Mattarella a Nisida: “Il carcere non è una macchia indelebile” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 12 settembre 2021 Sergio Mattarella varca il pontile che conduce da Capo Posillipo all’isolotto di Nisida e si reca in visita all’istituto penale per minori. Qui rispondendo a una sollecitazione, paragona la detenzione a una cicatrice, che prima o poi è destinata a rimarginarsi e che dunque non deve perseguitare per sempre il detenuto. Mattarella ricorda “il dovere di agevolare il reinserimento nella vita sociale”, sottolineando come questa prospettiva non sia solo una dichiarazione di principio, bensì “vada garantita non a parole ma nei comportamenti dell’ordinamento e con il comportamento sociale delle altre persone, con la fiducia che occorre avere e sviluppare in maniera particolarmente forte, partendo dal valore di ciascuna persona”. “Le mie parole vanno tradotte in comportamenti reali nella vita sociale”, insiste il presidente della repubblica. Raccoglie l’adesione della ministra della giustizia Marta Cartabia, che lo affianca. “Credo fermamente che un dovere imperativo delle istituzioni penitenziarie sia infondere e diffondere speranza a tutte le persone detenute”, dice Cartabia. Per la quale “non sempre è facile da un istituto di pena, credere in un oltre. Ma qui si deve e si può perché questo è un istituto di detenzione speciale, dove l’orizzonte non è interrotto dalle sbarre alle finestre, ma si proietta in tutta la sua ampiezza verso spazi sconfinati”. Tutto ciò avviene nelle ore in cui ci si interroga sulla vicenda di un bambino nato dietro le sbarre, figlio di una donna rom costretta a partorire in cella, nel carcere romano di Rebibbia. La donna, Amra, ha 23 anni. Era stata arrestata all’inizio dell’estate per un piccolo reato e condotta in cella con tanto di rigetto della richiesta di patteggiamento. Secondo il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma, Amra rischiava di reiterare il reato in quanto priva di occupazione e di una dimora stabile. Suona come una condanna preventiva dettata dalle condizioni di indigenza. Poi, alla metà dello scorso mese di agosto, era finita in infermeria e all’ospedale Pertini a causa di una sospetta emorragia. Qui l’aveva incontrata la garante dei diritti dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, che aveva sollecitato il trasferimento della donna in una casa protetta per la tutela delle detenute con figli minori. Il posto c’era, ma nessuno risponde alla richiesta. Fino alla sera del primo settembre, quando Amra si sente male, le guardie vanno a chiamare soccorsi ma nel frattempo partorisce. Due giorni dopo il giudice ha acconsentito alla scarcerazione, accogliendo la richiesta di patteggiamento e condannando la donna a un anno e quattro mesi. Cartabia ha disposto l’invio di ispettori del Viminale per capire cosa sia successo. Dall’amministrazionE penitenziaria, in effetti, lasciano intendere che qualcosa non ha funzionato sul fronte giudiziario. Per Bernardo Petralia, capo del Dap “nessuna responsabilità può essere addossata all’istituto penitenziario che si è adoperato, nel limite delle proprie responsabilità e competenze, per velocizzare al massimo le comunicazioni con l’autorità giudiziaria e le autorità sanitarie competenti, in relazione all’istanza di revoca della custodia cautelare avanzate dalla detenuta”. Anche il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto scagiona l’istituto carcerario: “Non c’entra nulla con quanto accaduto” sostiene Sisto che indica la strada dell’”accertamento di eventuali responsabilità da parte di uffici diversi da quelli della struttura di reclusione”. Petralia, dal canto suo, sostiene che “il Dap si sta attivando per ridurre il numero delle detenute-madri in carcere”. Nelle carceri italiane al momento risultano detenuti tredici minori al seguito di undici madri. All’esame della commissione giustizia della camera c’è un progetto di legge sui minori nelle carceri: chiede di evitare il carcere a tutte le madri con bambini che hanno meno di 6 anni. Porta la firma dei deputati Partito democratico Paolo Siani e Walter Verini. Che definiscono il parto di Amra a Rebibbia: “Una vergogna da cancellare”. La bellezza del riscatto di Angelo Picariello Avvenire, 12 settembre 2021 Una fondazione promossa dalla diocesi di Pozzuoli mette la bellezza al servizio del riscatto sociale. Nel carcere minorile il presidente, con la ministra Cartabia, risponde alle domande dei ragazzi. La bellezza al servizio del riscatto sociale di ragazzi e ragazze che hanno sbagliato, ma hanno avuto una nuova possibilità. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato questa mattina a Pozzuoli, dopo aver visitato il carcere minorile di Nisida. Qui, accompagnato dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha anche visitato i laboratori e poi risposto alle domande dei ragazzi detenuti, sull’esperienza del carcere. “Quel che è importante - ed è il dovere dello Stato, e sono qui per riaffermarlo - che questo non si tramuti in alcun caso in una sorta di macchia indelebile, perché non è così, è una cicatrice che scompare, perché lo Stato ha il dovere di agevolare il reinserimento, il protagonismo nella vita sociale”. Il carcere che valorizza le risorse migliori del territorio come occasione di riscatto sociale. Il Capo dello Stato, accolto dal vescovo di Pozzuoli Gennaro Pascarella, ha poi incontrato gli operatori della “Fondazione Regina Pacis”, motore dell’iniziativa, nella Cattedrale di san Procolo martire, al Rione Terra. Area soggetta al fenomeno del bradisismo, ma piena di risorse paesaggistiche e archeologiche, retaggio di una storia millenaria che potrebbe essere meglio valorizzata. Il momento più toccante a Nisida, quando il presidente ha fatto delle riflessioni accorate, anche di carattere personale: “Quasi tutti abbiamo delle cicatrici; io ne ho una qui. Avevo tre anni, sono caduto dalle scale. Ricordo ancora il dolore dell’intervento che mi hanno fatto per mettere dei punti e a distanza di tanti decenni non ci faccio più caso e nessuno ci fa caso, anche perché col tempo la cicatrice va scomparendo. Ecco, questo è la detenzione: una cicatrice che nel corso del tempo scompare non va considerata più perché non è la caratteristica della persona”. Per questo, ha continuato, “è importante, al di là della permanenza nel casellario giudiziario della traccia della detenzione, che questo non sia in alcun caso motivo di emarginazione, di accantonamento, di preclusione. Vi sono tante persone che hanno avuto esperienze di detenzione e sono pienamente inserite con successo anche nella vita; non è soltanto nei film che questo avviene”, ha detto rispondendo alla domanda più spinosa, delle tre formulategli dai ragazzi: “Come mai i detenuti devono essere etichettati a vita anche se hanno dato prova concreta di adesione al programma di riabilitazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione?”. La detenzione, per Mattarella non può ma diventare “una sorta di marchio che rimane, preclude o fa emarginare”. Un concetto su cui si è soffermata anche Cartabia: “Non sempre è facile da un istituto di pena, credere in un oltre”. Ma qui si deve e si può”. Perché c’è “un dovere imperativo delle istituzioni penitenziarie sia infondere e diffondere speranza a tutte le persone detenute. Specie nei più giovani. La speranza di ciascuno di voi è speranza per l’intera società”, ha detto la Guardasigilli. Poi nel Duomo di Pozzuoli, accompagnati anche dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, Mattarella e Cartabia hanno salutato l’arcivescovo di Napoli Mimmo Battaglia, il direttore dell’istituto minorile Gianluca Guida, il docente Luigi Salvati, e ascoltato le testimonianze di un educatore, Danilo Venditto, e di due giovani che ce l’hanno fatta, Luigi, ora chef e studente dell’Istituto alberghiero, e Dragana. Poi Mattarella ha visitato il Museo di Arte Sacra, che sorge dov’era la colonia romana di Puteoli, soffermandosi davanti al quadro di Artemisia Gentileschi, “reduce” dall’esposizione a una mostra del British Museum. Il dialogo tra Mattarella e i giovani detenuti Buongiorno Signor Presidente, come mai i detenuti devono essere etichettati a vita anche se hanno dato prova concreta di adesione al programma di riabilitazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione? Presidente: Questa è una bella domanda, ed è particolarmente impegnativa. Parto da una cosa che avete sentito certamente altre volte: in qualunque comunità inclusiva vi sono delle regole. Anche nel gioco del calcio, se un calciatore sgambetta un avversario a metà campo c’è una punizione, se lo fa vicino alla porta c’è un rigore. Ogni comunità in cui si vive insieme ha delle regole. Nel nostro Paese, come in tutti gli Stati queste regole sono le leggi. Le leggi un tempo erano decise dal sovrano, dal re o dai nobili nel loro territorio. Adesso decide il Parlamento eletto dai cittadini e quindi sono regole scelte dalla maggioranza dei cittadini. La violazione di queste regole crea una rottura nel patto sociale di osservare le regole per vivere insieme, e la collettività reagisce in maniera graduata a seconda del tipo di violazione, della gravità della violazione. È vero che la detenzione rimane come traccia nel casellario giudiziario, non nei documenti, nel casellario. Però questo non va sopravvalutato e non può diventare in alcun caso una sorta di marchio che rimane, preclude o fa emarginare. Faccio un esempio un po’ banale. Quella frattura, quella violazione di regole, è un po’ come quando ci si ferisce: l’organismo reagisce per chiudere una ferita. Quasi tutti abbiamo delle cicatrici; io ne ho una qui. Avevo tre anni, sono caduto dalle scale. Ricordo ancora il dolore dell’intervento che mi hanno fatto per mettere dei punti e a distanza di tanti decenni non ci faccio più caso e nessuno ci fa caso, anche perché col tempo la cicatrice va scomparendo. Ecco, questo è la detenzione: una cicatrice che nel corso del tempo scompare non va considerata più perché non è la caratteristica della persona. Per questo è importante, al di là della permanenza nel casellario giudiziario della traccia della detenzione, che questo non sia in alcun caso motivo di emarginazione, di accantonamento, di preclusione. Vi sono tante persone che hanno avuto esperienze di detenzione e sono pienamente inserite con successo anche nella vita; non è soltanto nei film che questo avviene, avviene nella realtà anche nel nostro Paese. Quello che è importante - ed è il dovere dello Stato, e sono qui per riaffermarlo - che questo non si tramuti in alcun caso in una sorta di macchia indelebile, perché non è così, è una cicatrice che scompare, perché lo Stato ha il dovere di agevolare il reinserimento, il protagonismo nella vita sociale. Ciascuno di noi, ciascuno di voi, ha un’esperienza umana non ripetibile che può contribuire in maniera preziosa, importante nella vita di tutti. Questa prospettiva va garantita, e va garantita però non a parole, va garantita nei comportamenti dell’ordinamento con i suoi interventi, le sue regole, le sue procedure, le sue iniziative, e con il comportamento sociale delle altre persone, con la fiducia - poc’anzi la Ministra parlava di speranza - ripeto anch’io con la speranza e la fiducia che occorre avere e sviluppare in maniera particolarmente forte. Questo mi sento di rispondere a questa domanda così interessante, partendo - ripeto - dal valore di ciascuna persona. Grazie per avermela fatta. Quel che ho detto non può limitarsi naturalmente alle parole del Presidente della Repubblica, deve essere tradotto in concreta realtà, in comportamenti reali nella vita sociale. Poc’anzi ho visto, insieme alla Ministra, alcuni laboratori in cui siete impegnati. Sono rimasto ammirato dalla qualità dei risultati che consente una proiezione di ottimismo, di fiducia per il protagonismo sociale nel futuro. Io mi permetto di incoraggiarvi a sviluppare molto questo, per garantirvi un futuro che sia costruttivo e protagonista nella vita sociale. Ho visto alcuni disegni, sulle mura, di gabbiani che volano liberi sopra il mare; sono tutte immagini che ho ritrovato anche in qualche disegno di ceramica, che sono il vostro futuro in cui spiegare le vostre capacità di protagonismo sociale dell’avvenire. Vi faccio per questo molti auguri ragazzi, molti davvero, ripetendovi l’apprezzamento per quello che ho visto nell’impegno che spiegate nei laboratori. Auguri ragazzi, davvero con molta intensità e con grande fiducia nei vostri confronti. “Un messaggio di speranza, ma con il Covid in cella le tensioni si sono acuite” di Francesco Grignetti La Stampa, 12 settembre 2021 Intervista al Garante dei diritti delle persone private della libertà. A Nisida c’era anche Mauro Palma, accanto al Presidente della Repubblica e alla ministra della Giustizia. Ha ascoltato con attenzione le parole del Capo dello Stato. Ma ancor di più, forse, le domande dei giovanissimi detenuti. Perché è dai loro discorsi che si può sperare di vedere la fiammella della speranza. “E devo dire che ho trovato tante domande interessanti, di chi spera di rientrare a pieno titolo nella società”. Palma, il Presidente Mattarella ha indubbiamente fatto un discorso commovente. Quel paragonare un reato commesso a una ferita, che può rimarginarsi... “Il Presidente, prima di incontrare i ragazzi, ha voluto fare un giro accurato e si è informato di quel che fanno. E così ha parlato molto in concreto, come certe attività svolte dentro possano tramutarsi fuori in progetti di vita. Due punti ha voluto sottolineare. Che ogni persona ha una sua progettualità, tanto più se giovane, indipendentemente dagli errori fatti. E che se è vero che i reati commessi non riassumono la persona, e quindi non devono creare uno stigma, ciò non vuol dire dimenticare la loro rilevanza. Quindi non un invito alla speranza, astratta, ma nel concreto. Dovete partire da ciò che è stato, gli ha detto, per andare oltre. E ho visto che ascoltavano attenti”. Ma il discorso può valere anche per i detenuti adulti, considerando che cosa sono le carceri italiane? “In linea di massima, ritengo che sia il ragionamento su cui dovrebbe basarsi la parola rieducazione. A volte, questa aspirazione alla rieducazione della pena, la semplifichiamo un po’ troppo, come se fosse una cosa semplice. E invece no, va detto che non è semplice. Se portiamo questo discorso sui detenuti adulti, da una parte è sbagliata la implicita infantilizzazione che a volte caratterizza l’idea di trattamento penitenziario. Devono essere considerati in quanto adulti. È proprio tale rapporto di adultità può far acquisire la responsabilità di ciò che si è commesso”. Si parla molto di giustizia riparativa... “Preferisco definirla “restorative justice”, all’inglese, perché sottolinea meglio il concetto di riconnettere, ristrutturare. È indubbio che