Body cam e video sorveglianza riparata entro il 2024 per prevenire abusi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2021 Il ministero della Giustizia promette di intervenire e completare, entro il primo semestre del 2024, la manutenzione dei sistemi di video sorveglianza. Non solo. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha deciso di riprendere l’iniziativa, abbandonata per problemi di natura tecnica nel 2018, dell’introduzione dei dispositivi “body cam”, ovvero le telecamere mobili a disposizione degli agenti penitenziari utilizzabili per gli eventi critici. Parliamo della risposta da parte del ministero alla lettera del garante nazionale delle persone private della libertà, in merito alle perquisizioni generali ordinarie e straordinarie e alla dotazione di difesa prevista per gli operatori in tali circostanze. Questo scambio epistolare reso pubblico dal Garante, com’è noto ha dato i suoi frutti: una recente circolare ha dato indicazioni sia per quanto attiene le modalità di redazione del provvedimento con il quale il direttore dispone la perquisizione generale straordinaria che dovrà essere redatto in ogni caso in forma scritta mediante un apposito ordine di servizio motivato e documentato, sia per quanto attiene le successive attività di documentazione delle operazioni svolte a cura del direttore stesso. Tali disposizioni sono scaturite soprattutto a seguito della mattanza, avvenuta con la scusa della perquisizione straordinaria, al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Come sappiamo, fondamentale è stato il sistema di videosorveglianza che ha ripreso tutto. Ma ci sono altri casi di presunti pestaggi in diverse carceri dove le telecamere non risultavano funzionati, oppure dopo tot ore i “nastri” non sono più visionabili. La ministra, in risposta al Garante, rende noto che la competente Direzione generale del personale e delle risorse, già nel dicembre del 2020 ha avviato un censimento dei sistemi di video sorveglianza all’interno delle carceri, chiedendo ai Provveditorati regionali di indicare, per ciascun istituto penitenziario, l’esistenza e lo stato di funzionamento degli impianti, nonché di specificare l’entità dei fondi da stanziare in loro favore. Ebbene, è emerso che i fondi necessari per completare i sistemi di video sorveglianza di tutti gli istituti penitenziari ammontano a più di 22 milioni, per l’esattezza 22.220.722,22 euro. Il ministero sottolinea che, di norma, sul capitolo di bilancio in questione, vengono assegnati, ogni anno, circa 10 milioni di euro. Per questo si prevede di poter completare gli interventi per la fine dell’anno 2023 ed il primo semestre del 2024. Per quanto concerne i dispositivi body cam (Il Dubbio ne ha parlato a più riprese), il ministero rivela che il progetto iniziale di video sorveglianza in mobilità in uso al personale della Polizia penitenziaria (sistemi Scout ed Explor), risalente ormai negli anni, non è andato a regime per questioni di natura tecnica. Per questo motivo, il Dap ha deciso - già nel corso del 2020 - di riavviare l’iniziativa. La Direzione Generale ha, più nel dettaglio, programmato di avviare un nuovo progetto di sistemi di video sorveglianza in mobilità in uso al personale della Polizia penitenziaria dapprima, in via sperimentale, presso i provveditorati regionali di Lazio e Campania, nella prospettiva di estendere il progetto - al termine della sperimentazione - all’intero territorio nazionale. Ricordiamo che tali dispositivi sono accolti con favore anche dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria. “Riteniamo che non sia più rinviabile dotare il Corpo di body-cam al fine di riprendere ogni fase operativa all’interno delle carceri!”. È ciò che ha chiesto il segretario della Uil Pol Pen Gennarino De Fazio all’indomani delle 52 misure cautelari nei confronti di agenti e funzionari della polizia penitenziaria sulla mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Lo chiediamo da anni e lo abbiamo sollecitato recentemente nelle occasioni di confronto che abbiamo avuto con la Guardasigilli Cartabia”, ha sottolinea sempre De Fazio a Il Dubbio. Il body-cam è un supporto tecnologico che potrebbe creare due effetti: quello di “de- escalation” nell’individuo aggressivo una volta posto di fronte alla telecamera, migliorando nel contempo la sicurezza intrinseca degli agenti di polizia che si trovano ad effettuare l’intervento in una simile situazione; ma è anche utile a prevenire episodi di abuso da parte degli agenti penitenziari poiché questa strumentazione genera un abbassamento dei livelli della risposta aggressiva o, peggio ancora, dei pestaggi pianificati come accaduto nel carcere campano. Referendum cannabis, il decongestionamento delle carceri deve partire da qui di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2021 Il referendum sulla legalizzazione della cannabis, promosso dall’Associazione Luca Coscioni e supportato da un nutrito cartello di organizzazioni tra cui Antigone, ha superato da tempo la soglia delle firme da raccogliere, con un evidente entusiasmo specialmente da parte delle nuove generazioni. Il tema riguarda molti ambiti diversi, tra cui quello di cui Antigone si occupa. Racconto alcuni fatti, non a tutti noti. Alla fine dello scorso anno erano 12.143 le persone in carcere per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sulle droghe (dalla coltivazione, alla detenzione, allo spaccio di sostanze stupefacenti), mentre erano 938 i detenuti per violazione dell’articolo 74, ovvero per il reato associativo. Coloro che si trovavano in carcere con entrambe le imputazioni erano 5.616. Parliamo in totale di 18.697 persone, ben il 35% della popolazione detenuta complessiva. Nel corso dell’anno gli ingressi in carcere per motivi di droga sono stati 10.852, il 30,8% del totale. Al 30 giugno di quest’anno le cose non andavano meglio. Erano 19.260 le persone detenute per violazione del Testo Unico (il 15,1% sul totale delle imputazioni). Di queste, 658 erano donne e 18.602 uomini e il 33% era composto da stranieri. Al di là del reato commesso, oltre un detenuto su quattro è tossicodipendente (erano 14.148, il 26,5% del totale, alla fine dello scorso anno). Nel momento storico attuale il dato è ancor più preoccupante, se si pensa alla maggiore esposizione a malattie infettive cui sono soggetti. Nel corso del 2020, il 38,6% delle persone che hanno fatto ingresso in carcere era costituito da tossicodipendenti. Negli ultimi quindici anni, tra il 2005 e il 2020, vi è stata un’enorme crescita - pari a 10 punti percentuali - nella presenza in carcere di detenuti tossicodipendenti. Il decongestionamento delle carceri deve partire da qui. E questo deve accadere tanto per motivi etici (le scelte individuali non lesive del prossimo non vanno punite ma orientate culturalmente e socialmente), quanto per motivi giuridici (deve essere reato solo ciò che davvero offende un bene costituzionalmente protetto, non devono esistere reati senza vittime) e per motivi di politica criminale (la war on drugs ha fallito in tutto il mondo, tranne che nel favorire gli imperi economici delle organizzazioni criminali). Oggi le carceri italiane, se teniamo conto dei posti letto di fatto inagibili seppur conteggiati nelle statistiche ufficiali, ospitano circa 7-8 mila persone in più rispetto alla loro capienza. Il sovraffollamento, causa a propria volta di diritti negati, sarebbe risolto da una diversa normativa sulle droghe. Se un detenuto costa in media a tutti noi 130 euro al giorno, una persona ospitata in Comunità costa almeno quattro volte di meno. Il referendum sulla cannabis legale è un primo e fondamentale passo nella direzione eticamente più giusta e politicamente più razionale. Ci auguriamo che si possa dare presto la parola ai cittadini. La mediazione accorcia la pena di Dario Ferrara Italia Oggi, 8 ottobre 2021 La mediazione penale può ridurre l’entità della pena. Il tutto grazie alla giustizia riparativa. Ovvero qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dall’illecito con l’aiuto di un terzo imparziale: la definizione è fornita dalla direttiva 2012/29/Ue e ora la legge delega di riforma del processo penale introduce una disciplina organica in materia; sarà un decreto legislativo a regolamentare lo svolgimento dei programmi di mediazione finalizzati alla riparazione del danno. L’esito favorevole dell’accordo fra la persona offesa e il responsabile dell’illecito penale può essere valutato sia nel procedimento penale sia in sede esecutiva, mentre l’eventuale non fattibilità del programma o il relativo fallimento non producono effetti negativi a carico delle parti, sempre in entrambe le sedi. Lo schema prevede la partecipazione attiva delle parti al percorso di mediazione, la riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale, l’autoresponsabilizzazione del reo, il riconoscimento della vittima e il coinvolgimento della comunità nel procedimento”. E deve essere ritenuta vittima anche il familiare della persona morta a causa del reato, che ha subito un danno in conseguenza del decesso. Strutture e servizi. L’accesso al percorso va garantito in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, a prescindere dalla fattispecie di reato e dalla gravità: spetta all’autorità giudiziaria valutare l’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso. È stata la commissione Lattanzi, nominata dalla guardasigilli Marta Cartabia per riformare il Cpp, a sottolineare che la giustizia riparativa trova definizione nella direttiva 2012/29/Ue, attuata in Italia senza che tuttavia il decreto legislativo 112/15 detti disposizioni materia. Ma un istituto analogo si trova nella legge sui reati di competenza del giudice penale, che può promuovere la conciliazione in caso di perseguibilità a querela. Specifiche le garanzie da offrire alle parti: informazioni sui servizi disponibili; rispondenza dei programmi agli interessi della persona offesa, dell’autore del reato e della comunità; confidenzialità delle dichiarazioni rese, a meno che non servano a evitare altri reati imminenti o gravi, e inutilizzabilità nel procedimento e nell’esecuzione. A erogare i servizi saranno strutture pubbliche che fanno capo agli enti locali, da istituire in ogni distretto di Corte d’appello in convenzione con il ministero della Giustizia. Da disciplinare la formazione dei mediatori esperti in materia. Sono stanziati oltre 4,4 milioni per finanziare la misura. La riforma indebolisce il Csm, perché stavolta i pm tacciono? di Alberto Cisterna Il Riformista, 8 ottobre 2021 Di fronte all’improcedibilità dei processi, la protesta delle toghe si è rivelata determinante nell’indurre la Guardasigilli a una parziale retromarcia. Ma ora è calato il silenzio. Forse perché un Consiglio superiore meno incisivo lascia campo libero alle star? Giunta in Gazzetta ufficiale la riforma del processo penale ed essendo prossima al suo epilogo parlamentare quella del pro cesso civile, non resta che metter mano alla modifica della legge elettorale per la composizione del Csm. Una via dolorosa e lastricata di insidie che, però, poco avrà in comune con la battaglia che ha preceduto la modifica della prescrizione voluta dal ministro Cartabia. A quel tempo a scendere in campo in modo decisivo contro il progetto iniziale sono stati nel corso delle audizioni parlamentari e innanzi ai media. I big della magistratura inquirente italiana. Pubblici ministeri fortemente accreditati presso la pubblica opinione e che rivestono posizioni autorevoli nella geografia giudiziaria del Paese. La loro presa di posizione è stata talmente incisiva e determinante da aver suscitato finanche le proteste di settori organizzati della magistratura che hanno lamentato il fatto che si sia discusso solo di procedimenti di criminalità organizzata, mettendo da parte le più articolate critiche che erano state mosse al progetto Cartabia. Insomma, si è detto che è stato un intervento a piedi uniti che ha riguardato un aspetto, tutto sommato marginale, della riforma della prescrizione sol che si consideri che i processi di mafia hanno praticamente sempre imputati detenuti e sono insensibili a qualsiasi improcedibilità. La riforma della legge elettorale del Csm dovrà fare a meno di questa imponente forza d’urto che la politica ha immediatamente blandito, riscrivendo ampiamente la riforma Cartabia pur dopo l’accordo di maggioranza. Un risultato che è apparso ai soliti commentatori di grande rilievo, ma che gli esperti hanno guardato con un certo scetticismo, sapendo bene che il metronomo processuale per i delitti di mafia è scandito dalla custodia cautelare e conosce corsie privilegiate. Tolto dalla prossima partita quello che, solo per agevolare la discussione, potremmo definire come il “partito dei pubblici ministeri”, ma che in realtà è una galassia di asteroidi che entrano spesso in collisione tra loro, la battaglia sulla legge elettorale sarà molto più ardua da combattere per la corporazione. Per la semplice ragione che la magistratura associata non è in grado di mobilitare la stessa forza d’urto e perché quei protagonisti sono totalmente disinteressati alle vicende del Csm e delle correnti associative