L’odissea dei braccialetti elettronici: tra costi esorbitanti e pochissime attivazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2021 Non sono mai mancati i problemi, con il braccialetto elettronico. Da quelli relativi al loro funzionamento alla loro disponibilità. Per più di un decennio, il braccialetto è vissuto nella marginalità, conseguenza di un disinteresse generale, protrattosi pur dopo che ne era stata prevista l’applicazione con un decreto legge del 2000. Nel 1998 il tema era oggetto di attenzione nell’ambito dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. La competenza di tale ufficio includeva, all’epoca, anche il settore delle misure alternative alla detenzione (poi ridefinito più correttamente dell’esecuzione penale esterna). Le sedi internazionali alle quali l’ufficio partecipava vedevano un interessante confronto tra esperienze di Stati europei diversi che presentavano, peraltro, un elemento in comune: il braccialetto elettronico era già applicato, oppure se ne stava considerando l’introduzione. Negli anni successivi, l’attenzione dell’amministrazione penitenziaria si focalizzava sull’approfondimento degli aspetti tecnici dei sistemi di monitoraggio elettronico già esistenti e presentati da ditte private, mentre proseguiva il confronto con le esperienze di altri Paesi. Bisogna contestualizzare il clima politico che si stava respirando. Non tanto diverso da quello odierno. Gli anni 1998-2001 si caratterizzarono per una fase di instabilità politica, con dimissioni dei governi in carica prima della fine della legislatura, giunta alla scadenza “naturale” nella prima metà del 2001. In quel periodo, il tema della sicurezza agitava il dibattito politico e la domanda di maggiore sicurezza si esprimeva, forte e a volte semplificata, sui media, risolvendosi in polemiche su un asserito buonismo di magistrati e amministrazione penitenziaria, ritenuto causa di un presunto lassismo nei confronti di chi delinque. Introdotto dal 2001 nel codice di procedura penale - In tale contesto, venne introdotto nel codice di procedura penale, con il decreto legge n. 341 del 24-11-2000, convertito, con modificazioni, nella legge 19-1-2001, n. 4, l’art. 275-bis cpp. Prevedeva il braccialetto elettronico come strumento applicabile, con il loro consenso, ai soggetti indagati o imputati, dunque a coloro per i quali la restrizione della libertà personale - nella forma degli arresti domiciliari - fosse intervenuta come misura cautelare, e perciò prima della irrevocabilità della condanna. Dal 2001 al 2003 vi è una prima sperimentazione in 5 province. Dopodiché il servizio viene esteso a tutta l’Italia affidando la gestione di tutte le fasi alla Telecom Italia S.p.a. che per otto anni diviene di fatto il gestore esclusivo dell’intero delicato servizio. Fino al 2011 14 quelli attivati per quasi 6 milioni di euro ciascuno - Qui il disastro accertato dalla Corte Dei Conti. Da pagina 51 della relazione, si apprende che al 31 dicembre del 2011 i braccialetti elettronici attivati sono stati complessivamente 14. Il ministero ha speso 81,3 milioni di euro per 14 dispositivi utilizzati. In otto anni ogni braccialetto è costato quasi 6 milioni di euro. Una catastrofe. Nonostante il disastro denunciato in realtà ben prima della relazione della Corte, allo scadere della convenzione, viene rinnovata nuovamente con Telecom senza nessuna gara d’appalto: con trattativa diretta la Telecom S.p.a. si aggiudica un contratto che va dal 2012 fino al 2018 per una quantità di 2000 braccialetti. Altri anni di gestione dei preziosissimi bracciali ad un costo pressoché invariato. Nel 2013 di braccialetti ne risultavano attivi 55 - Nel frattempo il Tar del Lazio, su ricorso di Fastweb, ha dichiarato inefficace la convenzione, non essendo giustificata una trattativa diretta senza una gara pubblica, ma il Consiglio di Stato rimette la questione della sorte del contratto annullato alla Corte di Giustizia Europea e dunque la gestione dei bracciali è rimasta in mano a Telecom. Solo per rendere bene l’idea, nel 2013 i braccialetti attivi risultavano 55. Il costo per quell’anno è, come da contratto, di poco meno di 10 milioni di euro, da versare a Telecom. Ma poi, accade che con l’emergenza sovraffollamento la richiesta è aumentata anche grazie ai decreti deflattivi. A giugno del 2014, l’allora capo della polizia Alessandro Pansa ha inviato ai vertici del Dap un allarme: “Ad oggi - scriveva Pansa si è arrivati a circa 1.600 dispositivi attivi con una saturazione del plafond di 2.000 unità prevista entro il corrente mese di giugno”. I braccialetti non sono più bastati, mentre la spesa contrattuale era alta. Nel 2016 Fastweb vince la gara per 36/43.000 dispositivi in 3 anni - Arriviamo nell’anno 2016. Il governo avvia bando di gara europeo che in agosto 2018 aggiudica a Fastweb la fornitura - da dicembre 2018 a dicembre 2021 per 7,7 milioni l’anno - di 1.000 (incrementabili sino a 1.200) braccialetti elettronici, dunque un totale di 23 milioni nel triennio per 36.000/43.000 dispositivi. Il Dubbio appura che l 15 maggio 2020, però, cioè dopo 16 mesi di contratto, la relazione tecnica del decreto legge “Cura Italia” ne conteggia 2.600, e non i 16.000 che a quell’epoca ci si aspetterebbe. A gennaio del 2021, l’allora viceministro Vito Crimi, grazie all’interpellanza di Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, e scaturita da un articolo de Il Dubbio, comunica che al 31 dicembre 2020 i braccialetti in uso sono 4.215 e quelli usabili 5.940, quindi in totale 10.155; e che il commissario all’emergenza Covid, su richiesta del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, il 10 aprile 2020 ha affidato a Fastweb “una fornitura di 1.600 braccialetti per le finalità dei decreti legge per far fronte alla pandemia”. Risposta che però non ha convinto. Non ha spiegato perché i braccialetti, a gennaio scorso, siano stati 10.155 se, in base al contratto da 23 milioni con Fastweb per 1.000/1.200 al mese da fine 2018 a fine 2021, dopo 24 mesi sarebbero dovuti già essere almeno 24.000. Il numero dipende dalle richieste del Viminale - Ma la colpa non è di Fastweb. In realtà, il quantitativo dipende da quanto richiesto di volta in volta da Ministero dell’interno. In sostanza il numero di braccialetti in uso dipende non da una carenza di dispositivi ma esclusivamente dalle attivazioni e disattivazioni disposte dalle Autorità competenti. Non solo, la remunerazione della società è correlata alle attività effettivamente svolte. Qualcosa non sta funzionando da parte di chi deve fare richiesta dei dispositivi. Altrimenti non si capisce perché, come denunciato recentemente da Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, in alcuni penitenziari ci sono reclusi che non usufruiscono dei domiciliari, perché manca la disponibilità dei braccialetti elettronici. La bambina nata in carcere è una sconfitta per tutti di Giusi Fasano Corriere della Sera, 13 settembre 2021 Sua madre ha più guai che anni e lei, che è la quarta figlia, avrebbe dovuto proteggerla dall’arresto perché una donna incinta non dovrebbe finire in cella. Sono 25 bambini da zero a sei anni attualmente “detenuti” assieme alle loro madri. Dove sei nata?”, le chiederanno chissà quante volte nella vita. “In carcere”, risponderà lei. È venuta al mondo l’altra notte, nella casa circondariale di Rebibbia. Non sappiamo come si chiami ma certo sappiamo quale nome sarebbe di buon augurio, date le circostanze. Libera sarebbe il suo nome perfetto. Sua madre ha più guai che anni e lei, che è la quarta figlia, avrebbe dovuto proteggerla dall’arresto perché lo sanno tutti (o quasi) che una donna incinta non dovrebbe finire in cella. Invece no. La legge stavolta ha scelto la “misura di maggior rigore”, come ha scritto la giudice che ha deciso di tenerla in cella temendo che la detenuta potesse tornare a “commettere fatti analoghi”, cioè furti. Italiana di origini bosniache, 23 anni, senza lavoro, residente in un campo rom e con il compagno disoccupato, la mamma di Libera non aveva credibilità da offrire in pegno al sistema Giustizia italiano. Ma aveva il pancione, quello sì. E davanti a quella condizione sarebbe toccato al sistema Giustizia garantirle un modo migliore per mettere al mondo la piccola. Dopo le prime contrazioni l’ha aiutata la sua compagna di cella, sono intervenuti medico e infermiera ma non c’è stato il tempo di portarla in ospedale. E sì che il suo legale aveva insistito per la revoca della carcerazione, la ragazza era stata anche ricoverata al Pertini di Roma per una minaccia di aborto pochi giorni prima di partorire. Ma niente: era rientrata in cella. La garante dei detenuti di Roma aveva scritto al tribunale proponendo di trasferirla in una casa rifugio per detenute con figli piccoli. Zero risposte. Così nascere in carcere, per Libera, è diventato di fatto un “danno collaterale” del curriculum penale di sua madre. Stanno bene, mamma e bimba, ma la storia in sé fa una tristezza infinita, come fanno tristezza i 25 bambini da zero a sei anni attualmente “detenuti” assieme alle loro madri nelle carceri italiane o negli Icam, gli istituti di custodia attenuata. Piccoli prigionieri degli errori degli adulti. Qualunque sia il crimine commesso dalle loro madri, i bambini dietro le sbarre sono una sconfitta per tutti. E sarebbe meraviglioso se con l’eco della sua storia la nostra piccola Libera facesse così tanto rumore da farli uscire tutti. Allora sì, nascere in carcere sarebbe almeno servito a qualcosa. Il parto a Rebibbia di Amra e le carceri da riformare di Benedetta Frucci Il Tempo, 13 settembre 2021 Esistono luoghi dove l’Italia, da Stato di diritto, prende i contorni di una dittatura sul modello sudamericano. Dove i diritti umani vengono dimenticati, dove perfino la parola dignità risulta sconosciuta, dove la legge soggiace alla buona volontà - talvolta alla pietà - di chi dovrebbe applicarla. E così, succede che una donna in avanzato stato di gravidanza venga reclusa a Rebibbia, nonostante le minacce di aborto, e costretta a partorire da sola nella sua cella. La storia di Amra - questo il nome della giovane madre - è una storia di disperazione come tante: fatta di piccoli furti ed emarginazione, fuoriuscita un po’ per caso dalle alte mura carcerarie, dove tante altre storie tragiche restano invece sepolte. I racconti delle torture del carcere di Santa Maria Capua Vetere, emersi grazie alle denunce dei detenuti, hanno provocato un’indignata reazione dell’opinione pubblica e un fermo intervento delle istituzioni: eppure, da anni si sussurrava di celle punitive e violenze non dissimili nelle italiche galere. Per non parlare della noncuranza verso i detenuti con problemi psichiatrici o tossicodipendenti, che richiederebbero la detenzione in strutture adeguate. Non da meno poi, sono le condizioni materiali di vita dei reclusi: celle fatiscenti, sovraffollamento, caldo soffocante in estate, freddo in inverno, mancanza di acqua. Se questo è un uomo... La funzione rieducativa della pena, prevista dalla Costituzione, appare come un miraggio, un grottesco artifizio retorico, una volta varcata la soglia del carcere. La politica - tolte poche virtuose eccezioni - finge di non vedere quella che è una vera e propria tortura