Ergastolo ostativo. Permessi premio, ammissibilità più ampia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2021 Per i Tribunali di sorveglianza discrezionalità limitata. L’andamento dell’opera di rieducazione deve poter essere valutata. La Cassazione inizia a fissare le condizioni per il riconoscimento dei permessi premio dopo la caduta del divieto assoluto per i detenuti non collaboranti condannati all’ergastolo per reati di mafia. La Prima sezione penale, infatti, sentenza n. 33743, ha affermato che, per l’ammissibilità della domanda di permesso premio avanzata dal detenuto non collaborante, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019, è sufficiente l’allegazione di elementi di fatto che, anche solo in chiave logica, risultano tali da motivare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo di un ripristino dei medesimi, idonei in quanto tali a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità prevista dalla legge. Accolto così il ricorso presentato da un condannato all’ergastolo per í delitti di omicidio e associazione di stampo mafioso contro la decisione del Tribunale di sorveglianza che aveva respinto la sua domanda di permesso premio, sostenendo che nella richiesta nulla era stato esposto sulla sorte degli altri aderenti all’organizzazione criminale e sulla “eventuale operatività della associazione nel territorio di origine”. La Cassazione puntualizza, innanzitutto, che la costruzione di una fattispecie di inammissibilità di una domanda richiede l’individuazione di un modello legale della stessa, applicabile in via generale e non può essere affidata alla sola discrezionalità dell’autorità giudiziaria giudicante. In termini specifici, allora, l’onere di allegazione imposto al richiedente deve confrontarsi con i due elementi della mancanza di collegamenti attuali e con l’esclusione del pericolo di un loro ripristino. In questo senso allora il condannato che chiede il permesso premio deve illustrare gli elementi di fatto in grado di contrastare la presunzione di pericolosità. Per esempio, l’assenza di procedimenti successivi alla detenzione, il mancato sequestro di comunicazioni, la partecipazione attiva all’opera di rieducazione. Però, “non può essere chiamato a “riferire” (in sede di domanda introduttiva) su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto, non può fornire, in via diretta, la prova negativa” diretta” di una condizione relazionale quale è il “pericolo di ripristino” dei contatti”. Il pericolo infatti, osserva la Cassazione, è sempre frutto di un giudizio prognostico che spetta al giudice, su cui l’interessato può incidere solo in maniera relativa, fornendo semmai attestazione della correttezza del percorso rieducativo. Inoltre, per la Cassazione, stringere le maglie sul presupposto di’ ammissibilità della domanda priva il procedimento davanti all’autorità giudiziaria della possibilità di acquisire dagli organi territoriali un set di informazioni sul piano potenziali idonee a confermare oppure a smentire il positivo andamento dell’opera di rieducazione. Antigone presenta le sue proposte per un nuovo regolamento penitenziario di Andrea Oleandri Ristretti Orizzonti, 14 settembre 2021 Il prossimo 20 settembre, dalle ore 10.00 presso la Casa di reclusione Roma Rebibbia, in Via Bartolo Longo 72, Antigone presenterà le proprie proposte per un nuovo regolamento penitenziario. Se approvate prevederebbero più possibilità di contatti telefonici e visivi, un maggiore uso delle tecnologie, un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell'uso dell'isolamento, forme di prevenzione degli abusi, sorveglianza dinamica e molto altro. Il luogo scelto, in tal senso, è simbolico di un'organizzazione della vita interna più attenta ai bisogni e i diritti delle persone detenute. All'interno di questo Istituto penitenziario, sta nascendo infatti un nuovo polo universitario. La Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD) ha donato 5 pc e stampanti, l'Università Roma Tre sta attivando i corsi. La conferenza stampa sarà l'occasione anche per presentare questo progetto, alla presenza di una delegazione di detenuti iscritti all'università. Parteciperanno: Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone; Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale; Luca Pietromarchi, Rettore Università Roma Tre; Arturo Salerni, presidente CILD; Maria Antonia Vertaldi, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma; Marco Ruotolo, Prorettore Università Roma Tre; Giancarlo Monina, Università Roma Tre, Delegato del Rettore di Ateneo per la formazione universitaria negli istituti penitenziari; Carmelo Cantone, Provveditore dell'Amministrazione Penitenziaria per Lazio-Abruzzo-Molise. Per accedere è necessario accreditarsi entro il 16 settembre, inviando una e-mail all'indirizzo segreteria@antigone.it, indicando nome, cognome e numero della tessera professionale (o gli estremi del documento di identità), la testata e l'eventuale attrezzatura che si porterà con sé. Per accedere all'Istituto, come da disposizioni governative, sarà necessario essere in possesso del green pass. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Vitto scarso e sopravvitto troppo caro: un’ingiustizia da sanare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2021 Il costo oneroso del sopravvitto e la scarsità del vitto rimangono tuttora una problematica irrisolta nelle carceri. Tutto da riformare, secondo il garante dei detenuti della Campania. Per inquadrare bene il problema, c’è da dire che la diaria giornaliera è rimasta tale e quale a quanto ha denunciato un vecchio rapporto della Corte dei Conti, risalente al 2014, che metteva all’indice il business del vitto e conseguentemente il sopravvitto. Se con tre euro e 90 vengono garantiti colazione, pranzo e cena a ciascun detenuto, viene da sé immaginare che nessuno di loro riesca a sfamarsi con quello che offre lo Stato. Motivo per il quale i detenuti sono costretti a ricorrere al cosiddetto “sopravvitto”: gli alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti. I prodotti in vendita sono gestiti dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce anche i generi alimentari per la cucina. Il sopravvitto indica la possibilità per i detenuti di acquistare generi di conforto presso imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dagli uffici preposti, Direzioni delle carceri e dall’autorità comunale competente. Tale servizio è quello che appare, secondo le segnalazioni del Garante regionale Samuele Ciambriello, maggiormente controverso per l’evidente disuguaglianza con quanto succede fuori nelle normali logiche di mercato. “Stando alla descrizione dell’appalto ministeriale per il servizio di mantenimento dei detenuti e internati attraverso l’approvvigionamento alimentare - denuncia il garante regionale - la colazione il pranzo e la cena a ciascun detenuto sono assegnati in base al costo più basso. L’aggiudicatario è tenuto inoltre ad assicurare, anche il servizio per il sopravvitto”. Per questo motivo, Ciambriello evidenzia che oltre alla necessità di organizzazione del servizio, il valore economico del sopravvitto risulta raggiungere un ammontare pari a circa il 50% dei volumi complessivi, rappresentando una fetta cospicua di ogni singolo accordo. “Anche una recente sentenza del Consiglio di Stato evidenzia la strana struttura del bando di gara, annullando gli esiti dell’appalto per le case circondariali di Lucca, Livorno, Grosseto e Massa, sostenendo che per un operatore economico non vi è modo di predisporre un’offerta economica consapevole e ponderata riferita al solo vitto, senza doversi confrontare gli utili e le perdite rivenienti dalla gestione parallela del servizio di sopravvitto”, chiosa il Garante campano. In seguito a diverse segnalazioni pervenute al Garante, i ristretti lamentano l’aumento di prezzo di beni di prima necessità come pasta, acqua, shampoo, dolci, e gas per i fornellini presenti nelle celle, acquistabili mediante il sopravvitto. Ciambriello ha richiesto alle direzioni delle carceri di Poggioreale e Secondigliano di conoscere il prezziario aggiornato al mese corrente e chiarimenti sulle modalità di verifica dei prezzi. A tal proposito, il Garante cita la circolare del 27 aprile 1988, nella quale il Dap sottolinea che i prezzi dei prodotti vengano inseriti e aggiornati mensilmente sulla base del costo di vendita presente negli esercizi commerciali aventi una superficie di vendita superiore a 400 mq e previa verifica degli uffici preposti dal Comune di Napoli. “In realtà - denuncia Ciambriello - osservando l’elenco in allegato degli articoli inseriti nel mod. 72, ci si rende conto inequivocabilmente che i detenuti non possono scegliere quelli di marche meno costose e che il ventaglio di scelta è fortemente limitato”. Il garante campano dei detenuti conclude: “Ogni detenuto ha diritto di spendere 150 euro a settimana per il sopravvitto. Lo fanno in particolare perché chi fornisce il vitto in carcere lo fa spendendo 3,90 euro per colazione, pranzo e cena. Sugli articoli, invece, vi è un sovraccarico. Spesso i prodotti hanno una scadenza a breve termine e se questo in un supermercato ordinario comporta uno sconto del 50%, in carcere ciò non avviene”. In dirittura le riforme del processo. Ok dai partiti, dubbi dai magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2021 Si stringono i tempi sulle riforme della Giustizia. Ed è dal Senato che, nei prossimi giorni sono in arrivo i principali interventi. Questo pomeriggio la commissione Giustizia concluderà, con l’acquisizione del parere della Commissione Bilancio e l’affidamento del mandato al terzetto di relatrici (Anna Rossomando del Pd, Fiammetta Modena di FI e Julia Unterberger di Svp), il lavoro sulle modifiche al Codice di procedura civile. Il disegno di legge delega, con la definizione di criteri in parte assai circostanziati in altre parti da determinare da parte del Governo, sarà poi all’esame dell’Aula a partire da domani. Superati gli scogli sul merito delle questioni, soprattutto per quanto riguarda la disciplina della prima udienza che la riforma delinea come un passaggio tutt’altro che burocratico e fortemente rivisto come momento di definizione dell’oggetto della decisione, la riforma punta in maniera significativa sul potenziamento della mediazione, sull’estensione della negoziazione, sul consolidamento di alcune delle misure sperimentate nei mesi di pandemia, sull’introduzione di misure organizzative come quelle relative al rafforzamento dell’Ufficio del processo e all’istituzione del Tribunale della famiglia. Sul fronte politico, il lavoro fatto dalle relatrici e dal vicecapo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia Filippo Danovi dovrebbe permettere di evitare sorprese alla prova del voto, mentre critiche sono state espresse dall’avvocatura e, da ultimo, sabato, dall’Anm. Per quest’ultima, infatti, con l’intervento del presidente Giuseppe Santalucia al comitato direttivo centrale, l’obiettivo di una riduzione del 40% della durata dei giudizi civili non è “realistico”, perché si sopravvalutano soprattutto gli interventi in materia di Adr e quelli di natura organizzativa. Troppo poco peri magistrati; anzi, di queste ultime due misure si stanno creando i presupposti per il fallimento. Subito dopo, per rispettare una tabella di marcia che vede entrambe le riforme approvate a Palazzo Madama entro i primi giorni di ottobre, sarà la volta del Codice di procedura penale, dove dovrebbe tenere il tormentato accordo raggiunto a fine luglio tra le forze politiche di maggioranza, con l’introduzione di un articolato meccanismo di improcedibilità per i procedimenti che non rispettano i tempi di definizione. Centinaia gli emendamenti presentati dall’opposizione, ma l’intesa dovrebbe reggere anche perché in caso contrario la tenuta del Governo sarebbe a forte rischio, considerata la rilevanza degli interventi in materia di Giustizia per il successo del Recovery Plan. Anche in questo caso, forti perplessità restano soprattutto da parte della magistratura. Con l’Anm che, pur avendo respinto le richieste più estreme per la messa in atto di forme di protesta, ritiene probabile una bocciatura dell’improcedibilità da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo come conseguenza della rinuncia dello Stato a esercitare i suoi poteri per effetto del solo trascorrere del tempo. Nel mirino anche l’eccessivo potere affidato ai giudici nel decidere quali casi possono essere interessati da una proroga dei termini. Basta pm giustizialisti di Edmondo Bruti Liberati* Il Foglio, 14 settembre 2021 No. Il rispetto della dignità della persona non può più essere un principio negoziabile nelle procure. Come costruire una svolta non retorica partendo da un formidabile assist che arriva dall’Europa Nei prossimi giorni alla ripresa dell’attività le Camere prenderanno in esame lo “Schema di decreto legislativo” del Governo per l’attuazione (con un ritardo di cinque anni) della Direttiva Ue del 2016 sulla presunzione di innocenza, un testo che presenta non pochi aspetti problematici. La presunzione di innocenza trova la sua prima tutela nelle norme del processo (diritto al silenzio, onere della prova); le previsioni della Direttiva su questi aspetti non richiedono disposizioni attuative poiché il nostro ordinamento è già rispettoso di tali principi e diritti. Sulla questione della presentazione in pubblico di imputati in manette o con altri mezzi di coercizione fisica, affrontata nella Direttiva Ue, basterebbe nel nostro Paese dare attuazione alle disposizioni e alle direttive già vigenti. Rimane aperto il problema delle gabbie presenti in molte aule di udienza; le più vecchie sono vere e proprie gabbie con sbarre metalliche, le più recenti sono in vetro, soltanto meno appariscenti. In taluni casi l’utilizzo delle gabbie si rende necessario soprattutto quando vi siano più detenuti. Ma non è infrequente che gli imputati siano posti in queste gabbie, senza che vi siano stringenti esigenze di sicurezza, ma solo perché ciò consente di utilizzare un numero più ridotto di personale di polizia penitenziaria per la scorta. In altri casi la sistemazione logistica dell’aula è tale che per gli imputati non vi è altro posto se non quello nelle gabbie. Su questo tema non occorrono norme, ma impegno per l’adeguamento logistico delle aule di udienza e delle regole per le scorte. Nonostante le norme esistenti (ribadite negli ultimi anni da precise direttive di diversi Procuratori della Repubblica come Milano e Napoli) sono ancora frequenti i casi in cui le autorità di polizia consentono la ripresa di arresti o di persone in manette, ma occorre anche ricordare che molto spesso questo tipo di riprese è attuato a dispetto delle precauzioni adottate e che comunque la responsabilità della diffusione sui media è degli operatori della comunicazione. La presunzione di innocenza è un dato acquisito a livello europeo e nel nostro sistema processuale, ma molto delicato è il tema delle misure da adottare per assicurarne la tutela, individuando un punto di equilibrio rispetto ad altri valori come, da un lato, il dovere di comunicare e di rendere conto accountability da parte del sistema di giustizia e, dall’altro, il diritto di informazione, di cronaca e di critica La Direttiva Ue, nella premessa si