Una vita migliore per i detenuti: al ministero commissione al lavoro di Angela Stella Il Riformista, 15 settembre 2021 Parte il gruppo istituito da Cartabia per “l’innovazione del sistema penitenziario”. Non riforme epocali, si punta a rendere la quotidianità in carcere più dignitosa. Da Antigone proposte per un nuovo regolamento. Al via i lavori della quinta commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per la riforma complessiva della giustizia: dopo quella sul penale, sul civile, sul Csm e sulla magistratura onoraria, adesso è la volta di quella per “l’innovazione del sistema penitenziario”. L’obiettivo della Commissione, come leggiamo dal decreto che la istituisce, sarà la “rilevazione delle principali criticità relative all’esecuzione della pena detentiva e l’individuazione di possibili interventi per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari, nella prospettiva del compiuto rafforzamento dei principi costituzionali e degli standard internazionali”. La Commissione si occuperà altresì dei “bisogni formativi che interessano le diverse professionalità dell’amministrazione penitenziaria”, compresa quella minorile e di comunità. Come per le altre commissioni, al termine dei lavori, previsto per il 31 dicembre, fornirà alla Ministra Cartabia delle proposte di modifiche sulla normativa primaria e secondaria e anche “nella prospettiva di formulazione di direttive da tradurre in circolari amministrative”. A presiedere il gruppo di lavoro ci sarà il professor Marco Ruotolo, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Roma tre. Con lui: i provveditori regionali Pietro Buffa e Carmelo Cantone, l’avvocato Antonella Calcaterra, la componente del Garante dei Detenuti Daniela de Robert, la comandante di polizia penitenziaria Manuela Federico, i magistrati di sorveglianza Fabio Gianfilippi e Antonella Fiorillo, il direttore dell’istituto minorile di Nisida Gianluca Guida, il consigliere di Cassazione Raffaello Magi, lo psichiatra Giuseppe Nese, la responsabile ufficio detenuti Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta, Catia Taraschi, Elisabetta Zito, direttrice del carcere di Catania. La Ministra aveva annunciato la commissione il 9 settembre scorso in collegamento con la Mostra del Cinema di Venezia: “oggi firmerò la costituzione di un gruppo di lavoro per iniziare ad affrontare specifici problemi sul carcere, a legislazione invariata”. Il decreto sembrerebbe fare però un passo avanti rispetto alla prospettiva di lavorare “a legislazione invariata” perché si prevedono appunto interventi sulla normativa primaria. In cosa si concretizzeranno questi interventi è ancora da capire: una fonte interna alla Commissione, che ancora non si è riunita per la prima volta, ha ipotizzato che si lavorerà più sulla modifica dell’ordinamento penitenziario, come prospettato dalla stessa Ministra Cartabia nella sua visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Ritengo che sia anche giunta l’ora di intervenire sull’ordinamento penitenziario e sull’organizzazione del carcere”. Dunque, stante anche l’attuale maggioranza che appoggia il Governo Draghi, non si andranno a discutere molto probabilmente questioni delicate e divisive che andrebbero a toccare ad esempio l’ergastolo o la liberazione condizionale o persino l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Si cercherà di rendere dignitosa la vivibilità quotidiana della vita in carcere: puntando sulla formazione del personale per evitare, tra l’altro, un’altra Santa Maria Capua Vetere, ma anche semplicemente (!) garantendo docce e acqua corrente in tutte le carceri o potenziando le attività trattamentali. Un’altra fonte, giustamente, ci spiega, che è inutile illudere i detenuti facendo loro sperare in grandi riforme. La loro mancata attuazione creerebbe un malcontento maggiore di quello che stanno già vivendo adesso. La Guardasigilli lo aveva fatto intendere nella stessa occasione di Venezia: “Non potremo fare miracoli, ma è in atto un cammino”. Intanto l’associazione Antigone, il prossimo 20 settembre, con una conferenza stampa nel carcere di Rebibbia Penale, presenterà la propria proposta per un nuovo regolamento penitenziario: “più contatti telefonici e visivi, un maggiore uso delle tecnologie, un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell’uso dell’isolamento, forme di prevenzione degli abusi, sorveglianza dinamica e molto altro. Un regolamento efficace e in linea con l’attualità dei tempi per garantire diritti alle persone detenute: dal diritto alla salute al diritto ai contatti con i propri affetti, ai diritti delle minoranze (stranieri, donne), ai diritti lavorativi, educativi, religiosi”. Fiandaca: “Cara Cartabia passiamo ai fatti: un viceministro per le carceri” di Angela Stella Il Riformista, 15 settembre 2021 “Finora sembra che la politica penitenziaria sia stata delegata al Dap. L’incapacità di individuare priorità chiare a livello centrale ha dato troppa autonomia ai singoli direttori. Va evitata l’anarchia gestionale” Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, il carcere ha bisogno di numerose riforme. A partire da un vice ministro che se ne occupi esclusivamente per arginare il rischio di “anarchia” nel funzionamento complessivo dell’amministrazione penitenziaria. Inoltre “si tratterà di vedere quale politica penitenziaria la Ministra abbia in mente per attuare i nobili principi che le stanno a cuore”. Insomma non bastano più i discorsi, occorre agire molte realtà carcerarie rappresentano un inferno. È stata un’estate molto difficile in carcere: ad esempio, dalle visite condotte dai radicali in Sicilia, è emerso che diverse strutture sono al limite della decenza. E le condizioni di vivibilità sono pessime. Anche gli agenti di polizia penitenziaria sono in fermento. Lei che analisi fa della situazione? È risaputo che il periodo estivo è ancora più problematico e difficile per l’universo carcerario, e ciò per intuibili ragioni sia strutturali che psicologiche. Ad esempio, un articolo di Repubblica Palermo dello scorso 10 agosto ha dipinto a foschissime tinte la situazione carceraria siciliana, definendola un inferno. Come Garante sono ben consapevole che i 23 istituti di pena per adulti esistenti in Sicilia presentano condizioni di vivibilità complessiva abbastanza eterogenee e alcuni sono al di sotto di standard accettabili. Ma non è facile verificare se la situazione media delle carceri sia in Sicilia comparativamente peggiore che in altre regioni. Il problema, con alcune rilevanti eccezioni, riguarda l’intero territorio nazionale. Molta attenzione si è sollevata sul tema carcere quando la Ministra Cartabia e il premier Draghi si sono recati a Santa Maria Capua Vetere. Un gesto di grande simbolismo ma a cui, per molti, non è seguita una azione concreta. Che ne pensa? Le impegnative e apprezzabili dichiarazioni di principio che la Ministra Cartabia ha fatto e continua a fare in varie sedi lasciano sperare perché fanno presumere una sua volontà di passare dalla teoria a concreti interventi migliorativi. Si tratterà però di vedere quale politica penitenziaria la Ministra abbia in mente per attuare i nobili principi che le stanno a cuore. La Ministra Cartabia qualche giorno fa ha costituito proprio un “gruppo di lavoro per iniziare ad affrontare specifici problemi sul carcere, a legislazione invariata. Non miracoli ma è in atto un cammino”. Basta questo? L’ho appreso anche io dai giornali. Nella mia esperienza di Garante regionale, oltre che di professore di lungo corso, ho da tempo maturato una convinzione: ritengo cioè che anche rispetto all’universo carcerario puntare prevalentemente su modifiche normative, grandi o piccole che siano, può risultare riduttivo. Esistono profili problematici attinenti alla prassi penitenziaria che assumono un rilievo altrettanto determinante. Professore, ci spieghi meglio… Solleverei un interrogativo provocatorio fino a un certo punto: chi stabilisce la politica penitenziaria da adottare, beninteso sempre nel quadro dei principi costituzionali, che vanno però a loro volta bilanciati e concretizzati anche nella prassi? In teoria la politica carceraria dovrebbe dettarla il Ministro della Giustizia, mentre il Dap a livello amministrativo centrale, i provveditorati regionali e infine, a livello ancora più decentrato, i singoli direttori di carcere dovrebbero limitarsi ad attuare e specificare sul piano tecnico amministrativo ed organizzativo le direttive politiche impartite dal Ministro. Senonché, ho più volte avuto l’impressione, specie fino ad un recente passato, che un chiaro ed univoco indirizzo politico a livello ministeriale mancasse, e che di fatto venisse delegato al Dap e al suo capo il compito di individuare gli obiettivi prioritari da raggiungere nella gestione delle carceri. Ma non mi è parso che lo stesso Dap fosse in grado di individuare obiettivi chiari e coerenti. Questa mancanza di progettualità complessiva ha prodotto o ha rischiato di produrre conseguenze negative anche a livello periferico, sino al punto che è potuto accadere - almeno questa è la mia impressione - che ogni singolo direttore di istituto avesse una autonomia eccessiva nello stabilire ad esempio se pone in primo piano la tutela della sicurezza o se privilegiare l’obiettivo della risocializzazione, ponendo in secondo piano la sicurezza. Insomma un rischio di anarchia decisionale con eccessiva disomogeneità di orientamento da istituto a istituto. E allora che fare professore? Certo non è pensabile che un Ministro della Giustizia dedichi la maggior parte del suo tempo al sistema carcerario, non solo impartendo direttive politiche generali ma anche vigilando con continuità sulla loro attuazione e sul concreto funzionamento dell’amministrazione penitenziaria. Per questo nello scorso febbraio, in occasione della nascita del nuovo Governo, avevo scritto un articolo in cui speranzosamente prospettavo una idea forse però arrischiata, cioè di dar vita ad una figura di vice ministro destinata ad occuparsi a tempo pieno delle carceri, e dotata di una sufficiente autonomia di azione, rispetto allo stesso Guardasigilli. In attesa di una riforma sistemica del carcere e dei primi effetti di quella parte della riforma del penale che incidono sull’esecuzione ma solo per i nuovi detenuti, cosa si dovrebbe fare per migliorare l’attuale situazione? Per migliorare l’attuale situazione, si dovrebbero appunto avere idee chiare innanzitutto a livello politico governativo su quali siano in questo momento le priorità. Dal mio osservatorio - parlo a titolo personale - una delle priorità dovrebbe consistere nel rivisitare criticamente l’obiettivo costituzionale della rieducazione aggiornandone senso e strumenti operativi con una rinnovata riflessione transdisciplinare, tenendo conto anche di un dato rilevante, cioè dell’accresciuta esistenza di patologie psichiatriche e soprattutto di disturbi e disagi psichici tra i detenuti. Per cui occorrerebbe incrementare, tra l’altro, il numero e migliorare la professionalità degli educatori e degli psicologi da destinare alle carceri. Più in generale occorrerebbe dedicare maggiore attenzione alla sanità penitenziaria: il passaggio alle Regioni della competenza in materia, apprezzabile in chiave politico-ideologica per avere assimilato almeno in teoria i carcerati ai cittadini comuni quanto alla tutela della salute, fa purtroppo registrare situazioni molto disomogenee rispetto al livello di attenzione e di efficienza delle Asp territoriali nel garantire prestazioni sanitarie sia intra che extra murarie a favore della popolazione carceraria. Quindi servirebbe in proposito un più efficace raccordo e una più virtuosa interazione tra autorità penitenziarie statali e autorità sanitarie regionali. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi! Sarebbe poi necessario incrementare di molto le risorse innanzitutto economiche da destinare all’insieme delle attività trattamentali, a cominciare dal lavoro intramurario, se non deve rimanere affermazione retorica che il lavoro costituisce un elemento fondamentale del trattamento. Ma sarebbe d’accordo con una decretazione d’urgenza? Sarei senz’altro d’accordo sull’emanazione urgente di misure deflattive per consentire una uscita dal carcere del numero rilevante di soggetti che debbono scontare pene di breve durata, ma temo che questo obiettivo non sia facilmente raggiungibile a causa del perdurare di accentuate differenze di sensibilità e di orientamento in materia carceraria nelle stesse forze politiche che sostengono il Governo Draghi. La riforma del processo penale è stata criticata da molti perché si è ceduto al compromesso politico, tralasciando le questioni di diritto. Le faccio questa premessa per due motivi. Primo: qual è il suo giudizio sulla riforma? Secondo: con questi presupposti e con l’attuale maggioranza è possibile sperare in una riforma strutturale del carcere? Sulla riforma della giustizia già votata da un ramo del Parlamento ribadisco questo giudizio: è una riforma che presenta luci ed ombre, ma verosimilmente è quanto di meglio o di meno peggio si poteva concepire nell’attuale contesto politico. In merito all’altra domanda, a tutt’oggi mi sembra oggettivamente difficile avviare una riforma radicale del carcere proprio a causa di quelle perduranti differenze di orientamento politico a cui accennavo prima. È necessaria una preventiva pedagogia collettiva che ponga e diffonda le basi culturali di una nuova visione del carcere. Un suo contributo è contenuto nel recente libro di Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto dal titolo “Contro gli ergastoli”. Il suo intervento è incentrato proprio sull’ipotesi abolizionista dell’ergastolo. Ci può anticipare qualcosa? Non è facile sintetizzare in poche parole il contenuto del mio breve saggio. In estrema sintesi le dico che l’eliminazione dell’ergastolo presuppone in teoria una riscrittura integrale del sistema delle sanzioni penali. Non avrebbe senso limitarsi a sostituire la pena perpetua, ad esempio, con una detenzione a 35 o 40 anni perché la sostanza non muterebbe molto. Nello stesso tempo andrebbero progettate modalità esecutive di una pena sostitutiva temporanea (della durata ad esempio fino a 20 o 25 anni) davvero idonee, almeno potenzialmente, a soddisfare esigenze di prevenzione generale e speciale. Ma tutto ciò riguarda un auspicabile futuro e da Garanti o da studiosi dobbiamo contribuire a preparare il terreno affinché il futuro auspicato diventi realtà. La detenzione è una cicatrice, ma spesso è lo Stato a ferire le persone di Riccardo Polidoro Il Riformista, 15 settembre 2021 La visita del capo dello Stato Sergio Mattarella e della ministra della Giustizia Marta Cartabia a Nisida conferma l’impegno del Governo per un carcere finalmente allineato ai principi costituzionali e alle norme dell’ordinamento penitenziario. Nessun ministro ha mostrato, sin dal suo insediamento, tanto interesse per l’esecuzione penale. È tempo ora che dalle parole si passi a effettivi provvedimenti operativi, come dare esecuzione a quella riforma dell’ordinamento penitenziario pronta ma bloccata per interessi politici che nulla hanno a che fare con il bene della nazione. Fatta questa premessa, le parole del presidente Mattarella ai ragazzi detenuti non possono essere lasciate senza una risposta e, pertanto, immaginiamo che almeno uno degli ospiti dell’”isola che non c’è” abbia avuto la forza di replicare. “La detenzione non dev’essere una macchia indelebile, ma una ferita che si rimargina. Non è impossibile reinserirsi con successo nella vita. Non sono cose che succedono solo nei film”: con queste parole Mattarella ha voluto invitare i giovani ad avere speranza e ha ribadito che la prospettiva del reinserimento “va garantita non a parole: non bastano le parole del Capo dello Stato, occorrono interventi, iniziative, scelte e fiducia sociale”. Signor presidente, in tutti questi anni di buone intenzioni ne abbiamo ascoltate poche e quasi mai a queste sono poi seguiti fatti concreti. Lei paragona i nostri errori a ferite, ma quante ferite i detenuti sopportano ogni giorno? Non ci riferiamo a noi che viviamo comunque una situazione privilegiata, ma all’intero mondo penitenziario dove vengono inferte “coltellate” a cittadini indifesi e privati ingiustamente dei loro diritti. Sono “tagli” che difficilmente si rimarginano e che lasciano cicatrici profonde e capaci di segnare il corpo e la mente per tutta la vita. Oggi la possibilità di reinserimento, per un detenuto, è inimmaginabile e davvero rappresenta la sceneggiatura di un bel film, mentre lo spettacolo che quotidianamente si replica dentro le mura, a volte, supera l’immaginazione di una pellicola dell’orrore. Caro presidente, quanto accaduto recentemente nell’istituto di Rebibbia - dove una donna è stata lasciata sola a partorire, come se il “lieto evento” fosse imprevedibile - è qualcosa di raccapricciante e fa comprendere l’assoluto abbandono in cui vivono le carceri nel nostro Paese e come le persone detenute non siano altro che numeri, privi di fisicità, ai quali non va prestata alcuna attenzione. Far nascere un bambino in carcere, amato Presidente, rappresenta una ferita a morte per un Paese civile. Non vi possono essere scuse! È irrimediabilmente vergognoso! Come lo è consentire la presenza di bambini negli istituti di pena. Oggi ve ne sono 26 e 14 - dunque più della metà - sono “detenuti” in Campania. Eppure molti politici e anche ministri avevano assicurato “mai più bambini in carcere”. Sono passati anni, ma nulla è stato fatto. Lei - e la ringraziamo - pensa che possiamo vedere rimarginate le nostre ferite, ma ciò non sarà possibile realmente se non vi sarà un intervento chirurgico complesso e di ampio respiro sul corpo straziato di una nazione in cui gli ultimi sono invisibili dentro e fuori il carcere. Condividiamo le sue parole: occorrono interventi, iniziative, scelte e fiducia sociale. Ma quando si comincia? Milano come Torino: nei Cpr nessuno segue i malati psichici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2021 Nel report dei senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino con gli