legalizzata: investire in edilizia carceraria, differenziare le strutture sulla base delle esigenze del detenuto, dalla maternità ai problemi di salute fisica e mentale, è un qualcosa da ripetere nel corso di convegni per addetti ai lavori, ma che si dimentica una volta al Governo perché si pensa che non sarebbe mai capita dall’elettorato. Eppure, conciliare il rispetto dei diritti umani con le sacrosante istanze securitarie provenienti dalla società civile non solo è possibile, ma addirittura auspicabile. Colui che commette un reato è destinato al reinserimento sociale, vale a dire a camminare, divertirsi, lavorare, vivere in mezzo a noi: se gli anni del carcere non sono serviti alla rieducazione del detenuto, ma solo al suo contenimento, il soggetto molto facilmente tornerà a commettere crimini. Le statistiche sulla recidiva parlano chiaro: secondo un rapporto del Dap del 2007, la percentuale di chi tornava a delinquere dopo aver scontato la pena in carcere era del 68,45%, mentre nel caso di chi era stato condannato a una pena alternativa alla detenzione solo del 19%. E se la funzione della pena non è, in uno Stato democratico, meramente retributiva, andrebbe allora limitato il carcere, con i presupposti sopra descritti, come ultima ratio al fine non solo di garantire condizioni più umane al condannato ma anche e non di meno di proteggere la collettività. Dato per assodato tale assunto, non si capisce allora per esempio il senso di prevedere la detenzione per i reati dei cosiddetti colletti bianchi. Esistono alternative concrete al carcere: pene patrimoniali, lavori socialmente utili, sanzioni interdittive. Tanto più in un sistema in cui la certezza della pena è un miraggio e si lasciano liberi soggetti socialmente pericolosi di uccidere giovani donne, come successo in provincia di Verona pochi giorni fa. Così come appare contraddittorio l’utilizzo superficiale e massivo dello strumento della carcerazione preventiva: in un Paese in cui, sulla Carta, si è innocenti fino a sentenza passata in giudicato, si ha il paradosso di avere il 34.5% di detenuti in attesa di giudizio, potenzialmente innocenti, che potrebbero essere in gran parte sottoposti agli arresti domiciliari, attraverso l’utilizzo del braccialetto elettronico, strumento che viene definito eccessivamente complesso e costoso, senza considerare però che i detenuti in attesa di giudizio pesano sulle casse dello Stato 490 milioni di euro l’anno. Superare il concetto ottocentesco di pena non farebbe dell’Italia insomma solo un Paese più liberale, ma anche certamente più sicuro ed efficiente. Un Paese dove l’innocente figlio di Amra non avrebbe come primo fotogramma del mondo mura umide e sbarre. L’esigenza (forse risolta) di rendere le pronunce Cedu esecutive in Italia di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 13 settembre 2021 La riforma penale è diventata anche l’occasione per recepire un orientamento consolidato da 20 anni nella giurisprudenza. Tra gli articoli del disegno di legge 2345 voluto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e studiato dalla Commissione interministeriale guidata dal professor Lattanzi, di estrema rilevanza è il passaggio relativo alle impugnazioni (n. 7). Lo scrivente ha già avuto modo di criticare su queste pagine relativamente al restringimento delle maglie che consentono alle Parti processuali di impugnare la sentenza di primo grado per adire il Collegio dell’Appello. Nelle seguenti righe ci si concentrerà all’opposto nell’attesa e auspicata proposta legislativa che intende introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di Cassazione, volto a dare esecuzione alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ad oggi, infatti, nonostante una Direttiva europea di 21 anni addietro, la n. R(2000)2 del 19 gennaio 2000, con la quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sollecitava gli Stati Membri a prevedere dei mezzi giuridici per la riapertura del procedimento in caso di condanna ad opera della Corte di Strasburgo, tali necessità sono rimaste disattese e, come spesso accade, la Giurisprudenza ha nuovamente vestito i panni del demiurgo in ambito legislativo, prevedendo tre differenti rimedi. Il primo, la revisione europea. Con la sentenza additiva n. 113 del 2011 la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p.p. in quella parte in cui non prevedeva la facoltà di procedere a revisione, al fine di riaprire il procedimento penale qualora ciò risultasse necessario per conformare il procedimento giudiziario domestico con la più recente pronuncia della Cedu. Senza ripercorrere tutti i successivi risvolti giuridici e dottrinali, basti qui evidenziare che la Giurisprudenza di legittimità ha individuato un nuovo rimedio da esperirsi qualora si rilevi un oggettivo contrasto della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU evidenziato da una pronuncia della Corte di Strasburgo. Il secondo, il ricorso straordinario per errore di fatto. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 13199 del 21 luglio 2016 ha segnato un’espansione del ricorso per errore di fatto ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p., avvallando l’impiego del ricorso straordinario per porre rimedio a quegli errori di fatto o di diritto verificatisi in cassazione, confliggenti con diritti sanciti dalla Cedu. Il terzo, l’incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p. qualora si ravvisi la violazione di fattispecie sostanziali. Il quadro delineato ut supra non può che essere produttivo di incertezze, come spesso accade quando il Giudice della nomofilachia deve intervenire in luogo del legislatore per colmare lacune legislative ed interpretative. La riforma del procedimento penale è dunque stata occasione per la Commissione di recepire quanto sviluppato dalla scienza giurisprudenziale in questi lunghi 20 anni, prevedendo l’introduzione di uno strumento idoneo per la regolare esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, entro un termine perentorio. Non ci è dato ancora sapere come in concreto il Legislatore delegato tradurrà in termini positivi simili esigenze. Ad ogni modo la sola proposta è da accogliersi, avendo questa il duplice scopo - si vedrà in futuro se anche gli effetti - di velocizzare il procedimento di esecuzione delle sentenze Cedu, oltre che a conferire organicità e coerenza ad una disciplina ad oggi normata dalla sola giurisprudenza. A tal fine si è voluto rendere competente su tale materia proprio la stessa Suprema Corte. Questo è l’unico organo che può essere competente a decidere su provvedimenti della Corte dei Diritti Europei se si vuole mantenere una coerenza del sistema. La trasposizione di un dictum europeo, infatti, non potrebbe passare al vaglio di nessun’altra istituzione se si vuole mantenere intatta la coerenza del sistema giuridico interno. Pertanto, dopo un primo filtro interpretativo effettuato dal Supremo collegio, la Corte può darne attuazione tramite un annullamento senza rinvio (nel caso in cui si tratti di modificare semplicemente la pena o di assolvere il ricorrente dinanzi la Cedu), ovvero disporne l’annullamento con rinvio qualora l’apertura del processo si renda indispensabile. A chiusura di quanto qui riassunto, la Commissione ha previsto che si definisca una disciplina di raccordo che conferisca coerenza tra il neo istituto della e la rescissione del giudicato ex art. 629-bis. Sul punto la stessa Commissione auspica la creazione di un nuovo titolo IV-bis, ritenendo sistematicamente opportuno collocare la disciplina della nuova rescissione in un altro titolo, differente da quello della semplice revisione che si fonda su distinte ragioni di principio e prevedere contestualmente al titolo IV-ter un nuovo rimedio straordinario, funzionale all’esecuzione delle sentenze emesse all’esito di un giudizio promosso dinanzi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel ritenere la positivizzazione del neo istituto estremamente necessaria, si rimane in attesa di ulteriori sviluppi, in particolare la concreta traduzione di tutte le suesposte istanze in un testo di Legge, sì da valutarne la reale portata ed efficacia. Carlo Nordio: “La riforma della giustizia? Un miracolo della Cartabia” Il Dubbio, 13 settembre 2021 L’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio spazia dalla riforma del processo penale alle guerre intestine nella magistratura. In un’intervista rilasciata al “Giornale”, l’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio, torna a parlare delle questioni inerenti la giustizia italiana. Il magistrato, ora in pensione, ha sempre preso una posizione netta contro le correnti togate, criticando spesso e volentieri il modo in cui vengono condotte le indagini. Oggi ribadisce un concetto molto importante: “È grave condannare un innocente”. E aggiunge: “Delle due funzioni del processo penale, non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente, la seconda è di gran lunga la più importante, non solo per il cittadino, ma proprio per lo Stato. Lo Stato può anche sopravvivere - sia pur malamente - se non riesce a punire i crimini. Ma se condanna gli innocenti perde legittimazione etica e politica, si sgretola e spesso soccombe in modo violento alla ribellione popolare o alla rivoluzione”. Un tema tanto caro a Carlo Nordio, così come a tanti nel panorama della giustizia italiana, è senza dubbio quello legato alla separazione delle carriere. “La separazione delle carriere è consustanziale al sistema processuale accusatorio, cosiddetto alla Perry Mason, che noi abbiamo adottato in modo imperfetto con l’attuale codice Vassalli. Nei Paesi dove questo sistema è vigente, dagli Usa al Regno Unito, dal Canada all’India ecc. non esiste la possibilità di transitare dall’una funzione all’altra come da noi. Dirò di più. Nel sistema americano il giudice può diventare pm perché questa carica è elettiva. E se questo District Attorney infila una serie di indagini costose e sbagliate viene mandato a casa, mentre da noi viene promosso, com’è accaduto nel caso Tortora e in tanti altri. In conclusione la separazione delle carriere è necessaria ma non sufficiente per un sistema realmente liberale”. La risposta di Nordio, però, va in profondità e spiega ancora meglio il suo pensiero. “Dobbiamo scegliere tra i due sistemi inglese e americano, e coniugare poteri e responsabilità: in Gran Bretagna il pm è l’avvocato dell’accusa, e non dirige le indagini, affidate a Scotland Yard: mentre in Usa il Procuratore è il capo della polizia giudiziaria, come da noi, ma ha una responsabilità elettorale. L’Italia è l’unico paese al mondo dove il pm ha le garanzie del giudice e i poteri del super-poliziotto, senza rispondere a nessuno”. Durante l’intervista non manca un riferimento al libro di Sallusti e Palamara. Il passaggio è sul pregiudizio politico-ideologico che possono avere gli italiani, avendo letto il “Sistema”. “È vero che ha consolidato questo pregiudizio. In realtà credo che più che da motivazioni politiche o ideologiche alcune inchieste costose e infondate contro politici siano state ispirate e da protagonismo personali. Non so quale delle due ipotesi sia peggio”. Sulla riforma della Cartabia, invece, Carlo Nordio afferma che “la riforma