Quei bambini in carcere non sono un effetto collaterale. Fate presto: liberateli di Luigi Manconi La Repubblica, 11 settembre 2021 Venire al mondo a Rebibbia. Non è lo slogan di un programma di rigenerazione sociale e nemmeno il messaggio promozionale di un progetto di redenzione morale. No, nel settembre del 2021, nel carcere romano di Rebibbia femminile, venire al mondo vuol dire proprio, assai concretamente, la rottura delle acque, le doglie, nascere. All’interno di una cella. È accaduto il 3 settembre scorso. E ne ha scritto diffusamente Luca Monaco su queste colonne. La madre, Amra, 23 anni, italiana di origine bosniaca, era stata arrestata a luglio per furto. Quella notte di settembre aveva cenato ed era andata al letto poi, improvvisamente, le contrazioni. È stata la sua compagna di cella, anche lei alle ultime settimane di gravidanza, ad aiutarla a partorire. Quando è arrivato il personale medico, la bambina era già nata, raccolta in un asciugamano sulla branda della madre. Ricordo che alla fine degli anni 90, mentre visitavo quel reparto, mi colpì un dettaglio. La struttura in ferro dei letti era stata protetta, ai quattro angoli della rete, da maglie e golf strettamente annodati. Ciò al fine di evitare che quelle estremità, quegli angoli appuntiti e i possibili spuntoni insidiassero l’incolumità dei bambini che vi giocavano intorno. E, infatti, la nascita della figlia di Amra, illumina uno scandalo particolarmente crudele all’interno di quello scandalo ancora più grande, rappresentato dalle condizioni del sistema penitenziario italiano. In carcere tutti, quasi tutti, si dichiarano innocenti. E tutti, o quasi tutti, rivendicano una loro - stravolta o perversa o degenerata - ragione. Ma, poi, ci sono gli “innocenti assoluti”: e sono quei bambini, da 0 a 3 anni, che sono “detenuti” al seguito delle loro madri. Oggi, all’interno degli istituti italiani, si trovano 26 minori (ma un anno fa erano oltre il doppio). Perché si trovano là? Per una serie di ragioni. La prima è molto semplice e la si ricostruisce attraverso le parole di Gabriella Stramaccioni, Garante delle persone private della libertà per il Comune di Roma: “Il 17 agosto ho inviato una mail al giudice del processo, chiedendo per Amra una soluzione alternativa al carcere, ma non ho avuto risposta. Prevedibilmente si dirà: in pieno agosto, con la turnazione delle ferie, con un carico di fascicoli che grava sulle scrivanie e sulle spalle dei magistrati è inevitabile che i tempi della giustizia siano drammaticamente in ritardo rispetto ai ritmi di una vita e di una gravidanza. Ma c’è il sospetto che intervengano altri fattori: innanzitutto l’idea che lo scandalo degli innocenti assoluti rinchiusi in una cella non sia, poi, così scandaloso. Una sorta di fatale “effetto collaterale” della criminalità degli adulti. Eppure, già oggi, sarebbero possibili soluzioni diverse. La garante aveva suggerito che Amra venisse accolta all’interno della “Casa di Leda” (dal nome di Leda Colombini, la più intelligente animatrice delle lotte per sottrarre i bambini alla reclusione): una delle pochissime case famiglia protette, previste da una legge del 2011, dove si trovano tutt’ora liberi. Dopo di che, la legge che regolamenta la materia, presenta limiti gravi; e alla Camera dei Deputati compie il suo iter, lento, troppo lento, un disegno di legge (primo firmatario Siani) che interviene sui punti maggiormente critici. Fate presto. Riusciamo a immaginare quali effetti rovinosi può avere sullo sviluppo di un minore quella vita coatta, dove suoni e colori risultano gravemente deformati e dove l’orizzonte è delimitato da un muro di cinta? Bambini in carcere. Nessuno evochi alibi, i rom sono ultimi tra gli ultimi di Eraldo Affinati Il Riformista, 11 settembre 2021 I bambini più piccoli, costretti a stare in carcere insieme alle madri recluse, assomigliano ai cuccioli dei felini cresciuti in cattività: i loro occhi sono tristi e malinconici. Eppure c’è di peggio: partorire in cella di notte, anziché in una struttura protetta, secondo quanto prevede la norma, potendo contare soltanto sull’aiuto improvvisato della compagna prigioniera, peraltro anche lei incinta, come è successo pochi giorni fa a Roma, nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, a una giovane rom di origine bosniaca, già madre di altri figli, è un evento indegno di un Paese civile: questo lo sanno tutti. Non dovremmo raccontarlo noi. Per spiegarlo possiamo immaginare inciampi burocratici, disattenzioni protocollari, noncuranze e/o negligenze, relative a quella responsabilità settoriale che tanti guasti continua a provocare in ogni ambito della vita sociale ancorando l’operatore al semplice mansionario da svolgere, spesso senza tenere presenti i contesti nei quali si agisce. Potremmo definire il suddetto atteggiamento difensivo alla maniera di un alibi formale: io ho eseguito il mio compito, non spettava a me fare in altro modo. A finire stritolati nei gangli di tali isterie precettistiche, assai frequenti quando si lavora a compartimenti stagni, sono le ultime ruote del carro, i più svantaggiati e sprovveduti, chi non sa come contrapporsi al degrado e all’ingiustizia semplicemente perché ci è nato dentro, ha avuto h la sua formazione, nell’incuria frutto dell’indifferenza, in mezzo agli inevitabili soprusi, le scandalose promiscuità, le mancate scolarizzazioni, le protervie insanabili, le violenze quotidiane, a cui davvero sembra non ci sia rimedio, come se la vita potesse essere solo così. In particolare i rom mandano a monte ogni nostra ipocrisia egualitaria. Chiunque sia soltanto entrato, almeno una volta, nel campo nomadi di Castel Romano, sulla Pontina, alle porte della capitale, dove la mamma che ha partorito in carcere è cresciuta, e abbia gettato uno sguardo verso quelle casette allineate dietro al recinto, fonte di innumerevoli polemiche, mentre dall’altro lato della strada nei week end fanno quasi sempre la fila le automobili dirette all’adiacente centro commerciale, credo abbia misurato tutto lo scarto fra due universi drammaticamente divisi: quello in cui abitiamo noi e quello della giovane reclusa. Da una parte ci sono i cartelloni pubblicitari delle creazioni esclusive, saldi e coriandoli, dall’altra le stelle di cartapesta schiacciate nel fango. È questa, io penso, la ragione antica, profonda, strutturale, al di là di tutte le risposte tecniche, giuridiche e amministrative, che sta alla base del parto arrischiato e fortunoso avvenuto nella notte del 3 settembre in uno dei più importanti istituti carcerari italiani. Adesso, apprendiamo, la bambina nata dietro alle sbarre sta bene e la madre è tornata a vivere in una casa a Ciampino. Ma finché non riusciremo a trovare il modo di mettere in rapporto i due mondi separati, non stancandoci di predisporre adeguati collegamenti linguistici e culturali, simili eventi non lieti purtroppo continueranno a ripetersi. Hanno tutti lasciato che un bambino nascesse in prigione di Rita Bernardini Il Riformista, 11 settembre 2021 Dieci giorni fa, dopo aver visitato nel corso del mese di agosto 5 istituti penitenziari, avevo scritto alla ministra Marta Cartabia denunciando lo stato di abbandono delle nostre carceri. Stato di abbandono sanitario e trattamentale che si traduce in concrete e sistematiche violazioni dei diritti umani inconcepibili in uno Stato di diritto che si definisce democratico. Quel che è successo ad Amra e al suo bambino è uno dei tanti degradanti esempi di ciò che avviene ogni minuto nei 189 penitenziari del nostro Paese. Penso al Giudice che ha disposto l’arresto di una donna prossima al parto, ai responsabili del carcere che l’hanno messa in una cella, al dirigente sanitario che l’ha presa in carico: tutti sapevano, ma nessuno di loro è intervenuto per evitare l’irreparabile, cioè che un bambino nascesse tra le sbarre senza alcuna assistenza sanitaria per lui e per la madre. L’unica figura istituzionale presente è stata quella della Garante Gabriella Stramaccioni, che però non è stata ascoltata e si è dovuta fermare di fronte ad istituzioni ignave che non si fanno scrupolo di calpestare leggi e regolamenti. Già, perché per legge non può essere disposta la custodia cautelare in carcere di una donna incinta (o madre di prole di età inferiore a tre anni), salvo che sussistano esigenze telaci di eccezionale rilevanza (art. 275, comma 4, c.p.p). Francamente non mi pare il caso di Amra, accusata di furto, che avrebbe potuto usufruire dei domiciliari in una casa famiglia protetta come aveva proposto la Garante Stramaccioni. E, in carcere, per Amra e il suo piccolo che fine ha fatto la legge dell’Ordinamento Penitenziario che prevede che in ogni carcere femminile devono essere in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere? Perché la ASL non ha fatto funzionare questi servizi speciali? E perché i Ministeri della Salute e della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non hanno vigilato sulla fruizione dei servizi previsti? C’è però un motivo di vergogna in più in questa vicenda ed è il trattamento riservato ai Rom. Amra lo dice a Repubblica quasi rassegnata non sono certo la prima e non sarò l’ultima donna rom vittima di questo sistema”. Amra non lo sa ma al Governo qualcuno dovrebbe invece forse sapere che l’art. 75 dell’Ordinamento Penitenziario prevede i Consigli di Aiuto Sociale che hanno il compito di aiutare i detenuti a reinserirsi nel contesto sociale. Nelle detenzioni precedenti quante volte Amra è stata raggiunta da questi presidi? Ve lo dico io: MAI. Semplicemente perché non sono stati mai istituiti. Stato fuorilegge insisteva Marco Pannella. Concludo con un proverbio in dialetto romanesco che ripeteva spesso mia madre e che mi sembra si attagli bene al caso in questione: “Nun gode er poveraccio si nun né pe’ disgrazia”. Mi riferisco alle due detenute rom incinte che sono state finalmente scarcerate a seguito del parto di Ambra in un giaciglio dietro le sbarre. Padri in pena: un percorso di sostegno alla genitorialità in carcere di Marilù Ardillo vita.it, 11 settembre 2021 I padri detenuti si sentono totalmente delegittimati, sono convinti di non avere un posto. Per un padre, il carcere è un serio pericolo per gli scopi della sua esistenza, per la sua autostima. Un progetto sostenuto dalla Fondazione Casillo getta luce su questo tema di grande rilevanza sociale. Se vi domandassero di chiudere gli occhi e pensare a un padre insieme a suo figlio, dove li immaginereste? Difficilmente potreste pensarli in una stanza angusta, separati da un mezzo divisorio. Quante cose riesce a raccontare un bambino in appena 60 minuti? Quante ne riesce a dire un padre? Seduti ad un tavolo non si possono condividere esperienze: si possono ricordare, se ve ne sono state, o si possono sperare. Difficilmente un bambino si rassegna ad accettare che suo padre non possa tornare a casa con lui e sua madre. Mangiare insieme un piatto di pasta, scegliere un cartone animato, trovarlo all’uscita di scuola. Come si spiega ad un bambino che suo padre non può varcare quella soglia per mostrargli il mondo? Esiste una moltitudine di paternità possibili. In passato un uomo umile riusciva a dare il buon esempio a suo figlio perché svolgeva un lavoro onesto. Oggi sembra non sia più abbastanza: oggi è necessario anche spiegare, sapere. In quelle che vanno delineandosi ormai come norme genitoriali di classe, coloro che nella società si collocano al margine ne escono assai penalizzati. In modo particolare i detenuti, che in nome della loro condizione sociale si sentono del tutto squalificati. La genitorialità si muove dunque su tre piani: quello dell’esercizio, della pratica e dell’esperienza. Ma come si fa quando ci si è messi in condizione di vivere in isolamento? Già dagli anni ‘70 numerose ricerche in campo analitico hanno dimostrato che un rapporto di familiarità tra padre e figlio aumenta il senso di sicurezza nel bambino, contribuisce a formarne l’identità e a svilupparne l’autonomia. Madre e padre sono importanti, ciascuno offre il proprio contributo allo sviluppo. Gebauer, pedagogista e psicoterapeuta tedesco, ci insegna che un atteggiamento amorevole, interessato e caloroso di un padre è il presupposto migliore per conseguire capacità spirituali, emozionali e manuali rispetto al mondo. Le esperienze che i figli vivono grazie ai loro genitori danno origine ad atteggiamenti empatici nei confronti delle altre persone, e il padre in modo particolare soddisfa il bisogno del bambino di essere stimolato e incoraggiato a superare i propri limiti, imparare a correre dei rischi. La detenzione minaccia e spesso distrugge la capacità di essere padri. Talvolta è necessario che i genitori detenuti siano sorretti e accompagnati nell’esercizio del proprio ruolo, perché il confronto con il giudizio sociale, che varia a seconda delle culture, è spesso feroce. Quasi mai crediamo che un detenuto possa essere un buon genitore: la società si chiede cosa sia in grado di offrire ad un figlio un uomo incapace di discernere tra il bene e il male. Si è portati inconsapevolmente ad identificare il detenuto con il reato commesso, perché non rispetta le norme di comportamento generale. In questi anni intere generazioni di padri si sono scoperte spaesate, incapaci di comprendere quale ruolo esercitare, vivendo in funzione di quanto stabilito dalla madre. I padri detenuti si sentono totalmente delegittimati, sono convinti di non avere un posto, spesso le madri interrompono i contatti e il nucleo familiare si rompe. Il carcere per un padre è un serio pericolo per gli scopi della sua esistenza, per la sua autostima, per il suo sistema difensivo, che nel tempo si concretizza in una progressiva disorganizzazione della personalità. Coloro che mantengono rapporti famigliari durante la detenzione sono persone che rappresentano un rischio minore per la società, una volta riconquistata la libertà, e sono meno inclini ad episodi di violenza e insubordinazione all’interno del carcere. Ma qual è il punto di vista dei figli? Sono circa 100.000 i bambini che in Italia hanno almeno uno dei due genitori detenuti. La detenzione per un bambino significa perdita di riferimento, di storia, di legame. Ciò che sperimenta è che un adulto che si prendeva cura di lui lo ha abbandonato. Se non viene ascoltato, se i suoi sentimenti vengono ignorati o repressi, se viene a mancare la conoscenza della realtà, può sviluppare