Volontariato in carcere? Sostanzialmente siamo considerati buoni, ma incompetenti di Luca Cereda Vita, 7 ottobre 2021 Le istituzioni non riconoscono la formazione e le competenze del Volontariato che opera in carcere. Per la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero “questo è inaccettabile. Un modo per escludere le realtà più innovative del sistema dalla Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario”. Prima della pandemia i volontari negli istituti di pena italiani erano compresi le 10mila e le 15mila persone, formate per entrare negli istituti di pena e autorizzate dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il loro ruolo è risultato - ancora più - significativo durante il Covid. Perché le norme che li ha tenuti fuori per mesi dalle carceri, ha fatto emergere a loro siano “delegate” competenze e ruoli fondamentali per mandare avanti un Istituto di pena: “Nonostante tutto ciò, al Volontariato viene riconosciuta la “bontà”, non la competenza. Un modo per escludere le realtà più innovative del sistema dalla Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario? Questo è inaccettabile”, ammette Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Il sistema-carcere, il sistema dei “no” - “Colpisce infatti l’assenza del Volontariato e di tutto il Terzo Settore dalla nuova Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario, istituita di recente dalla Ministra della Giustizia Cartabia, tanto più oggi che il Codice del Terzo Settore parla abbastanza chiaro in materia e mette sullo stesso piano la Pubblica Amministrazione e il Terzo Settore stesso, pur nella diversità dei ruoli, ovviamente”, ammette Favero. L’operato del volontariato penitenziario assume, sulla base delle esigenze, delle disponibilità numeriche di persone formate, e del contesto carcerario, varie forme: dal sostegno morale e materiale alla persona detenuta, a quello alla famiglia. (Troppo) spesso i volontari sono le uniche figure che accompagnano il detenuto nel suo percorso rieducativo - previsto e richiesto però dall’articolo 27 della Costituzione - rappresentando un aiuto per un reinserimento concreto sociale e lavorativo, un ponte di collegamento che tenta di ricucire lo strappo avvenuto con la società. I volontari inoltre da un lato “comunicano” alla società le criticità di un carcere sempre meno umano, soprattutto in tempo di limitazioni a chi già è limitato. Di queste il virus è concausa, non l’unica ragione. La causa “profonda” è un sistema, quello carcere, dove si dice sempre “no” a qualsiasi richiesta, progetto, idea e solo poi la si valuta. Scontare una pena che sia dignitosa e far sì che tutti i bisogni della popolazione detenuta siano ascoltati è un diritto. Un dovere è che la pena non sia punizione ma rieducazione. Ma i soli che a pieno titolo - non gli unici, beninteso - espletano questi diritti e doveri del carcere solo loro. I volontari: “Questo succede grazie alla loro formazione e competenza. Entrambe non sono state riconosciute dalle istituzioni”, chiosa Favero. Un altro “no preventivo” del sistema-carcere. E queste non sarebbero competenze, ma solo “cose buone”? Oggi c’è una parte consistente di volontariato in carcere che ha competenze molto qualificate, competenza che rafforza in un continuo processo di crescita, che permettono di far aumentare anche la qualità delle proposte di attività nelle carceri: “Basta fare un esempio, la formazione organizzata dalla nostra Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia nel progetto “A scuola di libertà”, un’iniziativa di altissimo livello culturale, una formazione che ha saputo coinvolgere migliaia di studenti di tutta Italia, insegnanti, volontari, operatori della Giustizia, personalità del mondo della cultura e detenuti, in un confronto complesso con vittime, figli di persone detenute, detenuti stessi, le persone che hanno finito di scontare la pena. Il tutto con la forza delle testimonianze, ma anche dello studio e dell’approfondimento. Il tutto organizzato dai volontari”, spiega la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Il Volontariato nell’ambito della Giustizia è tra i pochi soggetti - se non l’unico, a di là di alcuni direttori e direttrici di carceri “illuminati” - in grado di avere idee e avanzare proposte innovative di formazione, di creare iniziative “strutturali” e non progetti spot. “Inoltre nell’ambito dell’informazione e della comunicazione su questi temi, il mondo del Volontariato ha saputo mettere in piedi il “Festival della Comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato in questi anni dentro e fuori dalle carceri. E ancora, chi potrebbe portare più efficacemente, a proposito di vita detentiva, il punto di vista di quei detenuti, ai quali a tutt’oggi non viene riconosciuta nessuna forma di rappresentanza elettiva”? Si chiede Favero. E la riforma del Terzo Settore? Il Volontariato e le realtà del Terzo Settore sono le uniche che quando si parla di carcere, detenuti, riabilitazione sociale e lavorativa del condannato, hanno il coraggio e le conoscenze per non essere astratti nelle loro proposte e nelle azioni. Ecco perché stona la loro esclusione dalla Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario. “Riusciamo in molte carceri, e oggi anche nell’area penale esterna, a rendere “nuova” e interessante una parola sempre considerata vecchia e fuori moda dietro le sbarre, come la rieducazione. Ma visto, la nostra competenza non è riconosciuta” continua Ornella Favero. Questo accade nonostante Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, nella sua recente relazione sulla Casa di reclusione di Padova - che è un esempio tra molti -, parla della necessità che la cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in carcere e chi in esso svolge attività volte a saldare il rapporto con la realtà esterna, si basi, scrive Palma, “da una parte, sul rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico e, dall’altra, sul riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce. Non un apporto subalterno, quest’ultimo, né di minore rilevanza”. Un’analisi quella di Favero amara, ma univoca, dato il riconoscimento delle competenze del Volontariato che opera in carcere, non può arrivare dai - formatissimi - volontari o dagli operatori del Terzo Settore, ma dalle Istituzioni. Più avvezze a dire “no”, e quindi a misconoscere, che ad aprirsi, contaminarsi e rendere migliore un sistema che dovrebbe per antonomasia, e per indicazione costituzionale, rendere migliori coloro che intercetta. Le donne detenute sono più a rischio patologie degli uomini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2021 Al 31 gennaio 2021 le donne costituivano il 4,2% della popolazione carceraria, per un totale di 2.250 unità. Una componente minoritaria, ma in crescita e soprattutto con numeri più elevati degli uomini in termini di patologie. Un dato emerso da uno studio di Rose, un network genere- specifico della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simpse). Parliamo di uno studio ancora in corso, riguardante, appunto, ha affrontato le infezioni da Hiv e da epatite C nelle donne detenute in diverse carceri italiane. In questa occasione, lo studio ha preso in esame cinque istituti penitenziari di quattro diverse regioni, che rappresentavano il 10% della popolazione femminile detenuta. I dati sono ancora preliminari, ma sono i più significativi mai prodotti a livello di popolazione femminile nelle carceri. “Per quanto riguarda l’epatite C, già i dati del ministero della Salute evidenziano come le donne incarcerate avessero il doppio delle probabilità rispetto agli uomini e 14 volte rispetto alla popolazione generale di contrarre l’infezione”, così ha sottolineato la dottoressa Elena Rastrelli, coordinatrice responsabile dello studio e Uoc Medicina Protetta-Malattie Infettive, dell’Ospedale Belcolle Viterbo. In sostanza, le donne rappresentano una popolazione complessa da raggiungere, sparsa su tutto il territorio nazionale e spesso legata a storie di tossicodipendenza e prostituzione. Da novembre 2020, 156 donne detenute sono state iscritte allo studio Rose. Di queste, 89 (il 57%) erano italiane: l’età media era di 41 anni; 28 di loro (il 17,9%) facevano uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Su 134 è stato effettuato uno screening con l’innovativo test salivare per l’Hcv, mentre per le altre è stato fatto per via endovenosa. Ed ecco i dati riscontrati: la siero prevalenza di Hcv riguardava il 20,5%, una cifra leggermente superiore rispetto alla prevalenza riportata nella letteratura internazionale più recente, nonché di due volte superiore rispetto al 10,4% del genere maschile. Inoltre, le donne hanno presentato un’infezione attiva in oltre il 50% dei casi. “La maggior parte delle pazienti risultate positive è stata colta di sorpresa: ciò evidenzia la necessità di un intervento mirato sulla popolazione femminile delle carceri, tanto più che oggi per l’epatite C esistono terapie in grado di eradicare definitivamente il virus in poche settimane e senza effetti collaterali”, ha aggiunto l’infettivologo Vito Fiore, dirigente medico dell’unità operativa struttura complessa Malattie Infettive e Tropicali di Sassari. Altro dato emerso è che su 84 detenuti maschi trattati con il progetto di microeradicazione dell’Hcv, solo 3 erano positivi anche all’Hiv. Tra le donne trattate nell’ambito di questo progetto, invece, quelle positive anche al virus che causa l’Aids erano ben il 25%. Inoltre, se tra gli uomini non vi erano casi di epatite B, tra le donne ben cinque, quindi il 21%, erano portatrici anche di questo virus. In carcere, le donne sono più esposte degli uomini alle coinfezioni. Scarpinato: “Nel 2006 Provenzano parlò dell’ergastolo ostativo!”. Dov’è l’intercettazione? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2021 Il magistrato in commissione Giustizia ha riferito di un summit nel quale “u Tratturi” avrebbe detto di aver avuto garanzie sull’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ci risulta non esserci traccia nei processi trattativa e Mori-Obinu. La settimana scorsa, davanti alla commissione Giustizia della Camera, il magistrato Roberto Scarpinato ha dato una notizia che a noi de Il Dubbio risulta inedita e di grande rilevanza. “Le trattative condotte dai capi detenuti - ha spiegato l’ex capo della procura generale di Palermo -, venivano contemporaneamente seguite con piena condivisione da parte dei capi in libertà nel corso di summit di mafia, ai quali, come risulta da una intercettazione del 2006, partecipava anche Bernardo Provenzano il quale, per un verso, rassicurava tutti sul fatto che bisognava avere pazienza perché la normativa sull’ergastolo ostativo sarebbe stata smantellata così come era stato garantito…”. Si tratterebbe di un’intercettazione clamorosa - Parliamo di una intercettazione clamorosa. Se corrisponde alle esatte parole riportate da Scarpinato (e non abbiamo motivi per dubitarne visto che sono state riferite in un luogo istituzionale), è una prova quasi decisiva dell’avvenuta trattativa. È la prima volta che si sentirebbe parlare, direttamente dalla bocca di un boss di grandissimo calibro, dell’avvenuto patto con lo Stato volto a garantire benefici alla mafia. Il Dubbio è interessato ad avere questa intercettazione, perché mette in discussione la linea editoriale del nostro giornale sul teorema trattativa Stato-mafia. L’intercettazione non risulta essere stata prodotta nei processi - Risulta che però non è mai stata prodotta ai processi sul tema. Uno è ovviamente il processo sulla trattativa Stato-mafia, l’altro è il Mori-Obinu. Parliamo di processi entrambi sostenuti - e persi - dalla pubblica accusa rappresentata proprio dal magistrato Scarpinato. Soprattutto per il Mori-Obinu, una intercettazione di tale portata avrebbe potuto avere effetti devastanti. Parliamo del processo sulla cosiddetta mancata cattura di Provenzano. Secondo l’accusa, nell’ottobre del 1995, pur essendo a un passo dalla cattura del boss corleonese, grazie alle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo, gli ex Ros Mario Mori e Mauro Obinu non fecero scattare il blitz che avrebbe potuto portare all’arresto del capo mafia garantendogli un’impunità che sarebbe durata fino al 2006. Sono stati assolti con formula piena. Eppure, questa intercettazione inedita, segnalata la settimana scorsa da Scarpinato, avrebbe potuto rafforzare l’idea di una presunta impunità garantita a Provenzano. Non solo. L’intercettazione potrebbe cambiare le carte in tavola - Anche per il processo Trattativa questa intercettazione sarebbe stata importante. Il teorema, ora sconfessato dalla sentenza d’Appello, narra che Provenzano, dopo le stragi del ‘92, sarebbe entrato in gioco e avrebbe consentito la cattura di Totò Riina con la complicità degli ex Ros pretendendo, tra l’altro, che il covo del capomafia “venduto” non fosse perquisito. Non c’è alcuna prova, solo ragionamenti che secondo Il Dubbio rasentano il fallimento logico. Ma se, e non si ha motivi di dubitare, esiste una intercettazione del 2006 dove si sente Provenzano dire che lo Stato gli avrebbe garantito lo smantellamento dell’ergastolo ostativo, potrebbero cambiare le carte in tavola. La voce di Provenzano è stata sentita per la prima volta quando fu catturato - L’intercettazione è clamorosa anche per altri due motivi. Uno riguarda la voce di Provenzano. Risulta, almeno secondo il racconto ufficiale, che è stata sentita per la prima volta l’11 aprile del 2006: ovvero quando “Zio Binnu” viene catturato. Nei mesi precedenti alla cattura, gli inquirenti hanno compiuto intercettazioni alla casa della famiglia del padrino. A tradirlo fu la biancheria. Il gruppo guidato da Renato Cortese composto da 27 uomini e una donna, riuscirono a trovare il luogo della latitanza dopo aver seguito un uomo che uscì dalla casa della famiglia di Provenzano e che trasportava della biancheria pulita. Secondo la versione ufficiale, parliamo di un’inchiesta portata avanti non grazie alle rivelazioni dei pentiti o intercettazioni nei confronti del boss mentre partecipava ai summit di mafia, ma con un’attività investigativa “classica”. Parliamo di pedinamenti, oppure di seguire le strade percorse dai famosi “pizzini”, i pezzi di carta con cui il boss - prudentissimo, attentissimo a non usare mai telefoni e cellulari - comunicava con famiglia e affiliati. Anche al momento dell’arresto, Provenzano ne aveva alcuni in tasca. E vicino a lui - sorpreso mentre cucinava della cicoria - la famosa macchina da scrivere utilizzata per impartire ordini. Il termine “ergastolo ostativo” è stato coniato nel 2010 dal giurista Andrea Pugiotto - C’è anche un altro motivo che risulta a dir poco clamoroso. Scarpinato, sempre riferendosi a questa intercettazione del 2006, dice testualmente che Provenzano avrebbe appunto parlato di “ergastolo ostativo”. Un motivo in più per poter leggere queste intercettazioni. Sì, perché in quel periodo, nemmeno i giudici e avvocati conoscevano il termine di “ergastolo ostativo”. Non compare in nessuna norma, ma è un’espressione coniata dalla dottrina a partire dal 2010, primo tra tutti dal giurista Andrea Pugiotto grazie ai saggi sull’argomento. Per essere ancora più precisi, ci viene in aiuto l’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci. A Il Dubbio racconta che fino a meno di dieci anni fa, nessun detenuto condannato all’ergastolo per reati di mafia si era reso conto cosa prevedesse tale norma, nata dopo la strage di Capaci. Nessuno di loro lo sapeva perché ancora non avevano maturato i termini. Ma quando gli arrestati di quel periodo hanno cominciato a maturare 20/25/30 anni e più di carcere, si sono scontrati con l’ostatività dei loro reati. Uno dei primi a rilevare la criticità dell’ergastolo ostativo è stato il presidente del tribunale di Sorveglianza di Perugia - Uno dei primi tribunali di Sorveglianza che ne parlò è stato quello di Perugia, presieduto da Paolo Canevelli, il quale in un intervento al Convegno carceri del 2010 disse: “Per finire, e qui mi allaccio al progetto di riforma del Codice Penale, non so se i tempi sono maturi, ma anche una riflessione sull’ergastolo forse bisogna pur farla, perché l’ergastolo è vero che ha all’interno dell’Ordinamento dei correttivi possibili con le misure come la liberazione condizionale, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l’ergastolo tutti per reati ostativi e sono praticamente persone condannate a morire in carcere”. L’intercettazione andrebbe messa a disposizione dei politici che stanno modificando la legge sull’ergastolo ostativo - Ora però cambia la storia. Esiste una intercettazione, almeno secondo quanto ha riferito il magistrato Scarpinato in commissione Giustizia, dove Provenzano avrebbe coniato il termine “ergastolo ostativo”. Nel 2006 non lo conoscevano i giudici, gli avvocati e nemmeno i detenuti stessi ristretti nelle carceri. Il boss detto anche “‘u Tratturi” (il trattore), risulterebbe quindi un fine conoscitore della dottrina. Ha coniato il termine anni prima dei giuristi. A questo punto, le intercettazioni, se non sono state prodotte in commissione Giustizia, bisognerebbe farlo. Sono parole clamorose, se letterali così come riportate da Scarpinato. L’intercettazione andrebbe fatta leggere e messa a disposizione soprattutto dei politici che stanno elaborando una nuova legge sull’ergastolo secondo quanto indicato dalla Consulta. C’è chi - come soprattutto il M5S - vuole restaurare l’ergastolo ostativo, soprattutto sulla base di racconti di questo tipo. Ergastolo, la pena finisce se finisce la colpa di Ferdinando Camon La Stampa, 7 ottobre 2021 Ho uno scambio epistolare con un condannato all’ergastolo ostativo, il quale naturalmente chiede che la sua pena finisca e lui possa uscire di prigione. Ha moglie e figli, e quando i figli lo vanno a trovare gli chiedono: “Papà, ma perché lo Stato è così cattivo con te?”. Uno scambio di messaggi con un ergastolano non è tecnicamente facile, perché deve passare per un’interposta persona, comunque credo che lui abbia compreso come la penso io e io come la pensa lui. Lui si mette insieme con tutti coloro, e non sono pochi, i quali pensano semplicemente che l’ergastolo ostativo sia illegale e debba scomparire, e i detenuti esser liberati, subito. C’è un motto che riassume il pensiero di questo movimento, e gli dà il nome, e il motto è: “Fine pena: ora”. L’ergastolano col quale ho discusso ha commesso una strage mafiosa, ammazzando quattro-cinque persone, e dunque ci sono delle vedove e degli orfani che chiedono giustizia, e non solo si oppongono alla scarcerazione di questo ergastolano, ma vorrebbero che insieme con lui fossero incarcerati gli altri autori della strage, che invece lui protegge e non vuol rivelare, e che dunque restano liberi e impuniti. La strage infatti fu compiuta non da una persona ma da una cosca, una squadra di assassini. Questo ergastolano riceve periodicamente la visita di qualche magistrato, che gli chiede di aiutare la giustizia, facendo i nomi dei colpevoli. A me pare che quella sia l’occasione in cui l’ergastolano può scegliere tra aiutare la giustizia, consegnando gli assassini al processo, o aiutare la mafia, tacendo i nomi dei colpevoli e così paralizzando la giustizia. Aiutando la giustizia uscirebbe dalla colpa, aiutando la mafia resta nella colpa. Uscendo dalla colpa avrebbe il diritto di uscire dalla pena. Secondo un principio che si potrebbe esprimere così: “Fine colpa, ora. Fine pena, dopo”. Boicottando la giustizia, aiuta la mafia e dunque resta nella colpa, e il movimento che ne chiede la liberazione adotta di fatto un principio che dice: “Fine pena, subito. Fine colpa, mai”. Scusate, non me la sento di unirmi a questo secondo gruppo. Uno Stato non può convivere col principio “fine colpa mai”. Non può far la pace col Male. Da noi la pena senza fine di fatto non esiste, perché in ogni momento l’ergastolano può mettere fine alla colpa e acquistare il diritto di veder mettere fine alla pena, ma un “fine pena subito” e “fine colpa mai” non è una giustizia di Stato, perché riconoscerebbe una colpa di fronte alla quale lo Stato si ritrae dal far giustizia. Alla prossima visita di un magistrato, il mio ergastolano aiuti le vedove e gli orfani ad avere giustizia. Dopo di che si parlerà della sua scarcerazione. L’ultima tentazione di Letta: andare alle urne per fermare i referendum sulla giustizia di Francesco Damato Il Dubbio, 7 ottobre 2021 Piuttosto che sciogliere i nodi della giustizia con la lama referendaria sulla responsabilità civile delle toghe, sulla separazione delle carriere e altro, in aperta sfida alla magistratura arroccata come una casta nella difesa degli spazi che si è conquistata in anni anche di supplenza politica, Pd e 5 Stelle potrebbero preferire il voto anticipato. Non è uno scherzo. Non mi sono inventato nessuna macchina del tempo per tornare indietro di 50 anni. E’ soltanto questa maledetta cronaca politica a portarmi indietro di mezzo secolo e a farmi avvertire di certi inconvenienti, chiamiamoli così, i colleghi fortunatamente più giovani, o meno anziani. O i parlamentari che temono comprensibilmente, direi umanamente, le elezioni anticipate prima di maturare il diritto alla pur modesta pensione, come è stata ridotta, che matura solo sei mesi prima della scadenza ordinaria della legislatura, cioè nell’autunno prossimo. Gli uni - i colleghi che raccontano e commentano ciò che vedono o percepiscono- e gli altri - i deputati e senatori, peraltro già in sofferenza all’idea delle nuove Camere nelle quali non potranno tornare per la forte riduzione dei seggi imprudentemente disposta da loro stessi, o per la crisi elettorale dei partiti o movimenti di appartenenza o provenienza- non possono per niente scommettere sulla mancanza di precedenti per escludere che il prossimo presidente della Repubblica, o quello uscente se confermato, non oserà mai sciogliere le Camere davanti alle quali ha giurato. “Non si è ma visto nell’intera storia repubblicana- ha appena scritto proprio qui, sul Dubbio, la pur brava Antonella Rampino- un Capo dello Stato il cui primo atto sia lo scioglimento del Parlamento che lo ha eletto”. Eh no, cara Antonella. Io l’ho visto quando tu avevi solo 15 anni, se ho fatto bene i calcoli. Era il mio amico Giovanni Leone, eletto presidente della Repubblica il 24 dicembre 1971, alla 23. ma votazione, insediatosi col giuramento davanti alle Camere il 29 dicembre, trovatosi il 15 gennaio 1972 di fronte alle dimissioni del presidente del Consiglio, e suo collega di partito, Emilio Colombo e costretto poco dopo dalle circostanze a sciogliere le Camere con più di un anno di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria. Tra le circostanze non certo minori di quella soluzione traumatica della crisi ci fu la necessità o opportunità, come preferite, avvertita da entrambi i partiti maggiori - la Dc al governo guidata da Arnaldo Forlani e il Pci all’opposizione- di evitare un referendum al quale entrambi non si sentivano allora preparati, preferendo tentare di scioglierne il nodo in sede parlamentare. Era il referendum abrogativo della legge istitutiva del divorzio, che per le sopraggiunte elezioni anticipate, appunto, slittò al 1974, quando la Dc passata, anzi tornata nel frattempo sotto la guida di Amintore Fanfani, che l’aveva già condotta negli anni Cinquanta, volle affrontare la prova perdendola clamorosamente. Non uno ma un bel grappolo di referendum, appena promossi sui temi della giustizia da leghisti e radicali fra l’ostilità del Pd di Enrico Letta e dei grillini, potrebbe essere a 50 anni di distanza, fra qualche mese, il detonatore distruttivo di questa diciottesima legislatura, la più strana o pazza di tutta la storia repubblicana, anche se il segretario piddino ha appena dichiarato al Corriere della Sera di volerla fare arrivare, nel quadro attuale, all’epilogo ordinario. Piuttosto che sciogliere i nodi della giustizia con la lama referendaria sulla responsabilità civile delle toghe, sulla separazione delle carriere e altro, in aperta sfida alla magistratura arroccata come una casta nella difesa degli spazi che si è conquistata in anni anche di supplenza politica colpevolmente permessa dalle maggioranze di turno, Pd e 5 Stelle potrebbero preferire il voto anticipato. E tentare di sciogliere quei nodi legislativamente nelle nuove Camere, se mai riuscissero a vincere le elezioni come Enrico Letta ha mostrato di sperare accontentandosi dei risultati del primo turno di elezioni amministrative svoltosi nei giorni scorsi, anzi esultando per il loro esito e proclamandosi vincitore, federatore e quant’altro di un’alleanza di centrosinistra allargata alle 5 Stelle di Conte, o “sperimentale”, come ha preferito definirla Romano Prodi. Che ha intravisto forse qualcosa anche del suo Ulivo o della sua Unione: le combinazioni con le quali nella cosiddetta seconda Repubblica egli è riuscito a vincere le elezioni contro Silvio Berlusconi due volte, pur non riuscendo poi a durare per i cinque anni successivi. Ma che su questa diciottesima legislatura Draghi avverta già da tempo i rischi di una interruzione, al di là della inesperienza politica che ogni tanto dichiara per la tutt’altra natura della sua lunga e prestigiosa carriera pubblica, si è capito nei giorni scorsi. Egli ha lasciato scorrere senza smentita una notizia di stampa secondo cui, lasciando disporre in Consiglio dei Ministri una norma facilitativa dei referendum in cantiere, cui si sono aggiunti quelli sulla cannabis e sul fine vita, avrebbe ricordato agli interlocutori il rischio che ogni prova referendaria corre di essere rinviata in caso di elezioni anticipate. Consentitemi adesso qualche ricordo, anche di natura personale, dell’avventura di 50 anni fa di Giovanni Leone negli scomodi panni del carnefice delle Camere che lo avevano appena eletto, al termine di una gara al cui inizio uno solo scommise sulla sua elezione parlandone in privato con amici: l’allora vice segretario della Dc Ciriaco De Mita, della cui corrente peraltro era quanto meno simpatizzante uno dei figli dell’allora senatore a vita e già due volte presidente del Consiglio. Il candidato iniziale della Dc in quella edizione della corsa al Quirinale per la successione a Giuseppe Saragat fu Amintore Fanfani, partito dalla postazione favorevole della Presidenza del Senato ma neutralizzato dai “franchi tiratori” del suo stesso partito, oltre che dall’ostilità esplicita dei socialisti pur alleati di governo dello scudo crociato, che ne temevano, a torto o a ragione, tentazioni golliste. Tramontata in una decina di votazioni la pur forte candidatura di Fanfani, nella cui scuderia politica peraltro si era formato, il segretario della Dc Forlani tentò di mettere in pista la candidatura dell’altro “cavallo di razza” del partito. Che era Aldo Moro, già segretario del partito e presidente del Consiglio, in quel momento ministro degli Esteri, per il quale erano disposti a votare anche i comunisti ricambiando la “strategia dell’attenzione” da lui dichiaratamente praticata nei riguardi del loro partito dal 1968. Il tentativo di Forlani, oltre che metterlo in conflitto con la propria corrente, s’infranse contro una risicatissima maggioranza dei gruppi parlamentari democristiani, che a scrutinio segreto, votando appunto sul nuovo candidato al Quirinale, gli preferirono Leone per la disponibilità già dichiarata a votarlo da parte dei liberali, dei repubblicani e dei socialdemocratici. Eletto nel giro di due scrutini, avendo mancato il primo nell’aula di Montecitorio solo per un voto, Leone si vide fastidiosamente indicato da alcuni colleghi del suo stesso partito, sino a lamentarsene in una lettera scritta poi dal Quirinale al giornale ufficiale della Dc, come favorito nel segreto dell’urna dai missini. “Se qualcuno mi ha favorito è stato Babbo Natale”, mi disse in quei giorni Leone alludendo al clima natalizio in cui ormai si era conclusa quella gara, con i parlamentari smaniosi di tornare a casa, E con Moro, peraltro, impegnato in prima persona a telefonare agli amici delusi della sua mancata candidatura perché votassero disciplinatamente per Leone. Di cui Moro era amico a tal punto da lasciarsi andare, nei loro incontri, all’imitazione vocale e mimica dei colleghi di partito più altolocati. Per protesta contro l’elezione di Leone i socialisti si ritirarono dalla maggioranza di centrosinistra. E Forlani, d’intesa - dietro le quinte- con i comunisti, che avevano votato per il divorzio ma conoscevano la contrarietà di una parte della loro base, Forlani prese la palla al balzo per indirizzare la crisi verso le elezioni anticipate allo scopo di rinviare un referendum di cui avvertiva tutti i rischi per lo scudo crociato. E Leone, che già aveva tentato inutilmente come senatore di fare modificare la legge sul divorzio per aggirare la prova referendaria, lo assecondò. I timori di Forlani, poi detronizzato personalmente da Fanfani come segretario, risultarono confermati nel 1974, quando la