un crimine ha creato una lesione: il colpevole non può riparare, ma deve riconnettere”. Il carcere ci consegna tanti episodi negativi. I pestaggi ai danni dei detenuti. “Se voglio vedere positivamente, direi che c’è maggiore sensibilità nel denunciare. Ma è come consolarsi con un brodino. Distinguerei, però, tra due tipi di violenze, mai giustificabili ovviamente. C’è una violenza di branco, come visto a Santa Maria Capua Vetere, che nasce sullo stimolo di riprendersi il territorio. In questo caso è come se fossero presenti due soggetti antitetici, noi e loro. Ma ciò è distruttivo: non può essere un noi, come polizia, simmetrico a un loro proprio per il compito assegnatogli dalla collettività. Questo elemento lo trovo più pericoloso della violenza reattiva, che purtroppo c’è sempre stata nelle carceri”. Una sottocultura? “Tra i due estremi, poche-mele-marce contro sono-tutti-uguali, dico che sì, ci sono sacche di questa cultura. Ripeto: sacche. La stragrande maggioranza degli agenti si comporta rettamente. Vedo però che un problema della polizia penitenziaria è l’identità debole. Se ci fosse un’identità forte, non ci sarebbe bisogno di questo tipo di azioni e affermazioni”. E poi c’è il caso incredibile della detenuta che è costretta a partorire da sola in cella. “Una debolezza che imputo non solo alla catena di comando interna, ma all’intera società. Ci sono stati tre passaggi significativi. Il magistrato, peraltro donna, la manda in carcere nonostante sia in stato avanzato di gravidanza. Il 18 agosto la ragazza è inviata in ospedale per un’emorragia e risulta all’ottavo mese. L’ospedale non vede l’ora di dimetterla e a quel punto il carcere la riprende come nulla fosse. Un caso di plurima irresponsabilità”. Da Garante segue ormai da anni le carceri. Ottimista o pessimista? “Sono ottimista di carattere. Però, quando un anno fa si diceva che saremmo usciti migliori dalla pandemia, beh, proprio no. Si sono acuite tante tensioni: nella società, nelle famiglie, a maggior ragione nelle carceri. I conflitti si sono esasperati. C’è molta più violenza anche da parte dei detenuti. E tanto stress per il personale. Confido molto nell’azione della attuale ministra, non tanto per l’indiscutibile capacità giuridica, ma per l’attenzione al problema detentivo. C’è bisogno di non acuire le tensioni, che sono già abbastanza acute. E non va confuso il suo linguaggio spesso apparentemente “semplice” con un linguaggio volutamente “elementare”, nel senso di ricerca di “elementi” costitutivi di un’azione difficile, ma da costruire. Ha ben presente la difficoltà, ma vuole ricostruire un alfabeto possibile per affrontare la complessità intrinseca del possibile ritorno alla società esterna di chi con il reato ha rotto un legame con essa”. Dopo i morti in carcere, anche una nascita. Un altro scandalo di Franco Corleone L’Espresso, 12 settembre 2021 Il Presidente Mattarella e la ministra della Giustizia Cartabia scolpiscono parole ricche di umanità nel carcere minorile di Nisida per affermare le ragioni della Costituzione contro lo stigma. Come contrappunto intollerabile oggi, 11 settembre, su Repubblica Liana Milella e Andrea Ossino, raccontano il caso incredibile di un parto avvenuto il 1° settembre in una cella del carcere di Rebibbia. Come è possibile una violenza del genere? Ricordo che da sottosegretario alla Giustizia intrapresi un digiuno per spingere il Parlamento a risolvere la vergogna della detenzione delle madri e delle figlie e dei figli piccoli e perché fosse approvata finalmente la legge Finocchiaro, che divenne tale nel 2001 con il numero 40. Dopo venti anni la ferita è ancora aperta. Mi domando se toccherà ancora a me dover dare una testimonianza per il rispetto della vita e della dignità. Amra è il nome della mamma che ha partorito con l’aiuto della compagna di cella. Incredulo mi chiedo come è possibile che non fosse presente un medico. La ministra Cartabia ha inviato gli ispettori. Bene. Dobbiamo aspettare l’esito dell’inchiesta, certo. Ma se nel frattempo si impugnasse la ramazza con la mano destra e con la sinistra si alzasse il volume della Costituzione e lo si desse sulla testa dei tanti e tante insensibili e responsabili dello scempio, non sarebbe un segno forte di affermazione della Giustizia? Giustizia e riforma dei processi, l’Anm: “Su improcedibilità soluzione insoddisfacente” di Liana Milella La Repubblica, 12 settembre 2021 Santalucia, presidente dell’associazione magistrati: “La Corte Ue la boccerà. Non realistico il taglio del 40% dei tempi”. E poi: “Improcrastinabile il riordino del Csm, il governo faccia in fretta”. “Il governo e la sua maggioranza hanno modificato l’iniziale proposta sulla improcedibilità, hanno attenuato i vistosi difetti di quell’impianto, che però resta insoddisfacente perché legato ad una opzione in favore di una soluzione sistematicamente inaccettabile. E vedremo nei prossimi giorni se l’esigenza governativa di rispettare un calendario delle riforme a tappe sostanzialmente forzate prevarrà sul bisogno avvertito anche da buona parte dell’Accademia di rimediare alla irrazionalità di quella scelta”. Lo ha detto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, parlando della riforma della prescrizione e della improcedibilità al comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. “Non è un azzardo dire - ha continuato Santalucia - che, siccome l’attuale legge ha prodotto frutti avvelenati, il tema di quale debba essere il modello elettorale da privilegiare in sostituzione di essa rischia di essere secondario di fronte all’urgenza di una riforma pur che sia, alla condizione, ovviamente, della compatibilità costituzionale. È un paradosso, ma rende efficacemente l’idea, che a me pare dovrebbe trovarci tutti d’accordo, di una necessità non eludibile, di una necessità rafforzata di riforma”. “Non mi pare realistico sperare - ha proseguito Santalucia - che si possano abbreviare del 40% i tempi dei processi” puntando solo su “due capitoli” della riforma della giustizia civile, come la nuova strutturazione dell’Ufficio per il processo e “il potenziamento dell”Adr”. Riversare soltanto su questi interventi “l’intero carico di attese e di speranze di un così robusto efficientamento della giustizia civile soltanto” rischia di consegnarli “a un futuro assai incerto, in qualche modo ponendo le condizioni per registrarne in beve tempo il sostanziale fallimento”. La Corte Ue boccerà l’improcedibilità - “Non è previsto che lo Stato abdichi alle sue prerogative se vengano superati tempi ragionevoli per l’accertamento dei reati. È agevole prevedere che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo avrà modo di censurare l’ibrido istituto della prescrizione processuale”. Lo ha detto il segretario dell’Anm Salvatore Casciaro parlando al Comitato direttivo centrale della norma sulla improcedibilità in materia di prescrizione. Secondo Casciaro restano “preoccupazioni” anche dopo le modifiche introdotte, si “rischia di generare un punto di frizione col principio di separazione dei poteri”. Riforma del Csm - La riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm è “improcrastinabile” e invece “sembra segnare il passo”. “Credo che possa e debba chiedersi al ministro, al governo e alla politica di fare in fretta, dicendo con chiarezza che non si può andare al rinnovo del Csm senza aver provveduto a eliminare i fattori di rischio di una ulteriore delegittimazione dell’organo consiliare”, ha sottolineato Santalucia. Albamonte a Cartabia: “Subito la nuova legge elettorale del Csm” di Liana Milella La Repubblica, 12 settembre 2021 Il segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, contro i referendum radical-leghisti: “Se passassero sarebbe un danno per la magistratura e per il Paese”. “Subito la nuova legge elettorale del Csm”. Chiede questo alla ministra della Giustizia Marta Cartabia il pm di Roma Eugenio Albamonte nella veste di segretario di Area, la corrente che raccoglie la sinistra delle toghe. Albamonte boccia tutti i referendum radical-leghisti e dice: “Se passassero sarebbe un danno per la giustizia”. Ormai dal 29 maggio 2019, quando è esploso il caso Palamara, tutti, da destra e da sinistra, criticano il Csm e i suoi metodi correntizi. Il Consiglio attuale è rimasto al suo posto e scadrà tra una decina di mesi. Non le pare che siamo in ritardo con la riforma? “Siamo in gravissimo ritardo. Dieci mesi rischiano di essere troppo pochi per avere una nuova legge elettorale del Consiglio che a luglio 2022 dovrebbe essere già promulgata dal capo dello Stato, quando saranno indette le elezioni. In realtà la legge dovrebbe essere disponibile molto prima”. Scusi quanto prima? “Obiettivamente, almeno per il mese di maggio per avviare la macchina burocratica e organizzativa”. Forse il governo lo sta facendo apposta a ritardare la riforma del Csm per evitare che voi togati, furbescamente, troviate il modo di rendere comunque determinante il peso delle correnti.... “Per ridurne in modo considerevole il peso, cosa che personalmente auspico, non sono tanto importanti i tempi quanto la scelta della legge adatta a questo scopo anche per evitare l’effetto perverso della riforma Castelli che, fatta per ridurre il peso delle correnti, in realtà lo ha aumentato in modo esiziale per la credibilità stessa della magistratura e del suo autogoverno”. In via Arenula la ministra Cartabia ha affidato alla commissione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani la revisione del disegno di legge del suo predecessore Bonafede. Al momento non c’è ancora un’indicazione sul momento in cui la Guardasigilli invierà in Parlamento i suoi testi. Ma realisticamente potrebbe accadere ad ottobre e la riforma dovrà comunque affrontare la Camera e poi il Senato. E serviranno i decreti legislativi. Lei come vede un eventuale rinvio delle elezioni del Csm? “Se è per questo allo stato non solo non vi è certezza sui tempi ministeriali, ma anche su quali saranno le scelte politiche. Se le cose dovessero andare come per il processo penale e per le prime proposte della commissione Lattanzi, che poi non sono state portate dalla ministra in Parlamento, allo stato non sappiamo neanche quale potrebbe essere la riforma elettorale proposta da Cartabia. Comunque giudico assolutamente inopportuno sia un rinvio delle elezioni sia una proroga dell’attuale Consiglio”. Ma perché? In fondo nel 2018 i togati vennero eletti nella prima settimana di luglio mentre il Parlamento indicò i laici a settembre. Quindi un rinvio di un paio di mesi potrebbe essere realistico. E poi le sembra giusto che le Camere conoscano prima l’assetto dei togati e quindi si regolino sulla scelta dei laici? “Penso che uno dei punti da inserire nella riforma dovrebbe essere proprio quello di garantire la contestualità della nomina da parte del Parlamento rispetto al risultato delle elezioni dei togati, in modo tale che l’uno non influenzi l’altro in alcun modo, e entrambe le componenti preservino fin dall’inizio la loro autonomia frutto dei meccanismi diversi di designazione. Tra l’altro, l’assoluta contestualità stimolerebbe il Parlamento a indicare più persone che presentino le caratteristiche culturali e istituzionali per poterne essere vicepresidente senza che la scelta derivi dall’esito dell’elezione dei togati”. Esiste una legge elettorale per impedire alle correnti di pilotare gli eletti? “Per fortuna negli anni le correnti hanno perso parte del loro potere di condizionamento dell’elettorato che oggi molto più facilmente si orienta in modo autonomo convergendo ad esempio su magistrati che a torto o a ragione godono di una certa considerazione e di una certa popolarità anche se fuori dalle correnti”. Sta pensando a Nino Di Matteo? “Quello è certamente un esempio in tal senso. Se il sistema elettorale, qualunque esso sia, anziché favorire la designazione dei candidati da parte delle correnti consentirà ai magistrati di scegliere realmente, in una platea più ampia possibile i candidati, il tema del predominio asfissiante delle correnti sul Consiglio potrà essere superato”. Ma il sistema che propone Luciani, il voto singolo trasferibile, può essere una soluzione? “Tra i sistemi elettorali di cui si è parlato, questo mi sembra il più adatto a restituire la scelta agli elettori ai quali vengono attribuite più preferenze che non potranno certamente essere controllate dalle correnti. In più questo sistema garantisce di fatto un numero ampio di candidati”. A fine settembre il congresso di Area a Cagliari avrà un titolo singolare, “La magistratura tra realtà e finzione”. La realtà sarebbero le correnti, ma dove sta la finzione? “Il titolo si riferisce agli ultimi due anni di vita giudiziaria nei quali una serie di vicende, a cominciare dallo scandalo dell’hotel Champagne, e andate avanti fino a oggi con il caso Storari-Davigo, evidenziano non solo che la magistratura è in profonda crisi, prima di tutto etica, ma anche che sono necessari una serie di interventi strutturali per restituirle la credibilità di cui ha sempre goduto. Ma è altrettanto vero che su questi fatti si è costruita una narrazione strumentale cavalcata per interessi diversi da alcuni degli stessi magistrati coinvolti, ma anche da alcuni organi di informazione, da una parte dell’Avvocatura, e da un segmento rilevante della politica. Questa ricostruzione in partire falsa rischia di orientare la stessa magistratura, le istituzioni e l’opinione pubblica verso riforme che sono lontane da quelle necessarie per risolvere i problemi stessi”. Sta criticando le riforme della ministra Cartabia? Ma su che cosa in particolare? “Critico il messaggio che alcuni segmenti della politica hanno voluto dare, partendo da una ricostruzione falsificata, al lancio della campagna dei referendum sulla giustizia che costituiscono un esempio perfetto di strumentalizzazione e al contempo di propaganda perché non risolverebbero nessuno dei temi sul tavolo e non porrebbero argine alcuno al ripetersi delle vicende a cui abbiamo assistito in questi anni”. Supposto che i sei referendum radical-leghisti superino il vaglio della Consulta e poi ottengano il voto dei cittadini, quale ritiene che sia veramente dannoso? “Qui ci vorrebbe un’altra intervista, ma detto con una battuta, per ragioni diverse, tutti avrebbero conseguenze molto negative per i cittadini e per il Paese. Le faccio solo un esempio, il quesito che viene venduto come una separazione delle carriere, in realtà rischia solo di produrre l’effetto opposto, perché eliminando le norme che oggi consentono di passare solo quattro volte nell’arco di una carriera da una funzione all’altra si tornerebbe al regime precedente in cui un giudice o un pm poteva cambiare casacca quante volte voleva”. È un fatto, anche statistico, che la magistratura non gode più dell’ampia fiducia dei tempi di Mani pulite. Lo dimostra anche la