limita alla sbrigativa formuletta “fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media” e all’art. 4 adotta formulazioni molto restrittive, limitando la possibilità da parte delle autorità pubbliche di “divulgare informazioni sui procedimenti penali”, ai soli casi in cui “ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”. L’esemplificazione di queste ipotesi “come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico” è riduttiva, anche se poi viene sostanzialmente vanificata con il riferimento all’”interesse pubblico” come criterio per la divulgazione di informazioni su procedimenti penali. Senza questa cautela sarebbe stato precluso a ministri o funzionari governativi, oltre che alla magistratura, di fornire notizie, ad esempio in occasione di attentati terroristici o di gravi fatti di criminalità organizzata o mafiosa. Sul tema “caldo” delle dichiarazioni rese dalle Procure della Repubblica, si ripropongono le ambiguità della Direttiva. Stabilire che “i rapporti con gli organi di informazione” del Procuratore della Repubblica possano attuarsi “esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”, alla lettera escluderebbe tutti gli altri mezzi di comunicazione compresi quelli che propongono una informazione più articolata come interventi a convegni, articoli su quotidiani o riviste o addirittura il modello Bilancio di Responsabilità Sociale, che invece è stato incoraggiato. Una importante innovazione si nota nella proposta del governo su un tema non affrontato espressamente nella Direttiva con la prescrizione che le informazioni siano fornite “in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende”. Ove non si riduca al mero testuale riferimento all’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento (Pubblico Ministero, Giudice delle indagini preliminari, Giudice dell’Udienza Preliminare, Tribunale, Corte di Appello), può contribuire a formare nella pubblica opinione la comprensione del reale valore della presunzione di innocenza. Si introduce poi il divieto “di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza” nei comunicati e nelle conferenze stampa, formula aperta e inutile a fronte di una questione, quella di assegnare nomi roboanti a partire da “Mani pulite” alle inchieste, che va risolta a livello di costume e di buon gusto. Per di più queste denominazioni in non pochi casi non sono assegnate dal pubblico ministero, ma autonomamente dai media. La questione più delicata è la disciplina del divieto di “riferimenti in pubblico alla colpevolezza”. Si direbbe una mission impossible poiché sul punto le buone intenzioni della Direttiva scontano una impostazione burocratica e unilaterale. Forse si tratta di questione che sarebbe stato più opportuno riservare agli strumenti di soft law (come Raccomandazioni e Pareri), più idonei a fornire orientamenti nell’individuazione del delicato equilibrio tra i diversi valori in gioco, piuttosto che l’hard law della Direttiva. La presunzione di innocenza, lo si è già sottolineato, trova la sua essenziale tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa. La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme problematica e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica. Qualunque normativa il nostro legislatore adotterà, rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione. Per quanto riguarda i magistrati non saranno mai abbastanza sottolineati i danni che provocano alla complessiva credibilità della giustizia le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. La questione di fondo rimane quella efficacemente indicata da Giovanni Melillo, un magistrato particolarmente impegnato sul tema: “Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale”. Il principio di innocenza deve essere affrontato con attenzione a livello di informazione ad evitare l’ipocrisia che lo riduca a mero formalismo a fronte di “casi risolti”, ove la colpevolezza si presenti come dato storicamente acquisito, che il processo dovrà solo “attestare” e verterà essenzialmente sulla individuazione della pena da infliggere o, in taluni casi, sulla capacità di intendere e di volere. Anche nei confronti del più feroce degli assassini, colto in flagranza o comunque apparentemente raggiunto da inoppugnabili elementi di accusa, il richiamo al principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza irrevocabile non è ipocrita formalismo, perché rimanda alle regole del “giusto processo” e alle garanzie di difesa, contribuisce a formare l’acquisizione della distinzione tra Verità storica e verità processuale. La verità processuale, con la “v” minuscola, è quella che si costruisce attraverso la verifica della impostazione accusatoria davanti al giudice, con pronunzie che possono essere riviste nel sistema delle impugnazioni; è quella che deve ignorare prove illegittimamente acquisite; è quella che la cui “definitività” è persino revocabile, attraverso il procedimento di revisione, quando emergano nuove prove a favore del condannato. Al contrario la “definitività” non può essere scalfita ove successivamente emergano prove a carico dell’assolto, in base al principio che in tutti gli ordinamenti continua ad essere definito con la formula latina del “ne bis in idem”, il quale preclude in modo assoluto la possibilità di sottoporre nuovamente a processo per lo stesso fatto chi è stato assolto Lo Stato, negli ordinamenti liberaldemocratici, si riserva il monopolio della potestà punitiva, ma ne detta i limiti, con le regole e le garanzie del processo. Ma oltre le norme processuali vi è il principio del rispetto della persona, nei diritti e nella dignità. Non è un caso che nella nostra Costituzione e nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, sin dai primi articoli, dignità e diritti della persona si presentino come inscindibili. La Carta dei diritti dell’Unione Europea si apre con “Art.1 Dignità umana. La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. Lo scarso respiro dell’approccio adottato nella Direttiva Ue emerge anche da questo dato lessicale molto significativo: nelle undici pagine che il documento occupa nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea non compare neppure una volta la parola “dignità”. Eppure, appena l’orizzonte si allarghi oltre le norme del processo, è fondamentale il riferimento al rispetto della dignità della persona sottoposta ad indagini e processo ed anche definitivamente condannata, quale che sia la colpa di cui si è macchiata. Anche l’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati definitivi la nostra Costituzione vuole sia attuata nel rispetto della persona e miri al reinserimento nella società. Questo profilo non è sfuggito alle Linee Guida 2018 del Consiglio Superiore della Magistratura del 2018 con riferimento alla comunicazione da parte delle Procure: “E’ assicurato il rispetto della presunzione di non colpevolezza; va dunque evitata, tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate; particolare tutela va dedicata alle vittime e alle persone offese; vanno adottate tutte le misure utili ad evitare l’ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della loro dignità e riservatezza”. Come ricordano Marta Cartabia e Alfonso Ceretti nel denso volumetto “Un’altra storia inizia qui”, il cardinale Carlo Maria Martini “inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore” e nella sua successiva riflessione ritorna più volte sulla dignità della persona: “L’errore e il crimine […] indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale, inferiore all’umano. Perciò le leggi […] hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona”. Queste parole del cardinale Martini richiamano quelle di Giovanni XXIII: “Non si dovrà però mai confondere l’errore con l’errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. (1963 Pacem in terris n. 83)”. Ciascun caso, ciascuna vicenda presenta aspetti particolari ma il rispetto della dignità della persona offre un orientamento indefettibile. *Procuratore capo di Milano dal 2010 al 2015 Con la riforma del diritto civile addio al tribunale dei minori di Giulia Merlo Il Domani, 14 settembre 2021 Nel nuovo ufficio confluiscono i giudici e le strutture dei tribunali minorili e le sezioni famiglia dei tribunali ordinari. Così nasce una struttura specializzata, anche con competenze penali. Questa riforma ha l’obiettivo anche di ridurre la distanza tra il giudizio ordinario e quello che nel tempo è diventato un rito diverso dagli altri e condizionato fortemente dalla presenza nei collegi giudicanti di giudici non togati. A mostrare una volontà bipartisan c’è il fatto che l’articolo del ddl è stato frutto dell’accorpamento di emendamenti presentati da tutti i gruppi parlamentari. Il ddl civile, il disegno di legge delega al governo che punta a riformare e soprattutto velocizzare la giustizia civile italiana, arriva in aula al Senato mercoledì 15 settembre. Martedì vengono risolti gli ultimi cavilli tecnici con il passaggio finale in commissione Giustizia, dopo il via libera della commissione Bilancio e il parere del ministero dell’Economia. Nel pacchetto di norme, che introducono novità soprattutto di tipo procedurale, è compresa anche la riforma organizzativa che sarà una sorta di piccola rivoluzione del settore del diritto di famiglia, che subirà un totale riordino. Oggi esistono due strutture quasi parallele, il cui spartiacque è l’età anagrafica. Da una parte c’è il tribunale per i minorenni, istituito nel 1934, che si occupa di tutte le situazioni giuridiche - penali, amministrative e civili - che hanno come soggetti i minori di età. Si tratta di un tribunale di fatto indipendente, che ha risorse e organizzazione propri, oltre che giudici togati minorili e giudici onorari con competenze specifiche non di natura giuridica (generalmente psicologi o esperti di pedagogia). Con la maggiore età, il tribunale competente diventa quello ordinario e le questioni legate alla famiglia sono affidate a una sezione specializzata. Il ddl civile punta a eliminare questo dualismo, creando un unico ufficio specializzato nelle questioni di famiglia, che riunisca in un solo tribunale ordinario le sezioni famiglia e i tribunali per i minorenni con le relative strutture e risorse oggi destinate. Questa riforma ha l’obiettivo anche di ridurre la distanza tra il giudizio ordinario e quello che nel tempo è diventato un rito diverso dagli altri e condizionato fortemente dalla presenza nei collegi giudicanti di giudici non togati. La questione è in discussione da molti anni ma non è mai arrivata così vicina all’approvazione: ora i tempi sembrano essere maturi e a mostrare una volontà bipartisan c’è il fatto che l’articolo del ddl è stato frutto dell’accorpamento di emendamenti presentati da tutti i gruppi parlamentari. “Il testo finale è stata la sintesi di un’esigenza sentita da tutti: quella di creare un unico centro specializzato, valorizzando quella che è stata l’esperienza del tribunale dei minorenni”, spiega la senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena, che con Anna Rossomando del Pd e Julia Unterberger dell’Svp è relatrice del ddl. Cauto ottimismo su questo specifico punto arriva anche dagli avvocati civilisti, molto critici invece sulle riforme di rito contenute nel ddl civile: “La concentrazione di competenze in un unico ufficio è utile, perché semplifica le procedure. Tuttavia, nei decreti delegati, bisogna fare sì che la tutela dei minori rimanga preferenziale e rafforzata”, spiega Antonio de Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale camere civili. Al Senato la sensazione è che il testo arrivi in aula già sufficientemente limato da non trovare particolari intoppi per l’approvazione. La questione più controversa su cui si è trovata una mediazione tra Partito democratico e Lega ha riguardato i casi di violenza domestica nelle separazioni con affido di minori. Il Pd e in particolare i membri della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, infatti, hanno chiesto l’esclusione dell’affido condiviso in questi casi di violenza, per evitare nuovi contatti soprattutto a tutela delle donne. Sul punto, però, è scoppiata la polemica con il senatore Simone Pillon, il quale aveva parlato del rischio che “senza scrupolo possano privare il minore della bigenitorialità senza lo straccio di una prova”. Il punto di equilibrio è stato quello di prevedere nella norma che, nel caso di denuncia di violenza domestica, vengano portate al giudice precise allegazioni, con l’abbreviazione dei termini processuali per velocizzare le decisioni e l’assicurazione di misure di salvaguardia, in applicazione della convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Un intoppo, quindi, superato con un paziente lavoro in commissione. Il risultato del testo condiviso è che il nuovo tribunale sarà diviso in sezioni distrettuali (una per ognuno dei 26 distretti di corte d’appello) e in sezioni circondariali nelle 165 sedi di tribunale ordinario. Alla sezione circondariale sono assegnate tutte le controversie civili che prima erano di competenza delle sezioni specializzate famiglia dei tribunali ordinari, a cui si somma anche la competenza sugli affidi e soprattutto sulla potestà genitoriale (gli interventi in caso di disagio del minore, la perdita o il reintegro della potestà). La sezione distrettuale, invece, si occuperà di tutte le rimanenti competenze civili che oggi sono del tribunale per i minorenni, come le adozioni, oltre alle funzioni penali e di sorveglianza. Dal punto di vista organizzativo, il nuovo tribunale della famiglia godrà di tutte le novità per la velocizzazione delle procedure: ufficio del processo (ovvero un pool di giudici onorari e giovani collaboratori come ausilio nella redazione delle sentenze) e informatizzazione. A cambiare sarà anche il metodo di lavoro dei giudici: nelle sezioni circondariali giudicherà un unico giudice monocratico; nelle sezioni distrettuali un collegio di tre giudici. Fanno eccezione i procedimenti di adozione, in cui il collegio sarà di due giudici togati e due onorari. Il passaggio dal modello attuale a quello previsto dal ddl civile sarà comunque graduale: realisticamente, il nuovo tribunale della famiglia entrerà in funzione a inizio 2025. Bisogna infatti attendere l’approvazione dei decreti delegati nel 2022 e la riorganizzazione materiale delle strutture, che non sarà un passaggio rapido né indolore, viste anche le necessità di una disciplina transitoria per la trattazione delle pendenze prima che il nuovo tribunale vada a regime. Opacità e fallimenti: l’agonia senza fine dei beni confiscati di Alberto Cisterna Il Dubbio, 14 settembre 2021 È un fiume carsico che si inabissa e riemerge in modo inaspettato, sorprendente. Un flusso di corruzione o, comunque, di malgoverno talvolta accertato, ma spesso solo sussurrato, sembra accompagnare la gestione dei patrimoni che le leggi dello Stato mettono nelle mani della magistratura e per i più svariati motivi: dai sequestri antimafia alle procedure fallimentari fino alle vendite immobiliari. Non esiste alcuna statistica ufficiale, né può far di conto la giurisprudenza disciplinare del Csm perché i più, presi con il dito nella marmellata o anche con il barattolo in tasca, si dimettono ed evitano la gogna della radiazione. Tuttavia, a spanne e senza tema di smentita, sono