attivisti della rete “Mai più lager - No ai Cpr”, dopo l’ispezione nel centro milanese, si denunciano casi emblematici. Entrano nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) con gravi problemi psichici ed escono perdendo le tracce, senza essere seguiti attraverso un percorso terapeutico. Una dinamica, come recentemente riportato su Il Dubbio, denunciata dal garante nazionale delle persone private della libertà a seguito della visita del Cpr di Torino. Ma questa modalità dannosa per la società e il migrante stesso è praticata anche al Cpr di Milano. Lo si legge nel report dal titolo “Delle pene senza delitti. Istantanea del Cpr di Milano” stilato dopo l’ispezione effettuata dal senatore Gregorio De Falco e dalla senatrice Simona Nocerino insieme agli attivisti della rete “Mai più lager - No ai Cpr”. Viene riportato il caso emblematico di L.A., un migrante trattenuto presso il Cpr milanese. Caso di gravissima fragilità psichica (disturbo della personalità, grave agitazione psicomotoria, ripetuto autolesionismo con numerose ferite da taglio e plurima frattura d’arti, tentativi di suicidio tramite ingestione di stoffa, lamette e oggetti metallici, auto-suturazione delle labbra), la delegazione composta dai due senatori insisteva particolarmente per l’approfondimento della sua posizione fin dal primo giorno di accesso, ma in infermeria non si recuperava nessuna informazione, non riuscendo gli infermieri di turno (assunti pochi giorni prima) a reperire il relativo incartamento. Il 6 giugno hanno insistito per avere notizie dall’operatore messo a disposizione del gestore, alla presenza dell’incaricato della Prefettura, e hanno appreso che L.A. era stato in realtà già rilasciato il 2 giugno (evento del quale l’avvocato dell’interessato non era stato notiziato, nonostante un procedimento cautelare in corso con udienza a breve), come pure hanno appreso che egli era stato sottoposto a un Tso in data 26 maggio. Si legge nel report che dalla struttura di ricovero era quindi rientrato solo il 2 giugno, per essere dimesso dal Centro in pari data con attestazione di non compatibilità della sua situazione con la condizione di trattenimento, in quanto pericoloso per sé e per gli altri, e raccomandazione di trasferimento in struttura psichiatrica a firma di F.I., direttrice sanitaria del centro: la scheda firmata per ricevuta del ritiro degli effetti personali terminava con la sola indicazione “Altro” alla voce relativa all’esito del trattenimento, come alternativa al rimpatrio, sicché non è stata lasciata traccia alcuna della sorte di L.A. dopo il suo rilascio nelle citate gravissime condizioni. Non essendo questi in possesso di un telefono cellulare, anche il suo avvocato ha totalmente perso ogni contatto con lui e non se n’è più avuta notizia. Il report evidenza innanzitutto una lacuna grave: l’assenza di un protocollo d’intesa tra Prefettura e Asl con il quale, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento CIE 2014 e del relativo allegato “1-d”, siano affidate a strutture sanitarie pubbliche, tra l’altro: una valutazione imparziale ed obiettiva dell’idoneità del soggetto alla vita in comunità ristretta e l’assenza di condizioni di incompatibilità con il trattenimento, sia all’avvio sia nel corso di quest’ultimo; l’erogazione di prestazioni specialistiche con tempi d’attesa adeguati; attività di vigilanza sulle attività sanitarie e sulla conservazione, manipolazione e somministrazione dei pasti. Richiesto se tale protocollo fosse esistente, è seguita l’ammissione, da parte del funzionario, della circostanza che ad oggi non esiste tale protocollo, in ragione di un asserito rifiuto dell’Agenzia di tutela della salute (Ats). Il report stilato dai senatori Di Falco e Nocerino sottolinea, in sostanza, che la mancanza di un protocollo tra Prefettura e Asl impedisce ai trattenuti di poter accedere a cure e visite specialistiche presso il servizio sanitario pubblico nazionale in tempi ragionevoli. E ciò va contro la raccomandazione del Garante nazionale stesso riportata a pagina 234 della sua relazione al Parlamento, ovvero quella di “Rispettare la centralità del Servizio sanitario nazionale (Ssn) nell’accertamento dell’idoneità dei cittadini stranieri alla vita in comunità ristretta, e attivare i previsti accordi di collaborazione tra le Aziende sanitarie locali e le Prefetture volti ad assicurare il tempestivo accesso alle cure delle persone trattenute”, a fronte della quale il riscontro ministeriale sarebbe stato che “La Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo assicura che verrà evidenziata alle Prefetture la necessità di stipulare a tal fine appositi Protocolli d’intesa con le Aziende sanitarie di riferimento, qualora non ancora stipulati”. Migranti trattati peggio che in carcere: tossicodipendenti senza metadone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2021 Ingoiano lamette, si infliggono ferite alla gamba e commettono altri gesti autolesionistici. Sono i migranti trattenuti nel centro per il rimpatrio, affetti da tossicodipendenza e compiono questi atroci gesti per attirare l’attenzione sul loro stato di crisi di astinenza. Non vengono seguiti, non gli somministrano nemmeno il metadone - oppure arriva in ritardo - come accade invece nei penitenziari. Il Cpr, di fatto, è peggio del carcere. Ci sono casi emblematici ben descritti dal Rapporto stilato dopo l’ispezione effettuata dal senatore Gregorio De Falco e dalla senatrice Simona Nocerino all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano. Parliamo di diversi migranti che, entrati nel Centro dichiarando la propria tossicodipendenza pluriennale, non sono stati formalmente riconosciuti come tali e non hanno quindi ricevuto neppure le somministrazioni di metadone previsti. Partiamo dal caso di K. M. Dal rapporto emerge che lui, pur dichiaratosi alla visita d’ingresso eroinomane da ben dieci anni con assunzione quotidiana, e pur asserendo di essere in cura presso il Servizio per le Dipendenze patologiche (Serd) di altra città, non è stato riconosciuto come avente diritto al metadone. La soluzione trovata da K. M. per assumere le sostanze di cui necessita è stata quindi quella di autoinfliggersi ferite che necessitassero di cure al pronto soccorso, dove poteva ricevere quanto richiesto e che nel Centro non gli veniva somministrato. A mero titolo esemplificativo delle sue condizioni, i senatori De Falco e Nocerino riportano che l’11 maggio 2021, in crisi di astinenza, ha ingerito la lametta con la quale si è inferto una ferita alla gamba, e al pronto soccorso sono stati adoperati mezzi di contenzione e somministrati pesanti sedativi; il 20 maggio si è inferto tagli tre o quattro volte; il 21 maggio ha subito una overdose di benzodiazepina, e il 25 maggio altra ferita da lametta al braccio. L’altro è il caso di G. M. che sotto trattamento di metadone lamentava i gravissimi ritardi nella somministrazione della sostanza e atroci sofferenze per le crisi di astinenza che per tale motivo aveva dovuto sopportare. Tale soggetto, qualche settimana prima dell’accesso dei due senatori al Cpr di Milano, era stato trasferito in carcere in ragione di una pregressa condanna diventata esecutiva nelle more. Da quanto appreso, in carcere ha potuto godere di una misura alternativa ed essere assegnato ad una comunità. “Questa - si legge nel rapporto dei senatori - è una delle tan-te conferme dell’affermazione che sempre ricorre tra chi è passato attraverso entrambe le esperienze: ‘è peggio del carcere’. Costretto a crisi di astinenza forzate, abbandonato a sé stesso, è dovuto fini-re in carcere per poter riceve-re adeguate cure e vedersi riconosciuta l’opportunità di una vita più dignitosa”. Appena nati e già in carcere: il dramma dei figli delle detenute di Viviana Lanza Il Riformista, 15 settembre 2021 Il più piccolo è nato domenica nell’ospedale di Nola, l’altro un mese fa in quello di Avellino. Entrambi sono condannati a trascorrere i primi mesi o anni della loro vita in una struttura detentiva che sebbene a custodia attenuata equivale comunque a una sorta di reclusione. Qual è la loro colpa? Nessuna. Sono figli di donne arrestate o condannate per reati di furto in un Paese dove ancora non si è riusciti a trovare una vera alternativa per le detenute madri con figli al seguito. A differenza del piccolo nato a Rebibbia qualche giorno fa in circostanze che hanno fatto gridare allo scandalo, i piccoli delle due mamme detenute nell’istituto di Lauro sono nati in una normale sala parto di un ospedale. Ma il prossimo futuro per loro sarà nell’Icam di Lauro, l’istituto a custodia attenuata che si trova nell’Avellinese e rappresenta l’unica struttura nella regione per detenute madri con figli piccoli al seguito. La donna che ha partorito un mese fa è reclusa per un furto da cento euro e il neonato vive con lei in una cella arredata come un piccolo monolocale. Il piccolo venuto alla luce domenica li raggiungerà a breve e presto nell’Icam arriverà un terzo neonato, addirittura, perché c’è un’altra detenuta incinta. Quella dei bambini in cella con le proprie mamme detenute è quindi una realtà che meriterebbe più attenzione. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia e aggiornati al 31 agosto scorso, il numero dei bambini che vivono assieme alle madri detenute è aumentato in Campania: sia arrivati a 12 donne e 14 bambini. È il numero più alto in Italia se si considera che nel Lazio si contano tre detenute e quattro bambini, in Lombardia tre detenute con complessivamente tre figli al seguito, mentre in Piemonte i dati più aggiornati parlano di due detenute e due bambini e in Veneto due detenute con tre figli al seguito. A livello nazionale, dunque, ci sono 26 bambini costretti a vivere i propri anni della loro vita in una cella perché non ci sono alternative per loro né per le loro madri detenute. Le donne con i figli al seguito in tutta Italia sono 22 e colpisce che circa la metà si trovi in Campania. Un’alta percentuale di queste donne, inoltre, è rappresentata da detenute straniere, rom o extracomunitarie, per le quali il carcere diventa paradossalmente una soluzione quasi migliore della vita fuori. L’Icam è infatti una struttura attrezzata per ospitare donne con figli piccoli. Parliamo di bambini da zero a sei anni e, in qualche caso, anche fino a otto anni. Le finestre non hanno le sbarre, le pareti non sono grigie e buie, ogni stanza ha il proprio bagno e un angolo cottura, gli agenti della penitenziaria non indossano la divisa. Tutto questo vale ad attenuare per quel che si può il senso di reclusione che questi bimbi sono costretti a vivere, ma di certo non può essere paragonato alla vita che dovrebbe essere garantita a tutti i bambini. “Siamo arrivati al paradosso che bisogna imprigionare le persone per aiutarle”, tuona il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. “Siamo al paradosso che in carcere s’incontra lo Stato”, dice parlando delle molte detenute rom o extracomunitarie che prima di essere arrestate vivevano con i propri bambini in condizioni di estremo disagio nelle periferie della città. “Dovremmo fare leggi, fare accoglienza, fare inclusione - sostiene Ciambriello - e mettere al centro i bambini perché con le leggi vigenti i bambini non sono al primo posto”. In Campania, su 12 detenute madri presenti nell’Icam di Lauro fino al 31 agosto, nove sono straniere. E dei 14 bambini reclusi, undici sono stranieri. È chiaro che il problema va analizzato e affrontato sotto più aspetti, compreso quello sociale, dell’accoglienza e dell’inclusione. E se si confrontano i dati degli ultimi mesi, si nota che il numero dei bambini costretti a vivere in cella assieme alle proprie madri aumenta con il passare dei mesi anziché diminuire. Che cosa non funziona nel nostro sistema sociale e giudiziario? Bisognerà chiederselo prima o poi. Non serve indignarsi solo quando accade un evento eccezionale, come il caso della detenuta che ha partorito a Rebibbia. Albamonte: “Un grave errore valutare i pm in base alle vittorie” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 settembre 2021 Intervista ad Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm. “È un giudizio condiviso che l’attuale legge elettorale per il Csm contribuisca a determinare gli effetti che abbiamo visto nella vicenda Palamara”. “Magistratura tra realtà e finzione. La forza del pensiero critico” è il titolo scelto per il terzo Congresso Nazionale di Area Democratica per la Giustizia che si riunirà a Cagliari il 24, 25 e 26 settembre. A pochi giorni dall’incontro riflettiamo con il segretario Eugenio Albamonte sulle tematiche di attualità giudiziaria. La riforma Cartabia sul processo penale si avvia ad approvazione finale in Senato. Sembrerebbe che il compromesso politico abbia prevalso sulle questioni di diritto. È d’accordo? Sì, sono d’accordo. Il nodo gordiano su cui si è incentrato il dibattito, ossia l’improcedibilità, alla fine è stato mantenuto con un approccio di corto respiro. Si è deciso che bisognava garantire l’onore sia dei Cinque Stelle, che si erano impegnati per l’azzeramento della prescrizione dopo la condanna di primo grado, sia quello della Lega che voleva che quel principio fosse rimesso in discussione. Inoltre la soluzione finale adottata - spostare in avanti il regime dei due anni per l’appello e di un anno per la Cassazione al 2024 e proporre nel frattempo un regime intermedio - ha un po’ le gambe corte e sembra voler buttare la palla, come già avvenuto per le intercettazioni di Orlando e la prescrizione di Bonafede, nel campo del ministro che verrà. Per gli operatori del diritto che vanno in cerca di norme sicure e durevoli non rappresenta l’ottimo. Chiusa questa partita, si apre quella del Csm. Dal punto di vista metodologico, condivide l’allarme del presidente Anm Santalucia per cui bisogna stare pronti a fornire i propri pareri altrimenti “i tempi dell’azione riformatrice possono subire delle forti accelerazioni” che escludono i punti di vista di tutti gli attori interessati? Nell’ultima fase di riforma del penale, quando si trattava veramente di passare dalla bozza Lattanzi al progetto di emendamenti governativi da presentare, si è tenuto conto solo della mediazione politica. E i tecnici di qualsiasi provenienza - avvocatura, accademia, magistratura - non sono stati più interpellati. Non vorrei che si ripetesse lo stesso scenario in fase di riforma del Csm. Sul merito della riforma del Csm qual è l’aspetto a cui non si può rinunciare affinché non accada più quello che emerso dal sistema Palamara? Proporrò al Congresso di concentrare l’attenzione, e quindi anche la richiesta politica, innanzitutto sulla legge elettorale. È stato un giudizio condiviso, non solo da parte dei magistrati, ma anche dell’accademia e del mondo dell’avvocatura, che l’attuale legge contribuisce a determinare gli effetti che abbiamo visto. Area, in tutto il periodo di vigenza di questa legge, ha adottato la tecnica delle elezioni primarie. Questa nostra scelta non è stata condivisa da tutti i gruppi; in alcune correnti, i candidati sono stati designati dalle segreterie, quindi dalle dirigenze e a volte, purtroppo, è capitato che siano stati addirittura definiti, a dispetto delle regole democratiche che dovremmo governare le correnti, da qualche sorta di potentato che nel tempo si è strutturato all’interno della corrente stessa. Tutto questo non può più accadere: ne vale della credibilità dell’intero sistema giudiziario. Non si possono affrontare i prossimi quattro anni del Consiglio con queste regole. Sarebbe la morte del Csm, prima di tutto agli occhi dei magistrati: si tratta dunque di una Linea Maginot da cui non si può retrocedere. Una proposta che il Pd ritiene importante è quella per cui le valutazioni di professionalità dei magistrati, quali il pm, debbano essere condotte anche sulla base del parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Che ne pensa? Ho apprezzato in tal senso la considerazione che su questo punto ha fatto l’avvocato Pecorella proprio sul vostro giornale: giudicare così un pm significherebbe dire che è più bravo l’avvocato che vince più processi. Aggiungo due argomenti. Il primo: una valutazione della performance giudiziaria dei provvedimenti come parametro di valutazione professionale del magistrato porta al paradosso che gli unici che avranno la valutazione positiva saranno quelli della Cassazione perché sono gli ultimi a giudicare. Il secondo: non vorrei che questo tipo di valutazioni ci costringesse, per paura di essere smentiti, ad assumere delle decisioni un po’ burocratiche, che si fondano sul precedente. Sarebbe la fine del diritto applicato. Prendiamo il caso Cappato/ dj Fabo: il pm sarebbe arrivata a quelle stesse conclusioni se fossero state in vigore le previsioni volute dall’emendamento del Pd? Non credo: avrebbe messo a rischio l’avanzamento in carriera e subìto anche una campagna mediatica sfavorevole. Cosa ne pensa della proposta di Violante per un’Alta Corte di Giustizia? Può essere condivisibile una Corte di Giustizia, composta anch’essa di Consiglieri superiori eletti e nominati dal Parlamento, che si occupa solo di disciplinare e non delle altre competenze del Consiglio. Invece non condivido l’ipotesi di un’Alta Corte che, mettendo insieme magistrati amministrativi, contabili, ordinari, militari e rappresentanti eletti dal Parlamento, abbia competenza su tutte le magistrature in quanto, almeno ai miei occhi, le altre istituzioni disciplinari hanno, senza voler mancare di rispetto a nessuno, un atteggiamento molto più corporativo della nostra. In questo momento ci rendiamo ben conto, come magistrati e come cittadini, quanto sia importante, rispetto ad alcune vicende che sono accadute e continuano ad accadere, il fatto che esista un giudice disciplinare affidabile, che quando deve sanzionare sanzioni. Ciò ha un significato non solo di recupero dell’etica e della immagine della magistratura ma anche di funzione di prevenzione speciale del ripetersi di certi comportamenti. Pignatone ieri sul Sole 24 Ore ha scritto che il moltiplicarsi del numero dei processi, la dilatazione della loro durata e il proliferare delle impugnazioni