Dc perse il referendum e man mano tutto il resto, pur nell’arco di una ventina d’anni, e col contributo della ghigliottina giudiziaria delle cosiddette “Mani pulite”. “Ampliare l’uso del trojan”. Il blitz del M5S fallisce subito di Valentina Stella Il Dubbio, 7 ottobre 2021 L’esempio francese per proteggere il diritto di difesa dalle intercettazioni. Il pentastellato Ferraresi aveva preparato un parere favorevole all’adozione dei “captatori” nelle indagini sul riciclaggio, ma il resto della Commissione Giustizia di Montecitorio ha detto no. Deputati grillini al contrattacco anche sulla presunzione d’innocenza. Il “contrattacco anti-garantista” del Movimento 5 Stelle sulla giustizia non si è lasciato attendere. Se qualcuno aveva confidato in un ravvedimento, si era sbagliato. A dimostrazione di ciò basta dire che i grillini hanno prospettato di estendere l’uso del trojan per indagare sui casi di riciclaggio. Era la previsione avanzata dall’ex sottosegretario Vittorio Ferraresi, come relatore in commissione Giustizia alla Camera, per integrare la proposta di parere sul decreto legislativo riguardante la “attuazione della direttiva Ue 2018/1673 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale” (Atto n. 286). “Appare pertanto opportuno adeguare le norme nazionali, affinché anche nelle indagini e nell’azione penale in materia di riciclaggio si possa fare ricorso agli strumenti previsti per i gravi reati di criminalità organizzata, quali le disposizioni in materia di intercettazioni, di cui al comma 2-bis dell’articolo 266 nonché ai commi 1 e 2 dell’articolo 267 del codice di procedura penale, e le operazioni sotto copertura, di cui alla legge 16 marzo 2006, n. 146”. La ratio sottesa è quella per cui il riciclaggio rappresenta “un importante reato-spia dell’infiltrazione delle mafie”. Ma ieri abbiamo appreso che tale aspettativa proposta da Ferraresi non entrerà nel parere della commissione Giustizia, dal momento che tutte le altre forze politiche sono contrarie. Però, fonti parlamentari 5 Stelle ci fanno comunque sapere che “non si trattava di una invenzione di Ferraresi ma di una indicazione data dall’articolo 11 della direttiva, che chiede di introdurre degli strumenti investigativi, come agente sotto copertura o trojan, già utilizzati in altri campi nel contrasto alla criminalità organizzata”. La soluzione sarebbe stata comunque mal digerita da coloro che già a settembre dello scorso anno, quando è entrata in vigore la riforma delle intercettazioni, l’hanno fortemente criticata perché in parte accentuava l’uso delle stesse a discapito della prova dichiarativa e, sull’onda lunga della “spazza corrotti”, ampliava proprio l’operatività dei “captatori” ai reati di criminalità economica. L’altro fronte sul quale il Movimento 5 Stelle ha fatto riemergere il proprio orientamento “giustizialista” riguarda il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Partiamo dal parere stilato dal relatore Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, che va in direzione opposta ai grillini e restringe, rispetto a quanto già proposto dal governo, i margini di operatività mediatica di inquirenti e investigatori: mentre lo schema di decreto uscito dal Consiglio dei ministri consente i rapporti del procuratore con i media “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”, Costa vorrebbe eliminare queste ultime. Impensabile per il M5S che, invece, sulla scia di quanto detto in audizione anche dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, vorrebbe emendare il testo togliendo ‘esclusivamente’ e sostituendolo con ‘preferibilmente’. I pentastellati poi chiedono anche la modifica dell’articolo 4 comma 2 per cui “nei provvedimenti che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti” di legge. Secondo i 5 Stelle invece il giudice deve avere piena libertà di espressione nelle motivazioni, senza alcuna restrizione. Tornando al parere di Costa, va anche oltre: mira al “divieto di comunicazione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti e processi penali loro affidati”. Insomma un modo per interrompere la costruzione di carriere e l’acquisizione di fama sulle spalle degli indagati. Inoltre, il relatore del parere vorrebbe restringere la facoltà di interlocuzione con gli organi di informazione al solo procuratore della Repubblica, escludendo che “gli ufficiali di polizia giudiziaria o gli uffici stampa delle forze di polizia” siano “autorizzati a fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”. Fine delle inchieste show a colpi di video autocelebrativi. Costa inserisce poi un riferimento all’articolo 7 della direttiva Ue non preso in considerazione nel testo governativo e che tutela il “diritto al silenzio” e il “diritto a non autoincriminarsi”: “Seppure si tratti di diritti riconosciuti nel nostro ordinamento - scrive Costa - la giurisprudenza talvolta fa discendere dal loro esercizio effetti su commisurazione della pena, concessione delle attenuanti e riparazione per ingiusta detenzione”; pertanto auspica che “si chiarisca che nella commisurazione della pena e nella concessione delle attenuanti non possono essere tratte conseguenze dal silenzio” e che “sia specificato all’articolo 314 del codice di procedura penale che la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita”. Stalker arrestati e subito liberi: legge già da rifare di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2021 A 14 giorni dall’approvazione al Senato, l’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia sta rimettendo le mani sulla riforma Cartabia. In particolare sulla norma che ha introdotto l’arresto obbligatorio per i reati di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Si tratta di una norma - recepita con l’emendamento a prima firma di Lucia Annibali (Italia Viva) - pensata in difesa delle donne perché riguarda tutti gli uomini che violano quegli obblighi imposti dal giudice di avvicinarsi alle proprie vittime. Peccato però che questa norma nei fatti contrasti con un articolo del codice di procedura penale. Di conseguenza ci potremmo trovare di fronte a una situazione paradossale: persone arrestate, che i pm saranno costretti a far tornare in libertà. Per capire la questione bisogna partire dalla novità introdotta nella riforma. Questa prevede di intervenire sull’articolo che disciplina l’arresto obbligatorio in flagranza di reato. Che sarà previsto anche per l’articolo 387 bis del codice penale, che riguarda appunto chi viola il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. E sono le cronache quotidiane a raccontare come questo fenomeno, sempre più frequente, sfoci in terribili femminicidi. Il reato previsto dall’articolo 387 bis è punito con una pena da sei mesi a tre anni. E qui si crea il disallineamento con le regole generali. Il codice di procedura penale infatti all’articolo 280 (condizioni di applicabilità delle misure coercitive) prevede l’applicazione delle misure coercitive per i reati puniti con una pena “superiore nel massimo a tre anni” di reclusione. L’articolo 387 bis del codice penale non è tra questi. Così bisogna mettere una pezza. L’antitesi tra le due norme è stata segnalata in maniera informale al ministero della Giustizia dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente (Pd). Ora i tecnici degli uffici legislativi di via Arenula nell’ambito di una serie di altre misure di intervento contro la violenza di genere stanno valutando anche le modifiche per superare questa contrapposizione che potrebbe venire a crearsi. Ragionano dal ministero, una soluzione potrebbe trovarsi già nell’articolo 280 del codice di procedura penale, al comma 3: prevede che le disposizioni sulle misure coercitive non si applicano “nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare”. E quindi tra questi potrebbe rientrare, ad esempio, anche il divieto di avvicinamento. Ma si pensa anche ad altre soluzioni: intervenire proprio sull’articolo 280 del codice di procedura o sulla norma prevista dalla riforma magari rendendo l’arresto facoltativo (ma non è questa la strada che si intende intraprendere). La discussione è in corso. Questa riforma può stupire ancora. Violenza domestica, una protezione per chi denuncia di Monica Bogliardi Grazia, 7 ottobre 2021 Una protezione. Una casa. Un lavoro. Sono alcune delle nuove misure proposte dalla ministra Mariastella Gelmini per proteggere le vittime di violenza domestica. “Perché”, dice a Grazia, “queste donne non vanno lasciate sole”. Proteggere le donne che hanno denunciato violenza domestica con scorta, casa, denaro: equiparandole, in questa tutela di Stato, a testimoni di giustizia. Alla fine del “settembre nero” che ha visto, in Italia, ben 11 femminicidi, la ministra per gli Affari Regionali e le Autonomie Mariastella Gelmini ha proposto nuove misure di prevenzione di questo fenomeno. E qui ne parla con Grazia. Com’è nata la sua proposta? “In agosto, davanti all’ennesimo omicidio di una donna, Vanessa Zappalà, che aveva denunciato il fidanzato, ho capito che non dobbiamo lasciare sole queste coraggiose. Che diventano più fragili di prima: il loro gesto incattivisce l’aguzzino. Statisticamente più del 12 per cento delle donne uccise avevano fatto denuncia”. In che cosa consiste in concreto la tutela? “Chiarisco: è un sostegno a tempo, fino alla fine del processo che condanna l’aggressore. Scorta alla persona; ricollocazione in una nuova dimora, se la donna vive con il denunciato; sostegno materiale e lavoro se necessario: avviene spesso quando lei ha un’occupazione con il partner violento”. Per la scorta pensa alle forze dell’ordine? “Sì”. Sono in molti a dire che andrebbero meglio preparate in tema di violenza domestica... “Hanno già settori specializzati nei reati di violenza sulle donne. Quanto alla preparazione, va fatta una battaglia culturale per formare tutti i segmenti della società, insegnando che la violenza non è solo nelle grandi città e nelle classi più fragili. In agosto a Gardone Riviera, tranquillo paese di 3.000 anime dove sono nata, una donna è stata accoltellata dal partner, di giorno e in pieno centro”. Servirà una nuova legge? “Sto scrivendola in modo che non sia strumentalizzabile: il sussidio non è un mezzo per sostentarsi, ma un aiuto quando serve”. Perché le leggi su stalking e Codice Rosso non bastano? “Sono buone leggi, ma da sole non sono sufficienti. Si concentrano sull’aggressore, inaspriscono le pene che lo riguardano. Va ribaltata l’angolatura, vanno tutelate le vittime. Così aumenteranno anche le denunce”. Per le vittime ci sono i centri anti-violenza... “Sono preziosi. Da alcuni di questi ho saputo che le donne che denunciano sono spesso ridotte in solitudine ed emarginazione sociale. Hanno vergogna, paura. Cominciamo a proteggerle di più: la denuncia è punto di partenza, non d’arrivo”. Com’è stato accolto il suo progetto? “Forza Italia e Azzurro Donna l’ha sostenuto. E la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti è molto sensibile sulla materia. Il vuoto normativo che colpisce le vittime è evidente a tutti. Spero in un fronte transpartitico”. Nel nuovo processo penale c’è l’arresto obbligatorio anche per la violazione, punita con al massimo tre anni di reclusione, del divieto di avvicinarsi alla perseguitata. Ma il pubblico ministero potrà subito scarcerare l’arrestato: le misure coercitive si possono chiedere solo per reati puniti con oltre tre anni di reclusione. Come vede questo corto circuito? “È una contraddizione a cui bisogna mettere mano. Ragionandoci con la ministra della Giustizia Marta Cartabia”. Trattativa Stato-mafia, da Travaglio a Bianconi il flop dei giornalisti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 ottobre 2021 Saranno stati, come disse Antonio Ingroia, l’ex pm del processo “Trattativa”, i colletti bianchi ad averla fatta franca, o non invece lui stesso, il collega Di Matteo e tutta la banda dei giornalisti che facevano la ola davanti a loro? Insomma, chi è che l’ha fatta franca? Quando, con grande senso della scenografia e piccolo senso del pudore, il presidente della corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto scelse il ventiseiesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino, il 19 luglio 2018, per depositare le motivazioni della sentenza che sposava l’ipotesi-bufala e condannava gli imputati per minaccia o violenza a corpi dello Stato, era stato un coro di osanna che aveva percorso l’etere e la penisola. Tre anni dopo, quando una nuova sentenza assolve tutti, si scopre che la “complessità” della mafia non va giudicata nelle aule di giustizia. Travaglio permettendo, naturalmente. I giudici avevano aspettato il novantesimo giorno, ultima scadenza consentita dalla legge dopo l’emissione della sentenza, pur di scodellare le 5.252 pagine calde calde sulla commemorazione della strage di via D’Amelio, nel 2018. E consentire ai giornali amici di titolare direttamente su Borsellino. Non solo per ricordarne il valore e il sacrificio, però. È sufficiente sfogliare qualche titolo del giorno dopo. Corriere della sera: “I giudici e via D’Amelio: il dialogo tra Stato e mafia accelerò quella strage”. La Repubblica: “Chi condannò Borsellino”. Il Fatto: “La Trattativa uccise Borsellino”. Parliamoci chiaro: quel giorno i tre alti carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre al senatore Marcello Dell’Utri erano presentati come gli assassini, o quanto meno i mandanti, della strage di via D’Amelio, in particolare della sua accelerazione nei tempi. Perché, mostrando agli uomini della mafia il volto fragile e accomodante di uno Stato pronto a trattare, avevano in realtà spinto i boss dei corleonesi ad alzare il prezzo con altre bombe e altre stragi. È evidente a tutti, o forse a pochi, che la strage di via D’Amelio non aveva nulla a che fare con il processo. Ma molto con l’uso propagandistico che ha inquinato per tanti troppi anni - non si riesce più a contarli, perché le prime indagini nei confronti di Dell’Utri sono partite fin dal 1994- l’inchiesta e poi il processo su una trattativa tra lo Stato e la mafia che ormai una sentenza che possiamo considerare definitiva ha sonoramente bocciato. L’”accadimento”, il quid che avrebbe spinto Totò Riina a fare in fretta a uccidere Borsellino, “non è provato”, come scriveva sul Corriere Giovanni Bianconi, ma trovava convergenza di due fatti. Il primo, nelle parole della moglie del magistrato cui il marito avrebbe confidato in modo molto generico di aver saputo di ambienti istituzionali inquinati. Il secondo