Mettersi alla prova dopo un reato. Percorsi possibili oltre le sbarre di Giorgio Paolucci Avvenire, 9 ottobre 2021 Se dobbiamo dare ascolto a Dostoevskij, secondo cui “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, l’Italia fa decisamente una brutta figura. I numeri sono impietosi: al 30 giugno i detenuti erano 53mila su 47mila posti disponibili, con un tasso di affollamento del 113%, che in 11 carceri sale al 150%. Solo un terzo della popolazione detenuta lavora, tra questi il 12 percento per cooperative o imprese esterne, mentre 188% è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria con mansioni legate ai servizi interni o alla manutenzione ordinaria degli edifici. La detenzione costa allo Stato 3 miliardi, il 68% viene impiegato per la polizia penitenziaria, meno di un euro al giorno è destinato all’educazione, alla faccia dell’articolo 27 della Costituzione secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il 75% di quanti escono di galera dopo avere scontato la pena torna a commettere reati, anche perché in molti casi il periodo di detenzione diventa una scuola del crimine. Giorgio Pigri, diacono, educatore professionale, figlio spirituale e grande amico di don Oreste Benzi, da 25 anni visita il popolo delle prigioni insieme agli amici della Comunità Papa Giovanni XXIII e lancia una provocazione con il libro “Carcere, l’alternativa è possibile” (Edizioni Sempre) in cui presenta il progetto Cec - Comunità educante con i carcerati - di cui è coordinatore nazionale. Un’idea che si ispira all’esperienza delle Apac brasiliane, modello di carceri “aperte” esportato in vari Paesi e che si sta applicando anche in Italia nei limiti concessi dalla nostra legislazione. I detenuti vengono ospitati in alcune case dove si vive in forma comunitaria e intraprendono un percorso in cui prendono coscienza del male compiuto, si misurano conia Parola di Dio leggendo e commentando la Bibbia, imparano un mestiere e si cimentano in momenti di valutazione attraverso una “tabella di merito” in cui ognuno dà un voto a tutti gli altri sui vari aspetti della vita comune: pulizie, coinvolgimento nel percorso, capacità di relazione, disponibilità all’aiuto, gestione delle responsabilità. È un’esperienza molto impegnativa, come dice un detenuto: “Qui è meglio del carcere, ma è molto più dura”. Al termine del percorso si esce dalla comunità e ci si mette alla prova con un lavoro regolarmente retribuito: è l’anticamera del ritorno definitivo nella società. Sono già centinaia le persone che in questi anni hanno sperimentato con successo questa esperienza fatta di espiazione, cura delle ferite e ripartenza umana, che andrebbe sostenuta, potenziata e valorizzata nel quadro della riforma del sistema carcerario a cui la ministra Cartabia sta lavorando. “L’uomo non è il suo errore”, amava ripetere don Oreste Benzi, fondatore e anima della Comunità Papa Giovanni XXIII, e il popolo della Cec ne dà testimonianza vivente e commovente. Un detenuto non è definito dal reato per il quale viene condannato, se incontra qualcuno cheto guarda come una persona capace di bene la sua esistenza può ripartire, fino a diventare lui stesso un punto di positività a cui altri detenuti possono guardare. Nelle comunità del progetto Cec crescono i germi di una umanità nuova e si costruisce una piccola-grande alternativa al carcere. Un bene per chi viene ospitato e un contributo per una società più umana e più sicura. Perché, come scrive Pieri, “la sicurezza sociale non è data dalla certezza della pena ma dalla certezza del recupero”. Nelle carceri italiane violenza e torture non sono gli unici problemi di Kevin Carboni wired.it, 9 ottobre 2021 Il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto il 113%, con più di 53mila persone ad occupare circa 47mila posti disponibili. Inoltre è in aumento anche il tasso di suicidi, che nel 2020 è stato il più alto degli ultimi anni. Violenza di massa e torture non sono le sole emergenza da affrontare nelle carceri italiane. Il tasso di “affollamento reale” del sistema penitenziario italiano ha raggiunto il 113% a giugno 2021, con 53.637 persone a occupare i circa 47mila posti effettivamente disponibili e, nel 2020, il tasso di suicidi tra i detenuti ha raggiunto il numero più alto degli ultimi anni. Dopo le sconvolgenti immagini dei massacri avvenuti nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, l’associazione Antigone per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario ha pubblicato l’ultimo monitoraggio sulle condizioni delle carceri italiane. Su 189 carceri in tutto il territorio nazionale e in 117 il tasso di occupazione è superiore al 100%, con picchi massimi del 200% come nel caso del carcere di Brescia. Per migliorare la condizione, si legge nel report di Antigone, basterebbe incentivare le misure alternative alla detenzione, alle quali almeno 20mila detenuti potrebbero accedere da subito. Sono altissimi anche i dati relativi al consumo di droghe. Almeno un detenuto su 4, in media, ha problemi di tossicodipendenza e il numero è aumentato del 10% negli ultimi 15 anni, con sempre più persone in carcere per reati di droga, attualmente circa il 15%. Secondo Antigone, una strategia efficace per decongestionare le carceri dovrebbe cominciare con la modifica della legge sulle droghe e la depenalizzazione di alcune sostanze. Depenalizzazione che sarebbe in linea con le ultime decisioni prese dalla Commissione per gli stupefacenti delle Nazioni Unite, che ha rimosso la cannabis dall’elenco delle sostanze pericolose per l’uomo e sta sostenendo la sua depenalizzazione. Il monitoraggio si è concentrato anche sulle condizioni materiali della vita nelle carceri, che contribuiscono a migliorare o peggiorare la salute mentale delle persone detenute. Nel 42% degli istituti, le finestre delle celle sono provviste di schermature che impediscono il passaggio della luce naturale e il ricircolo dell’aria. Nel 36% delle carceri si trovano celle senza doccia (contrariamente a quanto previsto dal Regolamento penitenziario del 2000) e nel 31% le celle sono sprovviste di acqua calda. Inoltre, a causa della pandemia, il 24% degli istituti è passato dal regime a celle aperte a quello a celle chiuse, per il quale i detenuti sono costretti a vivere sempre nello stesso piccolo spazio, a volte senza ricircolo d’aria, luce naturale e possibilità di lavarsi. Queste condizioni contribuiscono ad aumentare i casi di autolesionismo e quelli estremi di suicidio. Solo nel carcere di Firenze Sollicciano si sono verificati 105 episodi di autolesionismo ogni 100 detenuti, mentre i suicidi dall’inizio del 2021 sono già stati 18, che si aggiungono ai 62 del 2020. “È necessario ripensare radicalmente alle disposizioni delle carceri, facendo particolare attenzione alle sfide che non possiamo prevedere, come nel caso della pandemia” hanno dichiarato i rappresentanti di Antigone durante la presentazione del report. Rivolgendosi al governo, l’associazione ha chiesto l’immediata l’introduzione di telecamere che “coprano anche anfratti, scale, zone di isolamento disciplinare” e che gli agenti indossino i famosi “codici identificativi” per garantire il riconoscimento degli agenti, cruciale tanto per le indagini sugli abusi nelle carceri che in quelli commessi all’esterno. Un Paese che distrugge la sua giurisdizione di Claudio Castelli Il Domani, 9 ottobre 2021 La reazione alle cadute della magistratura dovrebbe essere quella di analizzarne ragioni e trovare rimedi, tenendo conto che accusare e giudicare sono mestieri difficili in cui l’”errore” è dietro l’angolo e che richiedono non solo competenza tecnica, ma anche una profonda umanità. Ma questo non sembra interessare a nessuno, tutti preferiscono gli attacchi. Non credo vi sia consapevolezza della strada su cui a ritmo forsennati ci stiamo incamminando. Mettendo insieme il discredito suscitato dalla vicenda Palamara, le perplessità spesso sfociate in fortissimi attacchi suscitati da recenti sentenze e lo spirito revanscista che ispira parte del nostro sistema politico traiamo il quadro di una drammatica crisi non solo della magistratura, ma dell’intera giurisdizione. Questo dovrebbe allarmare le istituzioni ed i normali cittadini: chi accetterà di buon grado la decisione di un magistrato senza pensare di essere vittima dei sodali di Palamara o di un sistema infetto? Questo é devastante nell’epoca dei social (che fanno pensare a chiunque che la giusta decisione si trova su internet) e della denigrazione della competenza tecnica. La crisi della magistratura - La magistratura ha molti problemi, in parte derivanti dalle difficoltà di decidere in un mondo complesso come quello attuale, con una legislazione ambigua, bulimica ed in perpetuo ritardo sulla società, ma in parte endogeni, con una formazione ancora insufficiente, un’incapacità di fare seriamente i conti con una crisi che affonda in anni lontani, ed un progressivo rinchiudersi difensivo in un microcorporativismo sterile e sempre più lontano dalla società. Ovviamente non tutta, ma questo oggi è il trend dominante. Questa situazione viene da molti vista con soddisfazione: è la rivincita con Mani Pulite, con una magistratura vista come troppo autonoma e indipendente, senza capire che la fortissima espansione della giurisdizione e del ruolo delle Corti non è un fenomeno solo italiano, ma mondiale, come ci mostrano esempi in Francia, Usa, Giappone. Una visione che rischia di portare la nostra giurisdizione alla rovina. La reazione a cadute e errori dovrebbe essere quella di analizzarne ragioni e cause, di trovare rimedi, di migliorare complessivamente il servizio, tenendo conto che accusare e giudicare sono mestieri difficili in cui l’”errore” è dietro l’angolo e che richiedono non solo competenza tecnica, ma anche una profonda umanità. Solo attacchi, nessuna soluzione - Analisi che invece sembra non interessino a nessuno, perché in tal modo si sposterebbe l’approccio da quello dell’attacco e della demonizzazione a quello della razionalità e delle possibili soluzioni. Così il nostro é uno strano Paese in cui si fanno le leggi senza alcuna valutazione di impatto complessivo sul sistema, in cui non ci sono dati nazionali sulle percentuali di assoluzioni e condanne o sull’esito dei processi in appello o cassazione o ancora sulla tenuta delle misure cautelari nel merito. Quando se passassimo ad un approccio più pragmatico e razionale potremmo individuare le situazioni critiche e mettere in campo gli interventi più adatti. La direzione verso cui stiamo invece correndo è quella di un radicale discredito della giurisdizione, come prologo da molti auspicato di radicali mutamenti che sterilizzino l’autonomia e indipendenza dei magistrati. Discredito che difficilmente potrà essere recuperato. E d’altro lato di una giustizia difensiva, forse a posto con i numeri (ma dubito) e attenta soltanto a non dar torto ai potenti (per evitare responsabilità), tutta tesa a realizzare numeri adottando le soluzioni più semplici e più comode. Sforneremo fascicoli, non giustizia, senza più badare a quel difficile equilibrio tra produttività e qualità che deve accompagnare un’attività delicata come quella del giudicare. È questa la giustizia che vuole il nostro Paese? L’autonomia della magistratura è garanzia di tutela dei diritti fondamentali di Stefano Musolino Il Domani, 9 ottobre 2021 La sentenza Lucano e l’entità della pena hanno suscitato grande clamore ed è stata intesa nella percezione pubblica diffusa come una condanna inflitta non solo a loro, agli imputati, ma all’intero sistema di accoglienza, organizzato a Riace. Ecco allora che la richiesta di interventi dell’Anm a tutela di una siffatta sentenza, mostra di non comprendere le ragioni di queste reazioni, accrescendo la percezione pubblica di una magistratura chiusa E’ stato un convegno molto denso di contenuti e di emozioni che ha evidenziato la crisi, l’inabissarsi della solidarietà nel nostro Mediterraneo. Abbiamo sentito di iniziative politiche nazionali ed internazionali, di iniziative normative e di sanzioni amministrative che hanno annichilito la possibilità di portare aiuto in mare, a favore di soggetti economicamente svantaggiati che si trovano in una oggettiva condizione di bisogno (e non di un bisogno qualsiasi, ma del bisogno essenziale di avere possibilità di vita, di salvare la propria vita). Obiettivo di queste politiche è stata la sostanziale neutralizzazione dell’operato di quelle organizzazioni che fanno della solidarietà il loro scopo e che vedono ostacolata, boicottata, intimidita questa loro vocazione. Una vocazione che trova principio e fondamento nella tutela dei diritti fondamentali; non solo di quelli formalizzati in norme, ma prima ancora di quelli sviluppati nella storia delle relazioni tra le persone, sino a connotare la stessa umanità. Il quadro fosco che è emerso dalle parole che abbiamo ascoltato, è quello che vuole questa politica inibitoria, agire in maniera occulta se non proprio subdola (penso alle sanzioni amministrative ed ai sequestri), per attenuare la consapevolezza sociale della gravità di queste scelte che, ostacolando la solidarietà, mostrano l’irriducibile disumanità delle politiche di gestione dei flussi migratori. Ed agli effetti di queste politiche, si aggiunge una narrazione mediatica che, criminalizzando la solidarietà, ha finito per introiettare nell’opinione pubblica la percezione di ordinarietà, se non proprio d’irrilevanza del numero crescente di persone che muoiono in mare. La prospettiva “altra” dei magistrati - Ma perché un gruppo di magistrati ha sentito la necessità di avere una “prospettiva altra” sulla gestione dei flussi migratori? Perché non ci siamo accontentati di fare un convegno sui temi di diritto sostanziale e processuale, coinvolti in queste vicende? La gestione dei flussi migratori si inserisce nel tema generale delle narrazioni oggi dominanti, finalizzate ad anestetizzare la sensibilità sociale, secondo una logica che ha introdotto e sta, eticamente, legittimando nel sentire popolare il criterio discretivo delle cd. ego-libertà, inteso quale principio cardine di regolamentazione dei rapporti sociali; una sorta di imperativo per cui è giusto ed è buono, tutto quello che mi conviene. Un virus culturale che ci riguarda anche come magistrati perché finisce per intaccare i principi cardini della nostra Costituzione, desumibili dagli artt. 2 e 3 della Carta che possono essere riassunti in questa affermazione che è insieme un onere individuale ed un sollecito collettivo: posso essere felice solo se lo sono anche gli altri. Con questa premessa possiamo tornare alle domande sul perché di questo convegno. Gli obiettivi di Md - Siamo un gruppo di magistrati che tenta (lo sottolineo: tenta! Anzi sarò più aderente alla realtà: si propone) di interpretare il principio di indipendenza ed autonomia della magistratura non come un privilegio di casta, ma come uno strumento a garanzia e tutela dei diritti fondamentali. Noi crediamo che i padri costituzionali abbiano previsto quella autonomia ed indipendenza, perché erano consapevoli che il nucleo essenziale dei diritti fondamentali dell’individuo (di ciascuna singola persona) sacralizzati dalla Carta, dovesse resistere anche alle iniziative normative di contingenti maggioranze parlamentari che li avessero messi in crisi. Per ciò, noi riteniamo che la magistratura nell’esercizio giurisdizionale abbia un mandato costituzionale di resistenza anti-maggioritaria, assolutamente doveroso in occasione della violazione dei diritti fondamentali. Il senso di questo convegno, dunque, è quello di offrire ai magistrati - ma l’ambizione, in vero, è a tutti i giuristi ed a chi si occupa (meglio si prende cura) di diritti - di ampliare i loro orizzonti; in particolare, vorremmo consentire a ciascun magistrato di potere comprendere meglio la realtà in cui si innesta quella specifica, singola, unica vicenda che è chiamato a trattare, fascicolo per fascicolo, quando questa è in qualche modo connessa alla gestione dei flussi migratori. Il rischio - altrimenti - è quello di ridurre la risposta di giustizia, l’esercizio della giurisdizione nel caso concreto, ad un giudizio in cui le indispensabili valutazioni tecnico-giuridiche sono svilite da un approccio burocratico e formalista, incapace di comprendere autenticamente la vicenda sottoposta al vaglio giurisdizionale. La sentenza Lucano - Noi crediamo che la riduzione della magistratura ad una casta burocratica chiusa in se stessa, metta in crisi il suo ruolo istituzionale e trasformi la sua indipendenza ed autonomia da valori posti in funzione del presidio dei diritti fondamentali costituzionalmente non coercibili, ad inaccettabile privilegio che finisce per svilire quei diritti fondamentali che doveva tutelare, con l’alibi della gretta applicazione della