è legato all’alto numero di avvocati. Il vero problema della giustizia sono gli avvocati? La situazione è complessa. Se dovessi rintracciare una causa primaria del sovraccarico della giustizia penale sarebbe l’atteggiamento del legislatore per cui qualsiasi problema deve essere risolto con l’individuazione di una sanzione penale. Penso ad esempio a quando si ritenne che le violazioni delle prescrizioni sul lockdown dovessero essere sanzionate ai sensi del 650 c. p.: si tratta del tipico caso in cui il legislatore, non sapendo cosa fare, avrebbe utilizzato lo spauracchio della norma penale, intasando i tribunali da qui all’eternità. Ogni qualvolta il legislatore prevede un nuovo reato sull’onda dell’emotività collettiva, e lo fa ad invarianza finanziaria, si dà origine ad un numero infinito di procedimenti che avrebbero bisogno invece di risorse nuove per essere smaltiti. A proposito di legislazione emergenziale, un recente decreto del governo inasprisce le sanzioni sia amministrative che penali per chi provoca incendi. Aumentare le pene è una modalità ipocrita di affrontare il problema. Il governo e il Parlamento dovrebbero chiedersi i motivi per cui ci sono così tanti incendi dolosi. Non può essere tutto ricondotto a dei pazzi piromani, ci sono altre ragioni su cui interrogarsi. L’aumento della pena in sé è uno scaricabarile, è un modo per dire ai cittadini “noi abbiamo la coscienza a posto”, poi se i problemi non si risolvono è anche colpa della magistratura. Si fa verso il parere delle Commissioni competenti sui decreti attuativi relativi al recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Qual è il suo pensiero? Viene limitato il vostro diritto ad informare la cittadinanza? Secondo me vengono limitate le forme incaute di comunicazione all’opinione pubblica. Una attività di informazione rispetto a quello che sta facendo l’autorità giudiziaria - procura, forze dell’ordine, organismo giudicante - non è affatto disdicevole. È meritorio, ad esempio, che la Corte Costituzionale si sia dotata di un ufficio stampa che spieghi alcune particolari decisioni. Se una persona viene arrestata, bisogna farlo sapere: non siamo mica in America Latina dove la gente spariva e nessuno sapeva nulla. Però quella informazione deve essere data in modo corretto e nel rispetto dei diritti della persona sottoposta a provvedimento. Gli unici che possono preoccuparsi della nuova normativa sono quelli che di solito non sono attenti nel comunicare o perché comunicano cose irrilevanti a mero titolo di autoglorificazione o perché non rispettano la dignità dell’indagato. Lei sarebbe d’accordo quindi ad un ufficio stampa presso Tribunali e Procure? Sì, certo. Servirebbe innanzitutto a controllare a monte il fatto che la notizia sia tecnicamente rispondente ai canoni della presunzione di innocenza. Inoltre romperebbe quel legame personale, che per me non è positivo, tra alcuni magistrati ed alcuni organi di informazione, che spesso dà vita a rapporti preferenziali rispetto ad altre testate. Cassese: “I pm si sentono giudici. Si usa troppo il carcere” di Anna Maria Greco Il Giornale, 15 settembre 2021 Professor Sabino Cassese, nel suo intervento sul Giornale sul garantismo Silvio Berlusconi sottolinea che la presunzione d’innocenza dev’essere il cardine di un corretto sistema giudiziario. In Italia questo principio viene rispettato secondo lei? “Il secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione dispone che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Paradossalmente, quindi, la presunzione di innocenza è alla base dello stesso processo e della giustizia. Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure. Queste non si limitano all’accusa ma, sostanzialmente, giudicano. Basti pensare alle conferenze stampa in cui si vedono procuratori circondati da forze dell’ordine, che annunciano, con titoli altisonanti, le accuse. In inglese questo processo si chiama naming and shaming, cioè nominare e svergognare. Vi collaborano le procure perché non rispettano il principio fissato dalla Costituzione nell’articolo 111, per il quale la persona accusata è informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico. I mezzi di formazione dell’opinione pubblica che danno risalto alle accuse divenute giudizio. I magistrati giudicanti perché, con i loro ritardi, consolidano l’accusa - giudizio (se il processo si concludesse dopo sei mesi, la situazione sarebbe diversa da quella attuale). La stessa classe politica che ha, da un lato, abbassato tutte le regole di immunità che spettavano agli amministratori pubblici, dall’altro creato complessi normativi (ad esempio, antimafia) affidandone la cura ad una magistratura divenuta il guardiano della virtù (c’è un bel libro di Pizzorno, edito da Laterza su questo tema). Il presidente del tribunale di Torino, qualche anno fa, ha fatto una stima di quante di queste accuse - giudizio sono evaporate, purtroppo dopo molti anni, dopo i regolari processi. Troppo tardi, in qualche caso”. C’è oggi, e soprattutto da Mani pulite in poi, un uso distorto della carcerazione preventiva, come sostiene uno dei quesiti del referendum di Lega e Radicali? “Non posso dire se l’uso che viene fatto della carcerazione preventiva è corretto o distorto; si può certamente dire, invece, che se ne fa un uso eccessivo e che questo è un sintomo di un possibile uso abusivo o distorto”. Come si garantisce davvero la terzietà del giudice, per limitare al massimo gli errori giudiziari? “Assicurando una piena indipendenza e imparzialità di quella parte del corpo dei magistrati che fa parte degli organi giudicanti. Questo vuol dire completa impermeabilità, nei due sensi, sia dall’esterno verso l’interno, sia dall’interno verso l’esterno. E questo comporta una separazione tra componenti degli organi di accusa e componenti degli organi giudicanti. In applicazione di quella norma costituzionale che dispone che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dall’ordinamento giudiziario. Quindi, rinvia alla legge il compito di stabilire la misura delle garanzie di cui i pubblici ministeri godono, mentre per gli altri magistrati, quelli giudicanti, tali garanzie sono definite direttamente dalla Costituzione. Quindi, una diversità di status definita già dalla Costituzione. A questo si aggiunge il fenomeno che ho rilevato, della costituzione delle procure come un quarto potere dello Stato, che accentua la necessità, prevista dalla Costituzione, di uno status separato dei pubblici ministeri”. Lei crede che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema attuale di arruolamento e di formazione dei giovani magistrati, che nella maggior parte dei casi vengono subito arruolati dalle correnti? “Il reclutamento dei giovani magistrati In Italia presenta alcuni aspetti positivi. In primo luogo, è avvenuto con una certa continuità e regolarità, a differenza del reclutamento degli altri pubblici dipendenti. In secondo luogo, la diversità di trattamento economico, i privilegi di status e di indipendenza dei magistrati, la stessa severità delle prove, hanno certamente attirato alcuni dei migliori laureati in giurisprudenza verso la magistratura. Tuttavia, il sistema di reclutamento soffre di alcuni difetti. In primo luogo, si misurano le conoscenze giuridiche, non la capacità di ponderazione, la maturità, la riflessività dei candidati. In secondo luogo, c’è un alto grado di familismo: si può stimare che poco meno del 20% degli attuali magistrati sia figlio o parente di magistrati. Questo segnala un fenomeno che potrebbe chiamarsi di endogamia, che dovrebbe essere ulteriormente approfondito e valutato. Poi, c’è una scuola della magistratura che non riesce a fornire ai giovani magistrati conoscenze relative alla misurazione dei tempi delle procedure, capacità di analisi dei carichi di lavoro, abilità nell’intendere le implicazioni delle decisioni. Ne deriva, nel corpo dei magistrati, composto di ottimi giuristi ed eccellenti persone, una inconsapevolezza dell’attuale stato della giustizia in Italia. Un aspetto preoccupante dello stato della giustizia in Italia è proprio questo: come persone tanto preparate, ottimi professionisti, possano essere inconsapevoli di lavorare in una struttura che non risponde alla funzione affidatale dalla Costituzione, quella di dare giustizia. Non c’è bisogno che aggiunga quanti milioni sono le procedure giudiziarie pendenti e quanto sia rilevante la fuga dalla giustizia”. L’autogoverno della magistratura, dice Luciano Violante nell’intervista di martedì al nostro quotidiano, non è scritto in Costituzione ma le toghe se lo sono preso per determinare dal Csm e dal ministero della Giustizia la politica giudiziaria. È così? “La Costituzione parlava di indipendenza. L’ordine giudiziario l’ha fatto diventare autogoverno. Segnalai già questo singolare abuso della parola indipendenza cinquant’anni fa a un convegno di magistrati. Aggiungo altre distorsioni tollerate: perché sono magistrati i funzionari del ministero della giustizia, se questo è parte dell’ordine esecutivo? Perché tanti magistrati fuori ruolo, con compiti diversi da quelli giudicanti? Perché magistrati i funzionari del Csm?”. Per Berlusconi un filo rosso lega i valori di garantismo, liberalismo, cristianesimo ed europeismo: il rispetto della persona. Lo vede anche lei? “C’è certamente un legame tra quelle tre grandi tradizioni storico - culturali e il garantismo. Ma ora non scomoderei cristianesimo, liberalismo ed europeismo. Proverei a correggere quella che è diventata una delle maggiori storture del nostro Stato”. Il “Sistema” esiste: per il Csm Palamara non ha agito da solo di Simona Musco Il Dubbio, 15 settembre 2021 Sospesi gli ex togati che presero parte insieme all’ex capo dell’Anm alla cena all’Hotel Champagne, dove si discusse della nomina del procuratore di Roma alla presenza dei parlamentari Lotti e Ferri. Il Sistema esiste. A stabilirlo, ieri sera, è stata la Prima Commissione del Csm, che dopo una camera di consiglio durata 10 ore ha dichiarato responsabili degli addebiti mossi dalla procura generale gli ex togati che hanno preso parte alla cena all’hotel Champagne a Roma, assieme all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, cena durante la quale si discusse di alcune nomine, tra le quali quella alla procura di Roma. Per Lepre, Morlini e Spina la prima Commissione ha disposto la sospensione dalle funzioni per un anno e mezzo, contro i due chiesti dall’accusa, mentre per Cartoni e Criscuoli l’arrivederci alla toga durerà soltanto nove mesi, a fronte dell’anno preteso dalla procura generale. Le incolpazioni mosse nei loro confronti riguardavano il “comportamento gravemente scorretto” tenuto, “in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio”, nei confronti degli altri consiglieri del Csm e dei magistrati che si erano candidati alla nomina di capo della procura della Capitale, nonché la violazione del “dovere di riservatezza” sull’iter della pratica relativa a tale nomina. Questo procedimento disciplinare si era aperto poco più di un anno fa: i cinque si erano dimessi dall’incarico a Palazzo dei Marescialli nel giugno 2019, dopo le intercettazioni, captate dal trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara ed emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia, delle conversazioni avvenute all’hotel Champagne. Una decisione importante, quella presa ieri, che arriva dopo la conferma della radiazione dall’ordine giudiziario inflitta a colui che per tutti è il grande manovratore, quel Palamara che per la Corte di Cassazione, però, avrebbe agito da solo e per vendetta. Una versione diversa da quella sostenuta dal sostituto procuratore generale Simone Perelli e dall’avvocato generale Pietro Gaeta, che hanno invece indicato presunti ruoli e responsabilità di ognuno in quello che è passato alla storia come il mercato delle nomine. Spina, aveva affermato nella sua requisitoria il pg Gaeta, sarebbe stato infatti “il fiduciario assoluto del consigliere Palamara all’interno dell’istituzione consiliare - ha affermato -, l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata”. Sarebbe stato, dunque, “la “longa manus” di Palamara nell’istituzione consiliare”, mentre Morlini e Lepre - all’epoca dei fatti presidente della Commissione direttivi il primo, e relatore della pratica sulla nomina alla procura di Roma il secondo - “ricoprivano ruoli che rendono ancora più drammaticamente grave - ha detto Gaeta - la gestione parallela delle nomine all’hotel Champagne”. Come si concilia questa versione con quella data dal Palazzaccio? Per i giudici di piazza Cavour, “Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira”. Una sorta di vendetta personale, dunque, che escluderebbe l’esistenza di un metodo e di altri partecipanti e che renderebbe l’ex consigliere del Csm una mela marcia. Ma è stato lo stesso Palamara a spiegare che invece non avrebbe agito affatto a titolo personale: “Ipotizzare che io facessi tutto in solitudine è l’equivalente di dire che, anziché vivere giornate torride, in questo periodo usciamo con il cappotto”, aveva dichiarato al Dubbio. Anche se le persone coinvolte, stando ai sottintesi e ai continui inviti dell’ex capo dell’Anm ai colleghi che hanno “beneficiato” di quelle cene a raccontare quanto sanno, sembrano essere molte di più di quelle finite sotto processo a Palazzo dei Marescialli. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è, appunto, la famosa cena del 9 maggio 2019, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip, e il parlamentare Cosimo Ferri, all’epoca anche lui del Pd. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, indicando il pg di Firenze Marcello Viola come il favorito. Quella conversazione, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. E in quella sede a discutere di questi temi, secondo l’accusa, c’erano anche i magistrati finiti davanti al banco degli imputati di Palazzo dei Marescialli. Per questo la loro posizione non è affatto secondaria. Nel corso del procedimento i cinque hanno voluto fornire una versione diversa della vicenda: tra i primi a parlare proprio il presunto braccio destro di Palamara, Spina, che rilasciando dichiarazioni spontanee ha rivendicato la sua fedeltà a Unicost (di cui all’epoca era capogruppo), decisa a sostenere la candidatura di Giuseppe Creazzo. “Quello che si decideva era sacro e lo rispettavamo - ha dichiarato -. Conoscevo Palamara, ma non facevo parte del suo mondo, non avevo mai partecipato a incontri, non avevo un programma comune con lui e semmai io per quel programma sono stato un ostacolo”, ha sottolineato Spina. “Ho sempre detto chiaramente che non avrei lasciato l’appoggio a Creazzo, non ho mai avuto nessuna volontà di danneggiarlo né di provare a fargli ritirare la candidatura. Avevo espresso fastidio per l’invadenza di Palamara - ha aggiunto -, doveva avere rispetto per le decisioni del gruppo, tanto che da altre intercettazioni emerge la sua volontà di cercare strade alternative, perché con Spina “non c’è stato verso”, aveva detto”. Per il suo difensore, Donatello Cimadomo, l’accusa nei confronti di Spina sarebbe indeterminata e contraddittoria. “L’unica cosa che si può imputare a Spina è di essersi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato - ha detto - se il problema è che non si è alzato e non è andato via al massimo si può applicare la sanzione della censura per comportamento inopportuno ma non certo una sanzione per avere tradito le sue funzioni istituzionali”. Prima che i membri della prima Commissione si riunissero, a prendere la parola ieri è stato ??Lepre, che ha parlato di una “vicenda dolorosa che rappresenta un travaglio e una sofferenza devastanti” e ha ricordato di non essere stato a conoscenza della riunione, “di non conoscerne oggetto e partecipanti” ma di essere stato “colto alla sprovvista” rientrando dopo cena con la moglie in albergo, lo stesso dove si è tenuto l’incontro, e vedendo i colleghi in una saletta attigua alla hall “di non essere stato invitato, di essere rimasto il tempo necessario per non apparire scortese e di essere andato via per primo”. Quanto ai candidati per la procura di Roma, riferendosi al sostegno a Viola di cui si era discusso quella sera, “personalmente, in virtù degli oggettivi e robusti titoli di Viola, confidavo in quell’ampia maggioranza che effettivamente si concretizzò poi in commissione”, ha sottolineato. A difendere Criscuoli è stato il professor Mario Serio, secondo cui l’ex consigliere sarebbe stato “attratto in un vortice nel quale era completamente estraneo”, quello delle “ambizioni incontrollate di Palamara e Ferri”, e “del quale non poteva preventivamente controllare le modalità di svolgimento” e quindi “non poteva respingere il pericolo”. Inoltre “il silenzio continuamente serbato” nel corso della riunione attesta che “capacità offensiva della sua condotta è del tutto insignificante e non meritevole di sanzione”. Per Cartoni l’avvocato Carlo Arnulfo ha chiesto il proscioglimento: non avrebbe commesso “nessuna grave scorrettezza”, l’unica pecca è “la presenza impropria all’hotel Champagne. Poteva andare via quando si iniziava a parlare di nomine”, ha detto. “La riunione non l’aveva programmata, poteva solo interromperla. Ma poi nella pratica è difficile pensare che una persona si alzi e se ne vada. Ha ascoltato le conversazioni ma non era partecipe del piano” relativo alla nomina del capo della procura di Roma. Morlini, invece, ha rivendicato la sua autonomia: “Tutte le decisioni sulla nomina del procuratore di Roma, come sulle altre nomine, le ho prese io. Non c’è stata nessuna eterodirezione, né suggerimenti. E non c’è stato nessun doppio gioco o bluff”, ha affermato. Per il suo difensore, Vittorio Manes, Morlini “non ha partecipato né come burattinaio né come burattino al risiko delle nomine”. L’”insussistenza delle incolpazioni” è stata evidenziata anche da Domenico Airoma, difensore di Lepre, che, ha ricordato, “non ha partecipato ad alcuna attività preparatoria della riunione e alla stessa ha partecipato per una ventina di minuti. Per il suo comportamento scorretto Lepre ha già pagato con le dimissioni, ma la responsabilità