Cartabia costituisce una Commissione per migliorare le condizioni di reclusi e agenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2021 Sarà presieduta da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Roma tre e ne farà parte anche Bernardo Petralia (capo Dap). Secondo Antigone il tasso di sovraffollamento supera il 113%, con oltre 53.000 detenuti a fronte di 47.000 posti disponibili. Contro l’emergenza carceri - sovraffollamento, ma non solo - la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato il decreto di costituzione di una Commissione - presieduta da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Roma tre - per “l’innovazione del sistema penitenziario” i cui lavori si chiuderanno entro il 31 dicembre 2021. L’obiettivo, si legge in una nota di Via Arenula, è “l’individuazione di possibili interventi concreti, per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari, nella prospettiva del rafforzamento dei principi costituzionali e degli standard internazionali”. Ricordiamo che secondo il rapporto di metà anno dell’associazione Antigone, il tasso di sovraffollamento supera il 113%, con oltre 53.000 detenuti a fronte di 47.000 posti disponibili. Nel 42% dei 67 istituti visitati dall’Associazione negli ultimi dodici mesi sono state trovate celle con schermature alle finestre che impediscono passaggio di aria e luce naturale. Nel 36% delle carceri vi erano celle senza doccia (il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che, entro il 20 settembre 2005, tutti gli istituti installassero le docce in ogni camera di pernottamento). Una ulteriore difficoltà in un periodo in cui, a causa della pandemia, nel 24% degli istituti ci sono sezioni in cui si si è passati dal regime a celle aperte a quello a celle chiuse. La commissione, prosegue il comunicato del Ministero, si occuperà inoltre dei bisogni formativi delle diverse professionalità dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile e di comunità e presenterà proposte per interventi sia sulla normativa che nella prospettiva di direttive da tradurre in circolari amministrative. La Commissione a cui partecipano Bernardo Petralia (capo Dap) e Gemma Tuccillo (capo dipartimento Dgmc) è composta da: Pietro Buffa (provveditore regionale Lombardia), Antonella Calcaterra (avvocato), Carmelo Cantone (provveditore regionale Lazio, Abruzzo e Molise), Daniela De Robert (componente del Collegio del Garante dei detenuti), Manuela Federico (Uepe, ex comandante polizia penitenziaria San Vittore), Antonietta Fiorillo (presidente del tribunale di sorveglianza Bologna), Gianluca Guida (direttore istituto penale per i minorenni Nisida), Fabio Gianfilippi (magistrato di sorveglianza), Raffaello Magi (Consigliere Corte di Cassazione), Giuseppe Nese (psichiatra), Catia Taraschi (responsabile dell’ufficio detenuti Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta) ed Elisabetta Zito (direttrice casa circondariale Catania). La Commissione si avvarrà di una segreteria tecnico scientifica: Antonio Bianco (magistrato), Ernesto Caggiano (magistrato), Silvia Talini (ricercatrice Università degli studi di Roma tre). Carceri, commissione al via. Molti sì all’idea di un viceministro di Angela Stella Il Riformista, 16 settembre 2021 Ieri l’ufficializzazione della task force per l’innovazione del sistema penitenziario che potrebbe anche rilanciare, visto il successo, la proposta fatta sul Riformista dal professore Fiandaca. “La figura di vice ministro della Giustizia destinata ad occuparsi a tempo pieno delle carceri”: è questa la proposta lanciata da ieri dal professor Giovanni Fiandaca su questo giornale. E si intreccia con l’ufficializzazione avvenuta sempre ieri da parte di via Arenula della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, di cui vi avevamo data ampia anticipazione. Chissà se al termine dei lavori, previsti per il 31 dicembre, non esca fuori proprio l’idea lanciata da Fiandaca, la quale riceve il favore di diverse figure che si occupano di carcere. Per Rita Bernardini, consigliera generale del Partito Radicale e Presidente di Nessuno Tocchi Caino “quello dell’esecuzione penale (a partire dal carcere) è un settore talmente trascurato (per certi versi, abbandonato) da richiedere un’attenzione specifica del Governo che mi auguro assecondi l’assennata proposta del Prof. Fiandaca. E dico ciò proprio perché abbiamo la migliore Ministra della Giustizia che potessimo sperare”. Dice sì anche l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali: “La proposta del prof. Fiandaca merita adeguata considerazione. Il carcere assomiglia sempre più alla terra di nessuno nel senso che nessuno sembra interessato ad occuparsene o a rivendicarne l’interesse benché coinvolga una larga fetta di cittadini. Se un viceministro specifico vuol dire operare a tempo pieno per evitare l’abbandono e lo scollamento che spesso siamo costretti a registrare tra la visione del Ministro e le articolazioni dell’amministrazione penitenziaria ben venga a patto che non sia affidato a chi del carcere, come strumento di lotta e repressione, ne ha fatto una bandierina del consenso”. L’iniziativa trova il placet anche di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-pa Polizia Penitenziaria: “quella del prof. Fiandaca può essere certamente una buona idea. Noi abbiamo una grossa necessità che ci si occupi delle carceri, che attualmente sono trascurate. Al di là dei proclami e delle passerelle viste a Santa Maria Capua Vetere da parte di Draghi e Cartabia, non è accaduto nulla di concreto. Rimaniamo perplessi per l’istituzione della Commissione ministeriale perché i problemi dovrebbero essere già conosciuti. E poi ci chiediamo: per la Ministra al Dap non ci sono già le competenze per fare una analisi dei bisogni e degli interventi? Se così fosse sarebbero altri i provvedimenti da assumere. Oppure la Ministra non condivide la linea dei vertici del Dap?”. Per Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, “è importante che vi sia un grande investimento politico e culturale per una modernizzazione e umanizzazione della vita penitenziaria. Le forme attraverso cui realizzarlo le deciderà il governo. Sicuramente confidiamo nel lavoro della nuova Commissione autorevolmente presieduta dal prof. Marco Ruotolo. Le premesse ci sono tutte. Noi abbiamo messo a disposizione una nostra proposta di riforma del regolamento penitenziario del 2000”. A proposito della Commissione, proprio il Presidente Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Roma tre, ci dice: “il nostro compito non sarà soltanto quello di suggerire modifiche della normativa primaria, ma anche di dare indicazioni su quella secondaria e soprattutto di formulare direttive che possano orientare l’azione dell’amministrazione. Sono da sempre convinto che l’amministrazione possieda un margine di azione importante per trasformare previsioni normative già esistenti in prassi positive, conformi ai principi costituzionali e internazionali. Il che non significa che su alcuni punti non siano necessarie revisioni normative, nel ragionare sulle quali avremo il vantaggio di poter utilizzare importanti materiali, tra i quali quelli prodotti dagli Stati generali e dalla Commissione Giostra. Saranno punti di riferimento fondamentali anche per l’individuazione degli ambiti sui quali si concentrano le maggiori criticità da risolvere”. Due morti, un bambino nato in cella. Ma i capi del Dap restano al loro posto di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 settembre 2021 Possibile che fatti così gravi non siano considerati uno scandalo? È successo tutto nel giro di una settimana, ma nessuno ha protestato. Niente titoloni sui giornali, niente interrogazioni parlamentari, niente richieste di dimissioni. Cara ministra, forse devi intervenire. Pasquale Francavilla è morto qualche giorno fa nel carcere di Cosenza. Era malato. Aveva diversi trombi nel sangue. Doveva essere operato con urgenza e per questo era in ospedale. Poteva salvarsi. Ma il tempo era scaduto e così la magistratura ha deciso che tornasse in cella. In agonia. È morto. Non c’era scampo d’altronde, lui lo sapeva: in cella era sicura la morte. Michele Carosiello era morto pochi giorni prima nel carcere di Catanzaro. Lui era di Cerignola, pugliese, aveva 40 anni e due ragazzine. Le ragazzine restano senza papà. Lui è morto in ospedale. Lo hanno portato via dal carcere dopo dieci giorni di febbre a 40 per una infezione. Setticemia. È arrivato tardi. È rimasto vivo in corsia per poche ore. Poi se n’è andato. Se lo avessero trasferito anche solo un giorno o due prima, probabilmente, si sarebbe salvato. Amra per fortuna è ancora viva. Lei è poco più che una ragazza: 23 anni, fibra forte. L’hanno beccata per un piccolo furto e l’hanno sbattuta in prigione. A Rebibbia, nella capitale d’Italia. Era incinta da diversi mesi quando hanno deciso di metterla in prigione perché aveva rubato. La sicurezza prima di tutto. Già, giusto: la sicurezza, la sicurezza. E poi, si sa: chi sbaglia deve pagare. Con o senza processo. Amra ad agosto era arrivata al nono mese. Poi una sera sono iniziati i dolori, cioè le doglie. Il bambino doveva nascere e lei era in cella. Con una compagna di prigione e basta, anche lei, la compagna, reproba, anche lei accusata di furto. E anche lei incinta. Negli anni cinquanta in Italia una donna incinta non andava in carcere. C’è un film famoso, mi pare con Sophia Loren, che racconta una storia del genere. Di una giovane donna che faceva i figli e non andava mai in prigione. Poi la civiltà si è sviluppata, sono arrivati i magistrati di ferro, i 5 Stelle, un po’ di allievi di Salvini. È cambiata tutta la scala di valori. Modernità re rigore: pena certa, pena certa. Anche senza processo. Basta buonismi, perdonismi, indulgentismi e cose così. Per fortuna che in cella con Amra c’era un’altra ragazza incinta. Perché in carcere non c’era il medico, non c’era l’infermiere. Amra è rimasta in cella a gridare, a controllare gli spasmi, a respirare ritmicamente, come un po’ alla bell’e meglio le consigliava la compagna di prigionia. Poi c’è stato lo strillo, è nato il bambino. Sta bene. La branda si è un po’ insanguinata, ma sono cose che succedono, si cambieranno le lenzuola, poco male. Partorire in cella senza assistenza è un po’ pericoloso, si, certo, ma in fondo non pericolosissimo. E poi, diciamo la verità: se non avesse commesso quel furto (anche se non sappiamo con certezza che davvero l’abbia commesso, però forse sì, forse l’ha commesso, o comunque ha ingenerato colpevolmente nelle guardie e nei Pm la sensazione di averlo commesso...) avrebbe potuto tranquillamente partorire in ospedale, perché in Italia c’è l’assistenza sanitaria per tutti. Per tutti, sì: persino per i rom. Fino ad oggi ancora nessuna forza politica ha proposto di levare l’assistenza gratuita almeno ai rom. O forse è meglio scrivere zingari, per farsi capire da tutti. È insopportabile il politically correct, usato per coprire le responsabilità di chi delinque, ruba, scippa. Zingari. Già, Amra tra le sue colpe aveva anche questa: essere una zingara. Bisogna essere ben ipocriti - come è stato il papa proprio l’altro giorno, in Slovacchia - per sostenere che i rom, gli zingari, non abbiano una tendenza naturale a delinquere e ad inquinare la società dei bianchi. Probabilmente, oltretutto, rapiscono i bambini, e non vuol dire niente che finora, negli ultimi due secoli, non sia stato accertato neanche un furto di bambini da parte dei rom. Loro sono furbi. Insomma, mi sono limitato a fare un breve riassunto degli ultimi tre numero del Riformista. Non so se la ministra Cartabia legga o no il Riformista, spero di sì. E un bel giornale. Se lo legge avrà notato che molte volte l’abbiamo criticata duramente, molte volte l’abbiamo difesa con furia, altre ancora abbiamo storto il naso. Stavolta ci limitiamo a segnalarle questi tre casi, senza allargare il discorso ai mali strutturali delle carceri. Ieri, sul nostro giornale, uno studioso molto prestigioso come il professor Giovanni Fiandaca ha proposto la nomina di un viceministro, a via Arenula, col compito specifico di occuparsi di carceri. Perché? Perché le carceri sono una grande urgenza civile, e stanno andando alla malora. Non tanto le carceri, ma i detenuti. E i detenuti - pensa Fiandaca - sono esseri umani. Anche su questo, proprio il Papa, proprio l’altro giorno, sempre dalla Slovacchia, ha speso delle parole piuttosto belle. Però, lo abbiamo già detto, e poi si sa: il papa è il principe degli ipocriti e dei buonisti. Se andassimo dietro a tutte le sue ubbie voglio proprio vedere dove andrebbe a finire questo paese. In mano ai negri e agli spacciatori finirebbe... Torniamo alla Cartabia, per fare una semplice osservazione. Questa. Due morti in pochi giorni. Lo scandalo inverecondo di una ragazza lasciata sola in cella a partorire. Sarà colpa di nessuno? È successo tutto per caso? I prigionieri sono persone che lo Stato mette sotto custodia. Custodia: capite il senso di questa parola? E li custodisce in questo modo? Lasciandoli morire, lasciandoli partorire senza assistenza? Sembra un romanzo dell’ottocento, invece è cronaca di questi giorni, di queste ore. Le carceri italiane sono controllate da uno speciale dipartimento che si chiama Dap. Il Dap ha un capo e un vicecapo. Tutti e due, curiosamente, sono magistrati, anche se non si sa bene cosa c’entri un magistrato (che ha il compito di indagare o di giudicare) con l’amministrazione delle carceri. Semplicemente succede che ormai anche nel senso comune i magistrati possono entrare un po’ dove vogliono, perché il potere, in ogni caso, è cosa loro. E se metti in discussione questo principio, subito gridano: vuoi togliere l’indipendenza alla magistratura! Benissimo: ma il ministro può o no chiamare i responsabili del Dap a rispondere di fatti così gravi? Ci sono due morti, c’è un bambino nato in cella. A voi sembra normale amministrazione? Pensate che il capo della Lega ha chiesto le dimissioni della ministra dell’Interno perché la considera responsabile del fatto che su un autobus, a Rimini, un ragazzo ha sbroccato e ha iniziato a tirare coltellate. Chiede Salvini: dov’era la ministra? Facendo capire che una ministra dell’Interno che si rispetti deve ben controllare gli autobus di Rimini. Beh, se vogliamo mantenere le proporzioni, diciamocelo: è il caso che i vertici del Dap siamo chiamati a rispondere per i fatti che stiamo denunciando? Referendum o no, il carcere preventivo è un problema di Alberto Cisterna Il Riformista, 16 settembre 2021 Qualcuno paventa che l’abrogazione referendaria possa lasciare mano libera a stalker e ladri, a corrotti e bancarottieri. È un’obiezione che ha un certo fondamento ma che può essere superata con opportuni accorgimenti: la cella dev’essere extrema ratio. La navigazione dei referendum sulla giustizia è resa certo più spedita dal cataclisma che ha intaccato le fondamenta del Sistema. Senza la crisi che, da due anni e passa ormai, ha attanagliato la credibilità della magistratura italiana, nessuna stagione referendaria sarebbe stata all’orizzonte e di tutto si sarebbe parlato, tranne che di metter mano a questioni fondamentali come i protocolli di rappresentanza del Csm o la separazione delle carriere o la responsabilità civile delle toghe. Questioni complesse. Nodi che richiederebbero misurazioni fini e prognosi abbastanza precise sulle conseguenze derivanti dal voto abrogativo per ciascun quesito e sulla reale capacità di creare in effetti assetti nuovi, ma tutti sappiamo che la spada referendaria è destinata a decapitare senza star troppo a discutere. Man mano che la raccolta delle firme vede l’orizzonte di un probabile, anzi scontato, successo, si dovrebbe recuperare uno degli enunciati iniziali dei promotori dei referendum che, trovandosi dentro l’attuale maggioranza parlamentare, avevano assicurato di voler adoperare lo strumento con lo scopo di sollecitare il Parlamento a iniziative più incisive su temi lontani dal Pnrr e