legge, del tecnicismo formalista, inadatto a cogliere la reale posta in gioco nel concreto esercizio della giurisdizione. Questo rischio è ben presente in una vicenda attualissima, evocata più volte nel corso dei nostri lavori: la condanna di Mimmo Lucano e delle persone, impegnate con lui nella gestione dell’accoglienza dei migranti a Riace. In queste ore, dentro la magistratura associata, alcuni gruppi hanno invocato interventi a tutela dei giudici di Locri, investiti dalle critiche per l’entità della pena. Non possiamo valutare una sentenza, senza prima conoscerne le motivazioni. Ma possiamo interrogarci sulle ragioni per cui una sentenza suscita questo clamore. Ed abbiamo un dato oggettivo, da tutti verificabile: l’entità della pena; un elemento della decisione su cui ogni giudice esercita una discrezionalità che è anche figlia di una sensibilità valoriale. Una pena quella inflitta a Lucano, pari a quella comminata, a queste latitudini, per gravi reati di mafia. Dobbiamo prendere atto che - a prescindere dalla volontà dei giudici, per comprendere la quale dobbiamo attendere le motivazioni - la misura della pena è stata intesa nella percezione pubblica diffusa (sia quella che si è espressa in senso favorevole, sia quella che si è espressa in senso contrario agli imputati) come una condanna inflitta non solo a loro, agli imputati, ma all’intero sistema di accoglienza, organizzato a Riace. A questo, dunque, una parte dell’opinione pubblica si è ribellata. Questa parte dell’opinione pubblica, infatti, riconosce in quel sistema di accoglienza, una modalità innovativa, avanzata, da prendere a modello, anche se singole persone possano averne abusato e possano avere commesso dei reati. Il messaggio sembra essere: potete condannare le persone, ma una pena di tale portata finisce per condannare un intero modello di accoglienza. La richiesta sbagliata all’Anm - Ecco allora che la richiesta di interventi dell’Anm a tutela di una siffatta sentenza, mostra di non comprendere le ragioni di queste reazioni, accrescendo la percezione pubblica di una magistratura chiusa, auto-percepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce; una magistratura che non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche, sollevando l’alibi del tecnicismo. Aleggia in queste posizioni l’ombra del giudice sacro bocca della legge, così amato da certa politica securitaria ed invocato dai poteri economici dominanti. L’esatto opposto dello spirito di questo convegno che ha avuto l’ambizione - speriamo colta almeno in parte - di mettere la magistratura a confronto con una realtà complessa e per larghi aspetti finita in un cono d’ombra dentro il quale i diritti fondamentali delle persone sono gravemente aggrediti. Non lo facciamo con un atteggiamento saccente o di superiorità professionale, ma anzi nella consapevolezza che metterci a confronto con queste problematiche ci rende più responsabili e renderà meno giustificabili i nostri errori che - ahimè - continueremo a fare. Ma siamo convinti che, con queste nuove consapevolezze, potremo svolgere il nostro lavoro - che, a volte, limitando la libertà delle persone e determinando la sorte di diritti personalissimi, ci può illudere di essere dotati di una speciale, quanto insidiosa superiorità umana - con una prossimità alle vicende ed una umiltà cognitiva che costituisce un efficace antidoto alle deviazioni ed un buon viatico per un esercizio della giurisdizione attento alla tutela dei diritti fondamentali. Le prospettive future, purtroppo, non sono rosee. L’aggressione ai diritti fondamentali potrà essere ancora più incisiva e sempre più subdola. Costruire un fronte di resistenza costituzionale per la loro tutela è un obiettivo che impegna Magistratura democratica. Ma consapevoli dei nostri molti limiti, chiediamo di farlo con tutti quelli che sentono l’urgenza di impegnarsi su questo fronte. La Giustizia non lascia il web: nelle riforme il cambio di passo di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2021 Dalle udienze per note scritte ai collegamenti video, i disegni di legge delega civile e penale stabilizzano buona parte delle innovazioni varate nel lockdown e per ora valide fino a fine anno. Le riforme dei processi civili e penali raccolgono l’eredità delle innovazioni digitali sperimentate durante la pandemia: per ora valide fino a fine anno, sono destinate in buona parte a essere stabilizzate con l’attuazione dei disegni di legge delega. Del resto, è lo stesso Pnrr a indicare la strada della digitalizzazione per rendere più efficiente la giustizia. Il passo è diverso nel settore civile e in quello penale, se non altro perché il primo ha affrontato l’emergenza e l’esigenza di amministrare la giustizia da remoto con gli strumenti già rodati del processo civile telematico (operativo dal 2014 nei tribunali e dal 2015 nelle corti d’appello). Nel penale la digitalizzazione dei documenti è stata invece una novità quasi del tutto introdotta con la pandemia. La possibilità di tenere le udienze civili con collegamenti video o di sostituirle con lo scambio di note scritte ha debuttato nel lockdown, per garantire il funzionamento della giustizia nonostante i limiti agli spostamenti. Modalità che sono state molto utilizzate, soprattutto la trattazione scritta. Ora il disegno di legge delega sul processo civile, approvato dal Senato e che entro fine mese dovrebbe avere il sì definitivo della Camera, prevede di stabilizzarle: potranno essere disposte dal giudice a determinate condizioni, se le parti non si oppongono. Sono innovazioni “utili, che semplificano la vita ad avvocati e giudici”, afferma il presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi, che fa un solo rilievo: “Da remoto è difficile che la conciliazione del giudice abbia buon esito: il tentativo è più efficace in presenza”. Un’altra annotazione arriva da Carla Secchieri, consigliere Cnf e vicepresidente della Fondazione per l’innovazione forense: “Nella trattazione scritta (di cui sarebbe meglio non abusare) andrebbe introdotta la possibilità di replica alle considerazioni della controparte, fissando un termine intermedio fra il deposito delle note e l’udienza, come alcuni giudici già fanno”. Sempre in tema di udienze, la delega civile conferma la possibilità di sostituire l’udienza per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio con il deposito di una dichiarazione firmata digitalmente. E di tenere per iscritto anche i procedimenti di separazione consensuale e divorzio congiunto, se le parti rinunciano all’udienza. La delega intende anche rafforzare il processo civile telematico, esteso nei mesi scorsi alla Cassazione. In futuro andranno depositati in via telematica tutti gli atti dei difensori nei procedimenti davanti al giudice di pace, in Tribunale, Corte d’appello e Cassazione. Sarà introdotto il divieto di sanzioni sulla validità degli atti informatici quando raggiungono comunque lo scopo. E anche il nuovo Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie sarà informatizzato Nel penale la spinta al telematico l’ha data la pandemia. Si è partiti dai documenti di chiusura delle indagini preliminari che da ottobre 2020 devono essere depositati tramite il portale del processo telematico: obbligo poi esteso a denunce, querele, opposizioni all’archiviazione, nomina dei difensori. Non sono mancati malfunzionamenti tecnologici che hanno suscitato le proteste degli avvocati (per ragioni specifiche l’autorità giudiziaria può autorizzare il deposito analogico) ma la strada è tracciata e la legge delega di riforma del processo penale approvata in via definitiva intende percorrerla fino in fondo. L’obiettivo è rendere la modalità telematica obbligatoria in ogni grado del procedimento per depositi, comunicazioni e notificazioni. L’attuazione spetta al Governo e dovrà essere graduale. “Aver previsto un periodo transitorio e la certezza della ricezione è positivo. Gli avvocati non sono contro il processo telematico ma contro il suo malfunzionamento”, dice Giovanna Ollà, consigliere Cnf e coordinatrice commissione diritto penale. Situazione più delicata per le udienze da remoto e la trattazione scritta nei giudizi di appello. “Le abbiamo accettato nell’emergenza - aggiunge Ollà - ma non sono ammissibili nell’ordinario perché ledono i principi di oralità e personalità”. La riforma stabilisce che il Governo individui i casi in cui la partecipazione al procedimento o all’udienza possa avvenire a distanza, ma pone il vincolo del consenso delle parti. In questi mesi le videoudienze, a eccezione di quelle con detenuti o persone private della libertà, sono state poco utilizzate e la possibilità di ricorrervi anche quando sono coinvolti solo Pm, parti, difensori e ausiliari del giudice, non è stata prorogata a fine anno. Più usata, invece, la trattazione scritta dell’appello che è stata prorogata a fine anno ed è prevista anche dalla legge delega, sempre a condizione che il ricorrente o l’imputato non chiedano di partecipare. Il vincolo di legalità permette il dissenso critico sulla sentenza Lucano di Michele Passione Il Manifesto, 9 ottobre 2021 “Il rispetto del vincolo della legalità” (processuale, sostanziale, costituzionale) non può e non deve consentire incursioni corsare incuranti di quanto accertato in aula e svilire i principi scolpiti nella Costituzione, ma neanche impedire il legittimo dissenso critico. Sulla sentenza emessa lo scorso 30 settembre dal Tribunale di Locri sono state dette molte cose da parte di autorevoli commentatori, che hanno per lo più concentrato le critiche sulla sproporzione della sanzione concernente il principale imputato (Lucano) e sulla supposta volontà di cancellare un modello di accoglienza dei migranti che, pur probabilmente contraddistinto da forzature (reati, per i giudici calabresi), sarebbe stato inviso a buona parte dell’establishment. Del resto, i prodromi della vicenda avevano già evidenziato un’opinabile metro di giudizio (una misura coercitiva, sia pure gradata rispetto a quella massima pervicacemente richiesta, anche con successive impugnazioni, a fronte di una sostanziale confutazione del quadro indiziario), e dunque la sentenza, di certo eclatante, forse non può dirsi del tutto sorprendente. Vorrei provare qui a spostare la riflessione dalla critica giuridica (ovviamente resa più ardua dall’assenza del deposito della motivazione) ed anche da quella riguardante un politico velocemente assurto alla ribalta internazionale, per poi precipitare nel de profundis. La presa di posizione dell’Anm - Mi interessa piuttosto evidenziare come i fatti di Riace abbiano determinato l’Anm ad emettere un comunicato stampa con il quale, richiamati “i valori della giurisdizione”, ci si è soffermati su “alcuni principi che devono essere sempre preservati nel dibattito pubblico sulle vicende giudiziarie”. Al dunque, si è così (ovviamente) riconosciuto spazio di critica su quanto avviene nelle aule processuali, rilevandosi tuttavia che poiché “i processi penali, tutti, sono una laboriosa ricerca della verità…che è approdo finale, e non premessa del processo”, debba stigmatizzarsi “l’attacco mediatico nei confronti dei magistrati requirenti e giudicanti”. Non è certo la prima volta che il sindacato dei giudici prende posizione (con richiesta o meno di “pratiche a tutela”) a difesa di una decisione, ma qui è interessante notare come la nota sembri riferirsi in particolare a chi, dall’interno della magistratura (Magistratura Democratica) ha invitato ad aprirsi alla civitas e ad uscire dalla cittadella assediata. Ora, premesso il relativismo processuale della verità, non occorre qui richiamare il pensiero di Derrida (Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”) sul rapporto asimmetrico del Diritto con la Giustizia, avendo sostenuto il filosofo francese che “la forma giuridica è l’esito di rapporti di forza politico-economici”. Muovendo dalla diversa prospettiva secondo la quale “nell’epoca moderna…la cultura occidentale si è nutrita di una concezione della Giustizia in cui tutti i rapporti morali, giuridici e politici confluiscono nella medesima idea di legalità, sicché tende ad apparire giusto ciò che è conforme alla legge” (Ricoeur), si è affermato (Cartabia, Violante) che “il Diritto e la Giustizia devono tornare a dialogare, che il Diritto e la Morale devono gravitare su orbite distinte, ma non del tutto inincidenti”, e anche che (Lombardi Vallauri) “Il Diritto, per sfuggire al rischio di porsi come dinamica autoreferenziale, deve essere giustificato filosoficamente a partire da opzioni valoriali che attengono alla concezione della Giustizia”. La cultura della giurisdizione - Sia come sia, penso davvero che “la cultura della giurisdizione” (formula spesso abusata, quasi sempre per nobilitare posizioni conservatrici) si alimenti con le aperture ad ogni istanza di natura sociale, in particolare per alcuni rami del diritto, ciò non significa e non deve significare che i giudici debbano corrispondere alle aspettative popolari (populiste), né quando esse invochino law and order, giustizia per le vittime, pene esemplari, né quando (come - pur solo da una parte - nel caso di specie) si critichi una durissima sentenza di condanna. Su questo, penso, gli avvocati avrebbero qualcosa di interessante da dire, e forse questa storia potrà offrire nuova occasione di confronto sul punto. Con una lettura dei fatti parzialmente diversa da quella che qui si propone il Presidente dell’UCPI (con un lungo post su facebook, dunque con posizione apparentemente non coinvolgente la Giunta dell’Unione) ha parlato di “vera matrice ideologica del pur legittimo fronte innocentista, che non ha nulla a che fare con il tema delle garanzie difensive”. Credo che Gian Domenico Caiazza abbia colto solo in parte le prese di posizione di Livio Pepino, Luigi Manconi, Luigi Ferrajoli, e altri ancora, che non hanno affatto nascosto la possibile sussistenza di reati nelle condotte tenute da Mimmo Lucano, evidenziando piuttosto altri aspetti, non solo afferenti la draconiana sanzione. Credo dunque che sia riduttivo parlare dell’esistenza di “un mondo valoriale nel perseguimento del quale si è unilateralmente persuasi che non sia lecito opporre il vincolo del rispetto della legalità”. Ovviamente, spesso tout se tient, e la stessa Anm ha richiamato l’epilogo della vicenda trattativa in uno con quello del processo di Locri. Vicende diverse, reazioni diverse; del resto, ogni storia processuale vive di dinamiche sue proprie. Resta il fatto che “il rispetto del vincolo della legalità” (processuale, sostanziale, costituzionale) non può e non deve consentire incursioni corsare incuranti di quanto accertato in aula e svilire i principi scolpiti nella Costituzione, ma neanche impedire il legittimo dissenso critico. Nessuno pretende che “la giustizia penale faccia propri quei valori” (quelli patrocinati a Riace, e poi in aula, da Mimmo Lucano), ma credo che nessuno tra gli autorevoli commentatori dell’affaire abbia chiesto rinunzie “in nome di essi a giudicare fatti e conformità alla legge delle condotte [che] equivale a negare il valore universale del diritto e della legge”. Lo ius dicere è affare di tutti; sono gli uomini, e non Atena, che devono continuare a fare in modo che “dire il Diritto” non sia compito sacerdotale, né popolare; in nome del popolo, non solo italiano. Caselli: “Nella lotta alla mafia dopo grandi attivismi arriva sempre la fase della tregua” di Giulia Merlo Il Domani, 9 ottobre 2021 Intervista all’ex procuratore capo di Palermo. Sul processo trattativa dice: “Aspettiamo le motivazioni per capire le ragioni delle assoluzioni. Ma orribile l’orgiastico sabba di insulti a chiunque osasse riproporre le tesi dell’accusa con osservazioni critiche sulla sentenza d’appello”. Ex procuratore di Palermo e uno dei principali protagonisti della lotta al terrorismo degli anni Settanta e alla mafia degli anni Novanta, Gian Carlo Caselli è tra i magistrati che più hanno segnato la storia giudiziaria italiana. Nei suoi anni palermitani, infatti, ottenne importanti risultati come l’arresto del boss Leoluca Bagarella. Inoltre portò a processo con l’accusa di associazione mafiosa il leader democristiano Giulio Andreotti. Oggi in pensione ma ancora attento osservatore di ciò che accade dentro e fuori la magistratura, si esprime sulla sentenza d’appello che ha escluso l’ipotesi della trattativa Stato-mafia e prende posizione anche sulle riforme della giustizia penale in corso. Dottor Caselli, come ha accolto la sentenza d’appello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia? Non faccio mai previsioni. Potrei cavarmela con una battutaccia che da sempre circola fra i giuristi, la traduzione maccheronica del detto tot capita tot sententiae come: tutto capita nelle sentenze. Ma non è materia per facili battute. Proprio per