solo idee parziali o rappresentazioni distorte di sé e del mondo. I bambini con padri detenuti hanno più difficoltà nel sopportare la frustrazione e sono preda di angosce maggiori, che non sanno rielaborare. L’importanza del padre per un figlio è dunque assoluta. E i dati forniti da alcune indagini svolte negli Stati Uniti lo gridano a voce alta: il 60% degli stupratori, il 72% degli assassini adolescenti, il 70% degli ergastolani e il 71% dei ragazzi che abbandonano la scuola sono cresciuti senza figura paterna (Barzagli, 2013). Tutelare le persone private della libertà con anche i loro familiari, in particolare i figli, è da tempo interesse della Comunità Internazionale. Nel 2012 viene presentata dal Ministro della Giustizia la “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” che sottolinea, tra le varie cose, l’importanza del mantenimento dei rapporti familiari. Il 21 marzo 2014 viene approvata la “Carta dei figli dei genitori detenuti”, poi rinnovata nel 2018, un protocollo d’intesa firmato dal Ministro della Giustizia, dal Garante per l’infanzia e l’adolescenza e dalla Presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus. Primo documento del genere in Italia e in Europa, riconosce e garantisce in modo formale il diritto dei figli dei detenuti alla continuità del rapporto affettivo con il genitore e attraverso il progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie” è diventato uno strumento concreto sul territorio nazionale. I percorsi di sostegno alla genitorialità attivi in Italia attualmente sono diversi e affrontano la tematica con modalità differenti, concentrando l’attenzione su aspetti diversi. Dalla “stanza dell’affettività” allo “spazio giallo”, dalla ludoteca alle aree verdi, dal “gruppo di parola” alla “scuola dell’accoglienza”, ogni progetto proposto da varie Associazioni si impegna a preservare e garantire il diritto di essere padre e quello di essere figlio, a prescindere da tutto e tutti. La Fondazione Vincenzo Casillo ha sostenuto di recente il progetto “Padri in pena”, strutturato e condotto da Simona D’Agostino, pedagogista, criminologa e presidente dell’Associazione Social Project, nato presso l’Istituto di Bellizzi Irpino (AV), replicato successivamente all’Istituto penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano (NA) e portato a maggio 2021, proprio grazie alla Fondazione, nella Casa Circondariale di Trani (BT). Il progetto è stato articolato con gruppi di 15 padri detenuti incontrati ogni settimana per 3 mesi. Tra gli obiettivi principali: la cura delle relazioni familiari considerate parte integrante del percorso di trattamento della persona detenuta e la prevenzione di condotte devianti all’interno del tessuto familiare. “Ognuno dei partecipanti ha ricevuto in regalo un quaderno con una penna, partendo dal presupposto di essere protagonisti attivi della costruzione del proprio percorso”, racconta la dottoressa D’Agostino. “La metodologia utilizzata è stato l’approccio autobiografico, con l’intento di conoscere a fondo se stessi, lasciandone traccia, per riconoscere gli errori, rielaborarli e riformulare il modo di gestire la propria detenzione e la comunicazione con i propri figli. Attraverso la conoscenza del proprio percorso di vita si fornisce uno strumento per ripensare il proprio modo di essere padre. Scrivere della propria vita è una proposta formativa finalizzata all’attivazione o ri-attivazione di percorsi di crescita individuali e di gruppo, in virtù di un obiettivo trasformativo. La partecipazione è stata sincera e appassionata; nessun padre ha nutrito imbarazzo nell’ammettere di avere paura: del futuro, di non avere più diritti, di non poter incontrare la famiglia, anche a causa della pandemia da Covid-19 che ha portato necessariamente alla sospensione dei colloqui in presenza per lungo tempo. Sono stati forniti loro strumenti di comunicazione utili ad approcciarsi al mondo interiore dei propri figli, condividendo stati d’animo e rafforzando il legame affettivo, pure da lontano. Hanno imparato a pensare prima di cominciare il colloquio o la video chiamata, cosa chiedere, come argomentare, come condividere, perché quel momento sia costruttivo, perché lasci nei propri figli la traccia di un cambiamento. Abbiamo chiesto ad alcuni detenuti che hanno preso parte al progetto quale fosse l’ultimo pensiero prima di cedere il passo al sonno. Tutti, indistintamente, hanno risposto: la famiglia. A. immagina suo figlio da adulto dietro la scrivania di un’azienda. M. immagina i suoi figli laureati, con un grande futuro. E. racconta che la cosa che più gli manca quando pensa a sua figlia è la spensieratezza, prepararle da mangiare. Per lui essere padre significa aver ricevuto un’opportunità. “Quando uscirai definitivamente sarai di nuovo libero. Per te sarà come rinascere, sarà la tua seconda vita. Fai che io possa essere fiero di questo uomo nuovo. Fallo per me, ma soprattutto per te. [dalla lettera di un figlio al padre carcerato a Le Novate] Ergastolo ostativo: come salvarlo di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2021 I mafiosi irriducibili che non accedono alla collaborazione giurano fedeltà perpetua all’organizzazione e il loro status è “per sempre”: non basta la semplice dissociazione. Nell’aderire a quanto stabilito nel 2019 dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo e mutando la valutazione operata il 24 aprile 2003, la Corte costituzionale (ord. 15 aprile 2021, n. 97) ha creato i presupposti per ammettere i mafiosi ergastolani che non collaborano con la giustizia al beneficio della liberazione condizionale, una volta espiati 26 anni di reclusione, decurtabili di 45 giorni ogni semestre di pena scontata, in virtù della liberazione anticipata, e dunque dopo circa un ventennio. Ha ritenuto, infatti, il regime vigente incompatibile con il principio di rieducazione della pena: scelta che di fatto potrebbe cancellare l’ergastolo ostativo, fulcro della normativa antimafia promossa da Giovanni Falcone. Se appare apprezzabile l’aver rimesso al legislatore l’intervento normativo entro il 10 maggio 2022 per disciplinare la materia senza procedere a un intervento “demolitorio” immediato, occorre chiedersi se la disciplina vigente sia davvero incompatibile con la Carta costituzionale e quali soluzioni possano essere adottate. Invero, l’incostituzionalità non sussiste se si considera che la condotta del mafioso ergastolano incide direttamente o indirettamente su plurimi valori costituzionali, vale a dire i diritti inviolabili (art. 2 Cost.) - quali la libertà personale, l’uguaglianza, il diritto alla vita e alla sicurezza - ed entra in tensione anche con il principio per cui le prestazioni personali e patrimoniali possono essere imposte solo sulla base della legge (impone il pagamento di tributi paralleli rispetto a quelli previsti dallo Stato, come il sistematico pizzo agli operatori economici), incide sull’iniziativa economica privata libera, sul diritto di proprietà e sulla sua funzione sociale. Si ingerisce, infatti, ancor oggi nella gestione delle imprese attraverso l’erogazione di prestiti e nella successiva loro appropriazione a fronte dell’incapacità di onorare i debiti. Condiziona la libera concorrenza, vulnerando l’uguaglianza tra tutti gli operatori economici. Esponenti di cosa nostra sono giunti ad attuare attacchi terroristico-eversivi al cuore dello Stato, ponendo in essere otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) nel triennio ‘92-’94, con la prospettiva di ricattare esponenti delle istituzioni (abolire l’ergastolo, eliminare il 41 bis e la legge sui collaboratori di giustizia in cambio della cessazione delle stragi), condizionando la politica e la funzione legislativa, che è riservata al Parlamento e al governo, arrivando persino a condizionare, con la strage di Capaci, la nomina del presidente della Repubblica (Scalfaro), riservata al Parlamento in seduta comune dei suoi membri. E non è stata accertata tutta la verità in ordine a tali eventi stragisti, uno dei principali esecutori di quello stragismo, Matteo Messina Denaro, continua a essere latitante. Si tratta di una specifica realtà criminale non conosciuta dal resto d’Europa. Rimuovere gli ostacoli che limitano i diritti fondamentali è compito precipuo della Repubblica, che lo ha fatto sino a oggi efficacemente con il varo di un’appropriata legislazione, che ha saputo incentivare la collaborazione con la giustizia. Una scelta che costituisce una direttrice di politica criminale propria del legislatore incompatibile con la mera dissociazione manifestata dal detenuto con l’assunzione delle proprie responsabilità. Pertanto, la sola collaborazione dovrebbe espressamente essere indicata quale criterio vincolante per il giudice al fine di escludere la possibilità di accedere al beneficio della liberazione condizionale, posto che, ove fosse per così dire ‘istituzionalizzata’ la dissociazione, ne deriverebbe una valenza evidentemente disincentivante per le collaborazioni non esponendo a conseguenze il condannato, non essendo la scelta irreversibile (a differenza della collaborazione) e non creando pregiudizio al sodalizio, consentendogli di perpetuare la sua esistenza. Vari esponenti del crimine mafioso hanno cercato di ricorrere alla dissociazione nel quadro di una precisa strategia funzionale a ottenere benefici: sul finire del 2000-inizi del 2001, alcuni esponenti di vertice di cosa nostra, tentarono di avviare un dialogo mostrando una disponibilità ad ammettere le proprie responsabilità, senza accusare i propri complici; di recente anche Filippo Graviano ed esponenti della camorra stanno percorrendo la medesima strada. I mafiosi irriducibili che non accedono alla collaborazione giurano fedeltà perpetua all’organizzazione e il loro status è per sempre. Si può fuoriuscire dal sodalizio solo con la morte o con la collaborazione, sicché la rieducazione dell’ergastolano mafioso non può funzionare per gli irriducibili. L’appartenente al sodalizio che collabora realmente compie una scelta irreversibile di rottura, che lo espone addirittura al pericolo concreto di vita una volta ritornato in libertà (a titolo esemplificativo, si pensi all’assassinio di Claudio Sicilia, esponente della Banda della Magliana) o a vendette “trasversali”, rischio che non viene corso da chi si limita a una dissociazione. Perciò, il legislatore potrebbe virare sul mantenimento, a tempo, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato che non collabora, pur essendo nelle condizioni di farlo, sino all’annientamento della relativa organizzazione e ciò limitatamente agli esponenti di vertice dei tradizionali gruppi mafiosi che siano in grado di fornire collaborazioni di peso, documentate da provvedimenti giurisdizionali e da relazioni delle Procure distrettuali interessate dalla gestione del collaboratore e dalla Procura Nazionale. Senza il decisivo requisito della collaborazione severamente controllata e riscontrata manca ogni fattore obiettivo a cui ricollegare il distacco dal consorzio mafioso. L’accesso alla liberazione condizionale, come agli altri benefici della semilibertà o al lavoro esterno, potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso, come ci ricorda il recente esempio di Antonio Gallea, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, rientrato in posizione di comando nella sua organizzazione (stidda). È razionale differenziare nell’accesso ai benefici penitenziari il condannato mafioso, soprattutto se riveste ruoli di comando, dagli altri condannati che rientrano nella categoria del I c. dell’art. 4 bis O. P. e, in particolare, dal condannato terrorista all’ergastolo, perché difformi sono le strutture associative di appartenenza. Per colpa di pochi pm, rischia di calare il silenzio su tutti i procedimenti penali di Nello Rossi Il Domani, 11 settembre 2021 Il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, per come ora formulato, produrrà una piccola rivoluzione culturale e giuridica, che colloca su di un piano di parità imputati e “autorità pubbliche. Bandita ogni comunicazione informale o colloquiale con la stampa, i procuratori potranno parlare solo con comunicati stampa o conferenze stampa. Così come si dovrà dire addio alle denominazioni fantasiose dei procedimenti penali che istillino nel pubblico “pregiudizi” di colpevolezza. L’impressione è che le intemperanze di pochi abbiano suggerito soluzioni fin troppo drastiche a dispetto della correttezza della maggioranza degli uffici di procura. Con il rischio che succeda un problematico “arbitrio del silenzio” degli inquirenti sulle informazioni lecite riguardanti i procedimenti penali. “La nottola di Minerva si leva al tramonto. Così, icasticamente, Hegel descriveva i tardi risvegli e la lentezza della filosofia nell’affrontare i temi posti dall’attualità. Magistrati e giornalisti hanno però il dovere di essere animali un tantino più mattinieri. Soprattutto di fronte a nuove norme che li chiamano direttamente in causa, incidendo in profondità sui loro difficili mestieri. Per questo, superato il torpore agostano, sta crescendo l’attenzione per il decreto legislativo delegato sulla presunzione di innocenza, che il 6 agosto il governo ha inviato alle camere per ottenerne il parere prima del varo definitivo del provvedimento. Il governo - è questa la prima peculiarità della vicenda- si è mosso solo ora per dare attuazione alla Direttiva Ue “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”, che risale al 9 marzo del 2016. Se ne deve desumere che vi è stato un colpevole ritardo dell’Italia nell’adeguarsi agli standard voluti dall’Europa? Non è così. In una prima fase il nostro Paese ha ritenuto, e con ragione, che la presunzione di innocenza fosse già pienamente garantita e che perciò non vi fosse bisogno di dettare nuove norme. La consapevolezza di avere le carte in regola nei confronti dell’Unione (ed anzi di avere un processo penale molto più garantista di quello di altri paesi) è stata però parzialmente revocata in dubbio a seguito di una relazione della Commissione europea sullo stato di attuazione della direttiva. Benché rispettata nel processo - scriveva la Commissione - la presunzione di innocenza può essere vulnerata e contraddetta da una serie di discutibili comportamenti: anticipate dichiarazioni “colpevoliste” delle autorità pubbliche; condanne emesse in processi mediatici celebrati dalla stampa o nelle