sarebbe stata un’intercettazione in carcere in cui Riina diceva a un suo complice “ma dammi un po’ di tempo”. Prove inconfutabili, come si può notare. L’assurdo è che tutta quanta l’inchiesta, compresa la sentenza di primo grado, è fatta così, ricca di congetture ed effetti scenici. Pure, queste ipotesi, il fatto che un gruppo di alti ufficiali prima e Dell’Utri dopo fossero stati interessati messaggeri delle minacce di morte da Cosa Nostra a tre diversi governi, è stata fatta propria anche da ampi settori del giornalismo militante, amico delle toghe militanti. Tanto che Attilio Bolzoni quel 20 luglio del 2018 su Repubblica scriveva che le parole scritte in quella sentenza “raccontano i cattivi pensieri che abbiamo avuto in questo quarto di secolo. Un pezzo di stato che si cala le braghe e che dà forza ai suoi nemici, un pezzo di stato che ha preferito “parlare” con i Corleonesi piuttosto che scatenarsi con tutta la sua potenza contro un potere criminale”. Una frase in cui stato è scritto con la minuscola e Corleonesi con la maiuscola. Ma sono certamente errori di battitura. Il regno dell’assurdo. Bolzoni che incensa l’ex ministro Scotti dicendo che era stato cacciato dal governo perché era stato duro nei confronti della mafia, ma forse non ricorda che in quei giorni la segreteria della Dc aveva imposto che i ministri si dimettessero da parlamentari, così perdendo l’immunità, che Scotti aveva evidentemente preferito mantenere, visti i tempi che correvano, con Tangentopoli che stava decimando gli uomini del pentapartito. E Bianconi che, scrivendo su Dell’Utri e la minaccia che avrebbe effettuato, per conto della mafia, nei confronti del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, accenna alle famose riforme che sarebbero state gradite a Totò Riina. In quei giorni non si parlava ancora del decreto Biondi. Ma delle riforme si dice che, citiamo da Bianconi, “Non importa che queste fossero frutto di un semplice e legittimo spirito garantista della nuova maggioranza, e non dettate dal ricatto mafioso. L’importante è che tramite Dell’Utri l’avvertimento sia arrivato a Palazzo Chigi, e questo per i giudici è confermato”. Anche di questo non c’è prova, come non c’è mai stata nei confronti di Calogero Mannino che, mentre la nebulosa trattativa si trascinava dal processo di primo a quello di secondo grado, portava a casa assoluzioni a raffica. Pure, quel 20 luglio di tre anni fa, mentre l’ex ministro era stato già assolto in primo grado, il sospetto grava ancora su di lui che, terrorizzato dopo l’uccisione di Salvo Lima, sarebbe stato disposto a tutto pur di salvarsi la vita e avrebbe incaricato i carabinieri di avviare la famosa “trattativa”. Nessun dubbio solcò la fronte dei giornalisti militanti, in quei giorni. La prima assoluzione di Mannino era citata tra due virgole e tanto doveva bastare. Il nobel dell’entusiasmo come sempre va attribuito a Marchino Travaglio, che ha anche il merito di non demordere mai: trattativa era e trattativa doveva continuare a essere. E chi se ne importa delle sentenze. Tranne di una, quella del presidente Montalto. Sentite che toni lirici: “Una sentenza che tutti gli italiani dovrebbero conoscere. E il Fatto si attiverà con ogni mezzo per divulgarla e rompere lo scandaloso muro di ignoranza”. E poi la promessa di pubblicare a puntate le cinquemila pagine. Sai che spasso, i lettori non aspettavano altro. Qualcuno pensa che di tutta questa retorica ci sia ancora traccia sui giornali del 24 settembre 2021, il giorno successivo alla sentenza d’appello che ha sconfessato in toto l’ipotesi di Ingroia e Di Matteo fatta propria anche da Montalto? Macché, tutti virtuosi, ormai. Il direttore del Fatto si impunta su un particolare, il fatto che i mafiosi siano stati condannati per aver tentato di minacciare lo Stato, mentre gli ufficiali dei carabinieri, che non avevano mai negato di aver tentato un approccio con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per un aiuto alla cattura di Riina (che infatti sarà arrestato all’inizio del 1993) venivano assolti “perché il fatto non costituisce reato”. E Dell’Utri addirittura per non aver commesso il fatto. La trattativa c’è stata, insiste. E quello che fu l’inventore della “Trattativa” con la T maiuscola e tra virgolette, Antonio Ingroia, non si arrende, ma lamenta il fatto che “i colletti bianchi l’hanno fatta franca”. Quanto ai due quotidiani d’opinione che abbiamo esaminato per gli articoli del 2018, navigano oggi virtuosamente tra le nuvole. Nessuno che dica “ci siamo sbagliati”, nello sposare con gli occhi chiusi quella sentenza. Porta ancora la firma di Bianconi il commento del Corriere della sera “L’uso improprio che si fa dei processi”, impeccabile nell’affermare che non sono le aule di giustizia a dover scrivere la storia. Neppure una riga di questo concetto commentava la sentenza di condanna, ci pare di ricordare. Quanto a la Repubblica, si rifugia nella “zona grigia”, nel buio in cui tutte le vacche sono nere, perché è difficile decifrare la complessità del fenomeno mafioso. L’incarico del commento è affidato a Carlo Bonini, che riesce a far bella figura perché ha letto (o ne ha sentito parlare) il libro del professor Giovanni Fiandaca e dello storico Giuseppe Lupo che nel 2014 scrissero che per giudicare la trattativa “un’aula di giustizia era troppo piccola”. Potrebbe forse regalarne una copia al collega Bolzoni, anche se non è più suo compagno di banco, e ricordare che sia Fiandaca che Lupo si sono espressi ben oltre il 2014 su questa inchiesta. Che è stata definita “una boiata pazzesca”. Sulla pelle di morti e feriti. Non solo nel corpo. Ne riparleremo quando Dell’Utri sarà del tutto libero da ogni ferita, dopo il prossimo provvedimento della Cedu sulla condanna per concorso esterno. Allora faremo la prossima analisi comparata. Mimmo Lucano, se la giustizia funziona al contrario di Sandro Veronesi e Luigi Manconi Il Manifesto, 7 ottobre 2021 Al via la sottoscrizione. Oggi, giovedì 7 ottobre, dalle 17.30 alle 20.30, a Roma, in piazza Montecitorio, manifestazione pubblica “Modello Mimmo. L’abuso di umanità non è reato”. Con la Panda imboccarono uno di quei sottopassi fatti in fretta, scavando profondamente sotto i binari della ferrovia, per i quali è obbligatoria la dotazione di una pompa pneumatica che li svuoti dall’acqua quando piove. Si infilarono, così, in due metri e mezzo di acqua e fango e finirono annegate. L’inchiesta che seguì accertò un fatto sconvolgente: la pompa, prevista dalla normativa, era effettivamente entrata in funzione in quel diluvio, ma aveva funzionato al contrario: cioè, invece di svuotare il sottopasso, lo aveva riempito. Lasciando alla magistratura il compito di accertarne le cause, questa inversione di funzioni risulta emblematica di ciò che a volte può succedere: bisogna trovare un meccanismo che ci protegga anche dai meccanismi che dovrebbero proteggerci, casomai si mettessero a funzionare al contrario. A proposito di magistratura, che è un ordine dello Stato, titolare del compito di tutelarci, è evidente che possa funzionare al contrario come nel caso della sentenza di primo grado nei confronti di Mimmo Lucano. Anziché porre rimedio, con una decisione mite e ragionevole (e soprattutto umana) alla pesantissima richiesta dell’accusa di una condanna a 7 anni di carcere, conseguente alla feroce campagna persecutoria di una certa politica, il tribunale di Locri ha inflitto una pena doppia di quella richiesta. Insomma, è successo di nuovo l’incidente - chiamiamolo così - che ha ucciso quelle tre operaie: il meccanismo di protezione ha funzionato al contrario. Ora, sarà bene inquadrare questo rovesciamento di funzione e questo ribaltamento di senso della giustizia nel suo contesto specifico: si tratta in realtà dell’evento più catastrofico che possa verificarsi in una società evoluta come la nostra, in cui sono previsti obblighi di cautela e di protezione praticamente per ogni crisi e per ogni gruppo sociale. Sul piano meccanico risulta molto facile capirlo: l’impianto salvavita che innesca il corto circuito, i freni che accelerano, il parafulmine che trasmette la scarica allo stabile che dovrebbe proteggere. Per fortuna, si tratta di eventi piuttosto rari. Altrettanto facile da capire dovrebbe essere sul piano sociale: il volontario antincendio che appicca il fuoco al bosco, il netturbino che sparge la spazzatura sulla strada, il poliziotto che taglieggia, sono fatti purtroppo non altrettanto rari che minano alla base la nostra fiducia nella comunità di cui siamo parte. La sentenza del tribunale di Locri, talmente abnorme da prevedere anche una sanzione pecuniaria per una somma di cui i condannati non dispongono né potranno mai disporre, appartiene, ahinoi, a questa casistica. Di fronte a tutto ciò, ci si può rammaricare - magari tantissimo - ma, forse, si può fare qualcosa di più. Qualcosa di concreto e tangibile, ciascuno per la sua parte, e nella misura delle sue disponibilità. Per questo, abbiamo promosso una raccolta di fondi su scala nazionale per contribuire al pagamento di quella cifra esorbitante che, in caso di sentenza definitiva, Lucano e altri imputati sono chiamati a versare. Qualora, invece, il secondo e il terzo grado di giudizio assolvessero i condannati o riducessero la sanzione pecuniaria, destineremo i fondi raccolti alla realizzazione di progetti di accoglienza in quello stesso territorio calabrese dove ha preso vita il modello Riace. Per assicurare trasparenza e correttezza nell’impiego dei fondi, abbiamo costituito un comitato di garanti (Marco Tarquinio, Armando Spataro, Gherardo Colombo, Cesare Manzitti, Cesare Fragassi), che vigilerà sui criteri di utilizzo delle risorse raccolte. Con questa iniziativa vogliamo dare voce e traduzione pratica a una domanda di mobilitazione intorno al significato più profondo rappresentato da quell’esperienza sociale e amministrativa di accoglienza e di convivenza pacifica tra residenti e nuovi arrivati. La posta in palio è l’affermarsi e il diffondersi di una concezione delle politiche per l’immigrazione, fondate sulla valorizzazione del contributo sociale, economico e culturale e - se permettete - morale, offerto dai flussi migratori, intelligentemente accolti e governati. Il rischio è che prevalga, all’opposto, un’idea del fenomeno come “questione criminale”, problema di marginalità sociale o di ordine pubblico. Ne conseguirebbe, come è accaduto nel caso della sentenza di Locri, l’assimilazione delle iniziative civili e politiche, ispirate da criteri di razionalità e di umanità, a fattispecie penale, fino all’oltraggioso reato di associazione a delinquere. Ecco, è forse questa la tendenza da cui metteva in guardia Walter Benjamin paventando il rischio che il giudice possa “in ogni pena infliggere ciecamente destino”. Per chi voglia contribuire alla raccolta di fondi, questi sono i dati: A Buon Diritto Onlus - Banco di Sardegna. Causale: “Per Mimmo”. Iban: IT55E0101503200000070333347. Viva l’eresia di Lucano, ma la giurisdizione è il giudizio sui fatti (e non la lista di buoni e cattivi) di Giandomenico Caiazza Il Dubbio, 7 ottobre 2021 Come accade quasi sempre nei processi penali, ci sono due Mimmo Lucano imputati - di reati molto gravi - davanti al Tribunale di Locri. C’è, raccontato dalla difesa, il protagonista quasi leggendario di una amministrazione comunale divenuta esempio mondiale di inclusività; e c’è, descritto dall’Accusa, un pubblico amministratore che consapevolmente viola le leggi che avrebbe il compito di far rispettare, per lucrare consenso politico per sé ed utilità anche economiche per una ristretta cerchia di persone da lui selezionata. Secondo i magistrati inquirenti ed il collegio giudicante, i fatti accertati in giudizio ci consegnano - al di là di ogni ragionevole dubbio - il secondo Mimmo Lucano. Vi è disaccordo solo sull’entità della pena, la cui insensata sproporzione appare difficilmente confutabile. Secondo la difesa, in verità parca di dettagli tecnici nella sua comunicazione pubblica (a differenza del Procuratore di Locri, che si è impegnato in puntigliose e fin troppo generose dichiarazioni pubbliche), non può rispondere di peculati, truffe ai danni dello Stato e malversazioni varie un uomo che, anche secondo l’Accusa, non solo non si è arricchito di un solo euro, ma ha vissuto e vive quasi a livello di indigenza. Secondo l’Accusa, le motivazioni politiche o etiche della condotta amministrativa del sindaco Lucano e l’assenza di illeciti arricchimenti personali non possono legittimare la sistematica e consapevole violazione della legge, soprattutto quando si amministra denaro pubblico, ed anzi tale condotta è a tal punto grave da meritare, secondo il Tribunale, pena massima e nemmeno le attenuanti generiche. Mai come in un caso così radicalmente controverso, occorre necessariamente attendere la lettura delle motivazioni. Capiremo se sono controversi i fatti nella loro materialità, o se si debba discutere di cause giustificative di condotte comunque violative della legge. Fa una bella differenza, insomma, capire se si addebitano ingiustamente a Lucano fatti da costui mai commessi, o se invece, pacifici essendo i fatti, si discute se condotte obiettivamente e dolosamente violative della legge meritino di essere giustificate da superiori motivazioni etiche e di solidarietà sociale, e perciò non punite. Nel primo caso, ci troveremmo di fronte ad un atto di pura persecuzione giudiziaria e politica; diversamente, la questione è di tutt’altro valore e significato, e si fa complessa. Ecco perché, pur dovendo confessare una mia personale empatia e solidarietà emotiva nei confronti del Sindaco di Riace, faccio una enorme fatica a comprendere se ed in quali termini questo ineludibile dilemma sia stato risolto dal vasto e assertivo fronte “innocentista”. Anzi, nel fiume di parole di censura e di indignazione suscitate dalla eclatante sentenza di condanna, non mi pare di aver mai visto ipotizzare falsi addebiti o prove travisate. Si tratta di una presa di posizione che pretende di consolidarsi a monte di quel dilemma. Il valore etico e morale della condotta di Lucano è tale da non poter divenire oggetto di un burocratico giudizio di conformità alla legge. Ma se le cose stanno così - e temo che stiano così - ecco emergere la vera natura e la vera matrice ideologica di questo pur legittimo fronte innocentista, che non ha nulla a che fare con il tema delle garanzie difensive, della presunzione di colpevolezza, del diritto al giusto ed equo