ridurre al silenzio gli attivisti e le attiviste e di distruggere le loro vite. Il rapporto contiene le testimonianze di 19 uomini e sette donne che, tra il 2020 e il 2021, sono stati convocati per interrogatori, minacciati di arresto e processo se non avessero risposto o che hanno subito irruzioni nelle loro abitazioni quando non si sono presentati. “Mi hanno chiesto informazioni sulle attività dell’organizzazione, sul direttore, sui finanziamenti, sul mio ruolo, aggiungendo: “Ascolta bene, se scopro che hai mentito, non rivedrai più la luce del sole”“, ha testimoniato un difensore dei diritti umani convocato dall’Nsa nel 2020. In molti casi, attivisti e difensori dei diritti umani che hanno terminato di scontare anche tre anni di carcere vengono obbligati, alla fine della pena, a presentarsi regolarmente negli uffici dell’Nsa presso le stazioni di polizia o in strutture autonome dell’agenzia, dove rimangono per ore o giorni privati della libertà, senza alcuna ragione legale, supervisione giudiziaria o possibilità di ricorrere contro i provvedimenti. Queste misure cautelari extragiudiziali, che l’Nsa chiama “sorveglianza”, costituiscono una privazione arbitraria della libertà e sono del tutto diverse dalle misure richieste dai giudici. Possono durare a tempo indeterminato e dipendono in tutto e per tutto dalla volontà dell’Nsa. In molti casi, le persone sottoposte alla “sorveglianza” vengono torturate e i loro diritti al lavoro e alla vita familiare sono fortemente compromessi. E così come è difficile conoscere il numero esatto degli oppositori in carcere (si parla di un numero che oscilla tra i 6 e i 10 mila), è impossibile stabilire il numero delle persone sottoposte alla “sorveglianza”, in assenza di ordinanze della magistratura e di un registro ufficiale. Le misure adottate dall’Nsa, ai di fuori di qualsiasi criterio legale o supervisione giudiziaria, costituiscono una violazione delle norme e degli standard del diritto internazionale nonché della stessa Costituzione egiziana e del codice di procedura penale. Nel corso degli interrogatori, i funzionari dell’Nsa fanno domande sulle attività e sulle opinioni politiche, comprese quelle espresse sui social media, in particolare sulle attività dei gruppi di opposizione, dei movimenti politici o delle associazioni per i diritti umani cui le persone interrogate sono sospettate di far parte. Gli interrogatori si svolgono in assenza degli avvocati. I funzionari dell’Nsa fanno domande personali, esaminano senza autorizzazione telefoni e profili social e minacciano il ricorso al carcere o alla tortura e anche rappresaglie sui familiari degli interrogati se questi non forniranno le informazioni richieste. Al termine, vengono ammoniti a non esercitare ulteriormente i loro diritti alla libertà di espressione, di associazione o di manifestazione pacifica. Egitto. “È il sistema della paura che controlla gli attivisti” La Repubblica, 17 settembre 2021 Rapporto di Amnesty International sull’Agenzia per la sicurezza egiziana. Convocazioni illegali, interrogatori che costituiscono trattamenti crudeli, inumani e degradati e misure cautelari sproporzionate cerca di ridurre al silenzio gli attivisti e le attiviste e di distruggere le loro vite. Un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, intitolato “Tutto questo finirà solo quando sarai morto”, denuncia l’operato dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa), i servizi segreti civili egiziani che si occupano prevalentemente di casi politici e di terrorismo. Si tratta, secondo l’organizzazione per i diritti umani, di un vero e proprio “sistema della paura” che, attraverso convocazioni illegali, interrogatori che costituiscono trattamenti crudeli, inumani e degradati e misure cautelari sproporzionate cerca di ridurre al silenzio gli attivisti e le attiviste e di distruggere le loro vite. Le testimonianze. Il rapporto contiene le testimonianze