disciplinare deve rispondere ad altri parametri, guai a trasferire sul piano disciplinare valutazioni di carattere etico. Questo sarebbe travolgere ogni garanzia”. Ora per conoscere le ragioni della decisione bisognerà attendere 90 giorni. Il figlio è autistico, boss al 41bis potrà vedere moglie e bimbo insieme di Giovanni Pisano Il Riformista, 15 settembre 2021 Moglie e figlio autistico potranno far visita a un detenuto ristretto al carcere duro, il 41 bis. È quanto deciso dalla Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso dell’Avvocatura dello Stato per conto del ministero della Giustizia, concedendo alla consorte di un boss della camorra della provincia di Napoli di entrare insieme al figlioletto di sei anni nella saletta dei colloqui una volta al mese (chi è ristretto al carcere duro può avere contatti fisici solo con i figli, minori di 12 anni). A darne notizia è il quotidiano Il Mattino. Si tratta di una sentenza che farà scuola nella gestione delle visite tra i familiari e i detenuti ristretti in regime di carcere duro. Stando a quanto emerso, il bambino è affetta da disturbi dello spetto autistico e piange ogni volta che è da solo con il genitore detenuto. È sottoposto da tempo a terapie specifiche per i disturbi neuropsichici e comportamentali riscontrati da diversi medici. Patologie che gli impediscono di avere una reazione serena quando incontra, una volta al mese, il papà perché i particolari disturbi comportamentali riscontrati portano il bambino a piangere immediatamente se si stacca dalla madre. Già nei mesi scorsi, il tribunale di Sorveglianza del centro Italia aveva già vagliato la questione, concedendo una deroga alla moglie del detenuto, autorizzandola ad accompagnare il bambino al di là del vetro divisorio per consentire al papà detenuto di poter abbracciare il figlio senza che piangesse. Valutazione ritenuta corretta ieri, martedì 14 settembre, dalla Cassazione. Sicilia. L’ex governatore Cuffaro: “Da ex detenuto strade chiuse ed ergastolo sociale” nuovosud.it, 15 settembre 2021 “Oggi, purtroppo, la pena è ben distante dalla funzione rieducativa di cui parla la Costituzione. Chi come me è un ex detenuto trova tutte le strade chiuse e in alcuni casi non può nemmeno utilizzare la propria laurea per rimettersi al servizio della collettività. Chi ha persino scontato per intero la pena con buona condotta subisce delle pene afflittive da scontare dopo la detenzione e volte ad impedire ogni forma di reinserimento lavorativo e sociale”. Lo dice l’ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, esprimendo, “da ex detenuto”, “il mio sincero apprezzamento per le parole recentemente pronunciate dal Capo dello Stato quando ha ribadito che la detenzione ‘non si tramuti in alcun caso in una sorta di macchia indelebile, perché non è così, è una cicatrice che scompare, perché lo Stato ha il dovere di agevolare il reinserimento, il protagonismo nella vita sociale. Ciascuno di noi, ciascuno di voi, ha un’esperienza umana non ripetibile che può contribuire in maniera preziosa, importante nella vita di tutti’. “È persino pericoloso fare lavorare un ex detenuto che ha scontato certi reati ed ha mostrato di essere fuori dall’ambiente criminale perché al datore di lavoro potrebbero negare la certificazione antimafia - aggiunge Cuffaro, che ha scontato 5 anni in carcere per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio - In questo modo si condanna l’ex detenuto ad una sorta di ergastolo sociale, che ricorda tanto la capitis deminutio del diritto romano”. Aggiunge Cuffaro: “Lo Stato, per quelle che sono le norme attuali, sembra dire a chi attraversa l’esperienza del carcere: ‘è inutile che provi a cambiare vita. Per te non c’è speranza quando sarai fuori. Puoi soltanto tornare a delinquere’“. Per l’ex governatore “Quando si nega il diritto alla speranza si consegnano gli ex detenuti nuovamente alla tentazione di perdersi nell’abbraccio mortale della criminalità organizzata”. “Per questo ho apprezzato il pressante appello del presidente Mattarella che ha esortato a cambiare rotta ‘però non a parole’, perché questa nuova prospettiva, in linea col dettato costituzionale ‘va garantita nei comportamenti dell’ordinamento con i suoi interventi, le sue regole, le sue procedure, le sue iniziative, e con il comportamento sociale delle altre persone, con la speranza e la fiducia che occorre avere e sviluppare in maniera particolarmente forte’“. “L’appello del presidente della Repubblica Mattarella fatto durante la visita ai detenuti del carcere minorile di Nisida costituiscano un insegnamento elevato e profondo di cui essere particolarmente grati - conclude Cuffaro. Nelle sue parole trovano concretezza i valori costituzionali sull’azione punitiva dello Stato e la funzione rieducativa della pena. Chi ha sbagliato deve assumersi le proprie responsabilità verso l’intera società e portarne il peso secondo ciò che la legge prevede. Ma il Capo dello Stato ha voluto autorevolmente richiamare come nella prospettiva costituzionale la persona rimane sempre qualcosa di più grande dell’errore che pure ha commesso e questo chiama, a sua volta, la società e le stesse Istituzioni ad altrettante responsabilità, necessarie a dare concretezza a questo primato della persona”. Prato. Detenuto in attesa di giudizio si toglie la vita alla Dogaia Il Tirreno, 15 settembre 2021 La tragedia si è consumata nella serata di lunedì 13, inutili i soccorsi dell’ambulanza. Un detenuto di 35 anni si è tolto la vita nella serata di lunedì 13 settembre all’interno del carcere della Dogaia. La tragedia si è consumata intorno alle 20 e la polizia penitenziaria ha chiesto l’intervento di un’ambulanza. La centrale del 118 ha inviato sul posto un mezzo della Misericordia di Oste, ma il medico dell’ambulanza non ha potuto fare niente per salvare la vita dell’uomo, un cittadino rumeno. Il sostituto procuratore Vincenzo Nitti è andato in carcere per accertare di persona le modalità del suicidio e sulla vicenda gli inquirenti mantengono un certo riserbo. Si sa soltanto che l’uomo era in regime di custodia cautelare dopo essere stato arrestato per reati comuni in un’altra provincia ed essere stato trasferito a Prato. Ferrara. Suicidio in carcere. L’avvocato della famiglia: “Fare luce perché non accada mai più” estense.com, 15 settembre 2021 Iniziate le operazioni autoptiche, le prime analisi confermano la morte per impiccagione. Rimane il nodo della sorveglianza: i carabinieri segnalarono nel verbale di arresto le intenzioni suicide. I primi accertamenti autoptici confermano che Lorenzo Lodi, il 29enne morto in carcere il 1° settembre, si è suicidato impiccandosi. Riamane tutto da stabilire se quel gesto estremo, per nulla improvviso e inaspettato, si sarebbe potuto evitare con un’adeguata sorveglianza. Su questo cerca di fare luce l’indagine coordinata dal procuratore Andrea Garau e condotta dalla Squadra mobile. Per la morte del 29enne, quattro persone sono indagate per l’ipotesi di reato di cooperazione nell’omicidio colposo. Si tratta del comandante della Polizia penitenziaria e di tre agenti di 51, 31 e 28 anni, tutti difesi dall’avvocato Alberto Bova. Lodi era stato portato all’Arginone il 31 agosto dopo l’arresto compiuto dai carabinieri di Cento, che lo avevano trovato in possesso di 2 kg di marijuana, più di un etto e mezzo di hashish, una pistola rubata (una Tanfoglio calibro 9) e munizioni, oltre a 16mila euro in contanti. Secondo quanto emerso finora, l’intervento nella sua abitazione era stato inizialmente eseguito perché la fidanzata e due amici avevano segnalato le intenzioni suicidarie di Lodi - espresse tramite messaggi inviati da cellulare -, arrivato quando nella sua abitazione c’erano già pompieri e carabinieri, che si aspettavano di trovarlo in casa. È stato lui a consegnare la pistola che aveva in macchina, poi durante la perquisizione è stato trovato il resto. Una volta condotto all’Arginone, in attesa di essere sentito dal giudice per la convalida dell’arresto, è stato posto sotto sorveglianza normale nella sezione Nuovi Giunti. Nel pomeriggio, tra le 14,30 e le 15 è stato ritrovato privo di vita: si era impiccato usando le lenzuola della cella, forse usando una scopa e due pianali, ma l’aspetto del ‘come’ - la dinamica effettiva - deve essere ancora accertata totalmente. L’indagine, nella sostanza, mira a capire se la sorveglianza sia stata adeguata: nel verbale di arresto i carabinieri avevano segnalato le intenzioni suicide di Lodi ed è da valutare se questa informazione - a tutti gli effetti centrale per una corretta gestione del detenuto - sia stata adeguatamente presa in considerazione dal personale carcerario e se in tal caso, magari aumentando il livello di sorveglianza, si sarebbe potuta evitare la tragedia. “Ritengo che sia doveroso fare luce su questo caso, perché non accada mai più”, afferma l’avvocato Antonio De Rensis, che assiste la famiglia del 29enne. Ieri (martedì 14 settembre) c’era anche lui in procura per il conferimento dell’incarico al medico legale Raffaella Marino, che avrà 60 giorni di tempo per consegnare la relazione. De Rensis ha nominato come proprio consulente Sabino Pelosi, medico legale dell’Ausl di Modena, mentre l’avvocato Bova ha scelto Francesco Maria Avato. “Aspettiamo fiduciosi - commenta Bova -. Riteniamo che non si potesse fare nulla di più rispetto a quello che è stato fatto”. Il 20 settembre verrà conferito l’incarico alla tossicologa Francesca Righini per gli esami tossicologici. Avellino. Trovato impiccato in carcere, da un mese era “pentito” di Fabio Buonofiglio altrepagine.it, 15 settembre 2021 Il 53enne Benito Arone, originario di Montalto Uffugo, dal penitenziario di Vibo Valentia era stato trasferito nella sezione speciale per collaboratori di giustizia dell’istituto di Ariano Irpino. Il trasferimento di Arone dal carcere di Vibo Valentia alla sezione speciale per collaboratori di giustizia dell’istituto di pena di Ariano Irpino risale a circa un mese fa. Il suo corpo, esanime, è stato trovato venerdì scorso, quando un agente della polizia penitenziaria ci si è imbattuto durante un giro di controllo. Per far luce sull’accaduto la Procura di Benevento ha aperto un fascicolo d’inchiesta, ordinando il trasporto della salma nell’ospedale di Avellino per effettuarvi l’autopsia. Vi sono infatti dei sospetti da fugare. Vale a dire: quelli d’un ipotetico omicidio camuffato da gesto autolesionista. Fosse così, il delitto potrebbe avere una matrice mafiosa, considerata la recente decisione dell’uomo d’avviare una collaborazione coi magistrati antimafia di Potenza guidati dal procuratore Francesco Curcio. Cosenza. È tornato in cella ed è morto. E non poteva che finire così di Gioacchino Criaco Il Riformista, 15 settembre 2021 Pasquale non saprà delle proteste dei compagni, anche le colpe non lo riguardano più. Condannato per spaccio, gli mancavano 10 mesi. Pure il carcere si spaccia in giro con facilità: piace e dà consenso. Regole, regole, gerarchie, gerarchie. L’aria si ferma, tutto salta e si scombina perché possa rinascere una comunità. Perché dentro tanto dolore, in mezzo a tanto male, s’accenni la distesa di un lembo di bene. È L’Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia. Un film duro, che ha cominciato a scuotere i pochi che già hanno potuto vedere. Perché il carcere scuote, frattura le pietre più dure: esiste e resiste solo perché i più non ne conoscono i meandri bui. Alla brava gente arriva di rado la disperazione che sgorga oltre le sbarre, fra il sopra e il sotto dei letti a castello, dentro le celle che non sono le camerette adorne di poster delle case comuni. Pensare ad altro che il carcere è per civiltà sovra evolute, richiede sforzi di comprensione, impegni che nei polsi le vene tremano. Il carcere è una soluzione facile, si spaccia in giro semplice, e piace, dà consenso. Ogni tanto l’aria solida, invalicabile, che sta intorno ai penitenziari si sfalda: molecole gassose si buttano in fuga e il dramma trapassa spazi vuoti. Nel carcere di Cosenza suonano le stoviglie, battono l’acciaio delle inferriate, cozzano l’anima dura dei blindati e di certe orecchie. I detenuti accennano una protesta che è solo la solita nenia a lutto, quando qualcuno fra i compagni muore, e loro sono convinti che il peggio si sarebbe potuto evitare. Pasquale Francavilla non lo saprà della protesta, e cosa che ormai non lo riguarda: è morto nella casa circondariale “Sergio Cosmai”, aspettava che passassero gli ultimi 10 mesi di pena che gli erano rimasti, di una condanna per spaccio, rimediati in un’operazione che, per lui profeticamente si chiamava Apocalisse. Era affetto da una malattia vascolare, in ospedale ci stava fino a pochi giorni fa. I trombi, la rianimazione, sembrava che ce l’avesse fatta. Invece lo hanno dimesso, è ritornato immediatamente in carcere, e immediatamente il difensore ha denunciato la gravità dell’atto. Ha chiesto che venisse riportato in ospedale, a casa. Ora, si narra, della sorpresa generale: di medici, agenti, direttori, avvocati e familiari. Tutti dicono che era evidente che sarebbe finita male. La Procura, come di rito, aprirà indagini. A Pasquale Francavilla non interessano più le sorprese, le colpe. Ha attraversato l’aria intorno al carcere, che per un attimo si era fatta morbida. Ora l’aria di nuovo si atteggia a cemento: chiude quelli di fuori, fuori, e si tiene dentro quelli di dentro. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Impunità e silenzi a un anno dal racconto del pestaggio di Nello Trocchia Il Domani, 15 settembre 2021 A settembre del 2020 abbiamo pubblicato i racconti della spedizione punitiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma pochi hanno preso sul serio la vicenda. Soltanto con la pubblicazione dei video le autorità si sono mosse. Sfregiati, picchiati per ore, costretti a radersi la barba, a inginocchiarsi, a fare le flessioni, isolati, scherniti, minacciati di morte se solo avessero osato parlare. L’atto di conclusione delle indagini della procura di Santa Maria Capua Vetere sull’orribile mattanza compiuta il 6 aprile 2020 nel carcere Francesco Uccella è un compendio minuzioso di quello che è accaduto, ma anche la sintesi di come la democrazia, quel giorno, si sia trasformata in un regime violento, crudele e spergiuro. Non ci sono casi analoghi nella storia recente della Repubblica italiana. Ma il documento giudiziario racconta anche altro: la presenza di decine di agenti impuniti sui quali si indaga parallelamente e gli accertamenti in corso sulla morte di uno dei detenuti massacrati di botte, il giovane Lamine Hakimi. Emerge chiaro un dato. Se i carnefici non fossero stati agenti della polizia penitenziaria, uomini e donne al servizio dello stato, avremmo dovuto parlare di una banda di criminali in grado di consumare un pestaggio, di silenziare i testimoni e di organizzare un depistaggio. Roba da malavita. Di quel giorno nero, nel quale lo stato di diritto si è eclissato, si è cominciato a parlare soltanto dopo la pubblicazione dei video da parte di questo giornale. Il racconto pubblico che Domani aveva consegnato al paese, lo scorso settembre, cinque mesi dopo i fatti, aveva lasciato indifferenti i più. Erano complici di quella ricostruzione mendace anche i decisori politici, che avevano fatto spallucce e si erano affidati alla versione fallata fornita dalla catena di comando del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La storia di Santa Maria Capua Vetere presenta ancora troppi quesiti rimasti senza risposta e nuovi particolari emergono dal provvedimento giudiziario di chiusura delle indagini, preludio alla richiesta di processo per le 120 persone coinvolte. La principale novità è che la procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiuso un troncone dell’inchiesta, ma continua a indagare alla ricerca di decine di altri agenti responsabili del pestaggio e che, in questo momento, restano senza volto. Agenti che potrebbero, in caso di individuazione, finire in una nuova richiesta di arresto da parte della pubblica accusa. Quel 6 aprile i poliziotti penitenziari si sono mossi da altri istituti di pena. Appartenevano ai gruppi operativi di supporto, creati dal provveditore regionale Antonio Fullone, mai sospeso nonostante l’indagine a suo carico fino all’esecuzione di una misura interdittiva ai suoi danni disposta dall’autorità giudiziaria lo scorso giugno. È proprio Fullone a occuparsi di dettare la linea al ministero della Giustizia che, dopo le nostre inchieste e l’interrogazione presentata dal deputato Riccardo Magi, risponde in aula, lo scorso ottobre, chiarendo che a Santa Maria il 6 aprile c’è stata “una doverosa azione di ripristino di legalità”. Dopo il pestaggio, la menzogna di stato. Le intercettazioni, gli elenchi dei partecipanti alla spedizione, il materiale sequestrato agli indagati, ma anche gli interrogatori dei soggetti coinvolti, carnefici e vittime, sono utili elementi investigativi per dare un volto a quelli che, in questa fase, vengono definiti “soggetti non identificati”, autori di violenze “inumane”, e soprusi di ogni genere. Al momento non sono stati identificati decine di agenti, la procura ha aperto un fascicolo e continua a lavorare. Su questo l’amministrazione penitenziaria, che ha avviato una tardiva indagine interna, non è stata in grado di sospendere neanche un poliziotto penitenziario se non quelli già coinvolti dall’indagine giudiziaria. La vicenda genera un paradosso: l’amministrazione conosce i nomi dei partecipanti alla spedizione, è consapevole che dentro quell’elenco, esclusi quelli già coinvolti nell’inchiesta, ci sono decine di picchiatori, ma ha le mani legate. Non può adottare provvedimenti di trasferimento o di sospensione perché finirebbe subissata da ricorsi, perdendoli, perché ci potrebbero essere soggetti non individualmente coinvolti, anche se presenti. Così si consente a decine di agenti picchiatori di continuare a lavorare, pagati dai contribuenti, negli istituti di pena a contatto con i detenuti. Basta leggere l’ultimo documento giudiziario dei pubblici ministeri sammaritani per capire di cosa si sono resi protagonisti decine di