dalle riforme della ministra Cartabia. Tutti sanno che una modifica legislativa sostanziale di una delle norme da sottoporre a consultazione popolare bloccherebbe il referendum sul punto. In questi giorni, per una coincidenza probabilmente fortuita, è all’esame del Parlamento lo schema governativo del decreto che deve recepire la direttiva comunitaria 2016/343 sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Al momento il provvedimento non contiene disposizioni che interferiscano con i quesiti referendari. Eppure, almeno per uno di essi, tra l’altro per uno tra i più controversi, il decreto offrirebbe uno spazio di intervento nel corso dei lavori di approvazione. Ritenendo che vi sia la necessità di limitare gli “abusi della custodia cautelare” e di contenere l’alta percentuale di detenuti in attesa di una sentenza definitiva (il 31%), i promotori invocano l’abrogazione dell’articolo 274 Cpp nella parte in cui prevede che le misure coercitive possano essere disposte in presenza del pericolo che l’indagato commetta ulteriori gravi delitti della stessa specie di quelli per cui si procede. Su questo quesito si è aperta una dura polemica che, in verità, ha registrato interventi autorevoli (tra questi senz’altro quello di Fabio Roja, giudice a Milano), ma anche prese di posizione strumentali e allarmistiche da parte dei soliti poco informati o dei manettari di turno. Non è questa la sede per impelagarsi nella didascalica esposizione dei profili di diritto che il quesito mette in esergo, tuttavia - visto che un voto popolare si profila come possibile - qualche cosa bisognerà pur dirla Il codice vigente consente di applicare la custodia cautelare in presenza di uno di questi presupposti: il pericolo di inquinamento probatorio, il pericolo di fuga e il pericolo di reiterazione del reato. I primi due casi non presentano nessun particolare problema, né hanno dato mai luogo a polemiche di sorta; sono cose che si vedono abbastanza di rado nelle aule di giustizia. Comunque si tratta di ipotesi previste a qualunque latitudine e nessun ordinamento civile ne è privo. Rispetto al terzo caso, ossia il pericolo di reiterazione, questi due casi hanno tuttavia una particolarità: non contengono alcun apprezzamento sulla persona dell’indagato; non esprimono alcun giudizio di riprovevolezza morale o sociale sulla persona da sottoporre a coercizione, guardano gelidamente alcuni fatti come il cancellare le prove o farsi beccare in aeroporto. In teoria nulla esclude che un innocente possa alterare le prove (procurandosi un alibi falso) o possa fuggire (il mitico Harrison Ford de “Il fuggitivo”); se lo fa ne assume le conseguenze. Niente da dire. Mentre quando si tratta del pericolo di recidiva del reato si scivola inevitabilmente dai fatti certi verso una sorta di apprezzamento morale - criminologico più che criminale - della persona indagata. È innegabile che si pennellino espressioni, valutazioni, giudizi che portano a dipingere il volto di un reprobo, di un delinquente incallito, di uno che se non venisse ammanettato subito sarebbe li pronto a commettere nuove nefandezze; si fabbrica il colpevole in altre parole. Sia chiaro, capita. C’è in giro gente di questo tipo e bisogna tener conto al pericolo, soprattutto per proteggere le vittime. Tuttavia si deve dire con altrettanta onestà che tutto questo delicato bagaglio criminologico, personologico, psicologico o psichiatrico è nelle mani, troppe volte, di personale di polizia e giudiziario che si muove secondo precomprensioni, pregiudizi, stereotipi, generalizzazioni e che non possiede alcuna specifica competenza al riguardo. Non hanno mai visto prima l’indagato, e spesso non lo vedranno mai (i pm quasi sempre ne incrociano lo sguardo solo in dibattimento se non sono finiti altrove). È il delitto che si contesta, che si ipotizza commesso, l’alambicco che ispira valutazioni e distilla giudizi che, ripresi dai media, riportati sulle pagine dei giornali, enfatizzati dai reportage televisivi, costruiscono la cornice entro cui si stampa l’effige del perfetto colpevole. Ecco, allora, che mettere mano alla nonna oggetto del quesito referendario, smorzarne l’attuale spinta “colpevolista” che ha mosso i promotori a volerne l’abrogazione, attenuarne la vocazione moraleggiante sono elementi importanti per rafforzare appropriatamente e in modo efficace la presunzione di innocenza, come voluto dall’Unione europea. Qualcuno paventa che l’abrogazione referendaria possa lasciare mano libera a stalker e ladri, a corrotti e bancarottieri. È un’obiezione che ha un certo fondamento se si considerano le manette la misura ordinaria con cui fronteggiare la ritenuta propensione dell’indagato alla serialità. Ma in un sistema che collochi la carcerazione solo all’ultimo stadio di un intervento repressivo e voglia rispettare la presunzione di innocenza (mettendola al riparo da giudizi capestro sulla persona indagata), è chiaro che questi rischi possono essere evitati con altri accorgimenti e senza impegnare un lessico apocalittico e sanguinolento. Il paradosso è che tanto più si pongono, come è stato fatto negli anni e a fin di bene, paletti normativi e tanto più si alza l’asticella per applicare le misure severe, tanto più il vocabolario di polizia e processuale deraglia verso scorciatoie colpevoliste e minacciose che prefigurano sconvolgenti serialità. Tenere insieme il pericolo di reiterazione dei reati e la presunzione di innocenza è un esercizio complesso e delicato, da sottrarre forse alla ghigliottina referendaria, ma che il legislatore dovrebbe affrontare, proprio oggi e con coraggio, intervenendo con una minuta tipizzazione dei casi in cui la custodia cautelare può essere applicata perché c’è pericolo di altre illegalità. Si tratta di evitare che gli atti di polizia e le ordinanze coercitive abbiano la necessità di marchiare a fuoco la colpevolezza dell’indagato per superare gli scogli dell’articolo 274 Cpp e il referendum questo lo ha ben chiaro. Caos procure: il Csm sospende da funzioni e stipendio cinque ex consiglieri togati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2021 Al centro della vicenda la riunione del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne in cui si discusse di nomine e innanzitutto del successore di Giuseppe Pignatone alla guida della procura di Roma. Si è concluso con la condanna alla sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, la sanzione più severa dopo la radiazione, il processo disciplinare ai 5 ex togati del Consiglio superiore della magistratura, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli. Al centro della vicenda la famosa riunione notturna all’hotel Champagne del 9 maggio del 2019 sulla nomina del procuratore di Roma. Il pesante verdetto è arrivato dopo dieci ore di camera di consiglio e oltre un anno di udienze e molti rinvii. Secondo una parte dell’Avvocatura si tratta della prova il “sistema” esisteva, e che Palamara, il quale nell’ottobre del 2020 è stato radiato dalla magistratura, non ha agito da solo. Il 9 maggio del 2019 dunque è la data clou, quella della riunione che ha dato origine al caso Palamara. In una saletta dell’albergo romano Palamara, con i deputati Luca Lotti, Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa, e i 5, allora consiglieri superiori, discussero di nomine, innanzitutto quella del successore di Giuseppe Pignatone alla guida della procura di Roma. Il tribunale delle toghe ieri sera ha condannato tutti i cinque ex consiglieri che parteciparono a quell’incontro con Palamara e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Ma in misura diversa, ritenendo evidentemente il comportamento di alcuni più grave di quello degli altri: un anno e 6 mesi per Luigi Spina, Antonio Lepre e Gianluigi Morlini e nove mesi per Corrado Criscuoli e Paolo Cartoni. È in sostanza quello che aveva chiesto la procura generale della Cassazione, che avrebbe voluto però il massimo della sospensione, cioè due anni, per Spina, Morlini e Lepre - all’epoca rispettivamente capogruppo di Unicost, presidente della Commissione sugli Incarichi direttivi e relatore della nomina sul procuratore di Roma - e un anno per Cartoni e Criscuoli. Per tutti la contestazione era di aver cercato di influenzare in maniera occulta l’attività della Commissione direttivi del Csm, pianificando la nomina del Procuratore di Roma, con soggetti “completamente estranei alle funzioni e alle attività consiliari” e con un “diretto interesse personale” a quella scelta (Lotti perché era imputato nel processo romano Consip e Palamara perché aspirava alla nomina a procuratore aggiunto nella capitale). Una tesi respinta con decisione dai difensori degli ex consiglieri, pronti solo a riconoscere semmai “l’inopportunità” di quell’incontro, che era stato organizzato da Ferri e Palamara (all’epoca rispettivamente punti di riferimento di Magistratura Indipendente e Unicost) ma che per molti dei loro assistiti fu “al buio”, nel senso che ignoravano soprattutto la presenza di Lotti. La sentenza potrà essere impugnata davanti alle Sezioni Unite della Cassazione. E il difensore dell’ex consigliere del Csm Gainluigi Morlini, l’avvocato Vittorio Manes ha affermato: “Rispettiamo la decisione ma non la condividiamo affatto. E ricorreremo in Cassazione per vedere affermare le ragioni di chi, come il consigliere Morlini, prima e dopo quello sventurato incontro - del tutto estemporaneo e casuale, almeno per lui - non ha mai ceduto ad influenze che non fossero quelle dei propri convincimenti più convinti e autonomi”. Mario Serio, difensore dell’ex consigliere del Csm Criscuoli, invece ha espresso “delusione, amarezza ed incredulità per la sorte riservata al dott. Criscuoli e per il completo rigetto di tutti indistintamente i plausibili argomenti giuridici spesi”. Intanto, la prossima settimana la Commissione direttivi del Csm tornerà a occuparsi del vertice della procura di Roma, dopo che il Consiglio di Stato ha annullato la nomina di Michele Prestipino, accogliendo il ricorso di due dei candidati esclusi: il pg di Firenze Marcello Viola (su cui puntavano a sua insaputa in quella riunione Lotti e Palamara in nome della “discontinuità” con Giuseppe Pignatone) e il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. E dovrà innanzitutto stabilire se aspettare il 23 novembre, quando le Sezioni Unite della Cassazione si pronunceranno sul conflitto di giurisdizione sollevato da Prestipino nei confronti del Consiglio di Stato. Grasso, ex presidente Anm: “Ora noi toghe abbiamo 6 capri espiatori: troppo comodo…” di Errico Novi Il Dubbio, 16 settembre 2021 Pasquale Grasso, ex presidente Anm, interviene sulla sospensione inflitta dal Csm ai 5 ex togati della cena con Palamara. Parla il magistrato, attualmente giudice del Tribunale di Genova, al vertice dell’Associazione all’epoca del dopocena all’Hotel Champagne per il quale il Csm ha sospeso i 5 ex togati che vi parteciparono. “Sulle nostre mailing list c’era da anni la consapevolezza che il sistema del Csm sulle nomine fosse quello emerso con la vicenda del 2019”. C’è un nodo da sciogliere che neppure la sentenza disciplinare del Csm rende meno intricato: come deve regolarsi, ora, la magistratura? Dopo la radiazione di Luca Palamara, e le “sospensioni differenziate” dei 5 ex togati riuniti con lui nel dopocena all’Hotel Champagne, di cosa si deve tener conto? Della verità processuale o di quella storica, che non dovrebbe ridursi a quel fatale happening? E se vale la prima delle due risposte, e cioè che i colpevoli di tutto sono Palamara più altri 5, quale accertamento va considerato? Il processo a carico dell’ex presidente Anm, giunto a sentenza definitiva dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la radiazione? Oppure la pronuncia arrivata ieri sera a Palazzo dei Marescialli, che ha punito Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Luigi Spina a 18 mesi di stop e Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli a una sospensione di 9 mesi? Non sono decisioni del tutto compatibili fra loro, come ricordato dal Dubbio già ieri. Perché la Suprema Corte, a Sezioni unite, ritiene che “Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira”. Quindi per vendetta e essenzialmente al di fuori di un disegno strategico intercorrentizio. Piazza Indipendenza, con la decisione assunta due giorni fa, è convinta invece che i 5 ex componenti dell’organo di autogoverno cooperarono a vario titolo con le iniziative dell’ex leader della magistratura associata. C’è un contrasto evidente. Al momento, neppure è confermato che gli ex consiglieri Csm sospesi impugneranno la condanna: tutti e 5, a quanto risulta, aspetteranno di leggere la sentenza prima di sbilanciarsi. E in teoria, finché non ci sarà un giudicato disciplinare, potrebbe finire congelata pure la valutazione storica. Ma è impensabile, per la magistratura italiana, che si resti sospesi a quell’interrogativo: si può davvero archiviare la stagione della “correntocrazia”, come la definisce Giovanni Maria Flick, come una prassi solo un po’ stonata, e Palamara invece come una gravissima e distinta patologia? O si dovrebbe invece riconoscere che le esuberanze del cosiddetto re delle nomine furono in effetti un po’ eccessive, ma rappresentavano solo la punta dell’iceberg? Si deve ammettere o no, insomma, che il sacrificio di Palamara è una scorciatoia fuorviante e pericolosa? E che forse radiare l’epitome di una prassi consolidata è un po’ troppo comodo? Il giorno dopo la magistratura non fa sentire voci ufficiali. Non si nota una folla di vertici delle correnti che tentano di offrire una chiave. E forse è anche comprensibile. D’altra parte uno dei gruppi associativi più importanti, Area, andrà a congresso fra una decina di giorni e avrà modo di discuterne. Ma interpellata dal Dubbio, c’è una voce autorevole che offre una prospettiva persino rovesciata, sull’effetto della sentenza di ieri: Pasquale Grasso, presidente dell’Anm all’epoca dell’incontro all’Hotel Champagne, uscito da Magistratura indipendente per la durezza con cui invitò alle dimissioni i consiglieri del suo gruppo coinvolti, in rotta anche con Area e Unicost al punto da lasciare poi il vertice dell’Associazione, fino alla ricucitura con la corrente moderata. “Con la sentenza della sezione disciplinare non credo affatto si favorisca un riconoscimento storico più approfondito”, dice subito Grasso, attualmente giudice presso il Tribunale di Genova. Quindi spiega: “Si prosegue nella traiettoria segnata con le sentenze su Palamara, si puniscono con inedita durezza i protagonisti di quel pur esecrabile singolo evento. Ma si rimuove così ancora una volta un’inevitabile realtà non accettata, e che mai lo sarà: era quella emersa nelle vicende del 2019, la normalità dei rapporti che intercorrevano al Csm”. Grasso è stato al vertice dell’Associazione magistrati ma ha solo sfiorato l’attuale consiliatura, e comunque non ha mai fatto parte dell’organo di autogoverno. “Ciononostante, secondo la vox dei, c’è sempre stata una chiara consapevolezza, nelle mailing list di noi magistrati: sulle nomine si tendeva in generale ad accordi e complicazioni analoghi a quelli venuti fuori per la Procura di Roma. Certo, all’Hotel Champagne”, nota Grasso, “si è arrivati forse allo zenit, per la presenza di un soggetto indagato dall’ufficio sulla cui dirigenza si discuteva nell’incontro (Luca Lotti, deputato allora del Pd, che era al dopocena insieme con Cosimo Ferri, pure lui in quel momento parlamentare dem, ndr). Ma non è che quella specificità segni anche un’estraneità dell’episodio rispetto al contesto generale”. Insomma, rischiamo semplicemente di avere non uno, cioè Palamara, ma 6 capri espiatori, con la condanna degli ex togati arrivata ieri sera? “È esattamente così. Eppure non vedo come si possa ridurre la questione delle nomine e dei rapporti fra le correnti a quell’episodio. Oltretutto”, aggiunge Grasso, tuttora fra i leader della magistratura moderata, “a me sembra che non vi sia stata neppure un’efficace gradazione delle sanzioni rispetto alle condotte dei singoli: le condanne sono tutte fortissime, senza precedenti. Soddisfano le esigenze di sangue, non di conoscenza reale di quanto avvenuto nel Csm per anni”. E rispetto all’impressione che si ricava dalla lettura della sentenza con cui la Cassazione ha confermato la radiazione di Palamara, quella di un uomo solo al comando dei misfatti, Grasso ha un’ultima chiosa: “Vorrei sia ripetuto tre volte: non ho letto, non ho voluto leggere la sentenza delle Sezioni unite, ma se davvero ne risultasse un artefice unico degli accordi sulle nomine, si tratterebbe di una prospettazione poco condivisibile. Palamara non può aver inventato e alimentato il sistema da solo. È una lettura molto consolatoria, quella della singola mela marcia. O delle 5 o 6 che, una volta condannate, dovrebbero soddisfare l’esigenza di verità e soprattutto di purezza del sistema”. Trattativa Stato-mafia, quel romanzo di una strage basato sul nulla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2021 L’impianto accusatorio del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia è stato costruito su una serie di ipotesi per le quali non ci sono stati riscontri, basate sulle dichiarazioni “oscillanti” del pentito Giovanni Brusca, sul falso “papello” consegnato da Ciancimino jr. e su una serie di racconti suggestivi. Dopo lunedì prossimo, 20 settembre, ci sarà la tanta attesa sentenza sul processo d’appello della presunta trattativa Stato-mafia. Gli imputati principali sono gli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l’avvio alla trattativa per garantirsi l’incolumità dalla mafia corleonese, sono usciti fuori dal processo. Assolti. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L’unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi. Poi ci sono gli imputati mafiosi: Totò Riina e Bernardo Provenzano che nel frattempo sono morti, e Leoluca Bagarella. Mentre esce di scena, perché assolto in primo grado, il mafioso pentito Giovanni Brusca. La corte d’Appello ha dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire. Significativo ricordare che Ciancimino junior è stato condannato in primo grado per calunnia (poi prescritto) e, soprattutto, si è accertato che il cosiddetto “papello” con le richieste di Riina (prova decisiva che ha potuto dare l’avvio al processo) è un falso. Ma per la corte di primo grado è inconferente. Anche se è un falso, per i giudici rimangono comunque vere le richieste del “capo dei capi”. Una non prova che nel contempo è anche una prova. Di fatto, nell’immaginario collettivo e giudiziario, il papello diventa certo. Perfino Riina, intercettato nel 2013 quando era al 41 bis dove per la Prima volta ammette di aver ordinato gli attentati, si imbestialisce su questa vicenda che gli addossano. Una non prova, ricordiamo, che ha permesso l’avvio del processo. Da ricordare, infatti, che la procura di Palermo fece due tentativi non andati a segno. Il primo è avvenuto nel 1998 attraverso l’avvio del procedimento chiamato “Sistemi Criminali” che, in sostanza, teorizza un collegamento tra tutte le stragi, da quella di Bologna fino ad arrivare a Capaci e Via D’Amelio. Una specie di terzo livello composto da massoni, estremismo nero, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che hanno dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso l’ha stigmatizzato in tutte le occasioni. In una intervista al quotidiano l’Unità, fatta pochissimi giorni prima di morire, Falcone disse testualmente: “Se per terzo livello intendiamo una sorta di organizzazione che si trova al di sopra degli organismi di vertice di Cosa Nostra, composta da politici e imprenditori, creiamo una trama per un film tipo “La Piovra”. Finiremo con il creare la “Spectre di Fleming”. La realtà è molto più grave, molto più complessa. È peggiore: negare l’esistenza del terzo livello significa infatti affermare che comanda Cosa Nostra e non gli uomini politici. Questo, sfido chiunque a dimostrare il contrario, mi sembra molto più grave”. Gli allora procuratori di Palermo, nel 1998, inconsapevolmente provarono, di fatto, a sfidare Falcone per dimostrare il contrario. Ma non ci riuscirono. Hanno archiviato “Sistemi Criminali” perché non hanno trovato elementi per provare il loro teorema. Ma da questa archiviazione, nasce un altro procedimento mettendo sotto indagine Riina, Vito Ciancimino e il medico Antonio Cinà. Siamo nel 2000. L’ipotesi che guidò i pm palermitani fu che, nel 1992, Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l’apporto da veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spendendo un suo “papello” di richieste dì benefìci per Cosa nostra, dettate da Riina come contropartita della cessazione dell’attacco stragista allo Stato ad una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche. L’identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell’indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato quali risultati utili all’organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale. Nulla di fatto. Nel 2004 i pm di Palermo chiedono l’archiviazione a causa dell’insufficienza di prova e soprattutto dalla non poca confusione dei risultati probatori raggiunti. Ma entra in scena Massimo Ciancimino, colui che - ricordiamo ancora una volta - poi sarà condannato per calunnia e il “papello” da lui consegnato dichiarato falso. L’inchiesta a quel punto viene riaperta nel 2008. Sarà grazie a lui che le indagini vengono estese nei confronti degli ex Ros e anche nei confronti di Mannino: eccolo qua, trovata anche la parte politica che avrebbe avviato la trattativa. Grazie a Ciancimino - in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo è andato a buon segno: si è potuto imbastire l’attuale processo trattativa. Attenzione, per motivi giornalistici si parla di “trattativa”, ma il reato è la “minaccia ad un corpo politico dello Stato”. In sostanza le vittime sono i tre governi che si sono succeduti dal ‘92 fino al ‘94. Ma dove sarebbe condensata la presunta “minaccia”? Qual è l’oggetto materiale attraverso il quale si è potuto veicolarla? È il famigerato papello con le richieste di Riina. La “prova” l’ha consegnata Ciancimino. Quel papello che, com’è detto, risulterà un falso. Ora però manca anche la prova dello scopo raggiunto dalla trattativa. La procura di Palermo l’ha trovata: la mancata proroga, da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, dei 41 bis a circa 300 detenuti. Anche qui, però, qualcosa non torna. Le giudici che hanno assolto Mannino in entrambi i gradi, hanno dimostrato l’ovvio: l’allora ministro Conso, persona perbene e fine giurista, non ha subito alcuna pressione o minaccia. O meglio, una “pressione” l’ha avuta. Ma non dalla mafia o da chi avrebbe veicolato tale minaccia. La “pressione” è giunta dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 1993: il 41 bis non si tocca, però per farlo rientrare nei ranghi della nostra costituzione, non bisogna rinnovare automaticamente il 41 bis. In pratica, il rinnovo o meno, va valutato caso per caso. Riportiamo quindi i fatti analizzando scientificamente i dati. Un metodo razionale e logico, non dietrologico: per questo meno intrigante. A differenza di cosa dice la tesi accusatoria e il sentire comune, i fatti ci dicono che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo del 41 bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo una ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41 bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell’ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Risolto l’arcano, bisogna fare chiarezza su un punto importante. Si gioca molto sul fatto che lo stesso ex Ros Mario Mori ha parlato di trattativa quando fu sentito come teste al processo di Firenze di fine anni 90. Un termine sul quale tuttora si specula. Gli ex Ros mai hanno nascosto di aver intrapreso un colloquio con don Vito Ciancimino. Hanno “trattato” con lui. Ma in che termini? Tutto scritto nero su bianco fin dal 1993, quando arrivò a capo della procura di Palermo Giancarlo Caselli, dopo le dimissioni di Pietro Giammanco. Subito gli riferirono dei colloqui intrapresi e chiesero di poter continuare. Caselli - come ha recentemente testimoniato al processo d’Appello sulla trattativa - ha acconsentito ed è andato a sentirlo al carcere di Rebibbia, assieme all’allora magistrato Ingroia, con la presenza di De Donno. Dal verbale emerge che Ciancimino ha raccontato tutto ciò che è accaduto con i Ros. Tutto. Dalla richiesta del passaporto, fino a fare anche il nome dell’intermediario: ovvero Cinà. Caselli non ci ha visto nulla di male. Esattamente come Borsellino: quando quest’ultimo apprese dalla dottoressa Liliana Ferraro i primi tentativi di colloquio intrapreso da De Donno (il dialogo vero e proprio con la presenza di Mori, il più alto in grado, è iniziato ad agosto del ‘92, dopo la strage di Via D’Amelio), non fece alcuna obiezione né segno di stupore. Era, appunto, un tentativo autonomo da parte dei Ros di arrivare alla cattura dei boss. Ma in che cosa consisteva? Se Ciancimino l’avesse aiutati a risalire ai latitanti, in cambio avrebbero trattato bene la famiglia, proteggendola da eventuali ritorsioni. A quella proposta, Ciancimino si adirò perché avrebbe voluto qualcosa di più. Grazie alla testimonianza dell’altro figlio (non Massimo, ma Roberto), si apprende che Ciancimino pensava di risolvere il suo processo (dove in seguito sarà anche condannato). Pretesa, ovviamente, assurda e inapplicabile. Cosa che, appunto, gli fece notare il figlio che è anche avvocato. Quindi, c’è un punto fermo. I Ros, appena se ne andò via Giammanco (di cui non si fidava nemmeno Borsellino), riferirono alla procura di Palermo i contatti che ebbero con Ciancimino. Il verbale del ‘93 parla chiaro. Ovviamente Caselli dice che non poteva immaginarsi che quella fosse la cosiddetta trattativa che poi dopo anni sarà teorizzata dall’accusa. All’epoca, così come Ingroia che sarà uno dei titolari del processo, non era a conoscenza degli elementi che poi uscirono fuori. Ha ragione Caselli. Il problema è che i “nuovi” elementi usciti fuori sono basati su illazioni, su ragionamenti basati su un papello inesistente, sulle testimonianze di un Brusca che con il tempo ha fatto dichiarazioni oscillanti. Basti pensare che Brusca, inizialmente, riferì di aver sentito parlare di una trattativa con Bossi, il fondatore della Lega. Poi cambia versione in corso d’opera. Addirittura sposta la data dell’inizio trattativa a cavallo tra le due stragi. Le prove dell’avvenuta trattativa, di fatto, non ci sono. Rimangono solo chiacchiere. Talmente inconsistenti che ogni tanto esce fuori qualche pentito di basso rango che dice di conoscere verità inconfessabili. Casualmente volte a corroborare la tesi vigente. La giuria popolare sarà decisiva per la sentenza. I giudici popolari avranno una grande, enorme responsabilità nel decidere sulla sorte degli imputati del processo trattativa Stato-mafia. Saranno coscienziosi, curiosi di approfondire seriamente senza farsi fuorviare dai mass media, i giornali, i gruppi Facebook, le immaginette virali, senza farsi ammaliare da taluni magistrati onnipresenti in Tv e nei convegni? Chissà se durante il processo hanno compreso quanto sia differente la realtà dei fatti rispetto ai palcoscenici mediatici. Chissà se valuteranno bene le presunte prove. Chissà se hanno ben compreso che forse potranno ristabilire la verità distorta da questa tesi giudiziaria. Chissà se si sono resi conto che non contano le parole di qualsiasi giornalista, opinionista, santoni, improbabili pentiti, ma solo la verità documentata. Sarebbe interessante, ma ovviamente non fattibile, conoscere la storia individuale di ognuno dei giudici popolari. Capire se hanno quella coscienza critica, dovuta anche dalle avversità della vita, che permetterà loro di saper decidere ben sapendo che è in gioco la preziosa vita di una persona. La decisione finale è riservata a loro. Nel caso di parità, prevale la sentenza più favorevole agli imputati. C’è un dato di fatto. Abbiamo diverse sentenze che non collimano con la tesi della trattativa. C’è la sentenza Mannino: in entrambi i gradi di giudizio, le giudici non si sono limitate ad assolvere l’ex democristiano, ma hanno decostruito la tesi giudiziaria in maniera capillare. C’è poi la sentenza del Borsellino Quater di secondo grado che non entra nel merito della trattativa (non è di sua competenza), ma la esclude categoricamente come movente dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio: per la Corte nissena, la causa dell’accelerazione era quella “preventiva”, ovvero togliere Borsellino di mezzo perché aveva dimostrato seria intenzione di indagare a fondo (ancora non aveva la delega) su mafia appalti, una indagine scaturita dal dossier redatto dai Ros stessi sotto la supervisione di Falcone. D’altronde, ma questa è un’aggiunta non contemplata nella sentenza, Borsellino stesso - cinque giorni prima di morire - partecipò all’ultima riunione della procura di Palermo facendo sue le lamentele di Mori e De Donno relative a quel procedimento. Aggiungiamo, inoltre, le sentenze di Capaci, uno e due, dove escludono la trattativa per le stragi (comprese quelle continentali), ma contemplano appunto il discorso dell’esito del maxiprocesso, la dura reazione dello Stato e la questione relativa ai grandi appalti. Sull’ipotesi trattativa rimangono in piedi due sentenze di primo grado: quella di Palermo e quella recente su Matteo Messina Denaro. E quindi? In sostanza abbiamo decine di sentenze che arrivano a conclusioni diverse. Il tutto e il contrario di tutto. Allora è lecito chiedersi: se lunedì la Corte di Palermo dovesse condannare gli ex Ros Mori e De Donno, Dell’Utri compreso, come si potrà dire che giustizia è stata fatta quando chiaramente i dubbi permangono? Si può finire in prigione, quando, sulla medesima vicenda, i giudici di varie Corti arrivano a conclusioni diverse? In un Paese democratico e civile, nel dubbio, si assolve. Limiti all’espulsione alternativa al carcere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2021 Dopo il Dl Sicurezza del 2020 pesa il pregiudizio ai rapporti familiari. L’espulsione come sanzione alternativa alla detenzione, va esclusa se pregiudica un rapporto familiare a prescindere dalla convivenza. Ad allargare le ipotesi che consentono allo straniero condannato e detenuto in esecuzione della pena di evitare l’espulsione è il decreto Immigrazione e Sicurezza del 2020. Il Dl 130/2020 ha, infatti, indicato come ulteriore causa di ostacolo all’espulsione la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. La Cassazione (sentenza 34134) segue questa via e accoglie d il ricorso di un immigrato al quale era stato negato il permesso di restare in Italia, in assenza della prova di convivenza con la figlia. Prima del Dl 130, il ricorso a questo atipico strumento teso a scongiurare il sovraffollamento carcerario, era precluso - secondo l’orientamento giurisprudenziale più rigoroso - solo in caso di convivenza con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana, al quale, dopo la legge Cirinnà, è stato equiparato il convivente more uxorio. Mentre l’indirizzo più favorevole allo straniero chiedeva al giudice di valutare la pericolosità sociale - in rapporto alla situazione familiare - oltre al radicamento sul territorio. Un diverso approccio ora superato dal Dl 130, che impone al giudice un sforzo istruttorio supplementare per verificare natura ed effettività dei vincoli familiari, inserimento sociale in Italia, durata del soggiorno ed esistenza di legami familiari culturali o sociali con il paese d’origine. Nel caso specifico va valutato l’impatto che l’espulsione del ricorrente può avere sul rapporto con la figlia a prescindere dalla convivenza. Reiterabile domanda protezione internazionale fondata su fatti già esistenti al tempo della prima di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2021 La colpa dell’istante di non averli