Per Domenico Papalia di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 10 settembre 2021 Rientro in carcere dopo l’estate e non è nemmeno così semplice rientrare. Ma ora ci sono, sono qui dentro e la redazione è al completo; tutti pallidi e stanchi dopo questa estate caldissima. Prima di parlare dei programmi futuri, ci soffermiamo sulla vicenda di Domenico Papalia. Come sempre è stato suo il primo saluto all’ingresso del carcere perché, per entrare, devo passare proprio sotto la sua cella. Anche stamattina, dunque, mi ha accolto con un “ciao, come stai?” Domenico Papalia ha 76 anni e più di 44 li ha trascorsi in carcere; durante questo lunghissimo periodo ha perso l’unico figlio maschio colpito da un proiettile rimbalzato sulla campana della chiesa di Plati nella notte del Capodanno del 1993. D’accordo con la famiglia ha deciso di donare gli organi del suo Pasqualino. Ora lui è malato, ha un cancro e diverse metastasi. Domenico viene in redazione da tempo; è una persona gradevole e attenta, una persona che si fa voler bene. Ma il fatto è che ora Domenico è seriamente ammalato; il cancro è già diffuso e rischia, come purtroppo altri prima di lui, di morire in carcere o magari nel repartino riservato ai detenuti dell’ospedale di Parma che mi dicono essere quasi peggio della cella. Domenico è stato declassificato già parecchi anni fa dal 41 bis dopo accuratissime indagini che hanno certificato l’assenza di collegamenti con gruppi criminali. Le verifiche sul patrimonio hanno appurato che non esistono irregolarità; in carcere ha studiato e partecipa con grande diligenza ai lavori della redazione. Ma Domenico ha il cancro e, davanti a sé, la prospettiva di vivere in completa solitudine una malattia difficile e dolorosa. Con esiti molto spesso infausti. Certo che i farmaci li può prendere anche qui dentro, certo che se si aggrava lo consegneranno all’ospedale - comunque recluso - ma tutto questo che senso ha? Certamente è una persona che ha sbagliato in modo grave ma 44 anni di prigione non sono sufficienti? E la buona volontà, la costanza dell’impegno in attività serie e nemmeno tanto facili? Anche tutto questo non vale niente? Senza dimenticare che la vita non gli ha risparmiato nulla; prima la morte del figlio, il dolore più straziante, e ora il cancro. L’impedimento a essere curato dai suoi famigliari sembra davvero una ritorsione più che un atto equo e rimanda a un’idea di giustizia - a mio avviso - poco equilibrata, poco saggia e davvero poco umana. L’impressione è che incida pesantemente e drammaticamente sulla vita di Domenico e di altri (già sei persone molto malate sono morte quest’anno nel carcere di Parma e/o nel repartino ospedaliero) il timore di una campagna di stampa aggressiva e urlata. È davvero così? Davvero ci sono giornali e giornalisti che hanno il potere di condannare una persona anziana e molto malata a una morte disperata e solitaria? Perché in redazione di questo abbiamo parlato insieme a Domenico; di malattia e di morte. Con grande rispetto e sobrietà. Ci aspettiamo altrettanto rispetto dalle istituzioni deputate alla rieducazione delle persone che hanno sbagliato *Coordinatrice della redazione di Ristretti in Alta Sicurezza a Parma Carceri, la riforma di Cartabia affidata ad un “Tavolo di lavoro” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 settembre 2021 Non una nuova commissione ma un gruppo di esperti che opererà sul regolamento. Consapevole ormai che, come affermano i maggiori esperti dell’universo carcerario, le riforme nel campo della detenzione e della vita in carcere si fanno più efficacemente e più facilmente in sede operativa, agendo con dispositivi amministrativi e regolamentari, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha firmato ieri la costituzione di un gruppo di lavoro ad hoc. Non un’altra “Commissione Giostra”, come nel 2013 la volle l’allora ministra Cancellieri, né un altro gruppo di lavoro che avvii - come fece meritoriamente il ministro Orlando, purtroppo senza vittoria - un piano per una legge di riforma. Con una maggioranza politica come quella che sostiene a giorni alterni i progetti del governo Draghi, sarebbe un lungo, dispendioso e probabilmente inutile lavoro. Così la Guardasigilli, partecipando in streaming al dibattito sul carcere correlato alla presentazione del docufilm Exit di Stefano Sgarella - storia dei detenuti tossicodipendenti del reparto La Nave di San Vittore - proiettato nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia, ha annunciato ieri “la costituzione di un gruppo di lavoro, non per lavorare sulle grandi cose ma a cominciare da alcuni temi facendo rotolare una piccola palla di neve che spero diventi una valanga”. “Bisogna imparare a conoscere - ha ripetuto Cartabia - e come ha detto Calamandrei “occorre aver visto”. Bisogna vedere. Sapendo che bisogna lavorare tanto, non si potranno fare miracoli. Non aspettatevi miracoli, ma l’avvio di un cammino”. La visita al reparto carcerario “La Nave”, ha raccontato la ministra, è stata “uno spartiacque nella mia vita, professionale e personale. È veramente una di quelle date che segna un prima e un dopo. Mi ha fatto rendere conto - ha aggiunto - che il carcere non è un pianeta ma una galassia, c’è una pluralità di situazioni, una pluralità di condizioni delle persone, di ragioni per cui si è in carcere, che sono mondi diverse che hanno bisogno di approcci diversi e di una presenza diversificata, ciascuna nella sua diversa condizione”. Una notizia, quella del nuovo gruppo di lavoro, alla quale guarda con interesse il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa: “Attendiamo di saperne di più e soprattutto di capire come e di cosa tale gruppo di lavoro dovrà concretamente occuparsi e, soprattutto, in quali tempi. Le carceri, infatti, sono un malato allo stato terminale e non c’è più molto tempo per gli studi e le teorizzazioni, ma servono interventi tangibili e immediati - è il commento del segretario Gennarino De Fazio - Purtroppo, abbiamo moltissime esperienze di commissioni e gruppi di lavoro nati e morti senza lasciare un qualche segno della loro esistenza, se non magari nelle casse dell’erario. E questo, sia chiaro, il più delle volte non per demerito di chi li componeva, ma perché poi i vari Ministri e Capi dipartimento non hanno adottato nessuna delle soluzioni proposte”. De Fazio vorrebbe “provvedimenti immediati”, soprattutto per quanto riguarda gli organici e gli equipaggiamenti. Della funzione rieducativa non parla, ma almeno dimostra di viaggiare su altri binari rispetto ai sindacati Cosp, Sappe, Uspp e Cnpp che ieri hanno consegnato “richieste e osservazioni” ai senatori di FdI. Metteranno sicuramente le mani in pasta, invece, il Garante dei detenuti Mauro Palma, il costituzionalista Marco Ruotolo e il presidente di Antigone Patrizio Gonnella il 20 settembre prossimo a Rebibbia, presentando una proposta di riforma del regolamento penale fermo al 2000 (messo a punto dal sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone e dal capo Dap Alessandro Margara dell’epoca). Telefonate, colloqui, trasferimenti, isolamento, e pure ingresso in carcere dei media: tutto ciò che c’è da cambiare affinché il carcere torni in linea - come richiesto anche dalla Corte Edu - con il dettato costituzionale. Carcere, Cartabia: “Una galassia che deve avere approcci diversi” redattoresociale.it, 10 settembre 2021 La ministra in video collegamento con la mostra del cinema di Venezia, per la presentazione di un docu-film sul reparto “La Nave” di San Vittore. La visita di quella sezione carceraria è stata “uno spartiacque nella mia vita, professionale e personale”. “Oggi firmerò la costituzione di un gruppo di lavoro per iniziare ad affrontare specifici problemi sul carcere, a legislazione invariata”. Con queste parole la ministra della Giustizia Marta Cartabia, in collegamento con la Mostra del Cinema di Venezia per la presentazione del docufilm “Exit” sull’esperienza de ‘La Nave’ nel carcere milanese di San Vittore ha affrontato le difficili problematiche che vivono le carceri specificando che: “Non potremo fare miracoli, ma è in atto un cammino: in relazione al carcere si incomincia a capire l’importanza che questo ha per tutta la società, anche se ci sono sensibilità diverse e tanti pregiudizi dovuti principalmente a chi non conosce questa realtà”. Ripensando poi alla visita effettuata anni fa nel reparto La Nave, ha ricordato come sia stata per lei spartiacque dal punto di vista professionale e personale. “La visita a tutto il carcere di San Vittore - ha ricordato - “È stata importante per rendermi conto di come il carcere non sia un pianeta ma una galassia con una pluralità di persone: tutti mondi diversi che hanno bisogno di approcci diversi. In quell’occasione, uno dei detenuti mi ha portato a vedere da una finestra qual era la loro vista sul mondo, mi hanno donato una felpa della loro sezione che ancora uso ed anzi mi contendo con almeno uno dei miei figli. La Nave - ha concluso - non è un’eccezione ma un primo germoglio di un albero vivo che presto metterà fronde”. La Guardasigilli ha poi affrontato il tema delle detenute madri, ricordando che oggi sono circa 20 le donne che vivono nei penitenziari del Paese con i loro bambini e che la Comunità “Papa Giovanni XXIII” sta offrendo al Dap nuove case per accoglierne 10 ora in carcere con i loro bambini. La voce della ministra Cartabia è giunta anche durante la presentazione di un altro docu-film a Venezia: ‘Rebibbia Lockdown’, nato da un’idea di Paola Severino e del regista Fabio Cavalli. Un progetto che secondo la Guardasigilli “Ha permesso di costruire un ponte tra dentro e fuori: un progetto che mi auguro possa essere imitato da altri” - ha specificato - “Attraversare quei cancelli fa bene a chi riceve la visita, ma anche a chi li attraversa. Il tempo del lockdown in carcere è stato anche il tempo delle rivolte, su cui molto resta da comprendere: la comunità ha sofferto come e molto più di noi in questo anno e mezzo di pandemia. Prima del Covid i detenuti erano complessivamente oltre la capienza regolamentare. Ed è allora che sono emersi i problemi del sistema penitenziario”. Durante il messaggio letto dalla vicepresidente della Luiss Guido Carli, la ministra ha aggiunto che “Ad oggi sono 15 i detenuti morti per Covid e 13 i poliziotti penitenziari. Però possiamo anche dire che i vaccini hanno raggiunto circa l’80% della popolazione reclusa. E questo è un dato di cui possiamo andare fieri”. Alla mostra del cinema di Venezia oltre ai due docufilm citati, è stato presentato anche il film Ariaferma incentrato sul rapporto tra agenti e detenuti. Protagonisti, per la prima volta insieme, Toni Servillo e Silvio Orlando. Cpr, trattenuti e poi abbandonati ai loro disagi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2021 Il Garante nazionale ha evidenziato in un rapporto come al Cpr di Torino le persone con vulnerabilità psichiatriche vengono solo separate e, scaduti i termini massimi di trattenimento, lasciate senza un percorso terapeutico. Entrano nel centro per il rimpatrio (Cpr) in condizioni di serie vulnerabilità psichiatriche senza una adeguata presa a carico. Vengono solo separati dalla restante popolazione detenuta. Non solo. Scaduti i termini massimi di trattenimento presso il Cpr, vengono abbandonati a sé stessi, senza fargli intraprendere un percorso terapeutico presso strutture protette. Questo è il quadro dipinto dal rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà a seguito della visita del 14 giugno scorso presso il Cpr di Torino. Eppure sono chiare le disposizioni del Regolamento unico Cie e degli Allegati allo schema generale di appalto approvato con decreto del ministro dell’Interno del 29 gennaio 2021. Dalla lettura di tali disposizioni, come si legge nel rapporto del Garante inviato al ministero dell’Interno, emerge chiara l’indicazione che i medici del centro di Torino debbano mantenere alta e assidua l’attenzione verso la manifestazione di condizioni di salute, sfuggite o non presenti nel corso della visita preliminare all’ingresso, che potrebbero comportare l’incompatibilità con la permanenza all’interno del Cpr. Il compito, come osserva il rapporto, appare particolarmente importante con riferimento alla comparsa di segni di disagio mentale, talvolta emergenti solo dopo un periodo di osservazione e pertanto di difficile individuazione nell’ambito delle celeri verifiche realizzate prima dell’accesso alla struttura. “In tal caso - evidenza il Garante - il ruolo del sanitario è fondamentale nell’approntare le urgenti misure di tutela, avviare con la massima celerità le opportune verifiche specialistiche e promuovere una nuova valutazione di idoneità da parte della competente Autorità sanitaria pubblica”. Eppure, il primo problema rilevato dal Garante riguarda la valutazione che deve essere continuamente aggiornata rispetto alla compatibilità delle condizioni di salute della persona trattenuta. Se da una parte i medici dell’Ente gestore del Cpr di Torino, come rilevato, si prestano ad accertare l’idoneità alla vita comunitaria in sostituzione di un medico del Servizio sanitario nazionale, dall’altra omettono di esercitare una simile prerogativa - si ribadisce comunque per norma non di loro competenza - nei confronti di una persona che sia già trattenuta. Ne consegue che persone che versano anche in condizioni di seria vulnerabilità psichiatrica permangono all’interno della struttura, dove vengono semplicemente separate dalla restante popolazione detenuta senza un’adeguata presa in carico delle vulnerabilità di cui sono portatrici e un’assistenza congrua alle loro specifiche esigenze sanitarie. Il Garante, a tal proposito, denuncia una situazione emblematica di A. M., che ha fatto ingresso nel Cpr il 7 aprile 2021 esprimendo fin da subito un’evidente vulnerabilità individuale tanto che all’ingresso è stato immediatamente collocato nella cosiddetta area “Ospedaletto”. Malgrado la tempestività dimostrata nel separarlo del resto della popolazione trattenuta, dalla cartella sanitaria emerge che, in seguito alla visita effettuata all’ingresso, il cittadino pakistano è stato visitato dal medico del Centro ben un mese dopo il suo arrivo, in data 7 maggio e la valutazione psichiatrica è stata richiesta solo l’11 maggio. Ciò, nonostante i segni del disagio fossero evidenti e l’interessato continui tuttora - a quanto consta a questo Garante - a permanere all’interno dei locali di isolamento sanitario. Il caso non è isolato dal momento che nelle settimane antecedenti alla visita, il Garante nazionale era stato informato dalla Garante comunale della presenza all’interno dell’area “Ospedaletto” di altre due persone affette da disagio mentale che poi erano state rilasciate senza, peraltro, alcuna misura di sostegno. A tal proposito, ora sappiamo che il ministero ha chiuso tale area, dove a maggio di quest’anno si è suicidato Musa Balde, a seguito della raccomandazione del Garante. Emerge anche un altro problema. Nel corso di un confronto emerso nel corso della visita del Garante è emersa l’opinione dell’Autorità di pubblica sicurezza in base alla quale per le persone affette da seri disturbi psichiatrici, rilasciate con l’ordine di allontanamento del Questore una volta esauriti i termini massimi di trattenimento, non sarebbe in alcun modo possibile prevedere e promuovere percorsi terapeutici e ricoveri in strutture protette trattandosi di persone in posizione di irregolarità. Il Garante nazionale dissente da tale prospettazione. Questa, del resto, non appare condivisa anche dalla Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, la quale nella risposta al Rapporto sulle visite effettuate nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) nel corso del 2019 e 2020 si è impegnata a richiamare “l’attenzione dei Prefetti affinché, anche in fase di rilascio dai Cpr, vengano prestate le cure e l’assistenza necessarie a tutelare l’integrità fisica dei migranti, nell’ambito del vigente ordinamento”. Vitto e sopravvitto nelle carceri. “Gare, regole modalità e qualità da riformare” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 10 settembre 2021 Il monito del Garante Ciambriello. Il sopravvitto indica la possibilità per i detenuti, di acquistare generi di conforto presso imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dagli uffici preposti, direzioni delle carceri e dall’autorità comunale competente. Tale servizio è quello che appare, secondo le segnalazioni del Garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, maggior controverso per l’evidente disuguaglianza con quanto succede fuori nelle normali logiche di mercato: “Stando alla descrizione dell’appalto ministeriale per il servizio di mantenimento dei detenuti e internati attraverso l’approvvigionamento alimentare, la colazione il pranzo e la cena a ciascun detenuto, è assegnato in base al costo più basso. L’aggiudicatario è tenuto inoltre ad assicurare, anche il servizio per il sopravvitto. Vorrei dunque evidenziare che oltre alla necessità di organizzazione del servizio, il valore economico del sopravvitto risulta raggiungere un ammontare pari a circa il 50% dei volumi complessivi, rappresentando una fetta cospicua di ogni singolo accordo. Anche una recente sentenza del Consiglio di Stato evidenzia la strana struttura del bando di gara, annullando gli esiti dell’appalto per le case circondariali di Lucca, Livorno, Grosseto e Massa, sostenendo che per un operatore economico non vi è modo di predisporre un’offerta economica consapevole e ponderata riferita al solo vitto, senza doversi confrontare gli utili e le perdite rivenienti dalla gestione parallela del servizio di sopravvitto”. In seguito a diverse segnalazioni pervenute all’Ufficio del Garante, i ristretti lamentano l’aumento di prezzo di beni di prima necessità come pasta, acqua, shampoo, dolci, e gas per i fornellini presenti nelle celle, acquistabili mediante il sopravvitto; con variazioni di prezzo significative all’interno della stessa provincia. Ciambriello ha richiesto alle direzioni delle carceri di Poggioreale e Secondigliano di conoscere il prezziario aggiornato al mese corrente e chiarimenti sulle modalità di verifica dei prezzi. A tal proposito Ciambriello cita la circolare del 27 aprile 1988 n. 687465: “Questo documento impartiva ad eseguire costanti, puntuali e penetranti controlli in ordine al servizio del sopravvitto detenuti con particolare attenzione in merito ai prezzi attraverso l’ausilio dell’autorità comunale locale, fornendo alla stessa l’elenco dei generi posti in vendita nell’istituto, indicandone per ciascheduno dettagliatamente la qualità ed il tipo, la prezzatura, la marca ed il prezzo, ma ciò non avviene”. Ciambriello evidenzia che nonostante il Dap sottolinei che i prezzi dei prodotti vengano inseriti e aggiornati mensilmente sulla base del costo di vendita presente negli esercizi commerciali aventi una superficie di vendita superiore a 400 mq. e previa verifica degli uffici preposti dal comune di Napoli; in realtà osservando l’elenco in allegato degli articoli inseriti nel mod. 72, ci si