televisioni; disinvolte forme di comunicazione di alcuni uffici di procura; decisioni giudiziarie adottate nel corso del procedimento penale (ad esempio misure cautelari) che diano già per scontata una colpevolezza ancora da accertare. Ed è appunto su questi versanti che il governo interviene, dettando una disciplina principalmente rivolta alle autorità pubbliche, ai magistrati ed alle forze di polizia incaricate delle indagini ma densa di ricadute anche su tutti gli organi di informazione. Il decreto esordisce con un rigoroso divieto indirizzato alle autorità pubbliche, alle quali è proibito di indicare “pubblicamente” l’indagato o l’imputato come colpevoli fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con una pronuncia definitiva e irrevocabile. Chi viola questa regola va incontro a severe conseguenze: sanzioni disciplinari o penali (ad esempio per diffamazione) e l’obbligo di risarcire il danno. Ma vi è di più: chi sia stato “additato” come colpevole in violazione della presunzione di innocenza avrà il diritto di chiedere all’autorità che ha reso la dichiarazione una “rettifica” (modellata su quella prevista dalla legge sulla stampa) e, in caso di rifiuto o di silenzio, di chiamarla dinanzi al giudice per ottenere un ordine di rettifica. Una piccola rivoluzione culturale e giuridica, dunque, che colloca su di un piano di parità imputati e “autorità pubbliche. Formula amplissima, quest’ultima, che comprende non solo pm, giudici e polizie, ma anche ministri, funzionari ed esponenti di agenzie e di enti pubblici, che abbiano formulato sbrigativi e incauti giudizi anticipati di colpevolezza. Non però, almeno a parere di chi scrive, i parlamentari che si esprimano nell’esercizio delle loro funzioni, perché per essi resta fermo il regime di immunità (espressamente richiamato nella Direttiva Ue), mentre il rispetto della presunzione di non colpevolezza varrà solo come regola etica non sanzionabile giuridicamente. Anche per le procure è in arrivo un giro di vite. Bandita ogni comunicazione informale o colloquiale con la stampa, i procuratori potranno parlare quando ciò sia utile per la prosecuzione delle indagini o nei casi in cui vi sia un interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza, ma dovranno farlo “esclusivamente” attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa. Così come si dovrà dire addio - per la verità senza soverchi rimpianti - alle denominazioni fantasiose dei procedimenti penali che istillino nel pubblico “pregiudizi” di colpevolezza. L’impressione è che le intemperanze di pochi abbiano suggerito soluzioni fin troppo drastiche a dispetto della correttezza della maggioranza degli uffici di procura. Con il rischio che alle sporadiche forme di “arbitrio della parola” - troppo a lungo tollerate e non sanzionate anche solo sul piano etico - succeda un problematico “arbitrio del silenzio” degli inquirenti sulle informazioni lecite riguardanti i procedimenti penali. L’aspetto più spinoso è però quello relativo alle motivazioni dei molti provvedimenti “interinali” adottati dai giudici nel corso dei procedimenti. Qui il decreto del governo imbocca la via degli artifici verbali e delle acrobazie espressive chiedendo ai giudici di passare in rassegna e argomentare gli elementi che dimostrano la colpevolezza del “presunto innocente” senza mai revocare in dubbio la presunzione di non colpevolezza. Laddove sarebbe più lineare e coerente pretendere che ogni decisione indichi, con chiarezza e in premessa, che i convincimenti del giudicante hanno un carattere relativo e provvisorio perché maturati in una fase del procedimento diversa da quella della decisione sul merito. Quali saranno, infine, le ricadute sull’informazione? Su questo terreno si apre una partita con poche certezze. Da un lato la tutela del diritto alla presunzione di innocenza sarà indubbiamente rafforzata anche nei confronti degli organi di informazione (peraltro mai direttamente chiamati in causa nel decreto). Dall’altro lato, i giornalisti che si limiteranno a riportare dichiarazioni “colpevoliste” delle autorità pubbliche non ne assumeranno la responsabilità e non saranno tenuti a rettifiche, anche dopo che le autorità, spontaneamente o per ordine del giudice, abbiano dovuto modificare il tenore delle loro affermazioni. Il “diritto dei libri” e il “diritto in azione”, la riflessione teorica e la prassi si incaricheranno di dire se le nuove disposizioni segneranno l’avvio di una trasformazione culturale profonda o se saranno solo una mano di biacca destinata a mascherare malamente il sopravvivere di inveterati pregiudizi. La riforma accende il Csm: “scontro” sulle nuove regole del rito ordinario di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 settembre 2021 Aperta la discussione sulla riforma del Csm. Il laico Cavanna: “Compresso il diritto di difesa. Per la togata Miccichè: “Serve un cambio culturale. È iniziata ieri al Consiglio superiore della magistratura la discussione del parere sulle modifiche al processo civile. I tempi per il voto finale sono molto stretti. Nelle intenzioni il voto potrebbe avvenire già la prossima settimana, prima del voto in Senato del ddl di riforma. Secondo il progetto della ministra della Giustizia Marta Cartabia, la riforma dovrebbe garantire un abbattimento dei tempi di definizione delle cause stimato intorno al 40 per cento. Fra i punti principali, l’istituzione dell’ufficio per il processo, la struttura che dovrà aiutare il giudice nella decisione della controversia, agevolandolo soprattutto nel lavoro ‘ preparatorio’. Tante le modifiche introdotte, ad esempio per rendere maggiormente appetibile l’arbitrato, garantendo una maggior affidabilità degli arbitri come decisori terzi ed imparziali, ed attribuendo all’arbitro - ove sia stato stabilito dalle parti - il potere di pronunciare provvedimenti cautelari. Altro istituto importante a tal fine sarà quello della mediazione. Diverse sono le modifiche finalizzate ad incentivarne l’utilizzazione e a favorire il raggiungimento dell’accordo. Il rito ordinario del processo civile diviene rito semplificato, da introdursi con ricorso, con una anticipazione della definizione delle preclusioni e decadenze prima dell’udienza di comparizione. Sul mutuare le regole del rito del lavoro si consumato ieri il primo “scontro. Da un lato il laico Stefano Cavanna (Lega), dall’altro la toga Loredana Miccichè (nella foto in alto). Il parere del Csm guarda con favore a tale modifica, quella di definire da subito, compiutamente, già nell’udienza di prima comparizione, l’oggetto esatto della controversia e la portata dei mezzi di prova. Si tratta di “un meccanismo processuale che ha dato buona prova di sè nell’ambito in cui, fin qui, è stato utilizzato. Inoltre, “che la sua generalizzazione possa essere fonte, addirittura, di rallentamenti processuali - come pure si è paventato in talune posizioni critiche, a causa di un possibile “appesantimento” del fascicolo (per sovrabbondanza di elementi, anche probatori, introdotti dalle parti per scongiurare il rischio della successiva preclusione) appare affermazione priva di solidi riscontri. Di diverso avviso il foro secondo cui, invece, “introducendo limiti molto stringenti alle facoltà di modifica delle domande (ed in generale al contraddittorio), porterà ad un ampliamento del contenzioso su questioni processuali ed un aumento del numero di liti. Ma non solo: “Le sanzioni previste creeranno un grave compressione del diritto di accesso alla giustizia, essendo espressione di un’impostazione punitiva che nulla ha che fare con il diritto e con le finalità costituzionali del processo che oggi. Per Cavanna, avvocato, non è pensabile che con l’atto introduttivo si debbano allegare il fatto, le richieste di prova e le conclusioni, senza più possibilità di successive modifiche o altro. Con la prima udienza, infatti, scatterebbero tutte le preclusioni. Ed ha citato poi i processi che interessano società straniere o in cui sono tante le parti. Di diverso avviso la togata Miccichè secondo cui è necessario un “cambio culturale”, dal momento che almeno tre o quattro udienze passano solo per modificare la domanda, fare precisazioni, chiedere le prove. A queste osservazioni ha replicato subito Cavanna ricordando comunque che il collo di bottiglia resta sempre quello della decisione del giudice. Per la quale, spesso, bisogna attendere anni. Csm, il Pd fa sul serio: “No a riforme troppo annacquate” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 settembre 2021 Parla Alfredo Bazoli, relatore in commissione Giustizia alla Camera del disegno di legge in materia. “Vi spiego la posizione del Pd sulla riforma del Csm. Essendo ormai quasi chiusa, e senza troppi problemi, la partita sulla riforma del processo penale al Senato bisogna guardare ora a quella dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura, percepita da molti come la tappa necessaria per porre un limite al correntismo e lasciarsi alle spalle lo scandalo Palamara. Al di là delle suggestioni, bisognerà discutere di molti punti specifici. Per la ministra Cartabia è la riforma più urgente: “I fatti di cronaca che hanno riguardato la magistratura nei mesi recenti hanno reso improcrastinabili e più urgenti gli interventi. Qualcosa si è rotto nel rapporto tra magistratura e popolo e occorre urgentemente ricostruirlo. In merito alla road map abbiamo chiesto aiuto all’onorevole dem Alfredo Bazoli, relatore in commissione Giustizia del disegno di legge in materia. “Presumibilmente si seguirà lo stesso percorso adottato per la riforma del processo penale. Credo che appena il Senato terminerà l’esame del ddl penale, la ministra si confronterà con le forze di maggioranza per poi presentare gli emendamenti del governo, anche in base alle indicazioni della Commissione Luciani. Comunque il tutto dovrebbe iniziare a breve. Chiediamo all’onorevole se si spenderanno in fase di discussione per portare avanti la proposta sulle valutazioni di professionalità (“Introduzione della previsione che le valutazioni di professionalità dei magistrati, quali il pubblico ministero, debbano essere condotte anche sulla base del parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie, prevedendo un massimo di percentuale significativo’): “Tutte le proposte illustrate nel nostro documento per la riforma della giustizia le abbiamo tradotte in emendamenti. La posizione nostra è molto chiara. Ovviamente poi bisogna vedere cosa accadrà dopo il confronto con la ministra e con la maggioranza. È chiaro, quindi, che bisognerà mettere in conto un compromesso come è avvenuto per la riforma del penale. Sui punti a cui non si è disposti a cedere, Bazoli ci risponde: “Sono tutte proposte da difendere. Ad alcune siamo particolarmente affezionati, come quella relativa alla composizione dei consigli giudiziari secondo la quale avvocati e professori universitari abbiano il diritto di intervento e anche di voto sulle deliberazioni inerenti le valutazioni di professionalità dei magistrati. Importante, come ricordava lei, quella sulla valutazione professionale dei magistrati che riteniamo non possa essere accantonata. Ci aspettiamo un confronto approfondito con la maggioranza anche per quel che concerne il sistema elettorale del Csm e le porte girevoli. Non vorremmo che la riforma su quest’ultimo punto venisse troppo annacquata. In conclusione ci dice l’onorevole Bazoli: “Noi abbiamo fatto poche proposte, così come sul penale, ma ci teniamo che su di esse ci sia una discussione seria. Ci tengo a precisare che le nostre idee di riforma non sono contro la magistratura. Noi auspichiamo che ci sia un confronto anche con gli attori del sistema giudiziario perché riteniamo che quanto suggeriamo sia volto proprio a valorizzare il lavoro di certa magistratura. Non ci poniamo in una posizione di antagonismo, riteniamo di poter migliorare il sistema giustizia. Anf a congresso: la tecnologia non prenda il sopravvento sulla giustizia di Luigi Pansini Il Domani, 11 settembre 2021 L’udienza da remoto è stata senza dubbio la novità più importante tra quelle contenute nelle disposizioni emergenziali che da marzo dell’anno scorso ad oggi hanno riguardato la giustizia, lo svolgimento dei processi, l’accesso agli uffici giudiziari. Il collegamento su Teams, avvocati e giudici dinanzi ad un video, et voilà il futuro. Violazione del diritto di difesa, tutela dei diritti a rischio, principi da contemperare a seconda che si tratti di processo civile o di processo penale: questi, invece, alcuni dei principali argomenti di discussione e scontro dell’anno scorso. Destinata a divenire definitivamente una possibile modalità di svolgimento del processo, l’udienza da remoto (personalmente sono favorevole e la preferisco all’udienza scritta che sembra prendere sempre più piede) si colloca nel contesto più ampio della giustizia digitale, dell’intelligenza artificiale applicata al diritto, dei big data giudiziari, delle realtà di Venezia, Pisa e Brescia che, in collaborazione con le università del territorio, hanno già fatto grandi passi in avanti sul tema della giustizia predittiva, dell’intervento umano nei criteri di scelta dei dati che l’algoritmo deve elaborare. “All’esperienza della legge e all’intelligenza artificiale” è dedicata la prima sessione di studio e approfondimento del IX Congresso Nazionale dell’Associazione Nazionale Forense che si terrà a Roma, in presenza e in condizioni di sicurezza, dal 16 al 19 settembre prossimi. Favorire un linguaggio comune e la condivisione di informazioni è il primo passo per comprendere il fenomeno della giustizia algoritmica, è lo strumento necessario per evitare che la tecnologia prenda il sopravvento e la “giustizia” perda quella capacità di mediazione e pacificazione nella società che le è (o almeno dovrebbe essere) propria: “Se la rivoluzione digitale cerca in tutti i modi di instaurare un determinismo nella giustizia, la giustizia consiste proprio nell’evitarlo, in nome del diritto e dell’aspirazione alla libertà” (Garapon e Lasségue, La giustizia digitale). È una nuova relazione tra giustizia e società che necessita di essere studiata in ogni sua implicazione e che vede protagonisti, tra gli altri, magistrati e avvocati a tutela delle garanzie del giusto processo e dei valori e dei principi costituzionali sempre improntati a criteri di equilibrio, di ragionevolezza e proporzionalità. All’appuntamento congressuale