Bonafede era una mostruosità giuridica che tra l’altro avrebbe prolungato i processi all’infinito, mentre l’Europa condizionava gli aiuti a una giustizia più rapida. La Cartabia ha fatto quindi una sorta di miracolo, o di gioco di prestigio. Non poteva umiliare i grillini al punto da intervenire sulla loro bandiera, cioè sulla prescrizione, che estingue il reato; e allora ha raggiunto lo stesso risultato intervenendo con l’improcedibilità che estingue il processo. Questo creerà enormi problemi applicativi, ed è logico che molti giuristi abbiano sollevato perplessità. Ma intanto l’Europa è rimasta soddisfatta, i soldi stanno già arrivando, e questo era ciò che contava e che conta”. Infine, la chiacchierata non poteva che terminare sul Csm e sulle recenti dichiarazioni al Corriere della Sera del procuratore di Milano, Francesco Greco. “Il sorteggio? Un sorteggio non tra i passanti, ma nell’ambito di un canestro composto da magistrati già valutati tre volte, da docenti universitari di materie giuridiche e dai componenti dei consigli forensi e delle camere penali. Tutte persone, per definizione, intelligenti e preparate, ma svincolate dal legame elettorale con i magistrati sui quali si dovranno pronunciare”. E sul caso Storari-Davigo conclude così: “Greco è un bravissimo magistrato, ma è come il duca di Buckingham nel Riccardo III di Shakespeare: uno dei primi a spianare la strada alla auto-referenzialità della magistratura, e uno degli ultimi a sentire il peso della sua tirannide. Il pool di Milano avrà avuto alcuni meriti, ma è stato il promotore di quella autocertificazione di virtù della magistratura, nella sua funzione palingenetica e salvifica della democrazia, che oggi si critica. Tutti ricordiamo la “bravade” televisiva quando i pm di Milano, compreso Greco, protestarono contro il decreto Biondi. Fui l’unico pm a denunciarne i pericoli, e per tutta risposta fui convocato dai probiviri dell’Anm per renderne conto. Li mandai al diavolo, ma Greco, che è persona molto intelligente, avrebbe dovuto capirlo allora”. Nordio: “Niente appello se assolti e separare le carriere” di Anna Maria Greco Il Giornale, 13 settembre 2021 Dottor Carlo Nordio, sul “Giornale” Silvio Berlusconi cita Calamandrei per dire che il peggior pericolo per lo Stato è condannare un innocente. La pensa così anche lei? “Certo. Delle due funzioni del processo penale, non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente, la seconda è di gran lunga la più importante, non solo per il cittadino, ma proprio per lo Stato. Lo Stato può anche sopravvivere sia pur malamente se non riesce a punire i crimini. Ma se condanna gli innocenti perde legittimazione etica e politica, si sgretola e spesso soccombe in modo violento alla ribellione popolare o alla rivoluzione”. La separazione delle carriere, chiesta dal referendum di Lega e Radicali sostenuto da Fi, può garantire meglio la terzietà del giudice, non più collega del pm che sostiene l’accusa? “Si, ma non solo. La separazione delle carriere è consustanziale al sistema processuale accusatorio, cosiddetto alla Perry Mason, che noi abbiamo adottato in modo imperfetto con l’attuale codice Vassalli. Nei Paesi dove questo sistema è vigente, dagli Usa al Regno Unito, dal Canada all’India ecc. non esiste la possibilità di transitare dall’una funzione all’altra come da noi. Dirò di più. Nel sistema americano il giudice può diventare pm perché questa carica è elettiva. E se questo District Attorney infila una serie di indagini costose e sbagliate viene mandato a casa, mentre da noi viene promosso, com’è accaduto nel caso Tortora e in tanti altri. In conclusione la separazione delle carriere è necessaria ma non sufficiente per un sistema realmente liberale”. Perché? “Perché dobbiamo scegliere tra i due sistemi inglese e americano, e coniugare poteri e responsabilità: in Gran Bretagna il pm è l’avvocato dell’accusa, e non dirige le indagini, affidate a Scotland Yard: mentre in Usa il Procuratore è il capo della polizia giudiziaria, come da noi, ma ha una responsabilità elettorale. L’Italia è l’unico paese al mondo dove il pm ha le garanzie del giudice e i poteri del superpoliziotto, senza rispondere a nessuno”. Il libro “Il Sistema” di Palamara-Sallusti ha confermato negli italiani l’idea che un pregiudizio politico-ideologico possa essere alla base di molte inchieste e di molti processi. È così? “È vero che ha consolidato questo pregiudizio. In realtà credo che più che da motivazioni politiche o ideologiche alcune inchieste costose e infondate contro politici siano state ispirate e da protagonismo personali. Non so quale delle due ipotesi sia peggio”. Secondo i principi garantisti, che Berlusconi illustra nel suo intervento sul nostro quotidiano, dopo un’assoluzione non ci dovrebbe essere possibilità di appello. Lei come la pensa? “Si, sono d’accordo, anche qui per coerenza con il sistema processuale anglosassone, dove dopo l’assoluzione non c’è l’appello del pm, salvo casi rari dove però devi rifare tutto il dibattimento daccapo. Da noi invece puoi condannare con le stesse carte sulla base delle quali il giudice precedente aveva dubitato al punto da assolvere. E questo contrasta, come ha ricordato Berlusconi, con il principio costituzionale della condanna al di là di ogni ragionevole dubbio”. E sulla prescrizione, anche rispetto alla riforma Cartabia, qual è la sua posizione? “La riforma Bonafede era una mostruosità giuridica che tra l’altro avrebbe prolungato i processi all’infinito, mentre l’Europa condizionava gli aiuti a una giustizia più rapida. La Cartabia ha fatto quindi una sorta di miracolo, o di gioco di prestigio. Non poteva umiliare i grillini al punto da intervenire sulla loro bandiera, cioè sulla prescrizione, che estingue il reato; e allora ha raggiunto lo stesso risultato intervenendo con l’improcedibilità che estingue il processo. Questo creerà enormi problemi applicativi, ed è logico che molti giuristi abbiano sollevato perplessità. Ma intanto l’Europa è rimasta soddisfatta, i soldi stanno già arrivando, e questo era ciò che contava e che conta”. Come si risana la magistratura, ora che la sfiducia degli italiani ha raggiunto massimi livelli? “In tempi brevi con il referendum: se vincesse, sarebbe un messaggio cui il Parlamento, magari il prossimo perché con questo è impossibile, non potrebbe sottrarsi. In tempi più lunghi con una radicale rivoluzione copernicana della giustizia, compresa la selezione dei magistrati e il sorteggio dei componenti del Csm. Un sorteggio non tra i passanti, ma nell’ambito di un canestro composto da magistrati già valutati tre volte, da docenti universitari di materie giuridiche e dai componenti dei consigli forensi e delle camere penali. Tutte persone, per definizione, intelligenti e preparate, ma svincolate dal legame elettorale con i magistrati sui quali si dovranno pronunciare”. Il procuratore di Milano Greco dice che oggi la magistratura è più corporativa di una volta e che il caso Storari-Davigo è stato un attacco al suo ufficio. Condivide? “Greco è un bravissimo magistrato, ma è come il duca di Buckingham nel Riccardo III di Shakespeare: uno dei primi a spianare la strada alla autoreferenzialità della magistratura, e uno degli ultimi a sentire il peso della sua tirannide. Il pool di Milano avrà avuto alcuni meriti, ma è stato il promotore di quella autocertificazione di virtù della magistratura, nella sua funzione palingenetica e salvifica della democrazia, che oggi si critica. Tutti ricordiamo la bravade televisiva quando i pm di Milano, compreso Greco, protestarono contro il decreto Biondi. Fui l’unico pm a denunciarne i pericoli, e per tutta risposta fui convocato dai probiviri dell’Anm per renderne conto. Li mandai al diavolo, ma Greco, che è persona molto intelligente, avrebbe dovuto capirlo allora”. Cosenza. Detenuto deceduto, l’autopsia scioglierà i dubbi di Mirella Molinaro Gazzetta del Sud, 13 settembre 2021 Pasquale Francavilla è morto venerdì scorso nel carcere “Sergio Cosmai” di Cosenza. Il 46enne stava scontando gli ultimi dieci mesi della pena. Denuncia della famiglia: condizioni di salute incompatibili. Saranno i risultati dell’autopsia a fare chiarezza sulle cause della morte di Pasquale Francavilla. Il 46enne è deceduto venerdì mattina nel carcere “Sergio Cosmai” di Cosenza dove stava scontando gli ultimi dieci mesi della pena. Era stato condannato in via definitiva nell’ambito dell’inchiesta “Apocalisse”, l’operazione della Dda di Catanzaro che ha inferto un duro colpo al narcotraffico nel Cosentino. Francavilla, in realtà, era tornato nel penitenziario da alcuni giorni dopo essere stato ricoverato nell’ospedale “Annunziata”. Il suo difensore, l’avvocato Mario Scarpelli, ha spiegato quale fossero le condizioni di salute dell’uomo: “Pasquale Francavilla è stato ricoverato d’urgenza in ospedale a Cosenza, dieci giorni fa, per la presenza di alcuni trombi. Si trovava nel reparto di Terapia intensiva. Cinque giorni fa, ho avuto modo di sentirlo tramite videochiamata e mi aveva annunciato l’imminente trasferimento in un altro reparto. Tra un mese avrebbe dovuto sottoporsi a un altro delicato intervento, ma è tornato in carcere ed è morto”. Le condizioni di salute di Francavilla - secondo quanto denunciato dal legale e dalla famiglia - non sarebbero state compatibili con il regime carcerario. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Torture in carcere, c’è l’inchiesta bis casertanews.it, 13 settembre 2021 La chiusura delle indagini dei magistrati della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere a carico degli agenti della polizia penitenziaria del carcere “Francesco Uccella” non ha bloccato l’inchiesta. Oltre alle persone già identificate, per le quali ci sarà la possibilità di presentare memorie difensive sulle base degli atti a disposizione, prima della richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura della Repubblica, ci sono ancora altre persone che non sono state individuate. Perché il 6 aprile 2020, come ha evidenziato l’indagine sulle torture, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono arrivati anche i “rinforzi”, agenti della polizia penitenziaria in servizio presso altre strutture detentive (soprattutto Napoli) molti dei quali non sono stati ancora individuati. Questo perché, come ha evidenziato il capo della Procura Maria Antonietta Troncone, “le unità di polizia penitenziaria proveniente dagli altri carceri, per lo più sconosciute ai detenuti di Santa Maria Capua Vetere ed atti nelle violenze, erano quasi tutte minuti di caschi e dispositivi di protezione individuale, sicché l’identificazione delle persone resesi responsabili dei fatti contestati, bene immortalate dalle video-registrazioni, risulta destramente difficoltosa. Sono ancora in corso le indagini per individuare gli autori ancora ignoti e sono oggetto di un ulteriore provvedimento”. Intanto, nei prossimi giorni, inizieranno anche le nuove udienze davanti al tribunale del Riesame di Napoli per affrontare i ricorsi presentati dagli avvocati difensori di 19 indagati contro i provvedimenti di sospensione dal lavoro che sono stati emessi dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere contestualmente alle misure cautelari. Si partirà con