questo le rispondo con l’avvertenza che chiude il capitolo “Trattativa” di un libro scritto, quando ancora era in corso l’appello, insieme a Guido Lo Forte (Lo stato illegale, Laterza, ndr): resta fermo, in attesa del giudizio di secondo grado sulla responsabilità penale delle persone coinvolte, che la sentenza di primo grado ritiene dimostrati vari fatti storici importanti. Un’avvertenza da ricordare anche oggi, in attesa della motivazione. Quindi dalle motivazioni si capirà su cosa è caduta l’ipotesi accusatoria... La mia non è una clausola di stile ma un principio garantista, ovviamente non del garantismo à la carte. Posto che il materiale probatorio è strutturalmente opinabile, sorge appunto la necessità della motivazione, fatta apposta per consentire alle parti di contestarla e all’opinione pubblica di controllarne la coerenza e l’attendibilità. Questo in tutti i processi, figuriamoci in un processo di eccezionale complessità e delicatezza come senza alcun dubbio è quello sulla “trattativa”. Dove invece c’è stato un orgiastico sabba di insulti, dileggi, imprecazioni, scomuniche, anatemi, etichette infamanti appioppate con disinvoltura a chiunque osasse riproporre le tesi dell’accusa con osservazioni critiche sulla sentenza d’appello. L’esito - ancora non definitivo - di questo processo cambierà o influenzerà il modo in cui si conducono le indagini per mafia? Le indagini e i processi per mafia, sul versante dei rapporti con i “colletti bianchi”, hanno registrato varie fasi. Un tempo prevaleva la “grande scaltrezza”, come diceva Peppino Di Lello, nel senso di “riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere politico ed economico e - nel momento di passare alle prassi giudiziarie - nel perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza, tenendo fuori dal loro campo d’azione l’altro corno del problema”. Il pool di Giovanni Falcone ha invece cominciato ad inquisire anche personaggi come Vito Ciancimino e Nino Salvo, oltre ad impiantare il capolavoro del maxiprocesso. Dopo le stragi del 1992, la magistratura palermitana, consapevole che il sacrificio di Falcone e Borsellino e di quanti erano morti con loro imponeva ancor più di fare il proprio dovere fino in fondo, ha rifiutato ogni scaltrezza per non macchiarsi di vergogna. Ed ecco - oltre ai processi contro Salvatore Riina e soci - vari processi contro imputati eccellenti: da Giulio Andreotti a Marcello Dell’Utri, per ricordare soltanto due casi. E’ seguita una stagione di “normalizzazione” ben documentata in un libro di Lodato e Travaglio significativamente intitolato Gli intoccabili. Il passato insegna che si alternano vari livelli di intensità della lotta alla mafia? Nella storia giudiziaria antimafia si registra come una sorta di alti e bassi, secondo un copione che risale addirittura al processo Notarbartolo, uomo integerrimo ucciso nel 1893 dalla mafia su mandato dell’onorevole Raffaele Palizzolo. Costui, prima condannato a trent’anni, venne poi assolto e accolto a Palermo da trionfatore con un ciclo di festeggiamenti che durarono parecchi giorni. In ogni caso, io credo che ad influire sui processi e sull’antimafia in generale siano piuttosto il clima politico-culturale delle varie stagioni. Non a caso quando la mafia “non esisteva”, nel senso che fior di notabili ne negavano ostentatamente e in pubblico l’esistenza stessa, di processi ce n’erano pochi e di condanne nessuna. Quindi ora, secondo lei, non ci sarà tanto un cambio nel metodo d’indagine ma una fase di “bassa” nella lotta alla mafia? L’impegno delle forze dell’ordine e della magistratura è ormai consolidato. Occorre anche la volontà precisa di affrontare e risolvere una volta per sempre il nodo delle “relazioni esterne” delle mafie. Nodo di com­piacenze, collusioni, complicità e coperture che sono il codice genetico di quello che Carlo Alberto Dalla Chiesa chiamava il poli-partito della mafia, per indicare la stretta compenetrazione fra potere criminale e pezzi del mondo legale, oggi soprattutto economici. Il clamore mediatico del processo trattativa ha polarizzato il dibattito pubblico, ma anche spinto carriere sia in politica che in magistratura. Era inevitabile che fosse così? Immagino che la domanda si riferisca ad Antonio Ingroia e Nino Di Matteo dei quali - se non si è prevenuti o peggio - è impossibile disconoscere le qualità professionali e l’impegno coraggioso sempre dimostrati. Per cui le loro carriere, semmai, sono state spinte innanzitutto da queste doti. Quanto al versante politico, se parliamo di Ingroia dovremmo parlare anche di Peppino Di Lello, Giuseppe Ajala, Pietro Grasso e non solo, ma con una differenza. Ingroia, per altro con pochissima fortuna, ha creato un suo partito, mentre tutti gli altri sono saliti su questo o quel carro partitico già avviato. Per Ingroia un segno di indipendenza. O no? In ogni caso c’è il rovescio della medaglia. Ovvero magistrati penalizzati dalle inchieste condotte? Mi è toccato di sperimentarlo direttamente, quando fui privato del diritto di concorrere al ruolo di procuratore nazionale antimafia nel 2005 in quanto “indegno”. Avvenne mediante una legge contra personam poi dichiarata incostituzionale, con cui il potere politico, mentre era in pieno svolgimento il concorso pubblico, ha di fatto espropriato al Csm la nomina del capo di un ufficio giudiziario, calpestando il principio costituzionale della separazione dei poteri. Una palese violazione di ogni regola, candidamente e pubblicamente “spiegata” come una ritorsione per il processo Andreotti. Oggi siamo davanti a una stagione inedita di riforme della giustizia. Parto da quella macroscopica del ddl penale: come la giudica, soprattutto con riguardo alla modifica della prescrizione? La riforma Bonafede aveva allineato il nostro sistema a quello degli altri paesi civili, introducendo un blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado dove prima c’erano solo sospensioni temporanee. L’obiettivo era anche cancellare uno scempio costituzionale: la coesistenza di due processi distinti a seconda del censo e dello status sociale degli indagati, diviso tra poveracci processati velocemente e ricchi che possono pagare buoni avvocati e consulenti che possono contare sulla prescrizione. La riforma Bonafede ha provato ad eliminare questo sfregio. Eppure un problema di lunghezza dei processi esiste: è giustizia quella che arriva dopo decine d’anni dai fatti commessi? Senza prescrizione, si rischia il fine processo mai... Non condivido queste accuse catastrofiste, sintetizzabili nella tesi che il blocco della prescrizione creerebbe l’inaccettabile nuova categoria dell’imputato a vita. Un’ipotesi tutta da verificare e quanto meno esagerata perché si basa su un presupposto assurdo: che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessino del tutto di funzionare. La ministra Cartabia è intervenuta introducendo la cosiddetta prescrizione processuale, che genera l’effetto dell’improcedibilità in appello e Cassazione dei processi che hanno superato una certa durata... La riforma Cartabia, pur dichiarando di voler innovare, ha confermato il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, per poi pentirsene e cancellarlo: se l’appello non si conclude entro due anni, tutto il processo va in fumo come avveniva con la prescrizione, che però adesso si chiama “improcedibilità”. Con varchi offerti all’impunità dei colpevoli, mentre l’innocente può perdere ogni opportunità di essere riconosciuto tale e alle vittime non resta che sentirsi dire “abbiamo scherzato”. E con il persistere del nefasto incentivo a tirala per le lunghe. Il paradosso è che di una questione tecnica si è voluto fare un problema soprattutto di scontro politico, come rivela indirettamente - con sincero pragmatismo - la relazione Lattanzi, là dove afferma che “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente” rivedere la Bonafede, posto che i suoi effetti “si produrranno a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti”. E per favore non si dica che lo voleva l’Europa, perché l’erogazione dei fondi è subordinata allo sveltimento del processo al netto della disciplina della prescrizione, per altro promossa dal Greco (Gruppo europeo contro la corruzione) nella versione tanto vituperata dai “garantisti” nostrani. In corso in parlamento c’è la discussione sulla riforma del carcere ostativo, il cosiddetto fine pena mai senza possibilità di miglioramenti della condizione carceraria di alcune categorie di detenuti se non dopo il pentimento, come sollecitato dalla Consulta. Ritiene che l’ammorbidimento del 4bis sia un errore? La Consulta con l’ordinanza n. 97/2021 da un lato ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo, ma nello stesso tempo ha stabilito che la pronunzia non avrà effetti immediati, perché entro un anno il Legislatore dovrà riscrivere la legge. La Consulta per altro spiega il differimento con il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Specificando poi che il legislatore dovrà intervenire tenendo conto “sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Il legislatore, riscrivendo la norma, non potrà non trarne ogni logica e responsabile conseguenza. C’è quindi ancora spazio e speranza perché le picconate contro l’antimafia non lascino solo macerie, sulle quali sarebbero unicamente i mafiosi a ballare. Il 4 bis è nato come strumento emergenziale all’indomani delle stragi del 1992, non è cambiato nulla da allora? La normativa antimafia è costituita da un “pacchetto” organico: legge sui pentiti, 41 bis, 4 bis. Questo “pacchetto” ha funzionato e funziona. Grazie ad esso siamo riusciti ad incrinare il mito dell’invulnerabilità della mafia. A chi dice che l’emergenza è finita e che si deve cambiare, rispondo che mi sembra di leggere Alice nel Paese delle meraviglie. Tanto più in questi tempi di pandemia, con le mafie pronte, con il loro dna di sciacalli e avvoltoi, ad approfittare delle sofferenze e difficoltà economiche purtroppo diffuse. Basta leggere la recentissima relazione della Direzione investigativa antimafia per convincersene oltre ogni dubbio. In parlamento si discute anche di un disegno di legge che recepisce una direttiva Ue sulla presunzione di innocenza, che regola e formalizza le comunicazioni tra la stampa e i magistrati, a garanzia degli imputati. Lo ritiene vessatorio nei confronti dei pm? La penso esattamente come Vladimiro Zagrebelsky, secondo cui lo schema di decreto legislativo su cui le camere esprimeranno un parere obbligatorio contiene “una riforma irragionevole nella sua assolutezza e nella pretesa di limitare le forme di comunicazione… che va oltre la necessità di rispettare la presunzione di innocenza, investendo e limitando tutta la informazione sui procedimenti penali”. Volendo semplificare al limite della banalizzazione, vien da dire che il rattoppo è peggio, ben beggio, del buco! A meno di considerare il diritto di informare e di essere informati non tutelabile come interesse pubblico e costituzionale primario. Dopo il caso Palamara, i veleni alla procura di Milano e il caos al Csm, la magistratura italiana sta implodendo oppure è sotto assedio esterno? Quel che è certo è che giustizia e legalità fanno sempre più fatica ad assolvere ai propri compiti. Le storture sono tante: un processo farraginoso e incomprensibile, con costi e tempi insostenibili; episodi di diritti calpestati e di regole violate proprio da chi dovrebbe farle rispettare; scontri interni alla magistratura; vicende che inducono i media a mostrare la giustizia come un campo di battaglia dove si consumano vendette politiche. E poi il caso Palamara con la sua vischiosa rete di relazioni torbide, che ha spinto la magistratura, già su un piano inclinato, verso una caduta sempre più rovinosa di credibilità e fiducia. Come se ne esce? Occorre che i magistrati scaccino i mercanti dal tempio e nel tempo stesso sono necessarie robuste riforme, sia del Csm che dell’ordinamento giudiziario. Ma riforme vere, non pretesti per ottenere finalmente il risultato di costringere la magistratura, soprattutto i pm, in un angolo: come vogliono da sempre tutti coloro a cui la legalità dà l’orticaria, anche se strillano il contrario. Attenzione, invece, alle pseudo riforme come quella della separazione delle carriere, perché potrebbero nuocere alle persone di cui oggi c’è più bisogno: quelle che non ci stanno a convivere né con la mafia, né con la corruzione. Magistratura onoraria: il governo Draghi recepisca le indicazioni dell’Europa di Cristina Piazza Il Domani, 9 ottobre 2021 Dopo tanto immobilismo, un primo passo tangibile dopo tanti anni è stato formalizzato con la previsione nella legge di bilancio del disegno di legge in materia di riforma della magistratura onoraria. Il 15 luglio scorso, ad un anno meno un giorno di distanza dalla pubblicazione della sentenza UX della CGUE nella causa 658/18 contro il Governo italiano, la Commissione Europea ha comunicato allo Stato italiano la procedura di infrazione in quanto inadempiente, non essendosi adeguato alle prescrizioni previste nella sentenza dei Giudici di Lussemburgo in materia di status del magistrato onorario italiano. La Commissione Europea ha definito il Decreto legislativo 116/2017 (Riforma Orlando) non pienamente conforme al diritto dell’Unione ed ha concesso allo Stato italiano due mesi per adottare le misure necessarie, scaduti il 15 settembre scorso. L’italia rischia di essere deferita dalla Commissione Europea davanti alla Corte di Giustizia. Le contestazioni dalla Commissione europea sono numerose e giungono sul tavolo del governo in un momento assai delicato, considerando quanto c’è in gioco per ottenere i fondi del Recovery e le numerose richieste che la medesima Commissione ha indirizzato allo Stato italiano come condizionalità in materia di giustizia. I magistrati onorari sono stati in questa sede riconosciuti quali lavoratori comparabili ai magistrati professionali, ribadendo quanto previsto nella sentenza UX dalla CGUE. I rappresentanti delle Istituzioni nazionali che si sono avvicendati negli ultimi anni, non hanno saputo dare risposte concrete e in linea con le normative di cui l’Europa si è dotata, sia in termini di direttive e regolamenti sia in termini di principi sanciti dai Trattati firmati dallo Stato Italiano: non hanno saputo maturare una risposta univoca e soddisfacente per armonizzare il diritto interno a quello dell’Unione in materia di status del magistrato onorario, essendo questo nell’ordinamento interno trattato alla stregua di un “volontario”. E’ noto infatti che dalla riforma Orlando del 2016 ad oggi non si è ancora approdati a nulla, poiché tutte le proposte formulate in sede ministeriale e parlamentare erano non conformi al diritto europeo e non offrivano un reale superamento alla figura del magistrato onorario che emergeva dalla stessa: una sorta di doppiolavorista a regime autonomo al tempo stesso assoggettato ad una rigorosa normativa in termini di organizzazione del lavoro all’interno degli Uffici e procedimento disciplinare, con molti doveri e assai pochi diritti. Certo è che il governo Draghi e la sua vocazione europeista, considerando anche la sfida raccolta dall’Italia per gli investimenti del PNRR, aveva restituito fiducia ai magistrati onorari che confidavano in una soluzione rapida ed efficace, sentendosi quali operatori imprescindibili da coinvolgere nelle riforme della Giustizia in Italia, tenuto conto che la categoria ha dimostrato di amministrare il 70 per cento del primo grado di giudizio. Purtroppo la Commissione Castelli, voluta dalla ministra della Giustizia Cartabia per la riforma della magistratura onoraria, nell’intento di superare le inadeguatezze della riforma Orlando, non ha saputo cogliere del tutto le raccomandazioni europee, individuando nel magistrato onorario una figura professionale ancora ibrida e indefinita e rendendo questa volta debole anche la proposta di riforma della giustizia a Bruxelles. Al termine dei lavori si è assistito ad un ennesimo rinvio: con legge 113/2021, di conversione del D.L. n. 80/2021, è stata prorogata al 31.12.2021 l’entrata in vigore definitiva della legge 116/2017, originariamente prevista per il 15.8.2021. Occorre ricordare che in riferimento al PNRR nazionale, l’Italia ha proposto un progetto che interviene in alcune materie strategiche per il rilancio dell’economia italiana. Nell’ambito delle riforme proposte per la giustizia si sono prodotti dei dati relativi alla produttività della magistratura italiana sia in ambito civile che penale, ignorando di specificare l’apporto della magistratura onoraria che produce ben il 70 per cento degli affari del primo grado di giudizio. Senza questo apporto statistico - notevolmente importante sia in termini di produttività che di efficienza - i dati trasmessi a Bruxelles della giustizia in Italia