stati parecchi negli anni addietro i casi di toghe delle misure di prevenzione, delle sezioni fallimentari o delle procedure esecutive che sono incappati in rilievi pesanti, se non in qualche vicenda finanche nelle manette. È un punto delicato. Ogni volta si dice che non succederà più e ogni volta il sistema in modo imprevisto entra in crisi. In silenzio, con discrezione, con qualche trasferimento e qualche pensionamento “spontaneo” i nodi peggiori vengono sciolti, ma rimane in tanti l’impressione che il circuito delle nomine dei professionisti che corre intorno alle gestioni patrimoniali rimesse alle toghe sia un mondo in parte opaco. Malgrado interventi legislativi, circolari, disposizioni di servizio non si riesce a impedire del tutto che si creino relazioni sospette e poco trasparenti soprattutto tra coloro che partecipano al mercato delle nomine come amministratori, curatori, gestori e via seguitando e una selva di collaboratori e coadiutori indispensabili per le ricchezze più ingenti. La polemica ha ripreso vigore dopo recenti arresti e dopo la scoperta di ulteriori criticità proprio nel mondo dei sequestri antimafia e per giunta proprio in Sicilia che, con il sangue del generale Dalla Chiesa, ha dato il via alla legislazione patrimoniale più severa che si conosca al mondo. Basterebbe aver memoria del passato, degli anni bui del secolo scorso, quando era quasi impossibile trovare amministratori e custodi che avessero il coraggio di gestire i beni tolti ai mafiosi. O, prima ancora, bisognerebbe volgere lo sguardo alla morte dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana di Michele Sindona, per comprendere, come mai, da almeno un paio di decenni, si sia scatenata una lotta spasmodica all’incarico, alla nomina, con frotte di postulanti per i corridoi dei tribunali alla ricerca di prebende da parte dei giudici o dei grand commis professionali. Se ci cercassero, al di là delle chiacchiere e della propaganda, indici oggettivi con cui misurare la pericolosità delle mafie o, meglio, la percezione della loro pericolosità in questo tempo, ecco questo sarebbe un campo di studio di cui occuparsi con una certa attenzione. Nessuno teme vendette o ritorsioni. Tutti premono per conseguire un incarico che, in tempi di vacche magre per molte professioni, non saranno redditizi, ma comunque aiutano a tirare a campare. Certo, sia chiaro, ci sono eccezioni, eccome. Tante volte la nomina per gestire beni delle cosche riguarda professionisti specchiati, di alto profilo, capaci e fedeli servitori della giustizia. Ma non si tratta di esprimere giudizi morali o professionali su categorie che - come tutte - conoscono al proprio interno le inevitabili mele marce. Quel che preme cogliere è che nessuno, o quasi, ha paura di occuparsi dei patrimoni della mafia e che gli stessi mafiosi, a fronte del pericolo di sanzioni enormi, si tengono ben lontano dal minacciare chicchessia. Poi c’è a latere, non troppo distante, il tema angoscioso ed endemico ormai del fallimento delle imprese sequestrate, della dispersione degli immobili confiscati, del loro inutilizzo. Malgrado un nugolo di modifiche legislative, mille convegni e mille riflessioni poco è mutato a mitigare un quadro desolante. Uno slancio avrebbe dovuto darlo nel 2010 l’Agenzia nazionale dei patrimoni di mafia che, nello schema originario, avrebbe dovuto occuparsi dei beni e delle imprese sin dal sequestro, curando subito la nomina di amministratori e custodi. Ma quel progetto è naufragato a fronte della sollevazione di settori consistenti e, come scoperto in seguito, non sempre disinteressati al mercato degli incarichi. Così l’Anbsc è stata tagliata fuori dai giochi e ne è mancato l’impulso nel momento strategico e cruciale del passaggio dei beni dalle mani dei mafiosi a quelle dello Stato. Non sarebbe stato tutto rose e fiori, ma lo sconforto attuale avrebbe meritato una chance coraggiosa e innovativa. Molise. Covid, un “terremoto” in carceri e case famiglia di Stefania Potente primonumero.it, 14 settembre 2021 La Garante: “Più tentativi di suicidio e atti di autolesionismo”. La Garante regionale dei diritti della persona Leontina Lanciano traccia un bilancio dell’ultimo anno segnato dalla pandemia, un periodo particolarmente duro per i detenuti delle Case circondariali e per i più giovani ospitati nelle nove strutture presenti in Molise. A lei si sono rivolte anche alcune donne si sono viste respingere l’assegno di accompagnamento dall’Inps nonostante stiano affrontando la chemio. “Il ruolo del Garante non è fare lo scribacchino, ma condurre le battaglie per i diritti delle persone a livello istituzionale”. Leontina Lanciano, Garante regionale dei diritti della persona (figura istituita nel 2015 da una legge regionale), lo ribadisce nell’incontro con la stampa convocato questa mattina - 13 settembre - per fare il punto sulla sua attività inevitabilmente segnata dal virus, dal lockdown e dalle restrizioni che hanno limitato di molto la possibilità dei più deboli di godere dei propri diritti. I detenuti, ad esempio, non hanno potuto rivedere per due anni i figli. Alla Garante si sono rivolti genitori o parenti dei minori ospiti delle case famiglie (in Molise ne esistono nove, ndr): circa 30 le richieste di un colloquio. Le hanno scritto anche i genitori di bambini ‘normali’ che durante l’emergenza sanitaria hanno denunciato la carenza di mascherine nelle scuole o la mancata sicurezza sanitaria sui mezzi di trasporto pubblico. Al suo ufficio sono arrivate anche istanze di intervento per i minori stranieri non accompagnati (40) e circa 70 richieste per l’esenzione dal pagamento del ticket sanitario dei ragazzini ospiti nelle struttre di accoglienza. “La pandemia è stata un terremoto esistenziale”, sintetizza Leontina Lanciano. Le situazioni più difficili sono state registrate nelle case circondariali. “Durante la pandemia si è verificato il decesso per Covid di un detenuto a Larino - ricorda - abbiamo registrato quasi ogni giorno episodi di autolesionismo, così come numerosi sono stati i tentativi di suicidio”. Non solo. “Abbiamo raccolto le paure dei reclusi che vivono in celle in 4-5 persone senza mascherine o altri dispositivi di sicurezza. Avevano paura di essere contagiati. Non potevano vedere le proprie famiglie, solo da un mese le visite sono state bloccate. Al mio ufficio arrivavano richieste di riavvicinamento e di trasferimento per rivedere i figli”, racconta la Garante che contestualmente alla conferenza ha lanciato un appello alle associazioni. “Se fossero più presenti, si potrebbero organizzare più attività che consentirebbero ai detenuti non solo di trascorrere la giornata, ma anche per consentire loro di acquisire più competenze”. Non meno complicate le condizioni degli 80 minori ospiti nelle case famiglia (il dato è riferito al 31 dicembre 2020, ndr). “Il lockdown ha condizionato la vita di bambini e adolescenti: i loro diritti sono stati limitati e le loro libertà compromesse”, le parole della dottoressa Lanciano. “Abbiamo pubblicato un volume (‘Diario di una pandemia: i minori al tempo del covid’) nel quale gli stessi minori sono stati protagonisti: una sorta di diario di questi ragazzi. Abbiamo svolto anche un monitoraggio delle attività degli operatori in questo periodo particolare”. Fondamentale anche il lavoro di mediazione col Tribunale minori e i servizi sociali “dal momento che i rapporti con le famiglie di origine sono stati cancellati durante il lockdown”. E ancora: “Ho lavorato per far sì che ai ragazzi venisse garantita la protezione sanitaria (anche per i vaccini agli operatori di tali strutture). È stato un lavoro pressante, anche nei confronti delle istituzioni, alcune delle quali si sono rivelate sorde nei confronti di tali problematiche”. Leontina Lanciano annuncia inoltre la riattivazione dell’Osservatorio dei Minori in collaborazione con l’Università, ricorda il libro su bullismo e cyberbullismo realizzato in collaborazione con l’Ateneo e l’Ufficio scolastico regionale. Inoltre “in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza abbiamo realizzato il passaporto per i diritti dei minori che abbiamo distribuito nei reparti di Neonatologia degli ospedali molisani”. Sono aumentate poi le richieste per la difesa civica, nella mediazione tra cittadino e pubblica amministrazione che “dovrebbe essere meno sorda e più veloce”, insiste la Garante. A lei si sono rivolti cittadini che, a causa dello smartworking, non riuscivano a interfacciarsi con alcuni uffici. Altra battaglia a difesa delle malate oncologiche. Oltre all’introduzione dei caschi refrigeranti in alcun ospedali molisani, “a me si sono rivolte alcune donne, malate oncologiche: si stanno sottoponendo alla chemio e si sono viste respingere l’assegno di accompagnamento dall’Inps. Mi sono attivata con l’Inps per chiarire e vedere se è possibile ripristinare quello che è un loro diritto. Il 16 settembre la Garante, unitamente ai colleghi delle altre regioni, incontrerà il ministro Marta Cartabia per parlare della riforma della Giustizia. “Io faccio le battaglie, ma poi le decisioni vengono prese a livello politico”, sottolinea la Lanciano cercando di sensibilizzare l’assessore alle Politiche sociali Filomena Calenda che partecipa alla conferenza. Per il suo lavoro a difesa dei diritti delle persone ha ricevuto due riconoscimenti: uno dalla Presidenza del Consiglio regionale, l’altro dalla comunità di San Martino in Pensilis, suo paese di origine (il Premio ‘Maria Natale’). Santa Maria Capua Vetere. Quando denunciammo non credevamo di scoperchiare tutto questo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2021 L’atto di chiusura delle indagini depositato nelle scorse ore dalla procura di Santa Maria Capua Vetere in merito alle violenze avvenute nel carcere della cittadina il 6 aprile 2020 è lungo 176 pagine scritte a piccoli caratteri. Quando il successivo 20 aprile, a seguito dei racconti di tanti famigliari di detenuti che ci avevano contattati, inviammo ai magistrati il nostro esposto, segnalandolo anche al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pur avendo intuito le non consuete dimensioni degli eventi non credevamo di scoperchiare una mattanza di tali proporzioni. L’atto individua l’associazione Antigone (insieme al Garante nazionale delle persone private della libertà e alla Onlus Il carcere possibile) tra le persone offese, cosa che accade quando i fatti sono di una gravità tale da riguardare in prima persona la società tutta e in particolare un’associazione che ha nella propria mission la tutela dei diritti umani. Siamo dunque parte di questo procedimento penale, che vede come vittime 177 persone detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere all’aprile dello scorso anno. Nell’atto si leggono i nomi, i cognomi, le date di nascita. Qualcuno è poco più che ventenne, qualcun altro ha ben superato i cinquant’anni. Alcuni sono stranieri - nigeriani, albanesi, rumeni, spagnoli, tunisini - molti sono italiani. E poi vi è l’elenco degli indagati, composto da 120 nomi, quasi tutti uomini ma anche qualche donna. Le età sono in generale maggiori. Numeri che fanno impressione, che danno il segno di un carcere trasformato in un campo di battaglia, quella cui abbiamo assistito nelle immagini raccolte dalle videocamere interne e messe in salvo da un magistrato solerte all’insaputa degli interessati. Sono ben 85 i capi nei quali si divide il documento, che segnano altrettante accuse diverse che variamente riguardano in maniera incrociata e sovrapposta gli indagati. Si va dall’abuso di autorità, al falso, al depistaggio, fino alla cooperazione in omicidio colposo, alle lesioni e alla tortura: “…con una pluralità di violenze, minacce gravi ed azioni crudeli, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse, degradanti ed inumane, prolungatesi per circa quattro ore del giorno 6 aprile 2020, consistite in percosse, pestaggi, lesioni - attuate con colpi di manganello, calci schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni ad inginocchiamento e prostrazione, induzione a rimanere in piedi per un tempo prolungato, faccia al muro, ovvero inginocchiati al muro - e connotate da imposizione di condotte umilianti (quali, ad esempio, l’obbligo della rasatura di barba e capelli)…”. Emerge dall’atto come l’istituto non fosse nuovo alla violenza: se questa era la reazione a una pacifica protesta dei detenuti che chiedevano mascherine per proteggersi dal virus, “circa 15/10 giorni prima del 6 aprile, a seguito di una lite avvenuta tra due detenuti ristretti presso la sesta sezione del Reparto Nilo, 50 agenti circa della polizia penitenziaria, muniti di scudi e manganelli (…), sopravvenivano e picchiavano indistintamente i detenuti”, uno in particolare “mentre questi cercava di proteggere un detenuto più anziano”. Lungo l’elenco degli indagati per falso che, riportando dolori e traumi all’esame del medico, affermavano di essere stati aggrediti da parte di detenuti, “così fornendo un ingannevole contributo informativo nel contesto del rapporto di alleanza terapeutica con il sanitario”. Vi è poi la morte di Hakimi Lamine, “deceduto presso il Reparto Danubio in data 4.05.2020, a seguito delle torture e maltrattamenti subiti a partire dalle violenze del 6 aprile e delle indebite condizioni di isolamento sociale in cui era stato indebitamente sottoposto (…), modalità di segregazione devastante per la sua affezione di disturbo borderline di Personalità e inducente un peggioramento della psicopatologia fino all’emergere di una franca sintomatologia psicotica caratterizzata da angoscia incoercibile e dispercezioni, situazione di abbandono, morale e materiale, tale da indurlo alla assunzione incontrollata di terapia farmacologica (neurolettici e benzodiazepine) - terapia inadeguata per dosaggio e priva di qualsiasi riformulazione in relazione all’evidenza clinica - la quale, in decisiva sinergia con la sostanza stupefacente buprenorfina, intenzionalmente assunta, determinava un ‘edema polmonare acuto’, con terminale ‘arresto cardio-respiratorio’, così da cagionarne la morte”. No, quando quel 20 di aprile depositammo il nostro esposto non credevamo di scoperchiare tutto questo. *Coordinatrice associazione Antigone Santa Maria Capua a Vetere. Pestaggi, nuove indagini: si cercano gli agenti “esterni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2021 L’inchiesta bis sul pestaggio di massa avvenuto il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La procura ha da poco depositato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 120 persone. Ci sono altri agenti penitenziari da identificare per quanto riguarda il pestaggio di massa avvenuto il 6 aprile 2020 al carcere di Santa Maria Capua Vetere, per questo è in corso l’inchiesta bis da parte della procura della Repubblica. Com’è noto, a compiere il blitz che ha, come dice l’accusa, comportato la tortura nei confronti dei detenuti del reparto “Nilo”, ha concorso non solo il personale interno, ma anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi, istituto alle dipendenze dell’allora Provveditore regionale Antonio Frullone. Ed è quello che è ancora da identificare. Questo perché, come ha evidenziato il capo della procura, Maria Antonietta Troncone, “le unità di polizia penitenziaria proveniente dalle altre carceri, per lo più