agenti senza nome e senza volto. Non ha un nome l’agente che afferra un detenuto “costringendolo a percorrere il corridoio che congiungeva il Reparto Nilo” e, insieme ad altri, “gli sputavano addosso, lo colpivano ripetutamente con pugni sui fianchi, con schiaffi alla testa alla schiena e alle gambe e con calci, proferendo le parole “portate/i via questi porci”, “pezzo di merda...merda umana”“. L’anonimo continua a lavorare per conto dello stato italiano. Così come altri agenti non identificati, in aree non videosorvegliate, che “sputavano addosso (a un detenuto, ndr), lo spingevano per le scale, lo aggredivano con schiaffi al volto, alla nuca e alla schiena, calci, pugni e manganellate sulle gambe, proferendo le parole: “sei inutile, non comandi nemmeno a casa tua, sei il cazzo mio”, “sei una merda, fai schifo, non dovevi nascere, sei un cane”“. Linguaggio da malavita, una giornata da stato dittatoriale. Sono decine gli agenti impuniti e su questo la procura continua a lavorare provando a rompere il muro di omertà eretto da molti indagati. Un silenzio che deve essere violato per scoprire altri poliziotti penitenziari non ancora identificati, protagonisti di ogni genere di orrore. “Lungo le scale, non sorvegliate da alcun sistema di videosorveglianza, soggetti, allo stato non identificati, ivi disposti su ambo i lati delle scalinate, lo aggredivano con violenti schiaffi al volto, causandogli la scheggiatura di un dente, lo percuotevano con pugni e calci, in testa, nei fianchi e nella pancia, gli sputavano addosso e lo ingiuriavano con parole del tipo “uomo di merda... stronzo”, si legge negli atti dell’accusa. I pubblici ministeri, Alessandro Milita, Maria Alessandra Pinto, Daniela Pannone, coordinati dalla procuratrice Maria Antonietta Troncone, parlano di violenze inumane. “Un agente non identificato, che gli afferrava la sua lunga barba, strappandogliela e manifestando l’intenzione di bruciargliela (“La barba! la barba! Te l’accendo con l’accendino”)”. Tra gli impunti ci sono anche i membri del plotone che ha massacrato di botte un detenuto. La descrizione, contenuta nelle carte, è minuziosa. “L’agente della penitenziaria - allo stato non identificato - che ivi lo aveva condotto, lo colpiva violentemente con colpi di manganello sferrati alla testa, alla schiena, al bacino, alle costole e sul viso, e lo minacciava con parole del tipo “tu e tutti i tuoi compagni dovete morire, oggi devi morire”, un altro agente lo afferrava per la barba stracciandogliela, gli sputava addosso e lo percuoteva con pugni al volto, proferendo espressioni del tipo “e mò chi comanda, eh? Sei il mastro del Lazio? lo vedi chi comanda qua?” e circa quindici agenti, allo stato non identificati, lo accerchiavano, gli sputavano addosso, lo insultavano e lo minacciavano con espressioni del tipo “ai romani e ai napoletani oggi abbiamo rotto il culo”, lo colpivano violentemente, provocandone la caduta, nonché lo percuotevano - mentre era a terra - con feroci colpi alla testa, alla schiena, alle costole, al bacino e al volto, sferrati con il manganello e con una sedia di legno”. Il silenzio degli agenti coinvolti nell’inchiesta, dei comandanti di sezione, di reparto non ha nulla di diverso dall’omertà che regna nei territori attraversati da poteri criminali. Se non si aprono crepe in questo fronte omertoso non si ricostruirà l’intera catena di responsabilità sui fatti del 6 aprile. Ma cosa accadde quel giorno e perché? L’orribile mattanza prende avvio nelle ore precedenti al 6 aprile. È la risposta dell’amministrazione penitenziaria, voluta dal provveditore regionale Fullone, alla protesta inscenata il giorno prima dai detenuti. La ricostruzione di quelle ore racconta, fin da subito, la contrapposizione tra uno stato che, in spregio della costituzione, reprime, picchia e depista e un altro che, nonostante le difficoltà, mette sotto accusa pubblici ufficiali e l’intera catena di comando. Il reparto Nilo, che ospita prevalentemente reclusi con problemi di tossicodipendenza e disturbi mentali, è in subbuglio perché c’è un sospetto caso Covid nel reparto adiacente. Le immagini mostrano letti ribaltati, detenuti nei corridoi e di una prolungata battitura. I reclusi coprono le telecamere con indumenti, ma alla fine della protesta sono loro stessi a rimettere tutto in ordine, e non ci sono segni di violenze e danneggiamenti. In cella mancano le mascherine, i colloqui sono sospesi e procede a rilento la consegna delle bottiglie d’acqua. Nel carcere Francesco Uccella, infatti, manca l’acqua potabile. Da sempre. La protesta rientra a tarda sera e vengono informati i vertici. Alle 23.30 di quel 5 aprile, Fullone invia l’ultimo messaggio della giornata all’allora capo del dipartimento, il magistrato Francesco Basentini, non coinvolto nell’inchiesta. “Rientrata protesta. Alla fine, ma proprio un attimo prima che entrassimo. Buona notte”. La protesta, già la sera prima, come scrive il provveditore, era rientrata prima di qualsiasi intervento dall’esterno. E il capo del Dap ne era informato: “Ancora un ottimo lavoro. Notte, Antonio”, i complimenti di Basentini. L’indomani, il 6 aprile il magistrato di sorveglianza Marco Puglia visita il carcere. Quando esce riferisce che nessuna rivolta violenta c’era stata, inviando a tutte le parti un messaggio tranquillizzante. Ma l’altro stato prepara ugualmente una spedizione punitiva. Nelle chat i poliziotti penitenziari si caricano con queste frasi: “li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “chiave e piccone”. La spedizione punitiva, con 283 agenti coinvolti, dura quasi 5 ore. I detenuti del reparto Nilo vengono massacrati di botte da drappelli di agenti disposti in ogni dove: sala socialità, corridoi, celle, scale. L’esito viene comunicato da Fullone a Basentini. Alle 16:48, il provveditore delle carceri campane scrive al numero uno del Dap: “Buona sera capo, è in corso perquisizione straordinaria, con 150 unità provenienti dai nuclei regionali (oltre il personale dell’istituto), nel reparto dove si sono registrati i disordini. Era il minimo segnale per riprendersi l’istituto. Forse le dovrò chiedere qualche trasferimento fuori regione. Il sicuro ritrovamento di materiale non consentito ci potrà offrire l’occasione di chiudere temporaneamente il regime”. Fullone poi specifica che parlava di Santa Maria, dove “il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così”. Nelle carte dell’inchiesta e nelle altre intercettazioni, emerge però che il provveditore campano, considerato dai pm uno dei “registi” della spedizione punitiva, si è adoperato per fabbricare delle prove contro i detenuti, mettendo in atto un depistaggio. Non passa nemmeno un quarto d’ora che Basentini, dopo aver letto il messaggio sulla necessità di un “segnale forte”, manda una risposta di approvazione: “Hai fatto benissimo”. Fullone informa il capo del Dap della “perquisizione straordinaria”, non dei pestaggi, delle violenze e delle torture in corso. Quello che è certo, emerge dalle informative depositate agli atti, è che i carabinieri stigmatizzano il comportamento di Basentini. “Sorprendentemente, benché fosse stata esposta una motivazione del tutto vietata, Basentini manifestava adesione alla scelta del provveditore, “hai fatto benissimo”, scrivono i militari dell’arma. La motivazione - “riprendersi l’istituto” - non giustifica una perquisizione, ma ancora più grave è il riferimento preventivo al “sicuro ritrovamento di materiale”. Materiale che non sarà ritrovato e questo darà alla catena di comando l’idea di costruire prove false per giustificare la mattanza. L’altro stato però si muove subito. Il garante per i detenuti Samuele Ciambriello, e successivamente anche l’associazione Antigone, presentano un esposto in procura, i magistrati si attivano con rapidità, i carabinieri fanno un capolavoro investigativo, sequestrando i video nel giro di 48 ore nonostante gli ostacoli frapposti dagli indagati. Al telefono i poliziotti penitenziari comprendono l’orizzonte, la mattanza non sarà insabbiata. “Nonostante lo sforzo… il film va in onda in forma completa”, si dicono al telefono. Le prime denunce pubbliche di associazioni e familiari, aiutati dal garante Pietro Ioia, vengono silenziate dal dipartimento che smentisce ogni versione e rassicura: “L’ordine è quello di contenere. E il contenimento non prevede mai in alcun caso la violenza”. Due mesi dopo la mattanza, la procura esegue perquisizioni e indaga 57 agenti della polizia penitenziaria. Protestano i sindacati, protesta la politica. Matteo Salvini, già ministro dell’Interno, parla di violenze che non si possono sedare con le margherite. Nel comizio improvvisato all’esterno del carcere trova il sostegno di chi è autore del massacro. Gli indagati organizzano un depistaggio con false foto di olio bollente, era acqua riscaldata, e bastoni, tavoli spezzati dagli stessi agenti, per giustificare la mattanza, depistaggio che trova ampio spazio nelle interrogazioni parlamentari di 15 deputati di Fratelli d’Italia. A settembre, un anno fa, questo giornale titola sulla spedizione punitiva. Un ex detenuto racconta ogni momento di quel giorno e rivela: “Mi hanno interrogato, qualche mese fa, e mi hanno mostrato i video, in quelle immagini mi sono rivisto, ho rivissuto quel giorno”, dice. Poi aggiunge: “Mi creda, non ho mai preso così tanti colpi, manganellate e botte in vita mia e non avevamo fatto nulla, ci hanno massacrati”. Il secondo governo Conte, in aula, parla di ripristino della legalità, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e poi la ministra che lo ha succeduto, Marta Cartabia, non muovono un dito. Aspettano. A giugno di quest’anno vengono disposte 52 misure cautelari, ma la reazione è fredda e di circostanza. La ministra Cartabia parla di fiducia nell’amministrazione penitenziaria, la sua versione cambia quando pubblichiamo i video e solo allora denuncia il “tradimento della Costituzione”. Tradimento che rischia di essere doppio, visto che la riforma che porta il suo nome, non prevede tra i reati esclusi dall’improcedibilità, il reato di tortura e il processo di secondo grado si celebrerà a Napoli, dove i dibattimenti in corte d’appello hanno durata media di oltre 4 anni. La vicenda di Santa Maria racconta di un pezzo di stato che indaga su un altro pezzo deviato e infetto. Segno che gli anticorpi funzionano, esempio di una magistratura e di una polizia giudiziaria, i carabinieri di Caserta, che onorano la carta costituzionale. Inquirenti che sono al lavoro per identificare gli agenti coperti dai caschi, ma anche per ricostruire quanto accaduto al giovane detenuto algerino morto un mese dopo l’orribile mattanza. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari a carico degli aguzzini c’è un numero che racconta un orrore unico nella storia della Repubblica italiana. Le persone offese sono 172, e al numero 15 si legge: “Prossimi congiunti di Hakimi Lamine (nato il 25 maggio 1992, in Algeria, Annaba) tramite l’ambasciata della Repubblica algerina democratica popolare”. Lamine Hakimi non c’è più, è morto il 4 maggio 2020, dopo un pestaggio violento e reiterato, dopo essere stato condotto in un cella di isolamento sulla base di una falsa informativa, dopo essere stato trattenuto oltre il termine previsto, dopo essere stato “privato di controlli giornalieri nel luogo di isolamento, da parte sia di un medico, sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento, sia della vigilanza continuativa e adeguata da parte del personale di polizia penitenziaria, privato del necessario ausilio di piantone (…) modalità di segregazione devastante per la sua affezione di disturbo di personalità (…) situazione di abbandono, morale e materiale, tale da indurlo all’assunzione incontrollata di terapia farmacologica (…) in decisiva sinergia con la sostanza stupefacente buprenorfina, determinava edema polmonare, con terminale arresto cardiaco, così da cagionarne la morte”. Risponde di omicidio colposo l’intera catena di comando. Sono indagati il provveditore regionale Fullone, il direttore reggente Maria Parenti, il vice direttore Antonio Rubina, il comandante Gaetano Manganelli, il comandante nucleo traduzioni Pasquale Colucci e altri 8 agenti di vertice. Una catena di comando rimasta saldamente al suo posto nonostante avessimo indicati nomi, cognomi e responsabilità e che ora rischia il processo per una sfilza di reati, processo che vedrà lo stato democratico contro quello spietato e spergiuro, protagonista dell’orribile mattanza. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto ha il cancro, il Garante chiede i domiciliari Corriere del Mezzogiorno, 15 settembre 2021 Il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, si è recato presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dove ha incontrato, nel reparto infermeria, diversi detenuti con malattie oncologiche sottoposti a chemioterapia, tra i quali Giovanni C. L’uomo, ha riferito Ciambriello, è stato dimesso dall’ospedale Cardarelli di Napoli il 16 luglio scorso dopo un mese di degenza, con la dicitura “la prognosi del paziente è infausta e l’exitus può accadere in qualsiasi momento per la comparsa di complicanze non prevedibili”. Diverse volte, anche dall’ospedale di Sessa Aurunca, Giovanni C. “è stato rimandato indietro perché non in grado di gestire la sua condizione”, sottolinea il garante. Dalla direzione sanitaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 19 luglio, è stata poi inoltrata alla Corte di Assise d’Appello (IV sezione) una ulteriore dichiarazione di incompatibilità, che non ha avuto per ora riscontro. “Ancora oggi - ha affermato Ciambriello - mi chiedo come mai non gli vengano concessi gli arresti domiciliari presso l’abitazione della sorella. È uno dei pochi casi in Campania in cui l’incompatibilità con il sistema carcerario è stata dichiarata tale da più strutture pubbliche. Il diritto alla salute è incompatibile con la permanenza in carcere, per Giovanni C. in primis e per tutti coloro che versano in condizioni fisiche precarie. C’è bisogno di strutture di accoglienza, anche e soprattutto per i detenuti che non hanno supporto familiare. Insomma la pena non può configurarsi come vendetta. Chi è incompatibile con il carcere, deve uscire dallo stesso, ma non da morto”. Il Garante ha poi continuato la sua visita ascoltando una delegazione di detenute del reparto Senna (Alta Sicurezza), ed ha incontrato i responsabili e i 20 ristretti dell’articolazione psichiatrica nel reparto Nilo. Sassari. A “scuola” di giustizia riparativa nelle carceri di Bancali e Uta La Nuova Sardegna, 15 settembre 2021 “Mediamo Insieme”. Questo il nome del progetto avviato nel mese di ottobre 2020, promosso e coordinato dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna del ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Finanziato con fondi dipartimentali e in cospicua parte con finanziamenti della Regione, a seguito di procedura di co-progettazione, l’attuazione delle attività è stata affidata alla Cooperativa Dike per la mediazione dei Conflitti di Milano, quale soggetto capofila in Ats con l’associazione Filos di Sassari e l’Associazione Medias di Cagliari. Le attività del progetto si caratterizzano come un servizio a dimensione regionale a carattere gratuito, rivolte a soggetti imputati e condannati in carico agli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) della Sardegna. I presupposti imprescindibili sono l’adesione libera e volontaria sia degli autori di reato che delle vittime, identificate anche in esponenti della comunità, quest’ultima in qualità di destinataria degli interventi di giustizia riparativa e di interlocutore attivo che riaccoglie il reo e che diffonde la cultura della giustizia riparativa. Elemento innovativo e qualificante il progetto, è stato la sperimentazione degli interventi di giustizia riparativa in ambito penitenziario, frutto della collaborazione attivata con il Provveditorato Regionale dell’amministrazione Penitenziaria della Sardegna che ha aderito alla proposta, unitamente alle direzioni degli istituti interessati. Sono stati coinvolti due istituti penitenziari della Sardegna: la Casa circondariale Ettore Scalas di Uta-Cagliari e la Casa circondariale G. Bacchiddu di Bancali-Sassari. In particolare in entrambi gli istituti è stata realizzata l’attività di Community Group Conferencing, che ha coinvolto circa 15 persone detenute, 15 operatori penitenziari di diverse professionalità (area educativa, area sicurezza polizia penitenziaria e funzionari servizio sociale dell’Uepe e 15 cittadini (facenti parte di associazioni e/o rappresentanti di quartiere rappresentanti le vittime e la comunità lesa dal reato). Gli incontri di gruppo affiancati da 4 mediatori, di cui 2 mediatori formatori Dike e 2 mediatori dell’associazione Filos operanti a Sassari, hanno rappresentato un importante spazio di confronto e di riflessione allargata sul disvalore e la responsabilità connessi alla commissione di un reato e agli effetti dannosi nei confronti delle vittime e sul significato del riparare e sulle possibili azioni da mettere in atto. Questa esperienza ha consentito l’avvio di un dialogo tra i componenti dei tre gruppi (operatori, persone detenute e cittadini) su come la giustizia riparativa possa diventare un “forte” strumento di risoluzione dei conflitti non solo in ambito intramurario ma anche extra-murario. Roma. Rebibbia cambia pelle: un polo universitario e un nuovo regolamento più “umano” quotidiano.net, 15 settembre 2021 L’Università Roma Tre sta per attivare un polo didattico all’interno del carcere, mentre l’Associazione Antigone ha lavorato a nuove regole centrate sulla dignità delle persone e la prevenzione degli abusi. Roma, 14 settembre 2021 - Un polo universitario all’interno del carcere di Rebibbia e un nuovo regolamento carcerario, inserito in un percorso disciplinare a 360 gradi orientato al rispetto della dignità della persona, alla riduzione dell’isolamento e alla prevenzione degli abusi. Sono gli elementi cardine del progetto che sta per nascere con l’Università Roma Tre all’interno della casa circondariale, dove già esiste una delegazione di detenuti