rende conto inequivocabilmente che i detenuti non possono scegliere quelli di marche meno costose e che il ventaglio di scelta è fortemente limitato. Il garante campano dei detenuti Ciambriello poi conclude: “Ogni detenuto ha diritto di spendere 150 euro a settimana per il sopravvitto. Lo fanno in particolare perché il vitto in carcere è quello che è, visto che la chi si aggiudica la gara tra colazione, pranzo e cena è al massimo ribasso. Con 3,90 che tipo di vitto si può proporre? Certo non tutti si possono permettere di utilizzare tante risorse per comprarsi roba al sopravvitto, ma se si fa una stima economica tra risorse investite dai familiari e quelle dei ristretti dei soli istituti di Poggioreale e Secondigliano sono 14 i milioni di euro spesi dai cittadini detenuti in un anno. Sugli articoli vi è un sopraccarico di prezzo di 10-20 centesimi, inoltre spesso i prodotti che arrivano al detenuto acquirente hanno una scadenza a breve termine e se questo in un supermercato ordinario comporta uno sconto del 50% in carcere non avviene. Nonostante la circolare del Dap del 21 novembre 1996 n.638616 in cui si raccomandava che “il tariffario del mod.72 dovesse essere più ampio possibile, questo non solo non avviene ma rappresenta una problematica cronica del sistema carcere, a cui la politica a causa del mancato controllo e delle procedure farraginose non pone rimedio. Per perseguire una giustizia equa sia dentro che fuori le mura del carcere, mi auspico che i prezzi vengano adeguati in tutti gli istituti, a quelli correnti di mercato, ampliando il mod. 72 con prodotti anche più economici in modo tale che i detenuti possano avere la possibilità di rispondere alle loro esigenze economiche ponendo fine a quella che è una vera e propria speculazione”. La fine della giustizia fiction di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 settembre 2021 Basta ai nomi di inchieste con il colpevole incorporato. La svolta Cartabia. “E’ fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Si tratta dell’articolo 3 del nuovo regolamento in materia di indagini penali depositato due giorni fa alle Camere. Firmato Marta Cartabia. Con poche parole la ministra mette fine alla giustizia come fiction: i nomi con sentenza incorporata tipo “Mafia Capitale” (che poi mafia non fu, come stabilito dalla Cassazione) o “Toghe lucane” by Luigi De Magistris, o “Vipgate”, “Savoiagate”, “Somaliagate”, “P4” e “Vallettopoli” per limitarsi ad alcune by Henry John Woodcock. Passando per “Angeli e dèmoni”, “Bocca di rosa”, “Sotto scacco” e via titolando. Il regolamento stabilisce poi che le conferenze stampa dei procuratori dovranno limitarsi a casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, durante le quali il magistrato non dovrà presentare l’indagato come colpevole ma andrà spiegato “il punto al quale è arrivata la verità giudiziaria”. Addio allora ai titoli con previsione di serie tv incorporata. Dove finisce “Mafia Capitale” e comincia “Suburra”? Dove “Mani pulite” e i vari “1993” e “1994”? Dov’è che il pubblico ministero smette di fare il magistrato e diventa scrittore, sceneggiatore, ospite fisso di talkshow? “La riforma Cartabia è la peggiore di tutte” ha sentenziato Nicola Gratteri a proposito della riforma della prescrizione. Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, è autore di inchieste dal titolo “Crimine Infinito”, “Columbus”, “Solare”, “Rinascita Scott” è anche saggista (sua una prefazione al libro “Strage di stato. Le verità nascoste della Covid-19” con teorie complottiste, che il magistrato ha ammesso di non aver letto), ma dice che cambiando mestiere sarebbe un intrattenitore. Se dallo spettacolo si tornerà anche nella forma all’articolo 27 della Costituzione (“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”) Marta Cartabia potrà al contrario essere considerata la migliore dei ministri della Giustizia. Giustizia, alla Camera torna la separazione delle carriere che divide la maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 10 settembre 2021 Dopo due anni, e a ridosso dei referendum, la commissione Affari costituzionali riprende a discutere sulla legge d’iniziativa delle Camere penali. Forcing del Radicale Magi e di Costa di Azione per farla ripartire. A favore di due carriere distinte il centrodestra, contro Pd, M5S e Leu. “Sì, la discussione sulla separazione delle carriere riprende in commissione Affari costituzionali, ma non è affatto detto che alla fine si voti...”. È scettico il costituzionalista Dem Stefano Ceccanti se gli chiedi che cosa succederà a Montecitorio con la separazione delle carriere. Che la prossima settimana torna nel calendario dei lavori della prima commissione dopo le pressanti richieste del Radicale Riccardo Magi e di Enrico Costa di Azione. Alla fine il presidente di M5S Giuseppe Brescia ha dovuto dire di sì. Torna la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri con tutto il suo carico politico divisivo anche per la maggioranza. Da una parte, per il sì, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Azione, i Radicali. Dall’altra Pd, M5S, Leu. Maggioranza spaccata in due senza mediazioni possibili. Un tormentone sponsorizzato dal centrodestra da sempre, e che come un fiume carsico sembra rispuntare dal terreno quando meno te l’aspetti. Era il vessillo di Berlusconi che tentò anche la modifica costituzionale, lo è adesso della Lega che con il referendum sulla separazione delle funzioni cerca di aggirare l’ostacolo costituzionale. Ma i fan della magistratura rigidamente divisa nella famiglia dei pubblici ministeri e in quella dei giudici sono ovunque, uno sparuto gruppetto anche nel Pd (ma non superano la dozzina). Ma proprio il Pd lettiamo, con il M5S di Conte, è per un netto no sulla separazione. Anche stavolta. Quando, dopo due anni di silenzio, rispunta la richiesta di mandare avanti la legge portata in Parlamento dal presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza che ha raccolto 75mila firme. A battere i pugni sul tavolo del presidente Brescia, anche in questo caso, è il duo Costa-Magi. Il secondo scrive a Brescia, gli ricorda che la legge è in ballo dal 20 febbraio del 2019. Altra maggioranza, quella gialloverde, altra aria. Eppure, dopo ore di audizioni dei più noti giuristi italiani, la legge si arena in aula. Ne viene chiesto il ritorno in commissione. Si badi subito che, trattandosi di una legge costituzionale, richiede tre letture e una maggioranza di fatto impossibile con le divisioni che esistono sull’argomento. Tuttavia chi è convinto - con ragionamenti fatti proprio da Berlusconi mille volte - che “i giudici vadano col cappello in mano dai pm”, che “vanno al bar del tribunale assieme a loro” e quindi la promiscuità dei loro rapporti non garantisce l’effettiva indipendenza del giudice dal pm, non è disposto a compromessi, vuole la spaccatura a metà della magistratura, giudici da una parte, pm dall’altra, senza zone grigie dove incontrarsi e familiarizzare lo stesso. Figuriamoci poi nei processi. Che succede dunque alla Camera? Costa e Magi fanno ripartire il treno del dibattito sulla proposta delle Camere penali. La scansione è rapida. Eccola. Il 7 settembre lo stesso Caiazza reclama il dibattito sulla legge ormai ferma da due anni. Fioccano le adesioni, dagli avvocati stessi ai partiti del centrodestra. Dall’altra, arriva il no di Pd e M5S. Magi, con una lettera a Brescia in cui ripercorre l’iter della legge, formalmente chiede il ripescaggio della separazione delle carriere “ormai ferma da un anno”. Magi e Costa scrivono così: “Separare le carriere dei pubblici ministeri dai giudici è la riforma che deve essere alla base di ogni intervento sulla giustizia: il fatto che, mentre nel Paese questo dibattito è molto acceso, alla Camera la discussione è ferma da un anno, rappresenta una grossa contraddizione”. La discussione riparte ma la freddezza di Pd e M5S è nettissima. Anche perché, come ricorda Ceccanti, “già la legge Bonafede riduceva la possibilità dei passaggi da una funzione all’altra, e questo obiettivo si accentua ancora di pjù con la legge cartabia”. Dove, in un’intera carriera, sono possibili al massimo due cambi di casacca. E poi, come ricorda l’ex procuratore di Torino Armando Spataro a ogni dibattito sulla giustizia mostrando anche i numeri, già adesso ormai i passaggi da una funzione all’altra sono ridottissimi. Carriere separate e due Csm. Ma serve una riforma costituzionale. Sulla quale non si inerpica neppure il referendum radical-leghista che si limita, in un quesito molto complesso, a fare un opera di taglia e cuci per cui i passaggi da una funzione all’altra diventerebbero di fatto impossibili. Sempre che la Consulta alla fine lo ammetta, anche se chi lo ha lanciato è convinto che supererà il milione di firme. “Ora un’Alta corte che giudichi le toghe: è l’unica riforma possibile” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 settembre 2021 Per il professore avvocato Gaetano Pecorella, già parlamentare di Forza Italia e past president dell’Unione delle Camere Penali, l’Alta Corte di giustizia proposta da Luciano Violante rappresenta uno di quei temi per cui la politica dovrebbe disinteressarsi del parere della magistratura e portarlo avanti in piena autonomia. Cosa ne pensa della proposta di Violante di conferire a un’Alta Corte di giustizia, esterna al Csm, la giurisdizione disciplinare su tutti i magistrati? La proposta di Violante risale a molto tempo fa e metteva d’accordo molti giuristi, tra cui il sottoscritto. Unire nel Csm la parte amministrativa con quella disciplinare significa mettere in mano alla maggioranza degli strumenti che possono incidere in modo determinante su cariche molto importanti, come quella del Procuratore capo di Roma. Sicuramente quindi la proposta è la strada giusta: non ci può essere coincidenza tra la parte amministrativa e quella disciplinare, perché entrambe si inquinano a vicenda. La questione principale diventa poi come costruire questa Alta Corte. A me pare assolutamente inopportuno che un pm possa diventare giudice all’interno di un giudizio disciplinare. Quindi eliminerei i pm da un organo di tale natura. Vi lascerei solo giudici e giuristi insigni, al limite tecnici di altra natura, come gli psicologi. Non includerei neanche gli avvocati per evitare conflitti di interesse. Un’altra alternativa sarebbe quella di fare una Corte Suprema della Pubblica Accusa, separando anche nel momento disciplinare il pm dal giudice. Ma sarebbe davvero fattibile? La magistratura si opporrebbe. Cominciamo ad abituarci a pensare che quello che vuole la magistratura non deve interessare le parti politiche. È ora che il Parlamento riacquisti la sua autonomia. Il problema è se ci sono le maggioranze favorevoli alla proposta. Si tratterebbe di una riforma costituzionale. Tuttavia siamo consapevoli che da noi questo tipo di riforme sono difficili da fare perché abbiamo un partito che finisce per mettersi di traverso ogni volta che si toccano i magistrati. Quindi oggi non ci sono le condizioni politiche, ma si tratta di una questione che va portata avanti e maturata nel Paese. E va spiegata ai cittadini. A proposito di rapporti tra politica e magistratura, secondo Lei al momento c’è tensione tra le due? Ascoltando Scarpinato e Davigo (“Dietro referendum e riforma Cartabia c’è l’assalto finale dei partiti che vogliono tornare alle mani libere”), sembra invece che si voglia andare allo scontro.Scarpinato e Davigo non rappresentano la voce di tutta la magistratura. Non credo che quello che loro hanno affermato abbia un senso. I referendum non hanno un effetto immediato e non introducono la separazione delle carriere, riforma voluta da molti ma che non si riesce mai a fare. Credo che sia i referendum che le riforme Cartabia non rappresentino nulla di cui si possano lamentare i magistrati. Nessuno tocca la loro indipendenza e autonomia. Mi pare che sia un mettere le mani avanti per dire “il potere che abbiamo acquisito giorno per giorno attaccando la politica non lo vogliamo perdere. Dal 1993 siamo diventati padroni del Paese e adesso guai a chi ci tocca”. Proprio questo dovrebbe essere all’attenzione del Parlamento per riequilibrare la situazione: oggi abbiamo magistrati che non rispondono a nessuno di ciò che fanno e invece abbiamo una politica per cui basta un procedimento aperto nei confronti del premier e arriva la crisi di Governo. E poi non c’è nessuna tutela dopo la perdita dell’immunità. Dopo di che è chiaro che potranno nascere delle tensioni. Oggi tuttavia io non le avverto assolutamente. Mi pare che la magistratura si stia un po’ leccando le ferite e soprattutto non sia più al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, che una volta scendeva in piazza per sostenere Di Pietro e altri come lui. In tema di valutazioni di professionalità il Pd ha presentato un emendamento che prevede di valutare i pm anche in base al parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Che ne pensa? Tutti dobbiamo essere valutati. Riguardo la proposta, essendoci un criterio matematico, sarebbe una questione comunque affidata al Csm, senza interferenza da parte di terzi. Ho qualche perplessità tuttavia: è come dire che un avvocato è più bravo perché vince più processi di un altro. Credo che debba essere valutato il merito dal punto di vista del lavoro che viene svolto, della produttività. O comunque come parametro deve essere collegato ad altri parametri e non rappresentare l’unico elemento di giudizio. Tornando a Gratteri, parlando ad una manifestazione pubblica, e commentando la riforma Cartabia sul penale, ha detto che per smaltire i processi basterebbe far rientrare i magistrati fuori ruolo. Giusto, no? Sì, sono assolutamente d’accordo. E l’ho anche scritto più volte. Bisogna evitare che il Ministero della giustizia sia culturalmente nelle mani dei magistrati. Questa sarà una delle battaglie più difficili, perché questa riforma comporterebbe per la magistratura una perdita secca di potere. I magistrati dislocati a via Arenula fanno le leggi e preparano le risposte del Ministro, tanto per fare due esempi. E poi i magistrati non dovrebbero tornare a fare i magistrati dopo aver ricoperto certi ruoli, avendo fatto parte di una precisa componente politica. La domanda è come si dovrebbe colmare il vuoto lasciato dai magistrati. Dovrebbero essere chiamati dei giuristi di alto livello o degli avvocati, che andrebbero pagati perché dovrebbero smettere di fare la loro professione. Il problema è complesso. Per concludere, che ne pensa della riforma di “mediazione Cartabia” sul penale? Lei è d’accordo con chi sostiene che era il miglior compromesso possibile o sta con l’Accademia che invece ha criticato fortemente le proposte approvate? Io sono contrario per quanto riguarda la giustizia a qualsiasi forma di compromesso. Ritengo che questa riforma, soprattutto per quanto concerne l’improcedibilità, sia una pessima riforma, che un tecnico del diritto non potrebbe mai condividere. Giustizia, Maggia lancia l’allarme sul futuro Tribunale della famiglia di Liana Milella La Repubblica, 10 settembre 2021 La presidente del tribunale dei minori di Brescia: “Stanno buttando alle ortiche il nostro lavoro. Avrebbero dovuto ascoltarci e non lo hanno fatto. Un solo giudice non può decidere quello che oggi decidono due togati e due onorari”. La commissione Giustizia del Senato, all’unanimità, ha dato il via libera all’emendamento. Un unico Tribunale per la famiglia? “Sì, ma senza buttare alle ortiche i tribunali dei minori che già esistono e che lavorano bene senza andare ogni giorno sui giornali”. Cristina Maggia è la presidente del tribunale dei minori di Brescia da quattro anni. Ma è anche al vertice dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf). Ha 65 anni, per dieci è stata giudice istruttore a Milano e ha seguito anche il processo Epaminonda. Poi il salto a Genova e il definitivo passaggio al mondo dei minori. E da ieri Cristina Maggia è in allarme. A Repubblica spiega perché. Mentre proprio oggi la commissione Giustizia del Senato, all’unanimità, ha dato il via libera all’emendamento sul nuovo tribunale. Ha letto la notizia del futuro tribunale della famiglia e non è d’accordo? “Innanzitutto perché come giudici minorili non siamo stati ascoltati da nessuno. Nonostante la nostra piena disponibilità al confronto e l’invio di documenti che testimoniano il nostro lavoro”. Possibile? Neppure la commissione Luiso che, per conto della Guardasigilli Marta Cartabia, ha preparato gli emendamenti al processo civile? “Per una ventina di minuti in tutto hanno sentito i presidenti dei tribunali dei minori italiani ignari del testo sul quale si stava lavorando”. E adesso che al Senato hanno scritto l’emendamento sul futuro Tribunale unico della famiglia lei è delusa? “Sì, certo. Ieri sera ne ho parlato con i colleghi e ci siamo rimasti tutti male. Perché nonostante un bel titolo, anche molto suggestivo, la riforma non corrisponde affatto alle nostre richieste. Sulle quali, per anni, abbiamo insistito, addirittura a partire dal 2003, quando l’allora Guardasigilli Roberto Castelli cominciò a ipotizzare la soppressione dei nostri tribunali”. Un momento. Qui la riforma proposta mi pare che non ipotizzi di cancellare il vostro tribunale, ma di trasformarlo in una realtà più grande in cui confluiscano tutte le questioni attinenti alla famiglia, dal divorzio ai reati dei minori. Perché lei dice no? “La delusione c’è comunque perché le nostre proposte non sono state considerate. Io e i miei colleghi non buttiamo giù tutta la riforma, ma poiché viviamo questa realtà ogni giorno, siamo gli esperti che possono dire cosa realmente accade nei tribunali e che cosa servirebbe”. E cioè? Dica la verità, voi non volete che siano cancellati gli attuali tribunali dei minori... “Non è affatto così. Rispetto a questioni estremamente dolorose che trattiamo ogni giorno, con esperienza e competenza, noi vorremmo continuare a farlo esattamente nello stesso modo. Cioè con un collegio composto da quattro persone, due giudici togati e due giudici onorari, invece che da un solo giudice togato, che deciderebbe su cose gravissime che deflagrano nella vita delle persone. Qui abbiamo a che fare con grandi drammi familiari, con storie di bambini ben più drammatiche di quelle raccontate in qualsiasi romanzo. Sono storie che fanno male alle persone che le vivono, ma anche al giudice che deve decidere...”