di 19 uomini e sette donne che, tra il 2020 e il 2021, sono stati convocati per interrogatori, minacciati di arresto e processo se non avessero risposto o che hanno subito irruzioni nelle loro abitazioni quando non si sono presentati. Almeno 20 di loro hanno descritto l’ansia e la depressione causate dalla costante paura di finire agli arresti e dall’impossibilità di condurre una vita normale. Molti di loro hanno rinunciato a esprimere le loro opinioni o a prendere parte ad attività politiche e alcuni sono stati costretti ad andare in esilio. “Le tattiche dell’Nsa e le sue costanti minacce e intimidazioni, stanno distruggendo le vite di attivisti, difensori dei diritti umani e operatori delle Ong. Non possono lavorare né viaggiare e passano le giornate temendo di essere arrestati. L’obiettivo dell’Nsa è chiaro: stroncare l’attivismo politico e quello per i diritti umani”, ha detto Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. Abusi di potere. “L’Nsa abusa dei suoi poteri, negando libertà e diritti umani. L’impunità di cui beneficia da anni indica che non c’è alcuna intenzione di porre fine a tutto questo. Perciò, Amnesty International ha sollecitato gli stati membri del Consiglio Onu dei diritti umani a istituire un meccanismo di monitoraggio sull’Egitto, che riferisca regolarmente su quanto accade nel paese. Le misure adottate dall’Nsa, ai di fuori di qualsiasi criterio legale o supervisione giudiziaria, costituiscono una violazione delle norme e degli standard del diritto internazionale nonché della stessa Costituzione egiziana e del codice di procedura penale. Le modalità d’interrogatorio. Nel corso degli interrogatori, i funzionari dell’Nsa fanno domande sulle attività e sulle opinioni politiche, comprese quelle espresse sui social media, in particolare sulle attività dei gruppi di opposizione, dei movimenti politici o delle associazioni per i diritti umani cui le persone interrogate sono sospettate di far parte. Gli interrogatori si svolgono in assenza degli avvocati. I funzionari dell’Nsa fanno domande personali, esaminano senza autorizzazione telefoni e profili social e minacciano il ricorso al carcere o alla tortura e anche rappresaglie sui familiari degli interrogati se questi non forniranno le informazioni richieste. Al termine, vengono ammoniti a non esercitare ulteriormente i loro diritti alla libertà di espressione, di associazione o di manifestazione pacifica. “Mi hanno chiesto informazioni sulle attività dell’organizzazione, sul direttore, sui finanziamenti, sul mio ruolo, aggiungendo: ‘Ascolta bene, se scopro che hai mentito, non rivedrai più la luce del sole’”, ha testimoniato un difensore dei diritti umani convocato dall’Nsa nel 2020. Le misure cautelari extragiudiziali. In molti casi, attivisti e difensori dei diritti umani che hanno terminato di scontare anche tre anni di carcere vengono obbligati, alla fine della pena, a presentarsi regolarmente negli uffici dell’Nsa presso le stazioni di polizia o in strutture autonome dell’agenzia, dove rimangono per ore o giorni privati della libertà, senza alcuna ragione legale, supervisione giudiziaria o possibilità di ricorrere contro i provvedimenti. Queste misure cautelari extragiudiziali, che l’Nsa chiama “sorveglianza”, costituiscono una privazione arbitraria della libertà e sono del tutto diverse dalle misure richieste dai giudici. Possono durate a tempo indeterminato e dipendono in tutto e per tutto dalla volontà dell’Nsa. In molti casi, le persone sottoposte alla “sorveglianza” vengono torturate e i loro diritti al lavoro e alla vita familiare sono fortemente compromessi. Non si sa quante persono sono “sorvegliate”. È impossibile stabilire il numero delle persone sottoposte alla “sorveglianza”, in assenza di ordinanze della magistratura e di un registro ufficiale. “Gli attivisti e le attiviste sono sottoposti a una doppia punizione: dopo una detenzione arbitraria, una ‘sorveglianza’ analogamente arbitraria. Il presidente al-Sisi e il ministro dell’Interno devono porre fine a queste pratiche illegali”, ha commentato Luther. L’impossibilità di un rimedio legale. Poiché l’Nsa è di fatto collocata sopra al sistema giudiziario, non è possibile ricorrere contro le misure arbitrarie o chiedere risarcimenti e giustizia: le procure sono complici nelle violazioni dei diritti umani commesse dall’Nsa e il timore di rappresaglie è elevato. “Quando ho detto che avrei denunciato l’agente che mi aveva molestata sessualmente, mi hanno detto: ‘Cosa vuol dire denunciare? Vuoi tornare di nuovo in carcere? Qui le denunce non esistono’”, ha raccontato un’attivista per i diritti umani. Già in passato Amnesty International aveva denunciato la sistematica assenza di indagini da parte delle procure sulle torture e sulle sparizioni di cui si rende responsabile l’Nsa e le loro ordinanze di detenzione unicamente sulla base di dossier segreti dell’Nsa. Iran. Torturati e poi uccisi nello sprofondo delle carceri di Sara Volandri Il Dubbio, 17 settembre 2021 La denuncia di Amnesty: oltre settanta decessi per gli abusi. Le carceri iraniane sono un luogo fuori dalla legge dove i detenuti subiscono torture sistematiche e a volte perdono la vita in circostanze oscure mai riferite dalle autorità. L’ultimo rapporto di Amnesty International sullo stato delle prigioni nella Repubblica sciita è una denuncia sullo sprofondo del sistema carcerario che sevizia e poi nasconde le sue vittime: “Le autorità hanno la responsabilità di almeno 72 decessi avvenuti in stato di detenzione dal gennaio 2010, nonostante i rapporti attendibili secondo cui essi sono stati causati da tortura o altri maltrattamenti o dall’utilizzo letale di armi da fuoco e gas lacrimogeno da parte di agenti”, scrive la ong. I decessi sono avvenuti in 42 prigioni e centri di detenzione, in 16 province del Paese. Secondo quanto riporta Amnesty, “non un solo agente è stato chiamato a rispondere di questi decessi, rispecchiando quindi la crisi d’impunità di lunga data dell’Iran, in cui sistematicamente le accuse di tortura e uccisioni illegali non vengono sottoposte a indagini e restano impunite”. L’ultimo caso documentato riguarda Yaser Mangouri, 31 anni, il cui decesso è stato comunicato alla famiglia dai funzionari del ministero dell’Intelligence a Urumieh, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, l’8 settembre 2021. “Le notizie della morte di Yaser Mangouri in circostanze sospette mostrano ancor più come il clima di forte impunità incoraggi ulteriormente le forze di sicurezza a violare il diritto alla vita dei detenuti, senza temere conseguenze o avere paura di essere chiamati a rispondere del proprio operato”. Il rifiuto sistematico delle autorità di condurre qualsiasi indagine indipendente su queste morti in custodia “rispecchia tristemente la normalizzazione della privazione arbitraria della vita da parte di autorità statali”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Per garantire il rispetto del diritto alla vita è necessario che gli agenti sospettati di torturare a morte i detenuti siano sottoposti a indagini, e nel caso di sufficienti prove ammissibili, perseguiti penalmente. La mancanza di indagini costituisce di per sè una violazione del diritto alla vita”, ha aggiunto. Nel rapporto di Amnesty si legge che in 46 dei casi di decessi in custodia, fonti informate, tra cui familiari e/ o compagni di cella della persona deceduta hanno riferito che la morte era stata provocata da torture fisiche o altri maltrattamenti per mano di agenti del servizio di sicurezza e intelligence o di agenti della polizia penitenziaria. Altri 15 si erano verificati a seguito dell’utilizzo letale di armi da fuoco e gas lacrimogeno da parte delle guardie di sicurezza del carcere per reprimere le proteste, all’interno delle prigioni, relative ai timori per la sicurezza per il