sarebbero stati notevolmente inferiori. Lo Stato Italiano a questo punto dovrà risolvere la questione della magistratura onoraria anche per rafforzare notevolmente il progetto di PNRR della giustizia italiana proposta in Europa, altrimenti si porterà un danno a tutto il progetto poiché fondato su dati che registrano ufficialmente una situazione non reale della magistratura professionale e della magistratura onoraria in Italia la cui esistenza e la cui operosità è stata omessa dallo Stato italiano ed invece ufficializzata e valorizzata dalla sentenza UX e certificata dalla procedura di infrazione. La Consulta della Magistratura Onoraria ha dimostrato che la magistratura onoraria è in linea con la produttività europea per i processi del primo grado di giudizio grazie all’importante rapporto costruito in questi ultimi anni con la Commissione europea e con la commissione PETI del Parlamento Europeo, avendo costantemente fornito a queste Istituzioni la documentazione che ha fotografato la reale situazione della Giustizia in Italia e il cospicuo apporto della magistratura onoraria. Consulta MO auspica che il Governo Draghi possa finalmente recepire gli indirizzi precisi e dettagliati e riconfermati nella procedura di infrazione dall’Unione Europea. A dire il vero un primo passo tangibile dopo tanti anni è stato formalizzato con la previsione nella legge di bilancio del disegno di legge in materia di riforma della magistratura onoraria (la riforma che ci riguarda è stata prevista nel NaDeF pubblicato il 29 settembre scorso). Tale primo effettivo concreto passaggio per uscire dall’invarianza finanziaria posta alla base della riforma Orlando e dei successivi disegni di legge di riforma appare un buon auspicio per una reale soluzione finale della vertenza. Sardegna. Poche detenute ma tanti disagi nelle sezioni femminili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2021 Anche nelle carceri della Sardegna, le donne dietro le sbarre vivono in un profondo disagio, superiore a quello maschile. Tale situazione viene vissuta soprattutto nelle carceri di Sassari e Cagliari. A denunciarlo è Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” prendendo in esame i dati ministeriali e le sollecitazioni delle principali sigle sindacali del personale penitenziario, sottolineando “la scarsa propensione alla commissione di reati in particolare delle donne sarde e la necessità di disporre di strutture alternative al carcere”. A creare sgomento è il numero irrisorio di donne private della libertà e il profondo disagio di alcune di loro. Purtroppo la realtà femminile nelle due Case Circondariali di Sassari e Cagliari è molto complessa per diversi ordini di motivi che richiedono urgenti interventi personalizzati. L’attivista storica dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, osserva: “Appare paradossale che in una regione come la Sardegna dove sono complessivamente ristrette 25 donne su 1985 detenuti, con una percentuale dell’1,2%, la più bassa d’Italia (al secondo posto c’è la Calabria con l’1,85% di presenze femminili dietro le sbarre), possano verificarsi atti così gravi e preoccupanti. In realtà è opportuno sottolineare che, aldilà del numero (9 donne a Bancali e 16 a Uta) sono altri i fattori che rendono particolarmente problematica la vita in cella delle donne”. La Calligaris evidenza soprattutto la distanza dalla famiglia. Molte detenute infatti sono straniere e sentono il peso del distacco dai figli e/ o dalla famiglia. Non le aiuta la scarsa conoscenza della lingua e della cultura locale. “Tante - osserva - faticano a condividere un percorso riabilitativo perché in un ambito così ristretto e con pene detentive “brevi” risulta spesso impossibile poter accedere a corsi professionali o attività che possano condurle a scelte di vita alternative, dopo aver scontato la pena. Le possibilità di accedere al lavoro interno sono limitate e quello esterno è condizionato dal livello professionale. Spesso per fare la scopina nascono tensioni”. Anche la scuola viene vissuta più come un’occasione per uscire dalla cella che come un’opportunità. Talvolta la condizione di perdita della libertà viene considerata un errore indotto dal bisogno della famiglia o dal soddisfacimento di una necessità personale sentendosi quindi vittima della propria dabbenaggine o ingenuità, fino a cadere in depressione. C’è poi il problema del soddisfacimento della sfera affettiva e sessuale che in carcere è svalutato o negato. Sicuramente il covid 19, con le limitazioni imposte ai colloqui con i familiari, ha accentuato il senso di solitudine e abbandono che gioca un ruolo. “È indubbio che la realtà femminile dietro le sbarre è trascurata perché ritenuta poco significativa. Non si può però nascondere che sono necessari interventi personalizzati con individuazione delle problematiche personali e la gestione dell’aggressività verso sé stesse e verso le altre. Un progetto che prevede soluzioni alternative alla detenzione e investimenti culturali e sociali anche per rispettare il difficile lavoro che le Agenti e le Educatrici portano avanti con sempre maggiore difficoltà”, conclude la componente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. Un po’ di dati. In Italia sono recluse 2.264 donne (4,19%) su 53.930 detenuti. Sono presenti in 17 Regioni. Dopo la Sardegna con una percentuale di presenze femminili dell’1,2% (Uta 16 su 557 - 2,8%; Bancali 9 su 386 - 2,33%), il minor numero di detenute si trova nell’ordine in Calabria (1,85%), Marche e Umbria (2,9%), Friuli (3,0%), Toscana (3,1%), Abruzzo (3,28%), Sicilia (3,5%), Piemonte (4,0%), Emilia (4,2%), Liguria (4,3), Trentino (4,5%), Campania e Puglia (4,6%), Lombardia (4,7%), Veneto (5,2%), Lazio (7,0%). Non risultano presenti detenute nelle carceri della Basilicata, Molise e Valle d’Aosta. Milano. Il debutto dello smart working nelle celle del carcere di Bollate di Roberta Rampini Il Giorno, 9 ottobre 2021 Si tratta di un progetto sperimentale che ha ottenuto il finanziamento della Regione. Ridisegna i confini del lavoro in carcere e apre nuove prospettive sull’utilizzo della rete internet dietro le sbarre. Stiamo parlando del progetto di smart working avviato dalla cooperativa sociale “bee.4 altre menti” nel primo reparto della II Casa di reclusione di Milano-Bollate: 64 detenuti coinvolti in attività di formazione, 10 coinvolte con modalità di lavoro smart e 1.500 ore di attività lavorative in cella. Un progetto sperimentale, reso possibile grazie alla Fondazione Vismara e che oggi continua con il contributo di Regione Lombardia. Un progetto pilota che il prossimo 13 ottobre verrà presentato al Salone della CSR e dell’innovazione sociale durante d’incontro “Dalla punizione al recupero. L’impegno delle imprese nel carcere”. Ma anche un primo passo per affrontare il tema dei “digital divide”, gli emarginati digitali e della connettività in carcere. “Quando è iniziata l’emergenza sanitaria da Covid-19 dieci operatori (detenuti) del nostro call center si sono trovati improvvisamente nell’impossibilità di recarsi andare al lavoro, nell’area industriale del carcere - spiega Beatrice Longo, della cooperativa sociale che attualmente occupa 90 detenuti in varie attività - c’era bisogno di dare continuità ai percorsi delle persone, continuare a garantire il lavoro e così da un giorno all’altro abbiamo pensato di sperimentare una soluzione lavorativa impensabile solo fino a pochi mesi fa: lo smart working in cella”. In collaborazione con la direzione dell’istituto è stato definito un un protocollo straordinario di intervento che riconosce ai detenuti impegnati nel lavoro del call center l’accesso a forme di connettività alla rete internet, nel rispetto dei limiti di sicurezza previsti dall’Amministrazione Penitenziaria, sono state attrezzate le celle e il 21 febbraio 2021 è partito il progetto. “La remotizzazione delle postazioni di lavoro in cella rappresenta un’autentica rivoluzione per quelli che sono i canoni dell’universo penitenziario oltre a essere una nuova chiave interpretativa per l’approccio al tema del lavoro in carcere”, commenta Pino Cantatore, direttore della cooperativa sociale bee.4, presente nel carcere bollatese dal 2013. “Lavorare rimando nelle nostre camere detentive è davvero una rivoluzione, è un ambiente che ci appartiene e che conosciamo, ma soprattutto abbiamo continuato la nostra attività”, commenta un detenuto. “Questa esperienza mi ha fatto crescere”, aggiunge un altro detenuto. Torino. “Il Comandante mi chiese di non inviare subito la segnalazione in procura” di Giuseppe Legato La Stampa, 9 ottobre 2021 Botte in carcere, le dichiarazioni dell’ex vicedirettrice. Inseguiti dagli agenti, i detenuti correvano in favore di telecamere per avere delle prove. Ma anche così chi doveva visionare quelle immagini non lo faceva. Se c’è una storia che racconta, purtroppo, meglio di altre i metodi con i quali - secondo la procura - si cercavano di insabbiare o minimizzare le violenze degli agenti contro i detenuti nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, è quella di J.V.C., che nel 2018 si trovava ristretto nel penitenziario nella sezione “Sex Offender”. Gli agenti indagati dal pm Francesco Pelosi per tortura e lesioni credevano che fosse lì perché aveva violentato il figlio. Errore: aveva aggredito la moglie. J.V.C. è una delle vittime della maxi-inchiesta della procura. Ed è una delle pochissime segnalazioni giunte sul tavolo dei magistrati direttamente dall’istituto di pena. Motivo? Fu la scrupolosa ex vicedirettrice della casa circondariale Francesca Daquino, oggi direttrice del carcere di Asti, a inviare la notizia di reato al Palagiustizia. Una pratica per nulla comune a quei tempi dentro l’istituto del capoluogo. Ed è lei stessa a svelarlo al pm durante la sua audizione, come persona informata sui fatti il 25 settembre 2018: “Nell’arco della giornata (in cui dispose l’invio degli atti in procura ndr) - raccontò - sono stata chiamata dal Comandante di reparto, che mi riferiva di aver ricevuto copia della relazione e del mio provvedimento in calce. Lo stesso - aggiunge Daquino - dopo aver visto la mia decisione sull’inoltro alla procura mi diceva di non poter mandare la segnalazione ai magistrati così precisando di voler svolgere alcuni accertamenti. Mi diceva: ho visto la decisione sulla relazione della dottoressa Demuro, le chiedo se vogliamo adottare una soluzione condivisa”. Quale fosse lo spirito collaborativo invocato dal comandante si capisce subito dopo: “Soprassedere sull’inoltro alla Procura della Repubblica oggi e inoltrare tutto dopo aver svolto degli accertamenti sul fatto. Ribadivo - afferma ancora a verbale l’ex vicedirettrice - che l’inoltro doveva avvenire in giornata non condividendo la sua posizione. Avrebbe potuto condurre gli accertamenti, ma sottolineavo che l’inoltro doveva avvenire quello stesso giorno L’esito delle indagini interne avrebbe potuto essere inoltrato alla Procura con un eventuale seguito”. Cosi andò. Seguì la relazione del Comandante “che - si legge agli atti dell’inchiesta - ha poi ricostruito, spiegato e confermato la bontà dell’operato dei suoi collaboratori”. Per lui insomma andava tutto bene. E come lui, nemmeno l’ispettore M. G. (anche lui indagato), coordinatore del blocco C del carcere, si era molto interessato alla vicenda pur conoscendola: “G. - scrivono i carabinieri della procura - dichiarava di aver effettivamente appreso dal detenuto quanto accaduto, ma di non aver ritenuto di informare alcuno”. Per sfuggire alle botte degli agenti. J.V.C. ha raccontato di essersi messo a correre lungo il corridoio in favore di telecamera. Ma G. “non ha ritenuto” nemmeno stavolta “di visionare i filmati sia per difficoltà di tipo tecnico e sia perché la verifica dell’accaduto esulava dalla sua competenza”. Il quadro di misteri si è infittito quando il legale del detenuto, legittimamente, ha eccepito la sussistenza del segreto professionale cosi non rispondendo alle domande del pm procura il 21 settembre 2018. Ci ha pensato il magistrato a ricostruire la vicenda ed oggi è questo uno dei fatti contestati agli indagati. Modena. Il Consiglio comunale chiede l’istituzione del Garante dei detenuti comune.modena.it, 9 ottobre 2021 Approvata mozione che invita il Comune ad attivare un percorso in tal senso. A favore maggioranza e M5s, astenuti Lega Modena e Fratelli d’Italia - Popolo della famiglia Il Consiglio comunale chiede al Comune di Modena di attivare un percorso di verifiche giuridiche ed amministrative, coinvolgendo se necessario anche l’amministrazione di Castelfranco Emilia, per giungere alla istituzione del garante comunale dei diritti delle persone private della libertà. Nella seduta di giovedì 7 ottobre, infatti, l’Assemblea ha approvato la mozione presentata da Pd, Sinistra per Modena, Modena civica ed Europa Verde - Verdi, illustrata dal capogruppo del Pd Antonio Carpentieri, con il voto a favore della maggioranza e del M5s; astenuti Lega Modena e Fratelli d’Italia - Popolo della famiglia. La mozione, che recepisce una petizione popolare sottoscritta da diversi cittadini per l’istituzione del garante comunale, evidenzia la necessità di questa figura con importanti compiti di vigilanza e tutela, ricordando che nel Comune di Modena è presente la Casa circondariale di Sant’Anna e nel Comune di Castelfranco una Casa di reclusione a custodia attenuata. Il documento chiede di attivare un percorso di informazione e partecipazione della cittadinanza, anche coinvolgendo i Quartieri, in merito alla istituzione di tale figura, e si impegna a convocare sul tema, in tempi brevi e comunque entro la fine del 2021, una Commissione consiliare specifica per svolgere una o più audizioni aperte anche ai Quartieri e alle associazioni che operano sui temi della detenzione, al fine di acquisire esperienze e informazioni utili al percorso. Presentando la mozione, il consigliere Carpentieri ha precisato: “Non si tratta di una figura a pagamento ma che necessita che l’ente pubblico gli metta a disposizione gli strumenti minimi per poter operare, ad esempio un ufficio e un computer. Spero che tutti - ha aggiunto - condividano il fatto che sia giusto garantire quello che a volte, magari non per dolo, non può essere sempre assicurato nelle carceri, perché nel nostro ordinamento è presente l’attenzione all’essere umano anche quando è privato della libertà”. Irene Guadagnini (Pd) ha sottolineato “l’importanza che in città hanno associazioni che si occupano delle persone private della libertà. Lo stesso Comune - ha proseguito - per tanti interventi, in particolare politiche culturali, si è impegnato con la convinzione che queste persone debbano mantenere un legame con la comunità e abbiano il diritto di perseguire il reinserimento. Questa mozione nasce da percorsi precedenti, da idee che vedono anche in questo strumento una possibilità per far sì che questa parte della comunità non sia completamente reietta ed esclusa”. Giovanni Silingardi del M5s ha evidenziato la rilevanza della mozione “che si fonda sull’idea di Stato costituzionale che garantisce diritti a tutti e fa sì che vengano rispettati. Il modello carcerario è ancora quello del ‘700 - ha aggiunto - che si fondava su punizione e sorveglianza e non si preoccupava della rieducazione del detenuto. La Costituzione ha invece recepito un’idea completamente diversa: rieducare dove possibile i soggetti che hanno sbagliato e reintrodurli nella società”. Il consigliere ha, infine, evidenziato come sia esercizio della democrazia il fatto che il Consiglio recepisca istanze che provengono dalla cittadinanza. Per Vincenzo Walter Stella di Sinistra per Modena, “l’assenza di una figura come quella del garante è un problema concreto cui bisogna dare risposta al più presto. Si tratta di una figura di particolare utilità, che può agevolare le persone deboli alla partecipazione alla vita civile e garantire loro la libertà personale, e va individuata non solo per i carcerati ma anche per tutti i soggetti deboli, come ad esempio anche le persone ospitate in strutture sociosanitarie”. Il consigliere ha infine evidenziato che, attraverso forme di collaborazioni tra enti, è possibile azzerare o rendere irrisorio l’onere economico che ne potrebbe derivare. Paola Aime di Europa Verde - Verdi si è detta “contenta” di votare “una mozione volta all’istituzione di una figura necessaria, in quanto le persone nelle carceri hanno poche possibilità di essere ascoltate. I diritti dei carcerati sono strettamente collegati alla specifica situazione nel carcere e spesso il sovraffollamento fa venire meno quanto sulla carta è previsto; c’è quindi bisogno di una protezione, di un ascolto e di una figura in più. Io non dimentico e non posso dimenticare - ha concluso la consigliera - le morti che ci sono state nella rivolta carceraria