. E secondo lei una sola persona, un solo giudice togato, non può decidere? Ma oggi, facendo un confronto, non è un giudice monocratico che decide nei tribunali ordinari su fatti gravissimi? “Guardi, non faccia confusione. In questa materia confronti simili non si possono fare. Una cosa è decidere se è stato commesso un reato, altro è decidere dove deve andare a vivere un bambino e se le persone a cui sarà affidato sono in grado di affrontare e rimarginare le ferite che ha subito”. Scusi, ma è un fatto che oggi le questioni della famiglia siano divise tra il tribunale civile e quello dei minori. I divorzi, che ovviamente coinvolgono i figli, sono in mano molto spesso a giudici inesperti perché si occupano di tutto soprattutto nei piccoli tribunali, mentre il mondo dei minori è nelle vostre mani. Non è giusto mettere insieme tutto questo in un unico tribunale? “Sì, un unico tribunale è possibile, ma purché le scelte più gravi vengano trattate da uffici giudiziari esattamente identici all’attuale tribunale dei minorenni. Lasciamo pure il divorzio e la separazione non drammatica al giudice monocratico, ma la decisione se allontanare oppure no un bambino dalla sua famiglia deve essere presa da un organo giudiziario non composto da un solo giudice, ma da più giudici che siano rappresentativi delle varie competenze”. Semplificando al massimo, per farci capire da tutti, lei dice sì al Tribunale unico della famiglia e dei minori, ma contesta la sua struttura e organizzazione. Perché? “Glielo spiego con un esempio concreto. Prendiamo il futuro tribunale della famiglia di una grande città oggi già sede di un tribunale per i minorenni. Per esempio Milano. Quel tribunale si chiamerà “Tribunale distrettuale unico per la famiglia”. Lì ci saranno dei giudici togati e onorari che decideranno sui processi penali dei minori, sugli eventuali stati di abbandono, e sull’idoneità all’adozione delle coppie che ne fanno richiesta. Ma questo Tribunale non seguirà più i casi di grave inadeguatezza dei genitori a seguire i figli che poi portano a dichiarare i genitori decaduti”. In questo tribunale saranno affrontati anche i divorzi? “No, perché quelli andranno a finire nelle sezioni circondariali che saranno il braccio periferico del Tribunale unico della famiglia”. E in quelle sezioni si tratterà anche tutto il resto? “Questo è un altro punto critico. Perché lì giudice sarà da solo ad affrontare questioni estremamente difficili e delicate, e questo lo giudico sbagliato e foriero di conseguenze negative perché una scelta assunta da quattro persone garantisce molto di più di quella di un solo giudice”. Ma allora di questo Tribunale della famiglia lei non salva proprio nulla? “Innanzitutto è apprezzabile che finalmente si investa su chi si occupa della famiglia e dei minori. Poi trovo positivo che si ipotizzi di dar vita a una procura specializzata che svolge le stesse attività della procura minorile attuale, ma avrà in più il compito di pubblico ministero nelle separazioni e nei divorzi nell’interesse del bambino”. Ilaria Cucchi rivela le omissioni dell’Arma e smentisce l’ex ministra 5 Stelle Trenta di Nello Trocchia Il Domani, 10 settembre 2021 Nell’udienza del processo a Riccardo Casamassima, testimone chiave nel processo Cucchi, la sorella di Stefano ha letto i messaggi che smentiscono la ricostruzione dei rapporti con i carabinieri fornite dall’ex ministra Elisabetta Trenta. “Mi lamentai con il generale Giovanni Nistri perché un carabiniere imputato continuava a pubblicare post contro di me senza conseguenze, mentre il carabiniere testimone subiva continui procedimenti disciplinari, e gli dissi che si dava l’impressione di un’arma sotto ricatto, il generale mi rispose “ognuno ha scheletri nell’armadio”. Pubblicamente ho chiarito che noi non ne abbiamo”, dice Ilaria Cucchi durante l’udienza di un processo a carico di Riccardo Casamassima, testimone chiave nel processo Cucchi, imputato per vilipendio e diffamazione. Il ricordo che riporta alla luce Ilaria Cucchi racconta il difficile rapporto della famiglia con i vertici dell’arma. Durante l’udienza, Cucchi ha depositato anche uno scambio di messaggi con Elisabetta Trenta, allora ministra della Difesa nel governo Conte II che ricostruiscono un incontro risalente al 2018. “D’altra parte ho ascoltato Nistri anche io. Forse non ha detto le parole che lei voleva sentire ma ha cercato di farle capire che Casamassima non è lo stinco di santo che dice, anche se ha fatto una cosa giustissima”, scrive Elisabetta Trenta a Ilaria Cucchi la sera del 18 ottobre 2018. È un messaggio inedito che la sorella di Stefano Cucchi, morto a causa di un violento pestaggio di stato, ha letto durante l’udienza. Un messaggio che conferma quanto Ilaria Cucchi aveva già sostenuto tre anni fa a seguito di un incontro con l’allora ministra Trenta e con il generale Giovanni Nistri, comandante dell’arma dei carabinieri. L’incontro doveva sancira la riconciliazione tra la famiglia e l’arma e invece si è trasformato in un ulteriore scontro, i cui contorni oggi vengono definiti attraverso gli sms di allora. “Lei è stata già ascoltata su quell’incontro, ma dalle dichiarazioni rilasciate dalla ministra Trenta e dal generale Nistri, sembra che le cose siano andate diversamente, lei ha parlato di sms, possiamo leggerli?”, chiede il giudice a Cucchi che legge in aula i messaggi inviati dall’allora ministra. L’incontro-scontro con l’arma - Nell’ottobre 2018, mentre il nuovo processo a carico dei carabinieri è in corso, la ministra Elisabetta Trenta convoca Ilaria Cucchi al ministero. Un giorno importante per riconciliarsi e ascoltare le scuse pubbliche dello stato. Quel giorno Cucchi arriva accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo. Si presenta anche il comandante generale dei carabinieri Nistri. La famiglia attende le scuse, fuori ci sono decine di telecamere che all’uscita ascolteranno le parole congiunte di Trenta e Cucchi. Tutto è stato preparato scrupolosamente. Ma succede qualcosa che impone a Cucchi e ad Anselmo di evitare l’appuntamento con la stampa. “Dal generale Nistri mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo”, dice Cucchi spiegando il suo disappunto dopo l’incontro con generale e ministra. Casamassima e la moglie Maria Rosati, entrambi carabinieri, hanno con le loro parole rotto il silenzio e consentito di ricostruire la verità sulla morte di Stefano. Non solo. La loro testimonianza ha spinto l”altro militare Francesco Tedesco (condannato a due anni e sei mesi per falso) a parlare accusando del pestaggio di Cucchi i coimputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, poi condannati a dodici anni di carcere per omicidio preterintenzionale. L’udienza della verità - Ilaria Cucchi elogia il comportamento della ministra Trenta, ma la ministra, qualche ora dopo, affida ai social una ricostruzione diversa. “Nistri non ha portato avanti alcun sproloquio e non ha manifestato nei confronti di nessuno pregiudizi punitivi. Ero presente, se lo avesse fatto sarei intervenuta! Semplicemente, ha rimarcato l’obbligo per tutti i gradi al rispetto delle regole, il che rientra nelle sue prerogative di Comandante”, dice l’allora ministra. Quello che succede privatamente tra Cucchi e Trenta è stato ricostruito nell’udienza che si è svolta davanti al tribunale militare. Cucchi, sentita come testimone, ha raccontato tutto e letto i messaggi. Confermano che che Nistri, in quell’incontro, ha parlato di Casamassima, il testimone chiave del processo. Sms che conferma la ricostruzione pubblica di Cucchi e trasforma in contraddittoria quella fornita via social dall’ex esponente di governo del M5s. Gli sms letti in aula erano già stati anticipati nel contenuto dall’ex ministra Trenta quando è stata ascoltata nelle scorse udienze. Il pubblico ministero ha ricordato che successivamente a quell’incontro il generale Nistri aveva inviato una lettera alla famiglia Cucchi che la stessa Ilaria Cucchi aveva apprezzato ed elogiato pubblicamente. Inoltre la pubblica accusa ha chiesto l’acquisizione dei fascicoli giudiziari a carico di Casamassima che, nel 2018, era imputato per spaccio di stupefacenti, processo dal quale è stato assolto con formula piena. Quello che è stato già accertato in sentenza è che senza il suo contributo, quello di Maria Rosati e di Tedesco la verità sulla morte di Stefano Cucchi sarebbe rimasta nascosta. Fabbricato abusivo, sospensione condizionale della pena possibile anche senza la demolizione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2021 Lo ha chiarito la Terza sezione penale della Cassazione, sentenza 33414 depositata oggi. Non è legittima l’automatica subordinazione della sospensione condizionale delle pena concessa per prima volta alla demolizione dell’opera abusiva. Lo ha chiarito la Terza sezione penale della Cassazione, sentenza 33414 depositata oggi, accogliendo, sotto questo profilo, il ricorso di una donna condannata a 40 giorni di carcere e 26mila euro di ammenda per aver realizzato in zona sismica un fabbricato in cemento armato di due piani in assenza di permesso di costruire e senza neppure un progetto ed un professionista a seguire i lavori. Il Tribunale dunque aveva subordinato la sospensione condizionale alla demolizione dell’opera, senza motivare le ragioni della propria decisione. E la Corte di appello ha confermato la decisione aderendo all’indirizzo della Cassazione secondo il quale “è legittima la sentenza con cui il giudice subordina la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell’opera abusiva, senza procedere a specifica motivazione sul punto, essendo questa implicita nell’emanazione dell’ordine di demolizione disposto con la sentenza, che, in quanto accessorio alla condanna del responsabile, è emesso sulla base dell’accertamento della persistente offensività dell’opera stessa nei confronti dell’interesse protetto “. Secondo un diverso orientamento, a cui la Sezione aderisce, invece “non è sufficiente affermare che l’ordine di demolizione ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, ma è necessario spiegare perché, sul piano prognostico di cui all’art. 164, comma primo, cod. pen., si ritenga necessario porre l’esecuzione di tale ordine come condizione per la fruizione del beneficio della sospensione condizionale della pena”. Quest’ultimo indirizzo, argomenta la decisione, è più aderente alla lettera dell’articolo 165 cod. pen. nella parte in cui, pur non escludendo affatto la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (e dunque anche alla demolizione dell’immobile abusivamente realizzato) (comma primo), attribuisce al giudice una facoltà (del cui esercizio egli deve dar conto in base al giudizio prognostico di cui all’articolo 164, comma primo, cod. pen.), non un obbligo (comma secondo). Del resto, prosegue la Corte, quando il legislatore ha inteso subordinare in modo automatico la sospensione condizionale della pena all’adempimento di obblighi specificamente previsti, lo ha fatto in modo espresso, “tipizzando i relativi casi e privando il giudice di ogni facoltà sul punto”. Mentre l’argomento della persistente offensività dell’immobile abusivo che, secondo l’orientamento qui non condiviso, legittima la subordinazione della sospensione condizionale alla sua demolizione in assenza di qualsiasi giudizio prognostico, “non solo non convince ma introduce, di fatto, un automatismo non previsto, né voluto dal legislatore”. Prova ne sia, sul piano della interpretazione sistematica, che nei casi di certa persistenza dell’offesa al bene tutelato dalla sanzione penale il legislatore ha lasciato al giudice il compito di valutare se subordinare o meno il beneficio della sospensione condizionale in base al giudizio prognostico di cui all’articolo 165, comma primo, cod. pen. (cfr, al riguardo, gli articoli 255, comma 3, e 257, comma 3, Dlgs n. 152 del 2006). In questo senso, sul piano della coerenza intrinseca, “non si comprende perché in caso di reati urbanistici la sospensione condizionale della pena concessa per la prima volta possa essere immotivatamente subordinata alla demolizione dell’opera abusivamente realizzata, mentre in caso di inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali e sotterranee, la sospensione della pena può essere subordinata alla bonifica o agli adempimenti alle prescrizioni imposte dall’autorità”. Né altrimenti si spiegherebbe perché per determinati, specifici, reati il legislatore ha inteso subordinare senz’altro il beneficio al risarcimento del danno o alla riparazione pecuniaria (articolo 165, commi quarto e sesto, cod. pen.) escludendo da tale “numerus clausus” i reati in materia urbanistica. “Ciò che si vuol dire - conclude la Cassazione - è che la funzione ripristinatoria dell’ordine di demolizione, volta a eliminare te conseguenze dannose del reato, non giustifica di per sé la sostanziale abrogazione del primo comma dell’articolo 165 cod. pen.”. Santa Maria Capua Vetere. Le indagini confermano la brutalità del pestaggio di stato in carcere di Nello Trocchia Il Domani, 10 settembre 2021 La procura della repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha chiuso le indagini sulla mattanza compiuta nel carcere Francesco Uccella, il 6 aprile 2020, dagli agenti della polizia penitenziaria, coperti e sostenuti dall’intera catena di comando. A distanza di neanche 18 mesi dall’evento, i magistrati hanno inviato agli indagati l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Sono coinvolte 120 persone che rispondono a vario titolo di tortura pluriaggravata, abuso di autorità, frode processuale, falso in atto pubblico, depistaggio, calunnia, ma anche di cooperazione nell’omicidio colposo di un recluso. Perché in quel pestaggio di stato, che Domani ha documentato anche pubblicando i video, un detenuto algerino di 27 anni, Lamine Hakimi è morto dopo le botte, le violenze subite e un duro e ingiustificato regime di isolamento. La morte di Hakimi, il 4 maggio, rappresenta una pagina buia che rende quel pestaggio organizzato nei confronti di detenuti inermi, una delle giornate più nere della storia recente del nostro paese. I magistrati, nell’avviso di conclusione delle indagini, evidenziano che hanno acquisito, attraverso numerosi interrogatori svolti, altri elementi indiziari in merito all’omicidio colposo di Hakimi. L’orribile mattanza - Durante il primo lockdown, deciso per contenere il contagio da Covid-19, in carcere non ci sono mascherine, acqua potabile, biancheria e arriva anche il virus che contagia un recluso. Lo stato risponde con un pestaggio generalizzato, con un abuso di potere. Una violenza definita “orribile mattanza” da Sergio Enea, giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza con cui ha disposto 52 misure cautelari (arresti e interdizioni) per agenti e dirigenti, incluso il provveditore regionale per le carceri della Campania, lo scorso giugno. I video di quella mattanza hanno confermato le denunce e le nostre inchieste giornalistiche sugli eventi del 6 aprile nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Quel giorno 283 agenti della polizia penitenziaria hanno partecipato alla caccia ai detenuti, una repressione furiosa, contro persone disarmate e inermi del reparto Nilo, quello dove sono presenti prevalentemente persone con problemi di tossicodipenza o disturbi mentali. “Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “chiave e piccone”, dicono gli agenti penitenziari nelle chat finite agli atti dell’inchiesta della procura, guidata da Maria Antonietta Troncone che ha coordinato l’indagine insieme al procuratore aggiunto Alessandro Milita (pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto). Un’inchiesta che ora arriva a un punto di svolta con la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, preludio della possibile richiesta di rinvio a giudizio. In 120 rischiano il processo - Sono 177 le persone offese, all’epoca detenute presso il carcere di Santa Maria, vittime della mattanza di stato, gli indagati sono 120, tra questi c’è anche l’allora provveditore regionale Antonio Fullone, rimasto al suo posto nonostante, come altri, fosse coinvolto nell’indagine. La procura chiarisce i numeri delle contestazioni e i detenuti coinvolti, da vittime sacrificali, nella spedizione punitiva. “Per gli abusi, pestaggi, lesioni, maltrattamenti e comportamenti degradanti e inumani, attuati nella giornata del 6 aprile 2020, era stata ritenuta la gravità per il delitto di concorso in tortura ai danni di 41 detenuti; di maltrattamento aggravato ai danni di 26 detenuti; di concorso in lesioni personali ai danni di 130 detenuti”, scrivono i magistrati sammaritani. La procura richiama un altro aspetto che completa aggravandolo il quadro. “I delitti sono aggravati dalla minorata difesa, dall’aver agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione pubblica, con l’uso di arma (il manganello) e dell’aver concorso nei delitti un numero di persone di gran lunga superiore alle cinque unità”, scrivono i pubblici ministeri. Un ultimo aspetto, più volte denunciato e che chiamerebbe il ministero della Giustizia a un’assunzione di responsabilità maggiore, riguarda i tanti agenti, muniti di caschi, non ancora identificati e provenienti da altri istituti penitenziari. Agenti che continuano a svolgere servizio per conto della repubblica italiana. Un’indagine che si avvia rapida verso il processo e che mette sotto accusa l’intera catena di comando. Le istituzioni avevano risposto con il silenzio e con la menzogna nonostante l’esposto del garante dei detenuti Samuele Ciambriello, le denunce di Antigone, le inchieste di Domani. L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva difeso gli agenti spiegando che non potevano certo rispondere con le ‘margherite’ alle violenze, violenze che non c’erano mai state. Ma non solo lui. Il secondo governo Conte, il 16 ottobre 2020, attraverso il sottosegretario Vittorio Ferraresi, aveva definito la perquisizione straordinaria del 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere “una doverosa azione di ripristino di legalità”. La legalità delle botte e del pestaggio. Santa Maria Capua Vetere. “Torture e omicidio”, l’inchiesta chiusa con accuse durissime di Luca Marconi Corriere della Sera, 10 settembre 2021 Poliziotti e funzionari del Dap sono accusati in diversa misura di tortura, lesioni, abuso d’autorità, falso e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. Si sono concluse le indagini preliminari sulle violenze commesse da agenti della Penitenziaria ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I fatti resi arcinoti dai video dei pestaggi circolati in rete, risalgono al 6 aprile 2020, stagione di proteste nei penitenziari italiani. Lo rende noto la stessa Procura sammaritana diretta da Maria Antonietta Troncone, che ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini a carico di 120 persone, tra poliziotti della Penitenziaria e funzionari del Dap accusati a vario titolo dei reati di tortura, lesioni, abuso d’autorità, falso in atto pubblico, e cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino. L’accusa di omicidio - La Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere contesta anche l’omicidio colposo a dodici indagati in relazione alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze. Tra gli indagati che rispondono di cooperazione in omicidio colposo figurano l’allora comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’ex provveditore regionale del Dap (tuttora sospeso) e gli agenti che erano nel reparto di isolamento. L’impugnazione contro il Gip - Nella conferenza stampa del 28 giugno scorso, giorno in cui furono eseguite 52 misure cautelari per gli episodi dell’aprile 2020, gli inquirenti spiegarono, in relazione alla morte di Lamine, di aver contestato il delitto di “morte come conseguenza di altro