processo. C’è un mondo valoriale nel perseguimento del quale si è unilateralmente persuasi che non sia lecito opporre il vincolo del rispetto della legalità. Una postulazione schiettamente ideologica, condivisibile o meno ma certamente estranea alle tematiche del diritto e del processo. E questo spiega con chiarezza la ragione per la quale le persone che la hanno così vibratamente espressa sono le stesse - fatta salva qualche eccezione - che non hanno detto una parola, per esempio, dopo la recente sentenza di assoluzione nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Il segretario del PD Enrico Letta, per fare solo un esempio tra i più eclatanti, si è detto esterrefatto per la condanna di Lucano, e solidale con lui, ma non ha detto una sola parola di solidarietà nei confronti del Generale Mori, vittima - insieme ai Mannino, ai Di Donno ed a tanti altri - di decenni del più insensato accanimento giudiziario e mediatico andato in scena nelle aule di giustizia del nostro Paese. È del tutto evidente il valore che assume, in un mondo così avvelenato da egoismi, discriminazioni sociali e razziali, violenza ed indisponibilità verso ciò che è diverso da noi, una eresia come quella di Riace; così come, per le stesse ragioni, appare odiosa l’avversione viscerale verso di essa. Ma pretendere che la giustizia penale faccia propri quei valori, rinunziando in nome di essi a giudicare fatti e conformità alla legge delle condotte, equivale a negare il valore universale del diritto e della legge. La giurisdizione è giudizio sui fatti e sulla rispondenza delle condotte alle norme incriminatrici, nel rispetto rigoroso delle regole del processo; non è, non può mai essere, lo stilare elenchi dei buoni e dei cattivi, dove, inesorabilmente, i buoni siamo sempre noi, ed i cattivi sempre gli altri da noi. Campania. Carceri, 32 detenuti senza dimora accolti dalle associazioni redattoresociale.it, 7 ottobre 2021 Sono 32 i detenuti, dei quali 26 uomini e 6 donne, senza fissa dimora accolti da diversi enti della Campania. Questa mattina il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Da ottobre dello scorso anno ad oggi 32 detenuti (26 uomini e 6 donne) senza fissa dimora, in Campania, hanno potuto accedere alle misure alternative al carcere grazie all’accoglienza assicurata da alcune associazioni di volontariato È quanto emerso dall’incontro tra il Garante Regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e le associazioni vincitrici del progetto di Cassa delle ammende riguardante l’accoglienza di detenuti senza fissa dimora; un incontro sul quale si è fatto il punto sulle criticità riscontrate e sulle buone prassi ancora da seguire. Gli enti “Cooperativa Less” (Napoli), “Migranti senza frontiere Onlus” (Salerno), “Cooperativa San Paolo” (Salerno), “Croce Rossa Italiana” (Comitato Napoli nord - Casoria), “Cooperativa L’uomo ed il legno” (Melito di Napoli), “Cooperativa Il Melograno” (Benevento), “Associazione Generazione Libera” (Caserta), “Associazione di promozione sociale Tarita” (Sant’Egidio del Monte Albino), da ottobre 2020, hanno accolto in totale 32 detenuti. “Sono grato alle cooperative e alle associazioni che hanno svolto un lavoro encomiabile accogliendo i diversamente liberi con non poche difficoltà: le aree educative, talvolta, non hanno mostrato totale collaborazione alla partecipazione dei detenuti in queste case di accoglienza. In non pochi casi erano anche detenuti/e con problemi sanitari e psichici. I posti e i finanziamenti per le unità abitative erano in totale per 65 detenuti/e, ma con mia somma meraviglia sono arrivate dalle carceri meno richieste, nonostante fossero previsti anche dei posti riservati alle detenute madri con figli”, ha detto il Garante Regionale dei detenuti Samuele Ciambriello”. Questo periodo transitorio di accoglienza e di inclusione, non è stato vissuto solo da detenuti immigrati spesso irregolari, ma anche da italiani che in carcere non ricevevano visite dai propri congiunti o che erano stati allontanati dal nucleo abitativo. Mi auguro che Cassa ammende - ha concluso - possa riservare ulteriori finanziamenti per questa tipologia di progetto, perché il detenuto senza fissa dimora una volta raggiunto il fine pena, e quindi fuori dal carcere, se non seguito a dovere, rischia di entrare nel circolo della criminalità o diventa recidivo”. Veneto. Detenuti con problemi psichiatrici, poliziotti senza un protocollo d’intervento rovigooggi.it, 7 ottobre 2021 La Cgil chiede un incontro al Provveditore sui problemi all’interno delle carceri del Veneto. “Come Fp Cgil Veneto abbiamo rinnovato la nostra richiesta al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di esame congiunto sull’organizzazione lavorativa interna alle carceri Venete, dopo che lo stesso non ha preso in considerazione la nostra proposta”. Sono le parole di Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale della Fp Cgil Polizia Penitenziaria e della segretaria regionale Fp Cgil, Franca Vanto “Come sindacato poniamo dei punti di riflessione e di ricerca di soluzioni, quali: legge 81/14, che ha portato giustamente alla chiusura degli Opg, ma di conseguenza ha riversato all’interno delle carceri soggetti con problemi psichiatrici. Questo ha comportato che con l’arrivo di questi soggetti problematici i poliziotti operano senza nessun protocollo d’intervento. Situazione, questa, assurda e che la stessa Amministrazione Penitenziaria non sta facendo nulla per rimediare a questa mancanza, che porta ad avere all’interno delle carceri un numero alto di eventi critici e personale di polizia che ricorrere spesso a cure mediche. Infatti, molto spesso è il povero agente di vigilanza alla sezione detentiva a dover sbrigare eventi critici da solo e con la propria esperienza o con l’esperienza di altri poiché è appena assunto. Particolari questi di non poco valore e che attualmente non sono presi nella dovuta considerazione o dato il giusto peso che meritano”. “Come Sindacato riteniamo che per quanto sopra esposto, sia in materia di detenuti con problemi psichiatrici, che per i protocolli d’intervento e per la formazione al personale il confronto deve essere fatto oltre ai sindacati di categoria ma anche con la sanità penitenziaria, che ha un ruolo fondamentale nel gestire determinate situazioni e di diminuire gli eventi critici. Da non dimenticare il ruolo importante, che ha anche il terzo settore, il volontariato e cooperative, all’interno del carcere. Particolare attenzione va data a quel personale impiegato a svolgere servizio di vigilanza all’interno delle sezioni detentive, poiché subisce la maggior parte di stress. Infatti è consuetudine, in tutti gli Istituti del Distretto, inserire sempre nei posti di vigilanza nelle sezioni personale più giovane, che solo dopo molto tempo trascorso all’interno delle stesse potrà essere sostituito a sua volta da altro personale più giovane proveniente dai corsi di formazione. È facile notare che in nessun Istituto del distretto è dotato o attrezzato di un servizio in cui far transitare per un certo periodo il suddetto personale, questo per staccare da quella forma di stress che è dato nel svolgere il servizio all’interno della sezione detentiva. Sono questi i temi che abbiamo chiesto di affrontare al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria al fine di evitare o far diminuire sia il forte disagio subito da tutto il personale che lavora all’interno delle carceri venete anche per la tutela stessa degli operatori”. Molise. Carceri alle prese con mille criticità, incontro in Assessorato alle Politiche Sociali isnews.it, 7 ottobre 2021 Tante e di vario genere le problematiche con cui fanno i conti da tempo gli istituti penitenziari di Campobasso, Isernia e Larino. Di questo si è parlato questa mattina presso la sede dell’Assessorato alle Politiche Sociali di via XXIV Maggio a Campobasso, su richiesta delle organizzazioni sindacali. L’assessore regionale Filomena Calenda ha accolto infatti la richiesta di convocazione di un incontro inoltrata dai sindacati e ha organizzato a stretto giro l’assemblea per individuare gli step da seguire utili all’eventuale raggiungimento di soluzioni che possano migliorare la situazione carceraria in Molise. Alla riunione ha partecipato anche la dottoressa Leontina Lanciano, Garante dei diritti per i detenuti. Intanto permane il problema del sovraffollamento ma i riflettori si sono accesi anche sulla gestione sanitaria dei tre Istituti, la carenza di organico e la sicurezza interna ed esterna delle strutture penitenziarie. I sindacati hanno spiegato che tra pensionamenti, trasferimenti e malattie, legate spesso al Covid-19, anche nelle case circondariali molisane il personale penitenziario si è di fatto dimezzato, rendendo la situazione estremamente critica e dalla difficile gestione. “Parliamo di lavoratori - ha detto l’assessore Calenda - che compiono una professione usurante soprattutto sotto il profilo psicologico. E parliamo anche di una popolazione, quella ospite nelle carceri, che allo stesso modo (soprattutto se già affetta già da proprie fragilità psicofisiche) subisce i contraccolpi frequentemente deleteri delle difficili condizioni che riscontra nei Penitenziari”. Calenda ha ascoltato con particolare attenzione le questioni relative alla sanità penitenziaria, al disagio sociale, all’esigenza di potenziare il personale e di miglioramento delle condizioni di sicurezza e ha garantito che per le problematiche che richiedono interventi a livello Centrale non mancherà il supporto della Regione Molise affinché la tematica non sia più rinviata e resti quindi perennemente insoluta, mentre per altre tematiche di cui sono chiamate a farsi carico le Istituzioni locali “si procederà da subito - ha assicurato l’assessore - ad operare alacremente per le soluzioni più idonee, investendo anche il presidente della Regione Molise (come hanno chiesto le organizzazioni sindacali presenti all’incontro) perché si faccia portavoce con il Ministero di competenza delle istanze che arrivano dal territorio molisano”. Fermo. Riprendono le attività per cinquanta detenuti di Angelica Malvatani Il Resto del Carlino, 7 ottobre 2021 La direttrice: “Siamo pronti. Loro sono tutti vaccinati. e possiamo riprendere in sicurezza”. Passa per le attività formative e ricreative il processo di recupero di un carcere, passa per la scuola, la musica, il teatro e soprattutto il lavoro. Per questo i mesi della pandemia da Covid sono stati particolarmente difficili nella casa circondariale di Fermo, ad oggi sono meno di 50 i detenuti che qui scontano la loro pena, per mesi sono state interrotte, per evitare contagi, praticamente tutte le attività, comprese le visite in presenza dei familiari. Un impegno che ha consentito alla direttrice, Daniela Valentini, e al comandante Loredana Napoli di scongiurare il pericolo di focolai e di gestire in maniera abbastanza serena la situazione. “Certo, racconta la direttrice, la mancanza di attività si è fatta sentire, sono stati mesi lunghi e pesanti per tutti, anche per il personale. Oggi siamo pronti a ripartire, i detenuti sono praticamente tutti vaccinati e le attività possono riprendere in sicurezza”. È già ripresa l’attività scolastica, gestita da insegnanti appassionati e preparati, nelle prossime settimane riprenderanno anche gli incontri per i corsi di formazione di teatro e presto sarà riorganizzato il percorso di Pet therapy, per la gestione delle emozioni con l’aiuto dei cani addestrati. “Molto apprezzato anche il corso per parrucchieri, all’inizio della pandemia stava partendo la seconda edizione di un percorso formativo molto qualificante per i detenuti che però abbiamo dovuto interrompere, speriamo di ripartire prima possibile”. Riparte anche l’attività del giornale del carcere, i detenuti sono i redattori della testata ‘L’altra chiave news’ che vale come strumento di comunicazione tra dentro e fuori, soprattutto tra il carcere e il mondo della scuola. “Sono proseguiti gli incontri con le scuole nati proprio col progetto del giornale, prosegue la direttrice, in questi giorni abbiamo avuto anche il piacere di ricevere una bella donazione di libri acquistati da alcuni alunni dell’istituto Tarantelli di Sant’Elpidio a Mare. Ringraziamo in particolare Cecilia Andrenacci e Nagwa Zakari che, insieme alla docente Domitilla Nucci, ci hanno fatto avere questo pensiero. Gli studenti hanno compreso l’importanza di riempire le ore dei detenuti di cose belle, di cultura, di possibilità e questo proviamo a fare, ogni giorno, con l’aiuto di tutto il personale del carcere e degli agenti di Polizia Penitenziaria”. Il comandante Napoli ha sottolineato proprio l’impegno degli agenti che davvero si sono spesi al massimo per garantire ordine e sicurezza, dentro e fuori le mura del carcere, nei mesi più difficili: “Dalla scorsa estate sono ripresi in pieno i colloqui in presenza con le famiglie, abbiamo installato pannelli di plexiglass e si sta con la mascherina ma almeno si può garantire una certa vicinanza che davvero in questi luoghi può fare la differenza. Il Covid ha interrotto per un po’ tante possibilità, oggi ci rimettiamo in cammino”. Fermo. “Nuovo carcere fuori dal centro” di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 7 ottobre 2021 Incontro in Comune con il Garante regionale. Giulianelli: “Più sicurezza per i cittadini”. Un primo passo per una nuova struttura penitenziaria, che andrebbe a sostituire quella attuale, divenuta ormai obsoleta. Una data per certi versi storica quella di ieri, in cui il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro, ha incontrato il garante per i diritti della persona delle Marche, Giancarlo Giulianelli, insieme al presidente dell’Ordine degli avvocati, Stefano Chiodini, al presidente della Camera penale, Andrea Albanesi, e il responsabile regionale dell’Osservatorio carcere dell’unione Camere penali, Simone Mancini. Giulianelli ha esposto al sindaco la possibilità di iniziare il percorso politico e amministrativo per l’ambizioso obbiettivo di edificare un nuovo carcere in territorio del comune di Fermo. La nuova struttura comporterebbe un duplice vantaggio: aumenterebbe la sicurezza per la cittadinanza, per i detenuti e il personale, e libererebbe lo spazio attualmente occupato nel centro urbano, restituendo alla società civile l’antico monastero dei frati minori. Il costo dell’edificio, rientrerebbe interamente nel Piano nazionale ripresa e resilienza, ossia i fondi europei provenienti dal Next Generation