promossi precedentemente rileva solo se lo Stato membro ha previsto l’eccezione nel recepimento. La Corte Ue boccia il diniego alla ripresentazione di una domanda di protezione internazionale perché non originata da fatti nuovi rispetto all’epoca in cui era stata presentata la prima istanza respinta. E precisa che è illegittimo l’eventuale termine di decadenza apposto alla reiterazione della richiesta. Al contrario può essere previsto come requisito per il rinnovo della domanda che l’istante non versi in colpa per non aver proposto subito i motivi su cui si fondava la prima istanza. Ma questo solo se all’atto del recepimento della direttiva in materia lo Stato abbia opzionato per la previsione di tale limitazione. Con la sua sentenza sulla causa C-18/20, la Cgue ha bocciato come illegittimo il diniego amministrativo opposto a un cittadino iracheno che aveva già presentato domanda di protezione internazionale per il rischio di ritorsioni nel suo Paese d’origine per non aver collaborato con le forze sciite. Di fatto, però, aveva taciuto il vero (o l’ulteriore) motivo di timore di rientro in patria dovuto alla sua omosessualità. Come già detto la colpa di non aver presentato tutti i motivi esistenti all’atto della prima richiesta non rileva se non esplicitamente prevista dalla legislazione nazionale dello Stato membro ove si trova il richiedente. Nel caso concreto aveva affermato l’istante di non essere sicuro che non avrebbe subito conseguenze nel Paese Ue cui chiedeva protezione se avesse rivelato la propria omosessualità. Di sicuro non poteva vedersi perimetrato il proprio diritto a riproporre la domanda per superamento di un dato termine temporale. Catanzaro. Il dramma di Michele Carosiello, una morte annunciata dopo 10 giorni di agonia di Sergio D’Elia Il Riformista, 16 settembre 2021 Lo scorso 16 agosto una delegazione del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino ha fatto visita al carcere di Catanzaro. Solo alcuni giorni dopo, un detenuto di quell’istituto ci ha scritto per comunicare una notizia triste: la morte di Michele Carosiello, un uomo di Cerignola, di 40 anni, padre di due figlie. Dopo dieci giorni di febbre alta, era stato portato in ospedale, dove è morto di setticemia. Nelle statistiche ufficiali, il suo decesso sarà classificato come “morte naturale”. Non v’è nulla di “naturale” in quel che accade in carcere ove tutto è volto contro la natura umana, il diritto naturale, la salute, la vita, la dignità umana. In un luogo che è non solo di privazione della libertà ma anche “di pena”, il dolore, la sofferenza, il patimento sono i tratti dominanti, strutturali, istituzionali. Tant’è che continuiamo a chiamare questi luoghi - giustamente - “luoghi di pena”, “istituti penitenziari” perché quello sono. Luoghi di tortura senza, in linea di massima, torturatori. Strutture concepite e attrezzate per infliggere dolore e sofferenza, alimentare odio, praticare una violenza all’ennesima potenza, perché esercitata sul prigioniero, una persona sottoposta a un dominio pieno e incontrollato del potere dello stato. Una potenza - spesso - neanche speculare, geometrica, retributiva rispetto al dolore, alla sofferenza, all’odio, alla violenza arrecati dal delitto. Perché in carcere lo specchio è deformante come quello di una galleria degli orrori. La geometria non è euclidea, non ci sono linee, piani, parallele, cerchi fatti col compasso. Tutto è aleatorio, capriccioso, iperbolico, paradossale. In carcere la retribuzione non è neanche quella arcaica e limitativa dell’occhio per occhio: per un occhio cavato puoi esigere al massimo un occhio da cavare per compensare quello cavato. In carcere, invece, te ne cavano due. Letteralmente. Basta vedere la perdita di un senso umano fondamentale, quello della vista, “difetto” comunissimo nelle sezioni del 41-bis, per l’effetto di una visione limitata nello spazio e illimitatamente nel tempo, dove non si vede mai il cielo, l’orizzonte, il sole, la luna, il mare. Una delle poche note dolci del carcere di Catanzaro è il laboratorio di pasticceria, punto d’orgoglio della Direttrice Angela Paravati, in cui lavorano 10 detenuti dell’Alta Sicurezza, tra cui Francesco Fabio Valenti che ha anche scritto un libro che si intitola Dolci C-reati. Le note amare le sentiamo quando arriviamo nelle sezioni di detenzione. Leggo, ad esempio, dal rapporto che Rita Bernardini e il fedele “stenografo” Gianmarco Ciccarelli hanno inviato al Capo del Dap e al Ministro della Giustizia. G.C., detenuto in sedia rotelle, riferisce di trovarsi in questo reparto da tre anni; la sua cella non è compatibile con la sua condizione; per accedere nel vano bagno è addirittura necessario salire un gradino. N.S. è gravemente malato, con diverse patologie; pure a lui è in sedia a rotelle ed è stata assegnata una cella con un gradino per accedere al bagno. M.C., detenuto in sedia a rotelle, è stato trasferito nel carcere di Catanzaro appositamente per la presenza del SAI (Servizio di Assistenza Intensificata) e segnatamente per fare l’idrochinesiterapia: “Mi hanno mandato qui per il SAI ma mi hanno messo in sezione normale; mi hanno mandato qui per fare l’idrochinesiterapia ma non si può fare perché la piscina non funziona, non ha mai funzionato”. M.C. è in condizioni di estrema fragilità psichica, sta seduto da solo nella saletta della socialità. M.P. riferisce di aver perso un occhio durante la carcerazione: “Vorrei essere curato”. G.C. segnala di non ricevere cure adeguate: “Sono cieco, ho il diabete, ho avuto un trapianto al ginocchio e devo essere operato all’anca, vorrei essere curato ma qui ci danno solo tachipirine”. F.M. denuncia di non ricevere cure adeguate, ha un’osteomielite e rischia l’amputazione del braccio. F.V. si trova nel SAI da due anni e tre mesi e ha visto un progressivo deterioramento delle sue condizioni: “Sono entrato qui con le stampelle, e adesso sono inchiodato a una carrozzella”. A.P. riferisce di essere invalido al 100% e di essere affetto da diabete, morbo di Parkinson, distrofia muscolare e di essere stato operato per due tumori: “Però i farmaci li devo comprare di tasca mia”. Dieci giorni dopo la nostra visita, è arrivata a Nessuno tocchi Caino una lettera dal titolo “Morte annunciata e voluta di un uomo… solo perché detenuto” firmata da Luigi Iannaco e altri 14 detenuti, che scrivono, tra l’altro: “Oggi non è giorno di polemiche, non è giorno di diritti negati, non è giorno di scannarsi. Oggi è il giorno di Michele Carosiello, un ragazzo di 40 anni di Cerignola, entrato in carcere a Catanzaro e morto grazie all’incompetenza, all’arroganza e alla strafottenza di alcuni medici di questo carcere. Niente polemiche, voglio commemorarlo spiegando l’iter della sua morte, poi sarete voi a giudicare di chi sono le responsabilità e chi sono gli assassini di quest’uomo che lascia una moglie e due figlie. Michele Carosiello inizia ad avere la febbre e si segna dal medico, spiega il suo problema, qualche aspirina e viene rimandato in cella; secondo giorno, la febbre permane, altra visita medica, la febbre continua; terzo giorno, altra visita medica; quarto giorno altra visita medica; quinto giorno altra visita medica; sesto giorno altra visita medica; settimo giorno altra visita medica; ottavo giorno altra visita medica; nono giorno altra visita medica; decimo giorno altra visita medica. La dottoressa dice che si può togliere dalla testa che lo manderà in ospedale. Michele ritorna in cella e riferisce l’accaduto ai compagni i quali iniziano a protestare. Arriva l’ispettore chiama il dirigente sanitario che convince la dottoressa a ricoverare Michele. Due ore dopo Michele è in ospedale, tre giorni dopo Michele è morto per setticemia. Non voglio parlare dell’incompetenza di questi medici, non voglio parlare della tracotanza, non voglio parlare della strafottenza, dell’arroganza, dell’umanità e tantomeno del giuramento di Ippocrate. Oggi commemoro solo un ragazzo morto che la sua famiglia ha avuto il coraggio, l’ardire, e l’umanità di portarlo da morto sotto il carcere per fargli dare l’ultimo saluto da parte nostra. Ho visto quella bara, ho visto la moglie e ho visto due ragazzine che sono le sue figlie, e in quel momento mi sono rivisto in quella bara. Onore e pace a Michele Carosiello” Il carcere è diventato ormai un luogo di orbi, di sordomuti, di sdentati, di zoppi, di malati di cuore, di malati di mente. Le carceri sono diventate nosocomi, manicomi, lazzeretti. Le istituzioni totali, i sistemi concentrazionari aboliti dalla storia del diritto e della umanità, li abbiamo tutti ripristinati e concentrati in un luogo solo: il carcere. Questo luogo non solo è inutile, è anche dannoso, non può essere riformato, va abolito, come sono stati aboliti schiavitù, torture, pene di morte, manicomi. Ogni volta che entro in un penitenziario mi assale una sensazione di irrealtà e di nausea, percepisco subito l’anacronismo del momento simbolicamente segnato dagli orologi fermi nei corridoi (in galera tutti gli orologi sono bloccati su un tempo che non coincide con la realtà). Ogni volta che entro in carcere mi coglie un senso di straniamento come quello che può cogliere il viaggiatore in una dimensione fuori dal tempo e fuori dal mondo. Non sono luoghi di rieducazione. Le carceri sono relitti della storia che oggi dovrebbero essere visitati come si visita un sito archeologico, inabitato dall’umanità, dalla vita, dalla natura umana, mera testimonianza che racconta la civiltà del passato, ormai superata nella storia infinita della evoluzione dei diritti umani verso gradi sempre più elevati di coscienza. Un luogo siffatto non può essere riformato, va solo superato. Inutile andare alla ricerca di un carcere migliore, dobbiamo cercare qualcosa di meglio del carcere. Per dirla, più radicalmente, con Gustav Radbruch e con Aldo Moro: non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale. Napoli. “Può morire da un momento all’altro”: i casi dei detenuti che rischiano la vita in cella di Ciriaco M. Viggiano Il Dubbio, 16 settembre 2021 Il cardiologo è stato chiaro: se non gli viene impiantato subito un peacemaker, Giuseppe Amato può morire da un momento all’altro. Se pensate che ciò sia bastato al Tribunale di Sorveglianza di Napoli per accordare il differimento della pena al 69enne cardiopatico, oggi detenuto a Poggioreale, beh… vi sbagliate di grosso. Nonostante le istanze presentate dall’avvocato di Amato e la relazione firmata dal suo cardiologo, i giudici traccheggiano. E così a Poggioreale rischia di verificarsi un caso simile a quello di Pasquale Francavilla, il detenuto “costretto” a morire nel carcere di Cosenza nonostante una grave patologia vascolare avesse da tempo reso le sue condizioni di salute incompatibili col regime detentivo. Amato sta scontando a Poggioreale un cumulo di pene che si esaurirà il primo aprile 2027. Nel frattempo le sue condizioni di salute, già compromesse, si stanno ulteriormente aggravando. Oltre che col diabete, in passato Amato ha dovuto fare i conti con una cardiopatia ischemica che nel 2015 l’ha costretto a sottoporsi a un intervento chirurgico per la sostituzione della valvola mitralica. Da diversi mesi a questa parte, però, il suo cuore dà ulteriori segni di cedimento: i continui blocchi atrio-ventricolari gli abbassano la frequenza cardiaca al punto tale da provocargli perdite di coscienza e rovinose cadute che ne hanno già imposto il ricovero d’urgenza in più di un’occasione. Tanto che, nella relazione stilata a marzo di quest’anno, il cardiologo è stato lapidario: “Se non si provvede a un rapido ricovero con impianto di un peacemaker, il detenuto è in serio e reale pericolo di morte improvvisa”. Per salvare Amato, quindi, i giudici non dovrebbero fare altro che consentirne il ricovero in ospedale per poi dare l’ok a un intervento chirurgico e alla detenzione domiciliare. Cosa che, fino a questo momento, non si è verificata. Anzi. La prima istanza di differimento della pena e applicazione della detenzione domiciliare, presentata per conto di Amato dall’avvocato Raffaele Pucci a fine 2020, è stata respinta dal Tribunale di Sorveglianza a maggio di quest’anno. La motivazione? “La patologia appare non grave e trattabile in ambiente carcerario”. Più di un mese fa l’avvocato Pucci ha presentato una seconda istanza, sollecitando un intervento anche da parte del Dap e della direzione sanitaria del carcere di Poggioreale. La risposta? Nessuna. Intanto le condizioni di salute di Amato continuano ad aggravarsi: ai problemi cardiaci e al diabete si sono aggiunti tosse, affanno e perdita di peso. Non proprio il massimo, soprattutto in tempo di pandemia. E a sottolinearlo è stato il cardiologo: “Una compromissione dell’organismo del detenuto da parte del Covid sarebbe sicuramente accompagnata da complicanze respiratorie severe con elevato rischio per il paziente”. Basterà a convincere la Sorveglianza a disporre il ricovero in ospedale e la detenzione domiciliare per il 69enne? È quello che sperano tutti. O, almeno, quelli che non vogliono che Poggioreale diventi teatro di una tragedia simile a quella di Cosenza, dove Pasquale Francavilla è stato rispedito in cella dopo il ricovero in ospedale e lì ha perso la vita. Ma non è la vicenda di Amato non è la sola a tenere col fiato sospeso familiari e operatori. Ieri il garante regionale Samuele Ciambriello ha incontrato alcuni pazienti oncologici detenuti a Santa Maria Capua Vetere. Tra questi Giovanni Calenzo, 59enne ormai divorato dal cancro: il suo è uno dei pochi casi in Campania di reclusi dichiarati più volte incompatibili col regime carcerario eppure costretti in cella perché le strutture sanitarie sono incapaci di gestirli. Di qui l’ennesimo sos lanciato da Ciambriello alla Corte d’assise d’appello di Napoli affinché dichiari Calenzo ancora una volta incompatibile col regime carcerario. “Il diritto alla salute è incompatibile con la permanenza in cella - precisa il garante - C’è bisogno di strutture di accoglienza, soprattutto per i detenuti senza supporto familiare. La pena non può essere vendetta. Chi è incompatibile con il carcere deve uscirne e non da morto”. Cosenza. “Sto male, mi stanno ammazzando”: l’ultimo appello di Pasquale Francavilla di Marco Cribari Quotidiano del Sud, 16 settembre 2021 “Sto malissimo, non ce la faccio più. Mi stanno ammazzando. Chiama l’avvocato per l’istanza di scarcerazione”. È il disperato appello che il detenuto cosentino Pasquale Francavilla rivolge alla moglie una volta rientrato in carcere dopo una settimana trascorsa in ospedale. “Amore, ho paura di non rivederti più” dice alla consorte, un presentimento che, purtroppo, due giorni dopo troverà conferma. Il 10 settembre, infatti, Francavilla si spegne in una cella del carcere di Cosenza all’età di 46 anni, ufficialmente per un infarto, e la sua morte è ora oggetto di un’inchiesta da parte della magistratura del posto, chiamata a verificare quali responsabilità umane si celino dietro la tragedia. Il sospetto, sempre più concreto, è che l’uomo sia stato riportato troppo in fretta dietro le sbarre, che avrebbe dovuto restare ancora in ospedale o andare ai domiciliari, ma in attesa che il tempo e gli investigatori facciano chiarezza definitiva su questi e altri aspetti, non resta che il dolore: quello dei familiari. La disperazione della vedova, interpellata telefonicamente, è affidata ancora al ricordo della loro ultima videochiamata: “L’ho visto piangere per la prima volta in trent’anni. Mi ha sempre nascosto le cose quando non si sentiva bene, faceva così per non farmi preoccupare. Stavolta non ce l’ha fatta a dissimulare”, spiega la donna tra le lacrime. L’antefatto è noto: a fine agosto, Francavilla è colpito da una trombosi a una gamba che il 31 del mese determina il suo trasferimento d’urgenza dalla casa circondariale all’Annunziata. Resta una settimana in terapia intensiva e, l’otto settembre, l’ospedale dà il via libera alle sue dimissioni. A rievocare quel calvario ospedaliero è suo padre Francesco Alfonso che