sconosciute ai detenuti di Santa Maria Capua Vetere ed attive nelle violenze, erano quasi tutte munite di caschi e dispositivi di protezione individuale, sicché l’identificazione delle persone resesi responsabili dei fatti contestati, bene immortalate dalle videoregistrazioni, risulta estremamente difficoltosa. Sono ancora in corso le indagini per individuare gli autori ancora ignoti e oggetto di un ulteriore provvedimento”. Ripercorriamo l’accaduto. Il 9 marzo 2020, un gruppo di 160 detenuti del reparto “Tevere” (diverso da quello ove poi si consumeranno le violenze) del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo aver fruito dell’orario di passeggio, rifiutava di entrare nel reparto, protestando per la restrizione dei colloqui personali imposta dalle misure di contenimento del contagio da Covid. Il 5 aprile seguiva una ulteriore protesta, operata da un numero imprecisato di detenuti del reparto “Nilo” e attuata mediante barricamento delle persone ristrette, motivata dalle preoccupazioni insorte alla notizia del pericolo di contagio conseguente alla positività di un detenuto al Covid. La protesta rientrava nella tarda serata, anche mediante l’opera di mediazione e persuasione attuata dal personale di polizia penitenziaria del carcere e del magistrato di sorveglianza. All’esito della seconda protesta, nella giornata del 6 aprile, veniva organizzata una perquisizione straordinaria, generalizzata, nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ed è lì che si è verificata, come documentato in maniera incontrovertibile dai filmati della videosorveglianza, una vera e propria macelleria messicana. Indagini chiuse nei confronti di 120 persone Pochi giorni fa la procura di Santa Maria Capua Vetere ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 120 persone. La procura stessa, tramite un comunicato stampa, sottolinea che nel corso delle indagini “sono stati acquisiti elementi indiziari integrativi e accertate ulteriori ipotesi di reato, tra cui, in particolare, quella relativa all’omicidio colposo ai danni di Lamine Hakimi”. Parliamo di un detenuto di 27 anni trovato morto un mese dopo i pestaggi. Secondo la tesi della procura, la sua morte potrebbe essere collegata agli eventi avendo ricevuto calci e pugni. Dopo il pestaggio, sarebbe finito in isolamento e avrebbe lamentato dolori alla nuca per tutto il tempo. Avrebbe assunto “in rapida successione e senza controllo sanitario - ricostruisce la procura- un mix di farmaci, tra cui oppiacei, neurolettici e benzodiazepine”. Questo ne avrebbe cagionato la morte per arresto cardiocircolatorio, conseguente a un edema polmonare acuto. Caltanissetta. I detenuti ribelli contro il degrado del carcere di Luigi Mastrodonato Il Domani, 14 settembre 2021 La definiscono una tortura psicologica: mancano gli spazi per socializzare e i prodotti per l’igiene La situazione è difficile anche per la polizia penitenziaria, ma per il direttore è tutto normale. Tortura psicologica. Ecco il modo in cui i detenuti del carcere di Caltanissetta descrivono la quotidianità all’interno dell’istituto di pena siciliano. Nei giorni scorsi decine di loro hanno firmato una lettera inviata alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, nella quale si descrive nel dettaglio una situazione di detenzione ritenuta contraria all’articolo 27 della Costituzione italiana, che stabilisce che la pena “non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Sono tanti i punti bui sollevati dai detenuti. “La struttura è vecchia, fatiscente, priva di qualsiasi normativa igienica e da condividere con ratti e piccioni”, scrivono, citando anche frequenti infiltrazioni di acqua dalle finestre. “Non vengono distribuiti prodotti di prima necessità per la pulizia della cella e per l’igiene personale”, continuano, mentre chi entra nel carcere ed è sottoposto alla quarantena fiduciaria per le misure anti Covid-19 “è ubicato in isolamento senza ricevere lenzuola, federe e prodotti per la sanificazione della cella, costretto a dormire su lenzuola di carta”. Durante le fasi più acute della pandemia peraltro non sarebbero state distribuite mascherine omologate, giusto un dispositivo in feltro di quelli fuori dalle prescrizioni sanitarie. Sovraffollamento - A Caltanissetta ci sarebbe anche un problema di sovraffollamento, dal momento che i detenuti raccontano di trovarsi assembrati in celle piccolissime fino a 19 ore al giorno, con bagni minuscoli da condividere in quattro persone. “Le porte blindate delle celle sono prive di sistema di sicurezza e non consentono l’apertura in caso di emergenza o calamità naturale”, aggiungono, mentre per quanto riguarda l’apertura delle sbarre, avviene per un’ora al giorno, con i detenuti spediti in un ambiente simile a una cella dove non c’è nemmeno margine per sedersi o passeggiare, “uno spazio di circa 15x4,5 metri tra quattro mura altissime in cemento armato e la rete metallica come tetto, in cui in 50 (come minimo) sono costretti a stare ammassati”. Rieducare - Non c’è spazio per lo svago né traccia del fine rieducativo della pena nel carcere di Caltanissetta, quanto meno a leggere la missiva dei detenuti. L’istituto è sprovvisto di sala hobby, palestra, spazio per l’attività fisica, 12 detenuti a giro possono giusto partecipare a una partita di calcetto due volte al mese. Manca l’area educativa, “parecchi detenuti che si trovano da diversi mesi non hanno mai incontrato l’educatore”, scrivono, mentre non esistono corsi di scuola media, superiore e università, né altri corsi di formazione. Altre problematiche emergono poi nei contatti con il mondo esterno: i detenuti raccontano che le telefonate sono svolte unicamente su linea fissa e questo per molti di loro è un problema, dal momento che i cari fuori dal carcere sono provvisti solo di cellulare. Chi lavora, poi, denuncia il pagamento degli stipendi con almeno due mesi di ritardo, un problema se non si hanno soldi sul conto corrente e ci si trova in un carcere dove “perfino la maggior parte dei farmaci sono a carico del detenuto”. Frigo rotti e i ritardi cronici nella consegna dei pacchi inviati dalle famiglie o della merce acquistata costringerebbero poi a buttare molti degli alimenti. La situazione delle carceri - Lo scenario che emerge dalla lettera inviata alla Corte di Strasburgo dai detenuti di Caltanissetta sembra insomma lo specchio delle condizioni detentive italiane. Come ha sottolineato l’ultimo rapporto di associazione Antigone sulla situazione delle carceri in Italia, diffuso a fine luglio, il tasso di affollamento supera il 113 per cento e circa due istituti su tre hanno più detenuti di quanti sono i posti disponibili, con picchi del 200 per cento a Brescia e del 180 per cento a Grosseto. Tutto questo va di pari passo con condizioni igieniche spesso molto precarie. Nel 31 per cento degli istituti visitati da Antigone sono state trovate celle prive di acqua calda, in altri manca perfino l’acqua corrente e permangono strutture con il wc a vista. Nel 36 per cento delle carceri monitorate manca la doccia in alcune celle, nonostante il regolamento penitenziario abbia previsto la loro installazione entro il 2005 - un ritardo, per ora, di sedici anni. Scarseggiano gli educatori, le telefonate con l’esterno sono fatte con il contagocce, in generale insomma l’analisi del sistema penitenziario italiano nel suo complesso ricalca la gran parte delle denunce contenute nella lettera che i detenuti di Caltanissetta hanno inviato all’Europa. Antigone presto tornerà a fare visita all’istituto siciliano, l’ultimo suo rapporto di diversi anni fa in proposito parla di “scarsi rapporti con l’esterno, carenza di strutture educative, obsolescenza della struttura, spazi per la socialità angusti”. Questa situazione negli anni si è tradotta in un contesto molto difficile, che rende pesante anche il lavoro della polizia penitenziaria: nell’ambito di una protesta contro l’impossibilità di abbracciare i loro familiari, a inizio agosto alcuni detenuti hanno sequestrato due agenti. Gli agenti - “Gli agenti sono l’ultimo anello della catena, il più debole, devono sopperire a tutte le mancanze nella filiera della giustizia”, sottolinea Pino Apprendi, referente in Sicilia dell’associazione Antigone. “Questo vale soprattutto in Sicilia, dove le problematiche evidenziate nella lettera dei detenuti di Caltanissetta sono molto diffuse. C’è un problema generale di salute, una visita specialistica o generica ha tempi di risposta molto lunghi, gli psichiatri sono pochi e non riescono a seguire le centinaia di detenuti che avrebbero bisogno”. Anche dal punto di vista delle condizioni igieniche il racconto della lettera presentata alla Corte di Strasburgo trova riscontro in altri istituti: “Manca la privacy anche solo per andare in bagno, non ci sono le porte nei sanitari e addirittura esistono carceri con celle di isolamento prive di wc, c’è giusto un buco per terra”, continua Apprendi, che sottolinea poi un sottodimensionamento endemico di mediatori culturali ed educatori nella regione. Dalla direzione del carcere di Caltanissetta prendono però le distanze da quanto sollevato dai detenuti. “Non capisco in cosa possa ravvisarsi una tortura psicologica”, chiosa il direttore Giuseppe Russo, che contesta diversi punti della lettera ma ne conferma altri. “Da gennaio gli educatori hanno svolto 420 colloqui, sono state create nove classi scolastiche in scuola media e triennio di scuola superiore, sono state predisposte attività come recital di musical, cineforum, fotografia e teatro”. Riguardo le condizioni igienico-sanitarie, “confermo l’utilizzo delle lenzuola di carta in maniera temporanea, si tratta di una mia scelta, non mi risulta però che ci siano coperte strappate e viene data la possibilità ai detenuti di usare le proprie”, continua Russo, che fissa al 30 luglio scorso l’ultima attività di derattizzazione effettuata. Sulle mascherine, invece, il direttore del carcere di Caltanissetta afferma che è stata fatta richiesta di inserire nella vendita dei prodotti per i detenuti anche quelle monouso senza ferretto, così da dare la possibilità di comprarle a chi non fosse soddisfatto di quelle distribuite. Russo ritiene poi idonei gli spazi per la socialità e il passeggio all’interno del carcere, mentre sui ritardi dei pagamenti degli stipendi ai detenuti conferma che “ci possono essere ma non sono così prolungati, dipendono da problematiche nel funzionamento dei servizi di ragioneria ma siamo sull’ordine dei 30 giorni”. Cosenza. Morte in carcere di Pasquale Francavilla. La procura ipotizza l’omicidio colposo di Arcangelo Badolati Gazzetta del Sud, 14 settembre 2021 Omicidio colposo: è l’ipotesi di accusa a cui lavora la procura di Cosenza per far luce sulla morte, avvenuta venerdì mattina nel carcere bruzio “Sergio Cosmai”, del detenuto Pasquale Francavilla, 46 anni. “Il mio cliente non è morto d’infarto” è quanto ha dichiarato oggi a Gazzetta del Sud l’avvocato Mario Scarpelli, legale di Francavilla e, adesso, dei suoi familiari. L’esame autoptico, eseguito sabato per ordine del procuratore Mario Spagnuolo, potrebbe già aver dato qualche significativa indicazione anche se la relazione dei consulenti sarà depositata nei prossimi sessanta giorni. L’avvocato Scarpelli, ha pure spiegato quali fossero le condizioni di salute dell’uomo: “Pasquale Francavilla è stato ricoverato d’urgenza in ospedale a Cosenza, dieci giorni fa, per la presenza di alcuni trombi. Si trovava nel reparto di Terapia intensiva. Cinque giorni dopo, ho avuto modo di sentirlo tramite videochiamata e mi aveva annunciato l’imminente trasferimento in un altro reparto. Tra un mese avrebbe dovuto sottoporsi a un altro delicato intervento, ma è tornato in carcere ed è morto”. Le condizioni di salute di Francavilla - secondo quanto denunciato dal legale e dalla famiglia - non sarebbero state compatibili con il regime carcerario. Infatti, i suoi familiari hanno presentato un esposto in Procura subito dopo il decesso proprio per fare chiarezza su quanto accaduto, anche perché sarebbe stato lo stesso medico del carcere a ritenere le condizioni di salute di Francavilla incompatibili con il sistema carcerario. Torino. Chiuso il reparto del carcere di Torino in cui si suicidò Mussa Balde di Daniela De Robert articolo21.org, 14 settembre 2021 Chiuso il reparto Ospedaletto del Cpr di Torino, lo stesso in cui a maggio si suicidò il giovane guineano Mussa Balde, lo stesso in cui nel 2019 morì Hossain Faisal, cittadino bengalese. Chiuso a seguito della Raccomandazione del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale secondo cui l’alloggiamento in tale reparto configura “un trattamento inumano e degradante” che espone il Paese al rischio di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. La sua chiusura è un passo importante e necessario. Il Rapporto del Garante nazionale sul Centro di Torino è l’ultimo in ordine di tempo sui Cpr. Ad aprile era stato pubblicato quello sulle visite effettuate in tutti i Cpr nel 2019 e 2020. Quarantaquattro pagine dense di informazioni, osservazioni e raccomandazioni: dalla configurazione degli spazi e degli ambienti alla qualità della vita, dalla tutela della salute alla tutela dei diritti. Tante le criticità evidenziate, a cominciare dalle stesse strutture di trattenimento, dei luoghi definiti nella Relazione del Garante nazionale al Parlamento “vuoti e sordi: vuoti perché privi di tutto, dagli arredi, spesso delle semplici sporgenze in muratura, a qualsiasi attività proposta; sordi perché isolati anche dalla società civile organizzata, presente invece in luoghi per definizione chiusi e separati come le carceri”. Negli ultimi anni, manifestazioni di protesta, ribellioni e danneggiamenti alle strutture si sono succeduti senza sosta. L’ultimo pochi giorni fa nella cosiddetta zona rossa del Centro di Torino. Segnali di un disagio profondo, di un malessere legato anche alle stesse strutture dall’architettura rudimentale, simili a contenitori di corpi più che di persone, senza attenzione ad ambienti di socialità e spazi per attività anche fisica. Colpiscono anche i dati sulla ‘efficacia’ del sistema dei rimpatri, di cui i Cpr sono un anello della catena: nel 2020 su 4.387 persone trattenute nei Centri, ne sono state effettivamente rimpatriate 2.232, il 50, 8%. Un dato in linea con gli anni precedenti che hanno visto un picco minimo del 43% nel 2018 e un picco massimo del 59% nel 2017. Una stabilità che si mantiene a prescindere dalla durata massima di trattenimento stabilita dalla legge che si è modificata negli anni, passando dai 18 mesi del 2011 ai 30 giorni del 2014 fino ai 180 giorni attuali. C’è da chiedersi quale sia il significato del tempo sottratto per quel 50% di persone private della libertà ma non rimpatriate. Spesso si tratta di persone provenienti da Paesi con i quali non si sono stabiliti rapporti bilaterali e il cui esito del periodo trascorso in detenzione si traduce un foglio di via che, rimanendo ineffettuale perché non ottemperato dalla persona, apre a successivi rientri in altri Centri e, quindi, ad altro tempo di detenzione. In un circolo vizioso che sembra perdere di vista la finalità stessa della privazione della libertà. A questo proposito il Garante nazionale richiama il diritto della persona privata della libertà in un Cpr a che tale privazione sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio. “Ciò rende illegittima la restrizione della libertà - scrive il Garante nazionale - quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile”. Busto Arsizio. Il carcere? Un sorvegliato speciale di Rosella Formenti Il Giorno, 14 settembre 2021 La visita di due europarlamentari dopo gli ultimi casi di risse e proteste. Più attenzione al carcere di Busto Arsizio, dove negli ultimi mesi sono aumentati i comportamenti che hanno alzato il livello d’allarme, risse, proteste, aggressioni da parte di alcuni detenuti contro gli agenti della Polizia penitenziaria. Il problema principale della casa circondariale bustese è ancora il sovraffollamento, attualmente sono 400 i detenuti molti dei quali stranieri con difficoltà linguistiche, alcuni anche con disturbi psichici che dovrebbero quindi essere accolti in strutture adeguate. Ad accendere i riflettori sulla situazione del carcere in via Cassano gli ultimi episodi: un detenuto con problemi psichici ha dato fuoco alla cella e due agenti sono rimasti intossicati dal fumo, un altro ha finto un malore e poi ha aggredito un agente. Nei giorni scorsi la visita di due esponenti della Lega, l’europarlamentare Isabella Tovaglieri e il senatore Stefano Candiani che hanno assicurato l’impegno per portare all’attenzione del Ministro della Giustizia Marta Cartabia i problemi della struttura bustese. Un incontro importante durante il quale hanno ascoltato i rappresentanti del sindacato Uilpa, il direttore del carcere Orazio Sorrentini e il comandante della Polizia penitenziaria Rossella Panaro. La priorità è rafforzare l’organico degli agenti il cui numero è diminuito anche per i pensionamenti e i passaggi di ruolo mentre i corsi di formazione ancora non sono riusciti a garantire nuovi arrivi. “È evidente la carenza di organico della polizia penitenziaria - ha sottolineato Candiani- una situazione che sommata al sovraffollamento che si registra nella casa circondariale bustocca raddoppia un problema già di sé grave,non è pensabile che un numero esiguo di agenti possa operare al meglio a fronte di 400 detenuti”. Anche l’europarlamentare Tovaglieri ha ribadito la necessità di intervenire sull’organico, quindi ha posto l’accento sulla presenza nel carcere bustese di alcuni detenuti con problemi psichici, situazioni che devono essere trattate in strutture adeguate, le Rems (residenze per l’esecuzione misure di sicurezza) che però non hanno posti sufficienti. In Lombardia, ha ricordato qualche giorno fa, dopo l’episodio del detenuto che ha dato fuoco alla cella, il direttore Sorrentini, esiste solo a Castiglione dello Stiviere, “ma i posti non bastano e c’è una lunga attesa”. Dunque un problema nel problema mentre in carcere mancano in numero sufficiente anche gli psicologi per poter affrontare casi così complessi. Interventi sono richiesti anche per la struttura per sistemare le infiltrazioni che interessano alcune parti del tetto e ampliare gli spazi di svago per i reclusi e per gli agenti, proprio i detenuti, ha sottolineato Tovaglieri potrebbero essere coinvolti nei lavori di ampliamento degli ambienti. Prossimo passo dei due esponenti leghisti portare i problemi del carcere bustese all’attenzione del Ministro Cartabia affinchè al più presto possano trovare risposte concrete le richieste di miglioramenti, a cominciare dal rafforzamento dell’organico della Polizia penitenziaria. Appuntamento a dicembre per fare il punto della situazione. Bologna. “Ogni uomo può cambiare e la pena non può dimenticare la dignità” di Benedetta Cucci Il Resto del Carlino, 14 settembre 2021 Paola Ziccone presenta il suo libro “Verso Ninive”. Domani in Salaborsa. Bisogna imparare a capire cos’è la dignità umana e come poter affrontare il problema del male, che riguarda tutti e non solo alcuni. Paola Ziccone, direttore presso il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia e da decenni impegnata nel mondo carcerario (ha diretto il Pratello), durante il lockdown della primavera del 2020 ha incontrato più volte il cardinale Matteo Zuppi su questi temi. Queste conversazioni sono divenute il cuore del libro “Verso Ninive” (Rubettino) che affronta il tema della giustizia riparativa e che viene presentato domani alle 180 in Salaborsa in anteprima. Con l’autrice ci saranno il cardinale e Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia all’Università di Milano-Bicocca, che ha firmato la postfazione. Signora Ziccone, lei ha voluto incontrare il cardinale Zuppi per approfondire temi a lei cari ma anche per avere un conforto rispetto a riflessioni che hanno a che fare con la speranza per un’umanità che può ritrovare la propria dignità... “Il cardinale è un punto di riferimento per i credenti, ma anche di conforto, come dico nella premessa del libro. C’è da dire, però, che è un punto di riferimento anche per i non credenti, soprattutto per coloro che sono ai margini, nella nostra società. I suoi gesti sono stati molto evidenti: quando si è insediato a Bologna uno dei primi posti che ha visitato è stato il carcere. Al di là di quelli che possono essere i momenti di confronto con un’autorità spirituale per chi è credente, in questo senso il cardinale poteva essere anche qualcuno che dava un significato alla questione generale che a me interessa, da quando ho cominciato la mia professione, ovvero far capire che il carcere non è un luogo ‘a parte’ della società”. Leggendo le vostre conversazioni e conoscendo i vostri ruoli, si ha l’impressione che i luoghi comuni possano lasciare il posto a un pensiero più accogliente verso l’umanità più ‘periferica’... “Bisogna imparare a capire cosa significhi l’umanità, la dignità. Non c’è un fuori e un dentro, c’è la dignità umana ‘tout court’ e quindi da questo punto di vista possono venire parole di riflessione per tutti, perché la dignità non è un valore cristiano o cattolico, è un valore della nostra Costituzione. Il cardinale lo affronta da credente e tuttavia dice che ci sono cose ben precise su cui bisogna ancora riflettere anche per i cattolici”. Quando ha deciso di dedicarsi all’esecuzione penale minorile dirigendo gli istituti penali di Firenze e per 10 anni a Bologna, sentiva questo lavoro come una missione? “Non si inizia perché si ha una visione di dove arrivare, ma la questione del contrasto al male mi ha riguardato fin da ragazza, poi l’idea di poter lavorare sulla questione educativa e sulla giustizia, sul fatto che l’uomo può cambiare, è arrivata col tempo e va al di là del lavoro come guadagno”. Castrovillari. “Cinema senza confini” proiezioni di film anche nelle carceri di Michele Martinisi calabriadirettanews.com, 14 settembre 2021 Ha preso ufficialmente il via nella giornata di giovedì 9 settembre, l’i-fest - International Film Festival 2021, evento cinematografico internazionale diretto artisticamente dall’attore Giuseppe Panebianco e organizzato dall’associazione culturale White Side Group (con il patrocinio ed il sostegno di MiC, Regione Calabria, Ente Parco Nazionale del Pollino e Comune di Castrovillari in collaborazione con CSC - Centro Sperimentale di Cinematografia, Cineteca Nazionale, Cineteca di Bologna, Università della Calabria e diversi altri importanti Partner nazionali ed internazionali e con le prestigiose media partnership di RAI Cinema Channel e MyMovies), che nei prossimi giorni entrerà nel vivo e fino al 19 settembre prossimo regalerà ai tanti gli amanti del grande Cinema che per l’occasione giungeranno da ogni parte d’Italia a Castrovillari, Rende e nel territorio del Parco del Pollino, dieci giorni ricchi di appuntamenti - tutti a ingresso libero - dedicati al grande schermo. Dopo la conferenza stampa di mercoledì, mercoledì 9 al Cine Teatro Ciminelli di Castrovillari la proiezione del film “Mantibules”, esilarante commedia diretta dal regista francese Quentin Dupieux in concorso alla 77° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e in quanto tale inserita nella rassegna fuori concorso “Eye On Venice” (che nei prossimi giorni offrirà anche la possibilità di visionare “Corpus Christi” - in programma martedì 14 alle 20.30 al Cinema Garden di Rende - e “The Human Voice”, domenica 19 alle 20.15 al Ciminelli di Castrovillari). Oltre ad essere oggetto di giudizio di una giuria territoriale, che da stasera a domenica si riunirà presso il Ciminelli per assistere alla proiezione degli stessi, i 20 lavori selezionati, grazie al volere del Direttore della Casa Circondariale di Castrovillari, Dott. Giuseppe Carrà e alla grande operatività della Dottoressa Loredana Amodeo, nelle mattinate di ieri e di oggi è stata proiettata all’interno dell’Istituto Penitenziario cittadino e ha visto all’opera una Giuria costituita da detenuti e rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria. Molto soddisfatti, al termine dell’esperienza alla Casa Circondariale “Rosetta Sisca” sono apparsi sia gli organizzatori di i-fest che il dirigente Carrà, concordi nel riconoscere il grande valore educativo del Cinema come arte che stimola la riflessione, determinando la capacità critica utile ad elaborare, partendo dai contenuti rappresentati, momenti di analisi ed approfondimento dei vissuti personali. L’esperienza vissuta dai detenuti potrà stimolare, infatti, un processo di rielaborazione interiore che costituisce un momento fondamentale della revisione critica a cui la pena deve tendere per essere effettivamente risocializzante. Le giornate di venerdì 10, sabato 11 e domenica 12 sono state, invece, dedicate alla proiezione degli Short Film entrati nella selezione ufficiale del contest “Orizzonti” (concorso di portata internazionale organizzato in media partnership con Rai Cinema Channel ed in collaborazione con CSC - Centro Sperimentale di Cinematografia e SIAE, dedicato a short film, documentari e short d’animazione che ha visto l’adesione di oltre 800 lavori - di cui un’altissima percentuale di altissimo livello - a firma di registi e filmmaker provenienti da oltre 50 diverse nazioni), le cui opere vincitrici saranno premiate con gli i-Fest Awards in prossimo 18 settembre e pubblicate sulla piattaforma Rai Cinema Channel. La cultura che c’è dietro la violenza sulle donne di Elisabetta Camussi* La Repubblica, 14 settembre 2021 Ogni femminicidio ha un luogo, un tempo, dei modi: una genesi e un epilogo. È la storia di quella donna e di quell’uomo, e spesso, purtroppo, anche di quei figli e di quelle figlie. Ma quella storia è insieme la storia di tutti e tutte noi. Perché i femminicidi, che tragicamente accadono ormai ogni giorno nelle nostre città, nel nostro quartiere, nel condominio in cui viviamo (e rendono sempre più difficile considerarli altro da noi), sono l’esito estremo di una cultura, la nostra, nella quale la parità tra donne e uomini non è mai esistita. E nonostante parità, uguaglianza, stereotipi, generi, violenza siano parole ormai entrate nei discorsi quotidiani, non sono diventate più facili da riconoscere se applicate a noi stessi. Cosa rende le donne uccise simili tra loro, e simili a me? Cosa rende questi uomini violenti accomunabili? Cosa rende quella storia di violenza di genere una storia collettiva? Dov’è il limite alla mia libertà di donna, magari colta, magari con un (buon) reddito, magari innamorata? Chi mi ha insegnato fino a che punto devo accettare il comportamento del mio partner, lo devo aiutare, comprendere, supportare? Ed io, uomo cresciuto sentendo che da me ci si aspetta che sia forte, capace, sempre in grado di decidere, risolvere, provvedere (in primis economicamente), come posso gestire le mie debolezze, le mie emozioni, la paura di essere abbandonato e il giudizio negativo che gli altri ne daranno? E, soprattutto, dove e quando comincia un racconto finalmente diverso di cosa significhi essere donne e uomini oggi, stare in coppia, scegliersi, costruire relazioni paritarie (che fanno poi la differenza tra una coppia che litiga e la violenza di genere)? La psicologia sociale studia l’influenza che il contesto e le relazioni (la famiglia, la scuola, i coetanei, la società) hanno sullo sviluppo delle persone, sia nei rapporti con gli altri che nella definizione della propria identità, e spiega come le aspettative del mondo intorno a me divengano parte fondamentale del modo in cui noi ci pensiamo. Tra queste aspettative c’è l’assegnazione del ruolo già previsto per le donne e gli uomini in quel contesto sociale. Per questo motivo atteggiamenti e comportamenti quotidiani tendono a replicare l’esistente, anche quando la posizione in cui mi trovo è di chiaro svantaggio (e i dati sulla condizione professionale, famigliare ed economica delle donne italiane ce lo mostrano ogni giorno). Cambiare questa situazione da soli è difficile e spaventoso, ed il prezzo per riuscirci è altissimo, proprio a causa della distanza che avvertiamo tra la nostra condizione, quella desiderata, e il timore della riprovazione sociale. Ecco perché il cambiamento culturale e la costruzione di una nuova narrazione sul femminile e maschile sono irrimandabili, nell’Italia dell’innovazione tecnologica, e vanno perseguiti insieme, da donne e da uomini, e con le istituzioni. Con una politica che sappia finalmente riconoscere apertamente che la violenza di genere si previene con una cultura delle pari opportunità (vere!). E che questa cultura va costruita attraverso un approccio sistemico, con i Piani Nazionali, che prevedano corsi dedicati al contrasto degli stereotipi e delle disuguaglianze per tutti, dalla scuola dell’infanzia fino all’università. E che nello stesso tempo realizzino la revisione dei testi scolastici e la formazione di tutti coloro che nella società funzionano da “moltiplicatori” (di pregiudizi o di visioni eque ed articolate): docenti, educatori, formatori, manager, associazioni di genitori, medici, psicologi, assistenti sociali, orientatori e consulenti. A queste azioni si devono affiancare massicci interventi di sensibilizzazione dei media, della pubblicità, della comunicazione pubblica, del web affinché svolgano una funzione informativa consapevole. Perché gli stereotipi, che sono la base di questa situazione, diversamente da quanto comunemente si dice non si possono “eliminare”: il nostro sistema cognitivo non può fare a meno di questi sistemi semplificati e automatici di organizzazione delle informazioni, che sono esattamente ciò che ci permette di orientarci nella complessità del mondo. Dobbiamo invece sviluppare una “consapevolezza” dei nostri stereotipi e delle sistematiche disparità che ne derivano, per poter su queste intervenire: a questo servono i Piani Nazionali. Per questo, tornando alla distruttività dei femminicidi, e all’impossibilità di assistere inerti a quanto accade, intervenire sulla disparità tra i generi, nella crescita e tra gli adulti, imparare a riconoscere precocemente la violenza e i suoi predittori, in me e nelle persone che mi sono vicine, significa contribuire a costruire una nuova narrazione delle relazioni: avendo la garanzia, allo stesso tempo, da donne e da uomini, di poter chiedere aiuto a chi ha le competenze specialistiche per darlo (centri antiviolenza, forze dell’ordine, servizi territoriali etc.). E smettendo di voler credere che tutto questo finirà senza bisogno di interventi, che occorre avere pazienza, che domani è un altro giorno. *Docente di Psicologia Sociale