le discussioni a metà settembre. Santa Maria Capua Vetere (Ce). L’area sanitaria del carcere è al collasso di Emanuela Belcuore ilcrivello.it, 13 settembre 2021 Assente la figura dello psichiatra, presente solo nella Rems del reparto Nilo. L’area sanitaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere è allo stremo. Manca il personale infermieristico, in forte calo numerico sulla carta, altri o in malattia o in ferie. Assente la figura dello psichiatra, presente solo nella Rems del reparto Nilo, tanto discusso negli ultimi mesi per le vicende che lo hanno attanagliato. Spesso il corpo della polizia penitenziaria deve sostituirsi a queste figure sanitarie nell’assistere i detenuti pur non avendo strumenti e competenze adatte. Visite mediche al collasso, rimandate a causa della pandemia, a volte anche per scelta del recluso che rifiuta la visita esterna per non sottoporsi ai giorni di quarantena al rientro. Appello alle istituzioni affinché si possa lavorare in sinergia per creare un clima stabile e sereno, ma a supporto dell’area sanitaria e dei suoi operatori nessuno. Il reparto Senna, alta sicurezza femminile, reclama un presidio fisso medico e maggiori visite ginecologiche per visionare tutti quei problemi che riguardano la sfera femminile. Urla inascoltate, intanto si muore ancora di carcere e in carcere. Ancora tantissimi gli atti di autolesionismo, diversi i suicidi come il caso di Ariano Irpino. Cuneo. I Radicali nelle carceri raccolgono firme per il referendum sull’Eutanasia cuneodice.it, 13 settembre 2021 Ieri mattina (12 settembre), alcuni militanti dell’Associazione Radicali Cuneo - Gianfranco Donadei, sono entrati nel carcere di Cuneo e di Fossano. Durante la visita gli attivisti hanno raccolto le firme dei detenuti per il Referendum Eutanasia, i Referendum Giustizia giusta e il Referendum Caccia. “Giusto che i detenuti, i più emarginati dalla società, abbiano la possibilità di esercitare i propri diritti partecipando alla vita democratica del Paese” hanno dichiarato i Radicali all’uscita dei due istituti. “A Cuneo” - dichiarano Filippo Blengino, Alessia Lubée e Sabatino Tarquini - “insieme all’autenticatore Emiliano Riba, abbiamo raccolto 27 firme. I detenuti hanno risposto molto bene: erano davvero interessati al tema. Riteniamo fondamentale dare a tutti la possibilità di esercitare i propri diritti democratici. La situazione nel carcere ci è parsa tranquilla, indubbiamente più serena di mesi fa. Molto positivi i corsi attivi della scuola alberghiera e edile, fondamentali nel reinserimento sociale delle persone recluse”. “A Fossano” - dichiarano Alexandra Casu, Rosanna Degiovanni e Marco Filippa - “insieme al Consigliere comunale Enzo Brizio, abbiamo raccolto 30 firme. Un’esperienza positiva di rapporto tra chi vive la libertà e quelli a cui è stata sottratta, nel pieno rispetto del dettato costituzionale.” Reggio Calabria. I giovani considerano la politica una cosa “sporca”. Ma 8 su 10 voteranno corrieredellacalabria.it, 13 settembre 2021 Questi i risultati dello studio fatto dal centro Agape su 13 scuole secondarie della regione. “Il 40% pronti ad impegnarsi per migliorare le cose”. “Emerge una netta considerazione negativa da parte dei giovani rispetto alla politica considerata come quasi una cosa “sporca”, nonostante questo 8 studenti su 10 dichiarano che andranno a votare alle prossime elezioni regionali essendo anche consapevoli delle competenze attribuite dalla Costituzione a Consiglio e Giunta regionale”. È una delle considerazioni scaturite dall’esame dei dati contenuti nella ricerca sui giovani in Calabria tra delusioni e aspettative, condotta dal centro Comunitario Agape, in collaborazione con 13 scuole secondarie della Calabria e presentata oggi a Reggio Calabria. “Il 40% dei giovani pronti ad impegnarsi per migliorare la situazione” - “Un dato che colpisce molto - è stato spiegato nel corso della presentazione alla quale hanno partecipato Giulia Melissari responsabile gruppo giovani Agape, Renato Frisanco del gruppo di ricerca, Vincenzo Chindamo e Mario Nasone presidente di Agape - soprattutto alla luce del fatto che si tratta in larga misura di studenti liceali ovvero di giovani che alla fine della scuola secondaria saranno in grado di esibire credenziali educative di buon livello, ma che sanno fin da ora che difficilmente potranno spenderle per la ricerca di una futura occupazione. Voteranno scegliendo tra i candidati che ritengono più corretti ed affidabili. Dallo studio è, comunque, emersa anche la voglia di partecipare e di dare un contributo, il 40% dei giovani sono disposti infatti ad impegnarsi per migliorare la situazione in cui vivono anche se 8 ragazzi su 10 sono disposti a seguire la politica solo attraverso i social-media. Per questo serve intraprendere dei percorsi di avvicinamento ed informazione a partire dalle scuole per favorire ed incoraggiare i giovani alla partecipazione politica e a forme di civismo nei campi del volontariato, dello sport e dell’ambiente”. “Scarsa partecipazione? I posti occupati da anni dagli stessi” - Per il gruppo di ricerca “la mancata o scarsa partecipazione registrata deve essere imputata anche al fatto che i posti in politica sono occupati per lunghi anni sempre dalle stesse persone. Se il questionario fosse stato fatto su persone 40enni si sarebbero registrati, molto probabilmente, gli stessi risultati. I giovani dimostrano anche di volersi allontanare dalla realtà criminale presente nel nostro territorio, lo hanno fatto, ad esempio, partecipando numerosi a tante iniziative sulla legalità come quella del ricordo di Maria Chindamo, vittima di ndrangheta 5 anni fa. Rispetto al risultato del questionario - sottolineano i curatori - i giovani dimostrano di essere frenati da qualcosa nel rendersi attivi in società. Viene quindi ribadita la necessità di puntare sulle scuole, affinché forniscano gli strumenti necessari ai giovani per poter togliere quel freno che non li fa partecipare in modo attivo e per questo serve lanciare un appello con l’occasione delle prossime elezioni regionali di sentirsi responsabili della scelta che faranno, scelta che deve essere consapevole. L’idea che è stata raccolta da diverse associazioni giovanili di realizzare un manifesto costituito dalle proposte dei giovani da sottoporre all’attenzione dei candidati alle prossime elezioni regionali potrà essere un primo passo per dare voce ai giovani e farli sentire protagonisti rispetto anche alle scelte del nuovo governo regionale”. “La ragazza con il braccialetto”. Quando il diritto vince sulla morale di Francesca Spasiano Il Dubbio, 13 settembre 2021 Il noir del regista francese Stéphane Demoustier indaga l’adolescenza attraverso la macchina giudiziaria. “Sono fermamente convinta che Lise Bataille non sarebbe oggi sul banco degli imputati se non avesse dimostrato quella libertà morale, per quanto banale, su cui l’accusa ha tanto insistito”. Per raccontare la storia di Lise Bataille bisogna partire dalla fine, da quell’arringa difensiva che precede di un passo il resto della sua vita, destinato alla libertà oppure a una cella. Lise è la protagonista di un noir francese di straordinaria potenza, “La ragazza con il braccialetto”, regia di Stéphane Demoustier (Satine Film). Ma Lise è sopra ogni cosa la “protagonista del sospetto”, in un film consacrato al dubbio. E come ogni adolescente, riassume su di sé il mistero di una stagione della vita imperscrutabile. Soprattutto se quella vita è vivisezionata in un’aula di tribunale: ché non importa quanto la vicenda giudiziaria narrata sia frutto della finzione, la carne sulla quale è cucita è talmente viva da sembrare reale. Lise ha 18 anni, ma appena 16 quando la polizia irrompe nella sua giovinezza, turbando per sempre la sua quiete familiare: sta trascorrendo il pomeriggio al mare con i genitori e il fratellino a Bernerrie-en Retz, località balneare nella regione della Loira, quando gli agenti la portano via senza fornire troppe spiegazioni. Secondo l’accusa, Lise ha ucciso la sua migliore amica, Flora, all’indomani di una festa. Il delitto è efferato: sette coltellate inferte su tutto il corpo, il cadavere irriconoscibile abbandonato sul letto della sua cameretta. Non si è trattato di un impeto, sostiene l’accusa, c’è stata premeditazione. Dopo sei mesi di custodia cautelare, il giudice concede a Lise gli arresti domiciliari, con l’obbligo di portare alla caviglia un braccialetto elettronico. Due anni dopo l’arresto arriva il processo. “Se andrai in prigione potrò avere la tua stanza?”, chiede il fratellino Jules. “Je m’en fous”, non m’importa, replica Lise poggiando sulla parete il piede al quale è legato, come un terribile laccio, il braccialetto. La scena segna l’inizio del dubbio, del sospetto, negli spettatori e nei personaggi del film, che la freddezza e l’indifferenza di Lise siano prova inequivocabile di colpevolezza. E al contempo, quel braccialetto che per la prima volta compare sullo schermo, definisce il perimetro entro il quale la sua adolescenza sembra destinata a essere rinchiusa, violata. Bruno e Céline, i genitori di Lise, si stringono intorno alla figlia credendo nella sua proclamata innocenza. Cercano, come possono, di proteggere l’intera famiglia dalla tragedia che ha travolto la loro esistenza. Ma l’Aula, le prime udienze, i testi d’accusa, li costringono alla sfida più dura: persino la loro tenace convinzione vacilla quando il processo li mette davanti ai fatti e lascia emergere dettagli intimi della vita di Lise, per loro inimmaginabili fino ad allora. Così il film, un thriller giudiziario da guardare tutto d’un fiato, diventa anche il buco della serratura dal quale spiare un’intera generazione le cui abitudini sessuali destano sconcerto e sdegno in chi l’ha preceduta. Dietro il delitto sembra nascondersi infatti un affare gravissimo per chi giudica, quasi irrilevante per i ragazzi che l’hanno vissuto. Mentre dietro la macchina da presa si nasconde il desiderio di riacciuffare una giovinezza perduta e lontanissima. E di indagare, restituendola allo spettatore, una macchina giudiziaria complessa, quasi “teatrale”. Presentato con successo al Festival di Locarno, “La ragazza con il braccialetto” offre un affresco concreto e coerente della giustizia attraverso le fasi del dibattimento. “Il fatto di girare in un vero tribunale (il Tribunale di Nantes, ndr) ha necessariamente influito sull’esperienza delle riprese, soprattutto per gli attori. Il principio di realtà non è lo stesso. Le comparse in tribunale non avevano letto la sceneggiatura e quindi scoprivano il processo mentre si svolgeva. Il pubblico era diviso in merito alla colpevolezza di Lise. Alcuni hanno cambiato idea in corso d’opera, è stato divertente. È un film sull’interpretazione dei fatti, sul dubbio”, spiega il regista. Quel dubbio che si impone con forza proprio nelle parole della difesa, quando l’avvocata di Lise si rivolge alla Corte. “Cosa sappiamo noi degli adolescenti di 16, 17, 18 anni? Cosa sappiamo dei loro codici? (...) La Corte d’Assise è la più nobile ed esigente delle giurisdizioni ma non deve cadere nel giudizio morale. Se voi condannate Lise Bataille, avrete giudicato, ma non avrete reso giustizia. (...) Pronunciando l’assoluzione, non