durante la permanenza in corsia di suo figlio, ha parlato più volte con i medici che l’avevano in cura, informandosi giornalmente sulle sue condizioni di salute. “Mi dicevano che la situazione era gravissima. Dal 4 settembre in poi è subentrato un po’ di ottimismo, perché pur restando in condizioni molto critiche, il suo organismo stava reagendo bene alla terapia. Sia un medico che una dottoressa, però, hanno precisato che sarebbe servita una degenza molto lunga: almeno cinque o sei mesi”. È uno dei passaggi più controversi della vicenda: perché dopo pochi giorni si decide, invece, di rispedirlo in carcere? “Anche quell’otto settembre - rievoca l’anziano genitore - telefono in ospedale e apprendo che mio figlio è stato dimesso, ma nessuno sembrava sapere dove si trovasse”. Pasquale Francavilla fa rientro dunque nella casa circondariale, un epilogo che il suo avvocato Mario Scarpelli reputa inopportuno fin dal principio. Il legale chiede che resti ancora in corsia, che sia assegnato a un reparto, o che in alternativa possa andare ai domiciliari, ma la sua istanza non trova accoglimento, e così per il suo assistito si spalancano nuovamente le porte dell’istituto di pena. Il detenuto, però, non sta affatto bene. “Se ne stava sdraiato sul letto con degli asciugamani sotto la testa, sudava in modo molto vistoso - ricorda ancora sua moglie - e faceva fatica a respirare”. Il 9 settembre, alla vigilia della fine, la donna parla ancora una volta con lui. La relazione medica che certifica la sua incompatibilità con il regime carcerario, le spiega Francavilla, è stata già trasmessa al magistrato di sorveglianza. “Me l’ha detto il direttore del carcere” aggiunge, ed è anche questo un aspetto sul quale le indagini dovranno fare luce tra ritardi sospetti e possibili omissioni sullo sfondo di una tragedia che, quasi certamente, poteva essere evitata. Suo padre ne è certo: “I medici mi dissero che solo il cinque per cento delle persone che hanno avuto quello che ha avuto lui riesce a sopravvivere”, il tutto a riprova di come fra i tanti aspetti oscuri del caso, quelle dimissioni così improvvise siano, al momento, quello più indecifrabile. Aveva quasi finito di scontare la sua condanna per associazione a delinquere e droga, sarebbe tornato in libertà a dicembre del 2022. Malgrado il dolore lo tormentasse, nonostante i presagi funesti, era ancora progettuale. Lo è rimasto fino all’ultimo, come dimostra l’ultimo scambio di battute con la madre dei suoi figli. “Mi ha chiesto di acquistare i farmaci della terapia, nell’eventualità che lo rimandassero a casa. E poi mi ha detto di contattare l’avvocato Scarpelli per dirgli di andare in ospedale a ritirare la cartella clinica”, conclude la donna. “Gli interessava soprattutto la lettera di dimissioni” aggiunge prima che le lacrime abbiano il sopravvento. “Aveva pensato lui a pagare l’ospedale, nonostante stesse così male. Non doveva andarsene così. Spero possa avere giustizia”. I medici legali incaricati dalla Procura hanno eseguito l’autopsia sabato scorso e il loro responso arriverà fra novanta giorni. Melfi (Pz). Rivolte in carcere contro le misure anti-Covid, 11 arresti tra i detenuti di Antonio Palma fanpage.it, 16 settembre 2021 Gli indagati sono accusati a vario titolo dei reati di sequestro di persona e devastazione. Nel giorno della rivolta al carcere di Mefli, infatti, alcuni operatori sanitari e vari agenti della Polizia penitenziaria in servizio furono sequestrati per diverse ore dai detenuti in rivolta e liberati solo al termine di una lunga trattativa. Blitz della polizia nelle prime ore di oggi per eseguire un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di undici persone ritenute coinvolte nelle rivolte in carcere contro le misure anti-covid scoppiate durante la prima ondata della pandemia. La misura è stata disposta dal Tribunale del Riesame di Potenza e ha riguardato undici persone che sono state arrestate nell’ambito delle indagini sulla rivolta scoppiata nel carcere di Melfi, in provincia di Potenza, il 9 marzo 2020 in segno di protesta contro le misure anti-covid. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza, sono state svolte dalla Polizia di stato e dalla Polizia penitenziaria. In totale l’inchiesta vede come indagate 44 persone identificate come partecipanti alle proteste ma l’inchiesta presto potrebbe allargarsi ulteriormente. Per altre 33 persone infatti “si è in attesa degli sviluppi dei ricorsi per Cassazione proposti dai rispettivi difensori”. Come spiega un comunicato diffuso dalla Dda di Potenza i 44 detenuti finiti nel registro degli indagati sono accusati a vario titolo dei reati di sono sequestro di persona a scopo di coazione e devastazione. Nel giorno della rivolta al carcere di Melfi, infatti, alcuni operatori sanitari e vari agenti della Polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale furono sequestrati per diverse ore dai detenuti in rivolta e liberati solo al termine di una lunga trattativa con le forze dell’ordine. Gli undici arrestati sono persone di età compresa tra i 49 e i 28 anni, residenti nelle province di Potenza, Benevento, Catania, Palermo, Siracusa, L’Aquila, Bari, Reggio Calabria e Asti. Alcuni di loro appartengono a gruppi criminali campani e pugliesi. L’ordine di custodia cautelare nei loro confronti, spiegano dalla Dda di Potenza, è scattato dopo che Tribunale del Riesame ha accolto l’appello presentato dalla stessa Direzione distrettuale contro il rigetto della richiesta cautelare da parte del gip del capoluogo lucano che “pur ravvisando il grave profilo indiziario, aveva concluso per il difetto di esigenze cautelari”. Nella conferenza stampa che si è tenuta nel Palazzo di giustizia del capoluogo lucano, dal Procuratore distrettuale antimafia di Potenza, Francesco Curcio ha ricordato che il carcere di Melfi è di massima sicurezza e che “forse per la prima volta in Italia - ha aggiunto Curcio - è contestato il reato di sequestro di persona a scopo di coazione”. Il Procuratore ha inoltre messo in evidenza che “sono state fatte indagini per accertare eventuali responsabilità degli agenti, sono stati ascoltati i detenuti che hanno presentato denuncia e sono stati esaminati i certificati medici. Non si è potuto procedere alla visione delle telecamere di sorveglianza perché erano state distrutte propri durante la rivolta. Non sono stati - ha concluso Curcio - rilevati riscontri a sostegno delle accuse di violenza”. Ferrara. Detenuto torturato in carcere: “Gli agenti mi hanno legato al letto e picchiato” di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 16 settembre 2021 Parla la presunta vittima: “Mi accusavano di essere stato io ad aggredire. Così ho deciso di denunciarli”. “Mi hanno fatto spogliare e mettere in ginocchio. Poi mi hanno attaccato con le manette al letto. Mi hanno colpito con calci allo stomaco e colpi in faccia e in testa, anche con il ferro di battitura”. Antonio Colopi - detenuto a Reggio Emilia per l’omicidio dello chef ferrarese Ugo Tani, avvenuto a Cervia nel 2016 - ha parlato a lungo in aula nel corso del processo che lo vede persona offesa. Imputati a vario titolo per tortura (si tratta di uno dei primi processi in Italia per questo reato), lesioni, calunnia, favoreggiamento e falso sono due agenti di polizia penitenziaria e un’infermiera in servizio al carcere dell’Arginone (difesi dagli avvocati Alberto Bova e Denis Lovison). Un terzo agente inizialmente indagato è stato già condannato con rito abbreviato. Secondo le accuse, i poliziotti avrebbero picchiato il detenuto e l’infermiera li avrebbe ‘coperti’. L’udienza di ieri è stata dedicata alla testimonianza della presunta vittima che ha ripercorso quanto accaduto il 30 settembre del 2017. Colopi ha raccontato di essere stato svegliato dagli agenti per una perquisizione mentre si trovava in isolamento. I poliziotti lo avrebbero fatto spogliare e inginocchiare, ammanettandolo al letto con le mani dietro la schiena. Dopo le botte, ha continuato il detenuto, ci sarebbero stati cinque minuti di ‘vuoto’ al termine dei quali si sarebbe trovato “sempre ammanettato ma con le mani davanti”. In quel frangente, secondo la ricostruzione emersa in aula, la presunta vittima avrebbe colpito “con una testata” uno degli agenti. In seguito a questa reazione, “vengono in due (poliziotti, ndr), mi bloccano in un angolo e mi picchiano ancora”. Uno degli agenti gli avrebbe poi “puntato un coltellino” a serramanico al collo, dicendogli “ti taglio la gola”. La testimonianza di Colopi si è infine concentrata sulla decisione di denunciare. “In passato mi avevano picchiato e poi mi avevano denunciato dicendo che ero stato io ad aggredire, facendomi prendere delle condanne - ha spiegato. Quella volta, invece, ho denunciato io”. Incalzato dall’avvocato Bova (che gli ha chiesto conto anche dei suoi precedenti “litigi” con altri detenuti), la persona offesa ha ammesso di avere denunciato il presunto pestaggio anche a seguito del consiglio della comandante della polizia penitenziaria, che verrà ascoltata nell’udienza del 10 novembre. Modena. La maggioranza promuove l’istituzione di un Garante dei diritti dei detenuti modenatoday.it, 16 settembre 2021 Il Pd di Modena presenterà a breve in Consiglio comunale un ordine del giorno affinché anche nel territorio modenese, per la prima volta, si possa avere una figura istituita per monitorare lo stato degli istituti di pena presenti. I dem lo fanno sapere attraverso una nota consigliere comunale Antonio Carpentieri, che spiega: “Il Pd di Modena, insieme agli alleati di centrosinistra in Consiglio comunale, sta già lavorando a un ordine del giorno con lo scopo di istituire la figura del Garante dei detenuti anche a Modena, dove si trova la Casa Circondariale Sant’Anna, coinvolgendo nel percorso il comune di Castelfranco Emilia, dove ha sede la casa di reclusione a custodia attenuata”. “È necessario prestare più attenzione alle persone private della libertà personale - continua Carpentieri -, per il Partito democratico i diritti dei detenuti sono fondamentali, come lo sono i diritti di tutti i cittadini. Avere sul territorio un Garante con il compito di monitorare lo stato della Casa circondariale di Sant’Anna e la Casa di reclusione di Castelfranco sarebbe un segno di civiltà”. Ieri anche la Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux aveva sollecitato la politica locale in tal senso: “E’ sotto gli occhi di tutti la situazione delle case circondariali e degli altri istituti di pena nel nostro paese, troppo spesso dimenticate da larga parte della cittadinanza e della politica, come dimostrato dalle condizioni degradanti nelle quali vivono troppi detenuti e internati e operano troppo pochi agenti della Polizia Penitenziaria insieme ad un numero insufficiente di educatori. D’altra parte la mancata riforma dell’Ordinamento Penitenziario, troppo a lungo rinviata e non più rinviabile, ha mantenuto in piedi un sistema carcerocentrico che è inadeguato alla realizzazione del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena”. Già molte altre realtà in Emilia-Romagna hanno istituito la figura del Garante Territoriale delle persone private della libertà personale: dal Garante Regionale fino ai Garanti comunali già istituiti a Bologna, Ferrara, Parma, Piacenza e Rimini con importanti compiti di ascolto e controllo. “Auspichiamo pertanto che anche le forze politiche modenesi si facciano carico di questa esigenza - hanno spiegato i penalisti modenesi - istituendo finalmente questa importante figura anche nei Comuni di Modena e di Castelfranco Emilia: si tratta di una battaglia di civiltà che risponde a una necessità da tutti avvertita, sulla quale speriamo che i partiti sapranno trovare la necessaria unità d’intenti per dare risposte concrete a una fascia di soggetti deboli che merita tutela”. Busto Arsizio. “Carcere, servono volontari per disinnescare una bomba sociale” di Orlando Mastrillo varesenews.it, 16 settembre 2021 Il pensiero di don David Maria Riboldi, da tempo impegnato nella struttura di Busto come cappellano: “Mi appello alle associazioni del territorio per organizzare attività in favore dei detenuti”. È vero che mancano i Rems come dice il direttore Orazio Sorrentini (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici, ndr) ed è anche vero che mancano gli agenti di Polizia Penitenziaria come dice il sindacato ma don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, è convinto che quando anche questi due problemi verranno risolti, la vivibilità del carcere di Busto Arsizio non migliorerà: “Almeno fino a quando non si struttureranno meglio le attività in carcere. Serve la volontà di investire sui detenuti e di occuparli in corsi di formazione, attività ricreative, corsi scolastici”. Secondo il responsabile della cooperativa “La valle di Ezechiele”, attiva nella casa circondariale di Busto Arsizio con alcuni progetti, “servono volontari che abbiano la voglia di mettersi in gioco per dare un’opportunità a queste persone che, se è vero che sono qui a scontare una pena per errori fatti in passato, vanno comunque aiutati a reintegrarsi positivamente nella società”. Da due anni a questa parte, dall’inizio della pandemia, quello di Busto è un carcere che soffre tra sovraffollamento, mancanza di attività, scuola a singhiozzo “poi ci stupiamo se i detenuti diventano aggressivi contro loro stessi o contro gli altri. Sono esseri umani compressi nelle loro libertà, arrabbiati, frustrati da un regime carcerario che non li considera. Basterebbe una partita di pallone per stancarli e farli andare a letto un po’ più sereni”. Tra le poche esperienze positive di questi ultimi mesi cita quella vissuta con mussulmani, cattolici e atei che hanno partecipato ad un corso di fotografia “andavano tutti d’accordo nonostante provenissero da storie e mondi diversi. Non c’è stato nemmeno un litigio, anzi si aiutavano a vicenda”. Altra esperienza positiva è quella che sta vivendo con il fotografo Ermes Mereghetti: “È arrivato qui per realizzare un corso di musica, poi ha scoperto che c’era interesse per la fotografia e ha organizzato un corso. Ora lavora per la cooperativa”. Il problema, dunque, non è solo sistemico ma anche territoriale: “Le associazioni del territorio si accorgono che c’è un carcere in città? Quando qualcuno si avvicina a questo mondo, decidendo di spendere del tempo per gli altri, poi va formato. Mi appello alle realtà cittadine perché si crei un sistema virtuoso in questo senso”. Roma. Polizia munita di farmaco anti-overdose, idea che ribalta il concetto di lotta alle droghe di Stefano Pagliarini today.it, 16 settembre 2021 “Dobbiamo andare a cercare i tossicomani, nelle strade, nelle farmacie e nelle carceri. Se li cerchi in questi tre posti, in un giorno li hai intercettati tutti. Servono le forze dell’ordine con attitudini terapeutiche. Noi pensiamo che gli agenti di polizia debbano avere con sé il Naloxone, che è il farmaco che evita le overdosi, perché spesso arrivano prima dell’ambulanza. Così, solo a Tor Bella Monaca a Roma, abbiamo fatto più di 3mila interventi negli ultimi 20 anni”. Così Massimo Barra, già presidente di Croce Rossa Italiana e inviato speciale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, rilancia un cambio totale di paradigma con il concetto di “riduzione del danno” perché, ne è convinto, “in Italia serve liberalizzare le cure, non le droghe”. Anche perché così i volontari e gli operatori hanno già salvato oltre 3mila vite. I servizi? Ci sono, ma invece di “curarne più possibile, ne curano meno che possono” e poi sono troppo ingessati al concetto burocratico, per cui “se uno ha i suoi motivi per non essere curato in quella struttura, viene rifiutato dalle altre. Il sistema deve essere assorbente, non solo in grado di ricevere, ma di raddoppiare, andando in contro a chi non chiede aiuto perché quelli sono i veri patologici. Questa è la riduzione del danno, contro tutto ciò che lo aumenta: metterlo alle strette, cacciarlo di casa, denunciarlo”. E