lo scorso anno”. Bergamo. “Troppi malati psichiatrici in carcere, situazione al limite” di Paolo Aresi primabergamo.it, 9 ottobre 2021 Un detenuto su cinque è affetto da forte disagio psichico, poi ci sono gli psichiatrici veri e propri. Un agente controlla sessanta reclusi. È stata una stagione non facile per il carcere di Bergamo, che è finito sui giornali come uno dei cinque istituti più affollati d’Italia, per il suicidio di due detenuti e per l’aggressione di un altro contro cinque agenti di custodia che hanno riportato contusioni e leggere ferite. Abbiamo incontrato il comandante della Polizia penitenziaria della Casa circondariale di via Gleno, Aldo Scalzo, dirigente aggiunto, arrivato a Bergamo dal gennaio 2020, proprio alla vigilia della pandemia. A che punto è la situazione nel carcere? “Migliorata rispetto all’estate perché c’è stato un ridimensionamento, da 532 siamo passati a cinquecento detenuti”. Ma quanti dovrebbero essere gli ospiti, in teoria? “In teoria dovrebbero essere 315”. E gli agenti di custodia? “Dovremmo essere 243, invece siamo 205. Può sembrare un numero alto, ma non è così. Bisogna pensare che gli agenti vanno divisi su tre turni, ogni giorno e che poi bisogna coprire anche i congedi, cioè le ferie. E che bisogna controllare diversi ambiti: il passeggio, le sezioni, i luoghi del lavoro. I detenuti sono divisi in tre padiglioni, quello circondariale, quello penale e il femminile. E poi esiste il circuito protetti. Aggiungiamo le incombenze degli uffici. Secondo uno studio fatto al dipartimento nazionale, il carcere di Bergamo dovrebbe avere trecento agenti. Insomma, siamo di molto sotto organico, ma non è una novità. Un agente deve controllare sessanta detenuti”. Caspita... “Sì, è un numero elevato. Consideriamo che lavoriamo sei giorni su sette”. Ci spiega che cosa sono i padiglioni? “Il padiglione circondariale ospita i detenuti in attesa di giudizio, c’è un ricambio continuo e costituisce la più grande parte del carcere. Poi c’è il penale con centodieci posti circa, sono detenuti che stanno scontando a Bergamo la pena. Con queste persone si riescono a sviluppare le attività di recupero più importanti perché sono destinati a fermarsi qui per un tempo lungo, stabilmente. Nel femminile abbiamo trenta ospiti. E il circuito protetti è invece quella parte di carcere dove stanno soggetti che hanno commesso reati che la popolazione carceraria non sopporta, soggetti che rischierebbero molto restando insieme agli altri”. Quali reati? “Delitti che hanno a che fare con la violenza sessuale, ma anche la violenza contro bambini e genitori, per esempio. La popolazione carceraria è molto sensibile su questo tema. Attualmente abbiamo diciotto detenuti protetti e anche per loro sono necessari degli agenti dedicati, ventiquattro ore al giorno”. Negli ultimi mesi ci sono stati due suicidi, avete avuto l’emergenza Covid, di recente si è verificata una brutta aggressione contro gli agenti. “È stato un periodo difficile. Fra i problemi scottanti, oltre al sovraffollamento, abbiamo la presenza di numerosi detenuti con disagio psichico e altri con problemi psichiatrici veri e propri. Tanto per dire, e può far ridere, abbiamo un detenuto che anziché parlare fa “miao miao”. Ma la presenza di detenuti con malattie mentali importanti crea tensioni e difficoltà a tutti”. Perché una situazione del genere? “Prima c’erano gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma sono stati chiusi e sono state create le Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Soltanto che le Rems non accolgono tutti gli ospiti degli ospedali psichiatrici giudiziari e quindi diversi malati sono stati inseriti nelle carceri normali. È una situazione pericolosa. Il carcere è un luogo delicato, un luogo di umanità profonda, ferita, fragile, anche violenta. Bisogna averne molta cura” Palermo. “Tratti sensoriali”, l’installazione di Piriongo ispirata alle lettere dei detenuti blogsicilia.it, 9 ottobre 2021 “Tratti sensoriali”, è il nome di una installazione interattiva alla quale si potrà assistere a Palermo. Il 9 e 10 ottobre allo Spazio Marceau dei Cantieri Culturali alla Zisa. Le illustrazioni di Piriongo ispirate alle lettere ricevute dai detenuti del carcere Pagliarelli Lo Russo durante il lockdown. Un percorso immersivo tra opere d’arte, parole, suoni. Una installazione sensoriale per dare nuova forma al progetto nato durante lo scambio epistolare con gli attori della Casa Circondariale Pagliarelli Lo Russo di Palermo durante il lockdown, in attesa di ricominciare l’attività teatrale in presenza. Un flusso incessante, che prima ha dato vita a intime tavole di appunti multimediali, chiamate “Creatura”, e che oggi si è trasformato in un viaggio suggestivo aperto al pubblico. Una commistione di diverse forme d’arte per stimolare riflessioni e tracciare nuovi inizi. Protagoniste dell’installazione sensoriale le brillanti illustrazioni pittoriche dell’artista Piergiorgio Leonforte aka Piriongo tratte dalla collezione “Segnali Positivi”, ispiratasi alle numerose lettere ricevute durante le incessanti corrispondenze. Opere surreali e oniriche, propongono provocazioni emotive e intellettuali su aspetti inediti della realtà. Un’impronta decisamente Pop-Art che trova un legame con l’arte di Andy Warhol, Keith Haring, Basquiat, così come lo stesso artista afferma: “Il mio ruolo nel progetto Per Aspera ad Astra è stato quello di tradurre in immagini le parole delle lettere degli attori della Compagnia Evasioni, che arrivavano in risposta durante gli scambi nel lockdown. Ho provato a trasformarle in tavole illustrate e a riportarle nel mio mondo e nel mio stile, realizzando scene surreali e composizioni. Unendo così le finalità e l’atmosfera del progetto alla mia espressione artistica”. Nella giornata del 9 ottobre, alle ore 18.00, la regista Daniela Mangiacavallo, fondatrice della Compagnia teatrale Evasioni nel carcere Pagliarelli Lo Russo, presenterà il progetto “Creatura” con la partecipazione dei suoi attori e dei suoi collaboratori presso Greenlab - Spazio Mediterraneo. Dalle ore 19.30 alle ore 22.00 si potrà partecipare attivamente all’installazione sensoriale presso Spazio Marceau, mentre il 10 ottobre dalle ore 17.00 alle 22.00. La durata dell’installazione è di 20 minuti e l’accesso è contingentato, per cui si chiede una prenotazione sul sito www.baccanica.it. Info: 3662150293 - 3282076925 (Associazione Baccanica). L’evento è inserito all’interno del Progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, che vede in rete dodici compagnie teatrali italiane che operano negli Istituti penitenziari, tra cui la Compagnia della Fortezza, che ne è partner capofila. Dalla vicenda di Rocco Barnabei alla ricerca di capri espiatori di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 9 ottobre 2021 Il libro “Un giorno lo dirò al mondo”, di Alessandro Milan, ripropone il tema della pena di morte. Scrivere un libro contro la pena di morte negli anni 20 del 2000 può sembrare, in Italia, un’operazione fine a sé stessa. Tuttavia, per convincersi del contrario è sufficiente riprendere i dati del 54° Rapporto Censis (2020) sulla situazione sociale del Paese. Secondo i ricercatori dell’istituto, infatti, quasi la metà degli italiani (precisamente il 43%) è favorevole alla reintroduzione della pena capitale: un dato preoccupante. Se è vero, infatti, che il “nucleo duro” della Costituzione contiene principi che la dottrina ritiene non riformabili, tra cui il divieto della pena di morte, è altrettanto vero che per evitare un violento rigetto delle garanzie costituzionali da parte della comunità, è necessario che esse non vivano solo sulla carta. Il rischio, in tal senso, è che “la legge delle leggi” possa essere percepita come un elemento trapiantato artificialmente in un ambiente impermeabile e inospitale, producendo una pericolosa distanza tra le fondamenta del nostro vivere civile e la società. Proprio per questo, “Un giorno lo dirò al mondo” (Mondadori, 2021) di Alessandro Milan, giornalista di Radio24, è, prima di tutto, un libro da far leggere a coloro che non si sono ancora convinti dell’atrocità e dell’inutilità di quello che Dostoevskij definì “assassinio legale”, un omicidio ritenuto dallo scrittore russo “incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco”, in quanto “chi è assalito dai briganti spera di potersi salvare fino all’ultimo momento”, mentre “quest’ultima speranza, con la quale è dieci volte più facile morire, viene tolta con certezza dalla condanna a morte”. Milan affronta il tema occupandosi di una vicenda che lo ha riguardato direttamente dal punto di vista professionale: l’esecuzione di Dereck Rocco Barnabei, giustiziato tramite iniezione letale dallo Stato della Virginia il 14 settembre del 2000, dopo sette anni di detenzione. L’autore all’epoca ha seguito in veste di cronista il calvario di Dereck e, dopo vent’anni, ha deciso di raccontarlo servendosi di una ricostruzione a metà strada tra la controinchiesta e il diario, dando vita ad una narrazione nella quale convivono una precisa ricostruzione giudiziaria, frutto di uno studio dettagliato dell’inchiesta e del processo, e le tante emozioni, spesso tra loro contrastanti, di un giovane giornalista alle prese con un caso che lo ha segnato per sempre. Scorrendo le pagine emergono tutti i mali che affliggono la giustizia penale americana, ma anche diverse tendenze patologiche cui assistiamo in modo simile in Italia, in primis quella della gogna mediatica, fenomeno cui si abbevera una comunità sempre più assetata di vendetta e alla continua ricerca di un capro espiatorio. Non a caso, leggendo “Un giorno lo dirò al mondo” torna alla mente “Crainquebille”, romanzo in cui Anatole France ha descritto con grande efficacia “il gusto che tutte le folle provano per gli spettacoli ignobili e violenti”, così come emerge quell’ossessione punitiva che Didier Fassin, riferendosi ai giorni nostri, ha definito addirittura “una passione contemporanea”. Ad ogni modo, sembra che un cerchio, almeno a Norfolk, si sia chiuso. Di recente, infatti, a poco più di un mese dall’uscita del libro, la Virginia ha abolito la pena capitale. Dopo essersi tristemente guadagnato sul campo il record di esecuzioni negli Usa lo Stato del Sud ha finalmente preso la decisione cui il Granducato di Toscana giunse nel lontano 1786. E Dereck ne sarebbe sicuramente felice, perché nel death row, a pochi giorni dalla fine, se ha deciso di continuare a dialogare con Alessandro Milan, che lo ha più volte intervistato, non lo ha fatto soltanto per reclamare la sua innocenza, ma anche e soprattutto per raccontare al mondo la barbarie e l’orrore dell’”assassinio legale”. *Presidente Associazione Extrema Ratio Maria Ressa e Dmitry Muratov hanno vinto il Nobel per la Pace 2021 di Irene Soave Corriere della Sera, 9 ottobre 2021 Maria Ressa e Dmitry Muratov hanno vinto il premio Nobel per la Pace 2021. L’annuncio è stato fatto oggi, venerdì 8 ottobre, a Oslo, dalla presidente della Comitato per il Nobel norvegese, Berit Reiss-Andersen. Le candidature, quest’anno, erano oltre 300. I due hanno ricevuto questo riconoscimento per il loro impegno nel “salvaguardare la libertà di parola, una condizione fondamentale per la democrazia e la pace”. Lo scrive il Comitato sul suo account Twitter. Dmitry Muratov è caporedattore del giornale d’inchiesta russo Novaya Gazeta, la testata per la quale scriveva la giornalista russa Anna Politkovskaya uccisa nel 2006. Maria Ressa, cittadina filippina naturalizzata statunitense, è la cofondatrice del sito di notizie Rappler, noto per le sue inchieste sull’operato del governo del presidente Rodrigo Duterte soprattutto in relazione alla cosiddetta “guerra alla droga”. Joe Biden si è congratulato con i due giornalisti per il “meritato” premio Nobel per la Pace e per aver, “come molti reporter nel mondo, perseguito i fatti instancabilmente e senza paura”. “Per il loro impegno verso i principi base della libera stampa - indispensabili in una democrazia sana - hanno subito costanti minacce, molestie, intimidazioni, azioni legali e, nel caso di Muratov, la morte dei colleghi”, ricorda il presidente Usa definendo i due, e i giornalisti come loro, “la prima linea della battaglia globale per la vera idea della verità”. Ressa e Muratov “hanno lavorato per controllare l’abuso del potere, denunciare la corruzione, chiedere trasparenza. Sono stati tenaci nel trovare media indipendenti e nel difenderli contro le forze che cercando di silenziarli”, sottolinea Biden, che si dice “grato per il loro lavoro rivoluzionario per ‘tenere la linea’, come spesso dice Ressa”. Il presidente americano plaude anche alla commissione Nobel per “aver portato una più grande attenzione alla crescente pressione sui giornalisti, la libera stampa, la libertà di espressione in tutto il mondo”. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov si è congratulato pubblicamente con Dmitry Muratov, vincitore del Premio Nobel per la Pace, lodandone il “coraggio” e il “talento”. “Possiamo congratularci con Dmitry Muratov, ha costantemente lavorato in accordo con i suoi ideali, ha aderito ad essi, è talentuoso e coraggioso. È un apprezzamento di alto livello, ci congratuliamo con lui”. Questo nonostante la Novaya Gazeta, di cui Muratov è caporedattore, porti avanti da molti anni inchieste sull’operato del governo, e che tra le sue firme annoverasse anche la giornalista dissidente Anna Politkovskaja, autrice de La Russia di Putin e uccisa nel 2006. Lo scorso anno il premio era andato al World Food Programme per gli sforzi compiuti nella lotta contro la fame nel mondo. Nei giorni scorsi erano stati assegnati i premi Nobel per la Medicina (a David Julius and Ardem Patapoutian, per le scoperte sui recettori per la temperatura e il tatto), per la Fisica (a Giorgio Parisi e a Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann), per la Chimica (a Benjamin List e David MacMillan, “ingegneri delle molecole”) e per la Letteratura (ad Abdulrazak Gurnah). Il premio Nobel per la Pace è l’unico assegnato in Norvegia, e non in Svezia, ed è anche l’unico che può essere assegnato a organizzazioni e non solo a singoli individui. Maria Ressa e Dmitry Muratov hanno meritato il premio “per la loro coraggiosa lotta per la libertà di espressione nelle Filippine e in Russia”, ha detto la presidente del Comitato Berit Reiss-Andersen. “Allo stesso tempo, rappresentano tutti i giornalisti che si impegnano per questo ideale in un mondo che pone condizioni sempre più avverse alla democrazia e alla libertà di stampa”. Era dal 1935 che un giornalista non vinceva il Premio: allora andò al tedesco Carl von Ossietzky, che aveva svelato il piano segreto per il riarmo della Germania. “Un giornalismo libero, indipendente e basato sui fatti protegge contro l’abuso di potere, le bugie, la propaganda”. Il Nobel per la Pace sarà ritirato il 10 dicembre, nell’anniversario della morte dell’industriale svedese Alfred Nobel che lo aveva fondato nel suo testamento, nel 1895. Eutanasia legale, oltre un milione di firme depositate in Cassazione di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 ottobre 2021 Campagna record per il primo referendum al mondo con adesioni raccolte anche via web. Se il quesito sarà giudicato ammissibile, si andrà alle urne in primavera venerdì 8 ottobre 2021. Il referendum sull’eutanasia legale promosso dall’Associazione Luca Coscioni taglia il primo traguardo con un numero record: sono oltre un milione e duecentomila le firme raccolte in tre mesi. Le ha depositate questa mattina in Corte di Cassazione la stessa Associazione insieme al Comitato promotore, alla presenza, tra gli altri, di Mina Welby e Marco Gentili, Filomena Gallo e Marco Cappato - nell’ordine, co-presidenti, segretario e tesoriere della Luca Coscioni. Presenti alla manifestazione davanti alla Suprema Corte anche i coordinatori del Comitato e i volontari giunti da tutta Italia, a cui si sono uniti alcuni “volti” simbolo di questo referendum, come Laura Santi, attivista malata di sclerosi multipla, Marco Gentili, malato di SLA, assoluto protagonista della campagna grazie all’azione politica nonviolenta a favore della firma digitale, e Valeria Imbrogno, compagna di Dj Fabo. La campagna referendaria, fa sapere l’Associazione, ha registrato una “mobilitazione popolare straordinaria”. Due terzi delle firme sono state raccolte fisicamente su carta in tutte le province italiane, grazie a una rete capillare di 13mila volontari. Ma questo è anche il primo referendum al mondo “con valore legalmente vincolante ad essere proposto anche online”, e quindi a beneficiare della firma digitale con 387.921 sottoscrizioni arrivate via web. Un traguardo storico al quale si è giunti, dopo una lunga battaglia politico-giudiziaria, con la recente approvazione in Parlamento