reato” ad alcuni indagati, ma che il Gip Sergio Enea aveva bocciato tale impostazione ritenendo, in base agli elementi raccolti fino a quel momento, che la morte dell’algerino andasse classificata come suicidio; la decisione del Gip è stata però impugnata dalla Procura, che ha quindi aggiunto un’ulteriore grave contestazione al compendio accusatorio già rilevante. La morte di Hamine - Per la Procura Hamine sarebbe stato percosso violentemente dopo essere stato prelevato dalla cella e portato in quella di isolamento, quindi qui avrebbe assunto “in rapida successione e senza controllo sanitario un mix di farmaci, tra cui oppiacei, neurolettici e benzodiazepine” che ne avrebbero provocato dopo circa un mese la morte per un arresto cardiocircolatorio conseguente a un edema polmonare acuto. Santa Maria Capua Vetere. “Condotte lesive della dignità e dell’incolumità dei detenuti” di Raffaele Sardo La Repubblica, 10 settembre 2021 Il capo dei pm Maria Antonietta Troncone: “Volevamo ripristinare la legalità. Da parte della Procura vi è stato un grande rigore probatorio nella vicenda delle violenze al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Da un lato si è proceduto alla ricerca della verità, senza alcun pregiudizio nei confronti del corpo di polizia penitenziaria che svolge un lavoro onerosissimo e con grande dedizione. Ma si è inteso, però, accertare quelle condotte gravemente lesive dell’incolumità e della dignità dei detenuti”. Usa parole chiare Maria Antonietta Troncone, a capo della Procura di Santa Maria fino a martedì prossimo, quando si insedierà ad Aversa per dirigere la Procura di Napoli Nord. I suoi sei anni alla guida di una delle Procure più calde d’Italia, terminano proprio con la chiusura della indagini sulle violenze in carcere. I video che le hanno documentate hanno scioccato l’Italia intera, tanto che il presidente del Consiglio Mario Draghi, in visita insieme alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nel carcere di Santa Maria, pronunciò parole altrettanto chiare: “Il governo ha visto, sa e non dimenticherà”. L’indagine sul carcere ha retto non solo alle critiche, ma anche al vaglio del Riesame... “Le indagini sono state rigorose. Abbiamo proceduto metodicamente alle visualizzazioni delle immagini di videosorveglianza, con la escussione dei detenuti, con i riconoscimenti attentamente vagliati e confrontati, con attività tecniche di intercettazione e con acquisizione dei dati degli smartphone utili a verificare le responsabilità soggettive. Sono stati ascoltati tanti detenuti. Alla fine l’ufficio ha prodotto un lavoro di 6000 pagine e l’ordinanza del Gip è più di 2000 pagine”. Lascia un ufficio importante per un altro posto di frontiera. Quali sono state le difficoltà che ha trovato in questi anni? “Anzitutto le attività di un procuratore della Repubblica sono caratterizzate da una intensa attività gestionale e organizzativa e bisogna anche inventarsi una professionalità che come magistrati non abbiamo. Ci vuole una formazione manageriale che ho cercato di acquisire in questi anni per gestire al meglio l’ufficio”. Il rapporto con i suoi colleghi magistrati? “Altro momento nell’attività del procuratore è quello del coordinamento che comporta la conoscenza dei tuoi collaboratori. Ci vuole un esercizio di guida autorevole e non autoritaria, supporto nell’attività del sostituto, che non ne comprima l’indipendenza, ma che ne valorizzi la professionalità. Ho cercato di fare questo”. Le indagini più rilevanti di questi anni? “L’ufficio ha posto l’attenzione nei settori della pubblica amministrazione, l’illegalità economica, la criminalità predatoria, la tutela dell’ambiente, l’abusivismo, l’attenzione alle fasce deboli e al caporalato. Abbiamo rafforzato il contrasto investigativo con numerosi protocolli d’intesa che hanno consentito sinergia anche con varie istituzioni”. Nello specifico? “Paghiamo ancora lo scotto di una imprenditoria selvaggia che ha sversato rifiuti dappertutto senza scrupoli. Penso ai casi della ex Pozzi Ginori di Calvi Risorta, l’area industrializzata dell’ex Saint Gobain con i residui di arsenico finito nei pozzi. La difficoltà di pervenire a dei momenti di bonifica. Purtroppo è facile l’attività di inquinamento, poi è complesso fare le bonifiche. Molto si è fatto nel campo degli illeciti smaltimenti delle aziende bufaline che scaricano i reflui nei Regi Lagni e poi nel litorale domizio con effetto di inquinamento, tant’è che abbiamo contestato l’inquinamento ambientale agli allevamenti bufalini”. L’ultimo caso di abusivismo edilizio a Casal di Principe, però, ha fatto sollevare molte riserve. “La Procura ha concesso già un rinvio dal 29 marzo al 2 settembre e per le famiglie non sussisteva il problema, perché avevano già trovato sistemazione altrove. Inoltre l’immobile era pericoloso per la cattiva qualità del cemento, travi senza ferro in una zona ad alto rischio sismico”. Rammarico per qualcosa che pensava di fare e non è riuscita a fare? “Un rammarico è sicuramente la questione di Castel Volturno. Quel ghetto umano da cui nascono tanti fenomeni devianti, di droga, prostituzione, di tratta, non ha avuto una soluzione. Ovviamente non può essere il livello giudiziario a risolvere quei problemi, ma occorre un forte coinvolgimento delle istituzioni tutte. Questo è il rammarico per una situazione praticamente inalterata”. Ferrara. Suicidio in carcere, al vaglio la posizione di una decina di persone estense.com, 10 settembre 2021 Proseguono le indagini della procura per chiarire tutti gli aspetti e le eventuali responsabilità della morte del 29enne di Pieve di Cento. Sono al vaglio da parte della procura le posizioni di circa una decina di dipendenti a vario livello del carcere che hanno intrecciato il loro cammino professionale con le ultime ore di vita di L.L., il 29enne di Pieve di Cento, morto suicida il 1° settembre all’Arginone, dove era stato ristretto in attesa della convalida dell’arresto. Le indagini hanno l’obiettivo di sciogliere ogni dubbio sulla morte del 29enne, verificando anche se effettivamente non avesse dato segnali sulla sua volontà di farla finita e, in caso affermativo, se non vi siano state mancanze nel prestargli assistenza mentre era in custodia. Al momento non risultano iscrizioni formali nel registro degli indagati da parte della procura - il fascicolo è passato dalle mani della pm Ombretta Volta a quelle del procuratore capo Andrea Garau - ma le cose potrebbero cambiare quando verrà disposta l’autopsia per dare modo alle persone coinvolte di avere le più ampie garanzie difensive. L’uomo, residente a Cento, era stato portato in carcere a seguito dell’arresto in flagranza effettuato all’alba del 31 agosto da parte dei carabinieri: in casa e nell’auto aveva due chilogrammi di marijuana, 161 grammi di hashish, 16mila euro in contanti e anche una pistola semiautomatica risultata rubata e munizioni. Alle 15 del giorno successivo è stato trovato privo di vita nella cella della sezione ‘nuovi giunti’, dove si era impiccato usando un lenzuolo. Busto Arsizio. “L’ozio in carcere fa impazzire” di Sarah Crespi La Prealpina, 10 settembre 2021 Parla il cappellano dopo un altro tentativo di suicidio. Non si conclude la giornata senza un’emergenza in carcere. Mercoledì sera, 8 settembre, un detenuto maghrebino ha tentato il suicidio inalando il gas della bombola dei fornelletti ed è stato salvato in extremis. Ma non è fuori pericolo: i soccorritori lo hanno portato subito in ospedale ed è tutt’ora ricoverato nel reparto di rianimazione. È l’ennesimo caso di un’estate bollente più che mai in via per Cassano. Lo conferma il cappellano, don David Maria Riboldi: “È la terza estate che trascorro a Busto ed è stata la peggiore. Continui tentativi di suicidio, aggressioni tra detenuti, aggressioni ai poliziotti, proteste eclatanti. La verità è che i problemi si sono moltiplicati e c’è solo una via per arginarli: ripristinare la socialità, le attività formative, le iniziative educative, il confronto con figure propositive. Non è solo una questione di maggiori casi psichiatrici da gestire: è che chiunque, se lasciato tutto il giorno su una branda senza fare nulla, impazzirebbe”. Il cappellano non parla in linea astratta e teorica. Lui sopperisce con cento idee alla paralisi in cui i quattrocento ospiti del penitenziario bustese vegetano dall’esplosione del virus. Proiezioni di film, cineforum per riflettere e poi i corsi. “Quello organizzato in occasione del Ramadan è stato molto partecipato e intenso, ma ancora di più quello che si è appena concluso, un laboratorio di fotografia a cui hanno aderito numerosissimi, in una mescolanza di culture, etnie e lingue che ha generato un clima creativo e sereno, in cui le differenze non hanno generato le tensioni che si registrano di solito, bensì arricchimento”. Da quel corso nascerà il calendario del 2022. Don David è certo: “Bisogna promuovere la socialità e le iniziative, mi chiedo perché da anni si sia dimenticato lo sport, soprattutto il calcio. Mi chiedo perché non ripartano gli articoli 21, ossia i permessi di lavoro esterno con rientro alla sera. Sono opportunità che fanno la differenza”. In effetti la cattività non è mai un giovamento per qualsiasi essere vivente. Oggi pomeriggio nella casa circondariale arriveranno l’europarlamentare Isabella Tovaglieri e il senatore Stefano Candiani, la cui visita è stata richiesta dai sindacalisti della Uilpa polizia penitenziaria, affinché portino sui tavoli politici le istanze di chi vive e lavora dietro le sbarre. “La società civile - concorda il cappellano - dovrebbe farsi maggiore carico della realtà carceraria e non ignorarla. Dentro ci sono persone private degli affetti, che non avevano punti di riferimento prima e che ne hanno ancor meno dopo la detenzione. Meritano la possibilità di essere recuperati. Serve anche la rete esterna. A Busto la pasticceria Colombo si è resa disponibile per accogliere un detenuto in misura alternativa e così ha fatto l’Orso Verde. Con la cooperativa Valle di Ezechiele cerchiamo di creare relazioni e ora abbiamo una sostenitrice in più accanto ai reclusi: la conduttrice Adriana Volpe, che è venuta a farci visita mettendosi a disposizione”. Roma. Donna partorisce in carcere da sola e senza un medico di Luca Monaco La Repubblica, 10 settembre 2021 I giudici erano in ferie. Il Garante: “Episodio gravissimo”. Il 14 agosto il Garante per i detenuti aveva scritto in tribunale, ma non ha mai risposto nessuno. Così la figlia di una giovane rom è nata dietro le sbarre. “Io non ci dovevo andare in carcere, quando mi hanno arrestata lo sapevano benissimo che ero incinta, ma con noi rom fanno come vogliono”. Amra è ancora scossa. È tornata pochi giorni fa nella sua casa costruita su un terreno a poca distanza da Ciampino con l’ultima nata di casa tra le braccia. La più piccola dei suoi quattro figli è nata dietro le sbarre del carcere femminile di Rebibbia il 3 settembre scorso. Amra, 23 anni, italiana di origine bosniaca, ex residente nel campo rom di Castel Romano, una piccola Calcutta senza collegamenti né servizi ai bordi del comune di Pomezia, ha partorito da sola in una cella dell’infermeria. Senza un medico, senza nessuno in grado di fornirle l’assistenza sanitaria alla quale aveva pieno diritto. È un fatto che non sarebbe dovuto accadere. Perché Amra era stata arrestata per un furto alla fine di luglio, era già in uno stato avanzato di gravidanza e ancora in attesa del processo, ma il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma le ha imposto il carcere. “Quella notte è successo tutto improvvisamente - racconta la donna - nelle ore precedenti non avevo dolori, anche se sapevo che avrei partorito di li a poco tempo. La sera ho cenato, poi mi sono messa a letto e improvvisamente sono iniziate le contrazioni”. La 23enne divide la cella con un’altra rom, anche lei incinta, al quinto mese di gravidanza. “Quando sono iniziati i dolori lei mi ha aiutata - aggiunge Amra - e dopo poco è nata la bimba. È stata la mia compagna di cella a chiamare i soccorsi”. Le grida di aiuto richiamano l’attenzione degli agenti, che allertano subito il medico: quando entra in cella il parto è già finito. Subito dopo, la donna viene trasferita in ambulanza all’ospedale Sandro Pertini, dove rimane cinque giorni in osservazione prima di essere dimessa. Pochi giorni fa Amra è tornata in libertà in attesa del processo. Una follia tutta italiana. Della quale nessuno avrebbe saputo nulla se non fosse per l’attenzione della Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni: aveva intercettato la donna, ricoverata in infermeria, insieme ad altre due rom incinte e ai pazienti psichiatrici, il 14 agosto scorso. Tre giorni più tardi aveva scritto al giudice chiedendo la scarcerazione di Amra e proponendo il ricovero nella Casa di Leda, una struttura protetta, aperta dal marzo del 2017, per la tutela delle detenute con figli minori. Può ospitare fino a sei persone e otto figli da zero a 10 anni. Il posto c’era e Stramaccioni l’aveva segnalato nero su bianco al tribunale. Nessuno ha mai risposto a quella lettera. “In casi come questo il carcere non deve assolutamente essere adottato come una misura di prevenzione - ripete la Garante dei detenuti di Roma - per le donne incinte come per le mamme con i bambini piccoli a Roma sono state create delle strutture protette, a partire dalla Casa di Leda, dedicate proprio alle donne che si trovano in questa situazione”. Insomma, afferma Stramaccioni, “quella donna lì non ci doveva proprio arrivare e ci voleva molto poco a pensare di non mandarla in carcere. La detenzione preventiva nei penitenziari deve essere presa in considerazione come ultima ratio, solo per i casi di conclamata pericolosità sociale”. La 23enne, di origini umili, il marito disoccupato e con quattro figli a carico (due maschi e due femmine), avrebbe potuto essere tranquillamente trasferita nella struttura comunale e invece è rimasta in cella rischiando la vita. Perché nessun medico può escludere a priori le complicanze di un parto. “Non ne voglio più parlare - sospira Amra - non sono certo la prima e non sarò l’ultima donna rom vittima di questo sistema”. “Uno dei problemi che generano queste situazioni assurde - spiega la responsabile della rete Giustizia di Cittadinanzattiva Laura Liberto - è relativo all’accoglienza nelle strutture alternative. Le donne con bambini minori spesso si trovano in carcere perché non hanno un altro domicilio ritenuto affidabile. Specie le rom non vengono mandate a scontare i domiciliari nei campi”. Dopo il parto, la denuncia della Garante dei detenuti di Roma, lunedì scorso è stata scarcerata anche Marinela, la compagna di cella di Amra, pure lei incinta, al quinto mese, e in attesa di giudizio per furto. Il 15 agosto era entrata a Rebibbia una terza rom al terzo mese di gestazione. “Sono tante le zingare come me che vengono portate in carcere anche se sono incinte e non ci dovrebbero stare - allarga le spalle Amra - quello che mi è successo non se lo aspettava nessuno, essere visitati lì dentro non è certo semplice. Ho subito una discriminazione bella e buona che riguarda tutti noi rom. Perché nessuno si merita di essere trattato così”. Come superare il problema? Uno strumento ci sarebbe. Con la legge di Bilancio 2021, osserva Liberto, “siamo riusciti a far istituire un fondo che prevede lo stanziamento fino al 2023 di 1.5 milioni di euro l’anno dedicati all’accoglienza delle madri o dei padri con i bambini al seguito nelle strutture già esistenti o da istituire”. Il numero delle detenute incinte o con minori, in tutta Italia, “non supera le 60 l’anno - fa notare Liberto - con numeri così bassi ci vorrebbe poco a risolvere il problema”. I soldi ci sono, ma non sono ancora disponibili. “Il fondo - rileva Liberto - andrebbe sbloccato con l’adozione da parte del ministero della Giustizia del decreto attuativo. In commissione Giustizia alla Camera è in discussione la proposta di legge Siani finalizzata a completare questo percorso, ma senza il prezioso lavoro dei garanti i singoli casi come quello di questa giovane rom sfuggirebbero. Sono casi gravissimi, perché le donne in gravidanza in carcere non ci dovrebbero stare”. Palermo. Installata e poi rimossa: è un caso la statua del piccolo Di Matteo di Salvo Palazzolo La Repubblica, 10 settembre 2021 L’ex commissario regionale ci ha ripensato: “Mancano i permessi”. La delusione dello zio del bambino ucciso dalla mafia: “Un’offesa alla sua memoria”. Non c’è pace per il piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito che Cosa nostra rapì e poi sciolse nell’acido, l’11 gennaio 1996. Non c’è pace neanche da morto. La bella statua in bronzo che lo ricorda è avvolta da un lenzuolo bianco, all’ingresso della Casa del fanciullo di Giuseppe Jato, sede del Comune. Dice lo zio Nunzio: “Il 30 luglio, il commissario della Regione Salvatore Graziano aveva dato il via libera all’installazione, poi nei giorni scorsi ci ha chiamato per dire che dovevamo toglierla. Ma io non ho alcuna intenzione, quella statua resta lì”. Abbiamo alzato quel lenzuolo, la statua raffigura un bambino vestito da fantino, un’opera dell’artista corleonese Nicolò Governali. Che sta succedendo a San Giuseppe Jato? Il commissario Graziano non è più a capo dell’amministrazione comunale, perché intanto si sono insediati i tre commissari nominati dal consiglio dei ministri dopo lo scioglimento per il rischio di infiltrazioni mafiose. Abbiamo cercato Graziano al telefono, ha tenuto a precisare: “Ho subito accolto l’iniziativa della famiglia Di Matteo, ma ci vuole una delibera per sistemare quella statua in Comune, che non è certo una casa privata”. Non lo sapeva prima che era necessaria una delibera? Il dottore Graziano dice: “In questa vicenda non sono stato supportato bene dagli uffici comunali. Ho comunque già parlato coi nuovi commissari. Il tempo di fare tutti gli adempimenti e poi la statua tornerà al suo posto”. E, intanto, la statua resta coperta da un lenzuolo bianco. Con un’ingiunzione di sfratto. “Che pena”, dice lo zio Nunzio. “Ma perché è ancora così difficile ricordare un bambino ucciso dalla mafia?”