pensare che la cronaca ci racconta anche di casi di genitori esasperati che denunciano i figli. “È profondamente sbagliato perché l’esperienza ci insegna che prima li denunciano e poi spendono subito soldi per l’avvocato difensore. Pensare di salvarli così è una pia illusione”. Prendere una posizione dunque e tentare di affrontare di petto la questione. Come ha fatto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha dichiarato la storica “guerra alla droga fallita”, rilanciando nuove misure, fra cui la riduzione del danno. “Il presidente Usa ha dato una dimostrazione senza precedenti. Lei pensa che ci sia un politico capace di un analogo statement? Sui nostri siti abbiamo pubblicato il discorso di Biden proprio per sottolineare la diversità del livello del dibattito fra italiani e statunitensi, i quali hanno saputo emendarsi dei propri errori, hanno saputo fare autocritica e ci aspettiamo una posizione adeguata anche in Italia, dove rileviamo guerre alle droghe e slogan cretini. Tutto questo è squallido”. Il riferimento è anche alle parole di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la quale aveva paragonato il reddito di cittadinanza al “metadone di Stato”. Un’offesa per chi ogni giorno lavora per salvare vite: “Tutti quelli che si occupano di droga soffrono di solitudine e incomprensione, soffrono lo stigma e la discriminazione nei confronti dei tossicomani, trattati come se fossero affetti da una malattia infettiva che si ripercuote anche su chi si prende cura di loro. Sono curabili, possono migliorare la loro qualità della vita, con una enorme quantità di evidenza scientifica su cosa funziona e cosa no. Il metadone è tra quelle che funziona di più, tanto che viene raccomandato dalle Nazioni Unite come best practices. Il fatto che se ne parli con un’attitudine negativa, come se fosse una parolaccia, ci offende. Offende i professionisti che lo usano come se fossero complici dei tossicomani e offende i 90mila tossicomani italiani stessi”. Barra non ha gradito neppure la replica alla Meloni del Ministro Andrea Orlando, che “ha obiettato parlando di povertà e non di tossicomani e questa è una grande mistificazione che aumenta lo stigma e non fa bene al Paese, dove il problema della droga è diffuso e complicato e interessa tutte le fasce di popolazione”. Dunque il presidente della fondazione Villa Maraini-CRI, noto centro di accoglienza per la terapia dell’abuso di droghe, bacchetta la politica e lo fa proprio nei giorni del boom di firme per sostenere il referendum per la legalizzazione della cannabis. “Se ne parla solo in termini di appartenenza ideologica, in una dicotomia fra proibizionisti e antiproibizionisti, la loro unica preoccupazione è classificarti nel gruppo dei guelfi o ghibellini. Gruppi che esagerano, come fosse una competizione da stadio. È un modo ignorante di affrontare il fenomeno. Invece bisogna prendere il toro per le corna, prendere in cura le centinaia di migliaia di persone coinvolte nel fenomeno della droga”. Proprio sul referendum Barra apre, ma con riserva: “Non penso sia utile, ma sono favorevole perché non mi sembra che quattro piantine coltivate in casa siano un problema. Non è una cosa che mi scandalizza e mi sembra un po’ ridicolo che lo Stato debba occuparsi di un cittadino con due piante per uso personale”. Tuttavia l’ex presidente di Croce Rossa conferma come non tutti i consumatori di cannabis passino alle droghe pesanti, ma chi consuma queste ultime, è sempre passato per la cannabis. “Ma certo, nessuno si sveglia con l’idea di mettersi un ago in vena. È chiaro che l’interesse di un Paese non è avere milioni di persone che si trastullano con sostanze psicoattive, però bisogna anche prendere atto che il livello di stress attuale è tale che qualcuno ha bisogno di sedativi. Non è una bella cosa ma è un dato di fatto. In generale non sono per misure che favoriscano il consumo. Se dovessi collocarmi, mi metterei tra i proibizionisti ma, se permette, un proibizionista illuminato, che non ha nulla a che vedere con gli altri che si definiscono tali”. Napoli. Artisti per i detenuti, una mostra di beneficenza napolipost.com, 16 settembre 2021 Artisti per raccogliere fondi in aiuto dei detenuti. Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli una tre giorni per promuovere l’arte a sostegno di chi vive recluso. Trentuno tra scultori, pittori, fotografi e molti altri, tra questi i soci dell’Unione Cattolica Artisti Italiani Napoli, che esporranno al Mann. “AliArte” titolo dell’iniziativa è organizzata in favore della Pastorale Carceraria. diretta da Don Franco Esposito in collaborazione con l’Unione Cattolica Artisti Italiani di Napoli, presieduta da Luigi Grima. Si inizia con lo scrittore Maurizio De Giovanni, lo scultore Jago e don Tonino Palmese, Vicario episcopale Carità e Giustizia. Ci saranno presentazioni dei libri di Antimo Cesaro, “L’utile idiota” e di Antonio Mattone, “La vendetta del boss”, conferenze di Gennaro Maria Guaccio, Clementina Gily, don Salvatore Giuliano e reading di poesie. Peppe Barra e Antonella Stefanucci saranno presenti con performance. Il perché della manifestazione - Il maestro Luigi Grima, spiega il senso della manifestazione: “Mettiamo a frutto il nostro talento, adoperiamo la nostra arte non per “farci belli”, ma per mostrare il bello di qualcun altro, di qualcos’altro. Le nostre capacità artistiche non potrebbero essere impiegate in modo migliore. Forse il disegno divino è proprio questo: donarci un talento a cui mettere le Ali per librarlo verso chi ha più necessità”. In campo anche i giovani - Gli allievi del Liceo Margherita di Savoia saranno protagonisti di una serie di momenti musicali e, assieme ai ballerini della Compagnia Giovanile Centro Artistico di Portici, di Irma Cardano, accoglieranno per l’inaugurazione l’Arcivescovo, don Mimmo Battaglia. Un percorso narrativo attraverso la “Divina Commedia”, a cura di Maria Pia Musella, con la voce recitante di Giuliana Sepe, omaggerà i 700 anni danteschi, mentre il monologo “Pregiudizi convergenti”, di Domenico Ciruzzi ed il racconto breve di Gabriella Giglio “Il carcere: la gente che ne sa”, ci faranno riflettere su quello che è la vita all’interno delle carceri. Gli interventi - Gli interventi di Gianluca Guida, Direttore del carcere minorile di Nisida, Giulia Russo, direttrice del carcere “P. Mandato” di Secondigliano e Marco Puglia, magistrato di sorveglianza, offriranno spunti di discussione e di riflessione. L’assistente Ecclesiastico dell’UCAI, Mons. Vincenzo De Gregorio, assieme a don Antonio Loffredo, daranno il via all’anteprima della mostra, che vede il socio UCAI Pasquale Manzo quale responsabile artistico. Il maestro Mimmo Jodice, ha donato una opera impiegata come copertina del pregevole catalogo curato dalla Edizioni San Gennaro. Due i momenti artistici che concluderanno la densa manifestazione: un concerto di musica classica, con Rosa Montano ed Egidio Mastrominico, ed uno straordinario Percorso di Musica e Musicoterapia dei Noidiscisar, guidati da Carolina Carpentieri. Trionfo democratico o azzardo? Le due facce del referendum di Giulia Merlo Il Domani, 16 settembre 2021 La mobilitazione di questo periodo fa pensare a una primavera della democrazia diretta Ma la raccolta firme muove solo una minoranza e l’esito del voto ha conseguenze indirette. Attualmente è possibile sottoscrivere ben quattro referendum: sulla giustizia; per l’eutanasia legale; per l’abolizione della caccia e per la legalizzazione della cannabis. L’enfasi di questi giorni è dovuta al boom della raccolta firme, grazie soprattutto all’emendamento approvato a fine luglio che permette la sottoscrizione attraverso firma digitale con lo Spid (il sistema pubblico di identità digitale) e che ha permesso all’ultimo presentato, quello sulla cannabis, di raggiungere 420mila firme in quattro giorni. Oggi sembra che in Italia si stia aprendo una nuova grande stagione referendaria. Lo strumento però ha due facce. L’istituto del referendum, previsto dall’articolo 75 della Costituzione, permette di sottoporre agli elettori l’abrogazione totale o parziale di una o più norme di legge, grazie all’iniziativa di 500mila firme o di cinque consigli regionali. In Italia la stagione referendaria più feconda è stata quella a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui lo strumento - utilizzato in particolare dai radicali - ha prodotto una grande mobilitazione sociale, con una partecipazione al voto che ha toccato il picco dell’87 per cento nel caso del referendum sul divorzio. Sulla spinta dei referendum si è mossa e polarizzata la maggior parte dell’opinione pubblica, dettando l’agenda politica in modo determinante. Negli anni Duemila, invece, la parabola è stata contraria: a fronte di un grande numero di referendum promossi, la partecipazione è drasticamente calata sotto il quorum e nessuno dei 24 quesiti proposti tra il 1997 e il 2009 ha superato il 30 per cento dei votanti, con l’unica eccezione del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Parametrato sull’oggi, anche in questo contesto va inserito il successo della raccolta firme di questi giorni. “Sarei cauto nell’interpretarlo con categorie concettuali troppo generali, parlando di risveglio della società civile”, spiega il professor Antonio Floridia, che dirige l’Osservatorio elettorale e il settore “Politiche per la partecipazione” della regione Toscana ed è stato presidente della Società italiana studi elettorali. “Si tratta certamente di alcune centinaia di migliaia di persone consapevoli e attente ai diritti civili, ma non so quanto questo si possa considerare un movimento di massa”. Per il successo dei quesiti - quando e se i referendum arriveranno a venire indetti - si dovrà valutare innanzitutto il conteso politico in cui avverrà il voto e se si creerà una forte polarizzazione politica sui singoli temi. La carica civile, inoltre, difficilmente si traduce in termini politici e anzi “i referendum sono il sintomo che la società italiana e la sua cultura politica sono molto frammentate, perché in questo caso si tratta di movimenti di minoranza, di nicchie particolarmente attive”. I referedum, inoltre, provocano un altro effetto indiretto sui temi che trattano. Dal punto di vista tecnico, il referendum abrogativo punta a intervenire, modificandola, su una legge ordinaria. Nulla vieterebbe che in un momento successivo il parlamento intervenisse sulla stessa legge modificandola di nuovo in modo legittimo. Questo, tuttavia, storicamente non è mai avvenuto: i referendum generano nel sistema politico una sorta di cogenza implicita. In pratica: se un tema è oggetto di referendum e gli elettori si sono espressi, bocciando o accogliendo il quesito, poi quello stesso argomento diventa intoccabile: nessun partito politico si azzarderà a tornarci sopra, pur potendo, andando contro la volontà popolare. Questo effetto può essere controproducente per gli stessi promotori del referendum, che da un lato hanno ottenuto il successo della raccolta firme - che impegna una minoranza attiva dell’elettorato - ma poi si sono scontrati con una volontà collettiva di segno diverso che porta al non raggiungimento del quorum oppure a un risultato opposto a quello desiderato. Tuttavia, riflette Floridia, “da parte di chi promuove il referendum c’è un retro-pensiero implicito: la poca fiducia nella politica parlamentare fa aumentare l’interesse per le cosiddette “single issue”, la mobilitazione intorno a singoli temi”. Di più, oggi la politica si farebbe soprattutto così, incidendo su singole questioni polarizzanti: “Il senso del referendum è creare mobilitazione, a prescindere dall’esito e dunque del raggiungimento o meno del quorum”. In ogni caso, il referendum è un gioco pericoloso. Puntare su un singolo tema portato all’attenzione collettiva da parte di una minoranza attiva può far vincere l’azzardo, con la modifica di una legge bypassando le lungaggini parlamentari e gli interessi dei partiti. Al contrario, se l’esito è negativo si induce la politica a disinteressarsi del tema oggetto del referendum. L’interrogativo, ora, è come la possibilità di utilizzare la firma digitale incida: se fino a oggi la mobilitazione per la raccolta firme doveva essere fisica e capillare e dunque con alle spalle partiti o associazioni organizzati, oggi il nuovo strumento permette di superare tutto questo e di ottenere - grazie a campagne condotte anche solo esclusivamente sul web - una mobilitazione sufficiente a raccogliere le 500 mila firme necessarie. Il risultato, allora, potrebbe anche essere quello di un aumento esponenziale del numero di referendum proposti, molto sostenuti da minoranze qualificate nella raccolta firme, ma che poi si scontrerebbero con la necessità di consenso trasversale indispensabile per raggiungere il quorum al momento del voto vero e proprio. Le ragioni politiche dei referendum di Nichi Vendola huffingtonpost.it, 16 settembre 2021 Eutanasia legale, cannabis e giustizia: siamo liberisti, ma non libertari, talvolta neppure liberali. La politica, questo strano animale. Proprio quando pensi che sia ormai finita in gabbia - esibita come un vecchio felino nel bioparco di partiti estinti o proiettata come un triste ologramma sugli schermi del circo mediatico - eccola che invece, d’improvviso, torna a ruggire in libertà, vitale, spiazzante, persino minacciosa. Come quella leggendaria pantera che divenne, sul finire degli anni Ottanta, l’icona della ribellione studentesca. Oggi risuona forte il ruggito del referendum. Che è una forma, parziale quanto si vuole, di politica che chiede ai politici, che chiede a se stessa, di riacciuffare la vita, di separarsi dalle alchimie e dai funambolismi del Palazzo, di disconnettersi dal rumore di fondo del talk show permanente, di aprire porte e finestre e di accogliere il vento, i suoni, gli odori, i dolori della vita vera. Questa grande onda referendaria, facilitata certamente dall’opportunità di firmare per via digitale tramite lo spid, è una domanda prepotente di politica, un mettersi in gioco di tanti che si sentono espropriati dal vaniloquio di una classe dirigente che non dirige più nulla e che ha votato il proprio commissariamento tecnocratico. Quest’onda è una possibile e preziosa occasione di modernità. Uso questa parola con parsimonia e diffidenza, perché spesso suona falsa e manipolatrice. Dico modernità nel senso di una progressiva liberazione dagli idoli e dai tabù di ciò che resta dello Stato etico, liberazione dai residui di confessionalismo, dalle pulsioni al controllo e al disciplinamento istituzionale della vita privata. Legalizzare l’eutanasia è sancire la pienezza di un diritto individuale. La vita mi appartiene, ne rivendico la dignità dal primo vagito all’ultimo respiro. E dunque mi appartiene la dignità del morire. Quelli che pensano che la loro vita appartenga a Dio, al Dio che gli viene rappresentato dal loro catechismo, vivano secondo le loro credenze. Ma perché devono imporre agli altri, che hanno altri catechismi o altro Dio o nessun Dio, il loro stile di vita e di morte? La libertà individuale è un bene indisponibile: questo dice il referendum sull’eutanasia. Lo Stato deve garantire il massimo di assistenza a chi è malato, deve consentire un accompagnamento solidale e scientificamente attrezzato a chi si avvicina al punto terminale del proprio viaggio terreno. Ma poi non può imporre null’altro, conta solo il rispetto della libertà di ciascuno. Anche il referendum sulla cannabis ha a che fare con quella sorta di moralismo di Stato che ha rappresentato una strategia fallimentare e criminogena di lotta alla droga. E la fine dell’era dell’ipocrisia di Stato (che è un corollario fatale dello Stato etico) rende sempre più insopportabile la criminalizzazione di un fenomeno sociale, quale l’uso dei cannabinoidi, che ha solo l’effetto di sospingere la massa immensa di consumatori nei territori pericolosi dello spaccio clandestino. Il proibizionismo è stato ed è benzina nel motore delle mafie, le