e Psicologia delle Differenze e delle Disuguaglianze all’Università di Milano Bicocca Banca Etica, i “social bond” per contrastare la mafia e l’usura di Marta Rizzo La Repubblica, 14 settembre 2021 L’Istituto di credito inaugura un prestito obbligazionario per l’inclusione finanziaria, con lo scopo di finanziare il riuso sociale di beni confiscati alle mafie e promuovere iniziative legali. Banca Etica ha avviato il collocamento di un prestito obbligazionario subordinato per raccogliere 2,5 milioni di euro che saranno destinati a finanziare organizzazioni impegnate nella riqualificazione riuso dei beni confiscati alle mafie e in iniziative di promozione della legalità e prevenzione dell’usura. Un tema che vede impegnata da sempre Banca Etica e particolarmente attuale in tempi di pandemia. I reati di usura sono saliti del 6,5 % nel 2020. Il recente Rapporto di Libera intitolato “Le mani della criminalità organizzata sulla pandemia” segnala una crescita del 6,5% dei reati commessi con metodo mafioso finalizzati all’usura nel primo semestre 2020. La pandemia, lo si dice spesso, ha accentuato tutte quelle forme di speculazione illegale che sfrutta emergenze e povertà. Per contrastare questa tendenza, Banca Etica si avvale dei social bond, i cui proventi vengono impiegati per finanziare esclusivamente progetti sociali. Le banche hanno gli strumenti per creare valore. “L’emissione di un prestito obbligazionario (il “Bond”) è uno degli atti tipici di una banca: proporre ai propri clienti un rendimento a fronte di un deposito per un determinato tempo - spiega Nazzareno Gabrielli, vice direttore generale di Banca Etica - raccogliere denaro per gestirlo e farlo fruttare, generando valore. Gestire il denaro affidatole dai clienti, per Banca Etica è una delle occasioni in cui proporre a possibilità di inserirsi nel processo di costruzione di valore: non solo finanziario, ma anche sociale e ambientale. Con questa raccolta la banca concederà prestiti a persone e organizzazioni che operano nella costruzione di economie di legalità, di inclusione finanziaria, che è alla base della lotta all’usura e alla criminalità diffusa. Un modo di far fruttare il proprio risparmio in maniera superiore al semplice interesse che il risparmiatore percepirà: un interesse aggiuntivo dato dalla qualità sociale e ambientale. È un po’ come una chiamata al protagonismo del cliente/risparmiatore che non si limita a valutare solo l’interesse, ma può consapevolmente decidere di privilegiare un concreto sostegno a settori dell’economia reale a cui vuole dare il proprio contributo”. Il riuso sociale dei beni confiscati alle mafie. Il riuso sociale dei beni confiscati alle mafie è una delle forme più efficaci e ricca di significato di contrasto alla criminalità organizzata: negli anni novanta, dopo la stagione delle stragi di mafia, una petizione popolare (promossa dalla neo-costituita rete di enti non profit “Libera”) firmata da oltre 1 milione di cittadini diede impulso all’azione parlamentare che portò all’approvazione della Legge n.109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati. Un recente report dedicato ai 25 anni di quella legge rivoluzionaria mostra come siano oltre 35.000 i beni immobili confiscati, dei quali oltre 14.000 destinati agli enti territoriali. Circa 10.000 sono stati destinati a fini sociali. Per realizzare l’effettiva destinazione sociale dei beni confiscati c’è bisogno di risorse finanziarie da destinare al ripristino delle strutture e alla loro gestione. L’impegno di Banca Etica. Nel 2020 Banca Etica ha sostenuto 24 organizzazioni impegnate sui temi della legalità attraverso finanziamenti per un totale di 2,8 milioni di euro. Tra queste organizzazioni, 20 realtà che operano sui beni confiscati sono state sostenute con finanziamenti per 2 milioni di euro. Nello stesso anno, la Banca ha erogato micro crediti per circa 1,8 milioni di euro a persone fisiche nell’ambito di convenzioni anti usura. Il denaro raccolto attraverso questo nuovo prestito obbligazionario sarà destinato a organizzazioni che gestiscono beni confiscati alle mafie; organizzazioni impegnate in iniziative di promozione della legalità; interventi di micro finanza finalizzati alla prevenzione dell’usura in collaborazione con organizzazioni attive nel contrasto del fenomeno. Mai più la parola razza. Appello al G20 delle religioni di Sergio Rizzo La Repubblica, 14 settembre 2021 Mentre intolleranza e razzismo mostrano ovunque preoccupanti sintomi di recrudescenza non ci poteva forse essere messaggio più potente di quello dato ieri a Bologna dal G20 Interfaith, il forum interreligioso mondiale, con l’appello a cancellare la parola “razza” dalle Costituzioni. Il panel era formato da Barbara Pontecorvo, Presidente di Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni, Audrey Kitagawa, Presidente e Fondatrice dell’Accademia Internazionale per la Cooperazione Multiculturale, Ganoune Diop, Segretario Generale dell’Associazione Internazionale per la Libertà Religiosa, Yassine Lafram, Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, Zara Mohammed, Segretario Generale del Consiglio Musulmano della Gran Bretagna, Michael O’Flaherty, Direttore dell’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali, Jim Winkler, Presidente e Segretario Generale del Consiglio Nazionale delle Chiese. La discussione sul tema è aperta da tempo in alcuni Paesi europei, partendo dalla considerazione che l’uso di quel vocabolo sia pure in un contesto antidiscriminatorio rappresenterebbe secondo i sostenitori della sua eliminazione un implicito per quanto involontario riconoscimento che esistono diverse razze umane. Il risultato è che la Francia ha già emendato la propria carta del 1958 tre anni fa abolendo non soltanto quella parola, ma anche il riferimento alle differenze di sesso. E la Germania ha seguito i francesi sei mesi fa, riformulando l’articolo 3 della legge fondamentale, secondo cui ora “nessuno può essere danneggiato o favorito (…) per motivi razzisti” anziché “per la sua razza”, com’era scritto in precedenza. Anche in Italia si è innescato da qualche anno un dibattito sull’opportunità di rivedere l’articolo 3 della nostra carta costituzionale, che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Com’era prevedibile, con opinioni anche assai contrastanti. C’è chi, per esempio la senatrice a vita Liliana Segre, è convinto che l’eliminazione della parola “razza” sarebbe “un ottimo segnale”. E quanti, al pari di alcuni costituzionalisti, restano invece persuasi che il mantenimento di quella parola sia una specie di monito contro gli orrori del passato, tesi certificata anche dall’Accademia della Crusca. Il tutto, ed è questo l’aspetto che forse dovrebbe fare più riflettere sulla reattività dei partiti, rispetto a tale fisiologica differenza di opinioni, nel pressoché totale silenzio della politica: che sembra del tutto disinteressata a una questione che è ben più sostanziale che puramente formale. Ne è dimostrazione l’uso che ancora si fa della parola “razza”, come di espressioni tipo “origine razziale” in leggi, decreti, delibere delle authority, perfino nei contratti di lavoro. Talvolta in modo assolutamente scriteriato. Uno studio della Deloitte legal pubblicato da Repubblica nelle scorse settimane ha calcolato che gli atti pubblici vigenti dello stato italiano in cui compare il concetto di “razza” riferito agli esseri umani sono ben 239. Basterebbe questo incredibile aspetto, se non gli esempi francese e tedesco, perché pure i nostri partiti trovassero il tempo di occuparsene, affrontando la faccenda con la serietà che richiede. Ma va detto che il clima politico, purtroppo, è quello che è. Dicono tutto il calvario del disegno di legge Zan e l’accoglienza riservata dalla destra alla proposta di introdurre in Italia lo Ius soli. E possiamo immaginare le reazioni alla proposta del G20 Interfaith, fra chi farà spallucce e chi dirà che abbiamo ben altri problemi: in fin dei conti perché perdere tempo per una parolina? Già, è solo una parolina. Che però continua a pesare come un macigno sulla storia dell’umanità. L’Ue ha paura dei migranti ma li crea con le sue armi di Futura D’Aprile Il Domani, 14 settembre 2021 Proprio le politiche commerciali dell’Unione e dei singoli paesi europei sono in parte responsabili di questi esodi di massa. I conflitti in Africa e Medio Oriente mettono in evidenza uno dei paradossi dell’Ue: prima vende armi a chi combatte, poi respinge i disperati che provano ad arrivare da noi. E le industrie della difesa ringraziano. Ogni nuovo conflitto in medio oriente e Africa risveglia nell’Unione europea l’incubo di flussi migratori ingestibili, di milioni di persone in fuga dalla fame e dalla guerra pronte a travolgere il vecchio continente nonostante i muri, le reti e il filo spinato che ormai circondano l’Europa. Eppure proprio le politiche commerciali dell’Unione e dei singoli paesi europei sono in parte responsabili di questi esodi di massa. Continuando a vendere armi a stati coinvolti in teatri di guerra o che non rispettano le norme sulle limitazioni d’uso finale e di esportazione (End-user license agreement), i paesi europei alimentano guerre e conflitti nel mondo per poi spendere denaro pubblico per il rafforzamento delle frontiere esterne e per la gestione dell’immigrazione. Il tutto a vantaggio delle grandi aziende attive nel settore della difesa e della sicurezza. Il commercio delle armi continua infatti a essere tra i più remunerativi al mondo, dopo aver raggiunto nel 2020 il valore di 2.000 miliardi trilioni di dollari, con un aumento del 2,6 per cento rispetto all’anno precedente. Ad averne tratto vantaggio è stata anche l’Unione europea: nel periodo 2015-2019, l’Ue è arrivata seconda nella classifica dei fornitori mondiali di armi, subito dopo gli Stati Uniti, con una quota di mercato pari al 26 per cento. Un risultato che è stato possibile raggiungere grazie a Italia, Germania, Regno Unito, Francia e Spagna, che da sole valgono il 22 per cento dell’export europeo di armi. Capire che fine fa il materiale bellico e il know-how venduto dall’Ue ai paesi terzi, però, non è sempre così facile come calcolarne i guadagni. Nonostante l’esistenza di una Posizione comune europea e della firma da parte degli stati membri del Trattato sul commercio di armi, in molti casi le armi europee finiscono nelle mani di paesi coinvolti in conflitti, che non rispettano i diritti umani o che rivendono o cedono il materiale acquistato, in aperta violazione degli accordi siglati con i fornitori. L’utilizzo delle armi prodotte in Europa contribuisce quindi al fenomeno delle migrazioni forzate e alla nascita di nuovi flussi migratori, a cui l’Ue risponde sempre più spesso con un rafforzamento dei confini esterni. Un esempio emblematico di questo paradosso è quello della Turchia, pagata dell’Ue per fermare i migranti provenienti principalmente dalla Siria e allo stesso tempo militarmente attiva nella guerra che sconvolge da dieci anni il paese arabo, grazie anche alle aziende italiane. Le relazioni commerciali tra Italia e Turchia nel settore della difesa non sono certo una novità, ma l’ultimo report del think tank internazionale Transnational institute (Tni) riporta un dato interessante. L’elicottero T-129 ATAK sviluppato dalla Turchia con l’aiuto dell’azienda italiana Leonardo è stato infatti impiegato dall’esercito turco nelle operazioni Ramoscello d’ulivo e Sorgente di pace, entrambe dirette contro la popolazione del nord della Siria. I due interventi militari turchi hanno contribuito a destabilizzare l’area settentrionale del paese, costringendo migliaia di persone a cercare rifugio in altre zone della Siria o all’estero. A legare la vendita di armi prodotte in Europa con i flussi migratori che coinvolgono il vecchio continente è anche il caso della Bulgaria. Come svelato in un report del Conflict armament research (Car), diverse armi prodotte dalle aziende bulgare e acquistate da Stati Uniti e Arabia Saudita sono state cedute in un secondo momento ad alcune milizie attive in Iraq e addestrate da Washington per combattere contro l’Isis. Il progetto Usa si è però rivelato fallimentare e gli armamenti sono finiti proprio nelle mani dei guerriglieri islamici. Eppure sia Washington che Riad avevano dichiarato di essere gli utilizzatori finali del materiale acquistato e che lo avrebbero ceduto a terzi solo dietro autorizzazione dei paesi produttori, come previsto dall’End- user license agreement. Nessuno dei due ha mai interpellato la Bulgaria prima di inviare le armi acquistate da Sofia alle milizie da loro sostenute in Iraq. Alcuni di questi armamenti sono poi stati recuperati dalla polizia irachena a seguito della riconquista delle città di Ramadi e Mosul, dopo essere finiti nell’arsenale dell’Isis. Armi prodotte in Europa sono quindi state usate da un’organizzazione terroristica contro i civili, contribuendo anche allo spostamento forzato di migliaia di persone riversatesi in parte fuori dai confini iracheni. Di fronte a un aumento dei flussi migratori diretti verso il vecchio continente, l’Europa ha ben presto adottato una politica di rafforzamento e militarizzazione dei suoi confini esterni, garantendo un ulteriore ritorno economico alle aziende della difesa. Il settore della sicurezza ha infatti assistito a una crescita significativa dei suoi profitti e si prevede che entro il 2025 il suo valore si attesterà tra i 65 e i 68 miliardi di dollari. D’altronde, basta guardare al bilancio pluriennale dell’Unione europea per capire quanto remunerativo sia il desiderio di sicurezza dell’Europa. Nel periodo 2014-2020, Bruxelles ha destinato 2,4 miliardi di euro al rafforzamento dei confini esterni all’interno del Fondo Ue per la sicurezza interna, che prevede tra le altre cose anche la gestione integrata delle frontiere. Nello stesso periodo, l’Ue ha destinato 3 miliardi al Fondo asilo, migrazione e integrazione (Amif) e altri 2 miliardi a Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera più volte accusata di violazione dei diritti umani. Il bilancio pluriennale per il 2021-2027 non fa che confermare l’interesse dell’Unione verso la “securitizzazione” dei propri confini. Bruxelles ha infatti previsto una spesa di 25,7 miliardi di euro per la gestione dell’immigrazione e dei confini, mentre Frontex ha ottenuto un budget di 5,6 miliardi di euro, il più alto di sempre. A ciò si aggiungono anche i 7,9 miliardi di euro che saranno destinati nei prossimi sette anni al Fondo europeo di difesa (Edf), creato per coordinare e accrescere gli investimenti nazionali nella ricerca per la difesa e per aumentare l’interoperabilità tra le forze armate dei paesi membri. Tra i soldi che l’Unione spende per far fronte ai flussi migratori vi sono anche i sei miliardi già versati alla Turchia e del cui rinnovo si è recentemente dibattuto in sede europea. Bruxelles è infatti disposta a fornire ulteriore denaro al governo turco affinché continui a tenere i migranti bloccati all’interno dei suoi confini, soprattutto ora che in Europa è tornato l’incubo di nuovi flussi migratori a seguito della caduta dell’Afghanistan in mano ai Talebani. La crescente militarizzazione dei confini e l’export europeo di materiale bellico non tengono però conto del rispetto di quei diritti umani che l’Ue promuove e difende. La