della nostra associazione non può mancare, ovviamente, l’attenzione severa alla relazione tra giustizia e avvocati, strettamente collegata alla prima e oggi compressa tra la tecnologia, le continue riforme processuali (e quelle imminenti da PNRR), i nuovi diritti e l’irreversibilità di strumenti di risoluzione alternativa delle controversie al di fuori del processo, da un lato, e i modelli di organizzazione della professione inadatti, la questione previdenziale, la disattenzione della politica verso il comparto delle professioni, una nostra certa ritrosia ai cambiamenti e la natura economica dei servizi legali, dall’altro. In gioco: ruolo dell’Avvocato nella giurisdizione e nella società, riconoscimento sociale, reddito. Proprio sulle pagine di Domani, all’inizio di marzo di quest’anno e alle quali rimando, ho scritto di dieci proposte per l’avvocatura; la convinzione al riguardo oggi è addirittura maggiore perché l’esame di abilitazione della sessione in corso, con modalità nuove dettate dall’emergenza pandemica, sono la prova provata che immaginare un diverso modello di organizzazione della professione, a partire dal sistema di accesso, è possibile. Le sessioni congressuali sono dedicate alle aggregazioni multidisciplinari, alle collaborazioni tra professionisti, alla figura dell’avvocato dipendente e al welfare universale per i professionisti. Ma la nostra attenzione è costantemente rivolta anche alla revisione del regime delle incompatibilità, alla possibilità che possano coesistere diverse “figure” di avvocato a seconda dell’ambito in cui la professione è esercitata, al ripensamento dell’obbligo d’iscrizione a Cassa Forense, alle modalità di iscrizione all’albo e agli albi, alla necessità di un nuovo codice deontologico. Aperta e chiusa parentesi: la specializzazione del sapere nella professione è un valore assoluto che prescinde dall’esistenza di un regolamento ministeriale, sull’equo compenso bisogna cominciare a chiedersi se veramente pensiamo che possa essere cogente per tutte le pubbliche amministrazioni, non è un bene che si discuta tra pochi di previdenza forense e di un possibile passaggio al sistema contributivo tout court. Ma perché discutiamo di giustizia digitale, professione, welfare universale, regolamenti ministeriali e riforme del processo? Per chi parliamo e discutiamo di tutto questo? Quale la destinazione dei lavori di un congresso? Questa sicuramente non è la sede per ripercorrere la storia dell’associazione, ma mi piace ricordare il primo “sindacato forense” nato a Napoli nel 1944, la nascita - nel 1997 -dell’Associazione Nazionale Forense con l’eredità storica, politica e culturale dei Sindacati Forensi e delle Associazioni in cui questi erano confluiti, il ruolo dell’allora FESAPI Federazione dei Sindacati degli Avvocati e Procuratori d’Italia nell’adozione della legge 798 del 1965 sulla previdenza forense e l’attenzione di ANF alle successive riforme del 2009 e del 2012, l’impegno più che decennale dell’associazione sulla legge ordinamentale del 2012 (che oggi - nemo profeta in patria - mostra tutti i suoi limiti) e (dal 2010) sulla figura dell’avvocato mono-committente, la spinta più che convinta - nella commissione ministeriale - verso il processo civile telematico nonostante le resistenze all’interno dell’avvocatura e della magistratura, la convenzione con il Ministero della Giustizia sui lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova. Il riferimento ad alcuni dei momenti più importanti della vita dell’associazione è necessario per contestualizzare la riflessione all’interno del fenomeno della “disintermediazione degli interessi” e, secondo il pensiero degli studiosi, e “dell’illusione dell’interlocuzione a chilometro e tempo zero di tutti con tutti. Corpi intermedi e ruolo delle associazioni: una loro crisi o un loro indebolimento la si è registrata in tutti i settori e l’avvocatura non costituisce l’eccezione. Tante nuove associazioni sui territori, le istanze dei colleghi sempre più numerose (a tratti anche variegate, populiste e contraddittorie), le associazioni specialistiche e specializzate nella formazione che rivendicano l’esclusività nella materia di competenza, l’associazionismo per ricevere qualcosa in cambio, le defezioni per il venir meno degli interessi del singolo, il dualismo sulla rappresentanza tra associazioni e ordini professionali, il rapporto con la politica, la primazia dei ruoli e la primogenitura delle idee, la confusione su chi rappresenta chi e l’uso strumentale della confusione, il rapporto tra le strutture nazionali e quelle territoriali, il rapporto con le istituzioni, le altre associazioni e con la società, il rischio dell’autoreferenzialità: tutti elementi che non possono e non devono essere sottovalutati per far fronte a problematiche sempre più complesse, rimarcare nel tempo incisività ed autorevolezza dell’azione e delle iniziative dell’associazione, Questo è il lavoro che ci attende, ci sarà molto da fare. L’aspetto più importante in questo momento storico, tuttavia, è un altro: recuperare, dopo un anno difficile per tutti, una dimensione umana e fisica dell’incontro, del confronto e della passione per quello che facciamo, della quale nessuna tecnologia può privarci. Campania. Prezzi maggiorati e niente sconti, per i detenuti il cibo diventa lusso di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 11 settembre 2021 Sapete quanto valgono colazione, pranzo e cena di chi vive dietro le sbarre? Complessivamente, non più di tre euro e 90 centesimi. Ecco la cifra che la ditta affidataria sborsa, in Campania, per i tre pasti quotidiani dei detenuti che, di conseguenza, sono costretti ad acquistare personalmente generi di prima necessità a cifre spesso maggiorate e senza beneficiare di alcuno sconto. A denunciarlo è Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti, che invoca una riforma delle modalità con cui vitto e sopravvitto vengono gestiti nei penitenziari della Campania. “L’appalto ministeriale per il servizio di mantenimento dei detenuti prevede che l’approvvigionamento alimentare sia assegnato in base al costo più basso - spiega Ciambriello - E l’aggiudicatario è tenuto ad assicurare anche il servizio per il sopravvitto. Qui bisogna evidenziare che il valore economico del sopravvitto raggiunge circa il 50% dei volumi complessivi, rappresentando una fetta cospicua di ogni singolo accordo. In altre parole, la gara per assicurare colazione, pranzo e cena ai detenuti è affidata in base al criterio del massimo ribasso. Tanto poi, per chi vive in cella, c’è il sopravvitto. Già, perché i detenuti possono acquistare beni di prima necessità al di fuori del vitto ordinario. Ma spesso sono costretti a farlo a prezzi più alti almeno di 20 centesimi rispetto al costo consueto e senza la possibilità di beneficiare degli sconti spesso previsti per i prodotti a breve scadenza. Senza dimenticare che la gamma di prodotti e marche a disposizione dei reclusi è assai limitata. Ciò si verifica per pasta, acqua, shampoo, dolciumi e bombolette di gas per i fornellini, come denunciato anche dagli avvocati delle Camere penali campane che a Ferragosto hanno visitato le carceri di Santa Maria Capua Vetere, Bellizzi e Ariano Irpino. Questa situazione si traduce immancabilmente in un supplemento di pena per i detenuti. Ciascuno di essi, infatti, dispone di 150 euro a settimana da spendere per il sopravvitto. Se il vitto è scarso e i prezzi per i generi di prima necessità acquistabili sono puntualmente maggiorati, quei 150 euro rischiano di non bastare. Con la conseguenza che sono le famiglie dei detenuti, spesso e volentieri indigenti, a dover sostenere ulteriori spese per garantire gli indispensabili generi di prima necessità ai congiunti che si trovano in cella. Risultato: se si fa una stima economica delle risorse investite dai familiari e dai reclusi nei soli istituti di Poggioreale e Secondigliano, sono addirittura 14 i milioni di euro spesi in un solo anno. “Una circolare, risalente al 1988 ma ancora in vigore, impone costanti, puntuali e penetranti controlli in ordine al servizio del sopravvitto per detenuti con particolare attenzione ai prezzi e di fornire al Comune l’elenco dei generi posti in vendita specificando per ognuno qualità, marca e prezzo - conclude Samuele Ciambriello - Questo, però, non avviene. Se vogliamo assicurare una giustizia equa sia dentro sia fuori dal carcere, i prezzi devono essere adeguati, in tutti gli istituti, a quelli di mercato: solo così si può mettere fine a quella che è un’autentica e inaccettabile speculazione. Lombardia. Covid, più del 92 per cento dei detenuti è vaccinato di Simona Buscaglia fanpage.it, 11 settembre 2021 Nelle carceri lombarde il 92 per cento dei detenuti è stato vaccinato. Ad annunciare il risultato è stata la vicepresidente e assessora al welfare Letizia Moratti. “Oggi ho incontrato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, Pietro Buffa, che ho ringraziato per l’impegno profuso nella campagna vaccinale all’interno delle case circondariale” ha scritto in un messaggio su Facebook. Più del 92 per cento dei detenuti nelle carceri lombarde è stato vaccinato. Lo ha annunciato in un post su Facebook la vicepresidente e assessora al welfare Letizia Moratti. “Oggi ho incontrato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, Pietro Buffa, che ho ringraziato per l’impegno profuso nella campagna vaccinale all’interno delle case circondariali - ha aggiunto Moratti - pregandolo di estendere il mio plauso al personale penitenziario e ai detenuti. I detenuti nelle carceri lombarde “hanno dimostrato uno spiccato senso civico nell’aderire alla vaccinazione e che oggi rappresentano un esempio per tante altre categorie” ha concluso la vicepresidente. Intanto, anche se l’ultima parola sulle categorie prioritarie e la data di avvio per la terza dose della campagna vaccinale anti-Covid spetta al ministero della Salute e al commissario Figliuolo, Regione Lombardia sta proseguendo i colloqui con le Ats (Agenzia di tutela della salute) e le Asst (Aziende Socio Sanitarie Territoriali) per individuare i centri dislocati sul territorio per la somministrazione. Al momento Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha espresso il parere favorevole per gli immunodepressi. Tra questi, ad esempio, figurano coloro che hanno subito un trapianto di organo o hanno patologie gravi. In Lombardia i vulnerabili sono circa mezzo milione. Ariano Irpino (Av). Detenuto suicida in carcere: trovato impiccato in cella Il Mattino, 11 settembre 2021 Ancora una tragedia nel carcere di Ariano Irpino. Un detenuto si è suicidato. A decidere di farla finita un 53enne calabrese che è stato trovato impiccato nella sua cella da un agente della Polizia Penitenziaria. Immediati sono scattati i soccorsi, ma per il 53enne era ormai troppo tardi. Il detenuto era arrivato nella casa circondariale arianese circa un mese fa. La Procura della Repubblica di Benevento ha avviato le indagini per fare chiarezza sulla vicenda. La salma è stata trasferita all’obitorio dell’ospedale Moscati di Avellino a disposizione dell’autorità giudiziaria. Cosenza. “Non stia in carcere, è malato. Muore in cella a 46 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 settembre 2021 Pasquale Francavilla è morto ieri mattina nel carcere di Cosenza. Gli mancavano soltanto 10 mesi da scontare, secondo i medici le sue condizioni erano incompatibili con la detenzione. Due settimane fa si è sentito malissimo e lo hanno ricoverato d’urgenza presso il reparto di rianimazione dell’ospedale. Gli hanno salvato la vita in extremis. Nonostante le condizioni, quattro giorni fa lo hanno riportato nel carcere di Cosenza. I sanitari dell’istituto hanno subito constatato che era incompatibile con detenzione in un penitenziario. Ma non ha fatto in tempo ad essere ricoverato: questa mattina è morto. Una vicenda drammatica sotto ogni punto di vista. Parliamo di Pasquale Francavilla, 46 anni, detenuto definitivo per una condanna per associazione, ridotta in appello a meno di 7 anni di carcere. Gli mancavano 10 mesi da scontare e poteva finalmente essere libero di abbracciare la moglie e due figli. Eppure arriva il malessere che man mano si è aggravato, tanto da finire in rianimazione. C’è l’avvocato Mario Scarpelli, difensore del detenuto deceduto, che spiega a Il Dubbio: “Francavilla necessitava di un intervento chirurgico, ma nel frattempo al penitenziario di Cosenza gli è sopraggiunto un trombo alla gamba. Stava perdendo la vita. Trasportato d’urgenza in ospedale, gli hanno salvato la vita in extremis. Finito l’intervento, viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva. E proprio cinque giorni fa, l’avvocato Scarpelli lo ha sentito in videochiamata: “L’ho visto sofferente, mi ha detto che lo avrebbero dimesso dall’intensiva e ricoverato in un reparto. Francavilla, teoricamente, doveva quindi essere dimesso dalla terapia intensiva e ricoverato presso un reparto apposito. Ma così non è stato. “Inspiegabilmente - denuncia l’avvocato Scarpelli -, contro ogni previsione, lo dimettono e il giudice di sorveglianza di Cosenza lo rimanda in carcere. Come mai? “La mia collaboratrice va subito dal magistrato per capire il motivo di quella disposizione, e in tutta risposta la giudice ha detto che non aveva ancora la cartella clinica. Un fatto, secondo l’avvocato, singolare. “Mi chiedo come sia possibile disporre la carcerazione quando ancora non si ha contezza della situazione clinica! Anche se c’era stata una lettera di dimissioni firmata dal medico dell’ospedale, bisogna prima valutare in base alla cartella”, chiosa l’avvocato. Resta il fatto che Francavilla, pochi giorni fa, rientra in carcere. Questa mattina si è alzato, fatto colazione e dopodiché ha iniziato nuovamente a non sentirsi bene. Ha cominciato a sudare eccessivamente, lo hanno quindi mandato nell’infermeria del carcere e il medio ha chiamato prontamente il 118. Ma troppo tardi. Francavilla muore. Domani sarà eseguita l’autopsia disposta dal pubblico ministero. Un atto dovuto l’apertura di un fascicolo. Accade ogni qual volta muore un detenuto. Ma la questione sarà portata avanti dai familiari, perché c’è stata una chiara incompatibilità con il carcere. A chiedere giustizia a gran voce sono anche i detenuti del carcere di Cosenza che hanno inscenato una battitura. A tal proposito, l’avvocato Emilio Quintieri ha segnalato la