compirete soltanto un atto di diritto, ma un atto di principio (...) il principio stesso della giustizia”. L’uovo dell’antisistema. Green Pass, No Vax e populismi di Ezio Mauro La Repubblica, 13 settembre 2021 C’è in gioco molto più di una manciata di voti nella campagna di Salvini e Meloni contro il Green Pass, per ammiccare al popolo No Vax e sostanzialmente per rilanciare i dubbi, le diffidenze e la paura per i vaccini: con l’ambiguità di chi, come il leader della Lega, prima si immunizza personalmente, poi arriva al punto di dire che “le varianti nascono come reazione al vaccino”. Certamente nell’area del gran rifiuto si muove un pezzo di elettorato allo sbando, che sembra aver travolto i recinti delle vecchie appartenenze ai partiti in nome di una scelta di rottura, di autonomizzazione e di non conformità al modello vigente: dunque voti in libera uscita, in cerca di rappresentazione e in attesa di un interprete. Ma proprio per la radicalità della frattura nel senso comune nazionale è probabile che i No Vax diffidino di ogni forma di politica organizzata, considerino la terra di nessuno dove sono approdati il loro territorio ideale e preferiscano mettere in scena se stessi direttamente, senza deleghe e mediazioni, affidando per ora la protesta al buco grigio del non voto. D’altra parte il sentimento degli italiani riguardo alle vaccinazioni, al Green Pass e in genere alle misure di salvaguardia dalla pandemia non è in bilico, ma anzi è fortemente squilibrato a favore della tutela preventiva della salute individuale e collettiva, e due politici accorti come Salvini e Meloni devono tenerne conto. La ricognizione sociale compiuta pochi giorni fa su Repubblica da Ilvo Diamanti confina infatti al 17 per cento i cittadini che non vogliono il vaccino obbligatorio, contro il 64 per cento apertamente favorevole, con una crescita di 9 punti del sì da maggio ad oggi. Ma per quanto riguarda il Green Pass la percentuale di chi è d’accordo sale fino al 78 per cento e addirittura il 66 per cento dei probabili elettori di Fratelli d’Italia e il 72 per cento della Lega lo giudicano una misura necessaria, e non una limitazione della libertà e della democrazia, come dice la propaganda dei due partiti. Con queste tendenze, com’è evidente, i leader populisti che inseguono la pattuglia minoritaria di irriducibili rischiano di scontentare la vasta platea dei favorevoli, anche all’interno della loro stessa casa, con un autogol elettorale. Bisogna dunque cercare qualche altra ragione per spiegare la posizione dei sovranisti italiani, che a prima vista sembra contraria alla legge di gravità e al calcolo elementare del rapporto tra costi e benefici. La spiegazione sta nella natura particolare della ribellione No Vax. Questa protesta non nasce infatti da una motivazione economica, da un interesse di categoria, da una rivendicazione di classe. È piuttosto una fermentazione naturale in atto da tempo, che oggi fa saltare il tappo del rapporto fiduciario tra il potere e i cittadini, dopo che nei primi due anni della pandemia questa fiducia aveva portato la popolazione ad accettare le misure di limitazione della libertà come una sottomissione volontaria alla necessità. Il carattere estremo dell’ordalia pandemica, l’ingresso in campo delle categorie ultime della vita e della morte, l’intimità personale di scelte che riguardano i destini privati, hanno sciolto il vincolo sociale, liberando pulsioni e istinti individuali che non sembrano riconducibili a una lettura comune della crisi Covid, a un’analisi condivisa. Anche il governo di larghissime intese non è portatore di una cultura unificante dell’emergenza, della salute e del lavoro. Si è così sprigionata un’energia della negatività, che contesta il valore di ogni presupposto scientifico, di qualsiasi giudizio tecnico, di tutti i pareri degli esperti, respingendo di conseguenza le scelte governative che ne derivano, uscendo dalla politica di copertura generale della comunità nazionale, con i vaccini e la loro certificazione. Non si propone un’alternativa, che non c’è: si sceglie di star fuori, come se l’altrove fosse l’antidoto, il rifiuto la soluzione e la norma l’inganno. Ma proprio questi sono gli aspetti che interessano al populismo estremo di destra: la denuncia del sapere, una sorta di secessione culturale che si separa da ogni deposito di conoscenza; l’alterità rispetto al sentire collettivo e alle scelte condivise; il rigetto della regola, che significa il disconoscimento di qualsiasi autorità e dell’agire comune. Sono tutti fenomeni che disegnano un anno zero della repubblica, dove l’eresia ha gli stessi diritti della verità scientifica e la soppianta, aprendo una stagione in cui salta ogni eredità culturale, ogni discendenza storica e l’anomalia scende in piazza come la vera alternativa non tanto al governo, ma al concerto istituzionale, rinnegando il sapere, il pensiero condiviso, l’ortodossia. È il terreno propizio, anzi ideale per l’avvento di un estremismo populista che nell’attuale configurazione nazionalista e sovranista non ha una storia, e dunque cerca nella bandiera nera della ribellione corsara un nucleo germinale e un’emozione di popolo capace di generare un nuovo bisogno di destra, sciolto dalle regole, ideatore e animatore di una democrazia anomala. Lo ha appena denunciato l’ex presidente americano George W. Bush: “Oggi una parte della politica è diventata un nudo appello alla rabbia, al risentimento e alla paura”. Non è la paura dei vaccini (legittima come ogni inquietudine in democrazia) la scintilla costitutiva di questa rottura del sentimento repubblicano, ma l’uso che si fa della paura, la sua traduzione in politica: puntando non sull’emancipazione dei soggetti coinvolti, ma sulla loro deriva rispetto a una pratica democratica condivisa. Mentre il populismo grillino sembra fare il percorso inverso, via via istituzionalizzandosi, il populismo di destra cerca tutti i veicoli sociali ed emotivi per fuoriuscire da una responsabilità comune che unisca la tutela della salute e la salvaguardia del lavoro, nell’equilibrio della vera libertà. Coltivando la grande diffidenza, l’eterno dubbio, il continuo sospetto dei no vax Salvini e Meloni in realtà si preparano al governo covando l’uovo dell’antisistema. In Europa 4 milioni di migranti irregolari, tagliati fuori dalla vaccinazione anti-Covid di Sarah Haque e Laura Margottini La Repubblica, 13 settembre 2021 Per ragioni burocratiche tenuta chiusa la porta dell’immunizzazione agli irregolari, aprendola così alle varianti del coronavirus. Il 70% degli europei sarebbe ad oggi vaccinato, secondo quanto dichiarato da Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, la scorsa settimana. Ma almeno 4 milioni di immigrati irregolari presenti sul territorio europeo sono stati esclusi dalla vaccinazione. A rivelarlo è un’inchiesta esclusiva dell’organizzazione internazionale The Bureau of Investigative Journalism di Londra (UK) e Repubblica. La disparità di accesso ai vaccini tra i migranti irregolari e la popolazione generale europea è enorme. Questo, nonostante molte categorie di migranti abbiano maggiori probabilità di contrarre il coronavirus a causa delle loro condizioni di vita in luoghi spesso sovraffollati, dell’impossibilità di lavorare a distanza e per condizioni di salute di base spesso trascurate, un fattore che li rende sproporzionalmente più esposti al rischio di morire di Covid. E’ anche scientificamente assodato che l’accesso equo ai vaccini è anche il modo più efficace per ridurre la diffusione del virus, prevenire l’emergere di varianti e sconfiggere la pandemia. Lasciar chiusa la porta della vaccinazione ai migranti irregolari equivale a lasciarla aperta alle varianti. Il caos italiano - In Italia, all’inizio del programma vaccinale, i portali delle Regioni per la prenotazione della vaccinazione non avevano proprio previsto la possibilità di prenotazione ai migranti irregolari, un numero di persone tra i 500.000 e 700.000, anche quando dotati del tesserino sanitario STP (Stranieri Temporaneamente Presenti). L’STP è un codice che l’Italia garantisce a ogni cittadino non UE non in regola con l’ingresso e il soggiorno. L’STP assicura per le legge le cure urgenti, essenziali e continuative per chi non è in regola. Lo scorso giugno il New York Times aveva denunciato il caso dell’esclusione degli STP dalla prenotazione online in Italia. Cosa è cambiato da allora? Il Ministero della Salute ha spiegato al Bureau che “ha inviato una nota alle Regioni già il 27 gennaio 2021, sottolineando la necessità di agevolare l’accesso ai tamponi anche in vista delle vaccinazioni a tutti coloro non iscritti al Sistema Sanitario nazionale (SSN) e in possesso di un codice alternativo a quello fiscale (come l’STP) e a coloro senza documenti e senza dimora. “Ne è seguita un’altra il 22 aprile, inviata al Ministero dell’Interno contenente raccomandazioni di vaccinare i migranti all’interno dei centri di accoglienza. Raccomandazione simile, anche dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dell’8 luglio. Per finire, il 24 agosto, una Circolare della Struttura Commissariale per l’Emergenza COVID-19 invitava Regioni e Province autonome ad intensificare la vaccinazione anche per coloro non in possesso di tessera sanitaria. Secondo il Ministero “ad oggi sarebbero 13 le Regioni che hanno modificato i loro portali consentendo la prenotazione diretta del vaccino per i titolari di tessera STP e per le persone senza dimora. Le restanti Regioni hanno definito modalità alternative, incaricando direttamente le ASL e il Privato sociale.” Il Ministero ha chiarito che un primo gruppo (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Marche, Sardegna, Sicilia) “rimanda gli STP al portale nazionale per la prenotazione (il portale nazionale prevede l’accesso per i codici STP)”. Un secondo gruppo (Campania, Emilia Romagna, Veneto, Puglia, Toscana, Liguria, Lombardia) ha invece risolto il problema direttamente sul proprio sito. Al Bureau, non risulta però che i portali delle Regioni del primo gruppo indicato dal Ministero riportino informazioni dirette agli STP e che li reinderizzi sul portale nazionale. E per il secondo gruppo, Il Bureau ha potuto riscontrare la possibilità di prenotazione col codice STP solo per Campania, Veneto e Lombardia. Anche in tali casi, i problemi non sembrano del tutto risolti. “Il portale di prenotazione della Lombardia prevede l’accesso agli STP, ma possono servire diversi tentativi prima che il sistema riconosca il codice, e, anche quando lo fa, le persone spesso non ricevono l’sms con l’ora e il luogo della vaccinazione,” ha spiegato Marco Mazzetti, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (S.I.M.M.), al Bureau. La Toscana ha previsto giornate di prenotazione per chi non è in possesso di documenti e il Lazio ha dato la possibilità alle ASL di vaccinare migranti irregolari. Ma anche in tal caso, le informazioni vanno cercate con pazienza su internet e sono quasi sempre solo in italiano. “Manca una chiara informazione pubblicizzata rivolta a tali categorie,” ha spiegato Salvatore Geraci della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM) e Caritas Roma. “In alcuni casi, come la Sardegna, gli operatori sanitari sanno