. Nunzio Di Matteo lavora al Provveditorato Opere pubbliche: andò via dalla Sicilia nel 1988, qualche tempo dopo vinse un concorso al ministero dei Lavori pubblici, è rimasto a Roma fino al 2014. “Io ho preso una strada diversa da mio fratello - dice - ho sempre lavorato, anche da ragazzo, posso andare a testa alta. Il mio impegno è ormai quello di custodire la memoria di Giuseppe”. Memoria coperta da un lenzuolo a San Giuseppe Jato, il paese di Giovanni Brusca, il capomafia oggi collaboratore di giustizia (tornato libero) che ordinò la morte del bambino dopo 779 giorni di prigionia. Giuseppe aveva 14 anni. “Mi ero rivolto anche al Comune di Altofonte, il paese della nostra famiglia - Nunzio Di Matteo è un fiume di parole, è arrabbiato - il sindaco mi aveva detto che avrebbe accolto la statua in un plesso scolastico, ma senza la targa, che dice: “Io vivo in voi che credete nella giustizia e avete fede in Dio”. Ma cosa c’è di male in questa targa? Mi è sembrata una scusa. E mi sono rivolto al Comune di San Giuseppe Jato, che gestisce il giardino della memoria, il casolare dove fu ucciso mio nipote. Ma, evidentemente, la memoria di Giuseppe è ancora scomoda”. Ora, questa statua coperta all’ingresso della sede comunale attira tanta curiosità. Anche i nuovi commissari hanno chiesto cosa fosse. E scoperto il pasticcio burocratico, stanno cercando di risolvere la situazione. Che non è più solo una questione di carte: “È una ferita aperta - dice lo zio del bambino - il giorno in cui siamo stati invitati dal commissario Graziano a sistemare la statua, era presente pure il geometra del Comune, ci hanno indicato anche un marmista in paese per sistemare la base dell’opera. Toglierla vorrebbe dire danneggiare il lavoro dell’artista Governali”. Insomma, un gran pasticcio dell’antimafia. “Ma anche l’antimafia deve rispettare le regole - osserva Salvatore Alamia, storico esponente della sinistra siciliana, oggi animatore del gruppo Rinasce San Giuseppe Jato - il Comune è un luogo pubblico, e come tale sarebbe stato necessario predisporre una delibera e chiedere gli opportuni pareri prima dell’installazione”. E, adesso, che succede? Bisogna prima accettare formalmente la donazione, poi è necessario predisporre le altre autorizzazioni. “Avevo offerto la statua anche al presidente Musumeci, per il giardino antistante Palazzo d’Orleans - racconta Nunzio Di Matteo - un suo assistente ci ha fatto sapere che non possono accettarla, anche altre vittime della mafia hanno offerto qualcosa, non è possibile fare discriminazioni”. In attesa che la matassa venga sciolta restano le parole dell’artista Nicolò Governali. Non vuole entrare nelle polemiche, dice soltanto: “Giuseppe rappresenta ognuno di noi. Non ha avuto alcun contatto diretto con la mafia, ma ha subito un danno dalla mafia. Il problema mafia riguarda ancora tutti”. Fossano (Cn). Al carcere presentato il laboratorio di trasformazione APpena Lavorata targatocn.it, 10 settembre 2021 Tre detenuti impiegati part-time preparano vasetti di sughi, conserve e confetture trasformando i prodotti della cooperativa Pensolato. La direttrice della casa di reclusione Assuntina Di Rienzo: “C’è stato un grande lavoro di squadra e ringrazio tutti. L’obiettivo era quello di utilizzare al meglio gli spazi dell’istituto”. La vecchia falegnameria del carcere di Fossano diventa un laboratorio per preparare vasetti di sughi, conserve e confetture. È stato presentato questa mattina, giovedì 9 settembre, il Laboratorio di Trasformazione APpena Lavorata. Ci lavorano tre detenuti impiegati part-time che trasformano i prodotti della cooperativa Pensolato. Soddisfatta la direttrice della casa di reclusione Assuntina Di Rienzo: “C’è stato un grande lavoro di squadra e ringrazio tutti. L’obiettivo era quello di utilizzare al meglio gli spazi dell’istituto. C’era voglia di fare un percorso di continuazione con la cascina Pensolato che collabora con noi già dal 2017. Ci abbiamo lavorato e poi l’anno scorso abbiamo avuto la possibilità di realizzare questo progetto iniziando a produrre dal primo di luglio. Ora ci lavorano tre detenuti, ma la nostra intenzione è di svilupparlo ulteriormente e aggiungere altre cooperative”. Le mani dei detenuti sono state fondamentali perché proprio loro si sono occupati della ristrutturazione degli spazi. Ora il laboratorio è gestito dalla Cooperativa Perla Onlus di Savigliano. Fondamentale il lavoro di Rosanna De Giovanni, assistente volontaria che è stata molto importante per il progetto di agricoltura simbiotica che verrà sviluppato nel prossimo futuro. I prodotti utilizzati arrivano dal progetto Caritas “Pensolato” che vede altri nove detenuti lavorare la terra nella cascina omonima in frazione Sant’Antonio Baligio “Quando si uniscono persone diverse tra loro che hanno avuto o hanno difficoltà nella vita si creano cose belle - ha commentato il direttore della Caritas diocesana Stefano Mana -. E nella cooperativa, lavorando i prodotti della terra e a contatto con la natura, tutti hanno avuto giovamento dal punto di vista umano. L’uomo è al centro e non il profitto. Noi coltiviamo capitale umano , curiamo le persone”. Alla presentazione era presente anche il Provveditore regionale Rita Russo: “Per me oggi è un’emozione tornare qui, dopo essere stata direttrice nel 1997. Fu il mio promo incarico come direttrice. Quello che sono me lo ha dato Fossano. Siete un esempio di senso civico, qui non ho mai sentito il pregiudizio. Voi siete stati i primi a dare ai detenuti la possibilità di ricominciare e siete stati dei precursori in questo senso Spesso vediamo episodi che non fanno onore alla nostre strutture penitenziarie, ma voi siete una nicchia, una risorsa preziosa e siamo orgogliosi di voi”. Il sindaco di Fossano Dario Tallone: “Questa è davvero una bellissima realtà. Grazia a Nino Mana e Dario Armando che hanno creduto in questo progetto Ringrazio tutti gli operatori di questa casa circondariale, non solo come amministrazione ma come Fossanese”. Presenti alla giornata anche il senatore Giorgio Maria Bergesio, il presidente della Cassa di Risparmio di Fossano Antonio Miglio e il presidente della Fondazione CRF Gianfranco Mondino. Nell’occasione è stata presentata la terza edizione di “Passi di riscatto”. La manifestazione si terrà domenica 26 settembre a Cascina Pensolato, in strada di Casalito 28, in frazione Sant’Antonio Baligio. Alle 8,45 ritrovo dal cortile del carcere per la presentazione della giornata e un momento conviviale di benvenuto. A seguire, chi lo desidera, può fare il cammino di 9 km fino a Cascina Pensolato sul percorso “Passi di riscatto” in forma individuale. Alle 12 si celebrerà la messa presso la cappella S. Maria del Pensolato. Alle 13,30 il pranzo in cascina in collaborazione con la Pro Loco di Fossano. Prenotazione obbligatoria entro giovedì 23 settembre o fine esaurimento posti presso il punto vendita in via Sacco 5 o al numero di telefono whatsapp 351/1818612. La manifestazione si svolgerà nel pieno rispetto nelle normative anti-Covid. “Abbiamo ideato ‘Passi di Riscatto’ che parte dal cortile interno del carcere proprio per enfatizzare l’ideale di questa camminata che purtroppo sarà in forma individuale a causa della pandemia - ha concluso Dario Armando, socio della cooperativa Pensolato -. Nell’occasione venderemo i pettorali della Strafossan con cui regaleremo un fiore in vaso. Abbiamo 3.500 fiori nella nostra serra”. Roma. Cartabia e la finestra sul cortile di Regina Coeli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2021 Il racconto della ministra della giustizia che ogni sera saluta i detenuti del carcere romano: “È una esperienza fortissima”. La visita al reparto carcerario “La Nave” è stato “uno spartiacque nella mia vita, professionale e personale. È veramente una di quelle date che segna un prima e un dopo”. È stato il primo commento della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo in video collegamento con la mostra del cinema di Venezia, per la presentazione di un docufilm sul reparto situato al quarto piano del terzo raggio della Casa Circondariale di San Vittore dedicato alla cura dei detenuti-pazienti con tossicodipendenza. “La visita a tutto il reparto di San Vittore - sottolinea la guardasigilli - mi ha fatto rendere conto che il carcere non è un pianeta ma una galassia, c’è una pluralità di situazioni, una pluralità di condizioni delle persone, di ragioni per cui si è in carcere, che sono mondi diverse che hanno bisogno di approcci diversi e di una presenza diversificata, ciascuna nella sua diversa condizione”. La ministra racconta che il giorno della visita a “La Nave” uno dei detenuti la porto’ a vedere la finestra in fondo al corridoio: “Mi ha detto che quello era l’unico punto di tutto il carcere di San Vittore in cui si puo’ guardare all’esterno oltre le mura con i palazzi di fronte dai quali ogni tanto le persone salutano. Sottolineo l’aspetto della finestra, come tante volte ha detto Papa Francesco. Le carceri devono avere finestre fisiche, esistenziali. È un segno di speranza, è una proiezione verso un oltre”. Poi aggiunge: “Salutare i detenuti è un’esperienza che mi capita di fare quasi tutte le sere quando torno a casa. Io adesso alloggio in un piccolo appartamento dell’amministrazione penitenziaria che si affaccia direttamente sul cortile del carcere di Regina Coeli. Quando accendo la luce per entrare ci sono detenuti alla finestra che, per il semplice fatto di vedere una persona, anche se non credo che mi riconoscano, salutano. E io ricambio il saluto ed è un’esperienza fortissima”. Caltagirone. Carcere, protocollo per il recupero di una sosta camper Gazzetta del Sud, 10 settembre 2021 È stato firmato ieri mattina, alle 10.30, alla Casa circondariale di Caltagirone, il protocollo d’intesa che impegna il Comune di Caltagirone, la Casa circondariale e la Crivop Italia Odv e prevede il recupero di una sosta camper che versava in stato di abbandono. Il progetto vedrà coinvolti direttamente i detenuti, che potranno, come prevede il nostro ordinamento giuridico, sperimentare il valore rieducativo della pena. “Siamo soddisfatti - ha dichiarato Michele Recupero, presidente della Crivop Italia - perché il Comune ha manifestato la volontà di migliorare uno spazio che versava in uno stato di degrado dedicato ad area sosta camper. E la cosa più importante è che saranno proprio i detenuti a contributi al miglioramento e alla valorizzazione di questo luogo che servirà ai tanti che ne hanno bisogno. Adesso si inizierà con poche ore a settimana, ma non escludiamo che in futuro si possa arrivare a un impegno di 24 ore su 24. E così, prevedendo dei costi di gestione, si potrà arrivare a creare un modo per sostenere non solo coloro che devono scontare una pena ma anche le loro famiglie che spesso versano in condizioni disagiate”. Il protocollo d’intesa è stato firmato dalla dottoressa Giorgia Gruttadauria, direttore della Casa circondariale di Caltagirone, dal sindaco di Caltagirone, l’avvocato Giovanni Ioppolo, e dal fondatore della Crivop Italia, Michele Recupero. I firmatari si sono impegnati a realizzare un progetto denominato “Sosta camper Crivop”. Il Comune di Caltagirone darà in gestione a Crivop Italia, per tre anni rinnovabili, l’area sosta camper di San Giovanni. E questo luogo acquisterà una nuova vita per i camperisti che lamentano in Sicilia la mancanza di aree adeguatamente attrezzate: “Ci impegneremo - conclude Recupero - a gestire e coordinare le attività dei detenuti ammessi alle nostre attività, fornire agli stessi direttive e informazioni per migliorare l’efficacia e diminuire il rischio di mancanza di lavoro, consentire l’accesso all’area, la sosta e la fruizione dei servizi, collocare apposite locandine per gli utenti e favorire i detenuti volontari nell’accesso ai servizi socio-sanitari e versare loro eventuali rimborsi e borse lavoro”. Trento. A Terragnolo arriva Armando Punzo, il regista che fa “evadere” i detenuti con il teatro di Tiziano Grottolo ildolomiti.it, 10 settembre 2021 Presenterà il suo libro “Un’idea più grande di me”. Il regista e drammaturgo Armando Punzo, sabato 11 settembre, sarà a Terragnolo nell’ambito della kermesse de “Il Maggese” per presentare il suo libro “Un’idea più grande di me” dove sono raccontati i trent’anni della “Compagnia della Fortezza”, gruppo teatrale professionale composto da detenuti “Il Maggese”, laboratorio esperienziale condotto da Armando Punzo e Chiara Lui, è tornato ad animare gli spazi de “Il Masetto” di Terragnolo. Per chi non lo sapesse si tratta di un mini-festival tematico (QUI il programma completo) incentrato sul tema del ‘maggese’ appunto, inteso come un tempo sospeso di pausa e rigenerazione, e sull’attivazione e condivisione di esperienze di inoperosità creativa e di riappropriazione di tempi, spazi e modi dedicati al sé. Il progetto prevede eventi culturali a tema aperti al pubblico, con incontri, spettacoli, presentazione di esperienze e libri, che incrociano i mondi artistico-culturale, del benessere e della salute. Come spiegano gli organizzatori della kermesse: “L’obiettivo del progetto è rispondere in maniera originale, creativa e profonda alle criticità del nostro tempo, e raccogliere in chiave positiva le sfide che l’emergenza Covid-19 ha lanciato alla nostra società e alle nostre comunità, generando strumenti di lettura e di scelta in momenti di incertezza, dove la pianificazione del futuro è impedita dalle circostanze, e diventano invece importanti presenza e relazione nel presente”. Ospite d’eccezione de “Il Maggese” sarà Armando Punzo, regista e drammaturgo, che ha legato il suo nome alla “Compagnia della Fortezza”, gruppo teatrale professionale composto da detenuti, che dal 1989 opera nella Casa di Reclusione di Volterra. Punzo arriverà a Terragnolo assieme alla co-autrice Rossella Menna, l’11 settembre alle ore 18, per presentare “Un’idea più grande di me”, il libro dove sono raccontati i trent’anni della sua Compagnia. “Se ho scelto di fare il mio teatro in questa stanza - ha chiarito tante volte il regista - non è perché mi interessi il carcere. Anzi. A me interessa solo chi riesce a sentirsi libero in un carcere, chi riesce a decrescere, depotenziarsi, sminuirsi, farsi talmente piccolo da passare come pensiero altro attraverso le sbarre della prigione. Il carcere reale è metafora concreta di un carcere più ampio in cui tutti viviamo. Entrare qui dentro significa varcare un limite che esiste anche nel mondo fuori, ma che in carcere è visibile in modo abnorme. Il teatro diventa uno strumento perfetto per straniarlo. Perché quel limite altro non è che l’uomo. Sono io”. Dal canto suo la “Compagnia della Fortezza”, in trent’anni di attività, ha messo in scena più di trenta spettacoli, ricevendo prestigiosi riconoscimenti, tra i quali il Sigillo d’Ateneo dell’Università di Urbino, sei Premi Ubu, il Premio Associazione Nazionale Critici di Teatro, il Premio Carmelo Bene della rivista Lo Straniero, il Premio Europa Taormina Arte, il Premio speciale Biglietto d’oro Agis. L’appuntamento dunque è per sabato 11 settembre alle ore 18, a “Il Masetto” di Terragnolo. L’ingresso sarà libero, con Green pass, per ulteriori informazioni scrivi@ilmasetto.com o 349 296 21 89. Paola Severino e il docufilm “Rebibbia lockdown”. “Studenti e detenuti insieme per il futuro” di Ilaria Ravarino La Repubblica, 10 settembre 2021 Il “miracolo dei cavi” si è compiuto in una notte, e da solo varrebbe un film. Perché nell’era dell’interconnessione digitale, in cui a chiunque basta un click per comunicare, c’è un luogo che il web non può raggiungere: il carcere. Eppure quei cavi, nel carcere romano di Rebibbia, ci sono avventurosamente arrivati. E con loro è arrivata anche la possibilità per i detenuti, condannati nei primi mesi del 2020 al lockdown più estremo di tutti, di tornare a comunicare, seppure online, con i propri familiari. A raccontarlo è il docufilm Rebibbia Lockdown di Fabio Cavalli, presentato ieri a Venezia78, prossimamente in sala e a fine ottobre sulla Rai. Nato da un’idea della vicepresidente della Luiss Paola Severino, già ex ministro della Giustizia, il film racconta la storia vera di quattro detenuti e altrettanti studenti universitari (volontari del progetto “Legalità e Merito”), accomunati dall’amore per lo studio, separati dal lockdown e riuniti da un miracoloso espediente: i cavi, appunto. Come è nata l’idea? “L’idea, quella di insegnare la legalità ai giovani, ce l’ho da sempre. È una lezione che ho imparato dal direttore dell’anticorruzione di Hong Kong. Là, un tempo, il tasso di corruzione era tale che se ti scoppiava un incendio a casa, e non avevi soldi da dare ai pompieri, nessuno avrebbe spento le fiamme. Quando ho chiesto come avessero fatto a risolvere il problema, il direttore dell’anticorruzione mi rispose così: “Insegniamo la legalità ai bambini di tre anni”“. Il progetto con Rebibbia, prima del Covid, in cosa consisteva? “Gli studenti dovevano andare a Rebibbia di persona, per aiutare i carcerati diplomandi a superare gli esami universitari. Poi, però, è arrivato il lockdown”. E cosa è successo? “Abbiamo deciso di non fermarci. L’aspettativa dei detenuti era forte e dovevamo essere presenti. Abbiamo iniziato scrivendo lettere, ma poi non è stato più possibile. La svolta è arrivata interagendo con loro attraverso le mail, le videochat, il web”. Che impatto hanno avuto le videochiamate sui detenuti? “Fortissimo. Anche perché hanno potuto rivedere in chat la vita fuori, i nipotini, persino i loro animali domestici. La privazione della libertà, sommata all’interruzione dei rapporti con la famiglia, è una miscela esplosiva”. Le videochat in carcere continueranno? “Spero di sì e farò tutto quello che posso perché accada. Al docufilm ha partecipato anche il capo del dipartimento penitenziario, la più alta autorità in materia di carceri: era coinvolto e fiero del miracolo fatto a Rebibbia in una notte, quello di portare i cavi in carcere. Bisognerebbe riflettere su quanto accaduto e renderlo permanente”. La rivolta nel carcere: perché raccontarla? “C’è stato un episodio orrendo, quello della rivolta a Santa Maria Capua Vetere, ma in tante altre carceri gli agenti penitenziari hanno fatto miracoli. Hanno sedato la rivolta senza fare del male a nessuno, senza evasi e mantenendo l’ordine. A Rebibbia il contatto digitale con i familiari ha aiutato moltissimo a calmare gli animi. Ma i detenuti di Rebibbia sono abituati a essere stimolati”. Quali sono i preconcetti più comuni tra i ragazzi sul carcere? “Che non li debba interessare. Si sentono innocenti, pensano che in carcere ci vada chi commette reati e dunque non se ne interessano. Ma è facile stare nella legge quando non ci sono tentazioni esterne”. Nel film dice che scrive ancora ai detenuti. A chi scrive? “Ho dei detenuti, che chiamo aficionados, che mi scrivono anche una volta usciti dal carcere. Uno di loro, in particolare, è una persona straordinaria. Fu il primo caso di eutanasia non riconosciuto come tale, uccise la moglie e volle scontare la pena fino all’ultimo giorno. Sua figlia, oggi, è in prima fila nelle associazioni pro eutanasia”. La prima volta che è entrata in carcere? “Tanti anni fa. Ci andai da avvocato. Capii come il carcere ti trasforma: anche una persona importante, dopo un giorno di carcere, si apre al confronto. E poi ci sono tornata da ministro, impegnandomi per il problema del sovraffollamento carcerario. Oggi credo di essere la persona in Italia che è entrata più spesso nelle carceri”. Il cinema come racconta il carcere? “La novità è che lo racconta. Quest’anno sono usciti molti film e docufilm, anche qui a Venezia: vuol dire che la pandemia ci ha insegnato tanto. Il cinema è un grande strumento di comunicazione e sono convinta che possa portare al carcere un’attenzione straordinaria”. Rebibbia Lockdown. “Gli studenti tra i detenuti come ambasciatori di legalità” Corriere della Sera, 10 settembre 2021 Il docufilm presentato a Venezia78: “Idea nata dopo una lezione a Santa Maria Capua Vetere”. Era nato come un docufilm su cosa possono fare i ragazzi per aiutare chi è in carcere. Il format seguiva la realtà: 4 universitari della Luiss diventavano tutor di condannati-studenti nel carcere di alta sicurezza di Rebibbia. Poi c’è stato il lockdown. Ed è stata tutta un’altra storia. Professoressa Paola Severino, “Rebibbia Lockdown”, il docufilm prodotto da Raicinema, diretto da Fabio Cavalli oggi a Venezia, nasce da una sua idea. Quale? “Anni fa venni invitata dall’Università di Santa Maria Capua Vetere a tenere una lezione sulla legalità. Mi chiesi perché in una zona citata spesso per episodi di criminalità i ragazzi avrebbero dovuto interessarsi a questo tema. Invece l’aula magna si riempì, molti rimasero in piedi, tempestandomi di domande”. E dunque? “Capii che proprio in contesti difficili i giovani vogliono parlare di legalità. E pensai di introdurre nella Luiss un progetto in cui gli studenti diventassero ambasciatori di legalità nelle scuole delle zone più disagiate e nelle carceri. Giovani che parlano ai giovani di quanto ‘il rispetto della legge ti faccia sentire in pace con te stesso e con il mondo’, come mi disse un detenuto. Frase emblema del nostro programma che ora ha 150 studenti volontari. L’idea del docufilm è venuta a loro”. Che però non avevano messo in conto il Covid. Cosa è successo a quel punto? “I ragazzi mi hanno chiesto: ‘Che facciamo? Ci fermiamo?”