EU, dunque senza gravare sulle casse del Comune né di altri organi statali. La proposta è stata accolta con favore da Calcinaro, il quale ha dimostrato la disponibilità a discutere l’iniziativa non appena si potranno avere dati più specifici da parte del garante stesso e dei ministeri interessati. Nel corso dell’incontro sia la delegazione composta da Giulianelli, Chiodini, Albanesi e Mancini, sia il sindaco, sono stati concordi sul fatto che la situazione attuale del carcere di Fermo, per gli spazi angusti, la vetustà di alcune infrastrutture, la carenza di personale, va affrontata in maniera organica, guardando di buon grado la possibilità di una nuova edilizia carceraria. È altresì evidente che una struttura adeguata, comporterebbe la concreta possibilità di favorire il percorso di rieducazione dei detenuti, sancito dalla Costituzione, quindi ridurre la recidiva a compiere nuovi reati scontata la pena, con palesi vantaggi della sicurezza del nostro tessuto sociale. Brescia. Le due carceri di nuovo sovraffollate di Federica Pacella Il Giorno, 7 ottobre 2021 Dal 2014 al 2019 l’uso delle misure alternative alla detenzione è cresciuto del 31,2% Tuttavia le presenze sono passate da 281 del 2020 alle attuali 357. Più misure alternative per i detenuti, ma le carceri non si svuotano. Dopo una breve parentesi durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, le due strutture bresciane sono di nuovo sovraffollate. Secondo la relazione annuale della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Luisa Ravagnani, al Nerio Fischione a luglio 2021 si registravano 357 presenze (164 stranieri) contro le 281 dell’anno precedente (126 stranieri), a fronte di una presenza regolamentare che dovrebbe essere di 186. A Verziano sono 97 i detenuti (40 donne, 27 stranieri), in aumento rispetto agli 82 di luglio 2020 (allora c’erano 32 donne, 23 stranieri): comunque sopra i 71 previsti. “Dal 2014 al 2019 le misure alternative sono aumentate del 31,2%, ma l’applicazione riguarda più facilmente persone all’esterno del carcere in attesa di esecuzione della condanna. E poi c’è il fenomeno del net-widening, ovvero anziché ridurre il numero di fattispecie per cui è previsto il carcere, si tende ad aumentare questa previsione”. I più penalizzati sono gli stranieri: solo il 18,4% ha avuto accesso a misure di esecuzione penale esterna. “Ciò accade non perché ci sia una gravità superiore dei reati o una maggiore pericolosità sociale degli stranieri - sottolinea Ravagnani - ma per il minore legame con il territorio di appartenenza e la minore disponibilità di risorse quali l’abitazione o l’attività lavorativa”. La pandemia non è passata indenne per i detenuti: nel Bresciano registrati due suicidi. “C’è stata una vera chiusura del carcere, con la sospensione di molte attività. Altro problema sono stati i trasferimenti - racconta Ravagnani - Chi chiede di essere trasferito deve aspettare molto tempo. Al contrario, durante la pandemia, per ragioni di sovraffollamento sono state spostate persone che stavano facendo percorsi trattamentali, azzerando quanto già iniziato”. Resta fondamentale il rapporto col territorio, a cui Ravagnani si appella per sviluppare iniziative lavorative in carcere, soprattutto al Nerio Fischione. Da parte sua, il Comune vorrebbe mettere a disposizione dei fine pena dai 6 agli 8 monolocali da tempo vuoti. L’assessore ai Servizi sociali Marco Fenaroli si è confrontato con la Regione, ma sembra insormontabile la norma che vieta l’impoverimento del patrimonio pubblico a fronte dell’emergenza abitativa. Belluno. Sezione psichiatrica del carcere, i sindacati chiedono di parlare col prefetto amicodelpopolo.it, 7 ottobre 2021 Le organizzazioni sindacali denunciano nuovi, gravi eventi critici nella Casa Circondariale di Baldenich, a Belluno. Le organizzazioni sindacali Cisl Fns, Cgil Fp Pp, Fsa Cnpp, Osapp e Sappe, rappresentative presso la Casa Circondariale di Belluno, denunciano nuovi, gravi eventi critici presso la sezione psichiatrica dell’istituto bellunese. “Tra i vari sgradevoli episodi di quest’ultimo periodo”, si legge nella nota diffusa dai sindacati stamattina, mercoledì 6 ottobre, “l’apice è stato raggiunto nella giornata di martedì, dove un “paziente detenuto” della sezione Articolazione per la Tutela della Salute Mentale, già allontanato tempo fa dalla Casa Circondariale di Belluno per motivi di sicurezza, ha aggredito due unità di polizia penitenziaria in servizio presso la sezione, prima con le gambe metalliche di un tavolo che aveva rotto per lo scopo, poi con una lametta occultata negli indumenti. Solo la calma e la professionalità dei due poliziotti hanno limitato i danni fino all’arrivo di altro personale che allarmato accorreva in soccorso”. Le organizzazioni sindacali denunciano inoltre “la passività del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ancora non hanno provveduto alla chiusura della sezione psichiatrica della Casa Circondariale di Belluno, come deliberato dalla Giunta Regionale del Veneto (delibera n. 793 dell’11 giugno 2019), per inadeguatezza strutturale e sanitaria. Reparto che continua a barcollare, in assenza di presidi medici adeguati per una sezione particolare come quella in esame, dove gli utenti continuano nella loro regressione patologica, mettendo a repentaglio la loro incolumità e quella dei poliziotti in servizio”. Sempre martedì, in un altro reparto dell’istituto, grazie alla professionalità e alla tempestività dei poliziotti è stato sventato un tentativo di suicidio. “Sarà cura delle organizzazioni sindacali”, è scritto nella nota, “chiedere un incontro urgente con il Prefetto di Belluno, per aggiornarlo sulle gravi condizioni di sicurezza all’interno dell’istituto bellunese, acutizzate dalla carenza di personale”. Infine le organizzazioni sindacali vogliono manifestare piena solidarietà ai poliziotti penitenziari incorsi nell’aggressione e complimentarsi con i loro colleghi per il tempestivo intervento che ha salvato una vita umana. Napoli. L’eredità del professor Giuseppe Riccio e la riforma del processo penale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2021 Il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli, per le giornate di venerdì e sabato (8 e 9 ottobre), ha organizzato un convengo di alto valore scientifico che ha l’obiettivo di cogliere il fil rouge che lega gli studi e le idee dello scomparso professor Giuseppe Riccio con i lavori della commissione da lui presieduta - di cui hanno fatto parte molti dei relatori -, lavori che hanno influenzato quelli della commissione di studio nominata dalla ministra Marta Cartabia per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato. Il convegno è in ricordo del professor Giuseppe Riccio - scomparso il 14 giugno scorso - emerito di Diritto processuale penale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Autore di molte opere scientifiche, componente laico del Consiglio superiore della magistratura, è stato presidente della commissione di riforma del codice di procedura penale nel 2006, ma soprattutto è unanimemente ricordato come persona di grande umanità e insigne Maestro della Scuola processual-penalistica. Il dibattito in corso in questi mesi, relativo alla necessità di approvare nel minor tempo possibile una riforma che renda più efficiente il processo penale, ha messo in luce il bisogno di rafforzare la cultura della giurisdizione con la previsione, ad esempio, delle cosiddette finestre di giurisdizione, già immaginate nel 2006 dalla commissione Riccio con l’obiettivo di riportare in equilibrio i complicati rapporti fra pubblico ministero, giudice e parti fin dalle indagini preliminari. La prima giornata di studio si terrà nell’aula Pessina dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e sarà divisa in tre sessioni, nelle quali si affronteranno i nodi problematici della fase investigativa e di quella del giudizio di primo grado. Dopo i saluti istituzionali del Magnifico Rettore Matteo Lorito, del direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Sandro Staiano ed un ricordo della figlia Mariagiovanna, la presentazione del convegno è affidata al professor Agostino De Caro, tra i primi allievi del professor Riccio a Salerno e con lui co- autore, insieme al magistrato Sergio Marotta, del volume “Principi costituzionali e riforma della procedura penale”, da cui le giornate di studio prendono a prestito il titolo. Saranno relatori, inoltre, i professori Ennio Amodio, Francesco Caprioli, l’avvocato. Alfonso Furgiuele e il Consigliere Raffaello Magi, noto per essere stato l’estensore - nel 2005 - della sentenza di primo grado del maxiprocesso cd. Spartacus sull’attività criminosa del clan dei casalesi negli anni 1988- 1996. La seconda giornata di studi, che si terrà nell’aula Arengario del Tribunale di Napoli, inizierà con i saluti istituzionali del Presidente della Corte d’Appello di Napoli, Giuseppe De Carolis Di Prossedi, del Procuratore generale, Luigi Riello e del presidente del Tribunale, Elisabetta Garzo. Il convegno si articolerà in due sessioni: la prima, la cui moderazione è affidata al Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, avrà ad oggetto la complessa disciplina delle impugnazioni con le relazioni del professor Giorgio Spangher, Mariano Menna e del Consigliere Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm. Tra i relatori della seconda sessione ci saranno invece il procuratore della Repubblica, Giovanni Melillo, e il professor. Vincenzo Maiello, che si occuperanno del rapporto tra processo e mass- media e processo e tempo. Non mancherà il contributo scientifico di autorevoli Maestri come il professor Paolo Ferrua, dell’Università di Torino. L’evento è patrocinato dall’Università degli Studi di Napoli Federico II, dalla Struttura territoriale della Corte di Appello di Napoli della Scuola Superiore della Magistratura e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Messina. Doppio appuntamento per il via al Progetto “Liberi di Essere Liberi” unime.it, 7 ottobre 2021 Oggi, alle ore 11, il Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche ospiterà l’iniziativa “Liberi di essere Liberi”, progetto che mira a divulgare la conoscenza del mondo carcerario all’esterno con il coinvolgimento di docenti e studenti. Saranno presenti il Prorettore Vicario, prof. Giovanni Moschella, le docenti, prof. ssa Anna Maria Citrigno e prof.ssa Lucia Risicato, la dott.ssa Simona Raffaele, la dott.ssa Angela Sciavicco (Direttore della Casa Circondariale di Messina), la dott.ssa Francesca Arrigo (Presidente del Tribunale di Sorveglianza), l’attore e regista Giampiero Cicciò, e l’attore e regista Tindaro Granata. Quest’ultimo, insieme all’aiuto regia Antonio Previti, all’attore Pippo Venuto, alla costumista e scenografa Francesca Cannavò e al Presidente di D’aRteventi, dott.ssa Daniela Ursino, racconterà l’esperienza del Progetto teatrale all’interno del Carcere di Messina che fungerà da avvio di una progettualità da condividere insieme per creare un processo di osmosi tra la comunità carceraria e la città. Venerdì 8 ottobre, alle ore 15, gli studenti parteciperanno ad un incontro con i detenuti all’interno del Teatro “Piccolo Shakespeare” della Casa Circondariale di Messina. Sarà un appuntamento di confronto fra studenti e detenuti e ci sarà spazio per un momento performativo, realizzato dall’attore Tindaro Granata il quale dirige il Laboratorio femminile di alta sicurezza. Torino. “Sette lettere più una”, il mondo del carcere raccontato alle Fonderie Limone torinoggi.it, 7 ottobre 2021 L’idea nata durante la pandemia alla Casa Circondariale di Torino diventa uno spettacolo: appuntamento domenica 10 ottobre, alle 21, a Moncalieri. Sette lettere ricevute, e non viste, più una scritta finalmente dai protagonisti che segna il superamento di una condizione di passività, paura e isolamento. La lettera con il suo messaggio di speranza, arriva da un territorio di separati dal mondo e di separati tra loro, anche per questo assume particolare intensità per noi, cittadini liberi ma alle prese con un momento di grande incertezza e difficoltà. Lo spettacolo “Sette lettere più una” è il risultato del laboratorio teatrale condotto a Torino dalla Compagnia Teatro e Società, con la Scuola sui Mestieri del Teatro nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra” come ricon?gurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” coordinato da ACRI e sostenuto a Torino e a Genova dalla Fondazione Compagnia di San Paolo. L’iniziativa, avviata a livello nazionale 4 anni fa col supporto di 12 fondazioni, vede il coinvolgimento, in 13 istituti di pena, di circa 250 detenuti in percorsi di formazione artistica e professionale sui mestieri del teatro. Il laboratorio, iniziato a ottobre 2020 con il sostegno organizzativo e la collaborazione dell’IPIA Plana - Casa Circondariale di Torino e del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, ha coinvolto circa 20 detenuti che, nonostante le difficoltà della pandemia, hanno potuto partecipare alle attività per l’allestimento: dall’illuminotecnica alle scenografie. “Sette lettere più una” è stato ideato da Claudio Montagna insieme ai detenuti ed è ispirato ai loro pensieri raccolti in lettere e poesie. Per problemi connessi con la pandemia “Sette lettere più una” non può essere rappresentato da loro in carcere ma sarà portato in scena da attori professionisti il 10 ottobre alle ore 21 alle Fonderie Limone di Moncalieri. “Per la prima volta dopo quasi trent’anni di laboratori teatrali in carcere, ci siamo trovati di fronte all’impossibilità di creare quell’incontro prezioso tra città e carcere che completa i laboratori, ma non abbiamo voluto rinunciare a trasferire il loro messaggio - spiega il regista Claudio Montagna - disperdendo, in più, il risultato di un grande impegno che tutti: la Direzione e gli Agenti di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale, l’Ipia Plana, il Teatro Stabile, la Fondazione Compagina di San Paolo hanno voluto mettere in campo per superare ogni difficoltà del momento. E anche questo è un segnale che la performance vuole dare alla città”. “Sette lettere più una” parla, attraverso storie di pirati e fuggitivi, di isolamento, di paura dell’altro, di fuga dal male, di ricerca di un rifugio, di bisogno di pace e serenità sulla via di una crescente consapevolezza verso il cambiamento. Il Male c’è e non ci si salva da soli è il messaggio di cui i detenuti si fanno portatori importanti in quanto autori, e vittime, del