proposta di istituire un Alta corte che sostituisca la sezione disciplinare del Csm. In una battuta lei come la giudica? “Se istituire un’Alta corte vuol dire creare un nuovo organismo disciplinare che abbia competenza su tutte le magistrature, a me sembra che la storia dei tribunali interni di quella contabile e di quella amministrativa sia caratterizzata da una mitezza ben maggiore di quella che riscontriamo nella giurisprudenza del Csm. Non vorrei che il risultato fosse quello di infiacchire, anziché rafforzare, il controllo disciplinare”. Per chiudere lei adesso cosa chiede alla Guardasigilli Cartabia? “Di mettere mano subito e portare rapidamente a compito la riforma del Csm e primo tra tutti la riforma del suo sistema elettorale”. Ora l’Anm vuole cambiare la mediazione sulla improcedibilità di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 settembre 2021 L’associazione magistrati critica il testo approvato dalla Camera, rimpiange le proposte della commissione Lattanzi già fatte a pezzi da 5 Stelle e toghe eccellenti e si augura, senza molte speranze che il senato corregga il tiro. Intanto i togati di Area lanciano l’allarme sul nuovo rito per la famiglia: sono a rischio le tutele effettive dei minori. Riconosce che “il governo ha modificato la proposta iniziale”, tenendo conto delle richieste dei magistrati. Ma il testo di riforma del processo penale approvato alla camera e adesso in commissione al senato “resta insoddisfacente”. Per questo il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia boccia il compromesso della improcedibilità, “inaccettabile”, così come pure l’Anm aveva bocciato le soluzioni originariamente avanzate dalla commissione Lattanzi per la ministra Cartabia. L’auspicio che il senato possa ora “rimediare alla irrazionalità di quella scelta”, tornando indietro dalla soluzione di mediazione che proprio le richieste dei magistrati (e dei 5 Stelle) avevano imposto, è però assai poco fondato. Il presidente Santalucia sa bene che al senato prevarrà “l’esigenza governativa di rispettare un calendario delle riforme a tappe sostanzialmente forzate”. Eppure l’Anm non organizzerà proteste contro una riforma che, del resto, aveva giudicato un passo in avanti proprio dopo l’abbandono da parte della ministra dell’impostazione proposta da Lattanzi. Quell’impostazione che, dice adesso il numero due dell’associazione magistrati Salvatore Casciaro, “conteneva elementi di ragionevolezza nell’individuazione del punto di equilibrio in materia di prescrizione”. Non ci sarà la giornata di sciopero che la corrente di Articolo 101 ha chiesto durante la riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm ieri mattina, Proposta bocciata. Mentre è comune a tutte le anime dell’associazione la richiesta che governo e parlamento accelerino sulla riforma del Csm. Gli emendamenti governativi al vecchio testo Bonafede ancora non si vedono ma “non si può andare al rinnovo del Csm senza aver provveduto a eliminare i rischi di un’ulteriore delegittimazione dell’organo”, dice ancora Santalucia. Le nuove elezioni per il Csm ci saranno infatti nel luglio del 2022. L’Anm, che ieri è tornata sulle vicende del “caso Palamara” per riconoscere come nelle nomine dei magistrati “sia stata troppo spesso privilegiata l’appartenenza associativa, il rapporto di contiguità o di amicizia e l’impropria logica di scambio” chiede da tempo che la legge elettorale della componente togata del Consiglio sia modificata. In che senso però non lo dice, visto che la proposta della commissione Luciani di voto singolo trasferibile raccoglie qualche consenso ma le correnti di destra insistono per passare dall’elezione al sorteggio. Intanto Santalucia ha definito “irrealistico” l’obiettivo - nero su bianco nel Pnrr - di abbreviare del 40% la durata dei processi civili “contando soltanto sul potenziamento delle Adr (alternative extragiudiziali per la risoluzione delle liti, ndr) per il vero non così significativo”. La riforma del processo civile è ancora in prima lettura al senato e la commissione giustizia può votare il mandato alle relatrici questa settimana. Ieri i cinque rappresentanti nel Csm di Area, la corrente di sinistra della magistratura, hanno chiesto che il consiglio riapra la pratica del parere sulla riforma, che dovrebbe essere approvata martedì. Perché pur approvando la scelta di concentrare le competenze sui minori e sulle liti familiari in un unico ufficio - il nuovo “tribunale per le persone(!)” - temono che, come spiega il consigliere Zaccaro, venga perso “l’approccio multidisciplinare che deriva dall’utilizzo dei giudici onorari, scelti fra psicologi e pedagoghi” e anche che “le decisioni sui minori vengano prese solo se emerge un conflitto fra i genitori, quando molto spesso serve intervenire a prescindere da quello per tutelarli”. Anm: “L’improcedibilità? Sarà la Cedu a bocciarla. Ora riformiamo il Csm” di Davide Varì Il Dubbio, 12 settembre 2021 Il presidente Anm Giuseppe Santalucia: “Ai magistrati onorari in servizio bisogna dare le tutele che richiedono”. Il presidente Santalucia al direttivo del sindacato delle toghe: “Una riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm è improcrastinabile”. Dubbi sul ddl civile: rischio “fallimento” alto. “Il Governo e la sua maggioranza hanno modificato l’iniziale proposta sulla improcedibilità, hanno attenuato i vistosi difetti di quell’impianto, che però resta insoddisfacente perché legato ad una opzione in favore di una soluzione sistematicamente inaccettabile”. A dirlo è il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia nella sua relazione in apertura della riunione odierna del direttivo del sindacato delle toghe, affrontando il tema della riforma del processo penale, con gli emendamenti del Governo in materia di prescrizione e improcedibilità, approvata dalla Camera e che ora arriverà al vaglio del Senato. “Vedremo nei prossimi giorni - ha aggiunto Santalucia - se, come sembra facile preconizzare, l’esigenza governativa di rispettare un calendario delle riforme a tappe sostanzialmente forzate prevarrà sul bisogno avvertito anche da buona parte dell’Accademia di rimediare alla irrazionalità di quella scelta”. “Non è previsto che lo Stato abdichi alle sue prerogative se vengano superati tempi ragionevoli per l’accertamento dei reati. È agevole prevedere che la Corte europea dei diritti dell’uomo avrà modo di censurare l’ibrido istituto della prescrizione processuale”, incalza il segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro, intervenendo durante la riunione del “parlamentino”. “La ministra Cartabia - aggiunge - ritiene, quella sull’improcedibilità, una disposizione di civiltà che riallineerà il processo penale agli standard europei fissando tempi certi di definizione del giudizio. Ma l’articolo 6 Cedu individua il processo come mezzo al fine, sicché la ragionevolezza dei tempi è funzionale all’accertamento “sul fondamento di ogni accusa in materia penale”. Riforma del Csm - Il presidente Santalucia ha quindi sollecitato un urgente intervento di riforma del Csm: “Sappiamo che la Ministra della giustizia ha espresso più volte la convinzione dell’urgenza della riforma, sottolineando che “qualcosa si è rotto nel rapporto tra magistratura e popolo” e che pertanto “occorre urgentemente ricostruirlo”. E allora una riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm è improcrastinabile - dice. L’attuale legge elettorale, varata circa venti anni fa col dichiarato intento di scardinare le correnti, ha finito col rafforzare e favorire il correntismo. È una legge che ha dato cattiva prova, che ha concorso a non pochi guasti”. “Il tempo c’è ancora, ma non è infinito perché l’attuale consiliatura si accinge ad entrare nell’ultimo anno della sua esperienza”, ricorda. “Credo allora che possa e debba chiedersi al ministro, al governo e alla politica di fare in fretta, dicendo con chiarezza che non si può andare al rinnovo del Csm senza aver provveduto a eliminare i fattori di rischio di una ulteriore delegittimazione dell’organo consiliare”. “Non è un azzardo dire - prosegue Santalucia - che, siccome l’attuale legge ha prodotto frutti avvelenati, il tema di quale debba essere il modello elettorale da privilegiare in sostituzione di essa rischia di essere secondario di fronte all’urgenza di una riforma pur che sia, alla condizione, ovviamente, della compatibilità costituzionale. È un paradosso, ma rende efficacemente l’idea, che a me pare dovrebbe trovarci tutti d’accordo, di una necessità non eludibile, di una necessità rafforzata di riforma”. Riforma del processo civile - “Non mi pare realistico sperare che si possano abbreviare del 40% i tempi dei processi contando soltanto sul potenziamento delle Adr, per il vero non così significativo, e sulle misure di riorganizzazione degli uffici giudiziari, e quindi sulla nuova strutturazione dell’ufficio per il processo”, spiega invece Santalucia parlando della riforma del processo civile che la prossima settimana arriverà all’esame dell’Aula del Senato. “Il timore è che riversando l’intero carico di attese e di speranze di un così robusto efficientamento della giustizia civile soltanto su questi due capitoli della riforma, e in particolare sulla nuova fisionomia dell’ufficio per il processo, li si consegni a un futuro assai incerto, in qualche modo ponendo le condizioni per registrarne in breve tempo il fallimento”, afferma il leader del sindacato delle toghe, sottolineando che “siamo tutti consapevoli dell’importanza delle riforme, che sono per la gran parte necessitate dall’urgenza di venir fuori da una crisi di portata eccezionale, e che ci si debba predisporre costruttivamente, rifuggendo da atteggiamenti di preconcetta chiusura alle innovazioni e personalmente penso anche che occorra coltivare un cauto e razionale ottimismo, per tenere a bada le pur comprensibili tendenze al disincanto”. Ma, aggiunge, “l’ottimismo non può essere ingenuo, va sostenuto con il necessario realismo, perché solo in tal modo si impedisce che l’entusiasmo riformatore si faccia in breve tempo pericolosa illusione”. La magistratura, secondo Santalucia, “dovrà fare la sua parte affinché gli strumenti messi a disposizione possano essere utilizzati nel miglior modo possibile: in termini di ampliamento delle risorse, il reclutamento di oltre 8mila addetti da destinare all’ufficio per il processo non è poca cosa, e occorrerà nel breve tempo ragionare sulla allocazione migliore all’interno degli uffici, per sfruttare nella massima misura le potenzialità della nuova organizzazione. E però - ha concluso - l’ufficio per il processo deve essere una delle plurime soluzioni da dare all’annoso problema dei tempi della giustizia civile, perché non è, purtroppo, una formula magica”. Greco: “Davigo e i verbali? Fatti imbarazzanti, c’è chi vuole colpire la Procura simbolo” di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 12 settembre 2021 Il capo dei pm milanesi, il caso Storari e il processo Eni: “Ho imposto io l’iscrizione di Amara e dei suoi sodali, aver fatto uscire atti secretati ha pregiudicato l’indagine”. Nella sua lunga carriera iniziata a Milano alla fine degli anni 70 come pm, e che a Milano si chiuderà a novembre come Procuratore capo, si è guadagnato il rispetto persino dei suoi imputati, anche quelli che ha mandato in carcere. Ascoltato dal potere politico per la capacità di indicare strade innovative contro i grandi mali del Paese: l’evasione fiscale e la corruzione. Notoriamente riservato, non ha mai partecipato a un talk televisivo, non ha mai scritto un libro. Poi è comparso in scena l’avvocato Amara e per Francesco Greco è iniziata la partita più difficile, quella contro il tentativo di azzerare la reputazione della Procura di Milano. Amara è l’artefice della diabolica operazione di depistaggio all’interno del processo Eni, e il rivelatore della fantomatica loggia Ungheria, dove spiattella una lista di 70 nomi: magistrati, giudici, politici, imprenditori, giornalisti. Il pubblico ministero che segue l’indagine Paolo Storari passa i verbali secretati al consigliere Davigo. La slavina fa il suo percorso silenzioso, e quando emerge, in Procura è valanga: Greco finisce sulla graticola e Storari al consiglio di disciplina. Alla fine poi al Csm Storari ha raccontato che non c’era nessuna inerzia investigativa, ma che si era consultato con Davigo perché era preoccupato, e quindi non è stato punito. Perché invece lei lo ritiene un atto così grave? “Tutti eravamo preoccupati, anche di capire il senso della collaborazione di Amara, ma aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini. Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante”. A Brescia però Storari l’ha accusata proprio di voler rallentare le indagini, se non è vero perché il Procuratore non ha ancora archiviato? “Spero che provveda, visto che la versione di Storari contrasta con la ricostruzione storica dei fatti,che ho documentalmente provato. Nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi faccio notare che è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite”. Ma se un magistrato temesse che il suo capo voglia mettersi di traverso cosa dovrebbe fare? “Si seguono le regole e si mette tutto per iscritto. Storari non ne ha rispettata nessuna. E quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri, poi crollata come un castello di sabbia. Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso”. Quando ha incaricato Storari di indagare su chi avesse fatto arrivare quei verbali ai giornalisti, lui non si è astenuto perché non pensava che fossero gli stessi che aveva dato a Davigo, e il Csm ha creduto alla sua buonafede. Lei invece non ci crede, perché? “Penso che sia la Procura Generale che il Csm non avessero la lettera anonima (agli atti delle Procure di Roma e Brescia) che accompagnava la seconda consegna dei verbali al Fatto, e che non lasciava dubbi sulla loro provenienza, riportando nel dettaglio tutti i colloqui avuti da Davigo con soggetti istituzionali e con diversi colleghi, nonché l’indicazione precisa che provenivano dalla Procura di Milano. Anch’io dell’esistenza di questa lettera, detenuta in originale unicamente da Storari, ne sono venuto a conoscenza solo recentemente. Inoltre, trattandosi di stampe di file word, potevano essere usciti solo dai nostri uffici, tant’è che, ipotizzando un hackeraggio, disposi accertamenti tecnici che non vennero eseguiti. Infine quando abbiamo intercettato la segretaria di Davigo, Storari che a quel punto non aveva più scuse, ha acconsentito che si facessero le intercettazioni per un reato che sapeva non essere mai stato commesso: accesso abusivo a sistema informatico” Storari è noto per la sua scrupolosità e dedizione, pensa che sia stato manipolato da Davigo? E a quale scopo? “Non lo so e non mi interessa. Ho sempre stimato Storari e avuto con lui un ottimo rapporto. A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me. Quindi mai mi sarei aspettato una coltellata nella schiena. Ha tradito anche la fiducia della collega, ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo... mentre i verbali “circolavano” per Roma”. Nella lettera di solidarietà a Storari firmata da 56 magistrati su 64 c’è scritto che il problema è la mancanza di chiarezza. Dove nasce questo malessere? “Premesso che quel documento firmato io non l’ho mai visto e addirittura il Csm ne parla senza che sia stato prodotto, la presunta mancanza di chiarezza era ed è dovuta al fatto che io non ho voluto diffondere direttamente la mia versione dei fatti, che peraltro è l’unica che si fonda su documenti e circostanze storiche. Ho preferito seguire i canali istituzionali. Devo però constatare con amarezza che il rigore non sempre paga, visto che per mesi è stata fatta circolare una versione dei fatti fondata sul nulla, provocando un danno enorme a tutto l’ufficio”. Però rivela anche un disagio che covava da tempo, non crede? “È vero, ma è difficile essere a proprio agio in un ufficio mantenuto dal ministero e dal Csm costantemente sotto organico sia di magistrati e Vpo (magistrati onorari), che di personale amministrativo. Milano già in partenza ha una pianta organica insufficiente in relazione agli affari e alla popolazione, e ben diversa da quelle di uffici che hanno lo stesso carico di lavoro se non largamente inferiore. Le Istituzioni non hanno mai risposto alle mie richieste ufficiali, né hanno sentito il dovere di sanare, nonostante gli impegni presi, l’improvvisa uscita di sei magistrati verso la Procura Europea. Ad oggi, mancano ben 14 magistrati!”. Non pensa che sia anche un po’ colpa sua se non si è creata quell’integrazione necessaria fra i dipartimenti molto specializzati che lei ha messo in piedi? “Intanto mi trovi lei un altro posto dove è possibile maturare specializzazioni diverse senza restare inchiodati tutta la vita alla stessa sedia. Detto questo, sicuramente ho commesso errori, a partire dalla volontà (non condivisa da tutti) di modernizzare la Procura informatizzandola, e con la creazione di un dipartimento dedicato ai reati transnazionali. Così come ho sottovalutato la diffusione sempre più estesa di una mentalità che risponde a logiche più burocratiche rispetto a quelle in cui ho maturato la mia esperienza professionale. Probabilmente non ho nemmeno colto il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale, e che trova il suo contraltare nelle circolari del Csm”. La conclusione del procedimento Eni-Nigeria ha scatenato una serie di polemiche e critiche pesanti al suo ufficio, e adesso il Csm sta verificando se non ci sia incompatibilità ambientale per il pm De Pasquale. Cosa è successo? “Intanto i processi vengono disposti dal Gup quando ci sono elementi, che evidentemente c’erano. Purtroppo, diversi passaggi di questo processo hanno generato ogni sorta di polemica. È il caso di ricordare che è stato un avvocato dell’Eni (Amara) a intervenire con condotte corruttive (in parte già giudicate con sentenze definitive) nei confronti delle Procure di Trani e di Siracusa per “depistare” le indagini e costruire false accuse nei confronti di diverse persone interessate al processo. Lo stesso avvocato ha anche accusato “de relato” il presidente del collegio giudicante, accuse risultate infondate dalle verifiche fatte dalla Procura di Brescia, e che io stesso avevo registrato come “atti non costituenti notizie di reato”. Sull’accusa di non aver prodotto un video giudicato rilevante dal Tribunale, abbiamo documentalmente dimostrato che gli imputati e l’Eni ne avevano la trascrizione già da più di un anno, e non l’avevano usata o richiesta in sede di ammissione delle prove pur potendolo fare. È stato certamente un processo delicato, ma non diverso da tanti altri, e le complessità vanno affrontate e risolte nel dibattimento, non altrove. Altrimenti a che servono i processi?”. Anche l’appello sarà complicato visto che il suo ufficio non è molto amato nemmeno dalla Procura Generale, tant’è che il procuratore Celestina Gravina ha già detto che questo processo è uno sperpero di denaro pubblico. “Sarà interessante sentire cosa pensano sul punto i valutatori dell’Ocse che hanno esplicitamente chiesto di aprire i prossimi lavori di valutazione dell’Italia presso la Procura di Milano, proprio perché si è distinta in questi anni nell’applicazione della convenzione di Parigi 97 sulla corruzione Internazionale. Quanto al presunto sperpero di denaro ricordo che la procura di Milano ha portato diversi miliardi nelle casse dello Stato sorreggendo più di una manovra finanziaria, mentre nel processo di appello, la Procura Generale non ha ritenuto di difendere un sequestro di oltre 100 milioni di dollari confermato dalla sentenza di primo grado”. Nella dura lettera di replica ai suoi colleghi lei scrive che si sta approfittando della debolezza della magistratura per colpire la Procura di Milano. A che scopo? “Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni”. Secondo lei sono pretesti di un disegno più ampio? “Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale. Qui non è nata solo Mani Pulite, qui sono nate le indagini sui nuovi caporali digitali e sul trattamento dei riders, sull’evasione fiscale delle big-tech, sul riciclaggio delle banche internazionali, sulla corruzione internazionale, la tutela dei consumatori dalle truffe delle grandi multiutilities, è stata costante l’attenzione nei confronti della Mafia imprenditrice, dei soggetti deboli e della salute sui luoghi di lavoro. Per alcuni questa anomalia deve finire”. Chi sono questi “alcuni”? “Il desiderio di avere le mani libere ha accompagnato da sempre parte delle classi dirigenti politiche ed economiche del paese. Saverio Borrelli, consapevole di questa situazione, ci chiese di resistere, cioè di continuare a fare il nostro dovere con responsabilità ma senza compromessi. Controllare la legalità del potere richiede una “tenuta” psicologica che nel tempo logora, e infatti molti magistrati sono diventati insofferenti agli attacchi continui, e certi processi preferiscono evitarli. Ogni volta, c’è sempre qualcuno che dice “bisogna voltare pagina”. È successo in tutti i grandi uffici, ed ora qui, in occasione del mio pensionamento. Tuttavia sono certo che questa Procura non cambierà pelle... almeno me lo auguro”. Pensa che l’origine di tanti problemi sia stata proprio la creazione del dipartimento reati internazionali? Quello che ha portato Eni a processo per intenderci? “Quello che posso dire è che le condizioni internazionali impongono un rafforzamento del contrasto a questo tipo di corruzione, come lo stesso Biden ha recentemente ribadito nel suo primo memorandum dove dice che la lotta alla corruzione internazionale è un “interesse centrale della sicurezza nazionale”. Del resto i trattati sottoscritti dall’Italia quali la convenzione di Parigi e la convenzione Onu di Merida sulla lotta alla corruzione stanno dentro la nostra Costituzione. Il tentativo di decapitare la Procura di Milano va in controtendenza, e sarà il caso di riflettere sulle conseguenze anche internazionali: non a caso il terzo dipartimento è stato indicato dal Governo all’Ocse come l’unica best practice italiana nel contrasto alla corruzione internazionale”. Il Csm nel luglio scorso ha messo in discussione il suo modello organizzativo presentato già qualche anno fa. Perché proprio ora? “La coincidenza è curiosa, ma quello che trovo singolare è l’aver affermato che non avevo analizzato la realtà criminale del territorio dove lavoro da 43 anni! Con la nuova organizzazione abbiamo ridotto, ogni anno, la pendenza di 10.000 procedimenti (anche in periodo Covid), e il modello che abbiamo costruito è in grado di aumentare la produttività pur mantenendo l’elevato standing nei procedimenti specializzati. Ma nelle valutazioni evidentemente i risultai non contano!”. I risultati della gestione Greco si leggono sul bilancio sociale della Procura. Sul fronte dei reati fiscali, negli ultimi 3 anni sono stati recuperati ben 5,6 miliardi. Hanno pagato i giganti della digital economy, della moda, siderurgia e grandi gruppi finanziari, grazie soprattutto all’attivazione di un network istituzionale con la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate e delle Dogane, caso unico in Italia. Focus sulle grandi banche con sedi in Paesi con segreto bancario o fiscalità privilegiata: sono stati individuati circa 200 enti che ospitavano enormi capitali frutto di evasione fiscale. L’inchiesta sui riders ha dimostrato che svolgono a tutti gli effetti un lavoro subordinato ed è scattato l’obbligo di assunzione. Le società di servizi che utilizzano lavoratori in nero sono state costrette a rientrare nella legalità, anziché passare dal sequestro che poi le porta al fallimento. L’alta specializzazione ha reso le rogatorie internazionali più rapide, proprio perché vengono gestite da un dipartimento dedicato. Il referendum sulla liceità dell’eutanasia origina dall’incostituzionalità della legge sollevata dalla Procura di Milano sul caso Cappato (suicidio assistito). In quegli uffici ha passato tutta la sua vita professionale, qual è il suo bilancio personale? “Non sono un sentimentale, ho avuto la fortuna e, penso, la capacità di condurre moltissimi processi interessanti, anche per la storia di questo Paese. Certo quella lettera dei colleghi mi lascerà un segno, ma per formazione o per abitudine guardo sempre avanti... e le idee hanno molte cose da fare”. La “zona grigia” delle armi in Italia di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 12 settembre 2021 Femminicidi e non solo. Siamo il paese Ue in cui è più facile avere una licenza di possesso. Recenti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione il problema della diffusione delle armi in Italia. Vi è una “zona grigia” da cui emergono femminicidi efferati come quello della giovane Vanessa Zappalà, uccisa lo scorso 23 agosto ad Acitrezza dall’ex fidanzato con un’arma illegale; ma anche tentati omicidi come quello commesso da un anziano che ha ferito gravemente il vicebrigadiere Sebastiano Grasso intervenuto per sedare una lite fuori dalla chiesa: secondo alcune fonti il revolver era regolarmente detenuto dall’anziano mentre, stando ad altre fonti, la licenza gli era stata revocata. Fino ad un altro femminicidio, di due giorni fa, a Noventa Vicentina in cui Pierangelo Pellizzari ha sparato e ucciso la moglie, Rita Amenze nel parcheggio della ditta dove lei lavorava: l’assassino deteneva la pistola nonostante la licenza gli fosse stata revocata nel 2008. Questi casi dimostrano che chi si è visto revocare la licenza continua a detenere armi o sa come procurarsele, anche illegalmente. Deteneva invece pistola, carabina e munizioni con un regolare porto d’armi a uso sportivo, Stefano Morandini, il “no vax” bergamasco del gruppo Telegram, con 200 iscritti, titolato “I guerrieri” che annunciava l’uso di armi, lacrimogeni, molotov e di un drone esplosivo da fare cadere sulla Camera: del gruppo faceva parte anche una donna, simpatizzante dell’indipendentismo veneto, alla quale nel 2019 era stato revocato, per problemi psichiatrici, il porto d’armi per uso sportivo. Questi casi dimostrano l’attenzione da parte delle forze dell’ordine nei confronti di fenomeni potenzialmente violenti. Ma dovrebbero far emergere anche il problema della “zona grigia” che si annida tra possesso legale e illegale di armi. Un’area che è favorita dalla facilità con cui si può ottenere una licenza per armi in Italia. A qualsiasi cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicodipendente cronico è infatti generalmente consentito di ottenere una licenza dopo aver superato un breve esame di maneggio delle armi: non è richiesto, di solito, un accertamento specialistico sullo stato salute mentale né un esame tossicologico per rilevare l’uso di droghe. È proprio grazie alla facilità con cui si può ottenere una licenza come quella di “tiro sportivo” (tiro al volo) che oggi esistono in Italia più di 400mila “tiratori fantasma” (su circa 580mila detentori di licenza), che non praticano alcuna disciplina sportiva, totalmente ignoti alle strutture sportive. Ad un esame comparato delle normative, l’Italia risulta oggi uno dei paesi nell’Unione europea in cui è più facile ottenere una licenza per armi e detenerne un ampio numero. Con una licenza di uso sportivo, venatorio o un semplice nulla osta si può infatti detenere un vero arsenale di armi: tre revolver o pistole semiautomatiche con caricatori fino a 20 colpi, dodici armi cosiddette “sportive” (tra cui rientrano i famigerati fucili semiautomatici AR-15, i più usati nelle stragi in America, i fucili da cecchini “sniper” e alcuni tipi di fucili a pompa) con un numero illimitato di caricatori da 10 colpi e un numero illimitato di fucili da caccia, più 200 munizioni per armi comuni e 1.500 munizioni da caccia. Sono norme fatte apposta per favorire la vendita di armi, Ma anche la detenzione di armi, un vero arsenale, da parte di gruppi potenzialmente violenti, sovversivi ed estremisti. Non a caso il “decreto antiterrorismo” approvato nel 2015 dal governo Renzi su proposta dei massimi organi della Polizia aveva introdotto forti limitazioni riducendo a sei il numero di “armi sportive detenibili con licenza: a seguito delle modifiche apportate nel 2018 dalla Lega con il consenso del M5S, il numero è stato invece raddoppiato così come la capacità dei caricatori. Nei giorni scorsi è stato assegnato alla Commissione Affari costituzionali della Camera il disegno di legge 1737 che Walter Verini (Pd) ha presentato nell’aprile 2019: contiene importanti restrizioni, ma diversi punti potrebbero essere migliorati. Le associazioni della società civile che da anni monitorano i problemi della detenzione legale e illegale di armi da tempo hanno fatto presenti varie proposte e chiedono di essere ascoltate. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa - Opal Campania. Quinto suicidio nel 2021 nelle carceri campane: morto un 53enne di Enrico Tata fanpage.it, 12 settembre 2021 Ennesima tragedia in carcere. Soltanto in Campania sono morti cinque detenuti dall’inizio dell’anno. Ieri è morto un uomo di 53 anni, sposato e con figli, che si impiccato nel carcere di Ariano Irpino, provincia di Avellino. Si trovava lì da neanche trenta giorni, proveniva dal carcere di Vibo Valentia ed era in attesa di giudizio. Il quinto suicidio in appena nove mesi nelle carceri campane. Sono addirittura sei con l’aggiunta di un adolescente che si è tolto la vita in una comunità residenziale. In Italia sono 28 dall’inizio dell’anno. Ieri è morto un uomo di 53 anni, sposato e con figli, che si impiccato nel carcere di Ariano Irpino, provincia di Avellino. Si trovava lì da neanche trenta giorni, proveniva dal carcere di Vibo Valentia ed era in attesa di giudizio. Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Osapp questa ennesima tragedia è “la conseguenza dei numerosi gridi di allarme lanciati dall’Osapp per le carenze sanitarie, sulle quali siamo più volte intervenuti, come segreteria locale, provinciale, regionale e generale, denunciando la carenza di un presidio di specialisti in particolar modo psichiatri e psicologi in Istituto”. Per il sindacato il personale di polizia penitenziaria in servizio nelle carceri è numericamente inadeguato e questo costringe gli agenti a lavorare su doppi turni di 9 ore consecutive di lavoro. Secondo il vice segretario regionale Osapp Campania, Luigi Castaldo, “molti istituti penitenziari campani sono messi in ginocchio a causa di ataviche carenze organiche dei vari profili e ruoli”. Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambrello ricorda che “il carcere serve a togliere la libertà e non la vita”. “La politica ai vari livelli, la società civile devono mettere in campo iniziative di una giustizia riparativa, inclusiva, promuovere orizzonti, andare oltre le mura dell’indifferenza. Negli istituti di pena si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente quelli in cui rientrano i soggetti a rischio suicidario, ovvero giovani, persone con disturbi mentali, persone socialmente isolate, con problemi relazionali, di abuso di sostanze, e con storie di precedenti comportamenti auto ed etero lesivi. Bisogna andare oltre l’attuazione di quel protocollo anti-suicidario che si applica in condizioni normali, ma che non dà buoni risultati in un’ottica che tenga conto della complessità di queste vite e dei bisogni delle nuove utenze”, ha dichiarato Ciambrello. Cosenza. Detenuto morto in carcere, scatta la protesta dei detenuti di Fabio Benincasa corrieredellacalabria.it, 12 settembre 2021 La denuncia dell’avvocato Quintieri: “La popolazione detenuta sta facendo una “battitura” contro il servizio sanitario dell’Istituto”. La morte di Pasquale Francavilla, deceduto in carcere 24 ore fa ha sollevato le proteste dei detenuti dell’istituto penitenziario “Sergio Cosmai” di Cosenza. “Tutta la popolazione detenuta - scrive in un post su Facebook l’avvocato Emilio Quintieri - sta facendo una battitura contro il servizio sanitario dell’Istituto ritenuto responsabile di non aver fornito al loro compagno deceduto le cure necessarie”. Il legale informa di aver segnalato la questione al Collegio del Garante Nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale chiedendo una visita ispettiva presso la Casa Circondariale di Cosenza per gli opportuni accertamenti. Il giallo sulla morte di Francavilla - La Procura di Cosenza ha aperto un’inchiesta per far luce sulla vicenda. “Pasquale Francavilla - ha raccontato il legale della vittima Mario Scarpelli - è stato ricoverato d’urgenza in ospedale a Cosenza, dieci giorni fa, per la presenza di alcuni trombi. Si trovava nel reparto di Terapia intensiva. Cinque giorni fa, ho avuto modo di sentirlo tramite video chiamata e mi aveva annunciato l’imminente trasferimento in un altro reparto. Tra un mese avrebbe dovuto sottoporsi ad un altro delicato intervento, ma è tornato in carcere ed è morto”. Le condizioni di salute di Francavilla - secondo quanto denunciato dal legale - non sarebbero state compatibili con il regime carcerario. Di tutt’altro avviso il “magistrato di sorveglianza che ne ha disposto il trasferimento in carcere”. Qualche ora dopo è sopraggiunto il decesso, sulle cui cause farà luce l’esame autoptico eseguito oggi. Roma. Partorisce da sola in cella, perché stava in carcere? di Angela Stella Il Riformista, 12 settembre 2021 Nascere a Rebibbia, in un istituto di pena, nel 2021. È quanto è successo ad una bambina, partorita da Amra, 23 anni, italiana di origine bosniaca. La storia ha un lieto fine ma è stata preceduta da tanta paura, secondo quanto raccontato dalla donna a Repubblica: avrebbe partorito solo con l’aiuto di un’altra detenuta rom, anche lei al quinto mese di gravidanza, in una cella dell’istituto romano di detenzione attenuata, senza assistenza ostetrica, né medica, né infermieristica, come spetterebbe a qualsiasi madre. Quando finalmente il medico è arrivato, allertato dagli agenti della penitenziaria, il parto si era concluso. La donna poi verrà trasportata all’ospedale Pertini dove vi è rimasta per cinque giorni. Diversa la versione del Dap: “Stando alle prime ricostruzioni, nella notte fra il 30 e il 31 agosto la detenuta si trovava nella propria stanza del reparto infermeria dell’istituto penitenziario, assistita dal medico e dall’infermiera in servizio. Al manifestarsi dei primi dolori e constatata l’urgenza di un ricovero, il medico si sarebbe allontanato per contattare l’ospedale e richiedere l’immediato intervento di una ambulanza. Proprio in quel frangente la detenuta avrebbe partorito”. Il capo del Dap, Petralia, ha anche detto “che non posso che essere rammaricato per il fatto che una donna abbia dovuto partorire in carcere. Fortunatamente si tratta di una vicenda che si è conclusa senza alcuna criticità e ora sia la mamma che la neonata stanno bene”. Quando è stata arrestata il 23 giugno per furto Amra era già in uno stato avanzato di gravidanza; tuttavia il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma ha disposto comunque per lei il carcere. Sempre secondo quanto ricostruito fino ad ora dal Dap “la donna in data 1 agosto aveva presentato una istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare. Il 7 agosto l’Autorità Giudiziaria si riservava di decidere in attesa di una relazione dell’Area sanitaria dell’istituto sulle condizioni di salute della detenuta; richiesta che veniva sollecitata nuovamente il 9 agosto. Il giorno successivo, 10 agosto, l’Area sanitaria inviava la relazione alla quale non ha fatto seguito alcun altro provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. Il 18 agosto la detenuta veniva inviata per accertamenti urgenti in ospedale, dal quale rientrava in istituto lo stesso giorno”. La vicenda è venuta fuori grazie a Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma che lo scorso 17 agosto, dopo aver fatto visita all’infermeria dell’istituto di pena, aveva scritto al gip affinché Amra fosse scarcerata e tradotta nella Casa di Leda, una struttura protetta per la tutela delle detenute con minori. Il posto c’era ma nessuno ha mai risposto alla richiesta della Garante che ci dice: “Il problema è a monte. Non andava indicata la custodia cautelare in carcere per la ragazza. Lei e la sua amica sono state fermate per un reato di bassa pericolosità sociale e in quel momento erano entrambe incinte. La legge prevede che donne incinte o mamme con bambini piccoli debbano entrare in carcere solo per fatti gravi. Ora Amra e la sua amica sono libere in attesa del processo”. In base alle statistiche del Ministero della Giustizia, al 31 agosto 2021 sono 26 i figli al seguito delle madri detenuti, di cui venti stranieri e sei italiani, dislocati in sei istituti: Lauro Icam (provincia di Avellino), Rebibbia (Roma), Bollate e San Vittore (Milano), Le Vallette (Torino), Giudecca (Venezia). Un anno prima i bambini in carcere erano 57. Per i deputati dem Paolo Siani e Walter Verini, rispettivamente primo firmatario e relatore della legge sui minori nelle carceri “l’avvenuta scarcerazione delle due donne arrestate per furto, di cui una diventata mamma proprio in questi giorni e l’altra in procinto di partorire, è una buona notizia. All’interno di tali problematiche che rivestono drammatica urgenza, si colloca anche la questione dei minori in carcere. Una vergogna da cancellare. Per questo chiediamo che si compia ogni sforzo per approvare al più presto la proposta di legge tuttora all’esame della Commissione Giustizia della Camera. Tale approvazione sarebbe un segnale di grande civiltà per l’ Ordinamento Penitenziario e per il nostro Paese”. Napoli. La seconda vita di Vincenzo Ammaliato La Stampa, 12 settembre 2021 Il Rione Terra di Pozzuoli è stato riqualificato con un progetto che coinvolge anche gli ex detenuti. Qui vi raccontiamo le storie di due donne e un ragazzo che ora fanno le guide turistiche. Il Presidente della Repubblica Mattarella in visita al duomo nel Rione Terra di Pozzuoli interrompe la spiegazione della guida turistica e fa i complimenti a Gianpaolo, il diciassettenne che sta raccontando al gruppo di turisti dei tesori artistici conservati dal sito. L’adolescente s’imbarazza, ma dura poco. Fa una rapida smorfia di sorpresa e di apprezzamento, poi continua solerte e deciso nel suo lavoro. Eppure, non è ancora una guida turistica ufficiale. Lo diventerà a dicembre, al termine del corso di formazione voluto dalla curia, affidato alla fondazione Regina Pacis e organizzato dal progetto Puteoli Sacra. Il progetto è destinato a trenta ragazzi e ragazze detenuti nelle carceri di Nisida e di Pozzuoli. Già, perché Gianpaolo è un detenuto dal penitenziario minorile napoletano, mentre Dragana e Mariateresa, le altre due guide della giornata, da poco hanno scontato le loro pene nel carcere femminile di Pozzuoli. Come Gianpaolo raccontano alla delegazione presidenziale, della ministra Cartabia e del presidente della Regione Campania De Luca, delle opere d’arte che arricchiscono il Rione Terra, che sarà il sito turistico più grande d’Europa gestito da ragazzi e ragazze provenienti da aree penali. E la presentazione va oltre la divulgazione storico turistica, perché nel mostrare tele, dipinti, affreschi e strutture architettoniche i tre ragazzi esprimono anche il desiderio di rinascita personale. Peraltro, è come andasse a braccetto con quello dello stesso sito, abbandonato e saccheggiato per oltre cinquant’anni e da poco è stata inaugurata una sua prima parte, dopo un restauro iniziato nel 2003. “Curate le ferite, il dolore si può lenire”, aveva detto Mattarella a tutti i detenuti di Nisida cui aveva fatto visita poco prima. E qui per trenta di loro il progetto Puteoli Sacra sta facendo proprio questo. Il percorso di recupero è già iniziato. Il gruppo a breve si trasformerà in guide turistiche, manutentori specializzati, sorveglianti e addetti all’accoglienza. “Per me accogliere Mattarella e tante altre autorità e raccontargli della grandezza delle opere custodite nella cattedrale, è stato oltre che un onore anche un esame - racconta Mariateresa, una ragazza di Sorrento che a febbraio ha scontato la sua pena nel carcere di Pozzuoli - e credo e spero di averlo superato. Da qui, da queste pietre, da queste opere d’arte sta ricominciando la mia vita, che di fatto avevo interrotto per degli errori. Qui rinasco ed è un’esistenza finalmente fatta di bellezza, di cultura, di arte. Credo che ognuno debba avere queste opportunità. A scuola avevo iniziato un percorso simile, iscrivendomi all’artistico. Poi mi ero persa. Adesso riprendo la mia vita. Ed è tutto molto bello. E poi, tutte quelle persone importanti ad ascoltare me. Non ci avrei mai creduto”. Mattarella è costantemente colnaso all’insù ad ammirare volte, colonne, colori, suggestioni. Ringrazia uno per uno tutti quelli che incrocia del progetto Puteoli Sacra, della curia, dei penitenziari. Dragana, rom di origine serba, nata e cresciuta in Italia, si rivolge direttamente al Presidente per raccontargli della figura che più di ogni altra gli ha stravolto in positivo la vita, facendole capire che c’è sempre un percorso di luce, una vita diversa rispetto a quella delle tenebre. “Prima di essere inserita nel progetto Puteoli Sacra - racconta la giovane - per me era naturale che la donna fosse sottomessa a ogni decisione e desiderio dell’uomo. Ma ciò mi andava stretto e mi faceva sentire diversa, sbagliata. Poi ho conosciuto Artemisia Gentileschi, autrice di tre dipinti conservati nel duomo, e ne sono rimasta letteralmente affascinata. Artemisia mi ha fatto capire che una donna se vuole, può arrivare con le sue forze ovunque. Perché la nostra è un’energia straordinaria. Eppure, ancora tante donne nel mondo sono sottomesse e non si possono esprimere. E non solo in Afghanistan. Succede anche qui in Italia, anche adesso. A tante, troppe donne. Quest’opportunità per me non è solo un posto di lavoro ma è una luce nella mia stanza che era stata sempre buia”. Avellino. Carceri, Acli in campo al fianco dei detenuti di Angelo Giuliani ottopagine.it, 12 settembre 2021 Un progetto legato allo sport per migliorare la qualità della vita delle persone recluse. Si è appena concluso il progetto lo Sport GenerAttore di Comunità dell’US ACLI Nazionale cofinanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Le azioni progettuali hanno avuto l’obiettivo di strutturare e modellizzare interventi efficaci e duraturi all’interno delle Carceri italiane, favorendo attraverso lo sport il miglioramento di vita dei soggetti reclusi. La Casa Circondariale di Bellizzi Irpino e l’Icam di Lauro sono stati i luoghi privilegiati di progetto, grazie infatti alla disponibilità e alla collaborazione del Direttore Paolo Pastena, le ACLI e l’US ACLI stanno costruendo Reti e pianificando interventi a favore dei detenuti e del loro reinserimento sociale. La dottoressa Tiziana Ciarcia ha curato i corsi di Jazzercise e ginnastica posturale nella sezione femminile dell’Istituto di Bellizzi Irpino (AV) e nell’Icam di Lauro, il coach Umberto Picariello ha tenuto un corso di pallavolo presso il Padiglione De Vivo. La dottoressa Mariangela Perito referente delle azioni progettuali - loda l’iniziativa che ha permesso non solo di implementare la pratica sportiva all’interno delle carceri, ma ha avuto anche un grande valore sociale e psicologico, grazie infatti al lavoro di squadra, all’apprendimento delle regole, le persone recluse si sono messe in discussione, accettando e riconoscendo i propri limiti, apprezzando il valore della reciprocità. Continua ancora Perito - è stato interessante osservare i piccoli progressi dal punto di vista tecnico/sportivo, ma soprattutto osservare i cambiamenti relazionali e comportamentali dei partecipanti alle azioni, dall’Io si è passati al Noi. Si ringraziano per la loro disponibilità, competenza e accoglienza anche l’Ispettore Francesco Giannattasio e l’Ispettore Mario Calandro del Padiglione De Vivo e l’ispettrice Rita Beato della Sezione Femminile, si ringraziano inoltre, i dirigenti dell’Associazione Alfredo Cucciniello, Giampaolo Londra e Massimo De Girolamo. L’ultima giornata del corso di pallavolo ha visto l’ingresso in Struttura dei giocatori professionisti dell’Olimpica di Atripalda e alcuni volontari delle ACLI, una partita in cui conoscersi, misurarsi, mettersi nei panni degli altri, in modo da favorire l’Incontro tra mondo esterno e mondo interno, si spera che nel tempo si possano realizzare interventi di socializzazione a carattere permanente all’interno delle realtà