iscritti all’università. La Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild) ha donato 5 pc e stampanti, mentre l’Ateneo Roma Tre sta attivando i corsi. I dettagli del progetto verranno svelati lunedì in conferenza stampa, alla presenza di una del presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, il garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, il rettore di Roma Tre, Luca Pietromarchi, e il presidente del Cild, Arturo Salerni. Oltre ai percorsi universitari, il piano complessivo che sta per essere lanciato riguarda anche il recupero sociale dei detenuti e la loro qualità della vita all’interno del carcere. Più possibilità di contatti telefonici e visivi dei detenuti con i familiari, un maggiore uso delle tecnologie nelle carceri, azioni per il rispetto della persona anche attraverso la prevenzione degli abusi. Perché i drammatici fatti accaduto al carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano, non si ripetano mai più in nessun altro luogo di detenzione. Prevedono e molto altro le proposte per un nuovo regolamento penitenziario elaborate dall’associazione Antigone. Saranno presentate il 20 settembre nel carcere romano di Rebibbia, un luogo simbolico di un’organizzazione della vita interna “più attenta ai bisogni e i diritti delle persone detenute”. I detenuti di Rebibbia e il dono al Papa “Ecco il nostro pane” La Spezia. Al Teatro degli Impavidi entrano in scena i detenuti di Villa Andreino gazzettadellaspezia.it, 15 settembre 2021 L’evento fa parte del progetto “Per Aspera ad Astra” promosso da Acri e 12 fondazioni di origine bancaria italiane tra cui Fondazione Carispezia. Venerdì 24 settembre alle ore 21.00 al Teatro degli Impavidi di Sarzana verrà presentato il primo studio dello spettacolo “Operine... con un tragico sorriso sulle labbra” che vedrà in scena gli attori-detenuti della Casa Circondariale della Spezia. L’opera è il frutto della terza annualità (e rappresenta l’avvio della quarta) del progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso su tutto il territorio nazionale da Acri e sostenuto oggi da 11 Fondazioni di origine bancaria, tra cui Fondazione Carispezia. Il percorso teatrale all’interno della casa circondariale “Villa Andreino” della Spezia è curato fin dalla prima edizione dall’Associazione Gli Scarti, che in questi anni ha realizzato uno spettacolo teatrale “Incendi” (presentato nel 2019 alla Spezia) e il mediometraggio “Ciò che resta, appunti dalla polvere”, film che è stato presentato con una proiezione pubblica la scorsa estate a Sarzana con il critico Tatti Sanguineti e alla presenza degli attori detenuti che hanno partecipato alla sua realizzazione. Giunto nel 2021 alla quarta edizione, “Per Aspera ad Astra” sta realizzando in 14 carceri italiane innovativi e duraturi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro, che riguardano non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Ispirata all’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo, questa iniziativa ha dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, che possa quindi favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Ad alimentare e rendere fattibile questo progetto c’è un’inedita comunità, composta da diversi soggetti, coinvolti ciascuno con ruoli diversi: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali che curano la formazione, direttori e personale degli istituti di pena, detenuti. Alla Spezia i laboratori teatrali sono curati da Enrico Casale, Renato Bandoli e Simone Benelli, e i laboratori tecnici da Daniele Passeri, Fabio Clemente, Alessandro Ratti dell’Associazione Gli Scarti. Quello che verrà presentato al Teatro degli Impavidi di Sarzana il prossimo 24 settembre è un “primo studio” di uno spettacolo che nel corso della prossima edizione del “Progetto Per Aspera ad Astra”, vorrebbe indagare e approfondire le forme del “comico grottesco”, del meccanismo della comicità, attraverso lo stile popolare del Varietà. Lo studio attinge al grottesco surrealismo che “con un sorriso sulle labbra” ci parla del tragico, di una realtà, che mostra però i lati più vuoti di essa, l’insensatezza del mondo e la sua incomprensibilità. “Io - dice Petrolini nella Intervista con il più intelligente fra gli idioti del 1920 - studio l’ignoranza, sondo la stupidaggine, anatomizzo la puerilità, faccio la vivisezione di ciò che è grottesco e imbecille sull’esistenza del prossimo e le marionette che ricavo da questa mia fatica particolare non sono niente altro che la scelta colta a volo e cristallizzata nella ridicola smorfia di una maschera che resta come un documento adattissimo per arricchire il museo della cretineria”. Per l’appunto, l’idiozia come supremo e, perché no, piacevole momento del grottesco. Ingresso gratuito fino a esaurimento posti su prenotazione obbligatoria, e con obbligo di Green Pass. Prenotazioni al numero 346-4026006 inviando un messaggio tramite Watsapp (o via mail a teatroimpavidi@associazionescarti.it) con nome e numero di posti richiesto; o recandosi fisicamente presso la biglietteria del Teatro degli Impavidi aperta tutti i martedì e giovedì dalle 9.30 alle 12.30; o telefonando al numero indicato sopra negli orari di apertura della biglietteria. “Per Aspera ad Astra” è un progetto promosso da Acri (l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuto oggi da Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna, Fondazione Tercas. Contro i nostalgici del manicomio, cancellare il Codice Rocco di Stefano Cecconi* Il Manifesto, 15 settembre 2021 La questione della salute mentale è tornata davvero nell’agenda politica? Spinte anche dagli effetti dell’emergenza pandemica, importanti agenzie istituzionali hanno dichiarato urgente dedicare attenzione per le condizioni delle persone che soffrono disagio mentale. Il direttore generale Oms ha rivolto ripetuti richiami ai governi affinché “assumano impegni ambiziosi … per supportare e prendersi cura delle persone affette disturbi mentali e proteggere i loro diritti umani e la loro dignità”. Il ministero della Salute italiano (va detto: sollecitato dalla pressione delle associazioni del “Coordinamento nazionale salute mentale”) ha organizzato, dopo vent’ anni di blackout, la 2a Conferenza nazionale per la Salute Mentale. Nella Conferenza, che ha visto migliaia di partecipanti, gli interventi dei ministri della Salute e della Giustizia sono stati rivolti anche alle condizioni di salute delle persone detenute, in carcere o in Rems. Perfino al “G20 Salute” di Roma è stata dedicata una sessione specifica al tema della salute mentale. Primi segnali di attenzione arrivano dal versante dei finanziamenti: per il 2021 sono stati vincolati 60 milioni aggiuntivi per progetti destinati a “rafforzare i Dsm, per il superamento della contenzione meccanica, per la qualificazione dei percorsi … dei pazienti con disturbi psichiatrici autori di reato”. Segnali incoraggianti dunque. Tuttavia sappiamo bene che non bastano. Forti sono anche le resistenze e i ritardi nell’applicare la riforma che ha chiuso i manicomi giudiziari, la legge 81/2014. Il monitoraggio e la manutenzione del delicato e difficile processo di superamento degli Opg è stato dimenticato da Governo e Regioni. Così si è trascurato di valorizzare la parte della riforma che privilegia i progetti di cura e riabilitazione con misure alternative alla detenzione. In questo modo si sono sovraccaricate le Rems (e i loro operatori) di compiti impropri (mentre dovrebbero essere extrema ratio); si è alimentata una patologica lista di attesa per l’ingresso in Rems di persone spesso con misura di sicurezza provvisoria, che quasi sempre trovano risposta in contesti di cura non custodiali, smentendo chi reclama un aumento delle Rems e vuole cancellare il vincolo del numero chiuso. In questa situazione un magistrato di Tivoli ha presentato una questione di legittimità costituzionale. La Consulta, per ora, ha risposto chiedendo al governo chiarimenti sullo stato di attuazione della legge 81/2014. Bisogna reagire, con segnali chiari e forti: prima di tutto riattivare l’Organismo nazionale di monitoraggio per accompagnare e sostenere il superamento degli Opg. Questo è un impegno assunto dal governo proprio nel corso dell’ultima Conferenza salute mentale: occorre pubblicare subito il decreto di nomina. Ma occorre fare di più: abolire gli articoli del codice Rocco che destina i “folli rei” non imputabili al binario speciale della misura di sicurezza, mantenendo così la separazione tipica della logica manicomiale. Da questa consapevolezza è nata la decisione di agire in via legislativa per superare la non imputabilità per vizio di mente e prefigurare misure alternative alla detenzione, con la presentazione della proposta di legge n. 2939 alla Camera dei Deputati, a firma Riccardo Magi. L’abolizione del doppio binario per i “folli rei”, completando la riforma per il superamento degli Opg, può restituire cittadinanza e, insieme, reclama un cambiamento radicale della drammatica condizione nelle carceri, il potenziamento delle misure non detentive, un rilancio dei servizi per una salute mentale di comunità, per assicurare il pieno diritto alla tutela della salute e alla cura. Di tutto questo si discuterà nel seminario “Salute mentale e folli rei: lo stato dell’arte e la battaglia per la riforma” in programma a Treppo Carnico dal 17 al 19 settembre (www.societadellaragione.it/treppo). *Osservatorio StopOpg Dalla cannabis all’eutanasia, boom di firme per i referendum di Viola Giannoli e Giovanna Casadio La Repubblica, 15 settembre 2021 Grazie alla procedura digitale sono 330 mila in 3 giorni le sottoscrizioni per abrogare il reato di coltivazione per uso personale. L’ipotesi di voto in primavera su nove quesiti: ci sono anche i sei sulla giustizia e la caccia. Il boom non era atteso. Sono 330 mila le firme digitali in tre giorni per il referendum sulla cannabis e altrettante per quello sull’eutanasia (che però con le sottoscrizioni raccolte con il vecchio metodo di moduli, autenticatori e banchetti ha sforato la quota delle necessarie 500 mila). Nessuno avrebbe scommesso sulla voglia di referendum, e peraltro su temi scomodi - la droga e il fine vita - che i partiti tendono a giocarsi ai dadi dei veti incrociati e delle campagne elettorali. Riccardo Magi, di + Europa, tra i promotori del quesito sulla cannabis che elimina il reato di coltivazione e rimuove le pene detentive e amministrative, dice: “Il referendum vola, e questo è un segnale alla politica”. Ci sono voluti due anni di lavoro per un testo in Parlamento, che è già sotto i colpi della propaganda politica e, in parallelo, per un referendum abrogativo con l’Associazione Luca Coscioni, il Forum Droghe, Meglio legale, Antigone e decine di altri movimenti. Solo sabato scorso, l’11 settembre, è stata aperta la raccolta firme. Ed ecco il record di adesioni. Di certo le firme digitali hanno fatto da detonatore della partecipazione e hanno aperto la strada alla stagione referendaria della prossima primavera 2022. Se saranno superati tutti gli step - ovvero verifica delle firme in Cassazione prima e il vaglio di ammissibilità dei quesiti da parte della Consulta poi - saranno forse nove i quesiti, a cui aggiungerne uno sulla caccia. Oltre a eutanasia e cannabis, ci sono anche i sei quesiti sulla giustizia i cui promotori sono Partito Radicale con Maurizio Turco e Matteo Salvini e la Lega. La rivoluzione per cui ora basta possedere Spid o carta d’identità elettronica per la sottoscrizione (ma si è aggiunta la possibilità di riconoscimento a distanza attraverso una speciale piattaforma) si deve all’ostinazione di Marco Gentili, co-presidente dell’Associazione Coscioni e malato di Sla. È stato l’incontro tra lui e il ministro per la Transizione digitale, Vittorio Colao ad aprire la breccia che ha avuto nel quesito sull’eutanasia il suo banco di prova. Anche in questo caso, alla Camera si procede con un testo di legge, ma al rallentatore. Il blitz “firme online” è riuscito grazie a un emendamento di Magi al Decreto Semplificazioni in Parlamento, che ha accelerato i tempi rispetto a quelli previsti dal governo. “Una rivoluzione”, ripete Magi. Commenta Mario Staderini: “La firma digitale ha aperto la gabbia della democrazia con due effetti: far tornare i referendum in mano ai cittadini, sottoscritti direttamente da loro (l’ultimo referendum popolare è del 2011) e imporre nell’agenda politica questioni scomode per i partiti e gli equilibri di potere”. Ex segretario dei radicali, fondatore di “Democrazia radicale”, Staderini ha richiamato l’attenzione del Comitato dei diritti umani dell’Onu sulla burocrazia e gli impedimenti che in Italia boicottavano di fatto referendum e leggi di iniziativa popolare. E nel 2019, il comitato Onu ha condannato l’Italia per violazione del patto internazionale sui diritti politici, dal momento che “irragionevoli ostacoli” rendevano impervio promuovere referendum, tanta e tale era la difficoltà di raccogliere le 500 mila firme necessarie. Ma è la politica oggi ad essere chiamata in causa. L’astensione nelle urne aumenta, i partiti sono messi in discussione, mentre i referendum avanzano? Sempre Staderini sospetta: “Qualcuno sarà spaventato e tenterà di aumentare il numero di firme a un milione per i referendum abrogativi magari porre nuove restrizioni. Ma ormai il treno della partecipazione è partito e non si dica che i referendum saranno troppi e la gente confusa”. Nel 1993 si votò per 8 quesiti, andò a votare il 75% degli elettori con risultati diversi, ad esempio ci fu un 90% di sì per abrogare il finanziamento ai partiti. Per presentare le firme c’è tempo fino al 30 ottobre e l’estensione dovrebbe riguardare anche la cannabis. Referendum e firme online, Flick: “Serve l’equilibrio tra popolo e Parlamento” di Liana Milella La Repubblica, 15 settembre 2021 Il presidente emerito della Corte costituzionale “Probabilmente serve alzare la richiesta di 500mila sottoscrizioni: è stato fissato nel 1947 quando la popolazione italiana era largamente inferiore a quella attuale”. Professor Flick ha visto il boom delle firme sul referendum per la cannabis? Ben 333mila in tre giorni. Merito della firma digitale. Che impressone le fa? “Innanzitutto, nel dialogo tra popolo e Parlamento il primo sta prendendo consapevolezza della propria forza e della possibilità di farsi ascoltare. Evidentemente l’argomento del referendum, le discussioni precedenti e annose sul tema, hanno influito sull’esplosione di consensi che non credo possa imputarsi soltanto, se non in parte, alle facilitazioni della raccolta e autenticazione delle firme”. Non crede che tutto dipenda dalla possibilità di firmare da casa anziché trovare un banchetto per strada? “Intanto la procedura del banchetto è stata allargata anch’essa aggiungendo la possibilità di firmare davanti a un avvocato, oltreché davanti a notai, cancellieri e segretari comunali. E poi, con una procedura un po’ più complicata, si può accedere a una piattaforma digitale della pubblica amministrazione e in quella sede inviare la propria adesione con una firma digitale” Se i nuovi sistemi di raccolta delle firme favoriscono risultati così imponenti non sarà il caso di alzare l’attuale quorum di 500mila firme? “Probabilmente sì anche perché quel quorum è stato fissato nel 1947 quando la popolazione italiana era largamente inferiore a quella attuale”. Dove metterebbe l’asticella? “Lei la fa troppo semplice. Il problema è squisitamente politico e la politica deve risolverlo in un contesto che valorizzi la voce del popolo, ma non delegittimi il Parlamento”. Un momento. A delegittimare le Camere sono i cittadini con le loro firme. Nella prossima primavera, se tutti i referendum in ballo dovessero ottenere il via libera della Consulta, ci potremmo trovare a votare per otto quesiti... “E questo vorrebbe dire cambiare in buona parte il volto del Paese: quello che molti, se non quasi tutti, domandano. D’altra parte la Costituzione fissa i paletti oltre i quali non si può andare: leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di ratifica di trattati internazionali. Mi pare però che l’inerzia del Parlamento non possa semplicisticamente arrivare a svuotare le Camere stesse. Occorre trovare un punto di equilibrio che si fondi sulla democrazia rappresentativa”. I referendum potenziati anche dalla firma digitale erodono l’esistenza del Parlamento? “No, non siamo a questo punto, ma dobbiamo pensarci molto seriamente, anche perché a differenza delle leggi di iniziativa popolare per introdurne di nuove attraverso il Parlamento il referendum ammesso cancella quelle esistenti”. Ammetterà che c’è un’inaccettabile lentezza delle Camere nell’affrontare questioni prioritarie per gli italiani come l’eutanasia. “Non mi citi proprio l’eutanasia perché qui il discorso sarebbe ben più lungo. Come lei sa io sono contrario. Ma non c’è dubbio che troppe volte il Parlamento ha eluso problemi drammatici sui quali l’opinione pubblica è lacerata in posizioni contrapposte. E occorre perciò una mediazione equilibrata, pensi ad esempio al sovraffollamento delle carceri e alle sue conseguenze di cui si continua soltanto a parlare”. Cannabis, intervista a Riccardo Magi: “Il referendum vola. Un segnale forte alla politica” di Viola Giannoli La Repubblica, 15 settembre 2021 Il presidente di +Europa è tra i promotori del quesito che elimina il reato di coltivazione, rimuove le pene detentive e amministrative. “La firma digitale? Una rivoluzione”. Due anni di lavoro per un testo in Parlamento e, in parallelo, per un referendum abrogativo con l’associazione Luca Coscioni, il Forum Droghe, Meglio Legale, Antigone, Società della Ragione ed esponenti di +Europa, Possibile e Radicali italiani. Il 7 settembre il quesito è arrivato in Cassazione, l’11 è stata aperta la raccolta firme su www.referendumcannabis.it. Riccardo Magi, parlamentare e presidente di +Europa, è tra i promotori. A 72 ore dal via avete raggiunto 330 mila adesioni. Un successo... “Assolutamente sì. È come se ci fosse stata un’attesa nel Paese e questo per me è commuovente. Quest’esplosione di firme è la dimostrazione che alcuni leader politici dovrebbe andare più cauti nello stabilire cosa interessa ai cittadini visto che hanno subito commentato sostenendo che non fosse una priorità. Si dice sempre che soprattutto i giovani non si occupano di politica, forse perché hanno la sensazione che la politica si occupi poco di loro, di cosa gli sta a cuore”. La commissione Giustizia della Camera aveva approvato un testo base sulla cannabis, perché c’è bisogno del referendum? “Appena abbiamo adottato il testo base esponenti nazionali di centrodestra come Salvini, Gasparri, Pillon hanno aperto un fuoco di fila annunciando che sarebbero piovuti migliaia di emendamenti e che la legge sulla cannabis non si sarebbe potuta mai toccare. È un tabù e un tema del tutto espulso dall’agenda politica. Era necessario attivare la via referendaria proprio per contrastare gli ostacoli parlamentari. A nessuno come a me che due anni fa ho avanzato una proposta di legge e poi ho lavorato per arrivare al testo base in Commissione sta a cuore andare avanti con l’iter parlamentare, ma deve venir fuori la volontà politica dalla maggioranza che l’ha votato (Pd, M5s, Leu, ndr)”. E invece? “Quella volontà sta latitando. Avevo chiesto che ci fosse subito un impegno a trovare una corsia per portarlo rapidamente in Aula. Non ho avuto risposte. E io credo che sia un errore perché è un grande tema sociale che coinvolge 6 milioni di consumatori e tocca il tema della lotta alle mafie, delle carceri sovraffollate, dei tribunali soffocati dai processi, della salute dei cittadini, dell’informazione sulle sostanze, dello scandalo sanitario sulla mancanza di dosi per chi ne fa uso terapeutico. Se non lo accoglie e fa suo il fronte riformatore e progressista, chi lo fa?”