Covid-19. Nei restanti 11 casi, le morti sono avvenute in circostanze sospette ma mancano altri dettagli sulle possibili cause. La maggior parte dei decessi noti è avvenuta dal 2015. Amnesty ha pubblicato una lista in cui sono riportati i nomi di coloro che sono morti in custodia, unitamente all’età comunicata, alla data e al luogo del decesso. La lista non include decine di altri casi che si sospetta siano legati al diniego di cure mediche, sui quali sono in corso indagini da parte dell’organizzazione. Dallo Yemen al Tigray, scontri fratricidi e pulizie etniche insanguinano il mondo di Domenico Quirico La Stampa, 17 settembre 2021 L’Occidente muto di fronte alle stragi, impegnato a difendere i propri interessi. Il tono è sempre quello, di rimprovero un po’ reverente: “L’Afghanistan certo, ma tutte quelle altre guerre dimenticate…”. E no! Dimenticate proprio per nulla, non ci sono guerre dimenticate, ci sono soltanto le guerre che non vogliamo raccontare e son proprio quelle che conosciamo a puntino perché ci servono, quelle che conosciamo meglio nella loro violenza quasi tellurica. Altro che quei piagnoni del terzomondismo, fuori moda con la loro litania della dimenticanza. La guerra dimenticata è un volontario atto geopolitico, una strategia pianificata occidentale. Talvolta bruciante e brutale, a volte insidioso e glaciale. Un fantasma affligge il mondo occidentale, il suo spettro ostinato e testardo spunta ogni tanto in tv, sui social, nelle conversazioni: la guerra. Ma ogni volta, mitigata la breve febbre con appositi calmanti, si finge di non saperne nulla, così non devasta certo gli affari pubblici e la privata mobilitazione. E nella strategia i governi sedicenti di sinistra danno punti a quelli espliciti di destra. Adesso che l’afghano derelitto di burqa, guerre quarantennali, taleban molesti e aspiranti al Califfato, per un po’ è di moda, ribadiamolo: non le raccontiamo quelle guerre perché sono scomode, intorbidano le nostre acque geopolitiche che vogliamo sempre placide e adatte a redditizi bagni terapeutici. Yemen, Siria, Somalia, Nigeria, Sahel, Congo, Repubblica Centrafricana, Caucaso, rispunta perfino Sendero luminoso in Perù, assomigliano a quel disordine che conclude le malattie incurabili. Prima ancora della morte la consistenza della carne si dissipa e in questa moltiplicazione ognuno tira dalla sua parte. Fino alla putredine che non ammette resurrezione. Lo stesso Afghanistan non lo avevamo forse messo in cantina prima che il ritiro americano non ci riconducesse all’ora zero di venti anni fa, quando tutto era stato “risolto”? Sono conflitti pericolosi perché svelano quale aggressività imprevedibile si annida nei contorni della nostra globalizzazione trionfante. Fiammate di crudeltà sconvolgono e gettano nello sconcerto zone del mondo da noi socialmente assistite e che immaginavamo per nulla degradate. Oibò, invece c’è disordine: furori inappagati, bambini ferocissimi, folle esaltate, automobili bomba, suicidi che diventano martiri, corpi massacrati esibiti come trofei, dei implacabili, case divelte, urla, bestemmie, buio. Non va bene. La maggior parte delle vittime le abbiamo tradite negando soccorso promesso. Tradire è atto semplicissimo da compiere. Più difficile è tradire bene. Allora scandalizziamo, turbiamo i sonni provocatoriamente. È l’unica contromossa. Elenchiamo, una ad una come un meticoloso atto di accusa, guerre, guerriglie e massacri silenziosi che stanno intorno a noi e che mettiamo tra parentesi per i nostri sacrosanti interessi. Sperando che non ci coinvolgano per dovere di ufficio: ovvero un sequestro o la morte di un connazionale, una pulizia etnica un po’ troppo evidente e sconveniente anche per le maglie larghe della nostra indignazione, qualche barcone di fuggiaschi con facce e indirizzi di ivi residenti ancora ignote, che sollevino dal buio zone di sofferenza collettiva nel nostro mappamondo distratto. Lo