. Ho risposto che avremmo trovato un modo. E il lockdown è stata la chiave”. Perché? “Toccati dalla solitudine i ragazzi sono diventati più sensibili. E hanno capito. Il lockdown è stato un filo rosso che ha legato le nostre e le loro vite. Per noi, la separazione dagli affetti più stretti e dagli amici. Per i detenuti la mancanza delle visite dei familiari. Spesso unico conforto. Me ne resi conto da ministro quando affrontai il mio primo caso di suicidio in carcere. Una donna. Le compagne, affrante, mi raccontarono la sua disperazione per l’abbandono della famiglia, che non ne chiese neanche la salma”. I detenuti hanno confidato ai ragazzi i propri drammi interiori. Ve lo aspettavate? “Non con tanta forza e profondità. Ma penso che ciascuno dovrebbe avvicinarsi alla realtà del carcere per comprendere il senso della espiazione e della rieducazione. Un detenuto di Cagliari mi raccontò che dopo aver espiato la prima pena, sposato e con una bambina, cercò disperatamente lavoro. Invano. Tornò a fare “l’unico mestiere che conosceva: il ladro”. Da queste esperienze ho tratto l’idea di creare una Fondazione che ha tra l’altro il compito di trovare lavoro ad ex detenute e dare tutela legale gratuita ai più bisognosi. L’insegnamento è: imparate a vedere l’umanità dietro le sbarre e non consideratela “altro da voi”“. Abbiamo negli occhi i pestaggi nel carcere di S.M. Capua Vetere. Nel film c’è un volto diverso degli agenti. Fiction o due facce della stessa medaglia? “Il racconto di quei giorni di rivolta ci è stato fatto da tutti coloro che abbiamo incontrato a Rebibbia. Detenuti, agenti, educatori non hanno taciuto la drammaticità di quei momenti, in cui da un lato “nessuno voleva fare la fine del topo”, dall’altro gli agenti avevano il dovere di contenere le proteste e le tentate evasioni. Facendolo però “con lealtà”, come ci ha detto un ispettore penitenziario”. A S.M. Capua Vetere è venuta meno quella lealtà? “Sì, nei confronti del giuramento di fedeltà alle istituzioni e verso la dignità umana, cui invece si ispirano i tanti custodi del carcere nello svolgimento di compiti difficili e spesso ignorati. A Rebibbia mi ha colpito quel detenuto che era fuori per un permesso premio proprio nel giorno della rivolta e si è affrettato a rientrare perché, dice: “lo dovevo a quel giudice. Mi aveva dato fiducia. Sembrerà un paradosso ma quando sono rientrato mi sono sentito l’uomo più felice del mondo”“. Nel docufilm prevale lo sguardo dell’ex ministro della Giustizia, dell’avvocato o del docente? “Credo di essere sempre me stessa. Già a 8 anni volevo difendere gli altri, per senso di giustizia. Da ministro mi sono sentita responsabile del sovraffollamento carcerario, fino ad affrontare le contestazioni di Strasburgo e a vincerle con una serie di misure deflattive che volli verificare visitando numerose carceri. Da avvocato non dimenticherò una detenuta rom con il suo neonato, accusata di aver ucciso un uomo che invece era morto di infarto, come riuscimmo a provare. Da professore universitario voglio trasmettere ai ragazzi un’idea concreta del carcere, delle tante cose che ciascuno potrebbe fare per migliorarlo”. Basta parlare di pace, fermiamo le armi, “facciamo la pace” di Alex Zanotelli Il Manifesto, 10 settembre 2021 Movimenti. In mille rivoli, ma il movimento c’è. Alziamo la voce e uniamo le iniziative. Il mondo, altro che Covid, riarma per 1.981 miliardi di dollari, l’Italia con 27 miliardi di euro nel 2020 e 30 miliardi quest’anno. “La pandemia è ancora in pieno corso, la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri. Malgrado questo, ed è scandaloso, non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari”. È questa l’amara constatazione di papa Francesco davanti alla crescente e paurosa militarizzazione mondiale. E bacchetta un’Europa che “parla di pace, ma vive di guerra”. Lo scorso anno infatti a livello mondiale i governi hanno investito in armi ben 1.981 miliardi di dollari, 74 miliardi in più del 2019. L’Italia, sempre secondo i dati del SIPRI, lo scorso anno ha investito 27 miliardi di euro in armi. E le previsioni sono che, quest’anno, l’Italia spenderà ben 30 miliardi di euro in armi, pari a 82 milioni di euro al giorno. Tutti questi enormi investimenti in armi avvengono a spese della Sanità pubblica e dell’Istruzione. Basta pensare che negli ultimi dieci anni i vari governi italiani hanno tolto alla Sanità pubblica ben 37 miliardi, mentre questi stessi governi hanno speso in media oltre 20 miliardi di euro all’anno in armi. È una follia totale la nostra. Pagata a caro prezzo, durante la pandemia, da migliaia e migliaia di cittadini morti per la Covid-19, specie in Lombardia, una regione che in gran parte ha privatizzato la Sanità. Tra il 1995 e 1998, ben 222 ospedali pubblici sono stati chiusi. L’Italia è il nono esportatore mondiale di armi. E vendiamo queste armi a tutti. Il caso più clamoroso è il quantitativo di armi di ben 9 miliardi di euro che vogliamo vendere all’Egitto, un paese governato dalla più spietata dittatura d’Africa, di cui è stata vittima il nostro concittadino, Giulio Regeni. Nulla da fare, ‘business is business’(gli affari sono affari). Vendiamo armi e bombe all’Arabia Saudita che le usa per fare la guerra allo Yemen. Vendiamo armi a Israele che le usa per reprimere il popolo palestinese. La litania potrebbe continuare. Tutto questo avviene mentre il popolo della Pace è frantumato in mille rivoli. Se ogni comitato, se ogni associazione, se le varie realtà antimilitariste camminano per proprio conto, non otterremo molti risultati. È fondamentale unirsi e connettersi con le altre realtà per formare un grande movimento per la pace. A Napoli cinque diverse realtà impegnate per la pace hanno deciso di formare un’unica ‘realtà’: gli Antimilitaristi Campani. Durante la pandemia abbiamo scritto insieme un libretto dal titolo Fermiamo la guerra. Il 30 giugno gli Antimilitaristi Campani sono riusciti a interconnettersi con le diverse realtà che sono impegnate sul territorio contro questa spaventosa militarizzazione: No Muos della Sicilia, le mamme della Sardegna e i portuali di Genova, di Livorno e di Ferrara. Questi gruppi ‘fanno’ la pace. Trovo particolarmente efficace l’azione dei portuali che si stanno rifiutando di caricare armi sulle navi. Hanno iniziato i portuali di Genova quando nel giugno dell’anno scorso hanno impedito alla nave saudita Bahri Abha (gemella della Jazan,..) di caricare materiale bellico destinato ad alimentare la guerra nello Yemen, “la più sporca e criminale” di quelle in corso. Il governatore della Liguria Toti ha subiro reagito: “È assurdo impedire che non si imbarchino questi prodotti”. Papa Francesco ha detto invece che “i lavoratori del porto sono stati bravi”. E ha aggiunto che “i paesi Europei parlano di pace, ma vivono di armi”. Il 12 dicembre dello scorso anno, quando di nuovo la nave Bahri Abha attraccò a Genova, il porto era pieno di carabinieri e Digos per garantire le operazioni di carico bellico. Cinque dei portuali disobbedienti sono ora indagati e rischiano il processo. “Non un passo indietro”, ha risposto il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova. Questa lotta si sta ora estendendo ai porti di Livorno, Ferrara e Napoli. A Ferrara i portuali, con l’appoggio dei tre sindacati, si sono rifiutati di caricare materiale bellico sulla nave Asiatic Liberty diretta in Israele. E si sta ora creando una rete di porti in Europa che si rifiutano di caricare materiale bellico con lo slogan “Block the Boat”. (Blocca la nave). A Napoli gli antimilitaristi Campani sono scesi nel porto di Napoli per solidarizzare con i portuali, appoggiando la loro iniziativa di non caricare materiale bellico sulle navi della morte. Basta parlare di pace, bisogna fare la pace! E come Antimilitaristi Campani appoggiamo anche l’altro strumento fondamentale di resistenza alla militarizzazione: ritirare i propri soldi dalle banche che investono in armi. È la cosiddetta “Campagna Banche Armate”, lanciata dalle riviste Mosaico di Pace, Nigrizia, Missione Oggi e anche da Pax Christi. Anche questa è una pratica molto efficace se diventa una campagna popolare, soprattutto se sostenuta dalle comunità cristiane. Dopo le forti prese di posizione di papa Francesco sulle armi, sul nucleare, ogni parrocchia, ogni diocesi dovrebbe togliere i propri soldi da quelle banche che investono in armamenti. È un dovere di coscienza per un cittadino, ma soprattutto per un cristiano. Se davvero il disinvestimento dalle banche armate diventasse una prassi popolare, metteremo in crisi un Sistema basato sulle armi, sulla Bomba (atomica). Smettiamola di parlare di pace, ma facciamo pace attraverso pratiche efficaci, mettendoci in rete. Dobbiamo cambiare questo Sistema economico-finanziario-militarizzato che uccide per fame, per guerra e soffoca il Pianeta. Diamoci tutti da fare per un sistema che porti vita e speranza per tutti. L’ipocrisia surreale della questione cannabis nel Palazzo di Filippo Ceccarelli La Repubblica, 10 settembre 2021 Dopo l’approvazione - in commissione Giustizia alla Camera - del testo base per la coltivazione domestica della marijuana e le modifiche sulle pene legate allo spaccio, i ricordi tra aneddoti e leggende, da D’Alema a Pertini a Martelli. Va detto che l’unico politico che pagò di persona per difendere la legalizzazione fu Marco Pannella che si fece arrestare di proposito. Fra il Palazzo e la cannabis l’ipocrisia è da sempre pregiudiziale e istituzionale, ma soprattutto surreale. Nel senso che tutti sanno quanta ne gira, tutti fanno finta di non saperlo e diversi parlamentari se la fumano pure, però di nascosto. Quanto alle leggi, un po’ gli vengono pessime, ma un altro po’ le lasciano alla mercè della magistratura che prova a metterci una pezza regolando, tra norme fantasma e pronunciamenti che s’intrecciano nel vuoto, una situazione a tal punto e da talmente tanti anni abbandonata a se stessa da rendere obsoleta, forse addirittura superata, la tradizionale incompatibilità tra proibizionismo e antiproibizionismo. L’unico politico finito dentro - cosa che gli odierni mestieranti dei partiti disdegnano - non era un consumatore abituale, ma si fece arrestare di proposito: Marco Pannella, nel luglio del 1975, ormai pura preistoria. Il leader radicale ci riprovò altre due volte, nel 1995 e nel 1997, distribuendo fumo a Piazza Navona e a Porta Portese. Sempre con le stesse motivazioni di disobbedienza civile, “regalò” due etti di hashish in diretta ad Alda D’Eusanio dando vita a un indimenticabile momento televisivo: “Marco, ma questa è merda!”. In seguito, anche se al riguardo è impossibile addurre prove, sembra che nel tragitto dallo studio al tribunale il malloppetto avesse perso una ventina di grammi. Con un fondo di curioso scetticismo viene spontaneo di accogliere l’esordio della possibile legge sulla cannabis fatta in casa. Nell’autunno del 2006, a piazza Montecitorio, con subdoli pretesti, un commando di Iene televisive riuscì a strofinare 50 tamponi sulla fronte di altrettanti deputati, e per quanto quelle riprese non siano mai andate in onda, venne fuori che ben 12 si sarebbero fatti delle canne. Nel 2018, alla spasmodica ricerca di quattrini, il governo nazional-populista gialloverde calcolò, in relativo segreto, quanto avrebbe potuto fruttare una tassa sulla liberalizzazione della canapa indiana, ma poi Salvini piantò una grana accanendosi pure su quella a basso contenuto di thc, detta “la legalona”. In quasi mezzo secolo, come succede spesso in Italia, tutto è cambiato per rimanere uguale a se stesso. Pannella non c’è più, il suo testimone l’ha raccolto Rita Bernardini che forse ancora adesso semina, coltiva, fotografa, raccoglie e pubblica; tutto sul balcone di casa sua, dove periodicamente le fa visita un commissario di Ps che sequestra il tutto guardandosi bene dal portarla in questura. Per cui il tema, che pure coinvolge persone malate che nel principio attivo della cannabis trovano aiuto e sollievo, resta imprigionato nella più assurda consuetudine, tra ingiustizie, incertezze e periodici sbocchi di retorica. Ci si ritrova dunque a coltivare ricordi buffi e stranianti di una piccola grande avventura che comunque ha dato colore alla vita pubblica per due generazioni. Aneddoti, leggende. Il giovane D’Alema che nel 1977 andò nella direzione del Pci a chiedere la legalizzazione della marijuana: “Della ma-rij-u-ana!” ripeteva poi tenendosi la testa al ricordo delle facce di Longo, Pajetta, Amendola e dello stesso Berlinguer. O i mattacchioni del Male che, invitati a pranzo da Pertini, si erano presentati al Quirinale con uno spinello da accendere dopo il caffè. Ma al primo accenno: “Droghe pesanti o droghe leggere - li gelò il presidente - io darei la pena di morte a tutti”. E non per continuare a buttarla in caciara, ma quando alla fine degli anni 80 era in discussione il testo di quell’altro efficace capolavoro che fu la legge Vassalli-Jervolino, al gruppo radicale si presentò una vecchietta, significativamente ribattezzata “Nonna Canapa”, con un vassoio di dolcetti speciali che tutti lietamente divorarono, compresi due parlamentari che una volta in aula ebbero un malore proprio durante la discussione generale. E insomma, anche nella storia politica la cannabis ha dato e la cannabis ha tolto. Prima della caduta, Craxi ingaggiò una crociata contro gli “amici della modica quantità”, ma ne aveva fin troppi attorno a lui. Uno, il delfino Martelli, fu incastrato a Malindi, generando il classico e torvo pollaio di rivelazioni, strumentalizzazioni, divagazioni. Negli anni 90 l’inesorabile ingresso nell’intrattenimento: onorevole, ha mai fumato? Sì, una volta, da giovane, all’università, in America, “però mi sono subito addormentato”. La riduzione del danno. Sui social intanto non c’è leader o presidente che non sia fotomontato per scherzo con la sua canna da rollare - e qualcosina significherà pure. Migranti. Quelle vittime dimenticate in fondo al mare, che neanche la solidarietà può salvare di Alessandra Ziniti La Repubblica, 10 settembre 2021 Nove corpi, tra loro donne e bambini, giacciono da due mesi a 90 metri di profondità, a 500 metri dalla costa di Lampedusa, nel relitto della barca naufragata il 30 giugno. I 50mila euro necessari al recupero non sono stati stanziati ma la Marina non può neanche accettare i soldi di una colletta volontaria privata. Due bambini accanto a quelle che forse sono le loro giovani mamme che li hanno tenuti stretti fino alla fine, almeno altre tre donne, lo scafista rimasto intrappolato sul ponte di comando. Chissà che ne è stato dei loro poveri corpi dopo due mesi. Le immagini riprese il 9 luglio dal robot della Guardia costiera a 80 metri di profondità nel mare di Lampedusa sono da brivido. Come altre purtroppo già viste negli anni scorsi di altri relitti di barche di migranti andate a fondo a poche miglia dall’arrivo alla terra promessa per i migranti che avevano intrapreso il viaggio della speranza attraverso il Mediterraneo. Solo che questa volta, in fondo al mare, è rimasta persino la pietà per quei poveri corpi, la più parte dei quali di donne e bambini, naufragati il 30 giugno quando Lampedusa era ormai a vista. Nove corpi che nessuno è mai andato a recuperare. Ci volevano 50.000 euro e questa volta il governo non li ha stanziati. Peggio: i soldi, alla fine, li ha trovati la solidarietà della gente che ha risposto con slancio all’appello della Caritas e dell’ex medico di Lampedusa ed europarlamentare del Pd Pietro Bartolo, ma la Marina, l’unica in Italia ad avere i mezzi e le professionalità necessarie per un’operazione così delicata, ha dovuto declinare l’offerta: “Ci spiace, ma non possiamo accettare fondi da privati, dovete rivolgervi a una società privata”. E i corpi, o meglio quel che pesci e correnti hanno risparmiato di loro, restano ancora lì. Erano 62 a bordo di quel vecchio peschereccio ribaltatosi alla vista della motovedetta della guardia costiera: in 46 si salvarono, sette corpi, tutti di donne (una delle quali incinta) che ancora galleggiavano all’arrivo dei soccorsi furono subito recuperati. All’appello ne mancavano nove: quasi tutti di donne e bambini, dissero i superstiti. Si dispera Pietro Bartolo. Ne ha visti migliaia di corpi senza vita di donne, bambini, uomini ma non riesce ad arrendersi all’idea di abbandonare laggiù i resti di questi ultimi sfortunati. “È una cosa orribile e vergognosa che ripugna alle nostre coscienze. Ci sono dei bambini in fondo al mare. Li hanno individuati, ripresi e poi abbandonati. Sarebbe accaduta la stessa cosa se fossero stati italiani? Il ministero dell’Interno e quello di Grazia e giustizia avrebbero dovuto provvedere al recupero. È una questione di umanità. Ma forse non hanno il coraggio di dire che il governo italiano spende dei soldi per dare pietosa sepoltura a corpi di migranti. Di cosa abbiamo paura? Che questi bambini morti invadano i confini italiani? Sono morti, non fanno più paura a nessuno. Questa è solo malvagità di cui mi vergogno”. La colletta promossa da Bartolo e dalla Caritas in poche settimane ha portato a raccogliere già più di 40.000 euro ma il no della Marina militare ha fermato il progetto di recupero e l’idea di trovare una società privata in grado di effettuare una operazione di questo genere è assai difficile. I costi per altro sarebbero di certo superiori e il risultato assai incerto. “Sono passati più di due mesi - dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio - ed è difficile pensare che quei poveri corpi siano ancora intatti lì dove li abbiamo visti ai primi di luglio grazie alle operazioni di ricerca della Guardia costiera. Io purtroppo non ho potuto fare nulla. Nelle mie prerogative c’è di chiedere il recupero di un relitto solo se necessario per motivi