penitenziarie, grazie all’aiuto di tutti gli attori del Territorio. La realtà della scuola nel terzo anno della pandemia di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 12 settembre 2021 Domani si torna in classe in dieci regioni (altre otto in settimana) Oltre al Green pass: precariato, classi “pollaio”, medicina scolastica. Restano vacanti altre 120 mila cattedre, nonostante le assunzioni. Nessuna misura strutturale e resta incontestata l’idea dell’istruzione come formazione aziendale. Dopo avere parlato per settimane di Green pass e obbligo di vaccino per i docenti e il personale scolastico già immunizzati per almeno il 93% (un record in Italia) la scuola da domani ricomincia in 10 regioni (in altre 8 nel corso della settimana, il resto la prossima) con i problemi strutturali di sempre ai quali si presta poca attenzione. La propaganda del governo (quello di Draghi non è diverso dai precedenti) non è riuscito a risolvere problemi come il precariato, la composizione delle classi cosiddette “pollaio” e il modello neoliberale della didattica intesa come formazione aziendale. Quest’ultima risulta anzi potenziata dalla forbita retorica del governo impegnato a investire 1,5 miliardi del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) solo negli istituti tecnici superiori (Its). Questioni di estrema rilevanza per l’intera società come questi restano governati da parametri che sembrano intoccabili o da automatismi che finiscono per complicare all’inverosimile una matassa di problemi già ingarbugliati. E anche sull’obbligo del Green pass e i vaccini, argomenti sui quali il governo ha voluto impartire una lezione esemplare prospettando la sospensione dallo stipendio per chi non è vaccinato, ci sono polemiche a non finire che rendono l’inizio del nuovo anno molto più simile a una guerra di trincea, o almeno così sembra dalla consueta comunicazione mediatica angosciosa e disfunzionale in un paese pensato per essere polarizzato su questioni che riguardano una certa idea di libertà individuale isolata dal suo rapporto con l’uguaglianza e la giustizia sociale. Giunti al terzo anno scolastico di pandemia la realtà non coincide con gli annunci di concorsi e investimenti. Capitolo precariato. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha celebrato l’aumento delle assunzioni tra i docenti già precari che lavorano da anni in aula come un successo. Quest’anno saranno 59 mila insegnanti, l’anno scorso erano stati 19 mila, “quindi sono tre volte tanto” ha commentato. Vero, ma i posti vacanti disponibili sono ancora 120 mila. Dall’Unione europea si chiede di rispettare una direttiva che impone di stabilizzare chi ha lavorato nella scuola per tre anni consecutivi negli ultimi cinque. Potrebbe arrivare una richiesta di assumere in ruolo almeno 70 mila precari entro un anno, richiesta da non sottovalutare dal momento che le risorse del Pnrr sono state legate ad una serie di adempimenti normativi come accade nella logica della politica pensata come un management per obiettivi. Classi sovraffollate. Nel primo anno delle superiori le classi con oltre 26 studenti sono state complessivamente 3.652, pari al 14,8% su 24.613 prime classi esistenti si legge in un dossier curato da Tuttoscuola. Nelle scuole di ogni ordine e grado sono oltre 13 mila in cui studiano quasi 400 mila studenti. In fondo sono una percentuale modesta sul totale. Ragione sufficiente che renderebbe possibile una soluzione, pur complessa, ma comunque realizzabile in tempi straordinari. Nemmeno una pandemia mondiale ha spinto a cercare una soluzione significativa nonostante i tanti annunci degli ultimi due governi. Dato che non sarà più obbligatorio il metro di distanziamento in classe, con le quarantene in caso di positività al virus diminuite da 10 a 7 giorni, si tornerà a parlare del problema. Tamponi e green pass. L’ultimo decreto del governo ha esteso l’obbligo di green pass anche al personale esterno della scuola e dell’università e ai lavoratori delle Rsa. I controlli spettano ai dirigenti scolastici e nel caso di personale esterno alle scuole, ai rispettivi datori di lavoro. Chi è senza il green pass sarà punito con una sanzione che va da 400 a mille euro. Tutta la campagna che è stata imbastita su questi punti ha aggirato l’esigenza della creazione di una vera medicina scolastica, necessaria anche per il tracciamento del Covid, limitandola a una sperimentazione dei test salivari a 55 mila alunni (su 4 milioni 200 mila) ogni 15 giorni. La prevenzione è stata affidata alle norme che prevedono finestre aperte tutto l’anno come se l’autunno e l’inverno fossero uguali da Bolzano a Palermo e, in mancanza di meglio, ai “sistemi di aerazione” che le singole scuole dovrebbero avere, forse, installato. Senza spazi maggiori e tracciamenti non invasivi strutturali, e con il Green Pass che non è sinonimo esclusivo di garanzia per la sicurezza della salute a scuola, non sarà facile insegnare e studiare in presenza. Su questo l’Anief ha dichiarato uno sciopero domani. E continuano le polemiche sulla gratuità dei tamponi. Capitolo mascherine. Tra improvvisazioni e parodie le mascherine, almeno per ora, andranno indossate e si potranno togliere solo alla mensa e in palestra; saranno fornite dalle scuole come lo scorso anno. La proposta del ministro Bianchi e contenuta nel decreto del 6 agosto di toglierle se tutti vaccinati per ora è slittata. Com’era evidente già nei giorni scorsi è stato un ballon d’essai, una notizia diffusa dal ministro prematuramente per saggiare le reazioni dell’opinione pubblica e irritarla con un altro diversivo. Per rendere reale un simile annuncio servono linee guida che ancora non ci sono. Sui trasporti il ministro Enrico Giovannini ha assicurato che sono stati triplicati i finanziamenti. A Roma ci saranno 3500 corse in più. Sono 18 mesi che scorrono fiumi di inchiostri, e si moltiplicano annunci in particolare sui trasporti. Un altro ballon d’essai è stato lanciato, a questo proposito, quando si è arrivati a parlare di un ritorno dei controllori sui mezzi pubblici in funzione di controllo del Green Pass. Si vedrà da domani come andrà nelle grandi città. E non solo. Capitolo contagi tra gli under 12. In attesa che le autorità sanitarie chiariscano il modo in cui si dovrà procedere per quanto riguarda l’immunizzazione di questa fascia d’età, ieri il rapporto esteso sulla situazione epidemiologica in Italia diffuso dall’Istituto Superiore di Sanità si è soffermato su un problema importante: sembra infatti che, dati alla mano, tra gli under 12 ci sia stato un aumento della circolazione del Covid. L’anno scorso, in mancanza di un qualsiasi monitoraggio ma solo in presenza di stime e scenari, si è scatenata una campagna che ha portato i governi a chiudere le scuole e a usare la didattica a distanza con gli ormai noti effetti sul benessere delle persone e sulla capacità di apprendimento degli studenti. Oggi con una maggiore conoscenza del fenomeno non è escluso che si possa arrivare a ripetere quanto già visto. La vaccinazione tra gli studenti adolescenti sembra procedere di buona lena. Tra i 16 e i 19enni risultano vaccinati tre su quattro con almeno una dose. In Lombardia si arriva all’80% dei ragazzi. Nella fascia tra i 12 e i 15enni uno su due ha ricevuto la prima dose con picchi del 60% sempre in Lombardia. “Il governo ha derubricato a questione etica il diritto del lavoratore di prestare la propria opera senza oneri, a una questione di natura etica. Il risultato è che una vicenda tutto sommato marginale è stata trasformata nell’unica questione sul tavolo. Le scuole sono state lasciate sole” sostiene Francesco Sinopoli (Flc-Cgil). Cannabis, al via il referendum per depenalizzare la coltivazione di Valentina Stella Il Dubbio, 12 settembre 2021 Depositato presso la Corte di Cassazione un quesito referendario che propone di intervenire sia sul piano penale e amministrativo. L’obiettivo è raggiungere 500mila firme in 20 giorni, anche grazie alla firma digitale. All’iniziativa coordinata dall’Associazione Coscioni, aderiscono +Europa, Possibile e Radicali italiani. Si rafforza l’iniziativa referendaria nel nostro Paese. Dopo i referendum su “giustizia giusta” promossi da Lega e Partito Radicale e quello sull’eutanasia legale a firma Associazione Luca Coscioni, parte oggi il referendum cannabis. È stato depositato infatti presso la Corte di Cassazione un quesito referendario che propone di intervenire sia sul piano della rilevanza penale sia su quello delle sanzioni amministrative per quanto riguarda la cannabis. A proporlo un gruppo di esperti, giuristi e militanti, da sempre impegnati contro il proibizionismo, coordinati dalle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione. Alla proposta hanno preso parte anche rappresentanti dei partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani. L’obiettivo ambizioso è completare la raccolta in soli 20 giorni in quanto, come previsto dalla legge, le firme vanno raccolte dall’1 gennaio al 30 settembre dello stesso anno: sarà possibile farlo sul sito www.referendumcannabis.it grazie alla firma digitale, una possibilità unica per la pratica della democrazia diretta per via telematica. I promotori si appellano al Governo perché non vi siano discriminazioni circa la possibilità di consegna delle firme certificate entro il 30 ottobre, come per gli altri referendum presentati in Cassazione prima del 15 giugno. L’iniziativa sarà presentata oggi durante un webinar che parte alle ore 17. Cliccando qui sarà possibile seguire la diretta dei lavori. Interverranno: Marco Perduca (Ass. Luca Coscioni), Grazia Zuffa (Società della Ragione), Leonardo Fiorentini (Fuoriluogo), Antonella Soldo (Meglio Legale), Franco Corleone (Forum Droghe), Riccardo Magi (+Europa), Beatrice Brignone (Possibile), Matteo Mantero (Potere al Popolo), Giulia Crivellini (Radicali Italiani), Daniele Farina (Sinistra Italiana). Conclude Marco Cappato (Ass. Luca Coscioni). “Quello della coltivazione, vendita e consumo di cannabis è una delle questioni sociali più importanti nel nostro Paese - si legge nel comunicato di lancio dell’iniziativa. Un tema che attraversa la giustizia, la salute pubblica, la sicurezza, la possibilità di impresa, la ricerca scientifica, le libertà individuali e, soprattutto, la lotta alle mafie. Sono 6 milioni i consumatori di cannabis in Italia, tra questi anche moltissimi pazienti spesso lasciati soli dallo Stato nell’impossibilità di ricevere la terapia, nonostante la regolare prescrizione. Questi italiani hanno oggi due sole scelte: finanziare il mercato criminale nelle piazze di spaccio o coltivare cannabis a casa rischiando fino a 6 anni di carcere. Un dibattito che non può più essere rimandato e deve essere affrontato con ogni strumento democratico”. Italiani 2G, cittadini di domani di Francesca Sironi La Repubblica, 12 settembre 2021 Ovvero: quelli di seconda generazione. Nati e cresciuti nel nostro Paese, parlano la nostra lingua e hanno gli stessi doveri, ma sono ancora a caccia di un diritto di cittadinanza che per ora resta un sogno. La svolta è stata 5 anni fa, durante una festa a casa di un’amica, a Milano, in un quartiere di periferia mangiato dal centro. Non conoscevo gli invitati, così ciondolando fra conversazioni e capannelli sono finita in giardino a discutere con una ragazza di Bitcoin. Parlava con competenza, aveva investito i suoi primi risparmi, era curiosa; fra birre, sigarette, e altri ospiti coinvolti, la discussione continuò a lungo. Dopo vari botta e risposta sul mercato azionario, il dibattito salì galleggiando fino alle vacanze. Lei stava seduta di fianco al suo compagno, che lavora in un’agenzia creativa di Milano, e raccontò che quell’anno, finalmente, erano stati insieme a casa sua, a casa di lei cioè, dagli zii col loro giardino profumato di agrumi e dai nonni apprensivi e barocchi che ogni volta l’aspettavano con ansia, per poi litigare su come si vestiva. E lei rideva. Casa sua vuol dire Marocco. Lui era entusiasta delle scoperte fatte lungo il viaggio, lei sorrideva per la profondità del paese d’origine della sua famiglia. È stato in quel momento che ho avuto la mia agnizione personale: la certezza che finalmente era girata la carta, e che avere genitori stranieri, crescere in Italia, una condizione che interessa in questo momento 857.729 studenti che non hanno la cittadinanza italiana ma frequentano ogni mattina le scuole del nostro Paese, essere quindi di seconda generazione, poteva diventare un’accelerazione delle proprie capacità, e finalmente non essere più un freno. Poteva farsi motivo di orgoglio, non causa di deficit. Era l’anno in cui Ghali pubblicava Ninna Nanna, il suo singolo d’esordio; le grandi classi miste delle elementari di periferia a Milano riempivano i giornali; casi inaccettabili di femminicidi interni alle comunità, di segregazione e opposizione all’emancipazione c’erano, e ci sono ancora, così come dall’altra parte aggressioni razziste o indifferenza. Ma in quella conversazione, durante la festa, era impossibile non sentire il possibile giro del vento. Quella giovane donna italiana e marocchina, convinta di sé, orgogliosa, complessa e proiettata al domani, che si muoveva sapendo perfettamente che le sue doppie radici erano un problema, certo (soprattutto dentro un’istituzione scolastica che non riesce a cambiare le premesse della disuguaglianza), ma anche e forse soprattutto una risorsa, un bagaglio sociale, culturale, politico, in più, rispetto alle sue coetanee freudianamente milanesi. Il suo modo di vivere la complessità dell’essere figlia di due mondi era dal lato della potenza, non della debolezza. La carta era girata, era una figura da 11, una carta su cui puntare davvero, non più una paura di picche rispetto al futuro. Il suo milieu le permetteva di vivere questa pienezza e lei se la prendeva tutta, a passi lunghi, emancipandosi dalle etichette, in un modo che zittiva a priori ogni domanda qualunquista sulla possibile distanza fra “noi” e “loro”. Questo reportage ritrae 20enni milanesi di seconda generazione, è imbevuto di quella stessa forza, dello stesso ribaltamento di prospettiva, dello stesso fondamentale passaggio dei “2G”, come vengono chiamati, da oggetto sociologico a insieme di protagonisti decisi a scrivere la propria storia. Le foto nascono da un progetto di Karim El Maktafi, fotografo cresciuto a Desenzano del Garda (bisognerà andarci prima o poi in queste elementari di Desenzano che hanno cresciuto tra gli altri anche Marcell Jacobs, l’uomo più veloce del mondo) e ora residente a Milano. El Maktafi ha iniziato a riflettere sulla questione delle seconde generazioni partendo da sé, dalla propria esperienza di figlio di marocchini in una città di provincia. Una prima parte della sua ricerca, scattata con il cellulare, è diventata un libro - Hayati (“la mia vita” in arabo) - che