questione al Garante Nazionale delle persone private della libertà. Ferrara. Suicida in carcere: quattro indagati di Benedetta Centin Corriere di Bologna, 11 settembre 2021 Il detenuto, 29 anni, aveva scritto una lettera alla fidanzata. Ma lo scritto non è mai stato spedito. Suicida in carcere. Ci sono dei nomi di indagati, almeno quattro, iscritti sulla copertina del fascicolo aperto dalla procura di Ferrara in merito alla morte in cella di un ventinovenne di Cento, arrestato il giorno prima, trovato con droga e pure un’arma rubata. Pare che avesse scritto una lettera alla fidanzata in cui la salutava un’ultima volta. Uno scritto che non è stato spedito e che è stato in seguito rinvenuto dagli inquirenti. Per martedì è prevista l’autopsia disposta dal procuratore capo Andrea Garau. Un esame irripetibile a cui potranno partecipare gli indagati con un proprio consulente. Il detenuto il primo settembre era stato rinvenuto dagli agenti verso le 15, nella cella della sezione “nuovi giunti” in cui era stato recluso il giorno prima. Purtroppo però per lui non c’era più nulla da fare per lui. E ora a rispondere della tragedia potrebbe essere chi avrebbe dovuto vigilare su di lui. Al momento non è dato sapere la contestazione formalizzata ma potrebbe essere ipotizzata la morte come conseguenza di altro reato. Il ventinovenne stato arrestato il giorno precedente per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Gli erano infatti stati sequestrati quantitativi di marijuana e hascisc, ma anche soldi, per gli investigatori il guadagno dell’attività di spaccio, ma anche bilancini di precisione e una pistola semiautomatica, risultata dagli accertamenti rubata. Roma. Detenuta 23enne partorisce in cella, Cartabia manda gli ispettori di Liana Milella La Repubblica, 11 settembre 2021 L’incredibile storia di Amra e di sua figlia, nata dietro le sbarre senza un motivo. Il giudice che decise la carcerazione della ragazza incinta: “Il fatto che sia in stato interessante non impedisce l’applicazione della misura di maggior rigore. Ha partorito da sola, in una cella del carcere di Rebibbia, al termine di un calvario giudiziario e ospedaliero su cui adesso si concentra l’attenzione della Guardasigilli Marta Cartabia e dei suoi ispettori. Un dramma tutt’altro che inaspettato, visto che pochi giorni prima di dare alla luce una bambina, Amra era ricoverata in una stanza dell’ospedale Pertini di Roma per una minaccia di aborto. Ma dall’ospedale la detenuta è tornata in carcere, dove ha partorito, assistita solo dalla sua compagna di cella. Il 18 agosto, Amra, 23 anni, ha rischiato di perdere la sua quarta figlia. Gli altri tre bimbi li ha cresciuti in una roulotte parcheggiata in un terreno vicino Ciampino. Gli atti raccontano di un compagno assente e di una vita fatta di tanti piccoli furti. Proprio come quello per cui il 23 giugno è stata accompagnata in tribunale dai carabinieri che la hanno beccata a rubare in un tram: un portafoglio con all’interno 40 euro. Una routine, per Amra e le sue tre complici, di cui due incinte e tutte con fedine penali consistenti. Nonostante le tre donne fossero “in avanzato stato di gravidanza”, spiega la giudice Isabella Russi, devono essere accompagnate in carcere. C’è il pericolo che tornino a delinquere, non lavorano e non hanno una dimora stabile. E “il fatto che le arrestate abbiano figli minori e tre di esse siano in stato interessante” non impedisce “l’applicazione della misura di maggior rigore. La giudice quel giorno rigetta anche l’istanza di patteggiamento proposta dal legale della donna, il penalista Valerio Vitale. Così per Amra e le sue amiche si aprono le porte del carcere, dove la ragazza resta nonostante il suo avvocato, certificati medici in mano, racconti delle minacce di aborto, dei rischi corsi durante le precedenti gravidanze terminate prematuramente e delle esigenze dell’ultimo figlio di Amra, un bimbo di 9 mesi che dovrebbe essere allattato. Il 14 agosto poi la garante dei detenuti del Lazio bussa alla porta dell’infermeria di Rebibbia: “In quel momento erano ricoverate 14 donne, anche psichiatriche, in condizioni terribili: molte urlavano, una sbatteva la testa al muro, un’altra si strappava i peli del pube con i denti”, racconta la garante Gabriella Stramaccioni ricordando di aver scritto al tribunale appena tre giorni dopo per chiedere il trasferimento di Amra in una comunità: “Nessuno ha risposto. E il giorno dopo, il 18 agosto, Amra viene “ricoverata per un’emorragia”, racconta Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti. Poi torna in carcere e il primo giorno di settembre partorisce, aiutata solo dalla compagna di cella: “Sono stata brava”, gioisce l’improvvisata ostetrica. Per Amra, il 3 settembre scorso, il suo avvocato ha ottenuto il patteggiamento a 1 anno e 4 mesi di reclusione. E fuori dal carcere e dovrà stare lontano da Roma andando a firmare davanti alle forze dell’ordine di Pomezia. “Una vicenda simile non mi era mai capitata. Si è trattato pur sempre di un tentato furto e non posso credere che vi erano esigenze cautelari di “eccezionale rilevanza”, tali da non poter essere soddisfatte con misure non detentive. A nulla è valso anche il mio tentativo di sensibilizzare il tribunale”, commenta l’avvocato Vitale. “Dobbiamo portare tutte le detenute madri fuori dal carcere” dice la Guardasigilli Marta Cartabia dopo aver letto su Repubblica la storia di Amra. La ministra ha messo il caso nelle mani di Maria Rosaria Covelli, la magistrata che guida gli ispettori di via Arenula. La storia di Amra segna anche Dino Petralia, il capo delle carceri italiane, che per tutta la giornata è stato in contatto con la ministra: “Ogni madre con un bambino in carcere rappresenta un disagio, e anche una pena. Tutte le misure possibili vengono gestite dai magistrati anche con una certa oculatezza, tant’è che ne abbiamo solo 11 in custodia, ma l’obiettivo è cancellare questa cifra. Ma non abbiamo noi il governo di questo orizzonte, ce l’ha l’autorità giudiziaria. Un modo per dire che Amra non doveva entrare in carcere e non doveva restarci? Petralia non dice di più. Catanzaro. In cella da 30 anni, gli viene negata la visita alla tomba della moglie Il Riformista, 11 settembre 2021 Il 16 agosto una delegazione del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino ha fatto visita al Carcere di Catanzaro. Il giorno dopo, Teofilo Adeodato, un detenuto promosso sul campo “osservatore speciale” di Nessuno tocchi Caino, ci ha mandato un testo che qui pubblichiamo (altri seguiranno). L’articolo 3 della Costituzione afferma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, mentre l’Ordinamento Penitenziario, che a questo articolo oltre che all’articolo 27 s’ispira, dichiara all’articolo 1 che “il trattamento deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della persona… tende al reinserimento sociale ed è attuato secondo un criterio di individualizzazione.” Parole d’un nitore adamantino, principi luminosissimi e profondi, di civiltà. Peccato siano smentiti categoricamente dai fatti. Basti citare l’impossibilità pei detenuti di votare (dunque partecipare alla vita del paese) e, per diverse migliaia di questi, di accedere a forme alternative di espiazione in virtù di un sempre più ampio regime ostativo inquadrato dall’art. 4-bis O.P., un vero e proprio insulso doppio binario, donde si vien giudicati per la tipologia del reato (altro che criterio individualizzante!). In Italia, purtroppo, bisogna pregare Iddio e sperare di finire in un carcere ove questi principi sono recepiti e applicati, in particolare dai magistrati di sorveglianza competenti per territorio. Ma, ahinoi, son davvero pochi quelli che hanno un tale orientamento giuridico-culturale. Una storia di ordinaria ostatività è, ad esempio, quella di M.S., ergastolano di 70 anni d’età e 30 di detenzione, effettiva e ininterrotta dal ‘91 (con buona pace di quelli che amano ripetere che “l’ergastolo in Italia nessuno lo sconta”, “pochi anni e stanno fuori” ). M.S. rimase vedovo tre anni fa, ma a far visita alla moglie non poté andare poiché secondo il magistrato di sorveglianza di Catanzaro, in fede a una informativa di P.S., “per accedere alla cappella privata del cimitero Nuovissimo di Poggioreale, ove era tumulata la moglie, occorreva contattare i familiari della stessa, fatto che poteva creare problemi di ordine e sicurezza pubblica all’interno del cimitero stesso. Rigettando l’appello del M.S., sulla falsariga del magistrato, il tribunale di sorveglianza ha rincarato la dose dicendo che “il cimitero di Napoli è, dal notorio assai noto (sic!), luogo di incontri-scambi-profitti-gestione da parte dei camorristi apicali. Non sappiamo se e quanto le note serie televisive nostrane abbiano influito su una tale motivazione, ma siamo persuasi che in tutta questa storia il “conforme a umanità” e il “rispetto della persona” siano andati del tutto smarriti. Inoltre, M.S., per vedersi riconosciuta la “inesigibilità della collaborazione” al fine d’accedere a qualche beneficio è dovuto ricorrere più volte per Cassazione. Il fatto è che M.S. risulta aver espiato da anni la parte ostativa della sua pena e che proprio per ciò gli fu revocato il 41-bis; che il “fine pena mai” che sconta, pertanto, è “comune” e che non dovrebbe stare in un circuito d’Alta Sicurezza qual è quello in cui si trova. Per cinque anni M.S. ha assistito a un ping pong tra Suprema Corte e Tribunale di Sorveglianza, con quest’ultimo che non voleva rassegnarsi a recepire e riconoscere quanto era evidente per i supremi giudici e, in un certo senso, l’ha avuta vinta: dopo che è intervenuta la Consulta con la nota sentenza del 2019 - quella che, secondo Travaglio & Co, avrebbe liberato orde di mafiosi - che ha rimosso la preclusione assoluta di benefici a condannati per reati targati 4-bis, non v’era più materia del contendere. Vedremo se e quando al M.S. sarà concessa un’ora di “libertà” dopo una vita di reclusione. Pur consapevoli dell’orientamento claustrofilo del magistrato di sorveglianza di Catanzaro, non è da noi disperare che abbiamo fatto di “Spes contra spem” la nostra “divisa”, come il Profeta Abramo. Semplicemente gridiamo “nessuno tocchi Caino” per una giustizia senza vendetta, che salvi innanzitutto lo Stato dal marchio di Caino. (Continua) Alcuni giorni dopo l’arrivo del testo di Teofilo Adeodato, la lettera di un altro detenuto, Luigi Iannaco, ci ha comunicato la triste notizia di una “morte annunciata e voluta di un uomo solo perché detenuto. Michele Carosiello, un uomo di 40 anni di Cerignola, padre di due figlie, dopo dieci giorni di febbre alta e a seguito delle proteste dei detenuti, era stato finalmente ricoverato all’ospedale di Catanzaro dove, purtroppo, il 23 agosto è morto di setticemia. “La sua famiglia ha avuto il coraggio, l’ardire, e l’umanità di portarlo da morto sotto il carcere per fargli dare l’ultimo saluto da parte nostra. Ho visto quella bara, ho visto la moglie e ho visto due ragazzine che sono le sue figlie, e in quel momento mi sono rivisto in quella bara,” scrive Luigi Iannaco nella lettera sottoscritta da altri 14 detenuti. Brindisi. “Le aziende siglino protocolli per il reinserimento dei detenuti” brindisireport.it, 11 settembre 2021 La visita della sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che si sofferma sulle convenzioni che permettono il processo di integrazione dei detenuti. L’auspicio per il carcere di Brindisi è che le aziende siglino protocolli, per il reinserimento dei detenuti, spiega Anna Macina. Questa ieri mattina (10 settembre 2021) la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina ha visitato il carcere di Brindisi. Ad accompagnarla il provveditore di Puglia e Basilicata Giuseppe Martone e una delegazione dei vertici del penitenziario, fra cui la direttrice reggente Maria Teresa Susca e il comandante di reparto Benvenuto Greco. La sottosegretaria ha visitato tutte le sezioni della casa circondariale, compreso il nuovo padiglione di prossima inaugurazione. “La visita di questa mattina - dichiara Macina - mi ha permesso di approfondire la conoscenza dell’importante realtà penitenziaria di Brindisi. Ho potuto visitare il nuovo padiglione dell’istituto, in cui lo Stato ha investito oltre 3 milioni e mezzo di euro, che fra poco potrà essere utilizzato, mettendo a disposizione nuovi e più adeguati spazi. Ritengo sia altrettanto fondamentale il ruolo svolto dalle convenzioni sottoscritte con gli enti territoriali nell’integrazione dei detenuti che possono svolgere attività lavorativa. “L’auspicio - prosegue il sottosegretario - è che anche le aziende del territorio siglino queste convenzioni e/o protocolli, per irrobustire il processo di integrazione di chi ha assoluta necessità di rientrare armonicamente nel tessuto sociale, contribuendo ad abbassare il tasso di recidiva. E’ stata una visita utile e ricca di stimoli, in cui ho raccolto le testimonianze di chi vive quotidianamente la realtà carceraria e si occupa della sua gestione. Il prossimo 14 settembre sarò a Rebibbia, dove proseguirò questa serie di visite negli istituti di pena del nostro Paese” conclude. Alessandria. HOPe, un luppoleto nel carcere di Giulia Martinelli cittanuova.it, 11 settembre 2021 Dall’unione dell’Associazione Ises, di Cooperativa Sociale Idee in Fuga, e del Carcere di Alessandria nasce HOPe, un progetto sperimentale per la creazione di un luppoleto all’interno del carcere. Il terreno è già stato messo a disposizione dalla struttura penitenziaria di Alessandria, dove l’associazione Ises con la cooperativa sociale Idee in Fuga, ha dato vita al progetto HOPe, per la realizzazione di un luppoleto all’interno del carcere. L’obiettivo è la coltivazione e la crescita di almeno 50 piante di diversi rizomi, in modo da coprire le principali necessità birricole. La novità riguarda l’ambito agricolo, i detenuti coinvolti nel progetto infatti non si occuperanno solo della fase finale della produzione ma anche della coltivazione, grazie ad un corso di formazione gestito da un esperto di luppoleti. L’obiettivo è far conoscere le caratteristiche della pianta, imparare a gestire un luppoleto, fino alla raccolta e alla lavorazione finale. Un luppolo sociale e solidale che verrà utilizzato dalla cooperativa Idee in Fuga per le birre Fuga di sapori, che saranno vendute sul sito e nella Bottega. Ad occuparsi della trasformazione del luppolo in birra ci penserà invece il birrificio Trunasse e come ricompensa per chi ha contribuito alla realizzazione del progetto è prevista una degustazione nel beergarden del birrificio non appena le birre saranno pronte. La cooperativa sociale Idee in Fuga è già attiva nell’istituto penitenziario Cantiello e Gaeta di Alessandria con l’obiettivo di creare lavoro per i detenuti. Tra i progetti c’è un laboratorio artigianale di falegnameria per la produzione di mobili e accessori di arredamento realizzati principalmente con materiali riciclati. Il laboratorio impiega 5 detenuti a tempo pieno, restituendo loro dignità e autonomia, sempre con un occhio all’ambiente e al riciclo. E tra le mura del carcere è nata anche Fuga di sapori, la prima bottega solidale che espone e vende i prodotti realizzati nelle altre carceri italiane. Ci sono dolci e marmellate prodotte nel carcere di Mantova, detersivi naturali prodotti nel carcere di Trento, la Rubentjna, birra prodotta utilizzando il luppolo coltivato dai detenuti della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino e molto altro. Il progetto del luppolo galeotto, come quello della falegnameria, ha come sfida principale la rieducazione e il reinserimento lavorativo dei detenuti, così da ridare fiducia a persone socialmente marginalizzate, diminuendo il rischio di recidiva e creando posti di lavoro. Il progetto, per ora in fase sperimentale, coinvolge due detenuti che iniziano il percorso come volontari, chi è interessato riceverà una borsa di lavoro di 6 mesi fino all’assunzione nella cooperativa. E se il progetto avrà successo, l’idea è di aumentare gli ettari da poter coltivare così da riuscire ad impiegare un maggior numero di persone. 