male ma che riguarda tutti e diventa centrale nell’uscita da una pandemia che richiede una nuova capacità di scoprire l’umanità dell’altro, i suoi sentimenti e valori e, infine, simbolicamente e anche più materialmente, come spiega lo spettacolo, l’indispensabilità dell’altro. Il concorso Carlo Castelli premia i racconti dei detenuti di Baroncia Simone korazym.org, 7 ottobre 2021 Si terrà venerdì 8 ottobre la XIV edizione del Premio ‘Carlo Castelli’ per la solidarietà, concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane, promosso dalla Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, con i patrocini di Camera, Senato, Ministero della Giustizia, Università Europea di Roma e con uno speciale riconoscimento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Quello del carcere è un mondo difficile, ma che sa sorprendere con una solidarietà inaspettata. Volontari, operatori, educatori, lo sanno bene: talvolta è proprio chi nella vita ‘ha sbagliato’, a compiere gesti di attenzione verso quel mondo esterno da cui è stato separato. ‘Il contagio della solidarietà vince ogni pandemia e ogni barriera’ è il tema della XIV Edizione del ‘Premio Carlo Castelli per la solidarietà’, concorso letterario dedicato ai detenuti. Al Premio Castelli collaborano il Pontificio Dicastero per la Comunicazione, con Vatican News e le emittenti della CEI TV2000 e Radio inBlu. Non a caso, visto che la pandemia è entrata nei racconti dei reclusi, è stato scelto il carcere della città che ha pagato il prezzo più alto durante la prima ondata dell’emergenza: la Casa Circondariale intitolata a don Fausto Resmini, sacerdote dei poveri e cappellano, stroncato dal coronavirus nel marzo 2020. Quest’anno, più che in passato, si può apprezzare il valore della solidarietà che hanno espresso donne e uomini che in un periodo di pandemia particolarmente pesante, anche se limitati nel loro ridotto spazio fisico e nella libertà di movimento, hanno contribuito, con piccoli ma significativi gesti, ad aiutare coloro che sono oltre il muro, come ha scritto Antonio Gianfico, presidente della Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli: “Persone come noi che, seppure responsabili di errori, sono capaci di amare, di sognare, di preoccuparsi per gli altri, parenti e sconosciuti, di sentirsi coinvolti al punto di dare lezioni di solidarietà a quanti, liberi, sono tuttavia prigionieri del loro egoismo e dell’incapacità di amare… Un merito importante va anche ad operatori e dirigenti carcerari che, sensibili e rispettosi delle persone recluse, hanno accompagnato lo svolgersi delle attività intraprese. Queste iniziative di solidarietà possano essere le basi per ripensare nuovi modelli di reclusione, uno stimolo per chi ha la responsabilità, oltre che di garantire la sicurezza, anche quella di educare e di favorire il reinserimento delle persone affidate. Siano esperienze da valorizzare e sviluppare in un concetto diffuso di giustizia, non più di mero assistenzialismo. Diventino parte preponderante di una formazione volta a rafforzare i legami affettivi e a irrobustire quelli con la società operosa, a sua volta capace di accogliere”. Il presidente della giuria del concorso, Luigi Accattoli, ha spiegato il grande numero dei partecipanti: “Il richiamo, nel tema assegnato a questa edizione, al ‘contagio della solidarietà che vince ogni pandemia e ogni barriera’ ha provocato i partecipanti al concorso a segnalare similitudini e difformità nella reazione alla pandemia da parte del popolo delle carceri rispetto all’insieme della società, con particolare attenzione ai sentimenti e alle iniziative solidali che la sfida del Covid-19 ha suscitato tra i detenuti e verso il mondo esterno. Ma il ‘Premio Carlo Castelli per la solidarietà’ è molto più di un concorso letterario, perché offre la possibilità, a chi ha sbagliato, di fare qualcosa di buono per la società. Il premio in denaro, infatti, è suddiviso in due parti: una viene accreditata al recluso, autore del racconto, un’altra parte viene destinata ad un’opera nel sociale. Così, chi vince, avrà la possibilità di finanziare un progetto di reinserimento nel mondo del lavoro, o un’adozione a distanza, o la costruzione di un’aula scolastica, e così via”. Alla cerimonia di premiazione seguirà un convegno a cui parteciperanno relatori e ospiti illustri accolti dalla Direttrice della Casa Circondariale di Bergamo Teresa Mazzotta, che parlerà del senso della pena oggi. Tra gli invitati la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, il giornalista e scrittore Luigi Accattoli, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria perla Lombardia Pietro Buffa, il Magistrato Pietro Caccialanza che per oltre 30 anni ha ricoperto il ruolo di Giudice della Corte d’Appello, la giornalista Carla Chiappini che del carcere di Parma coordina la redazione di Ristretti Orizzonti, il Presidente vicario del Tribunale di Sorveglianza di Brescia Gustavo Nanni, il Comandante della Casa Circondariale di Bergamo Aldo Scalzo, il Direttore della Casa circondariale di Milano San Vittore Giacinto Siciliano, la Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti Valentina Lanfranchi, e molti altri. La cerimonia di premiazione sarà trasmessa in streaming sul sito web sanvincenzoitalia.it sabato 9 ottobre alle ore 18,30, mentre il convegno verrà trasmesso giovedì 14 ottobre alle ore 18,30 allo stesso link: https://www.sanvincenzoitalia.it/la-xiv-edizione-del-premio-carlo-castelli/ Ilda Boccassini: i figli, le inchieste, gli attacchi. Storia di un’irregolare di Roberto Saviano Corriere della Sera, 7 ottobre 2021 “La stanza numero 30” (Feltrinelli), libro autobiografico di Ilda Boccassini. Se questo libro avesse potuto esser scritto con il sangue, le lacrime, la saliva, le unghie, ciocche di capelli, brandelli di vestiti, vetri d’auto blindata, forchette, ebbene sarebbe stato scritto con ogni singolo elemento di questo elenco. Ilda Boccassini ha messo tutto, potrei dire che su queste pagine si è spogliata d’ogni cosa, nuda. Dovrei scegliere un termine più preciso: scorticata, perché va oltre la pelle, affronta tutto, l’osceno mondo del potere, il tenero spazio delle alleanze, il romantico slancio degli ideali. Questo libro è il racconto di una donna magistrato, che non si è mai sentita davvero comoda nel suo ruolo in una Repubblica malata, ferita, e che nei momenti di maggior tensione, così come in quelli di formazione, sempre è stata un’irregolare. Certo, essendo un mondo di quasi tutti uomini si potrebbe pensare a una questione di genere, ma sarebbe riduttivo. Ben presto si accorge che lo spazio del diritto, che lei con ogni forza ha voluto occupare, quasi mai coincide davvero con lo spazio dei tribunali, delle procure, delle sentenze. Questo toccante mémoire si apre e termina accanto a una Ilda intenta a rimettere a posto nelle sue stanze piene di lettere e nei suoi ricordi. Mette a posto le carte, Ilda, e prova a far ordine dentro di sé. Il primo, fatale incontro, con le pile di carta tra le quali gioca, bambina, nello studio del padre magistrato, lì dove tante volte le capiteranno tra le mani fotografie di omicidi che le turberanno il sonno e le orienteranno l’esistenza. La bambina cresce, diventa una donna, “Ilda la rossa” che non risparmia nessuno, nemmeno se stessa. Davanti all’etica, alla professione, è di un rigore inscalfibile, lei che, come la pianta di agave a cui è stata paragonata una volta in un articolo, resiste caparbia nelle condizioni più ostili. Sì, perché questa dedizione totale alla giustizia, se fosse stata sfoggiata da un uomo gli sarebbe valsa riconoscimenti e apprezzamenti, ma portata da lei si trasforma in condanna sociale, delegittimazione, motivo di biasimo e attacchi personali. La prima di una sterminata serie di volte in cui si scontra con questa realtà misogina, la seguiamo, giovanissima, in un’aula di tribunale in veste di uditrice: un collega si presenta sempre armato e lei e un’amica, per prendere in giro questo gratuito sfoggio di machismo, un giorno portano con sé delle pistole ad acqua colorate. Inutile dire su chi si siano riversate le ire dei più anziani. Il libro non può esser svelato, va semplicemente letto, perché si rivela al lettore, non è possibile disvelarlo. È un concentrato di storia della nostra democrazia nei momenti di crisi più importanti. Il centro narrativo, che tracima di felicità e dolore al contempo, è l’incontro con Giovanni Falcone, per Ida un mentore, un riferimento umano e professionale al quale è legata da un profondo sentimento di rispetto e stima reciproci, tanto che, come scrive la stessa autrice, il 23 maggio 1992 sarà per lei “il giorno in cui tutto finisce e tutto comincia”. Finisce quel giorno il rapporto con una persona importante per la sua crescita umana e professionale, dagli altri magistrati tanto pianta da morta quanto odiata, invidiata, ignorata quando non apertamente osteggiata in vita. Comincia quel giorno il personalissimo modo di Ilda Boccassini di portare nella pratica gli insegnamenti e l’esperienza di Falcone, la strenua difesa del suo nome dagli sciacalli che prima l’hanno isolato, per poi tentare di saccheggiarne la memoria per un tornaconto personale. Sulla scia del suo amico e collega, accetta, come una sorta di pesante testimone, la condizione di emarginata, irrisa, odiata, perseguitata, contrapponendo sempre all’isteria di massa, alle facili euforie collettive, un lavoro silenzioso e incessante. Ilda, da Falcone, eredita il metodo di indagine, la prudenza investigativa, l’uso mediatico delle proprie dichiarazioni, che non devono mai impattare sulla sua credibilità, nemmeno per andare in cerca di un consenso troppo spesso usato per sopperire a mancanza di prove o di capacità di indagine. Cita le parole del suo mentore, che in Cose di Cosa nostra (1991) scriveva: “Oltre ad avermi insegnato una lingua e una chiave di interpretazione, Buscetta mi ha posto di fronte a un problema decisivo. Mi ha fatto comprendere che lo Stato non è ancora all’altezza per fronteggiare un fenomeno di tale ampiezza […] e ha aggiunto: ‘L’avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio diventerà una celebrità ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?’”. Eccolo qui, il coraggio, che non è il lanciarsi nell’ignoto o il rischiare, tutt’altro, è il dover raccogliere su di sé una scelta. È quello che fa Ilda quando sceglie il trasferimento in Sicilia, sulle tracce dei responsabili della morte di Giovanni. Non si accontenta di sapere chi ha materialmente fatto cosa: lei vuole tutti, punta ai mandanti. Ma il suo modo di scandagliare i fatti, andando oltre la superficie, rischiarando le “zone grigie” dove sfumano i contorni tra mafia e potere, bene e male, risulta scomodo in un’Italia che si trincera dietro l’illusione che esistano solo il bianco e il nero, gli eroi e i nemici. Ilda Boccassini ne incontra tanti, di colleghi che “accettano di sponsorizzarsi come si fa con una batteria di pentole”, di giornalisti asserviti e senza etica, di parlamentari che fanno gli interessi unicamente dei propri demoni, e li chiama tutti per nome, attirandosi addosso un arsenale pesantissimo che ha munizioni legali e mediatiche capaci di atterrare chiunque. Come se scegliere di stare dalla parte di chi non accetta a capo chino ingiustizia e corruzione significhi rinunciare alla propria vita privata, Ilda si ritrova più volte a fare i conti con un’enorme lente d’ingrandimento perennemente puntata addosso, pronta a mettere in evidenza qualsiasi imperfezione e a deformare ogni suo spostamento. Eminenti giornali scandalistici del calibro di Chi, di proprietà della famiglia Berlusconi, le dedica pagine e pagine, interi servizi basati sul nulla, su un mozzicone di sigaretta spento per strada, un acquisto in un negozio di lusso, un calzino decretato fuori moda a insindacabile giudizio di qualche ormai dimenticato articolista, un pomeriggio al cinema. E quanti “scandalosi amori segreti di Ilda” sono fioriti all’insaputa dei diretti interessati, rei magari di aver attraversato una strada a braccetto? Ma la fantasia non ha limiti, se ripensiamo al magnifico capolavoro di pura fiction pubblicato da Lino Jannuzzi in un numero del 2001 di Panorama, settimanale affezionatissimo al Cavaliere: racconta di un conciliabolo tra i procuratori Ilda Boccassini, Carla Del Ponte e Carlos Castresana, in combutta con la parlamentare Elena Paciotti per incastrare e arrestare Berlusconi. Per chi non ricordasse, era all’epoca indagato come “concorrente necessario” in reati di corruzione contestati a Renato Squillante, Attilio Pacifico e Cesare Previti e che paventavano l’esistenza di svariati falsi in bilancio e fondi neri. D’altra parte, ci provano davvero, ad atterrare Ilda, e non solo metaforicamente: come spiegare altrimenti il periodo in cui, con le indagini che porta avanti nell’Antimafia, le viene negata la scorta? Molto più rispetto dei colleghi corrotti, nei suoi racconti, viene riservato a Tommaso Buscetta, il pentito di Cosa nostra al quale Falcone si rivolgeva sempre dandogli del lei. Boccassini lo incontra spesso, dopo la strage di Capaci. Gli si rivela in tutta la sua umanità. Si parlano da pari a pari. Atteggiamento che riprende dall’esperienza del compianto collega, e che negli incontri con La Barbera e Cancemi la porterà a raccogliere informazioni fondamentali per le indagini. Proprio Cancemi darà la chiave per scoperchiare tutte le convergenze di interesse tra Cosa nostra, politica, finanza, imprenditoria, e le implicazioni nella stagione stragista. Dichiara, infatti, che Riina aveva incontrato “persone importanti” prima che venisse ucciso Falcone, persone che avrebbero garantito la revisione dei processi. Da qui riparte Boccassini, arrivando a sentire il pentito parlare degli accordi economici tra Riina e un certo Marcello Dell’Utri, emissario per conto di Berlusconi. Accordi che garantivano alle mafie un’entrata fissa di milioni e milioni di lire ogni anno. Accordo, non pizzo, ci tiene a precisare Cancemi, che nel corso degli interrogatori parlerà dell’eliminazione di Falcone come di un’operazione che permetteva di prendere due piccioni con una fava: l’interesse di Riina nel togliere di mezzo un nemico personale coincideva con quello di altri, persone potenti disturbate da questo cercare il marcio nelle intercapedini, negli anfratti dove si annidavano i potenti. Di fronte a queste dichiarazioni del pentito, i capi di Ilda cercheranno di farle capire con modi “soft” che non può pensare