ha vinto numerosi premi. Quel lavoro, come lui stesso spiegava, lo aveva portato “a creare una realtà meno restrittiva”. Una realtà indefinita, nella quale i diversi credi e le esperienze fioriscono e formano un’unica armonia. “È partendo dal mio vissuto personale che ho deciso di provare a interrogare anche altri che stanno attraversando una condizione simile alla mia”, racconta Karim. Ora la sua indagine continua con They call us second generation, con le immagini che pubblichiamo qui per la prima volta. E sono ritratti di figli di seconda generazione che si chiedono quanto di italiano e quanto di “extracomunitario”, come dice la burocrazia, ci sia in loro, nel diventare adulti. Guardandoli e mostrandoceli in questi scatti El Maktafi non studia “un tema”, ma incontra singole persone, portatori di storie e di intenzioni. Insieme ai ritratti, alcuni di loro hanno compilato anche un questionario con alcune domande poste dallo stesso El Maktafi sull’essere italiani o meno, sul razzismo, sullo Ius Soli, e sul futuro. Una di queste risposte è meravigliosamente piena di punti esclamativi e ce la dà Nicolas Yacub, 25 anni. “I ragazzi di seconda generazione sono i visionari del nuovo mondo!”, ci racconta. “Essere in possesso di più culture è una ricchezza, ed è ormai un dato di fatto! Essere in possesso di due culture vuol dire pressoché conoscerle e fare da intermediari, i figli di seconda generazione sono così il ponte tra popoli, sono come se fossero tessitori, che creano e tessono legami legando fili tra spazi, luoghi, donne e uomini radicalmente diversi”. Sono le sette e mezza di sera, è fine agosto, Nicolas sta camminando in piazza Duomo dopo aver chiuso il negozio dove lavora da quattro anni, una specie di fucina della moda sneaker. Quel negozio per lui è stata una piattaforma di incontri: ha conosciuto imprenditrici con cui tiene lunghe corrispondenze via mail, cantanti, personaggi famosi, “che però io spesso non riconosco, e trattandoli come clienti normali conquisto subito simpatie”, racconta ridendo. Nicolas odia il centro e il caos; vive a Crescenzago, periferia Nord di Milano, in una casa affacciata su Naviglio, racconta, da dove vede gli alberi. Le sue vacanze le ha trascorse a Colico, sul lago di Como, un posto che adora, dice. La sua ragazza è una cantante, marocchina, ha partecipato anche a X-Factor. Nicolas racconta che gli piace scrivere, “al liceo ho avuto un periodo molto difficile, con il divorzio dei miei genitori, e ho avuto un’insegnante di italiano che è stata straordinaria con me; sapeva della mia passione, allora si fermava ore in più a scuola, nel pomeriggio, per aiutarmi a scrivere poesie. Ancora oggi ci penso, e ogni giorno la ringrazio”. I suoi genitori sono entrambi somali, fuggiti dalla guerra civile. Lui è nato a Milano. Loro ancora adesso frequentano principalmente altri membri della comunità somala, continua, mentre Nicolas esce con amici “di ogni etnia, italiani, asiatici, nordafricani. Adoro questa mescolanza, è la mia vita. Mi invita a essere curioso, a scoprire, a non avere preconcetti”. “Essere di seconda generazione dà un passo in più”, spiega: “riesci a relazionarti e a capire sia i tuoi coetanei italiani, sia quelli di altre patrie. Guardi verso fuori, apprezzi le culture. Io non ripudio le mie origini, né ci sono chiuso dentro, posso muovermi fra mondi diversi. Non amo la cucina somala, ad esempio, per me il cibo dell’infanzia resta quello italiano, ma ho nelle orecchie la ninna nanna di mia mamma, la musicalità del paese che porto dentro”. Nicolas è convinto che ancora molto ci sia da cambiare in Italia, lui stesso ha avuto problemi da adolescente, ma non indulge su nessuna sponda, “conosco amici di Brescia e Bergamo, per esempio, che si muovono sempre in grossi gruppi di afro-italiani, e hanno più rancore verso il Paese rispetto a quello che provo io; in loro non mi riconosco; così come ovviamente non posso riconoscermi in chi rifiuta il diverso”. “La mia generazione”, continua, “sta portando molti cambiamenti, comunque, e penso alle proteste per Floyd o la legge Zan. Sono felice di questo movimento”, e vorrebbe che la stessa presenza ci fosse sulla legge sulla cittadinanza, perché ogni figlio di seconda generazione ha vissuti diversi, ma accomunati dall’ostacolo dei documenti. E dallo stesso sogno. Fa una certa impressione rileggere oggi una notizia riportata in grande da Repubblica nell’ottobre del 1998. Il nostro quotidiano riportava le dichiarazioni dell’allora ministra alla Solidarietà sociale Licia Turco: “Il ‘99 sarà l’anno dei nuovi cittadini”, spiegava, perché sarebbe arrivata una nuova legge sulla cittadinanza: “Lo ius soli al posto dello Ius sanguinis”. Sono passati 23 anni, i bambini di allora adesso sono adulti e i 20enni di queste pagine per dirsi italiani hanno dovuto aspettare i 18 anni, con le garanzie offerte dai genitori in termini di assoluta continuità nella residenza. Se il 1999 doveva essere ricordato come “L’anno dei nuovi cittadini”, il 2021 come sarà? In Parlamento sono ferme 3 proposte di legge per la riforma della legge di cittadinanza, in una direzione che si avvicini allo Ius Soli, al diritto di nascita sul territorio e non di discendenza di sangue (Ius Sanguinis, com’è l’attuale norma italiana, pur con delle eccezioni che permettono ai cittadini extracomunitari di ottenere la carta d’identità attraverso il matrimonio o con un reddito minimo dichiarato e 10 anni di residenza, a cui ne vanno aggiunti 4 per ottenere i documenti). La maggioranza pluricolore del governo Draghi, che va dal Pd alla Lega, non riesce a trovare alcun accordo. Fra le tre, la più “papabile” sarebbe quella a firma Renata Polverini, basata sullo Ius Culturae, il diritto al riconoscimento della cittadinanza per i bambini che abbiano completato le scuole primarie. L’Europa “fortezza” moltiplica i muri e mortifica le libertà di Laura Boldrini* Corriere della Sera, 12 settembre 2021 L’intervento di Laura Boldrini presidente del Comitato sui diritti umani nel mondo della Camera dei Deputati sulla crisi umanitaria che si apre dopo la tragedia in Afghanistan e sulle responsabilità dell’Europa che volta le spalle ai profughi. L’epilogo tragico della missione in Afghanistan ha spinto i Paesi della Nato ad affermare che bisogna compiere ogni sforzo possibile per salvare chi ha lavorato e collaborato con le forze internazionali (e anche con il sistema della cooperazione internazionale, le Ong e associazioni) in questi 20 anni e che, perciò, rischia la vita con il ritorno dei Talebani. Ad oggi questa affermazione di buona volontà si è tradotta solo in minima parte in un impegno concreto. Tante persone ad altissimo rischio infatti sono state lasciate sulla pista dell’aeroporto di Kabul mentre partivano gli ultimi voli e molte altre non sono neanche riuscite ad arrivarvi. L’ipotesi di organizzare corridoi umanitari sembra oggi già archiviata, rimossa dall’agenda politica solo dopo poche settimane da una delle più disonorevoli pagine della nostra storia recente. Le immagini dei disperati accalcati all’aeroporto e di chi si aggrappava agli aerei in decollo già cancellate nella memoria breve di chi in occidente ragiona solo pensando alle prossime elezioni. Il tema dell’accoglienza dei rifugiati afghani nei Paesi dell’Unione europea infatti trova rifiuti più o meno espliciti da parte di alcuni Governi che su questo giocano partite politiche interne. E invece si moltiplicano i chilometri di muri, recinzioni, barriere di filo spinato ai confini dell’Unione e tra gli Stati membri senza che questo susciti alcuna indignazione da parte “dei guardiani dei Trattati”. L’Europa si chiude e volta le spalle ai principi su cui si fonda. L’Europa fortezza. Di questo ne stanno facendo le spese anche circa 30 persone - in maggioranza afghani- intrappolate, da settimane, tra la Bielorussia e la Polonia, in una sorta di “terra di nessuno” del diritto e della politica. Non possono né retrocedere verso Minsk né avanzare verso Varsavia, perché il loro movimento è impedito dai militari di entrambi i paesi che li minacciano con le armi. Nessuno in Polonia può avvicinarsi alla zona, neanche ai parlamentari è consentito l’accesso. Dopo aver ricevuto la segnalazione su questo caso, come presidente del Comitato della Camera sui diritti umani nel mondo, ho scritto una lettera alla presidente della Commissione Europea Von der Leyen e al presidente del Parlamento Europeo Sassoli chiedendo un loro intervento. A distanza di settimane, niente è accaduto. Va ricordato, poi, che la Polonia non solo costruisce barriere spinate verso i rifugiati, ma mette anche in atto politiche liberticide a discapito dei suoi stessi cittadini e cittadine. Parliamo di un paese in cui è repressa la libertà delle donne all’auto determinazione in primis con la contestatissima legge che vieta l’interruzione di gravidanza anche in casi di gravi deformazioni del feto e dove l’autonomia della magistratura è a rischio. Insieme all’Ungheria, la Polonia sta scivolando verso una forma di cosiddetta democratura, un sistema che comprime le libertà in violazioni dei principi su cui si basa lo Stato di diritto che evidentemente non gode di buona salute nemmeno fra noi europei. Con l’emergenza afghana, l’Unione avrebbe però la possibilità di ritrovare slancio, tenendo fede ai valori di libertà e rispetto dei diritti, su cui si fonda. Gli stessi a cui hanno creduto anche tanti afghani traditi dal ritorno dei Talebani e che, ora, non possono esserlo di nuovo da ulteriori promesse mancate. L’Europa deve fare la propria parte garantendo la protezione internazionale a chi in Afghanistan oggi è in pericolo per aver promosso e creduto in quei valori - donne, attivisti, persone Lgbt, minoranze. È l’ultima occasione per ripristinare la dignità politica compromessa. Dopo la triste pagina dell’accordo con la Turchia per fermare i rifugiati siriani, questa necessità di riscatto europeo è ancora più forte e impellente. Siamo dunque all’ultima chiamata per l’Ue, che deve essere sì fortezza, ma per i diritti e la democrazia. Non certo per i suoi muri e le sue barriere. *Presidente del Comitato sui diritti umani nel mondo della Camera dei Deputati Sull’Afghanistan c’è l’ombra del paese negato ai pashtun di Valerio Pellizzari Il Domani, 12 settembre 2021 L’occidente ha cercato di esportare la democrazia in un paese diviso. Dopo le elezioni il primo parlamento si è riempito di corrotti, pagati dai trafficanti di droga. Vent’anni dopo l’immagine dell’ultimo soldato americano che lascia il paese è l’emblema. Niente affiora sui due annessi segreti di Doha firmati da Donald Trump con i Talebani un anno e mezzo fa. Troppo ben custoditi per non contenere qualcosa di imbarazzante, o spregiudicato. E l’Afghanistan oggi governato dal figlio e dagli altri eredi del mullah Omar ha ancora una fisionomia confusa, che progressivamente produce restrizioni, divieti di manifestare e frustate. La caduta del governo - Un segnale chiaro e frettoloso è arrivato comunque dal Pakistan. I droni di Islamabad sono già comparsi nella valle del Panjshir per spegnere la rivolta guidata dal figlio del leggendario comandante Masud. E il generale Fayez Hameed, capo dell’Isi, i servizi segreti pakistani, si è velocemente presentato a Kabul. L’hotel in cui è apparso appartiene alla più lussuosa catena alberghiera pakistana, costruito quando cominciarono ad arrivare diplomatici ed esperti al seguito delle forze Nato 20 anni fa. Imprenditoria di sapore coloniale in un potenziale protettorato. La visita del generale conferma che la caduta del governo afghano ha goduto della sua supervisione. Ha dovuto fare pressioni sui mullah per contenere le loro ambizioni ministeriali. Ma soprattutto conciliare due importanti tribù pasthun, quella dei Durrani e quella dei Ghilzai, la prima installata a Kandahar, l’altra dominante nelle province orientali. Fu un leader dei Durrani a creare l’impero afghano nel 1700. Il generale in fondo può anche vantare di avere pesantemente ammaccato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. E confermare ancora una volta che il potere vero a Islamabad sta nelle mani dell’Isi. Di fronte a questa solerzia pakistana Pechino mostra benevolenza, Mosca invece resta taciturna. Teheran ha già fatto sentire la sua preoccupazione per l’etnia hazara, di fede sciita, che risiede nelle zone centrali del paese, più assediata di tagichi e uzbechi vicini al confine, favoriti nella eventuale fuga. Ad Ankara avevano anticipato la loro valutazione: ascoltiamo le parole dei Talebani ma guarderemo le loro azioni. E anche a Nuova Delhi e a Doha è difficile fare previsioni ragionevoli. Troppi attori sono coinvolti in una partita che alimenta ambizioni, timori e rischi. Il generale dell’Isi è stato affiancato dalle parole di un suo predecessore, che descrive l’Afghanistan come un paese in buona parte “felice”. Mentre i Talebani arrivati nelle stanze del potere sembrano ancora personaggi in sala d’aspetto, disorientati, in attesa di capire da quali capi ricevere ordini e a chi darli, e come amministrare un intero paese. Ma è difficile pensare che possano diffondere l’immagine dei liberatori, come loro sostengono. In una sintesi brutale sono le truppe infide di un paese confinante. Nel centro di Kabul, vicino al fiume, sorge la colonna del sapere e dell’ignoranza costruita negli anni Venti del secolo scorso. Può essere considerata un monumento preveggente, un segnale di allerta, purtroppo valido ancora oggi. I nomi incisi su quelle pareti di pietra ricordano i soldati governativi mandati a morire per fermare una rivolta scoppiata nel sud del paese, alimentata dai mullah integralisti e dalla potente tribù pasthun dei Mangal contro la modernizzazione avviata dal re Amanullah. Una nuova scuola femminile era stata il pretesto della rivolta. I soldati morti neanche sapevano cosa difendevano, e la stessa ignoranza contagiava i ribelli. A distanza di un secolo una scuola femminile è sempre il pretesto della regressione. Oggi i Talebani mostrano armi che vanno oltre il kalashnikov e divise nuove. Sono immagini che servono per le riprese televisive destinate al mondo esterno. Poi il programma di governo riparte dagli abiti femminili, dalle pareti di stoffa a scuola, tra maschi e femmine, e con lo sport vietato alle donne. Storia postcoloniale - Ma i pakistani più di altri non possono dimenticare una cosa. L’Afghanistan è diventato indipendente nel 1919. Solo 30 anni dopo il Pakistan ha visto partire gli inglesi. Nella storia postcoloniale avere raggiunto l’indipendenza prima di altri resta sempre un punto di forza e di orgoglio. E nella grande partita attorno all’Asia centrale c’è un paese che non esiste sulle carte geografiche, e che tuttavia ha il suo inno nazionale, la sua bandiera e un giorno dedicato a festeggiare l’indipendenza. Un paese