che in esso si proiettano. Anzi, a parte il fatto che il procuratore De Raho è a un passo dalla pensione, tutti gli altri oppositori della riforma Cartabia appaiono completamente disinteressati alle sorti del Csm che, in più di un’occasione, hanno pure additato come fonte di ingiustizie e di immeritate bocciature. Certo, c’è in campo l’autorevolezza del presidente dell’Anm e di altri protagonisti non marginali del dibattito. Ma, notoriamente, questi non hanno addentellati nelle sacrestie dei partiti e nelle redazioni dei giornali; senza contare che la vicenda Palamara dissuade dalla ricerca “confidenziale” di sostegni e dai troppi inciuci. Questa volta la magistratura italiana si accinge alla madre di tutte le battaglie, praticamente a mani nude. Indebolita, sfibrata, divisa, litigiosa, sospettosa. Incerta sulla sorte che avranno le plurime inchieste aperte sulla Loggia Ungheria. Attonita di fronte allo sgretolarsi della legittimazione di importanti uffici giudiziari del paese. In parte rassegnata al peggio e incapace di formulare proposte che suscitino l’attenzione della pubblica opinione e ne attirino il sostegno. Persino Giovanni Canzio, importante presidente emerito della Cassazione, in una recente intervista ha fatto propria l’esigenza di mettere mano a una Corte di giustizia disciplinare che sia distante e separata dal Csm, auspicando una riscrittura della Costituzione sul punto. Un j’accuse certo moderato nei toni, ma molto più importante di quanto si possa leggere nelle fatiche letterarie de II Sistema perché proviene da un componente di diritto del Csm e dal presidente dell’organo (la Cassazione) chiamato a valutare la legittimità delle sentenze disciplinari dello stesso Csm. Un doppio cappello che conferisce grande autorevolezza alla sua presa di posizione e che segna una condanna pesante verso la gestione di una delle principali competenze costituzionali dell’organo di autogoverno, ritenuta minata dalle appartenenze correntizie. Si avvicinano i giorni della riforma perché vicina è, tutto sommato, la scadenza del Csm in carica e nessuno vuole tornare a votare con la legge in vigore. La ministra Cartabia, per ora, tace e ha a disposizione i lavori della Commissione Luciani che ha proposto un complesso meccanismo di voto che dovrebbe evitare l’occupazione correntizia del Csm. Però. Però non possiamo sottrarci a una domanda che sorge proprio dal misurare la diversità dell’impegno profuso contro la riforma del processo penale rispetto a ciò che è prevedibile possa accadere nelle prossime settimane, quando molti taceranno e, sotto sotto, plaudiranno a un Csm indebolito e alle correnti punite. Si staglia il pericolo del riproporsi di una magistratura controllata, o comunque potentemente influenzata, da toghe per lo più autoreferenziali che, senza alcuna mediazione, parlano alla pubblica opinione e ne cercano il consenso, che misurano la propria forza mediatica. che rivendicano l’assenza di riferimenti culturali condivisi. Un modello svincolato dal tanto vituperato associazionismo che, però, non coincide tutto con i Palamara papers e che ha in sé una funzione importante anche di controllo sull’esercizio delle funzioni del Csm che il voto riassume ed esalta. È vero, il sorteggio scardinerebbe il sistema e il Sistema, ma per consegnare, forse, la rappresentanza sociale della magistratura a troppi José Doroteo Arango Ardmbula, meglio noto come Pancio Villa. I depistaggi su Borsellino costringono la magistratura a processare sé stessa di Enrico Deaglio Il Domani, 8 ottobre 2021 Dal caso Palamara alla distruzione della trattaiva stato-mafia passando per il caso Eni, l’impalcatura della magistratura italiana è crollata sotto il suo stesso peso. Prendiamola da lontano: una settimana fa Facebook, il più grande monopolio dell’informazione apparentemente gratuita e della telefonia gratuita, ha avuto un grosso infarto seguito da gravi fibrillazioni: un pauroso blackout mondiale di sei ore, un crollo in borsa si sono sommati alla rivelazione, davanti al Senato americano, dei sordidi motivi che guidano il Moloch: avidità, null’altro; e se si diffondono messaggi di odio, ben vengano, anzi perché generano più link. Secondo i media americani, intorno al colosso sta maturando un’implosione e prevedono, sulla scorta della storia: gli imperi crollano sempre dall’interno, non resta che monitorare l’ampiezza delle crepe, e, se abbiamo interessi da quelle parti, cercare di anticipare possibili ferali notizie da Wall Street. Nella nostra piccola periferia, possiamo monitorare, perché anche qui c’è aura di un sommovimento. Questa volta non riguarda populismi o altri movimenti folklorici, ma una delle componenti più stimate e basilari della nostra democrazia, la magistratura. Era cominciata con la vendetta (riuscita) del giudice Luca Palamara che aveva raccontato le sordide cose del suo ambiente; era proseguito con un discreto Watergate legato all’Eni in cui era coinvolta la “integerrima” procura di Milano; il Covid aveva fatto poi vedere quello che succede veramente nelle carceri, come si possa morire a schiere senza far rumore, come si possa essere massacrati senza pagare dazio; nelle ultime settimane poi è avvenuta una debacle che ha colpito al cuore le toghe. Nel giro di quindici giorni un processo che durava da quindici anni - quello della trattativa stato-mafia; era diventato una specie di Casa desolata di Dickens - è stato demolito dalle fondamenta; appena ieri il procuratore generale della Cassazione, Pietro Gaeta, argomentando sul trentennale depistaggio operato sul delitto Borsellino, l’ha definito una “mostruosa costruzione, una pagina vergognosa e tragica della giustizia italiana”. (Finalmente un coraggioso, se posso dire). Stiamo parlando di due processi legati indissolubilmente tra di loro e che riguardano nientemeno che l’atto fondante dell’Italia moderna: la stagione delle stragi del 1992-93, la morte degli eroi, la nostra identità. Ebbene, oggi scopriamo che le grandi inchieste da cui dipende la nostra democrazia sono state condotte da magistrati inetti, o pigri, o loschi, che i pentiti erano falsi, che le prove erano manipolate, che i veri colpevoli sono stati protetti, che i patrimoni dei mafiosi sono stati ipergarantiti, che una dozzina di innocenti sono stati in galera per 15 anni, a Pianosa peraltro, che non è poi così differente da Guantánamo; che in mezzo a queste infamie sono state costruite carriere politiche, giornalistiche: non è uno scandalo, è statistica. E che nessuno di questi magistrati che abbia preso a cuore le vittime; tutti sapevano e tutti tacevano. Sono passati trent’anni, tanto è durata la “mostruosa costruzione”. Cadrà? Difficile, come ha scritto Mattia Feltri ieri sulla Stampa, perché i loro autori “che stanno intorno a procure e tribunali o magari ci stanno dentro, con le loro corone e i loro scettri… e non pagano mai”. (È così, purtroppo, nessuno pagherà mai per la sentenza contro Mimmo Lucano.) Ma abbiamo finalmente Cartabia, dicono. Sperem, dicono a Milano, quando la cosa è in dubbio... Certo sarebbe bello che la magistratura mettesse sotto processo sé stessa, come ha fatto la mafia e come si spera faccia Mark Zuckerberg; ma credo bisognerà ancora attendere. Ecco, una cosa accomuna Facebook alla magistratura italiana. Scommettere su chi cade per primo. Se volete sapere chi ha ucciso Falcone e Borsellino, mettetevi il cuore in pace: non saranno i magistrati a dirvelo, e dire che hanno avuto trent’anni a disposizione. Dovrebbero vergognarsi, come gli suggerisce il loro collega Gaeta, anche perché il caso era tutto sommato semplice. Vengono tanti brutti pensieri. Uno tra i tanti: come è stato possibile che la “mostruosa costruzione” sia stata accettata, sposata, digerita e cacata da centinaia di magistrati che vi sono stati coinvolti? Come è stato possibile che un paese colto e civile come l’Italia sia stato così fatto fesso? Sa a vedere che alla fine è colpa nostra. P.S: È uscito ieri un libro di cui si parlerà molto. Ilda Bocassini, la magistrata famosa in tutto il mondo per essere stata protagonista (inaspettata) dei principali avvenimenti italiani degli ultimi trent’anni, getta uno sguardo sincero sulla magistratura che ha conosciuto. La storia che racconta è un’esperienza di passioni, amore e destino. Sarebbe bello fosse l’inizio di un’autocoscienza collettiva della categoria più riservata (omertosa?) della vita pubblica italiana. (Ilda Bocassini, La Stanza numero 30, cronache di una vita. Feltrinelli). “Una doverosa reazione morale”. La politica scende in piazza per Lucano di Simona Musco Il Dubbio, 8 ottobre 2021 Ieri in piazza Montecitorio la manifestazione a sostegno dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano condannato a 13 anni e due mesi. “Compito di tutti i cittadini è fare democrazia. Mimmo Lucano ha fatto democrazia”. Gianni Cuperlo racchiude in una citazione del filosofo Salvatore Veca, scomparso ieri, il senso della manifestazione che giovedì pomeriggio ha raccolto esponenti del mondo della politica, della cultura e gente comune in piazza Montecitorio, a difesa dell’ex sindaco di Riace, condannato a 13 anni e due mesi per peculato, associazione a delinquere finalizzata alla truffa e abuso d’ufficio. “Modello Mimmo, l’abuso di umanità non è reato”, questo il titolo dell’evento organizzato da Eugenio Mazzarella, Luigi Manconi, Riccardo Magi e Sandro Veronesi e che da atto di protesta si è tradotto in gesto concreto, con una raccolta fondi per aiutare l’ex sindaco e gli altri condannati a sostenere il peso economico del risarcimento richiesto. Soldi che, in caso di assoluzione, saranno invece destinati a progetti di accoglienza in quello stesso territorio, per ribadire la bontà del “modello Mimmo”. A supervisionare l’utilizzo di questi fondi sarà un Comitato di Garanti composto da Marco Tarquinio, Armando Spataro, Gherardo Colombo, Cesare Manzitti e Cesare Fragassi. Per tutti i manifestanti, che hanno sfilato tra bandiere rosse e cartelloni in difesa del “curdo”, il senso di quella sentenza non è stato punire un reato, bensì un modo di fare accoglienza, che pure è rimasto fuori, almeno in teoria, dalle pene comminate. “Una sentenza didattica - secondo Mazzarella -, non tanto contro il reo, ma contro un modello di accoglienza che il presunto reo aveva proposto. Ed era quello che bisognava stangare. Questo è diventato il punto di intollerabilità che ci ha portati a mettere su qualcosa. Perché questo è un uomo che è caduto e va aiutato”. A spiegare il punto di vista della piazza è Manconi, parlando di “sconcerto e scandalo” di fronte ad una sentenza “eccessiva, sproporzionata e abnorme” nella pena inflitta a “Lucano e ai suoi sodali”, interpretata come “la volontà di sanzionare penalmente un’idea di accoglienza, un’idea di politica per l’immigrazione che consideriamo all’opposto intelligente e razionale”. Un timore che si annida nell’accusa di associazione a delinquere, che per l’ex senatore dem nasconderebbe il rischio di trasformare iniziative politiche e civiche in fattispecie penale. A impensierire è infatti anche la decisione di negare agli imputati le attenuanti generiche, “un’ulteriore mortificazione che sembra parlarci di un accanimento terapeutico”. Per Manconi si tratta di una sentenza politica, o meglio “ideologica”, in quanto “trasmette una concezione, un sistema di idee che sembra voler dire che l’unica forma di politica per l’immigrazione è quella istituzionale che è spesso chiusa, ottusa e autoritaria e che invece un’idea di accoglienza fondata su strategie di inclusione, di relazione con i residenti, di convivenza pacifica tra questi e i nuovi arrivati sia da respingere”. Un enorme passo indietro nelle politiche dell’accoglienza che rischia di trasformarsi in un atto d’accusa nei confronti di chi non si limita ad usare i fondi per vitto e alloggio ma aspira a forme di integrazione, fondate “sulla rivitalizzazione di borghi avviati alla decadenza, alla desertificazione”. Scendere in piazza è stata, dunque, “una reazione di ordine morale”. E che di sentenza dubbia si tratta lo si evince, secondo Manconi, anche dalla divisione interna al mondo della magistratura. Una buona notizia, ha sottolineato, “perché una magistratura che sia autoreferenziale, bloccata e chiusa in se stessa rischia di appesantire ancor più la crisi in cui si trova. Finalmente è venuto fuori un serio dibattito che contrappone idee diverse - ha concluso -. Personalmente ho avuto modo di sentire numerosi magistrati che hanno critiche da fare assai dure nei confronti di questa sentenza. E credo sia un fatto utile”. Lo sgomento, ha dichiarato Riccardo Magi, presidente di +Europa, “è tanto più forte quanto più forte è il senso delle istituzioni”. Al di là dei motivi tecnici, la sentenza sarebbe infatti da assimilare “alla profonda strumentalizzazione ideologica che in questi anni c’è stata sul tema dell’immigrazione”. E, dunque, alla difficoltà del Paese “a guardare questo tema nella sua complessità e provare a modificare delle norme, a riconoscere che è necessario superare la legge Bossi-Fini, che va consentito agli stranieri di regolarizzarsi, che va consentito ai cittadini stranieri di fare un ingresso