2001, odissea nel futuro. Vent’anni di sorveglianza di Francesca De Benedetti Il Domani, 11 settembre 2021 L’11 settembre è stato la crisi e l’alibi perfetto per avviare senza mandato democratico la sorveglianza dei cittadini. C’è stato un prima, e il dopo si estende per venti anni. Ma i tre giorni che vanno dall’11 al 14 settembre 2001 sono l’innesco della sorveglianza di massa. Serviranno anni perché se ne sappia qualcosa, e non sono bastati due decenni per disinnescarla, anzi: la presa sui nostri dati cambia forma ma è pervasiva come non mai. La guerra al terrore dichiarata da Washington nel 2001 si rivela oggi per quello che è: anzitutto una guerra alla nostra riservatezza. L’11 settembre è ancora tra noi. C’è stato un prima, e il dopo si estende per venti anni. Ma i tre giorni che vanno dall’11 al 14 settembre 2001 sono l’innesco della sorveglianza di massa. Serviranno anni perché se ne sappia qualcosa, e non sono bastati due decenni per disinnescarla, anzi: la presa sui nostri dati cambia forma ma è pervasiva come non mai. La guerra al terrore dichiarata da Washington nel 2001 si rivela oggi per quello che è: anzitutto una guerra alla nostra riservatezza. 11 settembre. L’innesco - “Era un pandemonio, il caos: le nostre più antiche forme di terrore. Entrambe fanno riferimento a un collasso dell’ordine e al panico che si crea per riempire il vuoto. Le parole sono di Edward Snowden, che nel 2013 con il datagate svela all’opinione pubblica di tutto il mondo il sistema di sorveglianza statunitense. L’11 settembre 2001 Snowden è ancora un freelance dell’informatica, e mentre avviene l’attacco alle torri gemelle si trova proprio in una base militare; il marito della sua capa dell’epoca lavora per la National security agency. “Ricorderò per tutta la vita il momento in cui ripercorsi Canine road, la via accanto alla sede dell’Nsa, dopo che il Pentagono era stato attaccato”, racconta nel suo memoir Errore di sistema. “All’interno dell’edificio dai vetri scuri era scoppiato il finimondo. Nel momento del peggior attacco terroristico della storia statunitense, lo staff dell’Nsa - la più grande agenzia di intelligence - stava abbandonando in massa il posto di lavoro, e io mi ritrovai proprio in mezzo a quel delirio. Con l’11 settembre, dirà poi il giornalista Glenn Greenwald, colui che darà voce a Snowden scrivendo lo scoop del datagate e che per questo vincerà un Pulitzer, “si instaurò un clima improntato al culto della sicurezza a qualunque prezzo e favorevole al proliferare degli abusi di potere. La guerra scatenata dall’11 settembre, la war on terror, la guerra al terrore, fondata anzitutto sul terrore introiettato in quei frangenti nell’opinione pubblica, “era una guerra fatta di eccezioni”, dice Snowden. La prima grande eccezione fu la sorveglianza di massa. Autunno 2001. La virata - Sono passati appena tre giorni dall’attacco terroristico - è il 14 settembre - e Michal Hayden, che all’epoca dirige l’Nsa, ha già pronta la svolta: decide che è il momento di iniziare a spiare le comunicazioni digitali di chi si trova nel paese. Il 4 ottobre il presidente George W. Bush in persona sigla un memorandum con il quale autorizza “a svolgere attività di sorveglianza elettronica” non solo per individuare ma anche “per prevenire” episodi di terrorismo negli Usa. Non soltanto la mossa tattica di Hayden, ma anche quella più di rilievo della Casa Bianca stessa, avviene senza che il Congresso ne sia informato, in un clima di segretezza che dura anni e che solo le rivelazioni di whistleblower alla stampa portano alla luce. Attraverso le soffiate di informatori interni all’Nsa e al dipartimento di Giustizia, nel 2005 si viene a sapere di questo “President’s Surveillance Program” (PSP) avviato nell’autunno di quattro anni prima. Con il PSP l’agenzia di sicurezza nazionale ha il via libera di intercettare telefonate e comunicazioni via internet, coinvolgendo anche cittadini non statunitensi, visto che il controllo si allarga alle interazioni tra chi si trova in Usa e paesi stranieri. Tutto questo avviene non solo al di fuori di ogni dibattito democratico, ma anche senza alcun mandato da parte della Foreign intelligence surveillance court, ovvero il tribunale federale segreto che fino a quel momento aveva vagliato le richieste di spiare i cittadini. Nel frattempo il 26 ottobre 2001 il Patriot Act siglava il passaggio definitivo a un regime di sorveglianza: dentro questa cornice normativa, e con la motivazione della guerra al terrorismo, Bush abbatté ogni barriera tra l’intercettazione mirata, durante una indagine, e quella massiccia. Oltre alla guerra preventiva, iniziava l’era della sorveglianza, preventiva. E indifferenziata. Prima e dopo - La rapidità con cui Washington costruì il suo grande fratello fa intuire che l’11 settembre non fu che il momentum, l’innesco perfetto, di un piano già in cantiere. Di progetti per lo spionaggio globale si discuteva con preoccupazione in Europa già dalla fine degli anni Novanta, e a istituzionalizzare la questione fu proprio l’europarlamento. Nel luglio 2000, dopo aver letto i contenuti allarmanti di un report (“Stoa” ), gli eurodeputati imbastirono una commissione temporanea sul “sistema di intercettazioni Echelon”, e l’anno seguente - un paio di mesi prima delle torri gemelle - produssero una risoluzione. Che attestava, tra le altre cose, questo: “I servizi di intelligence statunitensi non si limitano a investigare sui nostri affari economici, ma intercettano comunicazioni dettagliate tra le aziende, giustificando tutto questo come lotta alla corruzione. Prima del terrorismo, l’alibi evidentemente era questo, per quel che agli eletti era dato sapere; ma già anticipavano, e mettevano in guardia, sui “rischi per i diritti dei cittadini. Dopo l’11 settembre la deriva fu definitiva. Snowden diventò esperto informatico della Cia, nel 2005, proprio perché il sistema di intelligence era ormai diventato così ampio da reclutare tecnici in modo sempre più diffuso. L’anno dopo, nel 2006, grazie alle rivelazioni di Mark Klein, whistleblower prima ancora dello stesso Snowden, si venne a sapere che l’Nsa raccoglieva le comunicazioni attraverso AT&T e almeno altri sedici provider. Nel 2007 l’amministrazione Bush provò a far credere che il programma di spionaggio era stato interrotto, ma non era affatto così. Rivelazioni e disillusioni - “Direttore Clapper, mi risponda con un sì o con un no. Si rivolge così, al capo dell’intelligence, il senatore democratico Ron Wyden durante un’udienza al Senato nel marzo 2013: “L’Nsa raccoglie dati di un qualsiasi tipo, siano essi di milioni o di centinaia di milioni di americani?. “No”, risponde il generale. “Non intenzionalmente. Pochi mesi dopo succede qualcosa che rende insostenibile quella bugia. Comincia con un titolo, che recita: “La Nsa rileva ogni giorno i tabulati telefonici di milioni di clienti Verizon. E prosegue così: “La Nsa, forte di una sentenza emessa in aprile e coperta da massimo segreto di stato, ingiunge a Verizon di comunicare tutti i metadati telefonici in suo possesso, dando la misura della sorveglianza interna sotto Obama. Questo articolo uscito sul Guardian il 6 giugno 2013 a firma Glenn Greenwald è il primo di una serie che diventa poi “lo scandalo datagate” ; il tutto emerge grazie alle rivelazioni di Edward Snowden, che all’epoca era un analista di infrastrutture per la Booz Allen Hamilton, azienda fornitrice di servizi alla Difesa. Lavorando sia per aziende private quanto per la Cia, l’informatico aveva potuto “vedere in prima persona lo stato, specialmente l’Nsa, agire in combutta con l’industria privata delle tecnologie per accedere senza più restrizioni alle telecomunicazioni della gente. Questo ai suoi occhi era “un mondo che soffoca i valori fondanti di internet”, e lui allora decise di “consentire all’opinione pubblica di stabilire se vogliamo andare avanti così” : ecco come Snowden spiegò il suo gesto. Che ha ancora conseguenze visibili per lui, in esilio perché dagli Usa pende l’accusa di spionaggio, e per gli altri whistleblower, che anche grazie alla sua storia hanno guadagnato lo statuto di sentinelle della democrazia. Il 2015. Una svolta a metà - Ciò che il datagate ha svelato è anche la continuità bipartisan del grande fratello. Fu Obama ad esempio nel novembre 2012 a firmare una direttiva per una offensiva telematica all’estero; fu durante il suo mandato che Prism, il programma di sorveglianza, ampliò il proprio raggio d’azione: nel 2009 i dati di Google e Facebook, l’anno dopo quelli di YouTube, nel 2011 di Skype e Aol… Nel 2013 in soli 30 giorni venivano raccolti 47 milioni di metadati dell’Italia: neppure noi siamo stati risparmiati dall’Nsa. I leader europei sono stati intercettati, Angela Merkel fu spiata da un’ambasciata americana a Berlino. L’intelligence americana ha puntato occhi, orecchie e centri di raccolta dati in paesi europei e nel Regno Unito. Nel frattempo è emerso in modo sempre più chiaro che quello tra sicurezza e libertà era un falso bivio: la sorveglianza indiscriminata verso la popolazione non era giustificata da criteri di efficacia; chi ha compiuto attentati il più delle volte era già noto alle autorità. Nonostante l’Nsa usi come alibi per il grande fratello la prevenzione di altri 11 settembre, l’unico esempio a cui può appigliarsi è quello dell’estremista Basaalay Moalin; ma anche in questo caso - è un tribunale ad asserirlo - il fatto che le sue telefonate fossero origliate non ha avuto ruolo nella sua condanna. Il 2015 è stato l’anno della svolta a metà. Per placare la propria opinione pubblica, Obama trovò un compromesso coi repubblicani e il Freedom Act, che limitava i poteri di sorveglianza dell’Nsa, fu approvato. Ma il 2015 è anche l’anno in cui con la Corte di giustizia europea costringe l’Europa a fare i conti con la sorveglianza Usa nei confronti di europei, e invalida l’accordo “Safe Harbor” per il trasferimento dei dati Usa-Ue. Venti anni dopo - Max Schrems, l’attivista per la privacy che innescò quella sentenza - chiamata appunto “Schrems” - dice oggi che “gli Usa continuano a negare diritti a noi cittadini non statunitensi” e che “serve un no-spy agreement, un accordo anti sorveglianza che coinvolga almeno i paesi occidentali che si definiscono democratici. Nonostante il datagate, l’era della sorveglianza di massa non è affatto finita; anzi, si evolve. “Tutti noi che ci occupiamo di surveillance studies - dice Fabio Chiusi - vediamo anzi che vengono normalizzate idee molto pericolose come quella di tracciare indiscriminatamente tutti i nostri spostamenti, e lo vediamo anche nella risposta data alla pandemia. Chiusi, che guida il progetto Tracing the tracers per AlgorithmWatch, dice che “tra raccolta di dati sanitari e biometrici, tentativi di sdoganare il riconoscimento facciale come fosse la normalità, controlli ai confini sempre più pervasivi, assistiamo a una spinta per espandere le infrastrutture di controllo. L’11 settembre è ancora qui, tra noi: 2001, odissea nel futuro. Con il nuovo Eurodac schedatura biometrica di tutti i migranti di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 11 settembre 2021 Immigrazione. L’Europa alza ancora di più le sue mura. Pronto un database biometrico universale di tutti gli extracomunitari che transitano nell’Unione. Anche se minorenni. Per il nuovo “Eurodac” manca solo il via libera del parlamento di Strasburgo. Schedare i bambini, come nei romanzi distopici a grande tiratura. I bambini di sei anni. Prender loro addirittura le “impronte” degli occhi. Schedarli. E con loro, tutti quelli di qualsiasi età che provano ad entrare nella fortezza Europa. Per costruire un gigantesco database coi nomi, cognomi e “tratti” dei migranti - di tutti i migranti - che arrivano nel vecchio continente. Per controllarli. Uno per uno. Sempre e in ogni passo. Un controllo di massa, rinunciando a tutte le leggi che pure l’Europa si è data. Leggi però che sembrano proteggere solo i “suoi” cittadini. Farlo e fare tutto sotto silenzio. Invece è successo che una delle più serie e combattive associazioni per i diritti digitali - l’Edri - sia riuscita ad entrare in possesso del testo di riforma dell’Eurodac. Che cos’è? E’ una sigla poco conosciuta e decisamente strana - significa: European Dactyloscopie - e all’inizio doveva essere la banca dati, in comune dei paesi Ue, dove conservare le impronte digitali dei richiedenti asilo. Solo dei richiedenti asilo. E’ vecchia di quasi vent’anni, fu introdotta nel 2003 con un vincolo preciso: doveva servire esclusivamente a velocizzare le pratiche burocratiche e a stabilire a quale paese europeo destinare le domande di protezione. Ed evitare anche - così era scritto - che un migrante potesse