come registrare gli STP sui portali, ma non è un percorso fruibile dagli stessi immigrati. È tutto molto caotico ancora, anche se le cose stanno migliorando,” spiega. Il modello più virtuoso al momento, in tal senso, è quello della regione Lazio, aggiunge: “Permette a chiunque non in possesso di tessera sanitaria o documenti di presentarsi direttamente nei centri dove avvengono le vaccinazioni. Molti di loro infatti non sanno neanche di dover richiedere un codice STP per vaccinarsi, e questo viene emesso contestualmente quando si presentano presso i centri vaccinazione. “Questo è senz’altro il modo più semplice per raggiungerli, anche perché molti di loro non conoscono la lingua o non sanno accedere ai portali regionali”. Secondo quanto riportato dal Ministero della Salute al Bureau sarebbero ad oggi “16 mila gli STP vaccinati. A questi vanno aggiunti tutti coloro che si sono vaccinati negli open day anche senza alcun codice o documento.” Nel resto d’Europa non va meglio - Paesi come Germania, Spagna, Norvegia e Bulgaria, escludono dalla vaccinazione anti Covid tutti coloro che non possiedono un documento d’identità, una tessera sanitaria o un permesso di soggiorno. In Ungheria, Belgio, Slovacchia e Grecia, le vaccinazioni sono ufficialmente disponibili solo per coloro in possesso del numero di previdenza sociale. I Paesi Bassi, all’inizio del programma di vaccinazione, la garantivano solo alle persone in possesso di un domicilio registrato e una lettera d’invito da parte del governo. Il Regno Unito ospita circa 1,2 milioni di persone senza documenti. Chiunque può ottenere un vaccino Covid-19, purché abbia un codice sanitario simile a quello italiano, o sia registrato con un medico di base, il che non richiede alcuna documentazione specifica. Tuttavia, il Bureau ha scoperto che meno di un quarto degli ambulatori di medicina generale in Inghilterra, Scozia e Galles accetta di prenotare la vaccinazione senza che venga esibita una prova di indirizzo, un documento di identità o di immigrazione legale. Il sistema di vaccinazione della Norvegia - come quello del Regno Unito - si basa sugli ambulatori dei medici di base. Le migliaia di migranti senza il permesso di residenza necessario per registrarsi con un medico di base rischiano di essere tagliati fuori. In Germania, i vaccini sono tecnicamente disponibili solo per coloro che hanno un permesso di soggiorno. Senza una tessera sanitaria i migranti senza documenti vengono respinti dalla maggior parte degli ambulatori medici e degli ospedali. A molti di loro viene suggerito di rivolgersi agli uffici predisposti al rimborsare spese mediche in cambio di informazioni personali. Ma a quel punto, i dati personali vengono inviati alle autorità governative tedesche per l’immigrazione e il controllo delle frontiere. La conseguenza è che la loro espulsione dal territorio tedesco. La mancanza di una cerniera tra servizio sanitario e le autorità di immigrazione aggrava una situazione già difficile per i migranti senza documenti in Germania - che sono circa 1,2 milioni. “Quello che abbiamo in Germania è l’opposto di una cerniera tra sanità e immigrazione - ha detto Christoph Krieger, un sociologo che dirige un centro d’accoglienza nello Stato settentrionale dello Schleswig-Holstein - Il sistema è implementato per scovare le persone che si nascondono”, non per curarle. L’effetto è una tremenda sfiducia tra le autorità e i migranti, che fanno di tutto per non essere trovati, incluso rinunciare al vaccino Covid. Anche se i piani loro nazionali di vaccinazione anti Covid di molte nazioni europee menzionano chiaramente il diritto al vaccino per i migranti, la realtà è dunque ben diversa. Tanto che lo scorso giugno il Centro europeo per la prevenzione e controllo delle malattie (Ecdc) ha esortato i governi a prendere atto che i migranti senza documenti “sono soggetti a barriere rispetto all’accesso ai sistemi sanitari e ai piani vaccinazione europei.” Con tutto che migranti senza documenti sono estremamente esposti all’infezione da coronavirus. Senza un accesso gratuito alle cure mediche di base, è alta la loro probabilità di sviluppare malattie non curate che li rendono molto più esposte alla morte da Covid-19. “Solo stando dalla parte dei più deboli usciremo davvero dalla pandemia” di Domenico Agasso La Stampa, 13 settembre 2021 Così Papa Francesco nel suo discorso all’incontro ecumenico nel salone della Nunziatura apostolica di Bratislava. Il Pontefice ha citato un poeta e pastore protestante slovacco, Samo Chalupka. “Quando alla nostra porta bussa la mano straniera con sincera fiducia: chiunque sia, se viene da vicino oppure da lontano, di giorno o di notte, sul nostro tavolo ci sarà il dono di Dio ad attenderlo”. “Il dono di Dio - ha quindi sottolineato Francesco - sia presente sulle tavole di ciascuno perché, mentre ancora non siamo in grado di condividere la stessa mensa eucaristica, possiamo ospitare insieme Gesù servendolo nei poveri. Sarà un segno più evocativo di molte parole, che aiuterà la società civile a comprendere, specialmente in questo periodo sofferto, che solo stando dalla parte dei più deboli usciremo davvero tutti dalla pandemia”. Poi ha aggiunto: “La libertà del fratello e della sorella è anche la nostra libertà, perché la nostra libertà non è piena senza di lui e di lei”. Così Papa Francesco nel suo discorso all’incontro ecumenico nel salone della Nunziatura apostolica di Bratislava. “Non interessiamoci solo di quanto può giovare alle nostre singole comunità” ha aggiunto. Oggi papa Francesco è nel cuore dell’Europa - e del nazionalismo - per incoraggiare alla solidarietà in tempi di crisi internazionali e questioni migratorie. Stamattina a Budapest l’attesissimo faccia a faccia (che alcuni alla vigilia mettevano in dubbio) tra Jorge Mario Bergoglio e Viktor Orbán, nella prima giornata del viaggio papale (il 34° del pontificato) che prosegue già oggi in Slovacchia fino a mercoledì, due mesi dopo l’intervento al colon. “L’incontro di papa Francesco a Budapest con il presidente della Repubblica d’Ungheria Janos Ader, con il primo ministro Viktor Orban e il vice primo ministro Zsolt Semjen si è svolto secondo il programma previsto, in un clima cordiale, ed è terminato alle ore 9.25”, durando in tutto circa 40 minuti. Lo comunica la Sala stampa vaticana. Tra i vari argomenti trattati, “il ruolo della Chiesa nel Paese, l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente, la difesa e la promozione della famiglia”. “Ho chiesto a Papa Francesco di non lasciare che l’Ungheria cristiana perisca”, ha scritto il primo ministro ungherese Viktor Orban sul suo profilo Facebook dopo l’incontro di stamane. Il Papa, incontrando poi le comunità ebraiche in Ungheria, ha dato voce alle sue preoccupazione: “Penso alla minaccia dell’antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove. E una miccia che va spenta”. Poi la messa Messa conclusiva del 52/o Congresso eucaristico internazionale, nella quale papa Francesco si è rivolto agli oltre 100.000 fedeli presenti. “La ?croce non è mai di moda: oggi come in passato. Ma guarisce dentro. È davanti al Crocifisso che sperimentiamo una benefica lotta interiore, l’aspro conflitto tra il pensare secondo Dio e il pensare secondo gli uomini”. Il Pontefice e il suo entourage non hanno mancato occasione in questi mesi di ribadire che Bergoglio non compie una visita di Stato in Ungheria: la sua presenza di poche ore nella capitale era prevista in primo luogo proprio per celebrare la Messa conclusiva del 52/o Congresso eucaristico internazionale. Il faccia a faccia del Pontefice con Orbán - “informalmente”, evidenziano vari alti prelati - presso il Museo delle Belle Arti insieme al presidente della Repubblica Janos Ader, come conferma il direttore della Sala stampa della Santa Sede Matteo Bruni. Questo viaggio “sarà un pellegrinaggio spirituale. Non bisogna mischiare elementi che possano travisarne la natura. La centralità del pellegrinaggio eucaristico caratterizzerà tutta la visita, in Ungheria e Slovacchia”, puntualizza il Portavoce vaticano, a scanso di equivoci politici. Dalle Sacre Stanze emerge una voce e un pronostico unanimi: la stretta di mano e il colloquio non saranno propriamente graditi a Francesco. Il Papa non ha intenzione di essere strumentalizzato a fini propagandistici da un primo ministro noto per avere visioni distantissime dalle sue in tema di immigrazione e solidarietà, promotore della chiusura delle frontiere - “costruttore di muri che dividono”, per usare il linguaggio bergogliano - così come fautore di una limitazione delle libertà individuali e di espressione. Populista ed euroscettico, oltre a essere agli antipodi di Francesco dal punto di vista umanitario e sociale, Orbán è anche leader della galassia cattolica tradizionalista e sovranista, spesso in forte e dura opposizione al pontificato argentino. Francesco ha anticipato all’Angelus di domenica alcuni messaggi che pronuncerà nei prossimi giorni: ha invocato i “tanti eroici confessori della fede” dei due Paesi, “i quali testimoniarono in quei luoghi il Vangelo tra ostilità e persecuzioni”, affinché “aiutino l’Europa a testimoniare anche oggi, con opere di misericordia, il buon annuncio del Signore che ci ama e ci salva”. È uno dei moniti che Francesco lancerà all’Europa, in due Stati dove i cattolici sono maggioranza (61,19% in Ungheria e 73,71% in Slovacchia): dimostrarsi cristiana non solo a parole “ma soprattutto con i fatti”, dunque con atti “di accoglienza”. Pensando alle migliaia di profughi in arrivo non solo dall’Afghanistan. Rave: cosa c’è davvero in ballo? di Simona Orlando La Repubblica, 13 settembre 2021 Dopo il party illegale di Viterbo, la tribù dei “teknusi” è finita in cronaca nera e sotto processo. Ma c’è chi la difende come una delle ultime controculture rimaste, erede degli hippie anni 60. Viaggio alle origini del movimento, tra musica, droghe e politica. Nemmeno il movimento punk dei più sporchi, brutti e nichilisti ha suscitato tanta preoccupazione, sdegno e panico morale, quanto quello definito per semplificazione “rave”. Forse perché è stato più facile codificare e mercificare il primo che non il secondo, che da fine anni 80 viaggia sottotraccia, si scioglie in rivoli e si ricompone nelle interzone. Quando sparisce, è perché si sta riorganizzando. E c’è soprattutto quando non si vede. Ogni tanto qualcuno se ne accorge, com’è accaduto in estate per i due free party a Tavolaia e a Valentano, calamite per migliaia di europei, così come per i tifosi gli stadi, per i vacanzieri gli stabilimenti, per la variante Delta gli assembramenti. In particolare lo Space Travel nel Viterbese, seconda edizione, era un Teknival, festival gratuito di musica tekno (più veloce e meno commerciale della techno discotecara) che dura giorni, ospita non uno ma tanti sound system, tribe straniere, proiezioni video, stand, aree ristoro. In pratica, una città che nasce e muore a ritmo di 180 bpm e, volendo, vive in stati alterati di coscienza. Succede lo stesso all’elogiato festival Burning Man nel deserto del Nevada, che però costa un salasso, fa profitto. Nei free party c’è tutto di irregolare ma nulla di improvvisato. L’organizzazione è accurata, il montaggio fulmineo, il