vendita di armi a paesi coinvolti in conflitti o che violano gli accordi sull’utilizzo dei prodotti acquistati, come denunciato da più parti, contribuisce alla creazione di quei flussi migratori che l’Ue cerca poi di fermare militarizzando i propri confini, rendendo ancora più pericolo il viaggio di coloro che cercano di raggiungere l’Europa. Il nesso tra immigrazione e vendita di armi, però, sembra non sia stato ancora colto in Europa. Le valutazioni sull’export europeo di materiale bellico sono state affidate dal Consiglio al gruppo Coarm, ma raramente i suoi membri si confrontano con la commissione su immigrazione, frontiere e asilo o con quella per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) per avere un quadro più generale degli effetti di specifiche politiche commerciali dell’Ue. Eppure vendita di armi e immigrazione non sono che due facce della stessa medaglia e il rafforzamento dei confini si è dimostrato più volte una risposta inadeguata al bisogno di sicurezza europeo. Referendum sulla legalizzazione della cannabis, superate le 250mila firme di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 settembre 2021 In due giorni incassate oltre la metà delle sottoscrizioni necessarie. Esultano i promotori del quesito ma denunciano il silenzio mediatico della Rai e quello del governo sull’estensione del periodo di raccolta firme. Ieri pomeriggio le firme raccolte per votare la depenalizzazione della cannabis erano 250mila, questa mattina saranno già molte di più. È un fiume in piena quello che ha travolto il sito referendumcannabis.it dove in poco più di 48 ore hanno inserito il proprio nome e cognome, utilizzando il Sistema pubblico di identità digitale (Spid), la metà dei cittadini necessari a chiedere l’indizione di un referendum. Gli organizzatori della campagna, +Europa e diverse realtà della “galassia radicale”, esultano per una risposta che giudicano “stupefacente”. Al di là dell’ironia e della soddisfazione, però, denunciano il silenzio del governo, “deve chiarire sull’estensione della raccolta firme al 30 ottobre per evitare discriminazioni rispetto agli altri referendum” dice Marco Perduca (promotore del quesito), e quello della Rai, che non li ha ancora contattati per partecipare a programmi di approfondimento. Su questo punto il forzista Elio Vito, deputato favorevole alla depenalizzazione, ha scritto al presidente della commissione parlamentare di vigilanza Rai Alberto Barachini (senatore di Fi) per invitarlo a intervenire affinché il servizio pubblico garantisca il diritto all’informazione. Se la Tv di Stato fa ancora finta di non vedere è su internet che la mobilitazione corre veloce. Al ritmo dei 280 caratteri di Twitter, degli hashtag in trending topic, delle storie su Instagram, dei messaggi nei gruppi Whatsapp e chat Telegram. Su quest’onda digitale sono arrivate le prime reazioni politiche, soprattutto dei favorevoli. Nella scia aperta domenica da Beppe Grillo, “firmate e fate firmare”, l’eurodeputato 5S Dino Giarrusso ha dichiarato che bisogna “superare il tabù e legalizzare a livello europeo”. “Il referendum è la giusta risposta all’ignavia dei governi e del parlamento”, scrive Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista). Di “grande prova di partecipazione e democrazia” ha parlato il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni che si dice “convinto che ce la faremo con buona pace della destra dei vari Maurizio Gasparri, Matteo Salvini e affini. La società è più avanti della politica”. Pronta la replica di Gasparri (Fi): “Gli attacchi di Fratoianni sono per noi medaglie al petto. Vuole droga legale, ius soli e legge Zan. Tutte cose sbagliate e dannose”. Nessuna posizione ufficiale, invece, dal partito di Enrico Letta. “Personalmente sono d’accordo con la depenalizzazione e penso anzi che la cannabis vada legalizzata. I referendum, poi, sono un grande strumento democratico - afferma Enza Bruno Bossio, deputata del Partito democratico - Ma il Pd non prenderà una posizione chiara. Come sui quesiti relativi a eutanasia e giustizia preferirà trincerarsi dietro il livello parlamentare”. Bossio aveva presentato nella scorsa legislatura una proposta di legge per la legalizzazione della marijuana firmata insieme ad Alessandro Zan. Fuori dagli schieramenti politici hanno alzato la voce anche alcuni personaggi in vista, appartenenti a mondi diversi: Roberto Saviano, Lapo Elkann e Fedez criticano le politiche proibizioniste che fanno il gioco delle organizzazioni criminali e invitano a sostenere il referendum. In particolare Fedez ha condiviso su Instagram un vecchio video del 2013 in cui attaccava duramente Carlo Giovanardi, firmatario con Gianfranco Fini di una disastrosa legge sulle droghe giudicata incostituzionale nel 2014, facendo moltiplicare le visite al sito della raccolta firme. La campagna virtuale potrebbe essere sufficiente a raggiungere le firme necessarie. Se Cassazione e Corte costituzionale daranno poi l’ok al quesito si aprirà la sfida per il quorum e la vittoria del Sì. Di fronte alla possibilità concreta di raggiungere un obiettivo atteso da tempo, soprattutto tra i giovani, non si può escludere che entusiasmo e mobilitazioni escano dal web. Strage di ambientalisti nel mondo: quattro a settimana uccisi nel 2020 di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 14 settembre 2021 I dati della ong Global Witness: 277 gli omicidi. La maggior parte delle vittime in Messico. Il 70% degli attivisti lavorava per porre fine alla deforestazione. Gli attivisti che si prodigano per proteggere l’ambiente sono sempre più nel mirino. Sono almeno 227 quelli assassinati in tutto il mondo nel 2020, al ritmo di quattro a settimana, e la maggior parte in America Latina come denuncia la ong Global Witness, in un nuovo rapporto pubblicato oggi. La violenza si è scatenata da quando è stato siglato l’accordo sul clima nel 2015. Le vittime sono tutte morte mentre si battevano per proteggere la terra dal disboscamento, dallo sfruttamento delle miniere, dall’industria agricola, dalle dighe idroelettriche e da altre attività nocive per l’ambiente. Il 70% di loro ha lavorato per porre fine alla deforestazione e tutte, tranne una, hanno vissuto nei Paesi in via di sviluppo. Un terzo proveniva da popolazioni indigene. Fikile Ntshangase, 65 anni sudafricana, si batteva contro l’allargamento di una miniera a cielo aperto a Somkhele nella provincia KwaZulu-Natal. È stata uccisa lo scorso 22 ottobre mentre pensava di essere al sicuro tra le pareti di casa. “Finora non è stato arrestato nessuno per l’omicidio - ha detto alla Bbc a figlia Malungelo Xhakaza - secondo me vogliono che i lavori procedano a qualsiasi costo”. Óscar Eyraud Adams, invece, è stato ucciso in Messico il 24 settembre 2020. Lavorava perché le popolazioni indigene della comunità Kumial in Baja California avessero accesso all’acqua. Gli assassini sono arrivati a bordo di due automobili davanti alla casa in cui viveva l’attivista e gli hanno sparato. Per il secondo anno consecutivo, la Colombia è in testa a questa triste classifica, con 65 attivisti e leader della comunità uccisi per il loro impegno nella difesa della natura, secondo il report. Al di fuori della Colombia, gli episodi criminosi sono concentrati in Messico (30), Filippine (29), Brasile (20), Honduras (17) e una dozzina di altri paesi. Quasi “tre attacchi su quattro” si sono verificati in America Centrale o in Sud America, aggiunge Global Witness, che sottolinea come questi attacchi siano in aumento dal 2018. Per l’ong è importante che i governi si prodighino per proteggere gli ambientalisti. Alok Sharma, il presidente del Cop26, la conferenza sul cambiamento climatico che si terrà a ottobre in Scozia, ha detto alla Bbc che incontrerà le persone in prima linea nella lotta contro l’inquinamento e i gas serra. Egitto. Patrick Zaki rinviato a giudizio, rischia 5 anni di carcere. “L’Italia alzi la voce” di Marta Serafini Corriere della Sera, 14 settembre 2021 Oggi la prima udienza dello studente egiziano. Gli è contestato uno scritto del 2019 in difesa dei copti. “Nessuno sa cosa ne sarà di Zaki. Con gli egiziani è così”. Dopo 19 mesi di custodia preventiva oggi Patrick va a processo. L’imputazione ora è di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” sulla base di un articolo pubblicato due anni fa sulla minoranza copta cui lo stesso giovane appartiene e per la quale rischia una multa e fino a 5 anni di carcere. Capi meno gravi dall’incitamento al “rovesciamento del regime” e al “crimine terroristico” che comporterebbero fino a 25 anni e che si basavano su dieci post di Facebook da sempre definiti falsi dagli avvocati dello studente dell’Università di Bologna. “Questa svolta però non significa niente: i magistrati potrebbero assolverlo e poi processarlo di nuovo”, precisa al Corriere Amr, uno degli attivisti della campagna di liberazione per Patrick. Diverso anche il tribunale. La Corte è la numero 2 per i “reati minori” di Mansoura dove Patrick è nato e dove risiede la famiglia. Non lo stesso tribunale del Cairo dove si svolgevano le udienze per la custodia cautelare specializzato invece nei procedimenti per terrorismo. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia “è evidente che la procura egiziana, con l’approssimarsi della scadenza dei 24 mesi di detenzione preventiva, da quell’enorme castello di prove segrete, mai messe a disposizione della difesa, avrebbe tirato fuori una cosa per giustificare l’inizio di un processo”. In questo quadro, sempre per Noury, “è fondamentale che il governo italiano dia seguito alla richiesta del Parlamento di concedere allo studente la cittadinanza italiana” e alzi i toni con il regime di Abdel Fattah Al Sisi perché “ogni minuto che passa è perso”. Sostegno al giovane è arrivato anche da numerosi esponenti politici italiani. Tra questi, Filippo Sensi del Pd che promette: “Non mancherà un solo istante la nostra determinazione per la sua liberazione”. Dalla senatrice del M5s Michela Montevecchi viene invece la richiesta di osservatori internazionali al processo e che “in particolare possa presenziare la nostra ambasciata”. Egitto. I nostri silenzi e il supplizio di Zaki di Francesca Paci La Stampa, 14 settembre 2021 Non era mai successo, dicono in Egitto, che si decidesse di processare un attivista come Zaki così, dal giorno alla notte, quasi a mettere una pietra tombale sulle mille critiche all’arbitrarietà della carcerazione preventiva e chiuderla lì, una volta per sempre. Un avvertimento forse, un segnale, una provocazione. Di sicuro un cambio di passo, ancorché dalla direzione incerta. In realtà un precedente c’è al caso di Patrick George Zaki, il ricercatore dell’ateneo di Bologna che dopo 19 mesi di limbo carcerario viene condotto stamattina davanti ai giudici di Mansoura per rispondere non più dei presunti post “d’incitamento a rovesciare il regime” ma della “diffusione di notizie false dentro e fuori dal paese” in virtù di un articolo di due anni fa sulla persecuzione e le paure della minoranza copta. Il precedente è quello del connazionale Ahmed Samir Santawy, lo studente dell’università di Vienna accusato di calunnia contro lo stato e condannato lo scorso giugno a 4 anni di prigione da un tribunale d’emergenza, quelli inappellabili le cui sentenze diventano subito definitive. Certo, in base all’imputazione di terrorismo formulata sul principio e ribadita con cieca determinazione in tutti questi mesi, Zaki rischiava fino a 25 anni, cinque volte tanto la pena ipotizzata adesso. Ma l’impressione al Cairo è che le buone notizie finiscano qui. Non che le aspettative fossero rosee. Anzi. Nonostante la campagna condotta in Italia da irriducibili testimonial come i parlamentari del Pd Filippo Sensi e Lia Quartapelle, l’atteggiamento dell’Egitto nei confronti del biasimo internazionale per il trattamento riservato a Zaki è andato via via irrigidendosi. Man mano che la posizione geopolitica del paese si stabilizzava nella regione risucchiata dal vuoto del disimpegno americano, cresceva l’indisponibilità a prendere lezioni di morale dall’esterno. Fin quando, un paio di giorni fa, il presidente Abdelfattah al Sisi, allacciato ieri in uno storico incontro sulla sicurezza con il premier israeliano Naftali Bennett, ha radunato una nutrita platea internazionale nella nuova sabbiosa capitale amministrativa New Cairo per spiegare le linee guida della “Strategia nazionale per i diritti umani 2021-2026” e mettere nero su bianco a futura memoria che voler imporre all’Egitto il garantismo vigente in altri paesi non funziona, che forzare l’accelerazione dei tempi propri di ciascuna società è un atteggiamento “dittatoriale”, che la superiorità etica dell’Occidente è un capriccio della Storia tanto circoscritto nello spazio quanto limitato nel tempo. Nelle stesse ore il rappresentante egiziano alle Nazioni Unite Ahmed Gamal El-Din snocciolava a Ginevra l’elenco dei diritti umani considerati tali al Cairo, la salute, l’istruzione, il lavoro, la sicurezza sociale, il cibo, le identità culturali e religiose. Nessuna menzione alla libertà, nessuna fuga in avanti. Al crocevia tra le umane sorti e progressive e la ragion di Stato sta Parick George Zaki, un simbolo ormai che, forzando parecchio la mano, può evocare addirittura l’accanimento contro Dreyfus, il capro espiatorio per eccellenza della cattiva coscienza allora antisemita. Zaki, il volto di una generazione bruciata a Tahrir ma anche l’epigono delle speranze copte in un regime inizialmente considerato salvifico, rappresenta molto più del ragazzo che è. Per l’Egitto, dove lo scontro con l’intellighenzia liberal e cosmopolita è l’estrema fase della guerra per accaparrarsi la narrazione degli ultimi vent’anni. E per l’Italia, che non ha rinunciato a chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni ma che, incassando un rimpallo dietro l’altro, si è fatta afona, defilata. Per questo non possiamo mollare Zaki. Perché è un simbolo e porta dentro di sé tutti gli innominabili Regeni egiziani. Insiste, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury a domandare “all’amico al Sisi” una prova del legame che unisce l’Italia all’Egitto. Insistono i compagni bolognesi, le tante amministrazioni che hanno già concesso la cittadinanza, insiste chi pure non si aspetta nulla dall’udienza di oggi. Per l’Egitto e per l’Italia. O Zaki o mai. Guantánamo, “La fabbrica dei terroristi” di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 14 settembre 2021 Parla l’avvocato di 7 dei 39 detenuti ancora nella struttura detentiva di massima sicurezza. E’ Clive Stafford Smith, legale inglese di 62, responsabile di una Ong: “La situazione è avvilente, ci sono persone rinchiuse lì da 19 anni senza processo e alcune senza essere mai state accusate di nulla”. “Quando nel 2011 è stato ucciso Osama bin Laden sono stati trovati nella sua casa in Pakistan documenti con i nomi degli affiliati ad Al-Qaeda: non erano neanche 120 persone, di cui cinque erano i suoi figli. Pensare che questa organizzazione potesse essere una minaccia duratura per la sicurezza americana tanto quanto lo era stata l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda era assurdo. Con posti come Guantánamo però abbiamo fatto crescere una generazione di giovani musulmani alienati, addestrandola a odiarci. Rispetto all’11 settembre, gli estremisti islamici ora sono molti di più”. I venti anni di guerra visti da un avvocato. I 20 anni di “guerra al terrore” sono visti dalla fine, e dalle celle di Guantánamo, se a guardarli è Clive Stafford Smith. Avvocato inglese di 62 anni, è il legale di sette dei 39 detenuti che ancora si trovano nella struttura detentiva di massima sicurezza istituita 19 anni fa dagli Stati Uniti nella base navale omonima situata a Cuba, conosciuta anche con l’acronimo Gtmo. L’Agenzia Dire lo ha intervistato alla vigilia del 20esimo anniversario dell’attentato delle Torri Gemelle di New York che alla “guerra al terrore” diede il via. L’avvocato è tornato dal carcere di Guantánamo, dove si è recato per la 40esima volta, solo il 6 settembre scorso. Persone rinchiuse da 19 anni senza processo. “È sorprendente quanto la situazione sia avvilente - denuncia Smith - ci sono persone che sono rinchiuse lì da 19 anni senza ancora essere andate incontro a un processo o senza che sia stata formalizzata un’accusa ai loro danni”. Nove di loro, riferisce il legale, sono stati dichiarati liberi di lasciarla dalla Periodic Review Board, le commissioni di revisione periodica con l’incarico di amministrare “procedure amministrative” statunitensi e verificare se determinate persone detenute nei campi di Guantánamo siano sicure tanto da rilasciarle o trasferirle, o se debbano continuare ad essere trattenute. Due, originari del Pakistan, sono clienti di Smith. “Ci sono alcuni reclusi che potrebbero andare via anche domani, ma che non vengono rilasciati effettivamente, anche da dieci anni”, riporta l’avvocato. “La situazione ricorda un passaggio di un brano degli Eagles, Hotel California: ‘You can check out any time you like, but you can never leave’“, come dire: “Puoi lasciare l’albergo quando vuoi, ma non potrai mai andare via’. 