presentare domande verso più paesi. Va detto che qualcuno - pochi in verità - già allora denunciò i possibili usi repressivi di quel database ma non ebbe molto ascolto. Così, cinque anni fa sono cominciati i primi tentativi di cambiare la funzione originale dell’Eurodac. Tentativi, solo tentativi, perché i paesi non riuscirono a trovare un accordo. Questo, fino a poco tempo fa. Quando in trattative delle quali nessuno ha mai saputo nulla, governi e commissione hanno deciso di accelerare i tempi per cambiare natura all’Eurodac. Ora manca solo un passaggio, la ratifica parlamentare del nuovo regolamento ma con l’accordo di tutti i governi sembra scontata. E a quel punto, il vecchio continente si troverebbe con una delle norme peggiori nel mondo. La meno rispettosa, con la sanzione definitiva che i “migranti non possono godere dei diritti dei cittadini europei. Il timbro ufficiale sul fatto che sono considerati di serie B, insomma. Sì, perché chi arriva, da qualsiasi parte del mondo provenga, dovrà subire un controllo invasivo e totale. Umiliante. Compresi i bambini, appunto, dai sei anni in su. Che saranno schedati biometricamente, verrà catturata anche l’immagine del loro volto e dell’iride. Come gli altri migranti, tutti, che dovranno essere schedati e le loro schede raccolte in questo gigantesco database. Esattamente come si usa per i criminali ricercati. Ed è proprio per questo che 31 organizzazioni per i diritti umani hanno scritto in questi giorni una lettera aperta all” Europa. Lettera diversa dalle tante altre che circolano sui temi più disparati. Perché stavolta i firmatari insistono esplicitamente sulla denuncia “politica” - è proprio la parola che usano - più che sugli aspetti tecnici. Per spiegare che tutto questo è “ingiustificato, inammissibile”, che fa a pugni “con gli standard internazionali sui diritti umani. Una norma drammaticamente sbagliata, allora. Non solo perché un po’ tutto il mondo si sta interrogando sui limiti e sugli errori dei cosiddetti riconoscimenti facciali ed è assai strano che la nuova Eurodac sia varata proprio mentre le istituzioni europee hanno cominciato a discutere sui limiti per l’intelligenza artificiale. Ma qui siamo ancora ai dettagli. Conta di più - e lo scrivono - che così l’Europa contraddice se stessa. Perché in base alle normative, le avanzatissime normative del vecchio continente, i dati personali possono essere raccolti da un’istituzione solo se sono scritti nero su bianco gli obiettivi del progetto. Per capire: vuoi i miei dati sanitari? Devi scrivere che ti servono solo a contenere la pandemia e a questo limite devi attenerti. E l’Eurodac, all’inizio, prevedeva appunto solo il rilevamento delle impronte digitali al fine di sveltire le pratiche delle domande di asilo. Cambiando gli obbiettivi dell’Eurodac - il controllo totale sui fenomeni migratori - la norma entra in contrasto col principio di “limitazione delle finalità”, per usare un’espressione burocratica. Se ci sono di mezzo i dati personali, insomma, non puoi solo aggiornare un provvedimento che era stato varato con ben altri scopi. Di più. In Europa, i dati possono essere usati solo col consenso individuale. E a parte che prima di sedici anni quel consenso non si può dare e comunque non avrebbe valore di legge, va ricordato che nella prima stesura di questa “riforma”, si prevedeva nientemeno che l’obbligo di fornire i dati da parte dei migranti, ipotizzando sanzioni per chi si fosse rifiutato. Ovviamente ciò deve essere sembrato troppo anche agli estensori ed infatti nell’ultimissima versione questa imposizione non c’è più. Se non nei casi nei quali la polizia lo ritenga necessario. E quindi, nella pratica tutti sanno che la rilevazione dei dati diventerà un obbligo di fatto. E già oggi le organizzazioni a difesa dei migranti denunciano che è una pratica diffusa. In Grecia, in Turchia, in Inghilterra. Ma poi, quei dati che fine faranno? Che uso si farà di quel data base che conterrà tutta la vita di chiunque superi una frontiera? Comprese le persone salvate in mare? Prima i dati dei soli richiedenti asilo venivano conservati per 18 mesi. Ora lo saranno di tutti per cinque anni. Creando così una gigantesca “black list” delle persone migranti. Utilizzabile per qualsiasi obiettivo. Tanto più che saranno tolti alcuni limiti all’accesso al data base. Qualsiasi polizia europea, quindi, potrà andare a sbirciare fra gli elenchi. E’ tutto? Ancora no. Perché su qualche nome - magari quello di chi, espulso, provasse a rientrare da un’altra frontiera - verrà aggiunta una “bandierina”, una spunta. Un segnale di pericolo, insomma. Che ovviamente segnerà la sua vita futura, le possibilità di restare, di trovare rifugio. Il tutto accompagnato, lo si diceva anche questo, da un alone di mistero e segretezza che ha accompagnato la definizione della nuova Eurodac. Mai stato reso pubblico il testo, mai consultato chi davvero tutti i giorni si occupa delle condizioni di chi arriva in Europa. Ce n’è abbastanza, insomma, perché le associazioni chiedano ai governi dei singoli paesi, alle istituzioni del vecchio continente uno scatto di dignità. Di fermarsi e di bloccare tutto. Il pdf della lettera aperta è qui: https://edri.org/wp-content/uploads/2021/09/EURODAC-open-letter.pdf Un estremo tentativo. Lo firmano 31 associazioni. Quasi tutte a carattere internazionale, da AccessNow a Border Violence Monitoring Network, che hanno, certo, “sedi”, filiali e militanti nel nostro paese. Ma colpisce che fra i firmatari ci sia una sola organizzazione tutta italiana: la Hermes Center. La sola. Il G20 delle religioni di Alberto Melloni La Repubblica, 11 settembre 2021 Da stasera a martedì a Bologna. Parlerà anche Draghi. “C’è un tempo per guarire”, dice Qoelet. Un verso biblico suggestivo. Lo ha citato anche Joe Biden dopo l’elezione; con un certo ottimismo e una piccola sgrammaticatura. Perché quel verso non dice che c’è un tempo per ammalarsi e un tempo per curare. Dice che “c’è un tempo per uccidere e un tempo per curare. Ed di questa malattia dell’uccisione - della pandemia della guerra, come la chiama il cardinale Zuppi - le fedi religiose sono da sempre protagoniste. O perché svogliate di disarmare i cuori o perché pronte ad eccitarli o perché sorde al grido delle vittime. Il “dialogo interreligioso” è una delle cure di questa pandemia? Forse. Ma solo se non si accontenta di formule apotropaiche che sconfessando la violenza non indagano su come e dove viene concepita. Il “dialogo interreligioso” infatti è tante cose insieme. È un mercato di sigle in cerca di visibilità. È la fiera di vanità in concorrenze interne alle religioni. È la passerella sconfessioni furbesche della violenza soprattutto altrui. È il retropalco di una politica che spera di toccare le masse parlando ai “capi religiosi” (chissà la faccia di Dio al giudizio universale gli presenteranno i religious leaders...). Ma può anche essere altro e il G20 Interfaith forum di Bologna proverà a discuterne da stasera a martedì, quando Mario Draghi andrà a chiuderlo con un discorso molto atteso. Il dialogo può infatti essere il luogo in cui ci assume la responsabilità del sangue versato e si risponde con i diversi strumenti dati rispettivamente alle autorità credenti, ai leader politici e a chi di studio. Per i primi lo strumento è la preghiera. L’inizio della Bibbia ci racconta che il primo delitto avviene dentro la fraternità e davanti all’altare, a ricordarci che siamo fratelli tutti di Abele e tutti fratelli di Caino. Il sangue, anzi “i sangui” (dice l’ebraico) di tutti gli Abeli della storia salgono a Dio domandando di essere ricordati dai fratelli degli uccisi, dai fratelli degli assassini. Per questo il G20 si aprirà con la prima memoria comune degli oranti uccisi nei luoghi di culto. Una lista che solo negli ultimi quarant’anni - dall’assassinio di Stefano Gaj Taché, due anni, davanti alla Sinagoga di Roma il 9 ottobre 1982 fino ad oggi - conta quasi tremila delitti e migliaia di vittime. Morti che non sono più vittime di chi è morto altrove; ma i cui “sangui” domandano di essere ricordati insieme. All’inizio del G20 dunque il ricordo di 8 di quei delitti e l’ascolto ciascuno la preghiera e del pianto dell’altro come fosse proprio. Ai leader politici sono dati altri strumenti, che sono quelli della scelta: scelta di come passare dal tempo dell’uccidere al tempo del guarire. Il G20 a presidenza italiana ha scelto tre “P” degli obiettivi globali dell’Onu: people planet prosperity; quello che chi prega, chi soffre, chi studia chiede è che si ricordi la quarta P di pace: pace dei conflitti aperti e pace rispetto al conflitto atomico che rischiamo tutti di negligere come abbiamo fatto con le epidemie. Il che significa che alla politica serve un impegno nuovo per questioni che richiedono non una agenda, ma la produzione di un di più di pensiero critico e di sapienza esemplata. Agli studiosi tocca ricordare che quelle che entrano in dialogo non sono le “essenze” delle religioni, ma le culture che le veicolano. Questo scarto consente di sperare che i patrimoni di compassione che ciascuna tradizione porta con sé, possano prendere o riprendere vita anche dove hanno prevalso le ermeneutiche dell’odio, della discriminazione, della falsificazione religiosa. Aperto dal discorso del presidente del Parlamento europeo Sassoli e dal presidente Pahor nel semestre di presidenza slovena dell’Eu, illuminato lunedì dalla presenza del Patriarca Ecumenico Bartholomeos, e chiuso martedì dal presidente del G20 Mario Draghi, IF20 (questa la sua sigla) non consegnerà “valori comuni” a cui poi ciascuno dà un peso diverso ma tre impegni - “noi non ci uccideremo, noi ci soccorreremo, noi ci perdoneremo” - che ciascuno può radicare nella propria fede o non fede e ritrovare nella sua storia. Assumendosi una responsabilità esigente che chiama i penitenti a più penitenza, i sapienti a più sapienza, i politici ad un di più di politica e lungimiranza. Stati Uniti. 11 settembre: la ferita aperta e le macerie di una solidarietà perduta di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 11 settembre 2021 Un Paese esausto, consumato dalla guerra più lunga della sua storia: un conflitto durato vent’anni, provato dalla pandemia, diviso, attraversato da una spaccatura profonda. L’America che oggi celebra il ventesimo anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 è un Paese esausto, consumato dalla guerra più lunga della sua storia: un conflitto durato vent’anni, combattuto da padri e anche da molti dei loro figli. Ma è anche un Paese diviso, attraversato da una spaccatura profonda. La figura tragica di Rudy Giuliani ne è un simbolo: il sindaco acclamato da tutti come un eroe sulle rovine fumanti dell’11 settembre, l’”uomo dell’anno” celebrato sulla copertina di Time, divenuto un sobillatore dell’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, una minaccia per la stabilità della democrazia americana. La pandemia, l’emergenza di oggi, anziché unire gli Usa come contro Al Qaeda, alimenta conflitti: addirittura un clima da guerra civile con molti che invitano alla rivolta contro gli obblighi vaccinali annunciati dal presidente Biden. E il Congresso, probabile bersaglio del terzo aereo dei terroristi del 2001, quello che precipitò in Pennsylvania, viene avvolto di nuovo da reticolati per il timore di attacchi. Non di jihadisti ma di ultrà di destra che manifesteranno a Washington sabato prossimo. “Vado in Afghanistan affinché mio figlio un giorno non debba combattere questa stessa guerra. Quando, nel 2002, il sergente maggiore Trevor deBoer rispose così a chi gli chiedeva perché si fosse offerto come volontario non immaginava che 17 anni dopo il figlio Payton sarebbe stato dislocato dall’esercito nella stessa base afghana nella quale lui iniziò la sua missione. Con una guerra durata quanto una generazione, i casi come quello della famiglia deBoer sono innumerevoli e illustrano bene la “fatica della guerra”, la voglia di molti americani di ritirarsi dal mondo, il senso latente di frustrazione che incombe sulle celebrazioni del ventesimo anniversario dell’attacco terroristico di Al Qaeda. La ferita di quel giorno tremendo non si è mai rimarginata e ha spinto, più o meno consapevolmente, un popolo che ha sempre vissuto di immigrazione e relazioni intense con tutti i Paesi a chiudersi progressivamente in una logica da “fortezza America. L’America generosa venuta a salvare l’Europa nelle due guerre mondiali, quella del piano Marshall, non è svanita del tutto, ma allora la gente sentiva di aver fatto qualcosa per quelli che per molti di loro erano i Paesi d’origine: c’era il richiamo delle radici e c’erano sensibilità, valori e culture comuni. Ricambiati dalla riconoscenza del Vecchio Continente nei confronti del Nuovo Mondo. Niente di tutto questo si è ripetuto nelle guerre del Golfo e dell’Asia Centrale: Paesi lontani, tribali, incomprensibili. Come incomprensibile per i più era stato l’attacco a freddo alle Torri Gemelle e al Pentagono organizzato da gente venuta da un Paese alleato, l’Arabia Saudita. Ma quelli della guerra infinita non sono stati solo vent’anni che hanno sfinito l’America togliendole la voglia di combattere, di continuare a interpretare il ruolo di gendarme del mondo cadutole addosso alla fine degli anni Ottanta col crollo dell’impero sovietico. Sono stati anche anni di crescenti divisioni nei quali il Paese ha perso quel poco di compattezza che aveva recuperato proprio sotto i colpi del terrorismo. La radicalizzazione delle divisioni politiche era già iniziata coi durissimi attacchi dello speaker repubblicano del Congresso, Newt Gingrich, alla presidenza di Bill Clinton e, poi, con l’elezione di George Bush dopo un contestato testa a testa con Al Gore. Ma l’offensiva di Al Qaeda, oltre a spingere mezzo mondo a dichiarare “siamo tutti americani” aveva ricompattato il Paese. Oggi, in un’America che discute più di vaccini che dalle modalità del ritiro da Kabul, l’unico che va in prima pagina parlando di Afghanistan è l’ex (e forse futuro) presidente Donald Trump. Che, però, lo fa in modo bislacco: non parla del ritiro, peraltro avvenuto sulla base di accordi che lui ha promosso, fortemente voluto e siglato, ma della rimozione a Richmond, in Virginia della statua del generale confederato Robert Lee: un momento delle guerre culturali in corso in America che può essere discutibile dal punto di vista della conservazione