legale nel nostro paese alla ricerca di lavoro”. Insomma, una responsabilità politica c’è e sta nell’incapacità di affrontare seriamente un tema gestito sempre usando l’etichetta dell’emergenza, dell’invasione, smentita all’atto pratico dai fatti e dai numeri concreti. Ciò che serve, dunque, è “trattare questo tema politicamente, in modo orientato non solo ai principi della Costituzione - ha concluso -, ma anche al buon senso, la ragionevolezza, alla convenzione. In quella sentenza vedo la stessa ottusità ideologica che ho visto nel dibattito che c’è stato nel Paese su queste questioni”. Entrò in cella che c’erano Paolo VI e il Carosello. Graziate Papalia! di Antonio Coniglio Il Riformista, 8 ottobre 2021 Considerato un generale della Ndrangheta, ha trascorso in galera mezzo secolo. È cambiato ed è molto malato. Che Stato è quello che tiene un uomo prigioniero aspettando che il suo corpo diventi polvere? Quando Domenico Papalia varcò per la prima volta i portoni impietosi delle patrie galere del nostro paese era il 1977. Le televisioni trasmettevano ancora il “carosello” in bianco e nero, Presidente della Repubblica era Giovanni Leone, sul soglio di San Pietro sedeva Paolo VI, e gli indiani metropolitani contestavano Luciano Lama alla Sapienza. Era un altro mondo: un salto indietro di due generazioni. Tutti i protagonisti di allora ci hanno lasciato, gli “indiani” si sono estinti, ma Papalia rimane ancora dentro quelle quattro mura, in una “riserva” senza spazio e senza tempo. Mezzo secolo di carcere che non è un avamposto della legge, un sagrato del diritto, ma assurge a quella che Leonardo Sciascia indicava come un’ispezione di terribilità: lo stato che, mentre pensa di combattere la mafia, si specchia, ne mutua i mezzi, finisce per rassomigliare a essa. Nella Ndrangheta esistono i “fiori”, le “doti”, a guisa dei gradi dell’esercito. Papalia era considerato un generale: un Mammasantissima”. Se era, non è. Perché, in questi quarantacinque anni di galera, ha studiato, ha esplorato sé stesso, ha raggiunto un livello diverso di elevazione della sua coscienza. Anche nel dolore più sordo, la perdita di un figlio, è divenuto portatore di vita, attraverso un gesto generoso, estremo: la donazione degli organi. A chiedere la grazia per lui sono stati uomini come lo storico sindacalistica della Cgil Francesco Catanzariti e il giudice Ferdinando Imposimato. Oggi, a reiterare questa richiesta al Presidente Mattarella sono i compagni di Nessuno tocchi Caino. Lo fa quel mondo radicale della nonviolenza a cui Papalia ha aderito senza nulla chiedere in cambio, se non amore e una nuova educazione sentimentale. Che Stato è quello che tiene un uomo prigioniero quarantacinque anni attendendo che il suo corpo inerte ritorni nella polvere? Che giustizia è quella che ammazza i prigionieri? Non ci è stato forse insegnato come in carcere entri l’uomo, non il reato? In questa vicenda, si assiste, attoniti e sgomenti, al parossismo di un ribaltamento costituzionale: In carcere entra il reato a cui restare attaccati per sempre. È un paradosso, la stessa logica funerea che Buscetta indicò a Giovanni Falcone: “Non dimentichi, signor giudice, che il suo conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai”. Oggi Domenico Papalia è gravemente malato, “con un cancro alla prostata con in più metastasi ossee”, secondo il clinico che lo ha visitato. I suoi avvocati hanno chiesto il differimento della pena, sulla base dell’art. 147 del codice penale. Si tratta di una norma partorita nella temperie di un regime: finanche, negli anni del fascismo, di Alfredo Rocco, ci si poneva il problema di non tenere in carcere gli ammalati e i moribondi. Se i giudici di sorveglianza dovessero rigettare questa istanza, vorrebbe dire che lo stato liberale e democratico è più illiberale e liberticida di una stagione di negazione della libertà. Quale mafia si combatte tenendo in galera Papalia? Quale monopolio legittimo della forza si esercita? Quando è stato incarcerato quest’uomo di Platì - un paese della Calabria segnato dal marchio di Caino - il presidente degli Stati Uniti era Jimmy Carter e, in Cecoslovacchia, duecento intellettuali firmavano la Charta 77. C’era ancora il muro di Berlino, l’Urss e Breznev. Oggi, di tutta questa narrazione, è rimasto solo Domenico Papalia. Ristretto in quel luogo anacronistico, fuori dalla storia, che si chiama carcere, ove gli orologi sono rotti e si infligge soltanto sofferenza. Come dice Sergio D’Elia, il carcere è diventato un manicomio, un nosocomio, un lazzaretto: si perde la testa, la vista, l’udito, finanche i denti. Nulla a che vedere con la sicurezza sociale che imporrebbe una restrizione breve, limitata al tempo in cui si è pericolosi. Il carcere è proprio un luogo di pena, nel quale ci si ammala, si muore. Troppo semplice dire “Chi sta lì ha sbagliato: è giusto che paghi”. È questa la prima regola della mafia, il suo statuto ontologico, non dello Stato. Noi Le chiediamo, Presidente Mattarella, la grazia per Domenico Papalia. Grazia è benevolenza, bellezza, diritto. La chiediamo a Lei perché è il garante di quel principio di umanità e di cambiamento sancito dalla nostra Costituzione. Perché, di quelli del 1977, di quel mondo che non esiste più, è rimasto solo Papalia. Non ha munizioni, doti, gradi. È malato, disarmato, inerme. Solgenitsin diceva che “un petto inerme può resistere anche ai carri armati, se al suo interno batte un cuore puro”. Sarebbe triste se il cuore di Papalia, convertito alla nonviolenza, allontanatosi dalla mafia, resistesse a tutto. Eccetto ai “carri armati” del nostro regime penitenziario. Torino. Ecco tutte le torture in carcere: “Così ci umiliavano tra le risate” di Giuseppe Legato La Stampa, 8 ottobre 2021 Dal rito di iniziazione per i detenuti alle punizioni supplementari, nelle carte dell’inchiesta dettagli choc. “Ho sbagliato lo so, ho abusato di mia figlia minorenne. Sto scontando la mia giusta pena, ma loro sono stati delle bestie. Quando sono arrivato in carcere mi hanno obbligato a consegnare gli atti con cui la magistratura mi accusava. Hanno iniziato a leggerli di fronte a tutti, ripetevano ad alta voce i passaggi della mia confessione al magistrato. Ho sentito un disagio fortissimo, mi sono vergognato. Ho implorato che si fermassero, ma loro niente, continuavano. Dicevano: da qui non uscirai vivo”. Diego S. è un nome in un lungo elenco di vittime di violenti pestaggi nel carcere di Torino. Torture per il pm Francesco Pelosi titolare dell’inchiesta ormai pronta ad arrivare nelle aule giudiziarie. Le vittime agli atti sono undici. A Diego sono entrati in cella di notte: gli hanno staccato le mensoline sul muro, gettato detersivo da piatti sulle lenzuola. Poi lo hanno portato in una saletta “tra la quinta e la sesta sezione”. Molti detenuti lo sanno - e lo hanno raccontato - che lì, per loro, le cose si mettevano male. “Sentivamo le urla di dolore, i carcerati gridavano, chiedevano aiuto”. Diego aveva presentato una denuncia, l’ha ritirata. Poi la storia è venuta fuori lo stesso. Botte, umiliazioni, pugni, pestaggi nella casa circondariale Lorusso e Cutugno tra il 2017 e il 2019. “Trattamenti degradanti dell’umanità” scrive la procura nell’atto d’accusa. Una sequela “di brutalità” venute alla luce grazie a due donne. Una, la Garante dei detenuti Monica Gallo, l’altra la ex vicedirettrice del carcere di Torino Francesca D’Aquino. La prima si presenta in procura il 3 dicembre 2018 e racconta ciò che le hanno confidato i detenuti. L’altra, mesi prima, aveva ricevuto una segnalazione di violenze su un carcerato. Ha trasmesso gli atti in procura scavalcando la consolidata (e discutibile) abitudine dentro il penitenziario di fare un’indagine interna e chiudere tutto senza fughe di notizie. Così, tra loro. Un giovane difeso dal legale Domenico Peila racconterà altro: “La notte del 30 aprile 2019 mi sono sentito male, mi sono accasciato dentro la cella. Sono arrivati gli agenti, quella che noi conosciamo come la squadra dei picchiatori. Dicevano: devi morire qui pezzo di merda. Il giorno dopo, alle 14,30 mi hanno convocato in una stanzetta. Uno mi ha assestato un calcio alle gambe. Sono caduto, gli altri mi colpivano con gli stivali allo sterno”. Alle “perquisizioni punitive” si aggiunge il cosiddetto “battesimo per i nuovi giunti”. Una pratica macabra: “Quando sono arrivato mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso. Ho sbattuto la faccia contro il pavimento e mi sono spaccato un dente, mi è caduto. L’ho nascosto in cella”, ha detto piangendo una vittima di fronte al magistrato. Un’altra ha raccontato: “Hanno cominciato a colpirmi con schiaffi, pugni e calci. In particolare mi dicevano di salire le scale e mentre le affrontavo gli agenti da dietro mi colpivano con schiaffi pugni e calci. E ridevano”. Altri carcerati hanno raccontato di essere “stati feriti in fronte con il ferro usato per la battitura delle sbarre”. Altri ancora costretti a ripetere davanti a tutti: “Sono un pedofilo di merda”. Ancora: “A un compagno di sezione - ha raccontato un detenuto - lo hanno ammanettato e bloccato a terra. Era in attesa di fare il Tso. Lo hanno colpito con calci allo sterno e mentre lo facevano, ridevano”. La versione è stata confermata dalla vittima convocata in procura. Il comune denominatore dei bersagli di questa “squadretta” composta da 6-7 persone “avvezze a comportamenti di questo tenore violento”, alle quali a rimorchio si univano altri agenti, è quella di prendere di mira i detenuti per reati a sfondo sessuale. Scrive la procura: “Si tratta di soggetti condannati o in stato di custodia cautelare per quei reati che secondo la legge non scritta del carcere suscitano una maggiore riprovazione sociale e pertanto richiedono nell’ottica deviata di quella legge non scritta una punizione ulteriore rispetto a quella prevista dalla legge. Quello che colpisce all’esito dell’esame degli elementi probatori emersi nel presente procedimento è come queste spedizioni punitive non siano state opera di altri detenuti bensì di agenti di Polizia Penitenziaria e cioè di quelle persone che all’interno del carcere rappresentano lo Stato”. Due di loro erano già finiti nei guai: condannati a marzo 2017 in Cassazione per abuso di autorità nei confronti di altri detenuti nel carcere di Palermo. Ma erano ancora in servizio. E non avevano perso “la riprovevole abitudine”, si legge agli atti. Si vantavano al telefono con le fidanzate: “Oggi ci siamo divertiti, tipo Israele anni Quaranta”. Il senso viene colto subito dalla compagna: “Vi siete divertiti a menà?”. Silenzio. Ma quando esce la notizia sui giornali - e le intercettazioni sono ancora attive sui telefoni degli indagati - ciò che colpisce sono i commenti: “Non doveva uscire. Doveva rimanere qui dentro e non trapelare all’esterno”, dice un agente. E il collega: “Il comandante ci aveva detto di stare tranquilli, che era tutto a posto...”. L’ex comandante della Polizia penitenziaria è indagato in questa inchiesta. Anche per l’ex direttore è stato chiesto il rinvio a giudizio: favoreggiamento e omissione di denuncia. Poche ore dopo la discovery degli atti il capo del Dap Bernardo Petralia li ha rimossi entrambi. Le intercettazioni per le botte in carcere: “Se viene fuori tutto è un casino” di Giuseppe Legato La Stampa, 8 ottobre 2021 Dagli atti emergono istruttorie finte per nascondere le torture all’inchiesta della procura. Agenti, ispettori, sindacalisti, comandanti. Quando l’inchiesta sulle presunte torture nel carcere di Torino è diventata pubblica, i telefoni degli indagati - ascoltati dagli investigatori - hanno registrato tentativi diversi di trovare comuni strategie per contenere le accuse e limitare le investigazioni. Con tanto di fughe di notizie su possibili intercettazioni. È il caso di un sindacalista dell’Osapp, difeso dal legale Enrico Calabrese, che aveva ricevuto la soffiata: “Stanno intercettando il comandante Alberotanza”. Lui glielo comunica e la procura glielo contesta: favoreggiamento. Nelle conversazioni finite nelle cuffie del nucleo investigativo della polizia penitenziaria, il passaparola è quasi un refrain: “Non parlate al telefono, nella maniera più assoluta”. Lo stesso comandante avverte gli agenti: “Credono più alle vittime che a voi”. E così per poter - pare - stabilire una linea comune in vista dei futuri interrogatori, si ricorre a contattare perfino i famigliari dei colleghi per arrivare comunque a loro. Per discutere, fare fronte comune sfuggendo alle probabili “attenzioni” degli investigatori. C’è “un fermento notevole oggi in carcere” dirà il sindacalista. Altri però non gradiscono. “Non doveva uscire sulla stampa, doveva rimanere qui dentro”. Ulteriori commenti svelano come le violenze sarebbero state ben di più di quelle coraggiosamente mappate dall’inchiesta della procura: “Se viene fuori tutto è un casino. E menomale che il comandante ci aveva detto di stare tranquilli”. L’ex comandante è accusato peraltro di aver aiutato altri cinque agenti “a eludere le investigazioni omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni e conducendo un’istruttoria interna dolosamente volta a smentire quanto accaduto”. Perché pare - dall’inchiesta - che le istruttorie svolte - o fatte svolgere - dal comandante fossero sostanzialmente condotte in un’ottica unilaterale: quella dell’autotutela. Per sé e per i suoi uomini. “La ricorrenza di questi elementi lascia intendere come gli odierni indagati fossero avvezzi a tenere condotte di questo genere e come le violenze commesse in carcere dagli agenti penitenziari non siano state molto probabilmente limitate ai fatti descritti in imputazione “La presente richiesta - scrive il magistrato Francesco Pelosi - infatti, lungi dal costituire un punto di arrivo dell’indagine viene avanzata al duplice scopo di impedire la reiterazione delle violenze e di consentire l accertamento di ulteriori condotte analoghe”. È lo stesso direttore - anche lui indagato - che lo spiega in procura: “Avevo incaricato il Comandante di fare un’istruttoria urgente sul detenuto Diego S. Nella relazione finale avevo letto che erano stati sentiti alcuni detenuti di quel circuito era stata redatta una relazione di servizio dall’agente P. che lavorava proprio a quel piano e poi c’era la nota di commento dell’ispettore C.” A suo avviso gli accertamenti si erano conclusi con esito negativo. In particolare l’agente P. diceva di avere percepito un disagio del detenuto S. e visto che in quel momento lui era impegnato in altra attività gli aveva chiesto di attenderlo lì sul posto perché poi gli avrebbe prestato assistenza. Una ricostruzione molto più morbida di quanto viene dettagliatamente riportato negli atti dell’inchiesta a proposito di quell’episodio. Oltre le botte, le perquisizioni violente e la lettura pubblica di fronte ad altri carcerati della confessione in cui il detenuto ammetteva di aver abusato della figlia minorenne, Diego S. era stato costretto a stare fermo per più di un’ora, faccia al muro, nel corridoio della sezione. Ha dovuto attendere in punizione il rientro di tutti gli altri detenuti. E mentre loro sfilavano doveva ripetere: “Sono un pedofilo di merda”. Napoli. Commissioni al lavoro, ma il carcere si sbriciola: da Pozzuoli sos al Governo di Viviana Lanza Il Riformista, 8 ottobre 2021 Le carceri cadono a pezzi. Se fino all’altra sera poteva sembrare una frase fatta o un modo per dire che l’edilizia penitenziaria va rimodernata, da martedì è una triste realtà. Perché martedì, in mezz’ora o poco più di pioggia, si è scatenato l’inferno in città e si è sbriciolato anche un pezzo di muro di recinzione del carcere femminile di Pozzuoli. Molto probabilmente, infatti, a causa di infiltrazioni d’acqua nel terrapieno, il muro perimetrale è crollato. Sono venuti giù dieci metri di mattoni sul versante di via Pergolesi, la lunga strada che taglia in due Pozzuoli arrivando fino al centro cittadino. Come è potuto accadere? Viene da chiederselo pensando che un carcere debba essere sicuro sotto tutti i punti di vista e che più in generale non può bastare una giornata di pioggia per far cadere a pezzi una struttura. Ma che struttura è quella dove ha sede il carcere femminile della Campania? Si tratta di un edificio costruito nel XV secolo, dai larghi corridoi e dalle ampie stanze dove però vivono anche sei o otto detenute. All’esterno l’aspetto è più fatiscente, perché i lavori di ristrutturazione realizzati in questi anni, secondo i report di Antigone e del Garante, hanno riguardato più la manutenzione interna che quella esterna. In più, l’edificio di via Pergolesi era nato come convento per poi essere adibito alle esigenze detentive solo negli anni Novanta, prima come manicomio criminale e poi, dal 1980, come carcere femminile. È composto di tre sezioni, dislocate su tre piani. Al primo c’è l’articolazione psichiatrica, oltre che, come al terzo, le sezioni dove sono recluse le detenute con condanna definitiva, mentre al secondo le detenute in attesa di giudizio. Le celle sono ampie stanze con letti a castello e grandi finestre, con acqua calda e riscaldamento, ma questo non basta a rendere la struttura un luogo pienamente vivibile. “Ogni volta che crolla un muro del carcere penso a come bisogna abbattere le mura dell’indifferenza della politica e dei singoli cittadini verso il carcere - commenta il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello - È necessario attirare l’attenzione delle istituzioni a vari livelli sapendo che habitat, affettività, spazi integrativi, lavoro servono a reinserire le detenute nella società”. Il crollo del muro del carcere femminile di Pozzuoli, dunque, pur non provocato feriti, riaccende i riflettori sulla necessità di un’edilizia penitenziaria adeguata. Il Governo ha istituito nei mesi scorsi due Commissioni: una per l’architettura penitenziaria, finalizzata a realizzare progetti per una diversa e più umana dimensione di carcere, orientati proprio sui luoghi dove i detenuti scontano la condanna; un’altra è invece proiettata all’innovazione del sistema penitenziario, cioè a un intervento più mirato alla formazione del personale penitenziario e all’efficienza dei percorsi rieducativi all’interno delle carceri. Monza. Una borsa lavoro nel nome di Airò per ex detenuti e condannati Il Giorno, 8 ottobre 2021 Raccolta fondi per ricordare lo storico magistrato monzese a due anni dalla sua scomparsa. Si cercano altri sostenitori. Una borsa formazione e lavoro per ex detenuti e condannati, in ricordo del giudice monzese Giuseppe Airò, primo promotore di questi temi a lui tanto cari, venuto a mancare nel 2019. Costituito alla Fondazione della Comunità di Monza e Brianza il “Premio Pino Airò” nel nome del magistrato che per quasi 40 anni ha prestato servizio al Tribunale di Monza come giudice penale e presidente vicario, diventando uno dei riferimenti principali per gli operatori di giustizia, ma anche per i rappresentanti delle Istituzioni locali e i cittadini. Per la sua attività, che si è sempre distinta per la serietà, la professionalità e l’equilibrio, ma anche per le doti umane che lo rendevano una persona attenta verso il prossimo e le persone in difficoltà. Il Premio nasce dalla volontà di esprimere il ricordo e di continuare il lavoro di Pino Airò, intervenendo rispetto alle situazioni di maggior svantaggio sociale e sostenendo iniziative finalizzate a formare professionalmente persone adulte e minori sottoposte a provvedimento dell’Autorità giudiziaria penale, per cui creare opportunità lavorative. Un’iniziativa nata dalla Rete, che ambisce a coinvolgere l’intera comunità. Le risorse messe a disposizione dal premio deriveranno infatti dall’omonimo fondo costituito presso la Fondazione per raccogliere donazioni da tutti coloro che vorranno proseguire l’operato di Pino Airò, sposandone la filosofia e i principi. I dettagli e le informazioni sul bando sono disponibili sul sito www.fondazionemonzabrianza.org. I progetti dovranno essere inviati entro il 5 novembre. La Borsa Formazione e Lavoro è già stata finanziata da alcuni dei soggetti sottoscrittori del protocollo, ma l’intenzione è quella di aprire la partecipazione e il conseguente finanziamento anche a enti pubblici o a privati interessati a ricordare la persona dell’amatissimo magistrato a quasi 2 anni dalla sua scomparsa e a sostenere un’iniziativa di carattere sociale di immediato e notevole impatto sul territorio monzese. Si apre quindi la raccolta fondi per la prima edizione del Premio e tutti possono contribuire con donazioni e incrementare così le risorse a disposizione del progetto. È possibile effettuare un bonifico intestato alla Fondazione della Comunità di Monza e Brianza Iban: IT03 Q05034 20408 000000029299. Causale: Premio Pino Airò. Belluno. “Progettualità con i detenuti: le imprese sapranno coglierne i valori” newsinquota.it, 8 ottobre 2021 Il direttore di Confindustria Belluno, Andrea Ferrazzi, ha visitato il reparto produttivo allestito dalla cooperativa Sviluppo & Lavoro all’interno della casa circondariale di Baldenich, a Belluno. “L’esperienza della cooperativa Sviluppo & Lavoro è un esempio delle progettualità che si possono avviare con i detenuti, con ricadute positive sia sul versante economico sia su quello sociale”, ha affermato Ferrazzi al termine della visita. “Lavorando per imprese del territorio i detenuti intraprendono un percorso di reinserimento nella comunità, senza gravare anche economicamente sulle famiglie (quando ci sono) e sulla collettività. L’auspicio è che, anche attraverso l’associazione, altre imprese possano cogliere il valore di questi progetti”. Durante la visita, il direttore di Confindustria è stato accompagnato dal presidente della cooperativa Sviluppo & Lavoro, Gianfranco Borgato e dalla responsabile dell’area educativa della Casa circondariale, dottoressa Lina Battipaglia. La cooperativa Sviluppo & Lavoro è specializzata nell’inserimento lavorativo di persone in difficoltà. Dal 2015 ha avviato nel carcere bellunese un’attività che coniuga le esigenze di impiego dei detenuti con le necessità di produzione di alcune imprese venete con vocazione internazionale. Grazie a questa iniziativa il carcere di Belluno vanta il tasso di occupazione più alto in Italia. A Baldenich oltre il 55 per cento dei detenuti ha un lavoro stabile e continuativo. Inoltre, il progetto ha consentito il ritorno in Italia di una serie di attività produttive fino a poco tempo fa delocalizzate. “La visita del direttore di Confindustria - afferma il presidente della cooperativa Gianfranco Borgato - è la conferma dell’interesse che suscitano azioni capaci di coniugare gli aspetti economici e quelli sociali con forti legami con il territorio. Le potenzialità di questi progetti sono enormi e ancora in gran parte inesplorate, soprattutto per i benefici diretti e indiretti che comportano”. Favignana (Tp). Riconoscimento a dieci detenuti che hanno ripulito strade e spiagge di Giovanna Sfragasso La Repubblica, 8 ottobre 2021 Si sono distinti per la loro partecipazione ad un progetto di utilità sociale, durato circa sei mesi, realizzato dal Comune di Favignana - Isole Egadi e dal Ministero della Giustizia, ripulendo aree verdi, spiagge e strade. Protagonisti, dieci detenuti della casa circondariale “G. Barraco”, che hanno ricevuto un attestato di riconoscimento per il loro impegno in una cerimonia ufficiale a Palazzo Florio, alla presenza del sindaco Francesco Forgione e del responsabile dell’Area educativa del penitenziario Eugenio De Martino, che ha ricordato come l’istituto, negli ultimi decenni, abbia registrato, in più occasioni, il più basso tasso di recidiva in Italia. Nel corso di una cerimonia ufficiale nella sala consiliare di Palazzo Florio a Favignana, sono stati consegnati gli attestati di riconoscimento a dieci ospiti della Casa circondariale “G. Barraco” che per sei mesi hanno partecipato ad un progetto di utilità sociale realizzato dal Comune di Favignana - Isole Egadi e dal Ministero della Giustizia. “È un riconoscimento dato a cittadini che hanno la necessità di essere riaccolti dalla società e che si sono messi a servizio della comunità - ha dichiarato il sindaco del Comune di Favignana - Isole Egadi Francesco Forgione - Per noi ha avuto un grande valore consegnare questo attestato, non a dei detenuti, ma a dei cittadini della nostra comunità e del nostro Paese. La pena di chi ha commesso un errore nella propria vita non deve essere punitiva, ma riparativa. Una società che non sa riaccogliere chi ha sbagliato è una società che non ha futuro e la nostra democrazia ha bisogno di ritornare allo spirito della Costituzione”. Il progetto di utilità sociale, totalmente a carico del Ministero della Giustizia, ha riguardato il rifacimento delle aiuole di Palazzo Florio e di alcuni spazi verdi dell’isola, la pulizia delle spiagge, del cimitero, del centro sociale di piazza Matrice e delle aree antistanti il centro anziani e la scuola. Alla cerimonia di consegna degli attestati ha partecipato anche il responsabile dell’Area educativa del penitenziario dell’isola Eugenio De Martino che ha voluto pubblicamente ringraziare il primo cittadino. “Con questa attestazione, il sindaco ha dato un segno concreto della sensibilità che l’Amministrazione ha nei confronti degli ospiti della Casa di reclusione - ha dichiarato De Martino - Un progetto che ci ha consentito di inserire un numero di detenuti significativo che ha dato un contributo importante al territorio. Mi piace sottolineare che in questi ultimi decenni, più volte, la Casa circondariale di Favignana è stata quella con il minor numero di recidiva in Italia, di persone cioè che una volta uscite dall’istituto non sono più tornate a delinquere”. Bergamo. Il Premio Castelli ai detenuti-scrittori: questa mattina l’ospite è Mattarella Il Giorno, 8 ottobre 2021 Il concorso letterario nazionale punta la 14esima edizione su “Il contagio della solidarietà”. Un ponte tra il detenuto, le istituzioni e la società finalizzato alla dignità della persona indipendentemente al reato. Questa la finalità del premio “Carlo Castelli per la solidarietà”, concorso letterario alla 14esima edizione dedicato ai detenuti, promosso dalla Federazione nazionale “Società di San Vincenzo De Paoli” con i patrocini di Camera, Senato, ministero della Giustizia e uno speciale riconoscimento del presidente Sergio Mattarella