di un emendamento al dl Semplificazioni a prima firma Riccardo Magi, deputato di +Europa. In attesa della piattaforma governativa che sarà pronta da gennaio 2022, l’Associazione Luca Coscioni ha messo a disposizione la propria che permette di apporre la firma tramite identità digitale (Spid) e carta d’identità elettronica (Cie). “Non ci sono arrivati i partiti ci può arrivare il popolo - commenta soddisfatto Marco Cappato -. Gli italiani chiedono che finalmente si possa decidere di non dover più imporre, contro la volontà del malato, la sofferenza come una tortura insopportabile. Poter decidere tra l’eutanasia clandestina che c’è già in Italia e quella legale, fatta di regole, responsabilità, conoscenza, ovviamente assistenza, per chi vuole vivere, e rispetto della decisione chi non lo vuole più”. Il quesito - che propone di abrogare parzialmente l’articolo 579 del codice penale che punisce l’omicidio del consenziente - passerà ora al vaglio della Cassazione. Se la Corte lo riterrà valido, la parola passerà alla Consulta che ne giudicherà l’ammissibilità. Dopo l’eventuale approvazione dei giudici costituzionali, i cittadini saranno chiamati al voto in primavera, tra il 15 aprile e il 15 giugno 2022. Il deposito delle firme arriva dopo due anni dall’invito (inevaso) della Corte Costituzionale al Parlamento per una legge sul suicidio assistito. È del 2019 infatti la sentenza sul caso Cappato-Dj Fabo, con la quale la Consulta aveva dichiarato non punibile chi aiuta qualcuno a togliersi la vita a patto che siano rispettate alcune precise condizioni. Recentemente l’eutanasia è stata completamente depenalizzata in Spagna, che segue l’esempio di Belgio, Olanda e Canada. Mentre in Italia l’iniziativa referendaria torna ad aprire il dibattito sul fine vita, con il presidente della Conferenza episcopale Gualtiero Bassetti che tuona: “Suscita una grave inquietudine la prospettiva di un referendum per depenalizzare l’omicidio del consenziente”. “Nessuna compassione nell’aiuto a morire”, chiosa il cardinale, secondo il quale “non dobbiamo cedere di fronte a questa cultura dello scarto ma opporre invece una cultura della vita”. Eutanasia, effetto social sul referendum di Filomena Gallo e Marco Cappato Il Dubbio, 9 ottobre 2021 Sono passati quattro mesi dall’inizio della campagna per il referendum sull’eutanasia legale, promosso dall’Associazione Luca Coscioni, e ieri abbiamo completato il primo passo, con il deposito ufficiale in Cassazione di oltre un milione e duecentomila firme. Ne dovevamo raccogliere 500 mila. Molti non ci credevano e ci hanno presi per pazzi: 500 mila firme in piena emergenza sanitaria erano impossibili da raggiungere e… “le priorità sono altre”. Ieri ne abbiamo consegnate più del doppio. Sono numeri mai visti prima che dicono qualcosa di importante sullo stato della democrazia italiana e ci permettono di raccontare una storia diversa da quella che qualcuno si augurava. Non è vero che “della politica non gliene frega niente a nessuno”: certo, interessano poco le vicende dei partiti, ma questioni concrete dalle quali dipende la qualità della vita delle persone possono ancora appassionare, anche i giovani. Chi riteneva che le nuove generazioni fossero lontane da un tema come il fine vita, si sbagliava: il fine vita non riguarda solo le persone che lo vivono in prima persona, ma è parte della vita di chiunque si trovi ad accudire una mamma, un nonno o un amico. Abbiamo avuto la dimostrazione che le libertà e i diritti civili sono più avanti del ceto politico: il diritto a non dover subire una sofferenza contro la propria volontà fa parte del vissuto delle persone. Purtroppo però la politica dei partiti ancora non se n’è resa conto e il referendum potrebbe avere anche l’effetto di aiutarla a tornare in contatto con le esigenze della società. Non è vero, poi, che la democrazia significhi “lasciar fare ai competenti”: dopo anni di ubriacatura populista, col governo Draghi la priorità è gestire la pandemia e i soldi europei, facendo decidere a chi ne è capace. Poi però ci sono anche questioni di libertà individuale, di diritti civili e di partecipazione democratica, che non possono sempre passare in secondo piano. Abbiamo imparato che la rivoluzione tecnologica può essere al servizio della democrazia: l’Italia è il primo Paese al mondo dove si possono sottoscrivere online referendum con valore legale vincolante. Quello sull’eutanasia legale passerà alla storia come il primo referendum possibile anche “online”, grazie alla lunga campagna condotta da Mario Staderini e all’azione del co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Gentili, tradotta nell’emendamento di Riccardo Magi approvato dal Parlamento. Anche i social media si sono rivelati alleati della partecipazione democratica: senza di loro non sarebbero stati possibili i 13.000 volontari, che hanno dedicato la loro estate a questa impresa di libertà, organizzando banchetti e raccogliendo firme anche al mare o in montagna, nel silenzio delle televisioni e dei grandi partiti. Ed ecco che dopo 37 anni dal deposito della prima legge sull’eutanasia legale a firma Loris Fortuna, proprio ai grandi partiti potrebbe forse venire il sospetto di aver perso troppo tempo, e che sia il caso di affiancare alla politica di alleanze-scissioni-coalizioni-elezioni anche quella di obiettivi+partecipazione, usando la tecnologia non solo per mobilitare i propri fan, ma per includere un più ampio numero di persone nel processo democratico. Non ci contiamo, ma ci speriamo. Perché i referendum non sono contro la politica, e nemmeno contro i partiti. Sono lo strumento creato dalle madri e dai padri costituenti per aiutare le istituzioni a restare connessi ai cambiamenti sociali anche quando il manovratore era distratto. “In uno stato laico sacrosanto il diritto al fine vita, ma serve subito una legge” di Liana Milella La Repubblica, 9 ottobre 2021 Parla l’ex procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi:.”Dal forte sostegno al referendum arriva un messaggio preciso al Parlamento. Non è più tempo di contrapposizioni ideologiche, altrimenti saranno ancora i giudici a decidere. In processi angosciosi e incerti”. “L’Italia è uno stato laico. Il che implica il massimo rispetto per le convinzioni dei cattolici, per i quali la vita è un dono indisponibile, ma anche la capacità dello Stato, ove vi sia una maggioranza in Parlamento, di procedere per la sua strada, disciplinando l’eutanasia legale. Che non imporrà nulla ai credenti, ma consentirà a ciascuno la decisione di porre fine a una vita ridotta a intollerabile, e spesso mortificante, sopravvivenza”. Dice così Nello Rossi, ex procuratore aggiunto di Roma che ha chiuso la carriera da avvocato generale in Cassazione, e oggi direttore di Questione Giustizia, la rivista online di Magistratura democratica, che più volte in questi mesi ha affrontato il nodo dell’eutanasia. In Cassazione, da ieri, ci sono 1.239.423 firme per chiedere il diritto all’eutanasia. Da magistrato le ritiene tante o poche? “Un sostegno così forte all’iniziativa referendaria trasmette un messaggio preciso. Moltissimi cittadini ritengono che i tempi sono maturi per il riconoscimento della libertà di ciascuno di porre fine alla propria vita in modo dignitoso e senza patire sofferenze ulteriori rispetto a quelle, divenute intollerabili, derivanti da malattie incurabili o da trattamenti artificiali di mera sopravvivenza. Il che significa abbandonare l’idea della indisponibilità della vita e far entrare nel catalogo dei diritti individuali quello di decidere di sé sino all’ultimo atto dell’esistenza”. Ammetterà che tante firme rappresentano sicuramente una forte messa in mora del Parlamento dopo la sentenza della Consulta sul caso Cappato che risale addirittura al 27 novembre del 2019... “È un fatto che, sino ad ora, le questioni di vita e di morte poste da tante situazioni estreme e drammatiche sono state affrontate e decise - a mio avviso con misura e saggezza - nei tribunali, dai giudici comuni e dal giudice costituzionale. Ma ciò ha comportato che a vicende umane tragiche si sia aggiunto il calvario, spesso inevitabile, di processi penali dall’esito incerto fino alla fine. È venuto il momento che la Repubblica offra in questo campo certezze e concreta assistenza”. Queste firme, con i casi di cronaca che si accavallano - da Dj Fabo, a Daniela, a Mario, a Laura, ad Antonio, solo per citare quelli seguiti dall’Associazione Luca Coscioni - non dimostrano che ancora una volta le Camere sono spaventosamente in ritardo rispetto alle richieste degli italiani? “Non vedo un legislatore inerte. Registro, piuttosto, un prolungato stallo del Parlamento. Eppure la Corte costituzionale, con le sue pronunce, ha indicato un percorso ragionevole sul tema del fine vita. Mi chiedo allora: perché non imboccarlo con decisione ed insistere su contrapposizioni ideologiche che finiscono con l’essere e con l’apparire crudeli a fronte delle cronache angosciose di cui lei parla?”. Che previsioni fa sull’esito del referendum? La Consulta lo riterrà ammissibile? “Sarebbe arduo fare previsioni ed è un compito che non mi compete. Ma è certo che, qualunque sarà la soluzione adottata, si tratterà di una delle decisioni più difficili che la Corte abbia mai dovuto prendere”. Cerchiamo di capire perché decidere sarà così difficile. Ipotizziamo che ci possa essere un via libera della Corte. E che, a seguire, gli italiani votino facendo superare al referendum il quorum necessario. Guardiamo il testo che uscirebbe in caso di vittoria. Che propone di abrogare la parte dell’articolo 579 del codice penale che oggi punisce con una pena molto alta - da 6 a 15 anni - “l’omicidio del consenziente”. Questo nuovo testo sarebbe applicabile e accettabile? “Questo è un punto sul quale occorre essere fino in fondo chiari. Leggendo il quesito referendario e valutando la cosiddetta normativa di risulta - cioè la norma che scaturirebbe dalla parziale abrogazione dell’articolo 579 del codice, che oggi punisce l’omicidio del consenziente - si constata che la vittoria del “si” avrebbe un unico effetto: cancellare la sanzione penale per chiunque (familiare, amico, medico, altro “incaricato”) sopprima, con il suo consenso, una persona maggiorenne, sana di mente, libera e consapevole nella sua volontà di morire”. Sta dicendo che, con un testo come questo, ci sarebbe chi potrebbe approfittarne? “Dico che la pura e semplice “depenalizzazione” dell’omicidio del consenziente, nei termini di cui ho detto, si porrebbe su di un piano completamente diverso da quello dell’eutanasia attiva volontaria esistente in altri Paesi. Nei quali l’eutanasia è ammessa in situazioni patologiche gravissime, accompagnata da regole certe sulla prestazione del consenso e sulla sua revocabilità sino all’ultimo momento, affidata a medici che sono legittimati a praticarla dopo aver acquisito il parere di organismi etici ed attuata in forme rispettose della dignità umana, avendo cura di non provocare ulteriori sofferenze. Aggiungo che estendere all’omicidio del consenziente le regole del “consenso informato” per i trattamenti terapeutici non sarebbe né facile né scontato”. Ha letto cosa ha detto il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, proprio ieri davanti a una platea di medici? Dice che “suscita una grave inquietudine la prospettiva di un referendum per depenalizzare l’omicidio del consenziente”. E aggiunge che “non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire, ma il prevalere di una concezione antropologica e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali”... “Il nostro è uno Stato laico: ha dovuto ricordarlo di recente il presidente del Consiglio in carica, intervenendo nelle discussioni suscitate dal ddl Zan contro l’omofobia. Il che implica il massimo rispetto per le convinzioni dei cattolici, per i quali la vita è un dono indisponibile, ma anche la capacità dello Stato, ove vi sia una maggioranza in Parlamento, di procedere per la sua strada, disciplinando l’eutanasia legale. Che non imporrà nulla ai credenti, ma consentirà a ciascuno la decisione di porre fine ad una vita ridotta a intollerabile, e spesso mortificante, sopravvivenza”. Scusi, ma lei oggi non vede quali sono le difficoltà in cui si imbatte chi, tetraplegico e ridotto a una vita che non si può definire una vita, vuole morire e cerca di ottenere l’autorizzazione al suicidio? Rispetto alla sentenza della Consulta si accavallano le difficoltà, gli ostacoli, ma soprattutto lo scaricabarile di chi, come le Asl, dovrebbe fornire risposte. E allora non è il momento di intervenire? “Seguo anch’io, con dolorosa partecipazione, le storie di disperazione riportate dalla stampa. Purtroppo esse sono figlie della mancanza di una normativa chiara che obblighi le istituzioni a rispondere tempestivamente ad una richiesta di morte medicalmente assistita. Il testo base di una vera e necessaria legge sull’eutanasia, oggi all’esame delle commissioni della Camera, prevede l’intervento di un medico e una procedura di decisione ragionevolmente rapida e garantita. La chiave di soluzione del problema è lì”. Lei è un laico e sostiene di essere a favore dell’eutanasia. Non ritiene che troppi ostacoli normativi - come il moltiplicarsi delle autorizzazioni - di fatto la rendano impossibile? “In questo campo le garanzie legali sono assolutamente indispensabili per scongiurare abusi e rischi di una nuova eugenetica a danno di anziani o deboli. Ma esse possono coniugarsi con una procedura ragionevolmente rapida. Su questo aspetto il referendum non dice e non può dire nulla. Perciò, di fronte ad esso, anche chi è favorevole all’eutanasia rischia di trovarsi interiormente diviso. Tra il “desiderio politico” che l’eutanasia sia introdotta anche in Italia e la “razionalità giuridica” che gli ricorda che la soluzione referendaria genererebbe gravi problemi e, con ogni probabilità, darebbe vita a nuovi, angosciosi processi penali”. Quindi lei pensa che, comunque, una legge serva ugualmente? E al Parlamento direbbe che va fatta prima del referendum in modo da evitarlo? “Non c’è dubbio che sia così. Il Parlamento deve uscire dal pantano, approvare rapidamente il testo già ampiamente discusso, sciogliendo gli ultimi nodi ancora da dipanare”. La Consulta, sul caso Cappato, aveva posto quattro condizioni, ammettendo l’aiuto al suicidio per “una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Non sarebbe sufficiente attenersi a tutto questo, che è già molto impegnativo e oggi non viene rispettato, per fare una legge? “Nulla può sostituire una legge e le certezze che può offrire sui tempi e sulla procedura da seguire per rispondere ad una persona che abbia indiscutibili ragioni per scegliere di por fine alla sua vita con dignità e senza sofferenza. C’è però un punto essenziale da chiarire: il concetto di “trattamento di sostegno vitale” che legittima la richiesta dell’eutanasia - di cui parlano il giudice costituzionale e il testo all’esame della Camera - non può essere rappresentato solo da nutrizione, idratazione e respirazione artificiale. Deve essere esteso a cure, ad es. quelle chemioterapiche, che tengano in vita una persona solo a prezzo di gravi sofferenze. La richiesta di eutanasia dovrebbe essere ammessa anche in questi casi. Come qualche tribunale ha già detto in maniera argomentata e condivisibile”. Riccardo Magi: sì, ho fatto una cosa stupefacente di Carmine Saviano La Repubblica, 9 ottobre 2021 Grazie a lui oggi si può usare lo Spid per chiedere un referendum. Una piccola rivoluzione. Intervista all’ex radicale: “Le canne? Solo nel tempo libero. E ne ho molto poco”. Non chiamatelo Mr. Referendum. “Perché la lotta per la cannabis legale parte da lontano e coinvolge partiti, associazioni e migliaia di persone che lavorano anche più di me”. Riccardo Magi, 45 anni, deputato, radicale nell’anima e presidente di +Europa, ha appena interrotto il suo sciopero della fame: il governo Draghi ha prorogato fino al 30 ottobre il termine per depositare in Cassazione le firme per una consultazione che passerà comunque alla storia. La prima per la quale si è utilizzata la firma digitale. Un’innovazione merito di Magi. Grazie a un suo emendamento, lo scorso 20 luglio 2021, d’ora in poi sarà possibile firmare anche online. “Adesso al lavoro: perché oltre alle firme bisogna depositare anche i certificati elettorali” dice. “Nonostante l’obbligo per i Comuni di farlo entro 48 ore dalla richiesta, ad oggi ne abbiamo ricevuti solo 200 mila su 600 mila richiesti”. Ha visto che la Lega si è astenuta sulla proroga? “Un atteggiamento stupefacente e lo dico senza sarcasmo: avevano chiesto la stessa cosa per il loro referendum sulla Giustizia. Incredibile”. Del vostro referendum dicono: “In piena crisi economica questi pensano alle canne. Le esigenze degli italiani sono altre”... “Sì, è l’argomento Salvini-Gasparri. Inviterei un po’ più alla prudenza chi crede di conoscere le priorità dei cittadini. Parlano i numeri: il referendum ha raccolto 100 mila firme al giorno. La metà delle quali dai giovani sotto i 25 anni. Questo per dire che le priorità sono tante e articolate”. Altro esempio: “Non basta una firma online ma serve un dibattito approfondito”... “Con lo Spid iscrivo i miei figli a scuola, dialogo con la pubblica amministrazione, risolvo questioni giudiziarie e fiscali e non posso firmare per un referendum? Io la capisco la nostalgia per il banchetto, ma la vera cosa dannosa è una classe politica sorda all’iniziativa popolare. Negli ultimi dieci anni sono stati portati in Parlamento progetti di legge partiti dal basso sullo ius soli, sull’eutanasia, sul superamento della Bossi-Fini, sulla cannabis. Lo sa quanti di questi progetti sono stati almeno discussi in aula? Nessuno. Zero”. Continuiamo con le critiche: “Ci sarà una pioggia di referendum”... “Neanche le leggi conoscono? In Italia, quando questa finestra sarà chiusa, si potranno presentare altri referendum solo nel 2024. Perché non si può farlo l’anno prima dello scioglimento delle Camere e quindi per tutto il 2022. E non si possono presentare referendum nei sei mesi successivi alle elezioni. Quindi se ne riparla tra tre anni”. L’ultima, promesso: “Ci siamo arresi al modello Rousseau”... “Ma quella è una piattaforma privata dove si fanno dei dibattiti interni a un partito. Qui parliamo dell’uso del digitale al servizio dei diritti politici”. Diciamolo: i Radicali sono tornati... “È stato molto bello ritrovare compagni con cui si è fatta tanta strada. Penso a Marco Cappato, Mario Staderini. La diaspora dei Radicali è una ferita aperta e a tratti ancora incomprensibile”. Lei quando ha incrociato quella strada? “Ero un ascoltatore di Radio Radicale. Si parlava dei temi che mi interessavano: il manifesto di Ventotene, i fratelli Rosselli, il liberalsocialismo. Un giorno mi sono detto: ma andiamo a vedere questi che fanno. Sono entrato nella loro sede di Largo Argentina a Roma e lì ho incontrato Marco Pannella”. Cosa le disse? “Partì con un po’ di domande sulla mia formazione e finì con un ‘Ma uno bravo come te dove cazzo è stato fino ad ora?’