della memoria storica. Ma l’ex presidente lo sfrutta per fare l’elogio di un uomo che ha combattuto per difendere lo schiavismo aggiungendo poi, con una delle sue tipiche sortite surreali, che, fosse vissuto ai giorni nostri, sicuramente Lee avrebbe vinto la guerra in Afghanistan. Surreale, ma gradito ai suoi fan. L’America di oggi è anche questa: frastornata da due decenni di guerre inconcludenti che l’hanno indebolita politicamente, economicamente e moralmente, ma anche divisa tra il desiderio di commemorare i suoi caduti, provare a convincersi che le vittime dell’11 settembre e i 6650 morti americani in Iraq e Afghanistan non si sono sacrificati invano e il prosciugamento dell’empatia prodotto in modo strisciante dall’effetto-Trump, con la sua convinzione che chi muore in battaglia è un loser, un perdente. Veterani in rivolta contro di lui? Macché. Anzi, a riempire le file delle milizie paramilitari, le più vivaci contestatrici della regolarità dell’elezione di Biden, sono proprio molti reduci dalle due guerre che, frustrati dal rientro nella vita civile, spesso disadattati o disoccupati, hanno cercato la fuga nelle teorie cospirative più fantasiose e trovato rifugio nel populismo rude e bellicoso di Trump. Vent’anni fa l’America si blindava per proteggersi dalla minaccia di altri attentati jihadisti. Oggi quella minaccia non è dimenticata, ma, dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, preoccupa di più il rischio di ribellioni interne. La distanza tra queste due Americhe la vedremo oggi anche nei comportamenti di presidenti ed ex presidenti americani: mentre Barack Obama e George Bush, oltre a Biden, parteciperanno alle commemorazioni dei caduti, Trump in Florida si divertirà a fare il telecronista di un incontro di pugilato tra vecchie glorie, ormai cinquantenni, dei pesi massimi. Stati Uniti. La guerra al terrore e la destra illiberale di Trump hanno radice comune di Stephen Holmes* Il Domani, 11 settembre 2021 Stabilire una connessione diretta tra il modo in cui gli Stati Uniti hanno risposto all’11 settembre 2001 e l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 non è semplice. Ad ogni modo, l’intervento militare dell’America nel mondo musulmano dopo l’11 settembre ha contribuito in maniera sostanziale alla distruzione del fragile consenso liberale del paese, aprendo così le porte al culto antiliberale di Trump e alla grave minaccia che ora costituisce per la sopravvivenza della democrazia americana. Il trumpismo è un prodotto dell’11 settembre, in senso espansivo o addirittura comprensivo. La sua tensione illiberale e xenofoba sui confini induriti è stata senza dubbio rafforzata dallo shock dell’attacco di al Qaida. Stabilire una connessione diretta tra il modo in cui gli Stati Uniti hanno risposto all’11 settembre 2001 e l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 non è semplice. Nel frattempo si sono verificati troppi eventi contingenti e gravidi di conseguenze per giustificare la descrizione del primo come causa univoca del secondo o del secondo come effetto prevedibile del primo. Ad ogni modo, si può dire che l’intervento militare dell’America nel mondo musulmano dopo l’11 settembre, che è durato ormai vent’anni e non si è concluso con l’uscita delle forze di terra dall’Afghanistan, ha contribuito in maniera sostanziale alla distruzione del fragile consenso liberale del paese, aprendo così le porte al culto antiliberale di Trump e alla grave minaccia che ora costituisce per la sopravvivenza della democrazia americana. Quando si dichiarò ufficiosamente la Guerra al terrorismo, diritti come la libertà dall’arresto e dalla detenzione arbitrari, l’abolizione della tortura, la protezione dalla sorveglianza del governo e il diritto a un giusto processo hanno iniziato a essere visti come vulnerabilità strategiche. I diritti umani universali, un fulcro retorico dell’evangelismo anticomunista durante la Guerra fredda, sono improvvisamente stati rivalutati come un lusso che non ci si poteva permettere nel confronto con i nuovi nemici jihadisti del paese, che avrebbero presto potuto, si pensava, mettere le mani su un ordigno nucleare. Altri principi liberali, compreso quello di varcare le frontiere relativamente senza impedimenti e il diritto dei cittadini di conoscere quello che fa il proprio governo, sono stati associati al progressismo debole sulla difesa e alle “coccole” ai terroristi. Questo declassamento dei diritti fondamentali nella politica estera americana dopo l’11 settembre è stato giustificato solitamente con l’affermazione del bisogno di sacrificare la libertà per motivi di sicurezza, come se le libertà politiche e civili (tra cui il requisito che il governo offrisse ragioni plausibili per le sue azioni) non contribuissero positivamente alla sicurezza nazionale. La rabbia e la paura scatenate dagli attacchi di al Qaida hanno aperto la cultura politica del paese, sia a livello dell’élite sia del popolo, all’idea che il liberalismo rendesse l’America incapace di difendersi da suoi nemici più spietati. Tuttavia, che cosa lega questo rifiuto radicale delle norme liberali nella guerra globale al terrore con il movimento fanaticamente illiberale del Make America Great Again (Maga) e al tentativo del 6 gennaio di bloccare la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali del 2020? In che modo il tentativo fallito dell’esercito statunitense di istituire una supremazia americana con la forza delle armi nei lontani paesi musulmani si è trasformato nel tentativo dei nativisti americani xenofobi di rovesciare la democrazia multipartitica, minare il riconoscimento pubblico e conquistato a fatica del pluralismo etnico e imporre la supremazia bianca a livello nazionale? L’analogia non prova la causalità. Però è certo indicativo che la guerra al terrorismo e il movimento Maga condividano una mentalità “con noi o contro di noi”, così come una paura ossessiva di infiltrazioni straniere attraverso confini nazionali poco controllati. Entrambi partono dal presupposto che una nazione cristiana a maggioranza bianca sia sotto assedio e sia minacciata nella sua esistenza da popoli non bianchi e culture non cristiane. Per l’establishment antiterrorista i diritti liberali dovrebbero essere riservati agli americani e in particolar modo negati agli stranieri di fede islamica. Per i populisti americani il diritto di voto dovrebbe essere concesso pienamente soltanto agli americani “veri” (cioè bianchi) e negato invece alle minoranze che tendono a votare i democratici. La differenza è importante, ma è solo una questione di dove si traccia la linea di separazione e di chi decide quali gruppi dovrebbero essere privati dei diritti fondamentali, compresa la libertà dalla violenza da parte di agenti armati dello stato sulla percepita appartenenza a un gruppo nazionale, etnico o confessionale sfavorito. Il problema del liberalismo, dal punto di vista di Maga, è che i liberali americani simpatizzano eccessivamente con le minoranze etniche non bianche e gli immigrati e addirittura condannano la tendenza dei poliziotti bianchi di sparare a morte ad adolescenti neri disarmati per infrazioni minori della legge. Il problema del liberalismo dal punto di vista della guerra al terrore è che i liberali vogliono garantire il processo giusto ai musulmani stranieri e anche denunciare l’uccisione indiscriminata di innocenti quando le truppe americane invadono o bombardano i paesi musulmani. Il peccato principale del liberalismo americano, sia secondo i populisti americani, sia secondo gli architetti dell’era di Bush della politica antiterrorismo dell’America, risiede nella sua presunta sensibilità sproporzionata e selettiva nei confronti delle ingiustizie e degli oltraggi subiti dagli “altri” non bianchi, cittadini e stranieri, mentre minimizza il bisogno degli americani (veri) di difendere i loro interessi vitali per esempio militarizzando i confini esterni del paese e negando il diritto al giusto processo a coloro che sono semplicemente sospettati di aver commesso o pianificato atti malvagi. Vale la pena anche sottolineare, per inciso, che un numero sproporzionato di forze militari americane che hanno invaso e occupato sia l’Afghanistan che l’Iraq provenivano dagli stati dell’ex Confederazione. In effetti, la guerra al terrore è stata in gran parte condotta da soldati degli stati repubblicani e osteggiata in grande misura dagli attivisti contro la guerra degli stati democratici. In altre parole, la divisione sezionale dell’era Maga della politica americana in stati rossi, repubblicani, e blu, democratici, era implicita nella divisione dell’era della guerra al terrore, tra i sostenitori nativisti e gli oppositori cosmopoliti delle guerre dell’11 settembre. Questi punti dovrebbero bastare per dimostrare che i paralleli tra la mentalità Maga e quella della guerra al terrore esistono realmente e vale la pena esplorarli. Un confronto più approfondito rivela tuttavia un risvolto più profondo e consequenziale. Su certe questioni, i seguaci di Trump hanno più cose in comune con i critici della guerra al terrore che con i suoi sostenitori. Penso qui alla denuncia del primo al “deep state”, che include certamente i poteri oscuri di Cia e Fbi. Paradossalmente, la polarizzazione politica e ideologica dei populisti degli stati repubblicani e dei liberal degli stati democratici, che rende quasi impossibile per i due gruppi cooperare in modo democratico, deriva da una comune sfiducia nell’onestà e nella competenza dei politici che lavorano sulla sicurezza nazionale. Questa sfiducia bipartisan corrosiva è stata alimentata in gran parte da coloro che hanno iniziato e che hanno prolungato la disastrosa risposta militare all’11 settembre, inondando consapevolmente il pubblico di bugie. Non c’è dubbio che Trump abbia vinto la presidenza nel 2016 in parte perché si è opposto alle “forever wars”, le guerre infinite dell’America. La sua posizione contro la guerra era fondamentalmente xenofoba e antiliberale. Solo superficialmente quindi assomigliava alla politica pacifista dei liberali cosmopoliti. Allo stesso modo, il suo seminare sfiducia nei confronti della CIA e dell’FBI era motivato da un interesse personale e non da un impegno democratico per la trasparenza e la responsabilità di ogni singola agenzia governativa finanziata con fondi pubblici. È sorprendente, ad ogni modo, che il suo appello ai suoi seguaci illiberali si fondi in parte su un sospetto tipicamente liberale, sia della versione ufficiale della realtà fornita dai funzionari di governo, sia della sfiducia nei confronti delle agenzie di sicurezza nazionale, che operano in gran parte nell’oscurità e sono quindi non democraticamente protette dallo scrutinio pubblico. Senza dubbio, il nichilismo morale e intellettuale del movimento Maga è un’eco altamente distorta dello spirito antagonistico di critica e dubbio del liberalismo. È comunque un’eco. La visione del mondo Maga, quindi, racchiude sia il pensiero dei fautori sia quello degli oppositori della guerra al terrore. Il trumpismo è dunque un prodotto dell’11 settembre, in senso espansivo o addirittura comprensivo. Esprime autenticamente entrambi i lati della divergente reazione americana all’11 settembre. La sua tensione illiberale e xenofoba sui confini induriti è stata senza dubbio rafforzata dallo shock dell’attacco di al Qaida. E il suo rifiuto di credere nell’onestà e nella competenza dei funzionari pubblici, per quanto perversa ed esagerata nel contesto della pandemia di Covid-19, è stato senza dubbio stimolato in parte dal comportamento mendace del governo americano nel giustificare le guerre catastrofiche in Iraq e Afghanistan. La distruzione delle norme fondamentali del governo responsabile da parte dell’amministrazione Bush-Cheney a seguito dell’attacco di al Qaida, criticata con scarso effetto dai liberali, ha reso molto più facile per le forze nativiste e xenofobe persuadere molti americani che l’intera struttura marcia meritava di essere abbattuta. In questo senso si può dire che la strada dall’11 settembre ha portato la democrazia americana al punto in cui si trova oggi, vale a dire nella sua più profonda crisi di legittimità dalla guerra civile. *Professore di legge e teoria politica presso la New York University. Traduzione di Monica Fava Stati Uniti. Le visite in carcere diventano realtà virtuale, una proposta controversa di Umberto Stentella gizmodo.com, 11 settembre 2021 La Global Tel Link fornisce i servizi di telecomunicazione a circa un carcere privato americano su due. L’azienda ora vuole puntare sulla realtà virtuale. I detenuti delle carceri americane presto potrebbero ricevere le visite in realtà virtuale. A proporlo è la Global Tel Link, la più importante azienda di telecomunicazioni a servizio delle carceri private americane. Oggi GTL fornisce già i servizi di chiamate a pagamento per i detenuti di decine di centinaia carceri diffuse sul territorio statunitense. Quasi un carcere privato su due usa i servizi della GTL. La GTL ha presentato una serie di brevetti, tutti legati ad una nuova tecnologia che consentirebbe ai carcerati di ricevere visite e comunicare con l’esterno all’interno di un ambiente ‘controllato’ e in realtà virtuale. I carcerati saranno in grado di comunicare con l’esterno usando un avatar digitale. GTL suggerisce questa soluzione anche per un altro motivo: la realtà virtuale - anche se per pochi minuti - potrebbe offrire ai carcerati l’illusione di trovarsi in libertà, fuori dalla loro cella, allievando il loro malessere. Probabilmente c’è del vero, ma vale la pena di ricordare che la Global Tel Link non è una onlus, ma un’azienda privata che addebita a caro prezzo i suoi servizi sia ai carcerati, sia ai contribuenti americani. Come riporta dettagliatamente Gizmodo, l’azienda è stata al centro di diverse controversie negli ultimi anni, soprattutto per la tendenza di aumentare frequentemente i costi delle telefonate dei detenuti, che in un mese possono arrivare a spendere anche diverse decine di dollari per parlare con la loro famiglia e gli avvocati. Negli Stati Uniti diverse carceri hanno già iniziato ad utilizzare la realtà virtuale per scopi di rieducazione e terapia. In alcuni istituti del Colorado la VR viene usata per aiutare i detenuti che hanno scontato pene particolarmente lunghe a prendere dimestichezza con i cambiamenti avvenuti nel mondo e nella società durante la loro detenzione.