luogo segreto. Se lo chiedi ad Alexa, non lo sa. La festa non è autorizzata perché, in quanto illegale, sceglie di occupare e autogestire uno spazio, consapevole di illeciti e conseguenze. Il fenomeno non nacque come adunata casuale di fattoni senza causa, sebbene ogni volta possa diventarlo, essendo aperta a chiunque. Aveva una matrice politica, legata alla lotta per il diritto alla casa, alla critica verso la società industriale, espressa riusando i suoi scarti, ingombrando di corpi e suono fabbriche dismesse, anche di giorno, negli orari della produzione. Il basso nella cassa toracica e il ballo allo sfinimento su musica elettronica ipercinetica, senza gerarchie, barriere di classe, razza e sesso: un sogno anarchico, evanescente ma ripetibile che si realizzò in Gran Bretagna nei primi anni Novanta, con le TAZ, Zone Temporaneamente Autonome teorizzate dal filosofo Hakim Bey. Per lui luoghi dove si dissolve l’autorità, sottratti al “gangsterismo territoriale” degli Stati che tassano e chiudono confini, strategia insurrezionale con l’invisibilità come arte marziale: la conquista di una proprietà è un colpo inferto alle strutture di controllo, poi via prima che se ne rendano conto. Non si sfugge solo alla sorveglianza, ci si afferma sparendo. In quel tempo sospeso, si realizza un’utopia. Illegale, discutibile come ogni utopia, ma reale finché dura. L’idea piacque a raver e traveller - nomadi per scelta e necessità, dato il caro affitti, le politiche thatcheriane di privatizzazione dei servizi e tagli all’assistenza sociale - che confluirono nei free festival creando microcosmi a zonzo. Gli Spiral Tribe di Londra furono i demiurghi delle Taz, piazzati negli Altrove con sfilze di sound system e un loro sistema valoriale: no profit; no ego; il dj non è la star ma il nocchiero che conduce da dietro i muri di casse; rispetto dell’ambiente e degli altri; uso responsabile delle droghe. Vista l’affluenza, i free party diventarono un problema per le autorità inglesi. Le repressioni della polizia e il Criminal Justice Act del 1994 non fecero che incrementarli, spingendoli a migrare in Europa, aiutandoli ad attuare la loro vocazione nomade e transnazionale. Chi sono i teknusi? I festival Free Tekno, in Italia si registrano dal 1993. Da allora, fra alti (le performance sbalorditive della Mutoid Waste Company) e bassi (le giungle moleste e autodistruttive), la festa va. A Pinerolo nel 2007, i teknusi erano trentamila. Dal 2008, secondo molti, la rivoluzione digitale e l’incremento esponenziale di appuntamenti spuri dove si mescolava di tutto hanno generato un’ondata non in linea con principi e leggi non scritte dei free party. Poi nel 2015, anche grazie a libri come Muro di casse (Laterza, 2015) di Vanni Santoni e Rave New World (Agenzia X, 2018) di Tobia D’Onofrio, pare che ai più giovani sia venuta voglia di ispirarsi all’epoca d’oro della scena. Quant’è cambiata dagli anni Novanta? Ci racconta D’Onofrio, esperto in materia: “Erano più evidenti le connessioni politiche, con l’attivismo dei centri sociali, la forma di protesta degli street party ripresa dai No Global, ma non sono mai sparite. A livello scenografico, nel rave ci si esprimeva più con la giocoleria, oggi con proiettori e videomapping. La segretezza è la stessa di allora, anche se minacciata dai social. L’evento non va esposto, si comunica con passaparola e flyer. L’attesa delle coordinate, la ricerca del luogo, come in una caccia al tesoro, è parte del rituale. Non è cambiata invece la narrazione tossica che si fa del rave. Eppure è l’unico contesto che si fa carico di contenere i possibili danni provocati dalle sostanze stupefacenti, che si assumono a prescindere dai rave. In loco ci sono team di esperti come Lab 57 che testa le sostanze, fa pronto soccorso medico, informa. Un servizio che dovrebbe esistere ovunque”. Hippie, punk e Giamaica - Resta difficile inquadrare un movimento pieno di sfumature e contraddizioni, che non ama raccontare sé stesso e richiama trasversalmente emarginati, laureati, sballati, sobri, attivisti, disimpegnati, responsabili, inconsapevoli. “Non ho la pretesa di spiegare la cultura rave. Viaggia su molti livelli, ma di base è antisistema, antifascista, antisessista, ecologista, propone un’esperienza di autogestione e condivisione” dice D’Onofrio. “Per me è un veicolo di cambiamento, le persone possono crescere e trasformarsi nell’arco di una festa. Il suo livello di apertura permette un’esperienza spirituale. Che sia personale o comunitaria, avviene grazie alla collettività che la tiene in piedi. Lo ritengo uno degli ultimi spazi di libertà rispetto alle norme che regolano i rapporti in società. Ad esempio, le relazioni si basano su fiducia, empatia, e non sul denaro. Per me è un aggiornamento della controcultura hippie in era post-atomica, vicino più di altri alle idee di Kerouac e Burroughs”. Non va sganciata da altre sottoculture giovanili. Le ha assorbite, rimodellate. Si parla con nostalgia di Woodstock e dei Clash, ma non si riesce ancora a infilare nello stesso quadro, con le dovute differenze, i free party, che hanno attinto alla controcultura hippie (concerti improvvisati, esperienze psichedeliche), al punk (filosofia del fai da te, accessibilità a tutti), alle feste mobili giamaicane (reclamanti lo spazio pubblico con i sound). Tutte spinte nate dal conflitto con la cultura dominante, travasi di energie giovanili. E tutte con le loro droghe di riferimento. Lsd, speed, marijuana. La scena rave, associata alla tecnologia e all’espressione sintetica, optò per l’ecstasy, euforizzante e empatogena. Piaccia o meno il rave, come scrive in Energy Flash. Viaggio nella cultura rave (Arcana) Simon Reynolds, che firma anche la prefazione del recente “Full On. Non-Stop. All Over”, libro fotografico sulla cultura rave inglese di Matthew Smith, “è il modo in cui abbiamo reso nostro questo tempo”. Che non è finito. Dice D’Onofrio: “Oggi c’è più controllo, profilazione, addomesticamento, quindi la cultura rave, per le sue radici antagoniste, risulta ancora più contemporanea e, per chi la segue, necessaria”. La vera storia del “Mauritanian”: Slahi, detenuto 760 di Guantanamo. di Andrea M. Jarach Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2021 La storia di Mohamedou Ould Slahi, o Salahi come probabilmente sarebbe la grafia corretta, è stata raccontata da Hollywood nel film The Mauritanian con Jodie Foster nel ruolo dell’avvocatessa Nancy Hollander. Slahi era il detenuto numero 760 del carcere aperto degli Usa a Guantánamo Bay dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. È indicato anche come il carcerato che ha subito più torture. La sua detenzione è durata 14 anni, dal 2002 al 2016, e si è conclusa con un rilascio per mancanza di prove senza neppure un processo. Un giudice ne ordinò la remissione in libertà già nel marzo 2010, ma il governo Usa fece ricorso e rimase in carcere altri sei anni, finché la commissione incaricata dal presidente Barack Obama non ne suggerì definitivamente il rilascio. Di circa 800 detenuti della prigione speciale americana, solo due sono stati processati per terrorismo. Sposato con una cittadina statunitense attivista dei diritti umani, e con un figlio, che vivono in Germania, Slahi oggi ha 51 anni e lavora come life coach in Mauritania, perché la Germania non intende riconoscergli il permesso di ricongiungimento familiare. Dal settembre 2020 ha presentato domanda ed il ministero degli Esteri ha dato parere positivo ad un visto di ingresso, ma questa volta è il dicastero degli Interni ad assumere ad ostacolo - contro cui Slahi sta procedendo - una condanna a sei mesi per truffa nella concessione di sussidi sociali che pur sospesa con la condizionale gli leva permanentemente il diritto di rientrare nel Paese. In effetti né i tedeschi, né gli americani, pur non avendo alcuna prova certa che mai avesse avuto neppure conoscenza del tragico e famigerato 9/11, sono pienamente convinti della sua innocenza. Fonti americane - come avevano già ricostruito a febbraio i giornalisti Florian Flade e Georg Mascolo per le emittenti tedesche Wdr e Ndr ed il quotidiano Süddeutsche Zeitung - avvisando che avrebbe potuto cercare di avere assistenza medica in Europa avevano sconsigliato ai tedeschi di accoglierlo, considerandolo sempre “uno dei cattivi”. Slahi era giunto in Germania dalla Mauritania nel 1988 grazie ad una borsa di studio della Carl Duisberg Gesellschaft e qui, mentre studiava elettrotecnica all’università di Duisburg, aveva finito per simpatizzare coi Mujahiddin che combattevano con l’aiuto degli Usa il governo afghano di Mohammad Nadschibullah, appoggiato dall’Unione Sovietica. Nel 1991 frequentò i campi di addestramento dei Mujahiddin sostenuti dalla Cia, tra cui Al-Farouq gestito da islamisti della rete di Al-Qaeda. Suo cugino e cognato, Mahfouz Ould al-Walid, noto come “Abu Hafs al-Mauritani”, era uno dei consiglieri di Osama Bin-Laden. Slahi ha sempre dichiarato che rientrato in Germania aveva rotto tutti i legami con Al-Qaeda, pur avendo ancora qualche contatto con islamisti. I servizi segreti americani sostennero però di avere intercettato una telefonata con cui il cognato gli avrebbe chiesto del denaro e che nel novembre 1999 Ramzi Binalshibh ed altri membri di Al-Qaeda avrebbero dormito nel suo appartamento di Duisburg e Slahi avrebbe consigliato loro di andare a combattere in Afghanistan. Nel 1999 aveva dovuto lasciare la Germania perché gli era scaduto il visto, emigrò in Canada per tornare quindi in Mauritania nel gennaio 2001. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle gli americani lo ritennero il reclutatore di tre dei quattro piloti kamikaze di Al-Qaeda. Fu arrestato ed interrogato dalle forze di sicurezza locali, poi deportato dalla Cia in Giordania, detenuto per otto mesi, aviotrasportato in una base militare in Afghanistan ed in seguito recluso a Guantánamo Bay. Venne sottoposto a tutti i metodi di interrogatorio “esteso” oggi vietati, per piegarlo a confessare. Un guardiano gli gettò secchiate di acqua gelida ed in almeno due occasioni quasi lo fece morire per ipotermia, fu privato del sonno e del cibo, costretto a bere acqua salata fino a vomitare, percosso, chiuso ogni notte disteso ed ammanettato nudo in una cella fredda e sottoposto a luci stroboscopiche dolorose per gli occhi, ha dichiarato Slahi. Gli fu anche impedito di pregare, ha confermato uno dei suoi ex carcerieri. Finché il direttore dello Special Project Team, un ex commissario di Chicago Richard Zuley, nel 2003 arrivò a fargli scorrere una lettera che simulava che il ministero degli Esteri statunitense avrebbe rinchiuso sua madre a Guantanamo per lasciarla stuprare dagli altri detenuti. Slahi, - ha ricostruito John Goetz per il programma Panorama messo in onda il 2 settembre, scritto con Lukas Augustin e StefanBuchen - ormai allo stremo cedette e confessò. L’improvvisa loquacità che scaturì insospettì però gli stessi americani che lo sottoposero all’esame della “macchina della verità” scoprendo che era quasi tutto falso. Una analista dello Spt, identificata come Sydney nel servizio del giornalista americano, ha dichiarato che i metodi di interrogatorio usati erano stati autorizzati personalmente dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e di aver ordinato alla stessa l’isolamento di Slahi, per spezzarne la capacità di ammaliatore. L’ex procuratore militare statunitense Stuart Couch ha dichiarato però alle telecamere che si trattò a tutti gli effetti di torture e che mai avrebbe pensato di avere più problemi per l’azione dello Stato americano che di un difensore. La ex analista Sydney ha sostenuto invece che in fondo non fu tutto per nulla, Slahi è stato detenuto per 14 anni; anche se non è stato abbastanza, per lei era colpevole ed avrebbe dovuto espiare con la morte. Finora i membri dello Spt avevano rilasciato dichiarazioni solo in interrogatori interni, ma mai prima avevano parlato apertamente ai media di torture, sottolinea Goetz, che ha portato il Mauritano a parlare via video con i suoi ex carcerieri. Uno di loro, presentato come Mr. X, un passato anche in Iraq ed in Afghanistan, che a Cuba agiva solo incappucciato, gli ha dichiarato apertamente che quanto gli hanno fatto “era sbagliato, nulla del genere avrebbe dovuto accadere, abbiamo abbassato i nostri standard, non avremmo dovuto trattare nessuno così; devo vivere con la vergogna di quello che ho fatto, ma ne prendo le responsabilità anche se non ne sono orgoglioso”. Slahi ha commentato dopo al suo intervistatore “volevo vendetta, ma la migliore forma di vendetta per me è il perdono”. Con ciò peraltro forse dando corpo al convincimento della analista Sydney che è un manipolatore; la quale pur accettando di parlargli ha ripetuto di non essere convinta della sua innocenza. La moglie di Slahi e suo figlio hanno potuto finora visitarlo in Mauritania ma non riescono ad immaginarsi di vivere lì, il Mauritano invece non è potuto tornare in Germania neppure per assistere al gala speciale della Berlinale in giugno quando è stato proiettato il film tratto dal suo Guantánamo Diary. Non è tedesco come Murat Kurnaz che la Germania dopo cinque anni a Guantánamo, anche se tergiversò per quattro trincerandosi dietro la sua doppia cittadinanza turca, per volontà di Angela Merkel si è ripresa nel 2006. Afghanistan, l’amnistia dei taleban di Francesco Semprini La Stampa, 13 settembre 2021 Kabul annuncia che chi ha collaborato con gli occidentali avrà l’immunità. Ma nessuno ci crede: “Ci considerano spie, siamo morti che camminano”. “Anche in paradiso ti considerano una spia”. Kamyar cambia luogo dell’appuntamento tre volte prima che lo riusciamo a incontrare. È un modo per depistare eventuali sorveglianze o segnalazioni ai servizi di informazione taleban che lo farebbero finire nelle segrete del carcere Pul-e-Charkhi, o peggio ancora, sommariamente giustiziato. È un interprete che ha lavorato con i militari italiani per due anni nella zona di Herat, uno dei circa sessanta che avrebbe dovuto lasciare la provincia dell’Ovest e arrivare a Kabul per agganciarsi al dispositivo di evacuazione messo in piedi dai militari italiani nella seconda metà di agosto. Kaymar non ce l’ha fatta, lo scalo Hamid Karzai è rimasto una chimera per lui che, da lontano e con lo sguardo rivolto verso l’alto, ha visto andar via l’ultimo aereo della salvezza del 28 agosto. “Sono stato tradito dai colleghi e dimenticato dai vostri militari, eravamo nella lista delle persone da evacuare compilata dal ministero della Difesa - spiega. Il coordinatore del mio gruppo di interpreti non mi ha detto nulla, ha dato la precedenza ad altri”. Il motivo? “Sono di un’etnia diversa, ha preferito aiutare quelli della sua”. Arrivato a Kabul, la seconda beffa: “L’ufficiale italiano di contatto non ha mai risposto”. È la tragedia nella tragedia, le parole di Kamyar raccontano la storia della vittima che veste i panni del giudice pronto a condannare in nome del primato tribale. Oltre a mettere a nudo malfunzionamenti o anomalie ulteriori della macchina degli aiuti. Storie simili a quella di Ahmad, seduto accanto a Kaymar, anche lui interprete del contingente italiano, anche lui tradito da chi lo avrebbe dovuto rappresentare, anche lui di un’etnia “sbagliata”. Sono i drammi che si consumano tra le pieghe dalla più macroscopica involuzione innescata dal ritorno dell’Emirato islamico in Afghanistan. “Siamo pronti a qualsiasi cosa pur di lasciare il Paese, pur di poter riparare con le nostre famiglie in Italia - dicono - qualsiasi cosa è meglio di questo inferno”. Durante il nostro colloquio dai palazzi del potere di Kabul arriva la notizia che il governo taleban ha annunciato che le donne potranno continuare a studiare all’università, ma nelle aule saranno imposti la segregazione di genere e l’abbigliamento “islamico”, e che è stata varata l’annunciata amnistia generale per chi ha collaborato col precedente esecutivo e le forze straniere, militari e agenti di polizia inclusi. “Davvero ci credete? Non appena il mondo si distrae i taleban si mostreranno per quello che sono - commenta Kaymar -. Anche in paradiso, dove dinanzi a Dio siamo tutti uguali, quelli ci considerano spie”. Parole lapidarie come quelle di Ahmad: “Qui siamo solo morti che camminano”. Lo scetticismo sulle presunte “operazioni di make up” del governo ad interim del mullah Hassan Akund, iscritto nella lista dei terroristi delle Nazioni Unite, è diffuso nelle terre di mezzo di Kabul quelle degli invisibili iscritti nelle liste dei perseguitati. Come Afsana, militare dell’Esercito afghano: “Con gli italiani ho collaborato a lungo, avevo ottime conoscenze e si era creato un clima di amicizia. Una o due volte a settimana partecipavo ai briefing a Camp Arena. I taleban hanno però intercettato foto e video di me in divisa assieme a vostri militari e così hanno iniziato a darmi la caccia”. Afsana viene all’appuntamento con tutta la famiglia, il marito tiene in braccio la loro bimba più piccola. “I taleban sono venuti a cercarmi a casa, non mi hanno trovato, hanno messo sotto sopra tutto, hanno maltrattato mia madre, sono andati da mio padre, gli hanno detto di vergognarsi di avere una figlia che ha lavorato con le forze di occupazione. Gli hanno dato venti giorni per consegnarmi”. Afsana e i suoi hanno combattuto come leoni quando i taleban hanno provato a portarla via: “Ero in auto con mio padre e mio fratello, i miliziani ci hanno inseguiti, ci siamo rifugiati vicino a un bazar, ci hanno sparato con un lanciarazzi, non ci hanno preso, abbiamo risposto a colpi di Kalashnikov coprendoci la fuga”. La militare afghana chiede aiuto a Roma: “Dobbiamo andare via da qui, ho lavorato con l’Italia, chiedo solo di mettere al sicuro me e la mia famiglia, qui viviamo ormai come fantasmi”. Per i taleban è un potenziale collaborazionista anche solo chi ha avuto a che fare con una realtà straniera, come Roxana: viene dalla provincia di Herat di professione giornalista. “Sono laureata alla American University of Afghanistan e poi sono andata in Italia per una esperienza di tre settimane, ho lavorato in Trentino per un periodico locale e poi ho avuto altre collaborazioni. Per me tutto questo è un incubo, non posso cederci che sono tornati, non posso credere che abbiamo perso tutto quello che avevamo costruito negli ultimi vent’anni”. Non crede alle promesse di immunità? “Quelle servono a far calare la nebbia, ma quando cammini per strada te li senti addosso, per come ti guardano, sono rabbiosi, sembrano dirti che è solo questione di tempo, non posso spiegare la sensazione che provo”. Roxana non vede un futuro in Afghanistan: “Se scoprono che ho lavorato con gli stranieri mi vengono a prendere subito ed io ho molta paura. Spesso penso sia solo un incubo e quindi che debba finire a un certo punto, immagino di risvegliarmi e vedere che tutto questo non c’è più. Ed invece quando apro gli occhi è ancora buio”. Perù. L’ex capo di “Sendero Luminoso” muore ergastolano in carcere di Luca Lippera Il Messaggero, 13 settembre 2021 L’ex leader del gruppo terroristico peruviano “Sendero Luminoso”, Abimael Guzmàn, è morto a 86 anni a Lima in una base della Marina del Paese sudamericano dove stava scontando l’ergastolo. Guzmàn, a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta del Novecento, ispirato dalle teorie e dai metodi sanguinari adottati dal comunismo di Mao Tze Tung in Cina prima e durante la cosiddetta Rivoluzione Culturale, fondò una accanita formazione di guerriglia che immaginava una sollevazione dei contadini per rovesciare il Governo in carica, la borghesia e il ceto imprenditoriale. Secondo una commissione “per la verità e la riconciliazione” istituita dal parlamento peruviano dopo la sconfitta militare del gruppo, “fu responsabile dell’uccisione di più di 69 mila persone”. Fu a lungo, tra boschi, montagne e villaggi delle Ande, dove aveva appoggi e diversi sostenitori nelle fasce più povere della popolazione, l’uomo più ricercato della nazione. Durante una parte del periodo in cui operò Guzmàn, il Governo di Lima era guidato dal generale Juan Francisco Velasco Alvarado con il titolo di “presidente del governo rivoluzionario delle Forze Armate del Perù”. Le azioni di “Sendero Luminoso” ebbero un’eco non irrilevante durante gli anni di piombo in Italia. Già l’evocativo nome della formazione - Percorso Luminoso, tradottto dallo spagnolo - affascinò diversi gruppi dell’estremismo di sinistra che vi vedevano una sorta di “avanguardia del proletariato” e un esempio di lotta armata, immaginando un sovvertimento degli equilibri nella parte dell’America Latina nella sfera d’influenza degli Stati Uniti. Il Perù è a ridosso del Cile tenuto in pugno dalla dittatura militare del generale Augusto Pinochet. Guzmàn inizialmente ebbe un seguito in alcuni ambienti di giovani universitari a Lima, capitale dello Stato, ma il movimento non si radicò politicamente nell’opinione pubblica, non sfondò diventando un partito. Iniziarono così la lotta clandestina, gli atttentati e le uccisioni di politici, presunti “avversari di classe”, militari, semplici cittadini. Una strage. Il capo della guerriglia fu catturato nel 1992 e processato. Gli ultimi superstiti del gruppo tempo fa avevano proposto “il perdono e la liberazione di Guzmàn”. Ma il Governo, avvertendo che la cosa non sarebbe stata facilmente digerita dall’opinione pubblica, non ha concessè nè l’uno né l’altra. L’attuale presidente del Perù, Pedro Castllo, cattolico, il terzo di nove figli nati da una famiglia di analfabeti, insegnante e sindacalista, in carica dal luglio del 2021, non è stato tenero nel commentare la fine dell’estremista guerrigliero. “Il leader terrorista Abimael Guzmán responsabile della perdita di innumerevoli vite dei nostri compatrioti è morto - ha scritto su Twitter - La nostra posizione di condanna del terrorismo è ferma e incrollabile. Solo in democrazia costruiremo un Perù di giustizia e sviluppo per il nostro popolo”. Ma le contraddizioni apparentemente non mancano. Il primo ministro nominato da Castillo sarebbe stato in passato ideologicamente vicino a Sendero. Il capo dello Stato però non ha fatto dialetticamente alcuno sconto agli anni turbolenti e dolorosi della guerriglia. Nelle scorse settimane l’opposizione di destra peruviana ha ripetutamente attaccato ministri e personalità del suo partito, “Perú Libre”, insinuando antiche complicità con una delle formazioni ritenute tra le più ideologizzate e sanguinarie dell’America Latina.