. È iniziato tutto lì”. I suoi primi passi? “La campagna sul fine vita legata al caso di Pier Giorgio Welby. E poi mi diedero uno spazio su Radio Radicale: ogni giorno un collegamento di due ore con un’associazione radicale sul territorio”. Subito la politica come professione? “No, ho fatto qualcosa all’università. E poi per un po’ ho collaborato con una casa editrice di libri per l’infanzia, qui a Roma, a Trastevere: la Nuova Edizione Romana”. Se ne vedono di Pannella in giro? “Assolutamente no”. Il leader che più l’ha delusa? “Renzi. Avevo creduto che da segretario del Pd non si esprimesse molto su certi temi molto perché doveva tenere insieme le diverse sensibilità di quel partito. Adesso che è invece leader di una forza più piccola continua a non esprimersi molto”. Facciamo un gioco. Cosa penserebbe Pannella del governo Draghi? “Avrebbe posto delle questioni molto chiare. E avrebbe sfidato il governo”. Come ha fatto lei con il tema delle droghe leggere. “È uno snodo centrale per capire la qualità di una democrazia: quando si parla di droghe si parla di Giustizia, Sicurezza, Salute, Economia. E anche di tutela dei consumatori”. Tutela dei consumatori? “Oltre sei milioni di italiani si rivolgono a un mercato gestito dalla criminalità, che offre merce scadente o pericolosa, per soddisfare un bisogno che è culturale: perché la cannabis è come il vino, solo che mai ci sogneremmo di proibire la vendita di una bottiglia e di costringere chi vuole festeggiare il compleanno ad andare a comprarla illegalmente sotto un ponte”. Lei il compleanno lo festeggia con il vino o con la cannabis? “Non sono un consumatore abituale ma nel tempo libero se capita fumo una canna, così come se capita bevo un bicchiere di vino. Ma di tempo libero ne ho poco: l’ho presa abbastanza seriamente”. Il fenomeno Greta: ambiente, profeti e profezie di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 9 ottobre 2021 Oggi come in passato, la profezia ha due caratteristiche: da un lato denuncia l’imminenza della catastrofe, dall’altro indica la via della salvezza. Avevamo pensato in tanti che fosse solo un fuoco di paglia. Ma a due anni di distanza dal suo ingresso nella scena pubblica mondiale, Greta, ora diciottenne, è ancora in grado di calamitare l’attenzione del mondo occidentale, è ancora punto di riferimento per moltissimi giovani (e non solo), e non ha perso la capacità di mobilitarne tanti. E i governi devono farci i conti. Diversi critici osservano che la radicalità del messaggio di Greta continua ad accompagnarsi a un’assenza di proposte pratiche e a un semplicismo che ignora la complessità dei problemi in gioco. Tanto più che oggi siamo in una fase in cui, per gli allarmi lanciati dalla comunità scientifica - ma anche per la spinta della stessa Greta e del movimento che ha suscitato - i governi occidentali hanno messo fra i primi punti delle loro agende il contrasto ai cambiamenti climatici. Il fenomeno-Greta può essere considerato da diversi punti di vista. Ovviamente, quello prevalente, riguarda la sostanza: i cambiamenti climatici e la diffusa sensibilità che hanno suscitato, e non solo nelle generazioni più giovani. Quella sensibilità ha fatto di Greta una leader. A sua volta, il carisma di Greta ha contribuito a diffonderla in una platea più ampia. Qui però non è la sostanza del problema che considero. Mi occupo invece di un aspetto particolare. Forse è utile porsi (insieme a tante altre, ovviamente) due domande. Greta non è forse la dimostrazione del fatto che anche le società post-religiose - come ormai sono in gran parte le società occidentali, europee in testa - hanno bisogno di profeti e di profezie? E se è così, che somiglianze e che differenze ci sono fra la profezia nelle età religiose e la profezia in età post-religiosa? Oggi come in passato, la profezia ha due caratteristiche: da un lato denuncia l’imminenza della catastrofe, dall’altro indica la via della salvezza. Nell’età religiosa la catastrofe incombente era il castigo che Dio o il Cielo si apprestavano a infliggere agli uomini per la loro crudeltà o per la loro condotta immorale. Nella nostra età post-religiosa la catastrofe annunciata è il frutto della ribellione della natura contro la manipolazione umana dell’ambiente. La sostanza è diversa ma la “forma” della profezia è la stessa. In entrambi i casi la profezia ha successo se e quando viene incontro a domande di senso, di significato. Accettando la profezia le persone danno un nuovo significato alla propria esistenza, si sentono, almeno in parte, diverse da come erano prima di conoscerla e di farne proprio il messaggio: è, plausibilmente, proprio quanto è accaduto a tanti giovani e giovanissimi che hanno trovato in Greta il proprio modello e punto di riferimento. C’è infine un ultimo elemento di somiglianza. In età religiosa la profezia irrompe nella storia di un gruppo umano quando le vecchie credenze religiose sono ormai esauste, quando la vecchia religione si è ridotta a stanco ritualismo, quando i suoi officianti hanno perso credibilità e autorevolezza, quando nessuno o quasi, nel suo intimo, la prende più sul serio. È allora che il profeta, con la sua predicazione, porta un attacco devastante alle vecchie credenze e ridà slancio, freschezza e forza alla vita religiosa di quel gruppo umano. Anche qui si coglie, pur con mille distinguo, una somiglianza con il fenomeno-Greta: esso segnala il disagio di una civiltà, il fatto che soprattutto molti dei più giovani rifiutano o sono indifferenti a ciò che le generazioni più anziane continuano a considerare “valori”, beni preziosi generati dalla civiltà occidentale. Ad esempio, secondo rilevazioni attendibili, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, una parte assai consistente della generazione più giovane, in quasi tutte le società occidentali, non si mostra interessata alle sorti della democrazia. C’è però anche una differenza. Se la profezia di successo risponde sempre a domande di significato, la profezia religiosa lo fa in modo diverso da quella post-religiosa. La profezia religiosa offriva agli umani, a ciascun singolo umano, risposte, e quindi consolazione, in merito ai significati ultimi dell’esistenza: il senso della vita e della morte, nonché le ragioni della sofferenza nella vita terrena. La profezia religiosa ancorava i singoli a un insieme di credenze che dando ad ogni umano consapevolezza (o l’illusione della consapevolezza) del proprio posto nel mondo, gli dava anche la forza necessaria per fronteggiare le fatiche del vivere. Con il suo messaggio esclusivamente terreno la profezia post-religiosa può avere altrettanta potenza, e capacità di dare un senso all’esistenza dei singoli? C’è certamente il precedente di Karl Marx: il legame fra il suo messaggio e l’antica profezia ebraica è stato tante volte notato. Non c’è dubbio che, per un lungo periodo, le componenti profetiche di quel messaggio diedero un senso all’agire di milioni di persone. Ma che dire di una profezia di natura ambientalista? Nel breve termine, come si vede, amplificata dal sistema della comunicazione globale, essa si rivela potente. Ma può essere sufficiente una nuova diffusa sensibilità per l’ambiente per soddisfare, nel lungo periodo, una domanda di senso? E può la profezia, per conseguenza, cambiare durevolmente il modo in cui i singoli, o molti di loro, vivono la loro presenza nel mondo? A occhio e croce, no. Ma, naturalmente, non lo sappiamo ancora. Il migrante di San Ferdinando (Rc) che per vivere vende secchi d’acqua calda a 50 centesimi di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 9 ottobre 2021 La vecchia baraccopoli era stata abbattuta in favore di telecamera da Salvini nel 2019. Tra le baracche della nuova, poco più in là, lavora Keità, che passa tutto il giorno a tenere vivo il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi. La vende 50 centesimi a secchio: tanto costa la dignità umana nella favelas di San Ferdinando. La vecchia baraccopoli, quella dei migranti arsi vivi e delle tensioni razziali sempre sul punto di esplodere, era stata abbattuta in favore di telecamera dall’ex ministro Salvini nel 2019: migliaia di lavoratori africani furono fatti sgombrare da quel ghetto allestito in via provvisoria dopo la rivolta del 2010 e cresciuto a dismisura negli anni. Qualcuno di essi trovò rifugio in una nuova tendopoli costruita poco più in là, allestita con le tende blu del ministero dell’Interno. Nell’idea iniziale doveva essere una soluzione temporanea e ora, a distanza di 3 anni dalla sua inaugurazione e dopo avere attraversato un lungo periodo in zona rossa che ha portato all’esplosione di una protesta dai tratti piuttosto violenti, la “nuova” tendopoli sta riproponendo le stesse drammatiche dinamiche del campo che l’ha preceduta. Ufficialmente in via di smantellamento dall’agosto dello scorso anno, il ghetto di San Ferdinando (Rc) accoglie attualmente 250 residenti di 17 nazionalità diverse, ma i numeri sono destinati a salire vertiginosamente nelle prossime settimane, quando nella Piana di Rosarno si riverseranno gli stagionali per la raccolta dei kiwi e delle clementine. Un esercito di lavoratori migranti, tutti o quasi con i documenti in regola, che andranno a rimpolpare la popolazione del campo. Da quando il sindaco del piccolo centro tirrenico Andrea Tripodi ha alzato bandiera bianca, rinunciando a indire nuovi bandi per la gestione del campo sorto nella desolazione della zona industriale e “invitando” i residenti ad abbandonare il sito, la tendopoli è diventata terra di nessuno e, di fatto, si autogestisce con tutti i problemi che una simile situazione comporta. Un vero e proprio paradosso visto che comunque, pur essendo ufficialmente in via di smantellamento e pur non ricevendo più i servizi essenziali, la tendopoli continua ad essere accettata come residenza nei documenti ufficiali dei migranti che tra quelle tende, loro malgrado, ci vivono. Finiti i progetti veicolati attraverso il Comune - e quindi i soldi legati ai progetti - si sono interrotti tutti i servizi essenziali per i residenti: nessuno si occupa di censire i nuovi arrivi e di cancellare i migranti che hanno abbandonato il loro posto inseguendo il lavoro stagionale, nessuno si occupa più della manutenzione della struttura, né della raccolta dei rifiuti o del servizio mensa, che è rimasto, tre volte la settimana ma per i pasti caldi toccherà aspettare l’inverno, sulle sole spalle della Caritas. Ci sono i medici di Emergency e quelli di Medu che operano tra le tende, ci sono i sindacalisti della Cgil da anni in trincea nella lotta al caporalato, e poi ci sono i volontari di don Cecè Alampi, il diacono francescano da anni in prima linea per il superamento delle varie baraccopoli presenti sul territorio. Il resto è un disastro di disorganizzazione massima e povertà assoluta che ha generato una sorta di non luogo dove i diritti umani sono sospesi. Una bidonville, l’ennesima in questo pezzo di Calabria dopo i capannoni dismessi della Rognetta e gli orrori della prima baraccopoli, che cresce disordinatamente di giorno in giorno. Nuove baracche di legno e cartone vengono allestite in ogni pezzo di campo disponibile ma è facile prevedere che altre ne sorgeranno anche oltre i confini del campo originale, nell’ennesima replica di un disastro che si ripete uguale da più di un decennio. Anche il presidio fisso della polizia è stato smantellato e sostituito con un servizio di ronde. Oltre l’ingresso (che una volta, grazie ai badge consentiva agli operatori di controllare le presenze e che è finito distrutto dalla rivolta esplosa durante la pandemia), e superata la montagna di immondizia che nessuno raccoglie da tempo, le tende con il logo del ministero appaiono logore, più di una mostra i segni del tempo e dell’usura, altre sono state riadattate per creare rifugi più grandi. E accanto alle tende, le nuove baracche di legno e lamiera in via di allestimento che accoglieranno gli stagionali. I più attrezzati stendono file di tappeti per garantire un minimo di isolamento termico, altri si arrangeranno con il cartone. Dell’impianto originario che garantiva alle tende luce e riscaldamento è rimasto pochissimo, tra molte centraline saltate a mai rimesse a posto e altre cannibalizzate dagli allacci abusivi che causano continui blackout e aumentano esponenzialmente la rabbia e il rischio incendi. Anche l’acqua è un problema molto serio, soprattutto adesso che le temperature sono calate drasticamente. Quella calda è un ricordo lontano e i container che ospitavano i servizi hanno smesso di funzionare da tempo. E così, tra le baracche di nuova costruzione, ne è spuntata una in cui lavora Keità, un ragazzone di origine senegalese che passa tutto il giorno a tenere vivo il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi. La vende 50 centesimi a secchio: tanto costa la dignità umana nella favelas di San Ferdinando. I lavoratori migranti usano quell’acqua per lavarsi dopo i turni nei campi: “Ma anche il ragazzo che vende l’acqua calda è un disperato - racconta don Cecè Alampi che coordina i volontari Caritas, i più presenti nel campo anche ora che i soldi sono finiti - uno schiavo costretto a guardare il fuoco tutto il giorno e a ingegnarsi per procurarsi l’acqua e la legna. La verità è che qui abbiamo perso tutti e il risultato di questa sconfitta lo pagano gli ultimi, come sempre. Bisogna superare il sistema delle tendopoli, basterebbe poco. Con la collaborazione di un’agenzia di Milano siamo riusciti ad ottenere un fondo di garanzia di 5 mila euro: lo mettiamo a disposizione per tranquillizzare i proprietari di casa e consentire ai migranti di ottenere un affitto. Con questo metodo abbiamo già affittato quattro appartamenti a ex residenti del campo e nemmeno un soldo del fondo di garanzia è stato toccato. È un piccolo successo ma è una goccia nel mare”. Muri anti-migranti, dodici Paesi chiedono alla Ue di finanziarli di Carlo Lania Il Manifesto, 9 ottobre 2021 L’Unione dei fili spinati. La richiesta in una lettera alla Commissione Ue. Che però gela l’iniziativa sovranista: “Stati liberi di costruire barriere, ma non con i soldi europei”. Chiedono soldi per costruire nuove barriere anti-migranti ai confini, ma soprattutto vorrebbero cambiare, una volta per tutte, le politiche Ue sull’immigrazione puntando a costruire un’Europa sempre più chiusa verso gli stranieri. È il succo di una lettera inviata ieri alla Commissione europea e alla presidenza di turno slovena da 12 Stati ai quali non dispiacerebbe poter attingere al bilancio europeo per innalzare altre