. Cosa chiede il quesito referendario? “Rimuove le pene detentive per tutte le condotte legate alla cannabis, che tra l’altro ingolfano le carceri, e cancella la sanzione amministrativa della sospensione della patente per chi detiene cannabis per uso personale, che non ha niente a che fare con il ritiro della patente per guida sotto sostanze stupefacenti che invece resta e siamo convinti debba restare”. Se vincesse il sì al referendum non si creerebbero vuoti normativi sulla detenzione e l’uso delle sostanze che chiamerebbero comunque il Parlamento a dover legiferare? “Abbiamo fatto lo sforzo di individuare un quesito che fosse ammissibile per la Corte costituzionale e chiaro, che spinge verso la regolamentazione e la legalizzazione della cannabis. La legge 73 sulla quale il referendum interviene potrebbe funzionare anche così ma è chiaro che ci sarebbe un’indicazione popolare evidente e il Parlamento potrebbe a quel punto intervenire per istituire un nuovo regime di regolamentazione non solo del consumo ma anche della produzione e del commercio della cannabis”. Torniamo alla firma digitale... “È una rivoluzione, frutto di un lavoro lungo avviato da Mario Staderini che portò le difficoltà italiane nel promuovere il referendum fino all’Onu e conclusa da me per la sua introduzione già da quest’anno. I cittadini dialogano già con la pubblica amministrazione attraverso Spid e firma digitale, era incomprensibile che non si utilizzasse anche per il referendum”. Non c’è il rischio di una proliferazione dei quesiti visto che sembra così facile raccogliere le firme come per una qualsiasi petizione? “Quando i nostri costituenti hanno concepito il referendum abrogativo non hanno pensato, credo, a fare una corsa a ostacoli per votare: non dobbiamo pensare solo a chi vive a Roma o a Milano ma anche in paesi e province dove i banchetti non arrivano. E poi io penso che le persone riconoscano quando gli viene proposta e offerta la possibilità di esprimere la propria volontà in maniera seria e credibile. Non è solo una questione di forma ma anche di contenuto. Il referendum è una cosa seria: non serve solo a far pressione ma ad aprire un dibattito nel Paese, a convocare il corpo elettorale, non è un voto tanto per, iscrivendosi con una mail. Se poi ci sarà da riformare l’istituto referendario lo vedremo”. Lavoro nero, la sanatoria fallita: esaminato il 34% delle domande di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 15 settembre 2021 Emersione, definite 71 mila istanze su 207 mila. Nei campi regnano ancora i caporali. Si chiamava Joban Singh e tutti noi, in Italia, gli dovremmo forse qualche scusa. Perché questo bracciante indiano, sfruttato dai caporali nei campi dell’Agro Pontino e morto suicida a Bella Farnia, nel ghetto dei sikh alle porte di Sabaudia, racconta col suo gesto l’inganno del nostro Stato verso migliaia di migranti e lavoratori in nero: la regolarizzazione promessa e fallita in tempi di Covid, tra grotteschi percorsi burocratici, carenze di personale e, soprattutto, ambiguità politiche. A sedici mesi dal varo della sanatoria voluta, anche per tutelare la salute pubblica in piena pandemia, dall’allora ministra all’Agricoltura, Teresa Bellanova, solo un terzo delle 207 mila domande di emersione è stato definito dalle prefetture, con gravi ritardi nelle grandi città (Roma, ora segnalata in ripresa dal Viminale, a fine maggio era un caso clamoroso, con due pratiche esaminate a fronte di 16 mila istanze): 60 mila sono stati per ora i sì e circa 11 mila i no, tra dinieghi e rinunce. Altre 64 mila pratiche pendono, in attesa di pareri e integrazioni, a metà strada col ministero del Lavoro. Di questo passo, però, si può andare avanti per anni, in un gioco dell’oca fra troppe competenze. E, soprattutto, è stato mancato il vero bersaglio del provvedimento, che dapprincipio dichiarava l’ambizione di fare emergere oltre 600 mila irregolari in Italia. Solo in agricoltura, secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil, sono stati 450 mila nel 2020 i lavoratori sfruttati, di cui 180 mila in condizioni “prossime alla schiavitù” (40 mila in più rispetto al 2018). L’85% della sanatoria ha riguardato invece colf e badanti. Ignorati dall’inizio edili e addetti a trasporti, commercio o turismo, il bracciantato agricolo è stato escluso, de facto, dai difetti della normativa. Teresa Bellanova lo ammette ma rilancia, polemica: “Io avrei incluso tutte le categorie, ma ho combattuto da sola, per l’ostilità del premier Conte e della collega Catalfo: l’allora ministra del Lavoro propose che la regolarizzazione si facesse per un solo mese... un insulto a chi voleva emergere”. Quali che siano stati davvero i contrasti in una maggioranza forse in parte nostalgica di altre alleanze, l’eccesso di centralità del datore di lavoro nella regolarizzazione s’è rivelato un ostacolo insuperabile in terre di prevaricazione. Così come fuori dalla realtà appaiono il ricorso diretto alle questure (il cosiddetto “secondo canale” della sanatoria) per chi è legato mani e piedi al caporalato o la richiesta di “idoneità alloggiativa” a chi spesso vive nelle baraccopoli. Si è creata insomma una terra di mezzo nella quale il bracciante immigrato (in possesso di ricevuta delle Poste che ne attesti l’attesa del primo permesso di soggiorno) può, sì, lavorare ma deve magari aspettare anche mesi per l’iscrizione all’anagrafe o alla Asl, alla ricerca di chi gli dia una residenza vera o fasulla. “Sì, si poteva fare in modo più semplice, se parte della politica non costruisse una narrazione di paura sui migranti”, dice Bellanova: “Avrei voluto subito personale dedicato. So bene che la ministra Lamorgese ha dato indicazioni di priorità alle prefetture, ma per reperire personale è dovuta ricorrere a un bando europeo”. La storia di Joban Singh (tredicesimo sikh suicida nei campi in quattro anni) è esemplare. Attratto da un miraggio di normalità, il venticinquenne venuto dal Punjab si rivolge al suo caporale (indiano come lui) convinto che con 150 euro (e 500 circa a carico del padrone) possa mettersi in regola. In fondo, pensa, glielo devono: ha lavorato spesso 26 giorni al mese (con solo 4 giorni registrati in busta paga) per appena 400 euro. I suoi sfruttatori gliene chiedono invece quasi diecimila, un vero riscatto, per accompagnarlo nell’iter di emersione. Quando realizza di essere prigioniero (suo padre è appena morto in India e lui non può andare a onorarlo), Joban si impicca, pochi giorni dopo l’entrata in vigore del decreto-legge che avrebbe dovuto liberarlo. Marco Omizzolo è il giovane sociologo Eurispes che ha svelato il sistema delle agromafie e del caporalato pontino. Deve vivere sotto tutela, Mattarella lo ha fatto cavaliere al merito. Ha creato il progetto “Dignità - Joban Singh” per garantire assistenza gratuita agli schiavi dei campi. Dice che è “un tradimento dello Stato chiedere a qualcuno di farsi avanti, rischiando, e poi girargli le spalle”. La pandemia ha aggravato la situazione da Nord a Sud, azzerando o quasi i controlli degli ispettori del lavoro. Secondo l’Osservatorio di Tempi Moderni oltre 300 mila braccianti immigrati lavoravano, prima del Covid, meno di 50 giornate l’anno stando ai dati ufficiali (la stima reale è il triplo). Nel 2020 il numero ufficiale delle loro giornate di lavoro s’è ridotto del 20%, a fronte di una diminuzione della produzione agricola del 3,2 % (fonte Istat) e della scomparsa dai campi dei bulgari e dei romeni causa restrizioni sanitarie. La filiera è stata palesemente sostenuta con l’aumento delle ore in nero. “Molto lavoro è stato fatto con il caporalato nei ghetti”, conferma la Bellanova: “Del resto non si può scaricare tutto sugli imprenditori agricoli. Ci sono delinquenti, sì, ma anche tante microimprese che purtroppo reggono solo se non rispettano i contratti”. È la tirannia delle grandi filiere: “Se al supermercato spendi troppo poco, dovresti farti qualche domanda”. Il ghetto strutturato significa caporalato come “mediazione della manodopera, che precede tutte le altre forme di servizio criminale”, osserva Leonardo Palmisano, che da anni studia in Puglia queste marginalità: le mafie ci si saldano. L’European House Ambrosetti calcola in Italia circa 80 distretti agricoli gestiti da caporali. Un’indagine parlamentare delle Commissioni Lavoro e Agricoltura riconosce che l’impianto della legge 199 del 2016 (nata dopo la morte della bracciante pugliese Paola Clemente) è “largamente inattuato” nella prevenzione del fenomeno e auspica una riforma “delle modalità d’ingresso degli stranieri per ragioni di lavoro nel nostro Paese”. Il nodo è questo, la sovrapposizione colpevole di due questioni, lavoro nero e immigrazione illegale, che rende entrambe insolubili, come osservano i giuslavoristi William Chiaromonte e Madia D’Onghia: la sanatoria (siamo all’ottava) è, in assenza di una regolazione seria dei flussi (bloccata da eterne polemiche di fazione), “il principale strumento di politica migratoria e di legalizzazione della presenza straniera”. Per citare Massimo Livi Bacci, i nostri governi hanno “rinunciato a governare l’immigrazione” per affidarsi a ciclici provvedimenti che assorbano chi si trova, irregolarmente, tra noi. Ora qualcosa si muove. Un Tavolo Caporalato al ministero del Lavoro ha elaborato “linee guida” per “tutelare e prendere in carico” le vittime di sfruttamento in agricoltura, agevolandone l’integrazione. Il dossier è stato trasmesso al governo a fine agosto per andare in Conferenza unificata (con Regioni, Province, Comuni, Comunità montane...): non bisogna lasciarsi scoraggiare dall’infinità di passaggi necessari a un Paese dalla capacità decisionale frammentata in mille rivoli. Una buona idea di base c’è, ed è creare un corridoio facile e protetto per chi voglia uscire dalla schiavitù senza passare per le forche caudine di caporali e padroni. Che porti davvero a un concreto passo di civiltà in campagne come quelle che hanno rubato la vita a Joban Singh è, dopo tante parole al vento, difficile da credere. Ma è il minimo da sperare. Migranti. L’umanità interrotta sulla rotta balcanica di Serena Tarabini Il Manifesto, 15 settembre 2021 A distanza di mesi dall’incendio del campo di Lipa, al confine tra Bosnia e Croazia poco o nulla è cambiato. Migliaia di migranti afgani e pakistani vivono in condizioni abominevoli. Umar ha 56 anni e viene da Meydan Shahar, una città dell’Afghanistan centrale molto vicina a Kabul. È un Hazara, gruppo etnico minoritario di origine turco-mongolica e di fede sciita, dedito prevalentemente all’allevamento e che nelle città costituisce un sottoproletariato oggetto di discriminazioni diffuse. In Afghanistan faceva il carrozziere e se ne è andato per motivi politici “Mio padre è stato messo in prigione dai talebani due volte” racconta uno dei figli “lo accusavano di parlare con i militari, lo consideravano una spia, lo minacciavano di morte”. Si sono messi in cammino più di un anno fa e la loro meta è Francoforte. È una grande famiglia che dispensa sorrisi anche mentre racconta delle violenze subite dalla polizia croata durante l’ultimo tentativo di passare il confine pochi giorni fa. Siamo in Bosnia-Erzegovina, ma sembra di essere su di un altipiano dell’Asia centrale. In una grande radura pianeggiante disseminata di tende e tappeti, uomini, donne e bambini dai tratti caucasici parlano, cucinano, lavano, riposano, giocano. Sono almeno 300, vengono tutti dall’Afghanistan, fra di loro etnie diverse, anche Pashtun. Ci troviamo a Velika Kladuša, sul confine con la Croazia e questo grande accampamento si è formato in primavera. A lato di un piccolo corso d’acqua, usato per lavarsi e cucinare, e di un tubo rotto che fornisce l’acqua da bere. In tutto il cantone di Una Sana la presenza delle persone in transito è impressionante: quelli noti sono almeno 4 mila, di cui più della metà fuori dai campi, e sono ormai parte del paesaggio: li vedi accampati nei prati, a bagnarsi nei fiumi, a riposarsi o in cammino sul ciglio della strada, con gli zaini e i sacchetti della spesa. Sono per la maggior parte ragazzi afghani e pakistani, ma non mancano le famiglie con bambini come quelle dell’accampamento di Kladuša. A portagli aiuto in questo angolo sperduto della Bosnia Erzegovina c’è Alma, un’insegnante di inglese locale: lo fa da tre anni, da quando questo tratto di rotta balcanica si è intensificato investendo un paese povero ancora alle prese con le conseguenze della guerra dei Balcani. Inizialmente in maniera spontanea e informale, poi per evitare i problemi con la polizia, ha fondato un’associazione. Oltre a portare cibo e vestiti, lei e i suoi 5 soci hanno creato un servizio di lavanderia e delle docce. Cercano di fare tutto senza dare troppo nell’occhio, perché sentono su di loro la pressione delle autorità e della gente. “Io però non li biasimo. Anche fra la popolazione locale c’è molta povertà ed è comprensibile che non capiscano chi aiuta migranti. Ci vuole tempo, per noi questo è un fenomeno nuovo”. La gestione pubblica della presenza delle persone in transito è diventato un tema anche per le autorità bosniache. Negli ultimi tempi gli sgomberi degli insediamenti informali sono aumentati di frequenza. Anche realtà formalizzate, come il campo per soli uomini di Miral sempre a Velika Kladuša, chiuderà. Motivo? Si trova nel centro abitato. La stessa ragione per cui a Bihac, il capoluogo della regione, nel settembre 2020 le autorità cantonali decisero di chiudere il campo di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati di Bira, nella periferia della città, e trasferire le persone a Lipa, a 25 km di distanza nelle campagne. Dopo l’incendio del dicembre 2020 che ha portato sotto gli occhi inorriditi dei cittadini europei la catastrofe umanitaria che da anni si verifica alle sue porte, i migranti che si trovano a Lipa vivono nelle tende da campo messe a disposizione dalla Croce Rossa Bosniaca; gli unici bagni sono dei container sanitari riservati a chi ha problematiche dermatologiche, gestiti dall’associazione locale SOS Bihac, mentre delle docce e dei lavabi sono stati messi dalla Omg italiana Ipsia, che dentro il campo svolge anche attività di aggregazione, molto amate dai migranti, le cui condizioni sono disumane anche per la sospensione delle relazioni familiari e della appartenenza a una comunità: altre fonti di una disperazione in cui non è facile trattenersi dal cadere. Una nuova Lipa è in costruzione: con un po’ di ritardo rispetto ai tempi previsti entrerà presto in funzione. I soldi li ha messi l’Unione Europea, per un campo dalla capienza maggiore, da 1000 a 1500, che disporrà di acqua ed elettricità. La gestione passa da Oim, l’Organizzazione per le migrazioni delle Nazioni Unite, che ha ricevuto forti critiche per le condizioni del vecchio campo, all’Sfa, il servizio affari esteri bosniaco in campo al Ministero della Sicurezza. Anche in relazione a questo passaggio va probabilmente letto lo sgombero avvenuto in questi mesi dei grandi squat presenti all’interno della città, come la “Factory” o il “Dom Penzionera”: ex fabbriche abbandonate dove centinaia di persone in transito trovavano un tetto sulla testa e niente più e che ora, oltre che svuotate, vengono chiuse con le grate; come l’intensificarsi degli interventi della polizia nei confronti delle persone in transito che sono accampate nei boschi, le cosiddette “jungle”, che secondo quanto ci segnalano sono diventati ordinaria amministrazione e vengono esibiti come trofei sulle pagine social delle forze di polizia locali; anche nel corso della nostra permanenza veniamo a sapere di uno sgombero in corso e ci rechiamo sul posto con gli operatori di JRS, Jesuit Refugee Service, il cui staff internazionale opera a Bihac dal 2018. Nei pressi di una casupola senza finestre e dal tetto sfondato, tra i rifiuti e l’erba alta ci sono i 3 ragazzi che sono riusciti a sfuggire alla polizia correndo. Fra di loro c’è Mohammed, pakistano di 18 anni. Il suo viaggio è iniziato quando era ancora un bambino: 7 anni fa, assieme alla madre ha lasciato il Pakistan perché “dove vivevamo era come stare in guerra. Tutto il giorno avevamo a che fare con armi, terroristi, soldati, e poi le esplosioni, sempre”; è in una di queste esplosioni che suo padre è morto. Il suo viaggio segue lo schema di sempre: Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia e poi Bosnia Erzegovina, dove è arrivato due anni fa. Ha provato quello che viene chiamato da