investigativi e non è questo il caso. In altre occasioni siamo riusciti a recuperare i corpi rimasti in fondo al mare senza tirar su il relitto ma perché si trovavano ad una profondità molto più bassa in cui era possibile l’intervento dei soli sommozzatori. Avevo chiesto alla Marina militare quanti fondi sarebbero serviti e la cifra si aggirava intorno ai 50.000 euro ma la decisione spettava al governo”. Nel 2016 fu l’allora premier Matteo Renzi a stanziare i fondi per il recupero del grande peschereccio inabissatosi un anno prima nel Mediterraneo con almeno 300 morti rimasti intrappolati dentro. Il relitto fu poi portato nel porto di Augusta e sui corpi venne effettuata la più grande operazione di studio e analisi del Dna nel tentativo di dare un nome a quei poveri resti. Delle mamme e dei bimbi abbandonati sul fondo del mare di Lampedusa invece nessuno si è occupato. È l’unico rimpianto di don Carmelo La Magra che da pochi giorni ha appena lasciato l’isola trasferito ad altro incarico. “Vado via da Lampedusa con il dispiacere di non vedere recuperati corpi che, ormai da due mesi, giacciono nel fondo di questo mare. Recuperare i migranti costa troppo, evidentemente non tutte le persone hanno lo stesso valore”. Io difendo Assange e WikiLeaks. Quello era vero giornalismo di Riccardo Iacona Il Domani, 10 settembre 2021 Caro Aldo Grasso, è bello che finalmente si torni a parlare del caso Assange ma conviene farlo su dati condivisi e non sulla base di supposizioni. Non è vero quello che tu scrivi sul Corriere della sera, cioè che “il metodo WikiLeaks consisteva nel riversare masse di documenti segreti o riservati online, senza vaglio e senza contesto”. Come abbiamo raccontato a Presadiretta, prima di pubblicarli, i file sono stati analizzati, contestualizzati, verificati ed emendati degli elementi che avrebbero potuto mettere a rischio la vita dei collaboratori dell’esercito degli Stati Uniti. La pubblicazione degli Afghan war logs e degli Iraqi war logs è stata preceduta da mesi di lavoro: “Noi siamo stati contattati da WikiLeaks nella primavera del 2010 e due nostri reporter hanno incontrato Assange - ci ha detto Holger Stark, l’ex caporedattore di Der Spiegel che ha lavorato in quel 2010 sulle rivelazioni di WikiLeaks - Ci siamo subito resi conto che era tutto materiale che andava elaborato prima di diventare un lavoro giornalistico. Così abbiamo incrociato le nostre competenze con quelle dei colleghi del Guardian, del New York Times e dei giornalisti di WikiLeaks”. Quando a ottobre 2010 sono usciti gli articoli sul Guardian, sul New York Times, sullo Spiegel, su El Paìs, L’Espresso e La Repubblica, il dipartimento di Giustizia americano non ha denunciato i giornalisti che, di tutto il materiale fornito da Chelsea Manning a WikiLeaks, avevano rivelato solo quanto di interesse pubblico: l’andamento sul terreno delle guerre in Iraq e Afghanistan, i costi enormi in termini di vittime civili, le violazioni dei diritti umani in nome della “guerra al terrore”. Non è vero poi che “il servizio di Riccardo Iacona non aveva una sola voce contraria”. Nella puntata c’era una lunga intervista a Mary McCord, già viceprocuratrice generale del dipartimento di Giustizia americano fino al 2017, convinta sostenitrice del processo al fondatore di WikiLeaks. Anche Mary McCord riconosce però che nei capi di imputazione non c’è riferimento al contenuto editoriale del lavoro di WikiLeaks: “Assange viene accusato di aver cospirato con Chelsea Manning perché gli fornisse illegalmente del materiale classificato della Difesa”. Nessuno mette in dubbio la “notiziabilità” del materiale rivelato da WikiLeaks, neanche quelli che lo vogliono in galera per 175 anni. Infine, caro Aldo Grasso, tu fai riferimento alla vicenda delle mail del Partito democratico rivelate da WikiLeaks nel 2016, materiale riservato che sarebbe stato hackerato dai russi e consegnato ad Assange e la cui pubblicazione avrebbe aiutato Trump a vincere. Sul Russiagate c’è stata l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller che ha portato all’incriminazione di 12 agenti russi dell’intelligence Gru e collaboratori di Trump, come Paul Manafort. L’offerta di Trump - Assange ha sempre dichiarato di non aver mai ricevuto le mail dai russi e l’indagine di Mueller non ha prodotto accuse contro WikiLeaks e Assange, dunque non fa parte dei capi di imputazione per i quali gli Stati Uniti vogliono processare il fondatore di WikiLeaks. Invece nell’agosto del 2017 all’ambasciata dell’Ecuador si sarebbe presentato Dana Rohrabacher, al tempo deputato repubblicano, come ci ha rivelato Jennifer Robinson, avvocato di Assange: “Ho testimoniato a processo che ci fu un incontro tra Dana Rohrabacher e Assange al quale ero presente: se Julian avesse rivelato la fonte delle pubblicazioni del Comitato nazionale democratico, gli sarebbe stata concessa la grazia. Ma WikiLeaks protegge le proprie fonti”. Le parole di Robinson sono confermate anche dai rapporti dell’agenzia UC Global che spiava Assange per conto dell’intelligence americana. Se Assange fosse stato soltanto un hacker senza scrupoli, al servizio dei russi, avrebbe potuto salvarsi trattando sotto banco con un emissario di Trump. Ma non l’ha fatto. E si trova in un carcere di massima sicurezza inglese da quasi 3 anni. Caro Aldo Grasso, dopo mesi di ricerche, in cui abbiamo intervistato i protagonisti e letto migliaia di documenti delle indagini, mi sono convinto che il caso Assange ci riguarda molto da vicino: se estradato, verrà processato usando una legge contro lo spionaggio del 1917 mai invocata contro giornalisti ed editori, un precedente grave che metterebbe a rischio la libertà di stampa nel mondo. Per questo in tanti, dall’Onu ad Amnesty International a Reporter sans Frontières, chiedono al presidente Joe Biden di rinunciare al processo contro Assange. Spero che i media italiani seguiranno con attenzione il processo di appello a Londra sull’estradizione di Assange: il silenzio che per anni è caduto su questa vicenda non è un punto di onore del nostro giornalismo. Da quell’11 settembre, in due decenni, la morte della politica di Luciana Castellina Il Manifesto, 10 settembre 2021 Vi ricordate quel bel film collettivo proiettato solo un anno dopo l’”11 settembre”, e chiamato proprio così? 11 autori, i registi fra i più famosi del momento, di 11 diversi paesi (Francia, Egitto, Bosnia, Burkina Faso, Gran Bretagna, Messico, Israele, India, Giappone, Usa), ognuno dunque con un’idea differente su quanto quell’avvenimento verificatosi a New York gli aveva suscitato, con una pellicola in cui ognuno aveva a disposizione 11 minuti, 9 secondi, un fotogramma: 11/9/01, la fatidica data, appunto. Idee/immagini diverse, perché diverso era stato l’impatto dell’accaduto, a seconda della diversissima condizione geografica, sociale, culturale di chi ne era stato investito. E così il filmato di Ken Loach parlava solo di un altro, e per lui ben più grave 11 settembre, quello del golpe cileno, provocato dall’imperialismo americano. Mentre la giovanissima regista iraniana Samira Makmalbaf si immedesima già nel nuovo presente: una sgangherata scuola al confine con l’Afghanistan e una maestra che chiede ai bambini, il 12 settembre 2001, se sapevano dirgli cosa era accaduto il giorno prima e risultava che quanto quel giorno li aveva colpiti era la morte del nonno di uno di loro nel pozzo pericolante del campo rifugiati dove si trovavano. E poi, fra i tanti spezzoni di filmato che ricordo bene, quello di Sean Penn, su un vecchio vedovo solitario e povero che vive a New York in una stanza buia dalla cui finestra arriva, inaspettato, un raggio di sole che gli riporta un momento d’allegria, prima sempre oscurato da una delle incombenti Torri gemelle. Mi domando oggi, a distanza di 20 anni, se quella relatività storica su cui gli undici registi avevano voluto richiamare la riflessione avrebbe lo stesso senso. Io penso di no, non perché non sia vera - mi pare anzi che lo sia anche di più, la diversità di condizione e dunque di destino degli abitanti della Terra essendo nel frattempo cresciuta - ma perché oggi mi pare si sia aggiunto un dato più comune fra tutti noi umani: siamo tutti più spaesati, nessuno ha più le certezze spavalde di allora, tutti più colpiti e coinvolti di quanto siamo mai stati da accadimenti comuni cui nessuno più sfugge, sebbene le sofferenze che ne derivano restino ineguali. Forse basterebbe chiamare in causa il Covid, che ci ha abbracciato tutti, senza scampo. Ma anche l’accelerazione che la comparsa di quel virus ha prodotto sulla comune presa di coscienza che la Terra tutta si è ammalata gravemente e il nostro mondo - sia pure percepiti come mondi diversi - potrebbe scomparire. L’ecologia ha ancora scarso riflesso in politica (ma produce un silenzioso e angosciante interrogativo in ognuno di noi). E infine: quanto sta accadendo in Afghanistan, con la puntualità di un disegno storico accuratamente progettato proprio per celebrare la ricorrenza ventennale del’11 settembre 2001. Che ci fa sentire tutti immersi in una crisi politica e sociale senza precedenti: nessuno è più certo del valore del proprio sistema, tutte le comunità appaiono divise, frantumate e così i valori, i modi di vita, la fiducia, e le certezze. I nemici di allora non sono più gli stessi, o lo sono ma sotto diverse spoglie, più difficili da individuare. Anche per noi, sinistra: dove sta l’imperialismo americano che denuncia Ken Loach, ora uscito con la coda fra le gambe da Kabul e che però rilancia con il suo apparentemente mite nuovo presidente, quando avverte che se ne è andato perché ora gli interessa il nuovo “nemico”, la Cina più che l’Afghanistan Vuole occupare anche quel paese come ha fatto con l’Afghanistan? Nessuno sembra preoccuparsi di una così grave dichiarazione, siamo contenti che le truppe Nato si siano ritirate. E ora con i talebani che ci facciamo? Gridare contro di loro è necessario oltre che giusto ma si rischia di invocare una nuova spedizione militare punitiva. Bisogna trattare e combattere contemporaneamente a fianco delle fantastiche femministe afghane (“un coraggio del genere” ha titolato il manifesto): ma da qui come si fa, possiamo trasformarci tutti in Gino Strada? O far sì che tutte le donne afghane abbandonino il loro paese? E poi, che modello di società proponiamo: la magnifica democrazia occidentale, ormai svuotata di contenuto, una larva, che cancella la solidarietà con i migranti e che non ha in agenda i due contenuti decisivi: l’uguaglianza e la pace? Certo meglio del modello proposto dal presidente dello Stato federale del Texas o di Orbán, non parliamo di Trump o Bolsonaro! E allora dobbiamo difendere il nostro glorioso Occidente? Smetto di pormi interrogativi che so essere di tutti, non solo di noi che ci continuiamo - e per fortuna - a definirci di sinistra. Perché in questi 20 anni il mondo è cambiato radicalmente: ho davanti l’immagine dell’assalto dei riots al Campidoglio Usa, a inizio del 2021, e di Biden che denuncia così la rivolta: “Questo terrorismo interno è il più pericoloso”, in un’America spaccata, dentro una guerra civile strisciante, violenta e razzista come accusa Black Lives Matter. E noi stentiamo ad orientarci perché la cosa più grave che è accaduta ovunque è che ci è stata - a tutti sia pure in forme diverse - rubata la politica, quella risorsa straordinaria che fino a non molto tempo fa ci aveva consentito una sia pur relativa conoscenza del mondo, la capacità di individuare con chiarezza amici e nemici, soprattutto di progettare alternative. Nemmeno i Talebani, ora che si sono insediati a Kabul, nonostante la loro arrogante certezza di parlare a nome di un profeta sanno più bene che fare, ora che scoprono quanto è cambiato lo stesso Afghanistan mentre loro erano nascosti negli anfratti del loro frantumato paese. Che facciamo, allora? C’è una certezza: questa ricorrenza spinge tutti a ripensare al mondo, e dunque a dare alla riflessione sulle dimensioni della crisi mondiale che attraversiamo, priorità assoluta. Perché solo se ne acquisiamo piena consapevolezza potremo capire e prendere atto che è l’uccisione della politica, la vera “ricaduta” dell’11 settembre e conseguenza di questo ventennio di globalizzazione che poco abbiamo capito, è la cosa più grave che è accaduta. E però è ancora possibile portare riparo, io penso. Difficile, ma possibile. E speriamo che a rianimarla sia qualcosa che somiglia a quanto ognuno di noi pensa sia “sinistra” a farlo per primi. Essere accomunati dallo spaesamento non crea infatti comunità, può anzi produrre selvaggia violenza. Dopo l’11 settembre: Abu Ghraib, lo specchio della vergogna di Francesca Mannocchi La Stampa, 10 settembre 2021 Nel 2004 le rivelazioni sugli orrori della prigione americana in Iraq: “Possiamo tollerare tutto questo per proteggerci? La guerra al terrore non giustifica la tortura, in quelle foto vedevamo riflessi noi stessi”. “L’America è amica del popolo iracheno”. Questa frase era scritta su un cartello affisso all’entrata della prigione di Abu Ghraib, il complesso carcerario di 260 acri che ospitava migliaia di criminali e prigionieri politici sottoposti a indicibili torture per mano degli uomini di Saddam Hussein. Il cartello aveva sostituito proprio l’immagine dell’ex dittatore dopo l’inizio della guerra al terrore in Iraq, nel 2003. L’anno dopo, nel 2004, abbiamo saputo cosa accadeva dentro la prigione, abbiamo visto le immagini dei soldati americani ritratti mentre ridevano in posa accanto a una piramide di prigionieri seminudi e incappucciati inginocchiati l’uno sull’altro, la fotografia di un cane famelico lanciato contro un detenuto in tuta arancione seduto a terra con il capo rasato e le mani legate dietro la schiena, il prigioniero in piedi su uno scatolone, cappuccio nero in testa con le braccia tese parallele al pavimento come un Cristo sulla croce, con i cavi elettrici e alla sua destra un soldato, americano, che osserva distrattamente delle foto appena scattate. E ancora l’immagine di una soldatessa del 372° battaglione di polizia militare statunitense in un corridoio del Braccio A1 della prigione, che trascina un iracheno completamente nudo al guinzaglio con una cinghia legata al collo, come un cane, peggio di un cane, osservandolo con soddisfazione. È stato lo scandalo delle immagini di Abu Ghraib, nel 2004, a imporre all’opinione pubblica un dilemma morale: cosa siamo disposti a tollerare in nome della guerra al terrorismo? Dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush decise che vincere la guerra al terrore potesse voler dire anche eludere il diritto internazionale. Alla base del dibattito di quel periodo l’interrogativo era: gli Stati Uniti dovrebbero mai ricorrere alla tortura per ottenere informazioni da prigionieri qaedisti o sospetti complici? Tutto è andato nella direzione di affermare che si potesse - di più, che si dovesse: “C’è stato un prima e un dopo 11 settembre. Dopo, abbiamo tolto i guanti” disse Cofer Black, l’ex direttore dell’unità antiterrorismo della Cia, testimoniando di fronte al Congresso. Il presidente Bush ha ripetutamente insistito sul fatto che questa nuova guerra al terrorismo avesse inaugurato un altrettanto nuovo paradigma, un “nuovo modo di pensare” il diritto di guerra, per dirlo con parole sue. E di conseguenza un nuovo modo di applicarlo. La teoria dell’amministrazione Bush era chiara: quella intrapresa dagli Stati Uniti era una battaglia a tutto campo, da una parte il bene, dall’altra il male. Una tale narrazione ha portato a ritenere che il fine giustificasse ogni mezzo. Nella prima intervista dopo l’attacco alle Torri Gemelle, anche il vicepresidente Cheney era stato chiaro: “Sarà fondamentale, per noi, usare ogni mezzo a disposizione per raggiungere gli obiettivi”. Le immagini di Abu Ghraib hanno reso impossibile non vedere, e dunque non sapere, quali fossero quei mezzi. Dopo la pubblicazione delle fotografie i torturatori erano di fronte ai nostri occhi, avevano un nome, un cognome, un’età, una biografia: Sabrina Harman, ex pizzaiola, partita ventitreenne per la guerra d’Iraq. Bionda, con le ciocche di ricci sulla fronte, era stata lei a collegare i cavi elettrici al detenuto coperto di stracci in piedi sullo scatolone. Charles Graner, baffi, occhiali, piuttosto in carne, studiava all’Università di Pittsburgh, un matrimonio, due figli, poi i Marines e la guerra del Golfo: diventa una guardia carceraria in Pennsylvania, dove ci sono il 90% di guardie bianche e il 70% di detenuti di colore, viene accusato di picchiare e abusare dei prigionieri. Arriva la guerra d’Iraq, il carcere di Abu Ghraib, e Graner che posa sul corpo di un prigioniero con il pollice alzato e il sorriso appagato. È sempre Graner seduto su un gruppo di altri detenuti, uno sull’altro, anche loro incappucciati, di fronte alle grate delle celle. E ancora Lynndie England, cresciuta con il padre ferroviere Kenneth e la madre Terrie in una roulotte in West Virginia, cassiera di un supermercato, un matrimonio fallito a 19 anni e poi l’esercito. L’Iraq, Abu Ghraib e lei che finge di sparare con un mitra all’inguine di un prigioniero, in fila con altri detenuti nudi costretti a masturbarsi di fronte a lei. Condannata a sei mesi di carcere per la condotta assunta in Iraq, si disse esplicitamente “mai pentita” per quello che aveva fatto, perché “tutto questo non era nulla rispetto a quello che gli iracheni avevano fatto a loro”. Il fine aveva giustificato i mezzi. La reazione alla pubblicazione delle immagini degli abusi fu una corale indignazione. Le testimonianze, i rapporti militari riempivano le pagine dei giornali di tutto il mondo. “Torture a Abu Ghraib”. “L’incubo di Abu Ghraib”. “Torturati abusati e umiliati, le scioccanti immagini di Abu Ghraib”, sono solo alcuni dei titoli dei giornali di allora. L’Economist chiedeva le dimissioni dell’allora segretario della Difesa Donald Rumsfeld, lo Spiegel titolava: “Abu Ghraib la vergogna americana”, in copertina su Time c’era un uomo, un prigioniero incappucciato a petto nudo, e il titolo: “Come siamo arrivati a questo?”