che questa mattina alle 10 sarà ospite nel carcere di Bergamo. Il tema dell’edizione è “Il contagio della solidarietà vince ogni pandemia e ogni barriera”: ecco perché, per ospitare il prestigioso appuntamento, è stato scelto il carcere di Bergamo, che ha pagato il prezzo più alto durante la prima ondata dell’emergenza sanitaria. Tra l’altro il carcere cittadino è intitolato a don Fausto Resmini, ex cappellano della struttura, stroncato dal virus nel marzo 2020. Messina. Carcere, grazie al teatro il riscatto è possibile di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 8 ottobre 2021 Entra nel vivo la collaborazione tra l’Università e la Casa circondariale di Gazzi con il progetto “Liberi di essere Liberi” che mira a favorire lo sviluppo di un cammino verso la risocializzazione dei detenuti. Si tratta di un nuovo tassello di un percorso già avviato dall’associazione “D’Arteventi”, presieduta da Daniela Ursino, direttrice artistica del “Piccolo Shakespeare”, una realtà interna al carcere di Gazzi, nata grazie al sostegno della Caritas, finalizzata a riabilitare i detenuti attraverso il teatro. “Liberi di essere Liberi” nasce dalla collaborazione con l’Ateneo che è il maggiore centro di formazione della città e ha già avuto un momento importante qualche mese fa quando, in occasione della presentazione del progetto, sul palco del teatro “Piccolo Shakespeare”, si sono ritrovati i direttori dei più importanti teatri italiani come “La Scala” di Milano e il “Piccolo” assieme a rappresentanti dell’istituzione penitenziaria, del ministero della Giustizia e dell’Università. Un ulteriore passo in avanti del progetto prevede il coinvolgimento degli studenti delle facoltà di Scienze politiche e giuridiche per fare in modo che i futuri operatori della giustizia possano conoscere sotto una visuale diversa il mondo e la comunità carceraria ed avere una prospettiva di valutazione più ampia che vada al di là di quello che appare nel fascicolo di ogni detenuto. In questo percorso un ruolo importante è giocato da attori, registi, artisti che si interfacceranno con gli studenti e i detenuti. Saranno delle vere e proprie esperienze nel mondo del teatro vissuto a 360 gradi, che diventa un veicolo per ridurre distanze e aprire i detenuti alla città e viceversa. “Bisogna capire quanto il teatro possa creare unione e portare il dentro bello”, dice Daniela Ursino in occasione della presentazione dell’iniziativa nell’Aula magna del dipartimento di Scienze Politiche e giuridiche. “La convenzione per l’Università è un motivo di grande soddisfazione”, sottolinea Giovanni Moschella, prorettore vicario. “La detenzione - aggiunge - è uno strumento importante, ma tutte le forme devono essere volte al recupero della persona”. Sul principio di fratellanza, non solo in senso religioso ma anche secolare, si è soffermato Mario Calogero, direttore del dipartimento. L’iniziativa che coinvolge gli studenti è stata salutata positivamente anche da Angela Sciavicco, direttrice della Casa circondariale di Gazzi e Francesca Arrigo, presidente del Tribunale di Sorveglianza. “Mi fa piacere parlare della realtà carceraria per iniziative positive”, afferma la direttrice del carcere. La presidente Arrigo ha sottolineato come per i detenuti il confronto è importante “anche per comprendere, riflettere e vedere diversamente il reato”. Ha, poi, spiegato che i risultati di quanto questi percorsi finiscono nella relazione che il carcere manda al Tribunale di Sorveglianza che valuta tutti gli aspetti per avviare percorsi alternativi alla detenzione: “L’aspetto rieducativo - ha concluso - non è l’unico da valutare ma è sicuramente illuminante per l’inserimento del detenuto nella società”. Incisivo e puntuale l’intervento della giornalista Elisabetta Reale, voce narrante del progetto. Ha evidenziato la particolarità del carcere di Gazzi che ha un vero e proprio teatro il cui palco è conosciuto da artisti nazionali e internazionali. Ha parlato anche dell’impegno dei registi Giampiero Cicciò e Tindaro Granata, dell’aiuto regista Antonio Previti, e dell’attore Pippo Venuto, tutti artisti messinesi “che hanno dato cuore e anima al progetto”. Sono intervenute anche le professoresse Lucia Risicato e Annanaria Citrigno. Si inizia, dunque, oggi pomeriggio con un laboratorio teatrale su uno spettacolo “E allora sono tornata” dedicato alla cantante Mina, tratto dal disco con Ivano Fossati, coordinato dal regista Tindaro Granata. Per studenti è l’occasione di diventare attori di nuove storie da costruire grazie alla magia del teatro. Testimonial del progetto l’attore Lino Guanciale che ha inviato un video con uno speciale in bocca al lupo. Reggio Emilia. Quadri dei detenuti per battere la violenza di Monica Rossi Il Resto del Carlino, 8 ottobre 2021 Alla Pulce otto carcerati stanno realizzando opere e segnalibri grazie all’aiuto dell’associazione Gesn Nova. Dalla produzione di mascherine a vere e proprie opere d’arte. Sta accadendo all’Istituto Penitenziario della nostra città dove la creatività di Anna Protopapa, delegata Gens Nova Emilia Romagna, dopo essersi attivata nei mesi precedenti per realizzare mascherine con diversi detenuti, sta portando avanti un laboratorio artistico per la creazione di quadri. Il progetto si chiama “Liberi Art” e al momento viene portato avanti con 8 detenuti che creano quadri con stoffe. Sono opere d’arte a temi sociali come la violenza sulle donne, il bullismo, la mafia, e una invece dedicata a tutte le forze dell’ordine al fine di sensibilizzare il grave fenomeno dei suicidi in divisa e molti altri quadri ad ispirazione personale. La prima opera che apre il progetto Liberi Art è ispirata alla lettera Enciclica del Santo Padre Francesco ‘Fratelli Tutti’. La Protopapa ha voluto far entrare nelle riflessioni e nei pensieri dei detenuti il messaggio universale della lettera del Santo Padre. “Sono stati molti i momenti di riflessione e di confronto con gli utenti del carcere reggiano” racconta la Protopapa, “i quali oltre ad aderire al messaggio sulla fraternità universale del Pontefice, che si rivolge e richiama noi tutti ad una fratellanza, si stanno impegnando a vivere concretamente sentimenti di solidarietà, di amicizia sociale reciproca anche tra diverse fedi religiose evidenziando alcuni loro pensieri. Ne sono usciti pensieri molto belli e di grande spessore tra cui ‘Possiamo ricominciare da dietro le sbarre, è il tempo per migliorarsi per poter essere migliori’ o anche ‘Possiamo cadere nei burroni della vita e bisogna affrontarli iniziando da noi stessi dandoci una mano nei momenti di difficoltà ed accettare che siamo tutti essere umani con delle fragilità’”. Quest’opera ‘Fratelli Tutti’ diventerà il quadro pellegrino, una testimonianza degli invisibili che verrà accolta ed esposta in alcune chiese reggiane e luoghi comunitari e che terminerà il suo viaggio a Roma. Le altre opere realizzate saranno oggetto di mostre nel prossimo futuro, anche in aziende che hanno contribuito alla realizzazione del progetto donando stoffe e materiali. Nell’ambito dello stesso progetto sono stati ideati e realizzati anche dei segnalibri dedicati al contrasto della violenza sulle donne ‘Neanche con un fiore 1522’ e al contrasto del bullismo, come ‘Se sei vittima di bullismo non avere paura... Aiuta il tuo bullo denunciandolo’ ma anche ‘Il bullismo non è un gioco, il bullismo è violenza, il bullismo è un reato penale. Sbulloniamoci!’, sono le frasi riportate sui segnalibri. Questi ultimi verranno donati ai bambini di alcune scuole elementari del territorio reggiano. “Ringrazio la disponibilità degli istituti penali di Reggio Emilia a partire dalla Direttrice dottoressa Lucia Monastero, del comandante dirigente aggiunto Rosa Cucca e di tutta l’amministrazione penitenziaria” sottolinea la delegata Gens. Siena. La Misericordia organizza una pesca di beneficenza per i figli dei detenuti sienanews.it, 8 ottobre 2021 Il volontariato penitenziario è da secoli una delle attività svolte dalle Misericordie ed in epoca recente, dal 1998, la Misericordia di Siena coopera attivamente con le direzioni delle carceri di Santo Spirito a Siena e di Ranza a San Gimignano grazie ad un gruppo di volontari dedicato a queste attività. I volontari effettuano interventi assistenziali rivolti sia ai reclusi, con particolare attenzione alla loro elevazione culturale e morale, che alle loro famiglie. Nel 2020 i circa 10 volontari del gruppo hanno svolto più di 2300 ore di volontariato. Proprio con attenzione alle famiglie dei detenuti, ed in particolare ai figli dei detenuti, ogni anno viene organizzata una “pesca di beneficenza” il cui scopo è quello di raccogliere fondi da devolvere in occasione delle feste natalizie, ai figli dei detenuti degli Istituti di Pena di S. Gimignano e Siena, i cui familiari sono in condizioni economiche precarie. Fino al 22 ottobre sarà possibile donare e partecipare alla tradizionale pesca di beneficenza recandosi presso l’atrio della sede storica della Misericordia di Siena in via del Porrione 49. Per chi volesse intraprendere un percorso di volontariato penitenziario è possibile richiedere maggiori informazioni tramite posta elettronica scrivendo all’indirizzo gvp@misericordiadisiena.it. “Exit”, quando l’arte è porta d’uscita dalle prigioni fisiche e mentali Famiglia Cristiana, 8 ottobre 2021 Giovedì 7 ottobre al Refettorio Ambrosiano viene presentato in anteprima nazionale all’interno della Milano Movie Week “Exit” il docufilm di Stefano Sgarella. “Dopo la pausa del Covid”, dice Luciano Gualzetti, direttore Caritas, “siamo felici di ospitare un film sull’arte come porta d’uscita da questo tipo di malessere”. Dopo l’anteprima a Venezia nello spazio della Fondazione Ente dello Spettacolo durante la 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, con la partecipazione della ministra della giustizia Marta Cartabia, il docufilm approda nel capoluogo lombardo all’interno della Milano Movie Week. Due gli appuntamenti nel programma della rassegna: giovedì 7 alle 21 al Refettorio Ambrosiano e venerdì 8 ottobre, sempre alle 21, in piazza Greco, proprio davanti alla mensa solidale, dove per l’occasione sarà allestito un maxischermo. Attraverso lo sguardo di un ragazzo che ha perso il fratello per una storia di droga e che al recupero di chi ha sbagliato non crede affatto, il film documentario mostra come arte e cultura siano strumenti fondamentali nel percorso di rinascita di chi vive ai margini della società e, in particolare, nelle carceri. Accanto alla storia di Alex, il protagonista, si intrecciano alcune autorevoli voci delle istituzioni e del mondo del volontariato che si confrontano sui concetti di pena, colpa, riscatto, risarcimento: da Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, a Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore, da Graziella Bertelli, responsabile del reparto La Nave a don Giuliano Savina, già presidente dell’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”. Frutto dell’incontro di quattro soggetti che operano sul territorio milanese l’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano” (capofila del progetto), l’associazione “Amici della Nave”, gli attori del “Macrò Maudit Teàter”; l’associazione culturale “Forte? Fortissimo! Tv”, EXIT è diretto da Stefano Sgarella, e vede la partecipazione di Loris Fabiani, Daria Bignardi, Alessandro Castellucci e Franco Mussida che canta e suona il pezzo utilizzato per la sigla finale e che si esibirà dal vivo durante la presentazione milanese giovedì sera nella quale sarà presente anche Gianluca Pisacane, critico cinematografico della rivista Cinematografo e di Famiglia Cristiana. “Fare esperienza della bellezza non è un aspetto secondario della vita. Lo dimostrano proprio le storie delle persone che ne sono private: i senza tetto, chi vive condizioni di marginalità, chi è recluso. La ricerca di cose belle è tra loro spesso un anelito fortissimo e la frustrazione può essere straziante. Per questo abbiamo voluto che il Refettorio non fosse solo una mensa per i poveri, ma anche un luogo che, con l’aiuto degli artisti che hanno collaborato al progetto, fosse anche un posto esteticamente coinvolgente, cioè capace con le emozioni che suscita di rallegrare le loro anime. Ed è per questa stessa ragione che, dopo la lunga pausa imposta dal Covid, siamo molto lieti di ospitare questo film incentrato sull’arte come strumento capace di superare le barriere fisiche e mentali”, sottolinea Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana. Nato da un’idea di Massimo Bottura e Davide Rampello, il Refettorio Ambrosiano offre ogni sera da lunedì a venerdì la cena a circa 90 persone in grave difficoltà, recuperando il cibo che sarebbe sprecato. Luogo di accoglienza per gli ultimi è rimasto sempre aperto anche durante il lockdown e il regime di restrizioni imposto successivamente per contenere la pandemia di Covid 19. Gli ospiti hanno potuto, quindi, usufruire del servizio senza interruzione anche nei momenti più difficili, grazie allo sforzo dei volontari che hanno triplicato i turni per garantire l’accesso nel rispetto delle norme di distanziamento sociale. In questo periodo, tuttavia, si è