a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, compreso nelle zone tribali, lungo un confine contorto e montuoso di 2.600 chilometri, disegnato alla fine dell’Ottocento da sir Mortimer Durand, inglese. Doveva nascere nel 1947 dopo la frantumazione delle Indie britanniche, con il nome di Pasthunistan, il paese dei pasthun, e avere come capitale Jalalabad. Aveva anche un leader, Ghafar Khan, soprannominato il Gandhi della frontiera. Il mio interprete afghano era stato per alcuni anni il suo assistente, ed era stato testimone della sua vita sobria, dignitosa, in difesa di quel progetto. Andando oltre le idee dello stesso Gandhi aveva anche immaginato il primo esercito pacifista della storia. Quando morì la guerra afghana combattuta dai sovietici fu interrotta per 24 ore in segno di rispetto, il confine di Torkham aperto a chiunque purché non fosse a piedi. La salma fu accompagnata da una folla enorme, eccitata, stimata in circa 40mila persone da Peshawar a Jalalabad, avvolta dalla polvere del Khyber pass. Le auto riuscivano in alcuni punti a viaggiare temerariamente affiancate su quattro file, perfino nei tornanti. Un professore di storia, fermo a fianco della sua auto fumante, diceva che neanche ai tempi di Tamerlano e di Gengis Khan l’Asia centrale aveva visto una processione così irruenta. Il corpo di Ghafar Khan era stato sepolto in giardino, nella casa regalata dal re afghano, con 21 salve di cannone. E anche durante quel rito funebre spettacolare, dove era rimasto intrappolato casualmente un convoglio di carri armati russi, c’erano state due bombe senza rivendicazione. La frustrazione per questo stato promesso e mai nato ha ispirato, favorito l’avventura dei Talebani entrati in Afghanistan nel 1996, usciti nel 2001, rientrati a Kabul in queste settimane. Eredi deviati e violenti di chi proprio in quelle zone aveva immaginato di organizzare un esercito pacifico. I cosiddetti studenti islamici, che negli anni si sono mescolati ad autentici tagliagole, non hanno portato grande sollievo ai pasthun delle aree tribali, dove le condizioni di vita sono sempre povere e aspre. Le strade sono poche e maltenute, la sanità e le scuole hanno strutture rudimentali, l’economia ha risorse modeste. La giustizia applica consuetudini antiche, locali, che spesso contrastano con le leggi del governo centrale. Mentre l’idea bellicosa e sbrigativa dell’onore è sempre attuale. Nella gerarchia sociale avere un’arma di qualità corrisponde a esibire un’auto straniera e costosa. Un medico teneva in giardino un mortaio cinese capitato lì per vie misteriose, molto ammirato nel villaggio. Un suo vicino però, funzionario al ministero degli Esteri pakistano, custodiva nella casa di famiglia, tra i melograni, una vecchia contraerea inglese, oliata e protetta da una incerata. Per sintetizzare, perfettamente funzionante. L’esercito regolare di Islamabad non era mai entrato nelle zone tribali fino alla comparsa da quelle parti di bin Laden. Era stato costretto dalle pressioni insistenti degli americani che chiedevano di “sigillare” tutta la frontiera lungo la linea Durand, come non avessero mai visto una mappa, una foto aerea di quel territorio. Quando i soldati fecero la prima apparizione il governo di Islamabad aveva precisato che le tradizioni locali sarebbero state rispettate. Certo, sulla strada del Khyber pass dieci anni fa la manodopera talebana si inorgogliva a incendiare le autocisterne cariche di petrolio per l’esercito della Nato, a farsi fotografare sulle carcasse distrutte e poi a dileguarsi in motocicletta. Questo stato promesso nel tempo ha funzionato come una miccia a lenta combustione. Anche perché la linea Durand non divide nulla nella realtà, ci sono oltre trecento punti di transito riservati alle popolazioni locali sui due lati di quel confine disegnato a matita. Un confine che le autorità di Kabul non hanno mai riconosciuto. Perfino gli stessi inglesi, nonostante la turbolenza e la fierezza diffusa nelle aree tribali, alla fine avevano preferito affidare la gestione dei commerci verso Kabul, e oltre verso il nord, alla efficiente tribù degli afridi piuttosto che ai loro funzionari coloniali. La stessa tribù che nel tempo ha creato nella zona franca di Darra una attiva, rinomata produzione di armi leggere, con officine e negozi distribuiti sui due lati di una lunga strada, come nel far west americano, con i clienti che escono in strada sparando in aria per collaudare i loro freschi acquisti. Anche armi più pesanti e sofisticate possono essere fornite dai venditori di Darra, in un contesto di tollerata illegalità, di apprezzata insubordinazione. Nel 2008 da queste parti, nel sud Waziristan, era scomparso un diplomatico afghano, portato in una vallata deserta, torturato per sei mesi, trasferito in diciassette luoghi diversi, prigioniero per oltre due anni, interrogato da inquisitori arabi, e alla fine liberato dietro pagamento. Quando la sua prigionia diventa meno pesante si ritrova assieme a un diplomatico iraniano. Questo verrà liberato prima, in cambio di missili anti-aerei forniti da Teheran. Secondo i metodi della famiglia Haqqani, dalla quale proviene il brutale ministro degli Interni oggi installato a Kabul. Una sintesi dei rapporti semplici e allo stesso tempo furtivi tra clan tribali era stata ben rappresentata dal meccanismo usato da al Qaida per fare avere i suoi comunicati ad al Jazeera. Quando fu inaugurato l’ufficio di Islamabad della più diffusa rete televisiva nel mondo islamico, con il presidente venuto da Doha in mezzo ai notabili locali, tra cui il generale Gul, ex capo dell’Isi, un cronista spiegò che loro ricevevano i messaggi dei terroristi attraverso una busta banalmente infilata nella cassetta delle lettere, sempre ricca di posta, a orari variabili. Nessuno aveva pensato, o meglio aveva voluto mettere un agente in borghese a tenere d’occhio quell’ufficio e seguire poi l’ultimo messaggero anonimo di una filiera ben rodata. In quella occasione l’Isi era impegnata a non vedere. Bin Laden poteva restare ancora senza troppe ansie nei suoi rifugi. Imporre la democrazia - Oltre allo stato negato dei pasthun c’è stato un altro ostacolo politico nella vita più recente dell’Afghanistan, creato unicamente dagli occidentali. Dopo le Torri colpite a New York e l’arrivo in tre mesi della Nato fu deciso che assieme ai soldati arrivasse la democrazia. Così nel 2004 sotto l’ombrello dell’Onu furono allestite le elezioni con il rito delle persone in coda, delle schede e del dito intinto nell’inchiostro. Scene rassicuranti. Ma sempre le Nazioni Unite avevano già una notizia allarmante, che avrebbe dovuto far rinviare quel rito: la loro agenzia che combatte la droga sapeva che l’Afghanistan dopo la stagione dell’oppio si era trasformato nel primo produttore al mondo di eroina. Sarebbe nato un parlamento già guasto, infiltrato da boss mafiosi che compravano direttamente i deputati. Le cifre sulla droga furono rese pubbliche due mesi dopo le votazioni, mentre gli scrutini dei voti procedevano senza fretta. Recentemente Lakhdar Brahimi, l’uomo che liberò gli ostaggi americani a Teheran trenta anni fa, poi rappresentante speciale Onu in Afghanistan per due volte senza però contestare troppo il sistema, ha detto: “Un’elezione in un paese che esce da un conflitto è considerata come la prima cosa da fare, invece dovrebbe essere l’ultima… le elezioni devono aver luogo il più tardi possibile perché dividono le persone, non le uniscono”. La grande partita diplomatica attorno all’Asia centrale tradizionalmente distrugge gli imperi ma con il tempo ha ridotto le vittime straniere. Nella prima guerra anglo-afghana nel 1842 il corpo di spedizione britannico partì da Kabul in pieno inverno, con 16mila persone, compresi i civili. Fu una partenza decisa con ostinata pavidità. In uno scontro tra vertici politici e vertici militari che è continuato fino a oggi, in ogni paese occidentale impegnato sul fronte afghano, Italia compresa. Solo il medico, il dottor William Brydon, arrivò alla guarnigione di Jalalabad ferito alla testa, miracolosamente protetto da un giornale infilato sotto il cappello, sul cavallo di un soldato moribondo, coinvolto in ripetuti attacchi, ridotto a difendersi con solo mezza spada fino alla guarnigione inglese, dove il cavallo ferito subito perse anche le ultime energie. Rambo era già nato. Altri otto protagonisti della tragica ritirata erano riusciti a salvarsi lungo la strada. Forse in quella cronaca ci sono abbellimenti letterari, e la perfidia afghana è esaltata più della ferocia, ma il numero dei morti è quello. Nella guerra dell’armata rossa, conclusa dopo dieci anni nel 1989, si contavano circa 15mila vittime. Gli aerei che riportavano i morti a casa in gergo venivano indicati Cargo 200, una sigla commerciale, per non dare pubblicità a quelle bare. E in quella degli Stati Uniti appena conclusa, dopo vent’anni, i morti sono meno di 2.500. Mentre il bilancio delle vittime afghane in questa ultima impresa ne conta decine di migliaia. Il bilancio di queste due ultime guerre deve essere misurato in altro modo, non solo con questi numeri. In una notte di pochi giorni fa l’immagine del generale Chris Donahue era diventata una sagoma confusa, verdastra, dentro uno sfondo nero, disegnata da un visore notturno. Era l’ultimo soldato americano a lasciare l’Afghanistan. Quasi l’immagine proveniente da un mondo marino profondo, in un paese che non conosce il mare. Attorno al generale non c’erano riflettori accesi, né fanfare e bandiere. È stato un decollo in extremis. La data della partenza negli accordi di Doha era stata fissata entro il primo maggio, poi prolungata simbolicamente all’11 settembre, ieri, e quindi retrocessa al 31 agosto. Attorno al generale velivoli e mezzi militari abbandonati. E sempre la notte aveva accompagnato giorni prima la frettolosa partenza americana dalla grande base aerea di Bagram, un gioiello strategico dell’Asia centrale, rimasta improvvisamente a luci spente. Una lista di centinaia di pagine consegnate all’ormai traballante governo afghano faceva l’inventario puntiglioso di tutto il materiale che rimaneva là dentro. Un bottino di guerra recuperato poco dopo dai Talebani senza bisogno di combattere, ma prima ancora dai saccheggiatori locali. Una fuga al buio. C’era invece il sole nel febbraio del 1989 quando in pieno giorno il generale Boris Gromov, comandante del corpo di spedizione sovietico in Afghanistan attraversava a piedi, accompagnato da suo figlio, il ponte di ferro sul fiume Amu Darya. Sull’altra riva lo accoglieva la grande madre Russia. Era l’ultimo soldato sovietico a lasciare Kabul. Gromov fu accolto da musiche, da tavole allestite e innaffiate con abbondanza, e da belle ragazze in abiti tradizionali. Quel giorno assistevo come a una festa bucolica. I fotografi della agenzia Tass scattavano le loro tipiche foto, mettendo prima in posa adulti e bambini che dovevano essere sempre decisamente sorridenti. Non incombevano attentatori spietati verso i civili, non c’erano decine di migliaia di afghani ammassati lì attorno per fuggire dal paese soltanto dentro gli aerei di paesi stranieri. E l’armata rossa per non essere attaccata e umiliata nelle ultime ore della ritirata aveva pagato preventivamente la guerriglia. Era un gracile segreto noto almeno da una settimana. Quel giorno tra le steppe dell’Asia c’era un richiamo al mare lontanissimo, nelle maglie a righe bianche e blu dei soldati di Mosca, simili a quelle dei marinai. Tra la partenza di Gromov e quella di Donahue passa proprio la differenza che esiste tra il giorno e la notte. C’è un punto in comune tra le due spedizioni, entrambi erano arrivati portandosi dietro i loro alleati, rispettivamente quelli del Patto di Varsavia e quelli della Nato. Ma alla partenza dei sovietici l’aeroporto aveva continuato a funzionare e atterravano senza ostacoli dei giganteschi Antonov con la livrea bianca e azzurra dell’Aeroflot integrati da una cupolina trasparente da cui spuntava una mitragliatrice per completare il trasloco verso casa. I mujaheddin, i guerriglieri che li avevano sconfitti, presero Kabul solo tre anni dopo, sparando in aria come si fa da quelle parti quando si deve festeggiare. Ma non ci fu nulla di paragonabile alla calca furibonda, disumana di queste settimane per raggiungere e poi sopravvivere dentro l’aeroporto. Certo il ponte aereo degli occidentali ha messo in salvo oltre 100mila persone. Ma il tracollo del potere è stato fulmineo. E i Talebani si sono trovati sùbito di traverso le bombe di altri “combattenti” islamici più brutali di loro. La colonna del sapere e dell’ignoranza ammonisce. Marocco, il trumpismo sfratta gli islamisti di Francesco Battistini Corriere della Sera, 12 settembre 2021 Il voto legislativo giovedì ha polverizzato una delle più potenti forze islamiche, incoronando il tycoon Aziz Akhannouch, secondo per ricchezza solo a re Mohammed VI detto M6. L’uomo più ricco del Marocco, re Mohammed VI detto M6, ha incaricato il secondo uomo più ricco del Marocco di formare un governo. O meglio: il discendente diretto di Maometto ha sfrattato l’unico partito islamista al potere nel Maghreb. Di più: l’ultimo re del Nord Africa, uno dei pochi autocrati mai sfiorati dalle Primavere arabe, ha chiuso gli ultimi conti con le rivolte scoppiate dieci anni fa. Ci sono molti modi di leggere il rumoroso risultato del voto legislativo che giovedì ha polverizzato una delle più potenti forze islamiche, incoronando il tycoon Aziz Akhannouch. I dodici seggi rimasti al Pjd, il partito islamico, dicono che un’onda è finita. I 179 deputati regalati al liberale Akhannouch e ai suoi alleati, ugualmente, ci spiegano che il Marocco pensa di “meritarsi di meglio” (è lo slogan del nuovo premier). Più con le cattive che con le buone, vedi la repressione di Al Sisi al Cairo o la svolta populista tunisina, sfociata nella sospensione del Parlamento, anche questo pezzo di mondo arabo ha deciso d’archiviare la sbornia degli anni Dieci. Basta con le piattaforme rivoluzionarie dei social, stop ai paradisi coranici, meglio puntare su poteri solidi, talvolta violenti, nel caso del Marocco non si sa quanto trasparenti. Akhannouch è un conflitto d’interessi vivente: possiede una sessantina d’aziende, controlla petrolio, grande distribuzione, marchi del lusso, turismo, mercato immobiliare, televisioni. Ha una moglie ricca e potente quasi quanto lui. È un centrista di grande carisma che ha governato un po’ con tutti, sinistra e islamisti, e il suo partito è nato da una costola della corte reale. Si dice moderato, salvo coi giornalisti che lo criticano. Promette naturalmente riforme, in un Paese fra i più ricchi della regione e tra i più ingiusti nella distribuzione della ricchezza. In Marocco, però, tutti sanno che a decidere è sempre e solo M6. E pochi s’illudono che le nuove speranze arabe passino per i piccoli Trump.