ha arricchite offrendo loro il monopolio del mercato degli stupefacenti, e si è accontentato di riempire le carceri di piccoli spacciatori e persino di consumatori occasionali. E a proposito delle carceri, delle pene e della giustizia, come non sentire l’urgenza di una stagione di riforme radicali? Il successo del referendum sulla giustizia, al netto del giudizio sui singoli quesiti, indica quanto sia profonda la crisi del nostro sistema giudiziario e quanto grave sia oggi il divorzio tra sentimento della giustizia e amministrazione della giustizia. La guerra civile o incivile tra toghe, i fenomeni corruttivi nella magistratura, i protettorati politici sulle procure, la lentezza indecente dei processi, le storture di un pan-penalismo che gonfia i codici e le galere. Anche qui, su queste sabbie mobili, danza, come un corpo vivo e spesso dolente, la libertà individuale e con essa la dignità della persona. Abbiamo conosciuto tante cose stravaganti nel mondo nostro, persino una declinazione della libertà tutta riferita al movimento delle merci e del denaro e non agli esseri umani. Siamo riusciti a essere liberisti ma non libertari, talvolta neppure liberali. Liberare la libertà dalle superstizioni e dall’ipocrisia è sempre una cosa buona e giusta. Le urne primo passo per tornare allo Stato di diritto di Armando Mannino Il Riformista, 16 settembre 2021 Il ricorso all’istituto della democrazia diretta serve a ristabilire i valori costituzionali violati in questi anni dalla magistratura con troppa disinvoltura. La volontà popolare sarà decisiva. Le sei proposte di referendum del Partito radicale, di Salvini e della Lega su vari temi afferenti in modo diretto o indiretto all’ordinamento giudiziario suggeriscono alcune riflessioni di carattere generale sull’uso e i limiti dello strumento adoperato e sulle finalità dell’iniziativa. Il referendum abrogativo è uno strumento di esercizio della sovranità popolare originariamente previsto dal legislatore costituente per consentire ai cittadini di espungere dall’ordinamento una manifestazione di volontà legislativa delle Camere non in sintonia con quella prevalente all’interno della società. Successivamente l’istituto fu utilizzato non per abrogare un testo normativo, ma per sopprimere una o più formulazioni linguistiche (singole parole o frasi) in esso esistenti allo scopo di alterare in parte il suo contenuto normativo (referendum manipolativo). L’esempio più rilevante sotto il profilo istituzionale e politico di questo nuovo referendum è stato il referendum abrogativo della legge elettorale del Senato, approvato dai cittadini nel 1993: referendum che, sopprimendo come è noto il suo tradizionale impianto proporzionalistico, ha introdotto il sistema elettorale maggioritario a un solo turno e favorito quella auspicata semplificazione del sistema dei partiti che ha prodotto il passaggio dalla prima alla c.d. seconda Repubblica Non si può tuttavia non riconoscere che il referendum abrogativo a almeno in parte, uno strumento sostanzialmente inadatto e rozzo, se utilizzato non per sopprimere una legge, bensì per rimuoverne alcuni contenuti normativi dalla cui soppressione ne derivino altri. La scelta delle nuove norme è infatti condizionata dal testo scritto sul quale si interviene, che di solito consente soltanto alcune limitate op zioni, non sempre corrispondenti in modo pieno agli stessi intenti dei promotori o comunque alle esigenze effettive della revisione normativa della materia Le modifiche auspicate con lo strumento referendario, inoltre, specialmente se incidono su parti significative di un istituto o di un intero settore disciplinare, e a maggior ragione quando si tratta di un potere dello Stato. quale è la magistratura, richiedono il coordinamento con tutte le altre norme preesistenti, un attento bilanciamento delle esigenze sottostanti, l’adozione dei necessari interventi correttivi. la valutazione approfondita degli effetti positivi e negativi che ne possono scaturire, ecc. È evidente che a questo scopo, almeno normalmente, lo strumento più adatto per valutare e bilanciare queste diverse esigenze non è il referendum abrogativo, ma la legge ordinaria delle Camere. Queste osservazioni sono valide, in via di principio, anche nei confronti delle proposte di referendum sulla giustizia, che tendono a incidere su] sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, sulla responsabilità diretta dei magistrati, sulla loro valutazione al fine della progressione in carriera, sulla distinzione tra le funzioni giudicanti e requirenti, sugli abusi della custodia cautelare e sulla abrogazione della legge Severino, che individua le cause di incandidabilità alle cariche parlamentari, governative, regionali e degli enti pubblici territoriali. Si tratta quindi di modifiche significative di disposizioni rilevanti che incidono sui diritti dei cittadini e sul libero esercizio dell’attività politica. Argomenti così complessi, tra loro coordinati, avrebbero bisogno di una rivalutazione di tutta la materia e della conseguente adozione di una pluralità di ulteriori misure. È quindi facile il compito di quei magistrati, per fortuna non tutti, che, difendendo strenuamente il sistema vigente e le profonde distorsioni che lo caratterizzano, cercano di mettere in luce gli inconvenienti che potrebbero derivare dall’accoglimento delle proposte referendarie, favorendo l’insorgere tra i cittadini di perplessità e dubbi. L’iniziativa referendaria, però, non esaurisce affatto la riforma dell’ordinamento giudiziario (che tra l’altro per essere veramente efficace ha bisogno anche di alcuni limitati ma importanti interventi sul testo della Costituzione, non consentito al referendum), il cui procedimento è d’altronde già avviato all’interno del Parlamento, ma ne indica soltanto alcuni contenuti ritenuti necessari. Il suo fine principale e più importante è però un altro, quello di coinvolgere nel processo di riforma l’intero corpo elettorale, detentore del potere sovrano, per rimuovere le resistenze esistenti sul piano politico e istituzionale all’adozione di misure efficaci che consentano il ripristino dei principi costituzionali di indipendenza del giudice e di subordinazione alla legge, dandone un’interpretazione più intensa e autentica rispetto a una prassi che da troppi anni ormai e in troppi casi se ne è drammaticamente allontanata. Si tratta quindi di una iniziativa di attuazione della Costituzione perseguita non con la legge ordinaria, che è monopolio delle forze politiche e che dipende nei suoi contenuti dai rispettivi interessi e rapporti di forza, ma con uno strumento di democrazia diretta, che attribuisce agli stessi cittadini il potere di decisione, non diversamente dal referendum di Segni e Barbera sulla legge elettorale del Senato del 1993. Quest’ultimo tendeva a rafforzare la governabilità del sistema politico con l’introduzione di un bipartitismo che consentisse ai cittadini di scegliere il Governo e l’indirizzo politico; il primo tende ad assicurare sia l’effettività delle libertà garantite dalla Costituzione, svincolando il giudice dalla sua soggezione di fatto nei confronti del pubblico ministero e rafforzandone la responsabilità, sia il rispetto delle leggi approvate dal Parlamento: libertà e diritti in troppi casi violentati da giudici non imparziali, protetti dal regime di sostanziale impunità di cui godono, che costituisce la radice fondamentale di ogni degenerazione. In definitiva il fine delle proposte referendarie sulla magistratura è quello di ripristinare l’effettività dello “Stato di diritto”, principio cardine del nostro ordinamento, mediante la mobilitazione più ampia possibile dell’opinione pubblica. E quindi importante che sulle iniziative referendarie si raggiunga il numero più elevato possibile di consensi, affinché fin d’ora le forze politiche e il Governo ne possano tenere conto nelle scelte che dovranno prendere, trovando in essi la forza politica necessaria per superare le resistenze a una effettiva riforma. Cancellare la parola “razza” dalla Costituzione? Una riflessione di Valerio Pocar Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2021 Nelle scorse settimane c’è stato un civile dibattito su una questione non nuova, se si debba cancellare la parola “razza” dal testo dell’art. 3 della Costituzione, che recita (chi legge lo sa, ma qui giova ripetere) “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Nella civile discussione alla quale facciamo riferimento, è stato dato per pacifico il concetto che la parola sia, in sé, priva di significato e non alluda a nulla, perché il progresso scientifico, segnatamente nel campo della genetica, ha dimostrato che le razze, quando si parla della specie umana, semplicemente non esistono. Egualmente, è stato dato per pacifico che i costituenti, nel sancire l’eguaglianza tra i cittadini e il divieto di discriminazioni, ritennero, pur non avendo consapevolezza dell’inesistenza delle razze, di specificare allo scopo di rifiutare con fermezza gli orrori provocati dall’ideologia razzista del nazismo e del fascismo. Le nefandezze che tuttora e ogni dì le cronache devono registrare attestano che i razzismi, per quanto scientificamente infondati, e i razzisti, per quanto umanamente ripugnanti, ancora esistono, condivisi e numerosi, e che il concetto di razza, inconsistente dal punto di vista biologico, purtroppo non lo è affatto da quello culturale e sociale. Del resto, è opportuno ricordare che i razzismi sono nati prima dell’idea della razza e solo poi hanno inteso fondarsi sulla biologia. Questo è l’argomento più frequentemente richiamato da coloro che si dichiarano favorevoli al mantenimento nel testo costituzionale di questa ragione di distinzione, facendo propri gli intendimenti che ispirarono i costituenti. (…) Le due posizioni, quella favorevole al mantenimento del termine e quella che suggerisce di abolirlo, hanno entrambe buoni argomenti per sostenersi. A sostegno della tesi conservativa, senza necessariamente sposarla, vorremmo aggiungere un ulteriore argomento. Ci preoccupa assai ogni tentativo di modificare il testo della prima parte della Costituzione, al quale si può aggiungere (vedi la discussione in merito all’art. 9 per introdurre la tutela dell’ambiente e della biodiversità) là dove i padri costituenti non potevano avere consapevolezza del futuro, ma non togliere, lasciando piuttosto alla prudente attività della Corte Costituzionale di raggiungere, come sinora ha fatto in modo apprezzabile, interpretazioni evolutive. Il nostro timore nasce, soprattutto, dalla constatazione che le modificazioni apportate alla seconda parte della Costituzione si sono rivelate, a parer nostro, del tutto insoddisfacenti e, anzi, senza dubbio peggiorative. Se proprio si volesse, però, cambiare il testo costituzionale, la parola “razza”, piuttosto che cancellata, andrebbe sostituita. Per rispondere ai tentativi di discriminazione di stampo xenofobo e razzista che segnano l’ora in cui viviamo, meglio sarebbe forse dire, ma è solo un suggerimento, “senza distinzione di origine geografica, etnica e culturale”. Inoltre, un’altra revisione si renderebbe, a parer nostro, necessaria. Il testo costituzionale parla di distinzioni sulla base della religione e delle opinioni politiche. Non si comprende, se non appunto per ragioni della storia, il privilegio attribuito alla credenza religiosa, che è pur sempre un’opinione, esattamente come le altre, comprese quelle di coloro che non credono. Vogliamo sottolineare che una forma, subdola, di discriminazione consiste proprio nel fatto di riconoscere alcune opinioni come degne di maggiore attenzione rispetto ad altre. Ancora, non si comprende, se non per ragioni della storia, la sottolineatura delle opinioni politiche, anch’esse pur sempre opinioni. Un testo riveduto, se proprio lo si volesse rivedere, dovrebbe semplicemente dire “senza distinzione delle opinioni professate”. (…) Ancora, una revisione del testo dell’art. 3 dovrebbe riguardare anzitutto proprio le sue prime parole. Secondo il testo vigente, coloro che non debbono essere discriminati per le distinzioni delle quali siamo sinora andati discorrendo sono “i cittadini”. Si pone, dunque, per godere del diritto a non essere discriminati, proprio una discriminazione, tramite un limite formale, dettato da leggi ordinarie di rango non costituzionale. In ossequio al rifiuto di ogni forma di distinzione tra gli esseri umani, tutti “cittadini del mondo”, è da pensare che riservare ai soli cittadini italiani il diritto a non essere discriminati per le ragioni elencate nell’art. 3 secondo le grette e spesso imprecise regole sulla cittadinanza giuridica - le deplorevoli vicende della legge sul cosiddetto ius soli appaiono quanto mai significative - sia un’offesa all’umanità, poiché si tratta di diritti fondamentali che spettano agli esseri umani in quanto esseri umani. Allora, si cancellino finalmente le parole “i cittadini” lasciando semplicemente la parola “tutti”. La legge Zan si discuterà dopo la legge di Bilancio. E Forza Italia ci pensa di Daniela Preziosi Il Domani, 16 settembre 2021 Stavolta a votare no alla richiesta di inserire la legge Zan nel calendario del Senato sono tutte le forze della maggioranza. Anche la Lega. E persino Italia viva che all’inizio di agosto aveva tentato una manovra simile a quella che ieri Fratelli d’Italia ha provato a innescare, per portare subito in aula il testo contro l’omofobia. Tutto inutile, una recita in famiglia. Con la differenza che stavolta tutti i partiti - tranne FdI - hanno ammesso che per discutere (e approvare?) il ddl servono tempi più distesi rispetto alla manciata di giorni che ci separano dallo stop delle camere per le elezioni amministrative. C’è di più, anche se non si dice: alla fine conviene a tutti sfilare la discussione sui diritti dalle risse elettorali. La Lega, per esempio, ha capito di aver tutto da perdere da quando ha scoperto che il ddl Zan gode di una valanga di consensi fra i giovani. Per questo aveva accettato il patto proposto da Pd, Leu e M5s prima dell’estate: evitare il confronto in campagna elettorale, quando fatalmente diventa uno scontro frontale. A rompere questo gentlemen’s agreement fra le forze di maggioranza ieri ha provato il meloniano Luca Ciriani. Il calendario era stato già approvato dalla capigruppo, lui ha riproposto la questione in aula. Con argomenti non originali: “Va fatta chiarezza, il ddl Zan è importante o non lo è più? Ora è su un binario morto, in attesa del funerale a novembre”. Metafore funebri a parte, è lo stesso armamentario teorico che aveva usato all’inizio di agosto il senatore Davide Faraone, capogruppo renziano, per avanzare la stessa richiesta, sperando di incastrare il Pd e i M5s nella “contraddizione” di volere approvare una legge ma rimandarla in attesa di un momento propizio. Salvo che poi Faraone deve averci ripensato. Perché ieri anche lui si è unito al coro dei “no” a FdI: “Questo provvedimento lo dobbiamo modificare e approvare con la più ampia maggioranza possibile, è opportuno riprendere la discussione dopo le amministrative”. Le forze di maggioranza si sono accordate per rimandare lo scontro finale a dopo i ballottaggi, dunque dopo il 17 ottobre. Prima delle comunali palazzo Madama deve approvare i decreti sul green pass (ieri si è votata la fiducia), i provvedimenti sulla giustizia civile e penale che servono per ricevere i fondi del Pnrr. Il 15 ottobre inizia la sessione di bilancio, che quest’anno parte dal Senato. Di fatto la Zan sarà calendarizzata prima, o subito dopo la finanziaria. Dunque quella di Ciriani è solo una provocazione secondo Anna Rossomando, vicepresidente dem del Senato, “il tentativo di incidentare i lavori del parlamento e affossare un provvedimento cui noi teniamo moltissimo”, che dopo la giustizia “porteremo in aula e approveremo”. “Non c’è limite all’ipocrisia, una forzatura strumentale e meschina” anche secondo la Cinque stelle Alessandra Maiorino. La mossa di FdI spacca il centrodestra. Il