dovuto sospendere la programmazione di eventi, concerti, incontri in presenza che si svolgevano negli spazi del Refettorio al di fuori degli orari della mensa. Le due serate di presentazione del film EXIT, curate dall’Associazione per il Refettorio Ambrosiano, rappresentano una ripresa anche di queste attività. Prenotazioni ancora aperte per la proiezione di venerdì 8 ottobre, ore 21, Piazza Greco - Milano - via email: iscrizioni@perilrefettorio.it oppure tel 380 8922240. Le confessioni di una magistrata di Guia Soncini La Stampa, 8 ottobre 2021 Ci sono Il tempo delle mele e la vita di Boris Pasternak, in Ilda Boccassini che - settantunenne - racconta una storia d’amore di trent’anni fa, e quella storia d’amore è con Giovanni Falcone, morto da ventinove. Ma c’è anche una vecchia barzelletta. Ilda Boccassini pubblica un’autobiografia, e decide di deviare l’attenzione dalla sua carriera di magistrato con la storia che non ci aspettavamo. Lo fa - scientemente: non poteva non sapere che, da pagina 41, di quel libro non ci sarebbe interessato altro - con tre parole: “Me ne innamorai”. L’oggetto è Falcone, e al lettore medio non serve Google per sapere che il giudice aveva una moglie: Francesca Morvillo morì assieme al marito. E quindi la Boccassini aspettava da una vita di raccontare questa storia, come in quella barzelletta che andava per la maggiore anni fa. Un aereo precipita su un’isola deserta, sopravvivono un tizio qualunque e Claudia Schiffer. Dopo giorni di sesso furibondo, il tizio fa indossare alla Schiffer la sua giacca e i suoi pantaloni. Una volta vestita da uomo, la prende sottobraccio e, passeggiando, le dice come farebbe a un vecchio amico: oh, sai che ho una storia con la Schiffer? Giacché, che si tratti d’una modella o d’un magistrato, della vicina di scrivania o del capo del mondo, una storia esiste solo se la racconti. Tra poco arriverà in tv American Crime Story: Impeachment, che ci ricorderà quel che avevamo dimenticato: tutto quel disastro, nella presidenza Clinton e nella vita di Monica Lewinsky, avvenne perché cos’hai a fare una storia col presidente se non lo dici a nessuno, e quindi lei si confidò con un’amica. Ilda Boccassini non era una stagista ventenne, era una donna adulta, una giudice, una moralizzatrice, e quindi non si sarà confidata con le amiche. Avrà tenuto il segreto per trent’anni, funerale compreso. Funerale al quale dev’essersi sentita come Olga Ivinskaja, l’amante di Pasternak alla quale la moglie non lo fece vedere quando stava per morire. Si è comportata da adulta, Ilda, anche se le storie d’amore non sono mai adulte, e infatti racconta scene da Tempo delle mele: in aereo condividevano le cuffiette ascoltando Gianna Nannini. Non dice mai se abbiano consumato o no, mantiene una discrezione nell’indiscrezione, ma non serve: ridurti a innamorata, tu che eri percepita come fustigatrice dei costumi, è una scelta così assoluta che il sesso non aggiungerebbe niente. Le amministrative e l’uomo a metà di Giorgio Vittadini ilsussidiario.net, 8 ottobre 2021 A qualche giorno di distanza e a bocce ferme è utile fare qualche riflessione sulla recente tornata di elezioni amministrative. Il mosaico è composito. Una vittoria del centrosinistra nelle grandi città come Milano, Napoli e Bologna. Una sconfitta del centrodestra rispetto alle attese. Il ballottaggio a Roma e Torino fra centrodestra e centrosinistra. Il successo di centrodestra in Calabria e in molti centri medi. Tutte questi aspetti sono importanti. Ma anche in questa tornata di elezioni locali è nettamente aumentata la sfiducia nella politica: sembra il voto dell’uomo a metà come lo definisce Enzo Jannacci nella sua canzone. La partecipazione alle elezioni amministrative è crollata in cinque anni dal 61% al 54,6%. E questo nonostante nel 2016 si votasse in un solo giorno. Forse non è un caso: mai come in questa occasione un tipo di elezione tradizionalmente molto sentita nel Paese dei mille campanili è passata quasi inosservata. Il confronto con cinque anni fa è impietoso: pensiamo al vivacissimo confronto del 2016 a Milano tra Beppe Sala e Stefano Parisi. Oppure al desiderio di rinnovamento (mal riposto) che ha portato al potere Chiara Appendino a Torino e Virginia Raggi a Roma. O ancora al ritorno allo spirito “descamisado” che ha incoronato come nuovo Masaniello Luigi De Magistris a Napoli. Nulla di tutto questo si è ripetuto nel 2021. E non per caso. La gente giudica: in alcune di queste città la palese mancanza di esperienza e capacità ci ha fatto assistere ad anni di governo confuso e inconcludente. Un sindaco e un amministratore locale devono decidere su problemi spesso più complessi di quelli che deve affrontare un ministro. È lo stesso errore che si è fatto in questi decenni per scegliere dall’alto parlamentari, addirittura sottosegretari o ministri che hanno poi mostrato tutta la loro incompetenza. C’è da stupirsi che sia mancato il dibattito sul futuro delle città, in un momento in cui, al contrario, il Paese ha imboccato una chiara direzione verso la ripresa economica, il rinnovamento e - speriamo - l’uscita dalla devastante pandemia da Covid-19. In una città, come cambieranno, per esempio, le abitazioni, le attività produttive, i servizi di ristorazione, in una situazione in cui lo smart working sta modificando le abitudini quotidiane? Come ripensare produzione, consumi e stili di vita nella transizione ecologica? Come riprogettare i trasporti pubblici e privati? Come rendere le città più vivibili? Come configurare le attività socio-assistenziali a fronte di una popolazione sempre più anziana e vulnerabile? Come perseguire, al di là del colore politico, una collaborazione tra pubblico, privato e privato sociale? E come immaginare una seria lotta alle diseguaglianze e alla povertà? Come impiegare, infine, in modo proficuo gli ingenti investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)? Queste e altre domande dovrebbero riportarci verso il punto centrale. Le elezioni amministrative servono per scegliere persone capaci di amministrate una città. Che significa trovare un giusto equilibrio fra le risorse a disposizione e gli obiettivi da perseguire. I sindaci, infatti, dispongono della leva fiscale, costituita da tributi locali, come le addizionali sull’Irpef di tutti i residenti, l’Imu sulle case e altri tributi. I Comuni, specie quelli maggiori, dispongono di notevoli patrimoni immobiliari e di società di servizi che sono spesso dei veri colossi nel fornire trasporti, energia, infrastrutture. I sindaci, quindi, dovrebbero avere un progetto di sviluppo per le città. Per attirare attività produttive. Per far crescere l’istruzione, la formazione, la sanità e favorire la natalità, in un Paese in cui la mancanza di figli è ormai un’emergenza. Molti dei confronti in campagna elettorale, invece, sono scivolati su temi nazionali, in una sorta di prova generale delle future elezioni politiche. Non sorprende, allora, che gli elettori abbiano disertato le urne. L’unico antidoto è un ritorno a una vera politica sussidiaria che nasca dal dialogo con le persone, le associazioni, i movimenti, ben rappresentati dal Terzo settore. Speriamo che a questo punto i sindaci e i consiglieri comunali eletti rilancino questo dibattito non solo negli organi istituzionali, ma anche con tutti i corpi intermedi. Ultima nota. Un motivo di speranza sono invece i molti giovani che si sono presentati e in certi casi sono stati eletti. Una linfa vitale che potrà dare i suoi frutti con il tempo. A condizione che non abbiano scelto il loro partito solo perché il leader ha dato loro spazio o “è simpatico”. Mi auguro che tutti abbiano fatto lo sforzo di guardarsi dentro per capire, nel merito, quali valori e quali prospettive sentono propri. Per storia, per convinzione, per le esperienze che hanno fatto nella vita. Difficilmente, se questo non è avvenuto, anche il più entusiasta rimarrà deluso dalla politica. Dopo aver “rimbalzato” come utile pedina da un incarico all’altro. Referendum per l’eutanasia legale: oggi in Cassazione 1,2 milioni di firme di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 ottobre 2021 Ricordiamoci questi numeri: 1 milione 221 mila, 13 mila, 3 mila, 6 mila, mille. In un Paese dove il 52% degli elettori non si è preso la briga di recarsi fino al seggio per eleggere il proprio sindaco, questa mattina verranno depositate presso la Corte di Cassazione, a Roma, 1.221.000 firme a supporto del referendum per la legalizzazione dell’eutanasia, pratica disponibile in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera (qui solo in forma di suicidio assistito), e autorizzata in Colombia, Canada, Uruguay e in cinque Stati Usa. Non dei “semplici” click su una piattaforma online, e per nulla affatto il frutto di una cultura nichilista (o “cultura dello scarto”, per usare le parole di Papa Bergoglio). Al contrario: di questa valanga di sottoscrizioni al quesito referendario per l’abrogazione parziale del reato di omicidio del consenziente, più di 800 mila firme sono state raccolte con il metodo tradizionale, grazie all’impegno di oltre 13 mila volontari e quasi 3 mila autenticatori, che in oltre mille Comuni hanno allestito 6 mila tavoli di raccolta. E grazie alla convinzione dei cittadini che in molti casi hanno fatto di tutto per raggiungere i banchetti e firmare. Una risposta di partecipazione che neppure i promotori si aspettavano, quando alla fine di giugno decisero di buttarsi in una sfida che poteva sembrare impossibile a chi non aveva il polso della società reale: raccogliere 500 mila firme nei tre mesi estivi (con la pandemia non ancora alle spalle) facendo così lo slalom tra scadenze politiche e istituzionali, e tentare di fissare la data del referendum nella primavera 2022. “È il primo referendum sul quale si depositano le firme dopo dieci anni”, fa sapere l’Associazione Luca Coscioni che questa mattina si ritroverà al completo in piazza Cavour e con le decine di organizzazioni, sindacati e partiti del comitato promotore, prima di trasferirsi a Palazzo Brancaccio per il suo XVIII Congresso nazionale dal titolo: “Attiviamo la democrazia”. Quella partecipativa, al momento, perché il parlamento ancora ristagna nella propria inerzia malgrado la Corte Costituzionale nel 2019 - dopo un anno atteso invano - sia intervenuta a depenalizzare l’aiuto al suicidio di persone capaci di intendere e volere affette da patologie irreversibili, “sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Ssn, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Due anni dopo quella sentenza, il testo di legge che modifica l’articolo 580 c.p. e norma così l’aiuto al suicidio è ancora all’esame delle commissioni Giustizia e Affari sociali dove mercoledì prossimo si voteranno le proposte emendative. Poi, spiega il deputato M5S Mario Perantoni, “il 25 ottobre l’aula della Camera, come stabilito dalla conferenza dei capigruppo, inizierà la discussione delle norme sul fine vita”. Secondo il presidente della commissione Giustizia, “l’impegno del fronte referendario è molto importante per la crescita della mobilitazione e della consapevolezza popolare rispetto a questo tema”. Anche se, assicura, “l’impegno del parlamento porterà ad un significativo ammodernamento della legislazione in materia andando incontro agli orientamenti della Consulta e al sentire dell’opinione pubblica”. La sanatoria è un mezzo flop, 127mila migranti nel limbo per motivi burocratici di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 ottobre 2021 Ancora senza risposta più della metà delle oltre 200mila domande di regolarizzazione. Le cause: iter troppo complesso, personale aggiuntivo di prefetture e questure assunto tardi e precario. Ma i problemi sono anche a monte: i provvedimenti straordinari non bastano, servono meccanismi di emersione permanenti. Demba è nato in Senegal, ma da 18 anni vive in Italia. Ha sempre lavorato, ma non ha mai avuto un permesso di soggiorno. “Stavolta speravo di farcela. Da quando sono arrivato non sono potuto tornare a casa. I miei due figli ormai sono grandi”, racconta. Quattordici mesi dopo la chiusura della sanatoria 2020 Demba non ha saputo nulla della sua richiesta di regolarizzazione. Non è un caso isolato: finora il 58,5% delle domande non hanno avuto risposta. I dati più aggiornati li ha forniti mercoledì scorso il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto (Iv), rispondendo al question time del deputato Riccardo Magi (+Europa). Delle 207.870 richieste di emersione presentate dai datori di lavoro in prefettura 68.147 hanno avuto esito positivo (32,7%), 10.757 sono state rifiutate, 1.973 sono terminate per rinuncia. Le altre restano in attesa. Migliore il dato relativo all’auto-emersione chiesta dai lavoratori in questura: di 11.218 pratiche ne sono state evase 10.098. Perché a oltre un anno dalla fine della regolarizzazione Demba e altri 127.112 cittadini stranieri non sanno cosa accadrà loro? Due le ragioni: le modalità di reclutamento dei lavoratori destinati a smaltire le pratiche; la complessità burocratica dell’iter. Secondo Scalfarotto hanno pesato, soprattutto all’inizio, la difficoltà a individuare un’agenzia interinale che fornisse il