Yemen per esempio: affiorano da mesi notizie scarse, come se le portassero lente carovane dell’epoca della regina di Saba. Un agguato riuscito dei ribelli sciiti del Nord, un razzo made in Iran scagliato addosso per vendetta agli implacabili sauditi, bombardamenti sauditi di città e paeselli, ultimo caso recentissimo con quarantacinque morti, in fortunata coincidenza per gli assassini, proprio con le ore furibonde del ritiro da Kabul. Coperto dalla indifferenza. Delitto perfetto. Cosa c’è che non va? C’è che l’aggressore, il cattivo della favola senza lieto fine, si chiama Arabia Saudita, nostro inaggirabile alleato nel fastidioso vicino Oriente, con i suoi petrodollari è socio in mille affari perfino calcistici e sportivi, sta impoltronato nei consigli di amministrazione, fa girar denaro nelle economie asfittiche, per lui il Covid non esiste. E poi se smascheriamo per i crimini di guerra il bel tenebroso erede al trono, chissà perché descritto come modernista e affidabile, chi ci resta in quell’area così imbarazzante? Nessuno. Un pugno di sultanelli, petroldotati ma senza muscoli. Allora: inventori del wahabitismo con sharia e cassaforte aperta a tutti i terrorismi islamisti, accomodatevi con le bombe su città e ospedali. Questi houti, sciiti forsennati e filo iraniani, non ci sono affatto simpatici neppure se sono bambini che muoiono di fame, bombe e di mancanza di medicine. Provate, ingenui, a organizzare un corteo per i bimbi yemeniti. Ve lo vieterà la prefettura: alto rischio diplomatico. Altro che guerra dimenticata. Cambiamo scenario, dove non c’è nessun jihadista a vista d’occhio, almeno per ora. Il Tigray e l’Etiopia. Un briciolo di emozione e di attenzione è stata registrata sui sismografi della compassione occidentale quando, in questa guerra civile dove inveisce un premio Nobel per la pace, ha fatto capolino la terribile parola: genocidio. Sì. Perché Addis Abeba, che affermava imprudentemente di aver messo a tacere i ribelli del Nord, ha cominciato a ricorrere all’arma finale, di staliniana memoria, provocare la carestia etnica. Ovvero Tigray sigillato, niente aiuti a popolazioni sfinite, tigrini cacciati dalle terre e sostituiti con i fidi amhara, profughi a migliaia che trottano disperati sulle ambe, catastrofe come si dice umanitaria. Poi calò il silenzio su Makalé. La pace è forse tornata tra gli ex nemici? Invece è feroce guerriglia, i tigrini combattono, recuperano città, si alleano con un’altra etnia, gli oromo anch’essi in lite con il governo, la guerra si allarga, le bande ripuliscono, ultimo bilancio dell’altro ieri 30 morti, i profughi non si scollano dalle loro piste polverose. Sì, abbiamo scelto il premio Nobel con il kalashnikov. Suvvia: l’Etiopia è un gigante dell’Africa importante per affari e geopolitica, rende di più che i selvatici e arroganti tigrini. Che volete vendere ai tigrini? Si dimentichi. La Somalia: quella l’abbiamo “dimenticata” opportunamente da trent’anni. Brutti ricordi: a Mogadiscio ha fatto naufragio, con l’operazione “Restor hope”, l’imperialismo umanitario. Intervenire ovunque i diritti umani vengano violati, incarnare le speranze di tutti gli oppressi, nientemeno: feuilleton totalmente mitico e per questo totalmente rassicurante. Alcuni marines americani barbaramente e scenograficamente ammazzati per strada bastarono perché l’America facesse uno dei numerosi ripassi dell’arte delle ritirate. Rimorsi modesti: Bush padre aveva deciso l’intervento non per difendere i derelitti e periferici somali dai signori della guerra ma per chiudere con un gran finale la sua breve carriera di presidente. Oggi in Somalia gli shabab islamisti lavorano a tempo pieno, esportano terrorismo e mini califfati in Kenya e in Mozambico. Nel Sahel siamo soci dei tirannelli locali. Meglio non far chiasso sulle loro “piccole guerre”. E mandar soldati per dare loro una mano. Ovviamente si lotta “contro il terrorismo”.