19 anni rinchiuso senza mai essere accusato di nulla. Lo scorso luglio, il cittadino marocchino Abdullatif Nasser è stato trasferito nel suo Paese di origine dopo 19 anni di detenzione senza accuse. Si è trattato del primo rimpatriato dell’amministrazione guidata dal presidente Joe Biden, e secondo il legale, comunque, “non sarà l’ultimo”. Le ragioni per facilitare la partenza dei reclusi sarebbero diverse, a cominciare dal dispendio economico, sottolinea Smith: “Per il carcere, dal 2002 a oggi, sono stati spesi addirittura sei miliardi di dollari”. Uno scenario cupo, simile all’Afghanistan. Lo scenario cupo di Guantánamo fa il paio con quello della ritirata della Nato in Afghanistan, il primo Paese dove gli americani sono intervenuti militarmente dopo l’11 settembre. Il 15 agosto scorso, i talebani contro cui Washington si era mossa nel 2001 sono entrati nella capitale Kabul e hanno proclamato l’Emirato islamico. Il 31 agosto l’ultimo marine ha fatto ritorno in patria, lasciandosi alle spalle un Paese che per certi versi somiglia a quello che attendeva il primo soldato Usa 20 anni fa. “Era tutto molto prevedibile, basta avere un minimo di consapevolezza storica”, dice Smith. “La Gran Bretagna ha combattuto tre guerre di Afghanistan, l’Urss una, le hanno perse tutte”. Vicende complesse, da cui trarre lezioni. L’avvocato, che oggi dirige anche 3D Centre, una Ong con la quale conduce campagne in difesa dei diritti umani, ricorda il suo ultimo viaggio a Kabul due anni fa: “Non c’era una sola persona che fosse contenta della nostra presenza e, in primo luogo, del fatto che li avessimo invasi”. Tra le ragioni di questo scontento c’è anche il governo presieduto da Ashraf Ghani, fuggito dal Paese mentre i primi talebani calpestavano il suolo della capitale. “La stessa amministrazione americana lo considerava il governo più corrotto al mondo”, denuncia Smith. “Di fatto, l’alternativa era tra un esecutivo fatto da criminali e i talebani, che non volevano più gli Usa: la scelta non poteva essere altrimenti”. Vicende complesse, ma che portano con loro delle lezioni. “Un atto criminale, non di guerra”. “L’11 settembre era un atto criminale, non di guerra” dice l’avvocato. “I suoi autori dovevano essere considerati dei criminali e non dei guerrieri. Quest’ultima opzione, per altro, era proprio quella che desiderava Al-Qaeda”. Parlando di Afghanistan, Smith cita ancora un brano musicale: “Michael Franti cantava: ‘We can bomb the world to pieces, but we can’t bomb it into peace’, ‘possiamo fare a pezzi il mondo con le bombe, ma con queste non possiamo farci la pace’. La lezione è semplice: dovremmo smetterla di fare guerre in giro e di sostenere governi corrotti”. È stata la più grave sconfitta di Obama. Appena eletto, pare solo due giorni dopo essere stato nominato presidente degli Stati Uniti, Barack Obama decise, con un suo esplicito “ordine esecutivo” di chiudere entro un anno il centro di detenzione di Guantánamo. Ebbene, in tutto il suo periodo di presidenza, durato ben otto anni - dal 20 gennaio 2009 al 20 gennaio 2017 - è rimasto aperto e operativo. E lo è ancora oggi, con quei 39 detenuti ancora in tuta arancione, ammanettati e inginocchiati nelle gabbie. Secondo molti analisti, l’ex presidente non è riuscito nel suo proposito per la complessità nel dover rimpatriare o mandare in paesi terzi centinaia di detenuti, dopo anni di carcere duro senza accuse formali. Inoltre, Obama dovette affrontare la paralizzante opposizione del Congresso, anche dai banchi del suo stesso Partito Democratico. Un costo enorme per i contribuenti USA. Il centro di detenzione militare nella base navale statunitense di Cuba costa ai contribuenti 445 milioni di dollari ogni anno. La sua apertura risale al gennaio 2002 ed ha ospitato fino a 780 reclusi, tra infinite polemiche, soprattutto relative alle torture inflitte ai detenuti, alle loro condizioni di reclusione e alle forzature giuridiche, spesso sconfinate in veri e propri crimini contro la persona, suscettibili di essere giudicati e sanzionati dal Tribunale penale dell’Aja. “Combattenti irregolari”, quindi senza processo né accuse formali. le persone rinchiuse a Guantánamo sono da sempre classificati come “combattenti irregolari”. E questo si è tradotto, di fatto, nell’assenza totale di una qualsiasi forma di diritto per i detenuti, previsto dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Ci sono stati addirittura casi in cui alcune persone sono state considerate estranee alle accuse contestate, ma sono comunque rimaste in galera. Alcune lo sono ancora. L’ultimo caso è di un cittadino afgano sul quale gravava il sospetto di aver fabbricato armi per al Qaeda. Dopo 14 anni, il dipartimento della Difesa Usa ha riconosciuto di essersi sbagliato, identificandolo “erroneamente”. Siria. Torture, stupri e sparizioni: così vengono puniti i rifugiati che rientrano di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2021 Noor* è stata fermata al confine appena rientrata dal Libano ed è stata stuprata insieme alla figlia di cinque anni: “Mi hanno chiesto: ‘Perché hai lasciato la Siria? Perché non ti piace Bashar al-Assad e non ti piace la Siria?’. Poi hanno detto che ero una terrorista e che la Siria non è un albergo da cui puoi uscire e rientrare quando ti pare”. Yasmin*, a sua volta tornata dal Libano insieme a un figlio minorenne e a una figlia di tre anni, è stata fermata alla frontiera e accusata di spionaggio. I tre sono stati trasferiti in un centro di detenzione dei servizi segreti, dove sono rimasti per 29 ore. Gli agenti hanno stuprato sia lei che il figlio minorenne: “Mi hanno detto: Questo è il benvenuto nel tuo paese. Se esci ancora una volta dalla Siria e rientri, ti daremo un benvenuto ancora più grande. Non dimenticherai per tutta la vita il modo in cui ti abbiamo umiliata”. Negli ultimi tre anni l’intensità dei combattimenti è fortemente diminuita e ora il governo siriano controlla oltre il 70% del paese. Le autorità di Damasco hanno pubblicamente incoraggiato i rifugiati a tornare e vari stati ospitanti hanno iniziato a riconsiderare la protezione sino ad allora offerta ai rifugiati siriani. In Libano e in Turchia, dove molti rifugiati vivono in condizioni durissime e sono discriminati, i governi stanno mettendo grande pressione sui siriani affinché rimpatrino. Per quanto riguarda l’Europa, Danimarca e Svezia hanno rivisto i criteri per la concessione dei permessi di soggiorno ai richiedenti asilo provenienti da zone, a loro dire, sicure per farvi rientro, compresa la capitale Damasco e le zone circostanti. Amnesty International è invece in grado di affermare, sulla base delle sue ricerche rese pubbliche il 7 settembre, che nessuna zona della Siria è sicura e che coloro che hanno lasciato il paese all’inizio del conflitto rischiano seriamente di subire persecuzioni al rientro, sulla base della loro percepita affiliazione politica o semplicemente come punizione per aver lasciato il paese. Karim* è stato arrestato quattro giorni dopo il suo rientro dal Libano nel suo villaggio situato nella provincia di Homs. È rimasto in detenzione per sei mesi e mezzo: “Uno [di quelli che m’interrogavano] mi ha accusato di essere tornato per rovinare il paese e completare quello che avevo iniziato prima di partire. Ero un terrorista perché venivo dal mio villaggio [schierato con l’opposizione]. Dopo che mi hanno rilasciato, per cinque mesi non ho potuto incontrare nessuna delle persone che venivano a farmi visita: avevo incubi e allucinazioni, parlavo nel sonno, mi svegliavo urlando e piangendo. Le torture hanno lesionato i nervi della mia mano destra e alcuni dischi della schiena”. In totale, Amnesty International ha documentato 59 casi di uomini, donne e bambini arrestati arbitrariamente al rientro in Siria, nella maggior parte dei casi per accuse di terrorismo. In 33 di questi casi, le persone arrestate sono state torturate nel corso degli interrogatori o durante la detenzione. Yasin*, arrestato appena rientrato dal Libano, ha trascorso quattro mesi in carcere: “Non so per quanto tempo mi abbiano torturato. Ogni tanto riuscivo a contare i colpi che mi davano. Una volta sono arrivato a 100 ma di solito dopo 50 o 60 svenivo”. Ventisette ex rifugiati sono stati vittime di sparizione forzata. In cinque di questi casi, le autorità hanno comunicato alle famiglie il decesso in carcere. Quattro detenuti scomparsi sono stati rilasciati mentre di 17 non si sa più nulla. Ibrahim* ha raccontato che suo cugino, la moglie e i loro tre figli di due, quattro e otto anni, sono stati arrestati nel 2019 appena rientrati dalla Francia. Da due anni e otto mesi, questa famiglia risulta scomparsa. *Tutti i nomi sono stati cambiati per ragioni di sicurezza Afghanistan, terroristi e non solo: allerta traffico d’armi, droga e migranti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 settembre 2021 Le emergenze del dossier Europol. La vittoria dei talebani in Afghanistan ha riacceso la spia dell’emergenza terrorismo, che le polizie e i servizi di sicurezza occidentali non hanno mai smesso di tenere sotto controllo, ma le preoccupazioni non riguardano solo la possibilità di attentati imminenti. La disfatta di Kabul apre scenari complessi e densi di incognite anche sul medio e lungo periodo, con il timore di ripercussioni importanti dei mutamenti strutturali che potrebbero avvenire in quell’area. Lo segnala un’analisi di Europol, l’agenzia dell’Unione europea che coordina e assiste i Paesi nel contrasto alla criminalità internazionale e agli attacchi delle organizzazioni eversive. Nell’ultimo focus dedicato alla crisi afghana inviato agli organismi investigativi dei 27 Stati membri, l’ufficio con sede all’Aja segnala che “i recenti sviluppi sono destinati nel lungo termine ad avere un impatto sulla sicurezza dell’Unione”, e resta costante “il monitoraggio e la valutazione di quanto sta avvenendo, anche nella dimensione on-line”. Il sottobosco di Internet resta infatti uno dei veicoli principali di attività e propaganda legata all’estremismo di matrice religiosa, da cui possono scaturire le insidie che si tenta di prevenire attraverso il pattugliamento costante della rete. Nel rapporto redatto dal Centro europeo antiterrorismo di Europol, guidato dal dicembre scorso dal dirigente della polizia italiana Claudio Galzerano, sono 5 le “aree di principale preoccupazione” individuate dagli analisti. La prima riguarda l’ipotesi che l’Afghanistan possa ora diventare un rifugio (safe haven) per “individui e gruppi terroristici, inclusi elementi radicalizzati provenienti dall’Europa, qualora il regime talebano dovesse ospitare, consentire o ignorare progettualità terroristiche contro obiettivi internazionali”. Il rischio è che il nuovo governo sia tollerante o anche solo disattento alla possibilità che il suo territorio diventi approdo o terra di transito per foreign fighter senza più riferimenti stabili, aspiranti combattenti o estremisti che abbiano in mente di preparare attentati; offrire riparo ai terroristi o anche solo allentare o abbandonare il controllo di attività sospette, significherebbe trasformarsi in una nuova base operativa, di passaggio o di sostegno per attacchi che possono avvenire ovunque. Legata a una simile eventualità è la probabilità che il cosiddetto Stato islamico del Khorasan, radicato nella omonima provincia a nord dell’Afghanistan, “possa acquistare maggiore consistenza, accogliendo tra le sue file quei defezionisti talebani che dovessero lasciare questa organizzazione poiché delusi dai loro leader, percepiti come “traditori dell’Islam” per aver intavolato trattative con i Paesi occidentali”. A queste due preoccupazioni generali se ne aggiungono altre su fenomeni più specifici, conseguenti alla conquista del potere da parte dei talebani attraverso una guerra che s’è rivelata molto più rapida del previsto (o dell’auspicato). Come quella relativa alle “armi abbandonate dalle Forze alleate e dall’esercito locale, che possono diventare oggetto di commercio e/o essere utilizzate da gruppi terroristici operanti non solo in Afghanistan per compiere attacchi contro obiettivi occidentali”. Ancora: l’esito della guerra rende plausibile “un aumento dei flussi migratori di cittadini afghani verso l’Unione Europea”, e questo comporta che “i network criminali coinvolti nella facilitazione dell’ingresso illegale di migranti nell’Ue cercheranno di reclutare persone in Afghanistan, aumentando le tariffe per la loro opera di facilitazione e capitalizzando le infrastrutture esistenti per il traffico dei migranti”. Nuovi affari in vista per i mercanti di uomini, dunque, al pari di ciò che potrebbe accadere con il traffico di droga. “Esiste il rischio - scrive il Centro antiterrorismo - che i talebani incrementino la produzione di oppio come fonte principale di finanziamento, con il conseguente aumento delle attività di traffico verso l’Unione e della disponibilità di eroina sul mercato europeo”. A fronte di questi possibili scenari, Europol sta cercando di attivare più efficienti scambi di informazioni e di analisi per incentivare collaborazione e integrazione tra gli organismi di polizia e di intelligence impegnati nel contrasto al terrorismo, ma pure tra le istituzioni dell’Unione. Dalle diverse agenzie fino alla Commissione, in modo che da una “valutazione consolidata e comune della minaccia” possano derivare strategie di prevenzione e difesa più efficaci possibili. Anche prendendo spunto da situazioni di crisi come quella afghana.