personale di supporto agli sportelli unici, l’intreccio delle competenze tra amministrazioni diverse (prefetture, questure, ispettorati del lavoro, Inps), l’impossibilità di gestione solo telematica, l’effetto della pandemia sugli appuntamenti in presenza. Una motivazione, quest’ultima, paradossale per una misura nata per rispondere all’impatto dell’emergenza sanitaria in alcuni settori del mercato del lavoro. “C’è un problema generale su come lo Stato concepisce il lavoro intorno ai migranti, sia per la sanatoria che per il diritto d’asilo - afferma Davide Franceschin, segretario nazionale Nidil Cgil - Il governo si appoggia sui contratti di somministrazione, usa i precari per un fenomeno strutturale”. Per potenziare gli sportelli unici nella gestione delle domande di emersione sono stati assunti con contratti di sei mesi 800 lavoratori destinati alle prefetture attraverso Manpower e 700 per le questure via Gi Group. Nella selezione sono state richieste esperienze in ambito amministrativo, ma non era necessaria la conoscenza del diritto dell’immigrazione. Nonostante queste assunzioni fossero già previste dall’articolo 130 del decreto legge 34 di maggio 2020, che ha introdotto la sanatoria, gli interinali sono arrivati in due tranche: a marzo e aprile 2021. In 37 sportelli unici le istanze lavorate dopo il loro ingresso oscillano tra il 70 e il 90%. “Il mio contratto scadeva il 21 settembre. Il giorno prima è stato prorogato al 31 dicembre. A quella data le pratiche non saranno concluse ma intanto ci lasciano nel limbo, senza dirci cosa accadrà tra tre mesi”, afferma Ornella Ordituro, interinale nella prefettura di Milano ed ex lavoratrice di centri di prima accoglienza e Sprar a Trieste. Oltre ai ritardi delle assunzioni e alla precarietà del personale è l’iter burocratico l’altra ragione del flop. I documenti richiesti sono troppi e alcuni difficili da trovare, soprattutto in pandemia (come l’idoneità alloggiativa). A ogni “carenza documentale” c’è uno stop and go che richiede anche un mese. E mentre il tempo passa le cose cambiano: al 6 agosto, secondo i dati disaggregati della campagna Ero straniero, 35.868 permessi di soggiorno su 49.374 (il 72%) richiesti dai datori di lavoro erano stati rilasciati per attesa occupazione. In pratica il rapporto di impiego è finito prima della procedura di emersione. Anche Demba ad aprile ha perso il lavoro da colf. “Avrei diritto alla Naspi [indennità di disoccupazione, ndr] ma senza codice fiscale non posso ottenerla e senza permesso non posso avere il codice. Spero almeno non ci siano problemi con la ex datrice di lavoro il giorno della convocazione in prefettura. Perderei tutto”, dice. Per l’avvocato Asgi Salvatore Fachile il numero ridotto di domande pervenute (la platea potenziale era stimata in 600mila persone) e i tempi lunghissimi mostrano che la sanatoria ha fallito: “È un format vecchio, rivelatosi inefficace già in passato. Centinaia di migliaia di migranti senza permesso di soggiorno continuano a lavorare in nero: è indispensabile fare una scelta che consenta la loro regolarizzazione”. Possibilità ce ne sono diverse, accomunate dall’idea di superare i provvedimenti spot. “Servono meccanismi permanenti e costanti di regolarizzazione su base individuale”, ha detto Magi al question time. Feroce caccia ai migranti al confine Ue. Questi mastini siamo noi? di Marina Corradi Avvenire, 8 ottobre 2021 Certi giorni, questo mondo in cui viviamo pare strano. Intendo questo nostro mondo, questo Occidente. A guardare i tg certe sere sembriamo gente sempre più evoluta, più attenta ai diritti di donne, e neri, e omosessuali, a ogni minoranza, sensibile anche all’ecologia del pianeta. Gente insomma che coltiva il rispetto di sé e dell’altro, e a scuola insegna ai figli a ricordare ed esecrare - in prestabilite, dedicate giornate - ogni persecuzione e violenza della storia. Poi una mattina guardi sul web le immagini del reportage di Lighthouse, organizzazione giornalistica indipendente, dalla frontiera fra Bosnia e Croazia. Un bosco fitto, un fiume, ombre fra il fogliame. Uomini in divisa scura, senza scritte, il volto coperto, brandiscono il manganello in dotazione alla polizia regolare croata. Passi di corsa, tonfi, un lamento. Urla di sottofondo, un coro da girone d’inferno. Uomini, infine, inseguiti, bastonati, la schiena marchiata dai colpi. Picchiati, si direbbe, con gusto dai vigilantes in nero, ricacciati giù, oltre il fiume, oltre il confine - là dove, intrusi, sotto-uomini, devono restare. Lighthouse sostiene di poter dimostrare che le milizie-ombra che proteggono i confini dell’Unione fanno capo ai governi dei Paesi coinvolti e a Frontex, cioè all’Europa. Cioè che, in sostanza, quei tipi con i manganelli li pagheremmo noi. Non è la prima volta che l’attività giornalistica di Border violence monitoring, controllo della violenza sui confini, fotografa in Croazia e altrove gravi maltrattamenti. Avvenire, che giovedì ha lanciato quel video-atto d’accusa sul suo sito con un articolo di Nello Scavo, aveva già mostrato il respingimento violento di una famiglia con bambini, in Croazia. Ma diverso è pensare all’iniziativa isolata di un comando di un posto di frontiera, da un’operazione finanziata e preparata nell’ombra. Con portamento da squadre militarmente addestrate, ma divise anonime. Mastini a guardia delle nostre mura: ma noi, educati, corretti, di vivere dentro a una tale fortezza lo sappiamo? Torni a guardare la selva oscura e i pestaggi, al confine dell’Europa. Ce ne vengono, da colleghi coraggiosi, dei flash, che non arrivano a essere scelti in genere per l’apertura dei telegiornali. La Border violence monitoring non eccita i social, non fa salire l’audience. Non ‘buca’ l’opinione pubblica. Nemmeno se si provasse che a finanziare i respingimenti violenti, alla fine, siamo tutti noi? Davvero, certi giorni ti pare di vivere in un mondo strano. Siamo diventati - a parole almeno - così corretti, così rispettosi di tutti e di ognuno. C’è tutto un lessico occidentale profondamente ‘giusto’ che ci sta addosso, obbligatorio, e osservando il quale forse ci sentiamo più buoni. Tuttavia, stranamente, pur così moderni e democratici non sentiamo altre parole, non vediamo altre facce, anche se passano sul web. Non ascoltiamo quei gemiti come di animali bastonati lungo un fiume, non pensiamo che quei padri e madri e figli dall’altra parte sono persone, esattamente come noi. Un po’ ci siamo commossi, è vero, per i bambini afghani fatti passare oltre il filo spinato all’aeroporto di Kabul. Tanti però, tra coloro che quel muro non l’hanno superato, arriveranno allo stesso fiume tra la Bosnia e la Croazia: e allora non saranno più perseguitati o profughi, ma solo ‘clandestini’ - da fermare, in ogni modo. Guardi le schiene segnate dalle legnate, pensi a quanto freddo deve fare già ora nei boschi della Bosnia, di notte - pensi a chi stringe fra le braccia un bambino. Come mai, ti domandi, ai nostri figli a scuola insegniamo a deprecare solo il male del passato? Non è forse più facile, condannare ciò che i nostri padri hanno fatto, non ciò che noi facciamo o lasciamo fare? Mostriamo nelle scuole queste feroci immagini dal confine croato. Che affiori in noi almeno un dubbio: viviamo corretti, beneducati, e intanto siamo come dentro a una fortezza sorvegliata da mastini. Ce ne rendiamo conto? Al di qua siamo uomini - al di là, pare, no. Tunisia. La finta democrazia del presidente di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 ottobre 2021 Continua a dichiararsi coerente interprete dello spirito della “primavera” di dieci anni fa, ma mette a tacere i media ostili. Continua a dichiararsi il coerente interprete dello spirito democratico della “primavera tunisina” di dieci anni fa, ma, alla prova dei fatti, il presidente Kais Saied si rivela l’opposto: un autoritario insofferente di ogni critica che mini il suo potere sempre più assoluto. Sono trascorsi due mesi e mezzo dal suo colpo di Stato del 25 luglio. Allora dichiarò che il licenziamento del premier, il blocco dell’esecutivo e il congelamento del parlamento, sarebbero state misure soltanto “temporanee mirate a porre fine alla corruzione e alla degenerazione dei partiti”. L’esercito si schierò al suo fianco. E le piazze non reagirono. Fiaccata dalla crisi economica, stanca di parlamentarismo inconcludente, delusa dagli scandali che avevano minato le formazioni politiche più importanti tra cui lo stesso partito Ennahda dei Fratelli Musulmani, la popolazione parve in larga parte diposta a rinunciare alle libertà democratiche conquistate nel 2011 pur di garantire a un uomo “pulito”, quale indubbiamente appariva Saied, di voltare pagina e rimettere ordine. Ma i mali della democrazia non si curano con il suo annullamento. Saied sembra ora prendere gusto a governare per decreti e ricorrere al pugno di ferro contro gli oppositori. L’assenza delle libertà sta diventando permanente. La dittatura prende piede. Tanti intellettuali, che nel 2011 erano sulle barricate contro Zine al-Abidine Ben Ali, oggi sono disposti a “turarsi il naso” per schierarsi con la laicità garantita dal presidente. A dire il vero, qualcuno comincia ad alzare la testa. A Tunisi e nelle città principali si sono svolte piccole manifestazioni di protesta, dopo che il 22 settembre Saied aveva promulgato il decreto numero 117, in cui sosteneva che il “suo” capo di governo era semplicemente un “assistente” del presidente. La nomina a premier della docente universitaria Najla Bouden Ramadan - una perfetta sconosciuta al grande pubblico, il cui merito maggiore pare sia quello di essere amica della moglie del presidente - ha fomentato malumori. Saied ha risposto organizzando cortei in proprio sostegno il 3 ottobre, ma soprattutto perseguitando i media ostili. Negli ultimi giorni la polizia ha chiuso la televisione Zitouna, legata a Ennahda. Un suo presentatore, Ameur Ayed, è finito in carcere con l’accusa di “complottare ai danni della sicurezza dello Stato”. Formalmente l’imputazione contro l’emittente è che non risulta registrata. Ma appare difficile nascondere il movente politico. Misure simili colpiscono Hannibal e Nessma, due altre tv vicine al fronte religioso. La cappa della censura imbavaglia ormai quello che era uno dei Paesi più vivaci del mondo arabo. Negli Usa i giudici ordinano: condizioni migliori per i reclusi di Valerio Fioravanti Il Riformista, 8 ottobre 2021 Nella settimana in cui Nessuno tocchi Caino riporta l’attenzione sul caso Papalia (vedi sopra), gli Stati Uniti prendono atto che un regime penitenziario troppo duro è iniquo e controproducente, anche per i detenuti nel braccio della morte. Di là dall’oceano un detenuto, anche il peggiore, anche Caino, se si rivolge a un giudice ha qualche speranza di essere ascoltato. Eppure, a differenza di un giudice italiano, la cui “autonomia e indipendenza” è addirittura scritta nella Costituzione, negli Stati Uniti il giudice è “politicizzato”. Quando, in inglese, cerchi informazioni su un giudice statunitense, il primo risultato che ti dà Google è sempre una pagina di “Ballotpedia”, a cui ne segue una di “Wikipedia”. Ballot in inglese significa voto, e Ballotpedia è una strepitosa fonte dove sono riportate senza omissioni le biografie di tutte le persone che negli Stati Uniti ricoprono un incarico per il quale sono stati eletti, oppure nominati da qualcuno che a sua volta è stato eletto e che quindi deve rispondere agli elettori delle nomine che ha effettuato. Entrambe le “enciclopedie” ti dicono a quale schieramento politico appartiene un giudice. Alcuni si sottraggono, e si autodefiniscono “Non partisan”, ma basta leggere due righe più sotto e le “enciclopedie” ti dicono quale politico (Presidente per i giudici federali, Governatore per quelli dei singoli stati) ha effettuato la nomina, e si capisce la loro collocazione. Una volta esplicitata la loro, come dire, “inclinazione politica”, i giudici americani sanno però dimostrarsi indipendenti. Recentemente una serie di giudici federali ha “ordinato” a diversi Stati di migliorare le condizioni di detenzione nei bracci della morte. Ultima in ordine di tempo è stata la giudice Shelly Dick, in Louisiana. Nel marzo 2017 un gruppo di avvocati, supportati da importanti organizzazioni per i diritti civili, aveva iniziato una causa contro “il disumano isolamento in celle minuscole” che veniva applicato “in automatico” a tutti i detenuti del braccio della morte. Il 29 settembre la giudice federale ha ratificato l’accordo che gli avvocati difensori avevano raggiunto con l’Amministrazione Penitenziaria: non più isolamento, ma la possibilità di consumare almeno 2 pasti giornalieri in compagnia, possibilità di riunirsi fino a 16 persone 2 ore al mattino e 2 ore al pomeriggio, almeno cinque ore di attività ricreative all’aperto ogni settimana con altri detenuti. Anche le funzioni religiose potranno essere seguite in gruppo, e lezioni. Prima di questi cambiamenti i detenuti potevano andare all’aperto da soli, in una “piccola gabbia all’aperto simile a un recinto per cani”. Potevano lasciare le loro celle, uno alla volta, per un’ora al giorno, per fare la doccia, telefonare, e camminare in un