tutti il game, il tentativo di passare il confine, più di 20 volte. Racconta di come la polizia croata gli abbia spezzato un braccio prima di scaricarlo di nuovo fuori dai suoi confini. Ci proverà ancora: “Vogliamo solo una vita normale, per favore non trattateci così”. In quel luogo prima erano in 30, gli altri sono stati caricati su un autobus e portati a Lipa. Ma nei prossimi giorni torneranno, perché a Lipa i migranti non ci vogliono stare. I motivi sono vari: le condizioni non sono mai state accettabili, né prima né dopo l’incendio. Il cibo è poco e terribile. Ajmal, apolide in quanto la famiglia Afghana è dovuta scappare in Pakistan, racconta che per tutti i 40 giorni del Ramadan, durante il quale si digiuna nelle ore diurne, gli è stato dato solo riso bollito. E poi Lipa è nel mezzo del nulla, a decine di km dal primo centro abitato, l’alienazione totale. Infine, Lipa è fuori rotta. Per fare il game i migranti devono tornare a Bihac e quindi ripercorrere a piedi decine e decine di km. Ecco perché le persone in transito preferiscono accamparsi in un prato o occupare una casa abbandonata: per quanto le condizioni materiali siano più difficili, a volte terribili, hanno più libertà di movimento e autonomia. In alcuni casi questi accampamenti informali appaiono più dignitosi dei campi: tende solide regalate da qualche associazione, cucine comunitarie, teli di copertura, piccoli generatori fotovoltaici di corrente. Sempre che non arrivi la polizia a distruggere tutto, costringendoli a ricominciare da capo. Alla luce di tutto ciò, il nuovo campo di Lipa risulta una pezza insufficiente e male in arnese; ma l’intenzione delle autorità bosniache è quella di renderlo il luogo di accoglienza per chiunque arrivi in Bosnia Erzegovina attraverso la rotta balcanica, andando incontro a quello che chiede l’Unione Europea e nascondendo il più possibile i migranti dagli occhi dei propri concittadini. Perché ogni stato può decidere in autonomia cos’è “terrorismo” di Guido Rampoldi Il Domani, 15 settembre 2021 I Talebani sono terroristi? Per quanto questa fosse la meno rilevante tra le questioni sollevate dall’intervista di Daniela Preziosi a Massimo D’Alema, la domanda ha il merito di condurci dentro uno straordinario paradosso: nella montagna di risoluzioni Onu sfornate in questo ventennio non vi è una sola definizione di “terrorismo”. Con la conseguenza che ciascun governo è libero di decidere chi sia terrorista e chi non lo sia. Questo non è privo di conseguenze. Mentre dichiaravamo l’intenzione di esportare la democrazia, in Afghanistan ci siamo affidati a milizie agganciate all’esercito che non erano molto migliori dei terroristi cui esse davano la caccia; e ovunque nel mondo i regimi nostri associati possono incrudelire sui propri sudditi senza per questo vedersi negato l’accesso ad aiuti e prestiti internazionali. I Talebani sono terroristi? Per quanto questa fosse la meno rilevante tra le questioni sollevate dall’intervista di Daniela Preziosi a Massimo D’Alema, la domanda ha il merito di condurci dentro uno straordinario paradosso: nella montagna di risoluzioni Onu sfornate in questo ventennio non vi è una sola definizione di “terrorismo”. Con la conseguenza che ciascun governo è libero di decidere chi sia terrorista e chi non lo sia. Questo non è privo di conseguenze. Nel 2010 l’ultimo esame comparativo di cui si trovi traccia mostrava plateali difformità. Gli Stati Uniti censivano 45 “organizzazioni terroriste”, la Gran Bretagna 55, l’Unione europea 29, le Nazioni unite 24, la Russia 16. I Talebani e i Fratelli musulmani erano presenti solo nell’elenco russo, l’Ira solo nel britannico. Hezbollah libanese era nelle liste britannica e statunitense ma non in quelle delle Nazioni unite e della Ue. Il Pkk curdo non era nelle liste delle Nazioni unite e della Russia ma compariva in quelle americana ed europea. Da allora gli elenchi hanno conosciuto integrazioni e modifiche, talvolta dettate da convenienze. Avendo i guerrieri curdi combattuto coraggiosamente l’Isis insieme all’aviazione americana, il Pkk per Washington non figura più all’inferno. Se stiamo a questo precedente i Talebani, entrati nel frattempo nella lista nera americana, presto ne usciranno, ammesso che terranno a freno i loro macellai e s’impegneranno nella lotta contro l’enigmatico Isis. Le stragi possono essere condonate, il passato consegnato all’oblio: non fosse così, il direttore della Cia non sarebbe volato a Kabul per incontrare i mullah. Il capo dell’antiterrorismo non va a trovare i capi dei terroristi se questi ultimi non appariranno presto in abiti di scena meno imbarazzanti. La fluidità nelle classificazioni delle organizzazioni armate è amorale ma diventa indispensabile quando è necessario avviare un negoziato con i fino-a-ieri terroristi (sicché è possibile che Hamas presto non puzzerà più di zolfo). A una definizione rigida e vincolante di “terrorismo” sono di ostacolo anche i timori che vi ricadano sia freedom fighters e insurgents, cioè ribelli per una causa legittima, sia stati. Questo è un punto cruciale. Vuole un consenso quasi generale nelle Nazioni unite che i terroristi siano unicamente “non-state actors”: condotte tipiche del terrorismo messe in atto da stati ricadrebbero nella fattispecie dei crimini di guerra e come tali sarebbero puniti. In realtà questo non accade. L’istituzione che può procedere per crimini di guerra - la Corte penale internazionale - ha enormi difficoltà a esercitare la giurisdizione, non essendo riconosciuta da una miriade di nazioni, incluse Usa, Russia, Cina. Di fatto lo stato “terrorista” non viene punito. L’impunità è la premessa di uno scambio nefasto: qualsiasi autocrazia offra supporto prezioso alla war on terror potrà contare sull’omertà dei governi occidentali se opprimerà ancor più duramente la popolazione e il dissenso. In stati centroasiatici o mediorientali ormai è sufficiente possedere una rivista che critica il potere per essere incolpati di “estremismo” filo-terrorista (il “terrorismo motivato da estremismo”, formula bizzarra, è nella risoluzione del Consiglio di sicurezza che inaugurò la war on terror, la 1373 del 28 settembre 2001). Mentre dichiaravamo l’intenzione di esportare la democrazia, in Afghanistan ci siamo affidati a milizie agganciate all’esercito che non erano molto migliori dei terroristi cui esse davano la caccia; e ovunque nel mondo i regimi nostri associati possono incrudelire sui propri sudditi senza per questo vedersi negato l’accesso ad aiuti e prestiti internazionali. Ci è convenuto? In questi vent’anni c’è stato un unico attentato negli Stati Uniti, peraltro con poche vittime. Agli europei è andata peggio (massacri a Parigi, Londra, Madrid) ma nel complesso si potrebbe concludere che le crudezze della war on terror abbiano protetto anche loro. Se però il bilancio fosse tutto qua non capiremmo perché, per esempio, Foreign Affairs proponga una lotta al terrorismo “più intelligente”. Forse dovremmo cominciare a domandarci, per esempio, cosa percepiscano della nostra war on terror i 200 milioni di arabi che hanno meno di 30 anni e, stando a recenti indagini della Pew, vivono l’islam con meno partecipazione che in passato. Fossimo in grado, potremmo favorire il successo di una nuova Grande Idea che contenga, per esempio, la ripulsa di al Qaeda. Ma prima dovremmo chiarirci che cosa intendiamo per terrorismo, questione più complessa di quanto ci appaia. Al Cairo tre anni fa sono stati arrestati e impiccati i giovanissimi del gruppo “Resistenza popolare” che avevano fatto saltare in aria il procuratore generale Barakat. Gli europei non mossero un dito per salvarli: che diamine, terroristi! Ma Barakat era il dignitario di un regime golpista che intimidisce la popolazione e colpisce il dissenso con la violenza sregolata e omicida che distingue i terroristi. Dunque chi praticava il terrorismo, gli assassini o l’assassinato? La “Resistenza” o lo stato egiziano nella persona di un sodale di al Sisi? E poiché è probabile che al Sisi produca con i suoi metodi molto più fondamentalismo armato di quanto non ne distrugga, potremmo porci un dubbio invero disdicevole: e se aiutare i dinamitardi di “Resistenza” fosse molto più conveniente alla nostra sicurezza di quanto non sia continuare ad aiutare con discrezione la dittatura, come ci consigliano tra le righe i soliti bardi della war on terror? Egitto. Zaki ai giudici: “Nessun reato, liberatemi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 settembre 2021 È durata pochi minuti la prima udienza del processo al ricercatore egiziano dell’università di Bologna. Rinviata al 28 settembre. Draghi interviene al G20 delle religioni ma non cita Patrick. È durata cinque minuti la prima udienza del processo (inappellabile) a Patrick George Zaki davanti al Tribunale civile di Mansoura, sua città natale, accusato ora non più di terrorismo ma di aver diffuso notizie false attraverso un articolo di giornale pubblicato nel 2019 con cui lo studente cairota testimoniava la difficile vita di una famiglia di cristiani copti - la sua - in Egitto. Il giovane ricercatore dell’università di Bologna è comparso davanti alla corte in manette, mostrando tutti i segni di 19 mesi di carcerazione preventiva sul suo corpo appena trentenne. Un’immagine che Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha definito “terrificante”. “Non ho commesso alcun reato”, è riuscito a dire Patrick durante l’udienza lampo che è stata poi aggiornata al 28 settembre prossimo. “Ho solo esercitato il mio diritto alla libertà di parola”, avrebbe aggiunto chiedendo di essere rilasciato, secondo quanto riferito dall’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), l’ong egiziana con cui collaborava Zaki. Patrick invece è tornato in carcere, non si sa in quale, se di nuovo nella famigerata prigione di massima sicurezza di Torah, a sud del Cairo, o se in qualche cella situata nella stessa al-Mansoura. Quando il furgone blindato azzurro con il quale è stato portato via si è allontanato, parenti amici e compagni sono riusciti a riferirgli la data di rinvio dell’udienza. “28 settembre, 28 settembre”, urlavano, secondo le agenzie locali. Altrimenti nessuno gliela avrebbe comunicata. Oltre alla sua avvocata Hoda Nasrallah, erano presenti in aula rappresentanti delle ambasciate di Italia, Canada e Germania, e un avvocato dell’Unione europea. La decisione del giudice del tribunale di Mansura è, secondo Noury, “comunque una notizia che evita lo scenario peggiore, quello di una sentenza emessa dopo la prima udienza: una condanna immediata e inappellabile. Questo processo infatti non prevede un appello: se Patrick verrà condannato non ci sarà un ricorso ma solo la possibilità di una richiesta di grazia al presidente al-Sisi. E il fatto che sia stata un’udienza lampo - aggiunge - è emblematico di come funziona la giustizia egiziana. D’altronde è già successo con Ahmed Santawy, lo studente dell’Università di Vienna, che è stato arrestato nel febbraio di quest’anno, quindi un anno dopo Patrick, ed è stato già condannato a quattro anni per reati simili, inventati e pretestuosi. Però ora vedo quattordici giorni di luce, sia pur offuscati da quell’immagine orribile di un uomo innocente nella gabbia degli imputati. È un tempo utile per preparare la difesa e soprattutto per tentare di fare qualcosa sul piano politico”. Il portavoce di Amnesty international Italia spera in una qualche voce libera che si alzi a New York, dove il presidente egiziano Al Sisi è atteso per prendere parte all’Assemblea generale dell’Onu e per il primo incontro con il presidente Usa Joe Biden, e dove porterà l’inutile “Carta dei diritti umani” in Egitto che ha appena fatto preparare. Un’altra occasione su cui Noury riservava speranze per far sentire a Patrick Zaki di non essere stato lasciato solo di fronte alle aberrazioni del regime egiziano era quella di ieri sera, a Bologna. Il sindaco Virginio Merola e il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini hanno espresso grande solidarietà con il “nostro cittadino Zaki”, ma senza prendersi la briga di riferirlo al premier Draghi, incontrato alla Business school durante un evento dedicato a Nino Andreatta, poco prima che il primo ministro si recasse al Salone del Podestà di Palazzo Re Enzo per intervenire a conclusione del G20 Interfaith Forum. “Se ne parliamo al premier? - ha risposto Bonaccini alla domanda di un giornalista - È qui oggi per un’altra questione, in ogni caso credo che non ci sia neanche bisogno di parlargli e che sia pienamente informato. Naturalmente, ci aspettiamo che il governo italiano, sulla vicenda, possa incidere”. Ma mentre i colleghi e gli amici di Patrick partecipavano ad una fiaccolata per sostenerlo, e mentre continuano gli appello perché il governo rispetti almeno la volontà del parlamento concedendo la cittadinanza italiana al giovane che ha scelto Bologna come sua seconda città, Mario Draghi, davanti ad una platea di leader religiosi e rappresentanti di 70 Paesi diversi tra cui arcivescovi della Chiesa copta ortodossa che si sono detti preoccupati per Zaki e per i loro fedeli che vivono in Egitto, ha pronunciato parole di condanna per “ogni estremismo religioso” e in difesa della “libertà religiosa, di opinione e di espressione”. Poi, riguardo il ruolo della politica Draghi ha ammesso: “In certi momenti della storia, il non agire è immorale”. Poi è ripartito per Roma. Marocco. Ikram Nazih finalmente libera di Laura Cappon Il Domani, 15 settembre 2021 Il sottosegretario Enzo Amendola annuncia che Ikram Nazih, cittadina italiana e marocchina, ha lasciato il carcere in cui era detenuta da giugno dopo l’arresto e la condanna per un post scritto su Facebook. Ikram Nazih è libera. Lo ha deciso il tribunale di appello di Marrakesh che ieri, con una settimana di anticipo, ha celebrato il processo d’appello per il caso della giovane studentessa italo-marocchina. L’udienza è cominciata alle 14 e dopo alcune ore di camera di consiglio la decisione: condanna ridotta a due mesi, con sospensione della pena, e multa annullata. Una inversione di marcia rispetto alla sentenza di primo grado: 3 anni e una multa di 50.000 dirham (circa 4.800 euro). La condanna era arrivata dopo una denuncia per blasfemia, presentata alle autorità di Rabat da un’associazione religiosa marocchina che avrebbe segnalato un post condiviso dalla studentessa nel 2019: si trattava di un post satirico, allora popolare su Facebook, che trasformava la sura 108 del Corano, la sura dell’Abbondanza, in sura del whisky. La studentessa aveva poi cancellato il post dopo 15 minuti ma non era bastato per evitare la condanna. La notizia della liberazione di Ikram è stata data, quasi a sorpresa, dal sottosegretario agli Affari europei Vincenzo Amendola, su Twitter. Grande conoscitore del Marocco, Amendola da agosto ha iniziato a occuparsi del caso e ha affiancato l’ambasciatore italiano in Marocco Armando Barucco. “Nel processo d’appello sono state ascoltate le ragioni della difesa”, ha detto Amendola. “Il dibattimento è stato intenso, Ikram ha parlato in italiano e aveva un interprete fornito dalla nostra ambasciata. È uscita mezz’ora dopo la decisione del tribunale”. All’udienza, oltre ad Amendola, erano presenti l’ambasciatore italiano in Marocco, Armando Barucco, e il console generale di Casablanca insieme al padre della studentessa. Ikram, invece, ha deposto in videoconferenza. L’impostazione della difesa è stata fondamentale e ha sottolineato che Ikram, nata e cresciuta in Italia, non aveva contezza di quanto quel gioco di parole potesse infrangere le leggi marocchine. “Il lavoro di diplomazia è stato fondamentale, avevo visitato Ikram a metà agosto e avevo notato che era una ragazza forte. L’ho sentita al telefono poco dopo la sua liberazione, sta bene e ora anche il padre, che era molto provato, quasi non mangiava più, può tirare un sospiro di sollievo”. Il caso è stato trattato con molta cautela dal governo italiano ma dopo l’udienza di primo grado c’è stato un cambio di strategia, a partire dalla difesa con un nuovo avvocato consigliato direttamente dalle autorità consolari italiane. Come comunicato dalla Farnesina e dal sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che ha risposto alle interrogazioni parlamentari a luglio, Ikram ha ricevuto settimanalmente una visita delle nostre autorità consolari. L’ambasciatore in Marocco Barucco l’ha visitata due volte. La 23enne italo-marocchina, che studia giurisprudenza a Marsiglia, è nata nel 1998 a Vimercate. Ha vissuto a lungo con la sua famiglia a Mozzo, in provincia di Bergamo. Il 19 giugno scorso era arrivata in Marocco per fare visita a dei parenti ed era stata immediatamente messa in stato di fermo dalle autorità marocchine. “Voglio ringraziare l’ambasciatore Barucco e il sottosegretario Enzo Amendola per l’impegno che hanno dedicato alla causa. Assieme abbiamo seguito la vicenda dal primo momento, avendo a cuore unicamente il benessere della nostra connazionale, nel pieno rispetto del lavoro delle istituzioni e della giustizia marocchine”, ha dichiarato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Soddisfatti anche i deputati che avevano presentato le interrogazioni parlamentari sulla vicenda di Ikram. “Questa notizia mi riempie di gioia e soddisfazione” dice Yana Chiara Ehm, deputata del gruppo misto. “Oggi è una vittoria per i diritti umani, ora avanti anche per Patrick Zaki. Non ci possiamo fermare”. Massimiliano Capitanio, parlamentare della Lega Nord e primo deputato a presentare un’interrogazione sul caso di Ikram, dice che “l’udienza di appello ha potuto ridare il giusto peso alla vicenda anche grazie al lavoro della diplomazia italiana”. Anche a Bergamo, città in cui Ikram ha frequentato il liceo, si festeggia. “Abbiamo sperato tanto che succedesse qualcosa di positivo, eravamo molto preoccupati”, dice Roberto Cardia, professore di italiano di Ikram al Liceo Linguistico G. Falcone di Bergamo. “Ci siamo mobilitati, abbiamo firmato la petizione su Change.org lanciata da Domani e abbiamo cercato di diffonderla il più possibile. Ora, se Ikram vuole venire a trovarci, sa che la aspettiamo a braccia aperte”.