capogruppo leghista Massimiliano Romeo, in evidente imbarazzo - deve votare contro argomenti che ha utilizzato in passato - prova a mischiare le carte: “Resto stupito dall’atteggiamento di FdI, spero sia solo tattica e non un cambio di orientamento politico sul provvedimento”. Ma l’episodio di ieri rivela qualche dettaglio più interessante. Dietro la tregua che le forze della maggioranza hanno temporaneamente firmato, la situazione è meno incartata di quello che appare. È vero che domenica scorsa a Bologna, al comizio finale della festa dall’Unità, il segretario Pd Enrico Letta ha assicurato che la legge sarà approvata così com’è, e lo stesso lo ius cultura. Ed è vero che Salvini gli ha risposto picche: entrambi i testi “non hanno speranza di passare”. Ed è vero anche che Renzi a parole si è offerto per una mediazione ma finita in un buco nell’acqua. Ieri invece Anna Maria Bernini, presidente di Forza Italia, ha lasciato intendere che qualcosa si muove. Prima ha respinto la provocazione di FdI, “suggerirei ai colleghi di FdI di resistere ancora un mesetto, se ce la fate, e poi portiamo il ddl in aula”. Poi ha aggiunto un più malizioso “cercando tutti insieme di modificarlo e di renderlo il migliore possibile”. Fuori dall’aula ha spiegato meglio cosa intendeva dire. Bernini, a differenza di una buona parte del gruppo che governa, è favorevole a una legge contro l’omofobia. La definisce persino “un segnale culturale molto importante, necessario”. Ma per questo non può essere una scelta di parte, né “può essere trasformato in una legge in cui tutti sono liberi, ma alcuni sono più liberi degli altri”. Quindi “si può lavorare sull’articolo 1 e sull’articolo 4”, ovvero rispettivamente quello che definisce il significato di “identità di genere” e quello che ribadisce la libertà di pensiero pasticciandola, secondo le destre, “e trovare un accordo ampio. Magari potremmo anche smettere di chiamare la legge “Zan” per evitare di farla percepire come una scelta di parte. Dopo le elezioni accadrà che qualcuno si aprirà all’ascolto dell’altro. Anche Letta, se davvero vuole fare l’interesse delle persone a cui si rivolge, e non lo stretto interesse del suo partito”. Cannabis terapeutica: “Stare male non è eroico, così troviamo sollievo nel dolore quotidiano” di Silvio Puccio La Stampa, 16 settembre 2021 Le storie di Loredana, Mara e Stefania: unite da un male incurabile e da una terapia spesso a ostacoli. Il medico: “Non si tratta di una panacea, ma di un trattamento che ha degli effetti collaterali. Come tutti i farmaci”. “La uso per curare la rigidità delle mie gambe”, spiega Loredana. “Cura i miei mal di testa, di quelli che non puoi muoverti”, aggiunge Mara. “Mi aiuta per dormire la notte”, continua Stefania. Racconti diverse accomunate da due fattori: un dolore costante e la cannabis terapeutica per provare a lenirlo. La cura - “Ero in ufficio quando la parte destra del mio corpo si è addormentata. Camminavo trascinandomi con le spalle al muro per non cadere”. Dal 2004 Loredana Gullotta è affetta da sclerosi multipla. Quarantasei anni, messinese, una figlia e l’invalidità permanente di una malattia dal decorso a ondate: a volte va meglio, altre peggio. “Per ora va benino - continua - non posso dire bene, perché è tornata la rigidità alle gambe. È un periodo in cui i dolori hanno ricominciato a farsi sentire”. Usa la cannabis da qualche anno: “Non è una questione di sballo ma di salute. Mi aiuta a contenere l’irrigidimento. Sento i muscoli duri, compressi. I dolori alla schiena sono fortissimi. Così trovo sollievo durante la giornata. Da quando seguo questa terapia ho smesso con gli altri farmaci”. In Italia l’uso terapeutico della cannabis è legale dal 2006. Dal 2007 è possibile importarne i derivati - infiorescenze, oli ed estratti - mentre dal 2014 è stata avviata la produzione interna. Se ne occupa lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze. Viene prescritta a carico del Sistema sanitario nazionale per alcune patologie croniche e malattie degenerative. Scorte carenti - La sclerosi multipla è una di queste. Ma i pazienti a volte lamentano difficoltà di reperimento. La preparazione della cannabis terapeutica dipende dalle farmacie attrezzate con un laboratorio galenico, che può preparare medicazioni a base di prodotti naturali. La materia prima è prodotta dall’Esercito, oppure importata da Olanda e Danimarca. “La mia è ad Agrigento - prosegue Loredana - a duecento chilometri da Messina, dove vivo. Non sempre le scorte riescono a soddisfare le necessità del mio piano terapeutico. Dopo l’ordine devo aspettare i giorni della spedizione. È anche capitato di sbagliare l’indirizzo di casa: il pacco è rimasto una settimana fermo al deposito del corriere”. L’effetto Covid - “Con la pandemia le difficoltà per trovare l’olio di cannabis sono state maggiori”, racconta Mara Ribera. È affetta da una malattia rara chiamata cistite interstiziale, che da quando ha 23 anni le causa dolori pelvici violenti, rendendola invalida al 75%. Le cure per un tumore alla mammella le hanno provocato una debilitazione generale del corpo. “Prendo il Bediol per curare la cefalea cronica e i dolori della mia patologia. Ho usato oppioidi in passato, con effetti collaterali molto pesanti. Tiene gli attacchi di cefalea sotto controllo. Prima erano quasi quotidiani”. Il Bediol è un preparato in cui i principi attivi vengono estratti in olio. Lo conserva in frigo, insieme al resto della spesa. “Sono fortunata perché vivo a Milano, dove le farmacie autorizzate sono di più. Da paziente cerchi sempre di rimanere in contatto, per sapere quando potrai ricevere la terapia del mese oppure razionare le gocce. A volte si parla della sofferenza delle persone in termini eroici. Le cure, descritte come una lotta. Il dolore, una conseguenza da accettare perché ti migliora. Non è vero”. “Mi aiuta a dormire la notte” - Per altre malattie i costi della prescrizione sono a carico del paziente. Come la forma di Parkinson genetico che affligge Stefania Lavore, quarant’anni. “La mia giornata inizia prendendo le pillole. Poi faccio colazione. Dopo il lavoro ceno e vado a dormire. E’ il momento in cui arrivano i dolori: mi sveglio due o tre volte a notte per il male alle gambe. Di giorno è tollerabile, dopo il lavoro diventa ingestibile. Con la cannabis non scompaiono, ma nient’altro attenua i miei spasmi, quando è notte e non sai cosa fare”. Poi aggiunge: “Siccome il consumo è mal visto, preferisco usarla solo a casa. È una scelta che faccio per gestire il dolore in un posto sicuro. Quando la assumi per questi problemi non lo fai per stonarti, ma per placare il male. Che è così forte da rendere impossibile ogni presunto sballo”. Poi racconta dei costi da sostenere per chi ha una ricetta non rimborsabile: “Per i trenta grammi al mese prescritti ho speso 358 euro, a patto che le farmacie abbiano disponibilità. Sto solo cercando di stare meglio. Se coltivare qualche pianta fosse legale, riuscirei ad abbattere una parte delle spese”. Alleviare le sofferenze - “L’utilizzo della cannabis terapeutica va compreso nel contesto di un paziente esasperato da un dolore che non passa. Parliamo di persone il cui pregresso clinico è caratterizzato da anni di sofferenze e un uso spesso massiccio di farmaci. Storie con bisogni complessi, in cui la manifestazione del disagio è soggettiva e difficile da trattare”. A spiegarlo è Paolo Notaro, direttore dello staff della Terapia del dolore dell’ospedale Niguarda di Milano. “Ma non è una panacea” - Che aggiunge, invitando alla cautela: “L’uso terapeutico si inserisce in scenario sfaccettato. Sgombriamo il campo dai luoghi comuni: non si tratta di una panacea ma di un trattamento che ha degli effetti collaterali. E come tutti i farmaci ci sono applicazioni sconsigliate. Nel caso di pazienti con tabagismo compulsivo o inclinazione alla dipendenza questa terapia non è idonea. Per altri ancora l’utilizzo sarebbe inutile. Ci sono variabili che vanno approfondite, come l’interazione di alcuni principi attivi con le altre medicine. Conosciamo bene i due principi attivi principali, il Cbd e il Thc. Ma su altri, come terpeni e i flavonoidi, la ricerca è ancora in corso. Anche i metodi di preparazione richiedono ulteriore studio. Poi conclude: “È importante evidenziare i limiti della cannabis, perché il rischio è di far danno alle potenzialità di questi derivati. Stiamo parlando di pazienti che non guariscono, ma che si cerca di far star meglio così da migliorare gli equilibri che regolano i loro affetti e le relazioni”. Polonia, frontiera proibita ai media. Il governo oscura i profughi di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 16 settembre 2021 I giornalisti chiedono di rispettare il diritto all’informazione. Stato di emergenza o meno, la “banda dei trenta” scende in campo per il rispetto del diritto all’informazione in Polonia. In ballo c’è il diritto di sapere e raccontare all’opinione pubblica la situazione di quei profughi intrappolati a tempo indeterminato lungo il confine con il vicino bielorusso. “Vogliamo informare il governo e l’opinione pubblica che siamo contrari al divieto di lavoro per i giornalisti nelle zone frontaliere”, si legge in un comunicato congiunto rilasciato da una trentina di media locali, coinvolti nella campagna “Dziennikarze na granicy” (Giornalisti alla frontiera). A “minacciare” la sicurezza del paese, 32 afgani abbandonati a sé stessi nelle foreste della Podlachia a Usnarz Górny e almeno 26 siriani, bloccati più a sud, nel voivodato di Lublino. “Anche ammettendo che le frontiere siano da considerare una zona di potenziale conflitto militare, a maggior ragione in questi territori si rende necessaria la presenza dei mezzi di informazione e delle organizzazioni umanitarie”, scrivono i firmatari dell’appello diffuso all’inizio di questa settimana. Era dal 1989 che Varsavia non ricorreva allo stato di emergenza, una misura che era stata scartata dal governo di Diritto e giustizia (Pis) anche in piena emergenza da Covid-19, ad aprile del 2020, soltanto per non rinviare le elezioni presidenziali, svoltesi poi qualche mese dopo. In effetti, in Polonia la legislazione sullo stato di emergenza non prevede che si possa impedire ai giornalisti di svolgere le proprie mansioni. Eppure, il governo ha risolto il problema con un decreto dei Consiglio dei ministri di dubbia validità giuridica che ha messo fuorigioco la stampa. Il Pis ancora una volta ha scelto di tirare dritto per la sua strada. Anche se l’elettorato cattolico costituisce il nocciolo duro del partito fondato dai fratelli Kaczycski, il Pis ha scelto di ignorare l’appello lanciato dal cardinale di Varsavia Kazimierz Nycz: niente corridoio umanitario per prestare soccorso ai migranti respinti continuamente dagli agenti di frontiera polacchi per impedire che possano presentare domanda di asilo in Polonia, il tutto in spregio alla Convenzione di Ginevra. Almeno a Usnarz Górny, prima dell’ennesimo decreto bavaglio, ai giornalisti era consentito di stazionare a 200-300 metri dai rifugiati con i quali era possibile comunicare attraverso un megafono. Tra i migranti finiti in questo limbo ci sono anche diversi bambini. Di loro non si hanno ormai più notizie da diversi giorni. A onore del vero la politica dei respingimenti non è una novità nell’agenda del Pis. A farne le spese sono soprattutto i ceceni che continuano a essere allontanati dal territorio polacco da almeno 5 anni dopo un viaggio della speranza in treno dalla stazione dormitorio di Brest in Bielorussia in direzione di Terespol in Polonia. E proprio lì che sono bloccati quei migranti siriani che il Pis spera di poter continuare ad agitare come spauracchio elettorale il più a lungo possibile. Egitto. Biden riduce gli aiuti militari e li vincola al rispetto dei diritti umani Corriere della Sera, 16 settembre 2021 Di 300 milioni di euro 130 arriveranno solo se si chiuderanno dei processi. La mossa del presidente americano potrebbe però non bastare alle ong. Gli Stati Uniti vincolano gli aiuti militari all’Egitto al rispetto dei diritti umani. È la nuova linea decisa dall’amministrazione Biden che tratterrà una parte dei 300 milioni di dollari destinati all’alleato chiave in Medio Oriente. Lo ha riferito un funzionario americano a Politico, precisando che 170 milioni verranno inviati al Cairo, mentre gli altri 130 arriveranno a patto che l’Egitto ponga fine ai procedimenti contro le organizzazioni per i diritti umani e della società civile, noti come “Caso 173”, e faccia cadere le accuse o rilasci 16 persone indicate dagli Usa e segnalate a giugno al Cairo. Anche i 170 milioni erogati avranno delle restrizioni: potranno essere utilizzati solo per antiterrorismo, sicurezza delle frontiere e non proliferazione. Gli Usa forniscono all’Egitto circa 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari all’anno, ma su 300 milioni il Congresso ha posto paletti relativi ai diritti umani. Il segretario di Stato, però, può decidere di derogare a tali condizioni e lasciare che tutti i fondi raggiungano il Cairo, come avevano fatto le precedenti amministrazioni. Tuttavia la mossa di Biden potrebbe non soddisfare le organizzazioni per i diritti umani. Afghanistan. Diario da Kabul, la dignità di chi ha perso tutto di Alberto Cairo* La Repubblica, 16 settembre 2021 Mi è arrivato un messaggio firmato “il figlio di Mohammad Faruk”. Dice che il padre è mancato, vuole che lo sappia e ringraziare per quello che abbiamo fatto per lui in tanti anni. Allega un numero di telefono e quello con cui il padre è stato registrato da noi. Faruk è un nome troppo comune, mi aiuto con la cartella clinica. Oh sì, lo ricordo. Faruk aveva problemi mentali. Era stato ufficiale nell’esercito comunista fino all’arrivo dei mujaheddin a Kabul nel 1992. Dovette fuggire e nascondersi al villaggio. Per salvarlo, il padre fu costretto a svendere parte dei terreni, quasi regalarli, al signorotto della guerra del posto. La famiglia si impoverì, Faruk entrò in uno stato di tristezza e apatia. Come se non bastasse, saltò su una mina e perse una gamba. La tristezza divenne profonda depressione. Lo conobbi quando la moglie ce lo portò per una protesi. Rimasi colpito da quanto erano belli, eleganti, regali. Lui, docile, eseguiva quanto richiesto, lei attenta e sollecita, ignorando gli sguardi insistenti dei pazienti. Li rivedo ancora, seduti in disparte, silenziosi e un po’ alteri. Parevano divi del cinema in una pausa delle riprese di un film in costume. Ma non era un film. Poi di Faruk ricordo le improvvise apparizioni al nostro cancello, confuso e sorridente. Lasciato solo, si smarriva e, invece di tornare a casa, si presentava qui. Il figlio o la moglie lo venivano a riprendere, in grande apprensione. Una volta raccontarono che era stato picchiato per un frutto preso da una bancarella. Aiutammo la famiglia iscrivendolo nella lista degli indigenti e ricevere cibo e legna da ardere. Il caso di Faruk era estremo, ma ansia e depressione sono comuni tra i nostri pazienti. Le vittime delle mine, per esempio. Sono per lo più uomini tra i venti e i trent’anni, l’età in cui uno si sposa, ha figli, guadagna per sé e per i suoi. All’improvviso, forse per sempre, perdono tutto, dipendono dagli altri, non vedono futuro. Qui non esistono assicurazione, mutua, assistenza sociale. Arrangiarsi. Non sono valide ragioni di disperazione? Lo stesso per molti non disabili, donne soprattutto, spesso lasciate a provvedere da sole alla famiglia. Mi chiedo cosa debba essere vivere sempre in una situazione di violenza, povertà e ingiustizia, col terrore di ammalarsi e non poter pagare le cure. E adesso anche la paura del nuovo regime. Ammirevole come riescano a resistere, tirare avanti con dignità, sorridere. Chiamerò il figlio di Faruk. Mi fa piacere si sia ricordato di noi, anche se la ricorrenza non è di gioia. Voglio credere che Faruk sia andato a stare meglio. *Direttore del programma di Riabilitazione della Croce Rossa internazionale in Afghanistan