e più robuste barriere ai confini esterni dell’Unione. Lettera messa a punto nei giorni scorsi dall’Estonia, ma subito sottoscritta anche da Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia e resa pubblica nel giorno in cui in Lussemburgo i ministri dell’Interno dei 27 si incontrano proprio per discutere di immigrazione. L’Europa “ha bisogno di adeguare il quadro giuridico esistente alle nuove realtà” dettate dai flussi migratori, scrivono i 12 firmatari. “Siamo convinti che sia più pertinente e sostenibile concentrarsi su una maggiore protezione delle frontiere, standard comuni per la protezione delle frontiere esterne e la prevenzione degli attraversamenti illegali”. Scontata la conclusione proposta: “La barriera fisica sembra essere un’efficace misura di protezione delle frontiere che serve l’interesse dell’intera Ue”. Barriera, anzi barriere, che i 12 vorrebbero finanziate dall’Unione europea, a partire dai muri che Lituania e Polonia stanno costruendo al confine con la Bielorussia per fermare i migranti che il regime di Alexander Lukashenko spinge verso l’Europa. L’obiettivo della lettera in realtà sembra essere più ambizioso del semplice, per quanto importante, tentativo di far pagare a Bruxelles scelte che sono solo degli Stati membri. Il Piano su immigrazione e asilo presentato l’anno scorso dalla Commissione von del Leyen è infatti ancora fermo al palo e con esso le modifiche chieste dai Paesi del Mediterraneo, delusi dalla mancata riforma del regolamento di Dublino. Paesi che, Italia in testa, vorrebbero una maggiore assunzione di responsabilità nella gestione dei migranti da parte degli Stati membri. Se le richieste avanzate ieri dai 12 dovessero passare equivarrebbe a mettere probabilmente fine per sempre a ogni speranza di riuscire a distribuire i richiedenti asilo tra gli Stati membri. Una svolta “trumpiana” che liquiderebbe quel che resta delle politiche di accoglienza dell’Ue. Diverse le reazioni dei vertici europei alla lettera. Alla scontata adesione della presidenza slovena alle richieste dei 12 (il ministro dell’Interno di Lubiana, Ales Hojs, ha detto che “la Slovenia sosterrà la proposta”), ha fatto da contraltare la freddezza della Commissione Ue e in particolare della commissaria Ylva Johansson, che ha respinto al mittente ogni richiesta: “Se uno Stato membro ritiene che sia necessario costruire una recinzione, lo può fare e non ho nulla da obiettare”, ha detto la responsabile agli Affari interni. “Utilizzare fondi dell’Ue per finanziare la costruzione di una recinzione anziché altre attività molto importanti, questo è un altro paio di maniche”. La lettera dei 12 rappresenta un assist per Matteo Salvini, che infatti non perde l’occasione: “Se ben 12 Paesi europei con governi di ogni colore chiedono di bloccare l’immigrazione clandestina, con ogni mezzo necessario, così sia. L’Italia che dice?”, chiede il leader della Lega. In realtà la proposta di alzare nuove barriere non piace a Roma. convinta che la lettera dei 12 no troverà particolare ascolto in Europa. A Lussemburgo la ministra Luciana Lamorgese ha ricordato ancora una volta come gli arrivi più numerosi si registrino ancora via mare e non certo lungo la rotta balcanica, mare sul quale è impossibile innalzare muri di alcun tipo. Ed è tornata a sollecitare Bruxelles a mantenere gli impegni economici presi con i Paesi di origine dei migranti. Duro, invece, il commento dell’ex medico di Lampedusa, oggi parlamentare europeo S&D, Pietro Bartolo, per il quale ormai “siamo alla sfida finale”. “I sovranisti si organizzano e vanno all’attacco. Altro che solidarietà o nuovo patto sull’immigrazione - ha detto Bartolo -. Siamo tornati ai muri e all’incapacità di affrontare un fenomeno che nessuna barriera potrà mai arginare”. Migranti. Una nuova cortina di ferro di Stefano Stefanini La Stampa, 9 ottobre 2021 Le infinite vie dei migranti scoprono nuovi accessi. Per chiuderli scatta il riflesso condizionato del muro. Possibilmente a spese dell’Ue, visto che vogliono entrare in Europa. Non è passato nemmeno un quarto di secolo da che fu abbattuto il “Muro” che tagliava barbaramente la Germania e, per estensione, spezzava in due l’Europa: la “cortina di ferro”. La memoria è molto corta: adesso sono proprio i Paesi che ne erano imprigionati a voler essere dentro un nuovo muro. Dal complesso del carcere a quello della fortezza. Dovrebbe proteggere le nostre floride democrazie dall’arrivo dei poveri del mondo, compresi gli aventi diritto all’asilo politico. Sono stati i ministri dell’Interno di Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia a chiedere “strumenti per proteggere le frontiere esterne dai flussi migratori incontrollati provenienti da Africa e Medio Oriente, anche col finanziamento di nuove recinzioni e barriere”. L’Ue, per bocca della commissaria Ylva Johansson (svedese), ha fatto il pesce in barile: lo facciano pure ma con i loro soldi, non con quelli di Bruxelles. Johansson è stata formalmente ineccepibile. Ha detto che gli Stati membri hanno il diritto di costruire “recinzioni e strutture di protezione”, invocando la necessità di proteggere i confini esterni dell’Ue. Non ha specificato da chi, forse pensava alla mitica difesa europea. Ha sorvolato sul peccato originale di Bruxelles che dalla crisi del 2015 non ha saputo darsi una comune politica europea su migranti e rifugiati. Non si è avventurata sul terreno scivoloso del simbolismo valoriale di un muro. Che elimina ogni parvenza di solidarietà europea in materia di migrazioni e asilo. La nozione di barriera anti-migranti si attaglia a confini terrestri, a meno di non volerne erigere lungo spiagge e intorno a isole. Mal si capisce che vantaggio ne trarrebbero Cipro e Grecia che hanno appena respirato di sollievo post-Covid per il ritorno dei turisti sulle loro coste. Di conseguenza, i Paesi con confini marittimi, specie mediterranei, continuerebbero a ricevere sbarchi come prima e a essere sottoposti alla “regola di Dublino” per gli asili - lo si chiede dove si arriva; quelli con confini terrestri o prevalentemente terrestri terrebbero migranti e rifugiati fuori territorio grazie alla nuova barriera fisica. Niente Dublino per loro. Il motivo della levata di scudi non è difficile da capire. La compiacente connivenza del dittatore bielorusso, Alexander Lukashenko, ha portato un rigagnolo di migranti africani ai confini di Polonia, Lituania e Lettonia. In Europa si aggira lo spettro delle fughe dall’Afghanistan e della riapertura del rubinetto turco. Paesi Ue che si ritenevano al riparo da arrivi diretti si accorgono di poter finire in prima linea. Eccoli correre al riparo di un muro. Non lo chiameranno muro. Se lo costruiranno, se vogliono. Senza mandare il conto a Bruxelles. Anche Donald Trump voleva far pagare il suo al Messico, poi lo ha messo sul bilancio del Pentagono. In Texas è rimasto a metà. In Europa c’è chi è pronto a riaprire il cantiere. Pena di morte. D’Elia: “Costruire scuole, invece delle carceri, come antidoto a crimine” adnkronos.com, 9 ottobre 2021 È la donna la protagonista quest’anno della Giornata mondiale ed europea contro la pena di morte. “Vittima invisibile” delle esecuzioni capitali, doppiamente repressa “è la più indifesa soprattutto nelle società di diritto islamico dove il ‘prezzo del sangue’ (cioè il corrispettivo in denaro che i parenti del condannato pagano alle vittime), per le donne vale la metà”. Sono poche le esecuzioni al femminile nel mondo, “al 99,9% le vittime della pena capitale sono infatti uomini, ma bisogna aprire gli occhi, illuminare”. Ne parla con l’Adnkronos Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino che spiega: “Di solito le donne finiscono sul patibolo per omicidio, non altri reati e generalmente è legittima difesa. Ma non si salvano, perché le circostanze attenuanti non sono considerate. La repressione è dunque doppia”. Oltre alla discriminazione basata sul sesso e sul genere, “adesso che la tendenza generale va verso l’abolizione universale”, D’Elia indica “la nostra nuova frontiera: il superamento della morte per pena e la dimensione carcerocentrica dell’amministrazione della giustizia. Perché l’antidoto al crimine è costruire scuole, non carceri”. Dall’ottava risoluzione biennale dell”Assemblea Generale delle Nazioni Unite per una moratoria universale della pena di morte “il trend è inarrestabile - rimarca - Ancora sussiste solo in regimi illberali, dove è assente lo stato di diritto. Ma il carcere resta un luogo mortifero, in sui si concentrano altri istituti ormai superati” e non si consuma “una giustizia che riconcilia e ripara ma quella pena che ti fa morire, per malattia, perdita dei sensi fondamentali come la vista nelle sezioni del 41-bis”. “Il nosocomio, il manicomio, l’ospedale per malati terminali - osserva - si concentrano nel carcere che va riformato o abolito”. “Bisogna ripartire dai processi formativi - sollecita D’Elia - L’ideale sarebbe costruire scuole, non carceri, come antidoto al crimine. Si vuole investire sull’edilizia? Deve essere quella scolastica non delle carceri. Quanto più i ragazzi andranno a scuola quanto meno andranno in carcere. È matematico. Si guardi alle recidive, alla provenienza delle popolazioni carcerarie ed il quadro - conclude - sarà chiaro”. Libia. Sei migranti uccisi dalle guardie in un Centro di detenzione a Tripoli ansamed.it, 9 ottobre 2021 Sei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana sono stati uccisi oggi dalle guardie libiche in un centro di detenzione a Tripoli, ha detto il capo dell’ufficio dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) nella capitale libica. L’incidente è avvenuto in un centro di detenzione “sovraffollato” a Tripoli, dove circa 3.000 migranti sono detenuti “in condizioni terribili”, ha detto all’AFP il funzionario dell’OIM Federico Soda. “Sono scoppiate delle sparatorie e in totale sei migranti sono stati uccisi dalle guardie”, ha affermato. Secondo il funzionario dell’OIM, il centro di detenzione di Al-Mabani ha una capacità di 1.000 detenuti, ma ce ne sono più di 3.000, di cui circa 2.000 fuori dall’edificio principale ma all’interno del perimetro del complesso. “La loro detenzione è arbitraria. Molti di loro hanno i documenti in regola ma sono bloccati nel Paese”, ha detto. La Libia è un importante punto di passaggio per decine di migliaia di migranti, per lo più provenienti dai Paesi dell’Africa sahariana, che cercano ogni anno di raggiungere l’Europa. Turchia. Il filantropo di Gezi Park resta dietro le sbarre di Sara Volandri Il Dubbio, 9 ottobre 2021 Osman Kavala prigioniero da 1438 giorni con l’accusa di eversione. Rimane in carcere l’imprenditore filantropo e attivista dei diritti umani Osman Kavala, dietro le sbarre in Turchia da 1.438 giorni. Sulla sua testa pende l’accusa di tentata eversione dell’ordine costituzionale per gli scontri avvenuti per il parco Gezi nel 2013, quando migliaia di attivisti, giovani e semplici cittadini scesero in piazza per difendere l’area verde nel centro di Istanbul che il governo di Erdogan voleva smantellare per avviare la costruzione di un enorme centro commerciale. Così hanno deciso i giudici nell’udienza di ieri mattina del processo che insieme a Kavala vede imputati altre 15 persone tra attivisti per i diritti umani e avvocati difensori. Assieme a loro sono alla sbarra anche 35 membri della tifoseria della squadra di calcio del Besiktas, identificati sempre nei giorni degli scontri del giugno 2013. Lo scorso 10 dicembre la Corte europea dei diritti umani aveva dichiarato illegittima la detenzione di Kavala, rilevando violazioni dei diritti del filantropo e chiedendone la scarcerazione, mai avvenuta. A giugno una procedura di infrazione nei confronti della Turchia è partita presso la stessa corte su richiesta del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Ankara ha ritenuto e continua a non ritenere vincolante la decisione della corte con sede a Strasburgo, che aveva accolto le richieste degli avvocati del filantropo. Kavala è il fondatore dell’organizzazione Anadolu Kultur, da sempre impegnato nella promozione di arte, cultura e lotta alla violazione dei diritti dell’uomo, da anni un interlocutore delle istituzioni europee. Era stato rinviato a giudizio con una richiesta di ergastolo per le proteste del 2013 per il parco Gezi, che secondo il pubblico ministero puntavano a rovesciare il governo del “sultano” Erdogan e avrebbero violato l’articolo 309 del codice penale che persegue i “tentativi di abolire, sostituire o impedire l’attuazione, con la forza e la violenza, dell’ordine costituzionale della Repubblica di Turchia”. Peraltro il 18 febbraio 2020 la stessa corte di Istanbul aveva ordinato la liberazione di Kavala che avrebbe dovuto attendere il processo a piede libero. Scarcerazione mai avvenuta a causa di un appello presentato dall’accusa e accolto il giorno dopo, quando un secondo ordine di detenzione fu emesso nei confronti del filantropo. Insomma, Kavala deve restare in prigione perché così vuole il regime. Gli altri 15 imputati, nessuno dei quali è attualmente in carcere, rischiano invece pene comprese tra i 15 e i 20 anni, tra questi figurano diversi attivisti, oppositori politici gli immancabili e avvocati penalisti, tra i principali bersagli nell’ondata di repressione che da anni flagella la ormai moribonda democrazia turca. Arabia Saudita. Condannato a vent’anni di carcere per un tweet critico sulla monarchia di Giordano Stabile La Stampa, 9 ottobre 2021 La sentenza contro Al-Sadhan per aver criticato la monarchia saudita attraverso un account anonimo. La sorella dalla California: “In prigione lo hanno torturato con bastonate e scosse elettriche”. Vent’anni di galera per un Tweet. Ha criticato il governo su un account anonimo ma le autorità sono risalite alla sua identità, l’hanno arrestato, processato e adesso hanno confermato, in un tribunale anti-terrorismo, una condanna a vent’anni di carcere, con l’aggiunta di altri venti con divieto di espatrio. Abdulrahman al-Sadhan, 37 anni, impiegato alla sede della Croce rossa a Riad, è finito nella rete della repressione del dissenso in Arabia Saudita, l’altro volto del regime del principe Mohammed bin Salman, che pure ha aperto il Paese alla concorrenza, agli investimenti privati e allo sport, con il recente acquisto del Newcastle e la finale di super coppa italiana che si terrà il 22 dicembre a Riad. Le critiche allo Stato e alla famiglia regnante sono però stroncate con la massima severità, anche sui social. Al-Sadhan aveva creato un account anonimo, sotto lo pseudonimo di Samahti, dove denunciava la pessima condizione economica, la mancanza di lavoro pure per i laureati all’estero come lui e prendeva in giro le “presunte riforme” del principe. Pensava di essere al sicuro ma il 12 marzo del 2018 è stato prelevato dalle forze di sicurezza nel suo ufficio. Per 23 mesi è scomparso nel nulla, inghiottito in una delle carceri speciali saudite. Alla vigilia del processo di primo grado gli hanno concesso una telefonata alla madre e alla sorella, che vivono negli Usa. Lo scorso aprile per Al-Sadhan è arrivata la condanna a vent’anni, con fumose accuse di “collusione con potenze straniere”. La sorella Areej, dalla California, ha accusato le autorità di non avergli concesso “neppure un avvocato di sua scelta” e, ancor più grave, di averlo “maltrattato e torturato” durante la carcerazione segreta: bastonate, scosse elettriche, privazione del sonno, molestie sessuali. Areej ha spiegato che il fratello era tornato in patria nel 2014 pieno di speranze, dopo la laurea in economia alla Notre Dame de Namur University: “Non era un attivista, era solo consapevole delle difficoltà che affrontano i giovani e le giovani nel mondo del lavoro”. I media vicini al governo, come Al-Arabiya, hanno ribattuto che nell’account associato al suo nome si trovano anche tweet di simpatia per l’Isis o l’Iran. Ma l’inchiesta ha anche un risvolto internazionale che coinvolge gli Stati Uniti. Sia la speaker della Camera Nancy Pelosi che il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price si sono espressi in favore di Al-Sadhan e in difesa “dell’esercizio pacifico dei diritti universali”, come la libertà di espressione, che “non dovrebbero mai essere puniti”. A preoccupare Washington è anche come Riad è riuscita a risalire ad Al-Sadhan. Il suo caso si lega a un’inchiesta di spionaggio su due impiegati di Twitter, che sono riusciti ad accedere a seimila account anonimi critici con il governo, compresi una trentina che le autorità saudite volevano indagare a tutti i costi. Il leak ha condotto a decine di arresti nei primi mesi del 2018. L’Fbi è sulle tracce di un terzo sospetto. Il timore è che altri regimi autoritari possano utilizzare talpe e tecnologie sofisticate per dare la caccia ai dissidenti sui social made in Usa.