corridoio. Tali condizioni protratte per anni, hanno sostenuto gli avvocati, hanno messo a repentaglio la salute fisica e mentale dei detenuti. Una degli avvocati, Betsy Ginsberg, che è anche direttrice di una prestigiosa Ong basata nella Yeshiva University di New York, ha aggiunto un dettaglio: “I detenuti hanno chiesto una cosa a cui probabilmente gli avvocati non avrebbero mai pensato da soli”. L’accordo sancisce uno spostamento della recinzione del cortile di passeggio affinché sia inclusa una striscia di circa 90 metri quadrati di “erba”. “Una delle cose che abbiamo sentito più e più volte, una delle cose che volevano davvero era toccare l’erba, sentirla sotto i piedi”, ha detto Ginsberg. Cause simili a quella della Louisiana hanno avuto successo anche in altri stati. Un giudice federale della Pennsylvania ha imposto cambiamenti nell’aprile 2020, cosa come, nello stesso mese, ha fatto un giudice federale della Carolina del Sud. Qui il braccio della morte è stato spostato in una nuova prigione per dare modo ai detenuti di avere un lavoro e di mangiare e pregare insieme per la prima volta dopo decenni di prassi dell’“isolamento automatico”. Identico percorso in Virginia e in Missouri. La Florida è sulla stessa strada, con un giudice federale che ha riconosciuto l’incostituzionalità di un regime carcerario che non solo non mira a nessuna forma di rieducazione, ma addirittura, secondo tutti gli esperti consultati, peggiora le condizioni sia fisiche che mentali del detenuto. Negli Usa i giudici usano il loro prestigio per imporre quelle modifiche “garantiste” che la politica, per non perdere voti, non vuol fare. In Italia, quanti giudici usano allo stesso modo la loro “autonomia e indipendenza”? Stati Uniti. Guantanámo, le torture e i segreti di Michele Paris altrenotizie.org, 8 ottobre 2021 Dopo quasi due decenni di abusi, torture e detenzione in stato di isolamento, l’ex sospettato di terrorismo Abu Zubaydah continua a essere rinchiuso arbitrariamente dal governo americano nel lager di Guantánamo. Il suo caso è oggetto di un procedimento legale transnazionale, in questi giorni all’attenzione della Corte Suprema degli Stati Uniti, che sta sollevando questioni spinosissime e imbarazzanti per Washington, a cominciare dall’assunzione di responsabilità per i metodi brutali e totalmente illegali con cui nella prima fase della “guerra al terrore” erano stati trattati i detenuti sospettati di appartenere ad al-Qaeda. La causa in corso fa riferimento a una denuncia presentata dai legali di Zubaydah in Polonia contro i funzionari del governo e dei servizi di sicurezza di Varsavia, responsabili di avere collaborato con la CIA nella “tortura e detenzione illegale” che ha dovuto subire in una località “segreta” del paese dell’Europa orientale dopo il suo arresto in Pakistan nel 2002. L’ormai 50enne di origine palestinese ha chiesto al governo americano informazioni sul luogo in cui era stato per qualche tempo rinchiuso in territorio polacco, nonché la testimonianza di due ex “contractor” della CIA, gli psicologi James Mitchell e John Bruce Jessen. Questi ultimi, tuttora a piede libero, avevano stilato un elenco di metodi di tortura - o “interrogatori potenziati” - appositamente per Zubaydah, di fatto il primo prigioniero sottoposto a questo trattamento dopo l’11 settembre. Gli USA hanno respinto e continuano a respingere qualsiasi richiesta di informazioni sulla vicenda, appellandosi come di consueto al cosiddetto “privilegio del segreto di stato”, una dottrina senza fondamento costituzionale che prevede il silenzio del governo quando in ballo ci sono questioni presumibilmente legate alla “sicurezza nazionale”. In questa circostanza, l’invocazione del segreto di stato e degli imperativi della sicurezza nazionale appare particolarmente insensata. Le informazioni sul caso di Abu Zubaydah sono in buona parte e da tempo di dominio pubblico, essendo state oggetto anche di sentenze e di indagini ufficiali. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, a cui si erano rivolti i legali del detenuto nell’ambito della causa polacca, nel 2014 aveva ad esempio stabilito che nei suoi confronti erano stati usati metodi di tortura e ciò era avvenuto nei cosiddetti “black site” della CIA, tra cui uno appunto in Polonia. Questi stessi dettagli erano stati ampiamente riportati dalla stampa ufficiale negli anni scorsi e addirittura ne aveva parlato il rapporto del Senato USA sulle torture della CIA, pubblicato in forma ridotta nel 2014. Il rapporto rivelava anche che la CIA aveva alla fine concluso che Zubaydah non era un membro di al-Qaeda. Il vero nome del prigioniero di Guantanamo è Zayn al-Abidin Muhammad Husayn e il suo arresto in Pakistan nel 2002 era stato celebrato dalla CIA come un successo perché sospettato di essere un collaboratore di primissimo piano del leader e fondatore di al-Qaeda, Osama bin Laden. Prima di essere trasferito a Guantanamo, Zubaydah è rimasto sotto custodia della CIA per quattro anni, passando attraverso varie località segrete. Durante la detenzione vennero impiegati svariati metodi di tortura. A un certo punto, nel corso di un solo mese fu sottoposto per 83 volte a “waterboarding”, mentre in un’altra occasione venne obbligato a restare immobilizzato per 11 giorni consecutivi in una cassa delle dimensioni di una bara. Queste e altre torture hanno lasciato segni indelebili sul corpo e la mente di Abu Zubaydah, il quale ha tra l’altro perso un occhio e soffrirebbe di pesanti problemi psichici, aggravati dallo stato di isolamento in cui è rinchiuso a Guantanamo. Nella giornata di mercoledì, un’udienza della Corte Suprema americana è stata dunque dedicata al caso Zubaydah. A parte un breve intervento del giudice “liberal” Stephen Breyer, che ha chiesto al procuratore del governo la ragione per cui Zubaydah rimanga a Guantanamo dopo 15 anni e senza essere mai stato formalmente accusato di nessun crimine, il dibattimento ha in larga misura sorvolato sulla sua situazione. In discussione c’era invece l’eventualità che i due psicologi che collaborarono con la CIA nelle torture testimoniassero nel processo in corso, con i rappresentanti dell’amministrazione Biden decisi ad affermare la tesi del segreto di stato e la maggioranza dei giudici sostanzialmente favorevole a questa interpretazione. Alcuni membri della Corte hanno ipotizzato che lo stesso Zubaydah possa testimoniare sul trattamento ricevuto dalla CIA, in modo da aggirare l’ostacolo rappresentato dagli scrupoli del governo circa le questioni di “sicurezza nazionale”. I legali del detenuto hanno tuttavia spiegato che la sua testimonianza non sarebbe consentita dalle condizioni di detenzione che gli vengono imposte. Il procuratore del dipartimento di Giustizia non ha invece saputo esprimere un’opinione sulla proposta dei giudici e ha rimandato la risposta del governo, presumibilmente in seguito a consultazioni con i propri superiori. L’aspetto più eclatante dell’udienza di questa settimana alla Corte Suprema è rappresentato dalla continuità della condotta dell’amministrazione Biden rispetto alla questione delle torture nel quadro della “guerra al terrore”. Se Bush jr. è responsabile direttamente dell’implementazione di questi metodi contro i sospettati di terrorismo, tutti i suoi successori si sono impegnati allo stremo per evitare che i responsabili degli orrori commessi dopo l’11 settembre fossero chiamati a rendere conto dei loro atti davanti alla giustizia. Trump, addirittura, arrivò a nominare direttore della CIA Gina Haspel, implicata nelle torture praticate nei “black site” dell’agenzia e responsabile della distruzione delle registrazioni di questi “interrogatori potenziati”. L’attuale presidente democratico, da parte sua, intende continuare a opporre alle richieste di giustizia una dottrina pseudo-legale che i governi di Washington da decenni utilizzano arbitrariamente per mantenere il segreto su crimini e questioni scomode che minacciano di screditare o destabilizzare il sistema di potere americano. L’impegno in questo senso della Casa Bianca è particolarmente sentito nel caso Zubaydah, perché quest’ultimo potrebbe fissare un precedente nella gestione dei risvolti legali della “guerra al terrore”. Una fonte coinvolta nel procedimento ha spiegato alla testata on-line Middle East Eye che la vicenda Zubaydah, assieme a un altro caso che la Corte Suprema affronterà a breve (“FBI contro Fazaga”), potrebbe risultare decisiva per stabilire “la facoltà del governo di nascondere al pubblico qualsiasi informazione relativa a violazioni dei diritti di cui si è macchiato”. “Se la Corte Suprema”, scrive il sito, “dovesse decidere che il governo può mettere fine al procedimento legale con una dichiarazione unilaterale di segretezza”, ci si ritroverebbe in una “situazione molto pericolosa per il diritto”, col rischio che venga meno l’obbligo del governo di garantire un meccanismo legale per ricorsi e risarcimenti derivanti da “gravi violazioni dei diritti umani”. La sentenza della Corte Suprema sul caso Zubaydah è prevista entro la fine del prossimo mese di giugno. Russia. Omicidio Politkovskaja, dopo 15 anni il caso resta senza giustizia di Anna Zafesova La Stampa, 8 ottobre 2021 Prescritto il caso dell’assassinio della giornalista anti-Putin: nessun mandante. Quattro spari nel petto e uno, di controllo, in testa, nel centro di Mosca, nel giorno del compleanno del presidente: quindici anni fa, quella di Anna Politkovskaja è stata una morte che ha scosso tutto il mondo, forse il primo omicidio politico clamoroso della Russia putiniana, sicuramente quello che ha inaugurato una nuova era di paura, e di attentati a dissidenti e oppositori del Cremlino. Ed è anche il primo a venire archiviato: ieri sono scaduti i termini di prescrizione, e ora il mandante dell’omicidio della giornalista di “Novaya Gazeta” non verrà più indagato o ricercato, e il suo nome potrebbe rimanere sconosciuto al pubblico. Non al Cremlino, ha accusato ieri il vicedirettore della “Novaya Gazeta”: “La leadership politica russa conosce il suo nome, ma non ha mai ritenuto politicamente opportuno rivelarlo. E il mandante è convinto di non correre alcun rischio”, sostiene Sergey Sokolov, che ha firmato insieme ai suoi colleghi una videoinchiesta pubblicata su YouTube, “Come hanno ucciso Anna”. Il giornale - ultima delle testate critiche russe a non essere ancora stata chiusa o proclamata dal governo “agente straniero” - ha chiesto ufficialmente di riaprire il caso, e di continuare le indagini, per portare sul banco degli imputati non soltanto il killer Rustam Makhmudov - che attualmente sta scontando l’ergastolo - e quattro suoi complici, ma il potente che ha ordinato di uccidere la giornalista. Una richiesta sostenuta anche dall’Unione Europea e dalla Casa Bianca, che nell’anniversario della morte di Politkovskaja hanno ribadito la necessità di proseguire le indagini, e inviato i loro diplomatici a Mosca a piantare tulipani in sua memoria, insieme ai suoi figli Vera e Ilya e ai suoi colleghi. Che ieri hanno rivelato alcuni dei particolari dell’indagine parallela che non hanno mai smesso di svolgere. Con piste che portano nel Caucaso - da dove Politkovskaja aveva inviato i suoi reportage più coraggiosi - ma anche a Mosca, tra killer ceceni che avevano strane complicità con i servizi segreti russi, evidenti tentativi di coprire gli indiziati e altrettanto palesi indicazioni di incriminare per l’omicidio l’oligarca esiliato Boris Berezovsky, mentre la giornalista che nei mesi precedenti all’attentato veniva pedinata non soltanto dai poliziotti moscoviti collusi con gli assassini, ma anche dai servizi segreti Fsb, che non potevano non essersi accorti della presenza dei loro “concorrenti”. Le domande restano molto più numerose delle risposte, ma il portavoce della presidenza Dmitry Peskov ha dichiarato ieri che Putin “non commenta né vuole commentare il lavoro degli inquirenti”, pur augurandosi che tutti i responsabili dell’omicidio rispondano davanti alla giustizia, “anche tra molti anni”. Per poter rispondere però ci vorrebbe una decisione del tribunale per prorogare il termine di prescrizione, ma i giornalisti di “Novaya Gazeta” sostengono che “nessuno ha mai voluto cercare il mandante, fin dal primo giorno”. L’omicidio, che quindici anni fa aveva messo in imbarazzo Mosca - con manifestazioni di protesta durante le visite di Putin in Europa e decine di vie e giardini intitolati ad Anna Politkovskaja in diverse città europee - non aveva però preoccupato particolarmente la leadership russa, con il presidente russo che dichiarò in pubblico che la giornalista era “nota solo in Occidente e quasi sconosciuta in Russia e nessuno aveva interesse a ucciderla”. All’epoca, era sembrato uno scivolone mediatico, come anche le allusioni di molti commentatori vicini al governo a una complicità dei critici di Putin, che avrebbero ordinato l’omicidio di Politkovskaja proprio per gettare un’ombra sul presidente. Quindici anni dopo, il copione si è ripetuto tante altre volte, con Aleksandr Litvinenko, con Boris Nemzov, con Alexey Navalny, solo per citare gli attentati più famosi, in nessuno dei quali è mai stato individuato il colpevole.