. Le indagini accertarono l’esistenza di una catena di comando che coinvolgeva le più alte sfere di potere; eppure i vertici militari statunitensi e il presidente Bush tentavano di arginare il caso parlando di mele marce, di sporadici episodi di violenza, anziché assumersi la responsabilità di tecniche che erano ormai diventate metodo, strategie di interrogatorio, consuetudini militari. Dopo lo scandalo delle fotografie, Bush disse: “Sotto il regime di Saddam Hussein le prigioni come Abu Ghraib erano simboli di morte e tortura. Quella stessa prigione è diventata un simbolo di condotta vergognosa da parte di alcune truppe americane che hanno disonorato il nostro Paese e disprezzato i nostri valori”. In queste parole c’era tutto l’inganno della narrazione della guerra al terrore: gli abusi sui prigionieri sotto il regime di Saddam Hussein erano torture, se perpetrati da soldati statunitensi quegli stessi abusi erano declassati a “condotte vergognose”. L’asimmetria morale alla base del fine che giustifica i mezzi. Oggi, dopo vent’anni, sappiamo quanto siano inefficaci le pratiche di tortura negli interrogatori per ottenere informazioni utili, sappiamo che i dettagli derivati dalle torture su un sospettato si sono spesso verificate false. Oggi, dopo vent’anni, sappiamo anche che quello che ci ha indignato delle fotografie di Abu Ghraib non era solo lo scandalo della violenza, era anche l’insopportabile sensazione di vedere noi stessi riflessi in quei torturatori. Ciò che irritava nei volti degli ex pizzaioli, ex cassieri, ex guardie carcerarie diventati aguzzini era la traccia di un mondo che era il nostro, prossimo, vicino, troppo vicino per non farci chiedere cosa fossimo in grado di accettare di una guerra fatta in nome della nostra sicurezza. Le fotografie di Abu Ghraib sono state il seme di un processo profondo, quello che ha portato a considerare necessaria, legittima, ma soprattutto inevitabile la violenza e la tortura. E mentre questo avveniva, mentre trovavamo necessario e contemporaneamente intollerabile vedere persone simili a noi che torturavano dei detenuti, non ci siamo chiesti abbastanza chi ci fosse dietro i sacchi neri, gli stracci o i passamontagna, di cosa fossero davvero accusati i prigionieri costretti a masturbarsi di fronte ai soldati, nudi in corridoio, minacciati dai cani o dai cavi elettrici. Oggi sappiamo che Abu Ghraib ospitava una popolazione in gran parte innocente: circa il 70-90% dei prigionieri è stato detenuto per errore, secondo un rapporto del 2004 della Croce Rossa Internazionale. Oggi sappiamo anche che è nelle carceri in cui la “coalizione dei volenterosi” deteneva sospetti jihadisti che è cresciuta una nuova generazione di miliziani, pronti a un nuovo jihad, che non temono la sconfitta temporanea, che hanno un altro senso del tempo, che non ragionano sull’immediato, ragionano in chiave storica. Che non pensano solo in termini territoriali e geografici. Pensano secondo una prospettiva temporale e simbolica. L’inganno della presunta supremazia morale della guerra al terrore ha fatto smarrire le domande fondamentali sulle prospettive simboliche dei jihadisti, domande che ci trascinano nelle conseguenze anche di questo caotico, disastroso ritiro delle truppe dall’Afghanistan: sappiamo davvero chi sono questi fanatici? Ci siamo davvero interrogati sull’universo narrativo alla base del reclutamento di nuovi soldati del jihad? O ci siamo bloccati un passo prima, fermi sull’uscio, pensando che la giustizia si ottenesse con la vendetta? I corpi torturati di Abu Ghraib ci hanno restituito l’immagine brutale di una fisicità sottomessa, umiliata, di cui l’Occidente era responsabile. Ci hanno consegnato una domanda a cui, forse, dopo vent’anni non abbiamo ancora dato risposta: possiamo tollerare tutto questo per proteggerci? Tornano in mente le parole di Jean-Paul Sartre, l’introduzione che scrisse al libro La question di Henri Alleg, editore del quotidiano di opposizione Alger Républicain e fermo sostenitore della lotta di liberazione anticolonialista. Era il 1958, in piena guerra d’Algeria. Scriveva Sartre: “Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro. Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile: se niente vale a proteggere una nazione contro sé stessa - né il suo passato, né le sue fedeltà, né le sue proprie leggi -, se bastano quindici anni per cambiare le vittime in carnefici, allora chi decide è l’occasione; basta l’occasione a trasformare la vittima in carnefice: qualsiasi uomo, in qualsiasi momento”. Qualsiasi uomo, in qualsiasi momento, dunque: noi. Sappiamo davvero chi è l’altro che vogliamo sconfiggere? Stati Uniti. Il Texas nega la presenza del confessore a un condannato a morte di Anna Lombardi La Repubblica, 10 settembre 2021 La Corte Suprema sospende la condanna. L’esecuzione di John Ramirez era prevista a Huntsville, Texas. Ma l’uomo che nel 2004 uccise l’impiegato di un minimarket con 29 pugnalate ha trovato la fede. E vuole morire mentre il suo pastore gli tiene stretta la mano. Un atto contrario ai regolamenti. Il miglio verde - il percorso in linoleum che nelle carceri Usa porta fino alla camera boia - può attendere. John Henry Ramirez, 37 anni, dead man walking, “cadavere che cammina” come qui in America chiamano i condannati in attesa di sentenza nel braccio della morte, ha guadagnato almeno due mesi di vita grazie alla fede ritrovata. E a un ricorso, destinato a fare giurisprudenza, avanzato dal suo avvocato Seth Kretzer dopo che le autorità gli hanno negato l’estremo saluto del suo confessore. Il pastore battista Dana Moore vuole accompagnarlo nel momento estremo, pregando e toccandolo, perché, ha spiegato in tribunale, “imporre le mani su un moribondo è parte integrante del rito”. L’affermazione, almeno per ora, ha convinto i giudici della Corte Suprema a sospendere l’esecuzione prevista per ieri sera a Huntsville, Texas, almeno per il tempo necessario a esaminare la richiesta. La nuova udienza sul caso si terrà infatti a inizio novembre. Quando aveva solo 20 anni, nel 2004, Ramirez uccise in maniera orribile Pablo Castro, 48 anni e nove figli, impiegato in un mini market, pugnalandolo 29 volte durante una rapina a dir poco sfortunata visto che il bottino ammontò a un dollaro e 25 centesimi. Un atto scellerato, compiuto insieme a due coetanee, sotto l’effetto di droga. All’epoca Ramirez riuscì a scappare in Messico. Ma fu arrestato tre anni e mezzo dopo e rispedito in Amrica dove lo condannarono a morte. In carcere l’ex giovane sbandato ha però visto la luce: incontrando 5 anni fa il reverendo Moore della Seconda Chiesa Battista. Il sacerdote, da allora, affronta tutti i mesi, un viaggio di 4 ore dalla sua congregazione a Corpus Christi per far visita all’uomo. I due, fino ad ora, si sono sempre e solo incontrati separati dal plexiglass del parlatorio. “Ma nella nostra fede, quando preghiamo per un moribondo lo tocchiamo. È un atto spirituale profondo. John ne ha diritto come ogni altro”, ha spiegato padre Dana al sito specializzato Christianity Today, descrivendo il percorso del condannato: “Ha incontrato Cristo. Ed è profondamente cambiato”. Proprio in virtù del cambiamento, l’avvocato Kretzer, accusa il Dipartimento di giustizia del Texas di violare il Primo Emendamento, privando Ramirez della sua libertà religiosa: “Non fargli praticare la propria fede, è di fatto un bavaglio spirituale” dice: “Gli negano conforto religioso nel momento in cui è più necessario. Quello della morte”. L’argomento ha colpito i membri della Corte Suprema a maggioranza conservatrice che pure, due settimane fa, hanno deciso 5 a 4 di non fermare la contestata legge sull’aborto texana, che lo vieta da quanto è percepibile il battito cardiaco, circa alla sesta settimana - quando molte donne non sanno nemmeno di essere incinte, cioè - entrata in vigore il 1 settembre. Legge così controversa che ora il Dipartimento di Giustizia americano vuol contestare in quanto “interferenza agli interessi federali” perché invita la popolazione alla delazione (chiunque può denunciare chi vuole abortire e chi l’aiuta). Nello Stato tutto chiese e pistole, disposto dunque a difendere il presunto diritto alla vita dei non-nati ma pronto a sopprimere chi si è macchiato di crimini gravi, la richiesta di Ramirez, è solo l’ultimo scontro del genere. Sì, negli ultimi anni, le uniche sospensioni di esecuzioni concesse dalla Corte Suprema sono avvenute in Texas e in Alabama, proprio perché veniva impedita la presenza di sacerdoti nella camera della morte. Solo dopo lo stop, nel 2019, all’esecuzione di Patrick Murphy, detenuto buddista che voleva con sé il suo consigliere il Texas ha deciso di ammettere queste figure nella camera della morte. Ma distante e con l’obbligo di pregare in silenzio per “non disturbare” le tristi pratiche del boia. Ramirez chiede di più: il diritto al cristiano conforto. L’ex procuratore Mark Skurka, pubblico ministero al processo contro di lui del 2008, però, non è d’accordo: “A Pablo Castro non è stato dato il tempo di chiedere un confessore”. Stati Uniti. Strage di Attica: la storia della rivolta che portò alla morte di 29 detenuti di David Romoli Il Riformista, 10 settembre 2021 Fu una strage, tra le più sanguinose nella storia degli Usa dopo la guerra civile. Fu una strage gratuita, facilmente evitabile. Nel 1971 rese il nome del carcere di Attica, vicino a Buffalo, nello Stato di New York, sinistramente famoso in tutto il mondo: uno di quegli eventi simbolo che segnarono gli anni roventi a cavallo tra gli anni 60 e i 70 , come la strage di My Lai in Vietnam o quella della Kent State University. Nel pianeta carcere americano Attica era una delle piazze peggiori. Era uno dei penitenziari più sovrappopolati degli Usa: avrebbe dovuto ospitare 1200 detenuti, ce n’erano 2.243. Dal 1931 non era mai stato ristrutturato: caldissimo d’estate, gelido d’inverno. Era anche una delle prigioni con le regole più sadiche. Le condizioni igieniche erano disastrose, quelle sanitarie peggiori. I prigionieri restavano in cella tra le 14 e le 16 ore al giorno. La posta era regolarmente controllata e letta, le restrizioni sull’accesso ai libri draconiane, i colloqui si potevano svolgere solo con il vetro divisorio, la libertà religiosa negata nonostante la presenza di molti detenuti aderenti ai Black Muslims. Le punizioni e il ricorso all’isolamento erano frequenti, probabilmente in seguito a un mix di razzismo e di incompetenza da parte delle guardie carcerarie. Il 54% dei detenuti di Attica era afro-americano, il 9% latino. Le guardie invece erano tutte bianche ed erano state assunte senza alcuna preparazione, senza nessun addestramento che le mettesse in grado di governare un carcere con mezzi diversi dalla pura repressione. All’inizio dell’estate 1971 i detenuti presentarono una lista chiedendo 28 riforme. La reazione della direzione fu mandare in cella d’isolamento chiunque fosse trovato in possesso del manifesto e inasprire ulteriormente il regime carcerario. La situazione iniziò a precipitare dopo l’uccisione di George Jackson, il detenuto che era diventato leader e simbolo dell’intero movimento nelle carceri, il 21 agosto. Il giorno dopo i detenuti sfoggiarono un bracciale nero in segno di lutto e organizzarono uno sciopero della fame per protesta. Da quel momento la tensione continuò a montare giorno dopo giorno. Le guardie dichiaravano apertamente la loro paura di una rivolta, segnalavano preoccupate che per la prima volta la divisione razziale tra i prigionieri, che impediva un fronte comune ed era uno strumento di controllo essenziale, stava cedendo. La scintilla che provocò l’esplosione fu una rissa tra detenuti, l’8 settembre, in cui fu coinvolta e atterrata con un pugno una guardia. La sera le guardie provarono a portare in isolamento il detenuto che aveva colpito il collega. I detenuti dello stesso braccio reagirono, ci scappò un altro pugno che raggiunse una delle guardie, il responsabile fu segregato in cella. La mattina seguente, 9 settembre, i detenuti del braccio trovarono i cancelli chiusi. Si convinsero, erroneamente, che fossero state decise punizioni severe per i fatti della sera precedente. Si ribellarono. L’incendio si estese rapidamente. Con armi di fortuna i rivoltosi, 1281 detenuti su poco di 2.200, si impadronirono dell’intero carcere, poi ripiegarono mantenendo il controllo di circa metà dell’edificio, inclusa la stanza di controllo centrale, chiamata “Times Square”, e presero in ostaggio 39 guardie. Era inevitabile che nella fase iniziale della rivolta ci fossero delle violenze. Alcune guardie vennero picchiate: una di queste, William Quinn, fu precipitato dalla balaustra, morì in ospedale due giorni dopo. Tre detenuti bianchi, sospettati di essere spie della direzione, furono uccisi. Ma le violenze contro le guardie furono molto più contenute del prevedibile. Subito dopo la prima e caotica fase, gli stessi detenuti difesero gli ostaggi dai prigionieri più esagitati e organizzarono una squadra di sicurezza incaricata tra l’altro proprio di garantire l’incolumità degli ostaggi e degli osservatori esterni a cui i rivoltosi stessi avevano chiesto di seguire la vicenda: molti giornalisti, alcuni avvocati, leader politici neri come il Black Muslim Louis Farrakhan, che declinò l’invito, o il fondatore del Black Panther Party Bobby Seale. Attica, probabilmente la più famosa rivolta di un carcere nella storia, non fu una sollevazione caotica ed ebbra. Fu al contrario ordinata e ben organizzata. I detenuti garantirono la salvezza degli ostaggi. Elessero una commissione di cinque prigionieri incaricata di negoziare sulla base di un documento approvato da tutti i rivoltosi, The Attica Liberation Faction Manifesto of Demands, nel quale venivano avanzate 33 richieste, tra le quali il miglioramento del vitto, la libertà di culto, la possibilità di andare alle docce una volta al giorno, la fine delle violenze fisiche e degli abusi. Un giovane militante, Elliot “L.D.” Barkley, di appena 21 anni, diventò il portavoce pubblico dei detenuti ribelli. La sera stessa del 9 settembre lesse di fronte alle tv e alla stampa una dichiarazione che iniziava così: “Noi siamo uomini! Non siamo bestie e non intendiamo essere picchiati e trattati come se lo fossimo”. La trattativa proseguì sino al 13 settembre. Il governatore dello Stato di New York, il miliardario repubblicano Nelson Rockefeller, nonostante le attese non si fece vedere. Molte richieste dei detenuti, 28 su 33, furono accolte: per un po’ sembrò che la vicenda, sulla quale era ormai concentrata l’attenzione non solo di tutta l’America ma del mondo, potesse concludersi positivamente. Invece due specifiche richieste bloccarono l’accordo: i detenuti volevano la rimozione del direttore della prigione e la garanzia di amnistia per i reati commessi durante la rivolta. Il negoziatore per lo Stato di New York, il responsabile del sistema carcerario Russell Oswald, rifiutò. I detenuti accettarono di ritirare la richiesta di dimissioni del direttore ma tennero duro sull’amnistia. Gli osservatori che di fatto gestivano la trattativa, in particolare l’avvocato William Kunstler, chiesero l’intervento diretto del governatore. Rockefeller respinse l’invito e nella notte tra il 12 e il 13 settembre, dopo essersi consultato con il presidente Nixon, disse a Oswald di ordinare l’attacco. Il coinvolgimento diretto del presidente nella decisione di sferrare l’attacco è rimasta nascosta sino a pochi anni fa, rivelata dalla giornalista Heather Ann Thompson nel suo libro Blood on the Water, definitiva ricostruzione dell’intera vicenda premiata nel 2016 col Pulitzer. Nixon voleva lanciare un messaggio “alla folla di Angela Davis”. In privato, ma registrato su nastri emersi solo decenni dopo, Nixon commentò così la strage: “Penso che avrà un dannato effetto salutare sulle future rivolte nelle carceri, proprio come ha avuto un dannato effetto salutare la Kent State”. Alla Kent State University, Ohio, 4 studenti erano stati uccisi dalla polizia, l’anno precedente, durante una manifestazione. Al mattino Oswald fece un ultimo tentativo di convincere i rivoltosi ad arrendersi, ma senza chiarire che si trattava appunto dell’ultima chance prima dell’attacco. Alle 9.46 di lunedì 13 settembre, fu ordinato alla polizia che circondava il carcere da quattro giorni di riconquistarlo. Sia Nixon che Rockefeller avevano messo nel conto la morte di alcuni ostaggi. I poliziotti incaricati di riconquistare Attica erano 550, ai quali fu detto di togliersi i numeri di identificazione. A questi si aggiunse un numero imprecisato di sceriffi e poliziotti di tutto lo Stato, molti con le loro armi personali, e le stesse guardie carcerarie assetate di vendetta. Molti fucili furono caricati con micidiali pallottole di diverso tipo, bandite dalla Convenzione di Ginevra. L’assalto fu lanciato con un pesantissimo lancio di fumogeni che cancellò ogni visuale. Gli assalitori aprirono il fuoco all’impazzata e alla cieca, nel fumo spesso. Furono uccisi 29 rivoltosi e 9 ostaggi. Un decimo ostaggio morì qualche giorno dopo in ospedale. I leader della rivolta, tra cui “L.D.” Barkley non furono però falciati nella prima sparatoria. Vennero uccisi a freddo, dopo essersi arresi. Tutti i detenuti furono selvaggiamente picchiati dopo la riconquista del carcere. Le autorità, governatore Rockefeller incluso, affermarono che le guardie perite erano state sgozzate dai rivoltosi. Meno di 24 ore dopo furono smentite dalle autopsie: tutte le guardie, eccetto quella uccisa nel primo giorno della rivolta, erano state colpite a morte dal “fuoco amico”. Le cause intentate dalle famiglie dei detenuti uccisi si prolungarono per decenni. Nel 2000 lo Stato concluse un accordo con un risarcimento collettivo di 8 mln di dollari. Le famiglie delle guardie uccise dovettero attendere fino 2005, prima di essere risarcite con 12 mln di dollari. La stessa Thompson ammette che per intero la verità su Attica non saprà mai. Nicaragua. Chiesto l’arresto dello scrittore Sergio Ramirez La Repubblica, 10 settembre 2021 L’autore di “Castigo divino” è accusato di cospirazione e incitamento all’odio. In un video si difende, attaccando il presidente Daniel Ortega. La procura del Nicaragua ha chiesto l’arresto dello scrittore Sergio Ramirez, ex vicepresidente del primo governo di Daniel Ortega, con l’accusa di “cospirazione” e “incitamento all’odio e alla violenza”. L’autore, che vive all’estero, ha risposto alle accuse rivoltegli in un video: “Non mi sarà mai imposto il silenzio - ha detto - Le mie uniche armi sono le parole”. L’accusa formulata, che ha 79 anni, è di atti che “incitano all’odio” e “cospirazione” contro la sovranità del Nicaragua. Si tratta dell’ennesima iniziativa della giustizia nicaraguense che ha già colpito una trentina di esponenti dell’opposizione, fra cui sette aspiranti alla candidatura presidenziale, in vista delle elezioni di novembre. Premio Cervantes 2017, lo scrittore nicaraguense si è scagliato contro il presidente del suo Paese. “Daniel Ortega - ha spiegato - mi ha accusato attraverso la Procura da lui controllata ed ai giudici che rispondono a lui, degli stessi crimini che hanno preteso di giustificare l’arresto e l’imprigionamento di molti degni e coraggiosi nicaraguensi”. Ramírez ha quindi ricordato che già nel 1977 la famiglia Somoza lo accusava “di crimini simili a quelli che gli si imputano oggi”, e ciò mentre “combattevo contro quella dittatura, proprio come ora combatto contro quest’altra. “Le dittature mancano di immaginazione e ripetono le loro bugie, la loro cattiveria, il loro odio e i loro capricci. Incarnano le stesse delusioni, la stessa cieca ostinazione per il potere e la stessa mediocrità di chi, avendo in pugno strumenti repressivi ed avendo perduto ogni scrupolo, si crede anche padrone della dignità, della coscienza e della libertà altrui”. Impegnato come vicepresidente della repubblica nel primo mandato di Daniel Ortega (1985-1990), l’autore di “Castigo divino”, pubblicato da Mondadori, si è dimesso nel 1995 dal Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) per irriconciliabili posizioni politiche.