di intromettersi sul fronte dei “magistrati collusi” e dei mandanti occulti delle stragi, ma lei è irremovibile. Viene coniata in quel periodo l’espressione “toghe rosse”, una frangia di magistrati comunisti che, a detta di Berlusconi, complottano ingiustamente contro di lui e che ce l’hanno tanto con la sua persona, che negli anni tornano spesso alla carica, per giri di soldi poco puliti, per il coinvolgimento di ragazze minorenni in sordidi festini a sfondo sessuale… eppure, i colleghi, quelli che con Ilda avrebbero dovuto condividere, se non la qualità dell’impegno, almeno la passione civile, sono stati coesi solo nell’abbandonarla, come a suo tempo avevano fatto con Falcone, ispirando al suo funerale un’invettiva che da Goffredo Buccini è ricordata, in un articolo del Corriere della Sera, come “un violento atto d’accusa di un giudice contro altri giudici, contro un’intera corporazione e una parte della classe politica”. Ma se i fatti sono così chiari, come mai la storia si è ripetuta identica? Chi c’era al fianco di Ilda, mentre lei denunciava e in cambio ne aveva solitudine e minacce di ripercussioni? Viene incolpata, dai suoi stessi colleghi, di aver “violato il dovere di correttezza e leale collaborazione nei confronti di un organo istituzionale”. Viene definita immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato. Da questo, da questo sporco mondo che da ogni lato tenta di soffocare l’unica voce dissonante che nomina le cose per quello che sono, capiamo quanto è vero quello che l’autrice sembra voler gridare da ogni pagina, che la mafia non è un cancro che intossica una comunità di brave persone, ma che per iniziare davvero a combatterla “è invece necessario riconoscere che la mafia ci somiglia”. Riconoscere lo sporco sotto le nostre unghie significa togliere potere a chi dalle “zone grigie” professa eroismo e intanto muove pedine per renderci tutti la peggiore versione di noi stessi. È un libro colmo di delusione e diffidenza, ma senza mai perdere la speranza del riconoscersi. Non mancano gli amici, da Peppe D’Avanzo a Lionello Mancini, giornalisti che accompagnano ma non superano i suoi perimetri, l’ascoltano ma non saccheggiano le sue informazioni. Sembra esserci sempre, dietro ogni sua pagina, uno slancio, un rinfrancarsi nel pensiero di aver trovato, in mezzo a tutta la merda, anche alcuni diamanti. Tra gli incontri più densi di storia e significato, quello con Saverio Borrelli, il capo che subentra poco dopo il suo ingresso in tribunale e che finalmente dà fiducia e responsabilità a lei e alla squadra di giovani giudici nuovi arrivati, per la prima volta in prevalenza femminile. Non mancheranno frizioni, anche dolorose, eppure Borrelli rimarrà, leale e presente, a vigilare con la sua autorevolezza “benefica e capace di risvegliare la voglia di combattere senza risparmiarsi”. Ilda Boccassini sceglie di rivelarsi, pur nella consapevolezza che ancora una volta ci sarà chi andrà ad attaccarla dove trova nervi scoperti. Nervi che pulsano del senso di colpa all’idea di non aver dedicato abbastanza tempo ai figli, ma anche della pace che prova quando sente che il loro legame è più forte. Il libro è disseminato di dettagli e persino pratiche di resistenza psichica. A chi non ha smesso di insultarla, attaccarla, isolarla, risponde come ha imparato a fare negli anni, trasformando la cura di sé, la scelta della collana più bella, da rituale catartico in gesto di resistenza contro chi vorrebbe abbrutirla. Il senso dei suoi gesti cresce con lei, evolve, così come oggi cambia l’uso parsimonioso che ha finora fatto delle parole. Rompe con generosità il suo lungo silenzio, per raccontarsi in quanto donna che ha rivendicato, fin dal primo istante, il diritto di scelta, senza dover considerare di aggiungere al dolore delle decisioni più sofferte il giudizio pungente di chi vede in lei una donna aspra, che abbandona gli affetti per inseguire le sue battaglie. Scegliere costa, su questo è molto chiara. Costa alla madre che accompagna la crescita dei figli filtrata da una cornetta del telefono e salvificamente mediata da una comunità di donne, le mamme dei compagni di classe dei suoi bambini, che fanno rete per sostenerla, nella gestione dei figli come nelle sue stesse emozioni. Costa alla donna che tanto spesso si è sentita sola. La sua è “una scelta quotidiana, sofferta, lacerante”, davanti alla quale non si tira mai indietro, nella convinzione che “difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è una battaglia persa” e che il passaggio di testimone alle giovani professioniste di oggi avviene in un momento in cui è di nuovo possibile sperare che le cose cambino. Perché a nessuna potenziale Ilda di domani venga mai più preclusa la prospettiva di fare carriera perché “sei brava, ma sei Ilda”. Leggerete la storia di Ilda, ma vi troverete nel cuore pulsante della storia della nostra democrazia, quella che avrebbe potuto essere, quella in cui forse è ancora lecito sperare. Noi, prigionieri del governismo di Massimo Cacciari La Stampa, 7 ottobre 2021 A ogni tornata elettorale, sono ormai più o meno trent’anni, si ripete lo stucchevole rito del “chi ha vinto-chi ha perso”, quando ormai è chiaro che il voto dei residui elettori, tolta una parte che va dileguando di tipo ancora “identitario”, è del tutto fluttuante, completamente estranea alle vecchie faglie parlamentari di destra, centro e sinistra. Si fatica a comprendere la nuova situazione culturale e politica in cui viviamo. Una situazione in cui nell’opinione pubblica dominano la “cura” per le ricorrenti emergenze, che solo a livello sovra-nazionale possono essere affrontate, e la irreversibile delusione, dopo i fallimenti delle “riforme” costituzionali, nei confronti di ogni strategia di riassetto istituzionale fondato sul ruolo delle autonomie e una visione federalistica dello Stato. La funzione del lavoro intellettuale, se mai ve n’è una, non consiste nel fotografare lo stato delle cose, tantomeno nel farne apologia o nel deprecarlo; essa consiste nell’individuare la logica interna delle tendenze in atto e a che cosa queste possano condurre. Spesso tale logica viene oscurata o mistificata da ragioni contingenti di convenienza politica, altrettanto spesso si evita di fare i conti con essa e viene ignorata. Il lavoro critico, senza alcuna presunzione anticipatrice, con sobrietà e freddezza, è chiamato a metterla in luce e a responsabilizzare nei suoi confronti. Ora, le tendenze di fondo sembrano chiare. Di fronte a “stati di emergenza” che si ripetono, e certamente si ripeteranno in futuro su scala ancora più larga, derivanti dal rapido mutare degli equilibri internazionali, dalla riconversione dell’apparato economico-produttivo, dalla “sfida ecologica”, i principi dell’equilibrio tra legislativo ed esecutivo, della divisione dei poteri, del ruolo delle autonomie (nel senso più vasto, non solo amministrativo), sembrano diventare sempre più residui di un mondo di ieri. L’accentramento decisionale trova in queste “fisiologiche emergenze” non solo una spinta formidabile, ma, sembra, anche un’innegabile giustificazione. La delega all’esecutivo si fa prassi costante, e sempre più il momento della ratifica diviene formale. La delega all’esecutivo diviene delega perché esso legiferi tout court. La tendenza - che comporterebbe, al limite, la trasformazione dello “stato di emergenza” in “stato di eccezione” (quello che è proprio di una situazione di guerra) - viene al momento vissuta con incredibile leggerezza: chi si limita a giustificarla in base alla congiuntura, chi ne garantisce la provvisorietà e promette il rapido ritorno allo stato “normale”, e chi ancora magari la depreca, ma da un punto di vista moralistico, astratto, senza capirne la potenza. Manca totalmente un pensiero critico e democratico che affronti questa logica delle cose (assai poco vichianamente provvidenziale, temo) per cercare di mostrarne le ultime, possibili conseguenze e per opporvisi dall’interno con idee costituzionali, giuridiche, politiche coerenti e praticabili. E come potrebbero, d’altra parte, maturare visioni alternative nell’assenza di partiti politici? Una volta erano le dittature a distruggerli - oggi si sono auto-disciolti in obbedienza alla cultura dominante. Ciò che sta accadendo non è inquadrabile nelle vecchie idee. È ormai inevitabile pensare a un modello presidenzialistico? Con quali equilibri e garanzie? E la Regione quale funzione ha ancora, se la trasformazione dello Stato in senso federalistico appare ormai una vuota utopia? Ma, molto oltre queste domande, un’altra sorge, decisiva: posto che l’emergenza divenga la nostra condizione normale, fino, magari, a rendere necessaria una norma che preveda lo “stato di eccezione”, come “custodire” quell’idea di persona, che è uno dei pilastri del nostro vecchio assetto costituzionale? È del tutto logico che laddove si debba affrontare un comune pericolo o un comune nemico i diritti della persona cedano il passo al supremo interesse della Nazione. Ma che avviene se pericolo e nemico si “normalizzano”? Pongo il problema, non ho soluzioni, credo però che sarebbe necessario ragionarci prima che gli eventi facciano da sé. Da certe manifestazioni di “pensiero” negli ultimi tempi ho tratto l’idea che alcuni ritengano del tutto ovvio che il concetto di persona vada “sussunto” in quello, diciamo così, di “comunità concreta”, e che al posto di “relazioni personali” occorra porre, appunto, l’idea di ordinamento e di comunità. Ora, desidererei soltanto che si volesse comprendere a che inevitabilmente conducono queste idee e si procedesse con coerenza, senza infingimenti e ipocrisie. Queste idee comportano una radicale reinterpretazione della nostra Costituzione in una chiave di “Stato etico”, condito magari in salsa rousseauiana, quella mal digerita dal movimento (movimento, non partito per carità, e anche qui ci sarebbe da fare un bel discorso) che detiene la maggioranza dei seggi nell’attuale Parlamento. Rimandare l’appuntamento con queste scelte culturali e politiche non farà che rendere ancora più drammatici il momento e i modi in cui dovrà avvenire. La libertà è della persona o semplicemente non è. Tuttavia, è indubitabile che affermarla nelle attuali condizioni dell’organizzazione di massa, di fronte alla potenza del sistema economico, finanziario, mediatico che la regola in ogni movimento, che ne esige il sempre più capillare controllo per funzionare a regime, è compito infinitamente più arduo che nei decenni del secondo dopoguerra, fino a una generazione fa. La dimensione pubblica non è più organizzata da “dittature”, ma da quel sistema. Prima che non resti al pensiero critico altro spazio se non il tacere o il volgersi alla selva di Thoreau (la democrazia americana nasce anche da queste idee), sarebbe utile pensare a quale “contraddittorio” con esso il Politico è ancora in grado di istituire, prima di trasformarsi in un’articolazione del suo funzionamento globale, in una rete di suoi competenti Commissari. E la democrazia nel governo di chi sa e di chi può, fusi in un unico universale Mandarinato. L’Onu: “In Italia migranti sfruttati sul lavoro e poca sicurezza” di Marica Di Pierri* Il Manifesto, 7 ottobre 2021 Missione su diritti umani e attività d’impresa. L’Italia è il primo paese europeo ad essere visitato girando tra Prato, Taranto, Avellino e la Val D’Agri: siamo rimasti impressionati. “Siamo rimasti impressionati dalla situazione di sfruttamento dei lavoratori che esiste in alcune zone, ancor più perché ci troviamo in un paese europeo con normative avanzate come l’Italia”. Con queste parole il professor Surya Deva, presidente del gruppo di lavoro Onu su Business and Human right, ha commentato ai giornalisti le conclusioni preliminari elaborate dalla missione Onu su diritti umani e attività d’impresa conclusasi ieri a Roma. La visita ufficiale, la prima realizzata dal working group in un paese dell’Europa occidentale, ha viaggiato in Italia dal 27 settembre al 6 ottobre toccando in 10 giorni alcune zone nevralgiche per gli impatti delle attività di impresa sui diritti. Tra esse Prato, Taranto, Avellino, la zona estrattiva della Val D’Agri, in Basilicata, diverse zone del foggiano. La delegazione ha incontrato ministeri, autorità regionali, società civile, sindacati, imprese; ha ascoltato e raccolto documenti, posizioni e denunce. Nella conferenza stampa celebrata nell’Istituto don Luigi Sturzo, a pochi passi da palazzo Madama a conclusione della visita, Deva ha individuato le tre aree su cui il working group ha focalizzato l’attenzione: diritti dei lavoratori, inquinamento ambientale e emergenza climatica, questioni di genere. “La sicurezza e la salute dei lavoratori rappresentano una grande preoccupazione, per via dell’alto numero di incidenti sul lavoro, ma ancora più importante e sorprendente è la portata dello sfruttamento, in particolare dei lavoratori migranti”. La missione si è concentrata sui settori della logistica, dell’agroalimentare e del tessile, ma, ha affermato il presidente “l’impressione è che lo sfruttamento non riguardi solo questi settori ma che sia una questione dilagante e sistemica”. Molte organizzazioni sociali hanno salutato con favore la visita ufficiale, tra esse Fair: “La moda italiana, al primo posto nell’esportazione di prodotti verso l’Europa e seconda nel mondo dopo la Cina, non può basare il suo successo su un sistema di sfruttamento pervasivo. Le considerazioni preliminari della delegazione confermano quanto denunciamo da anni; il governo italiano deve e può fare molto di più per arginare questa deriva. Confidiamo che le raccomandazioni arrivino dritte nelle stanze di chi può decidere di cambiare le sorti di migliaia di lavoratori e lavoratrici”, ha commentato Deborah Lucchetti, presidente di Fair e coordinatrice nazionale della Campagna “Abiti puliti”. Dal punto di vista ambientale, pur avendo attraversato zone interessate da problematiche diverse (isochimica, oil&gas, industria dell’acciaio) emergono non pochi elementi comuni: la mancanza di ascolto delle preoccupazioni e delle istanze delle comunità locali da parte di imprese e enti pubblici; la necessità di rafforzare tanto gli strumenti di concertazione che quelli di monitoraggio ambientale e sanitario. Infine, rilevanti ancora oggi appaiono, secondo la lettura della delegazione, le disuguaglianze di genere. Seppur vanno gradualmente aumentando le donne sedute in ruoli apicali nelle imprese, c’è ancora molto da fare per la parità salariale e di opportunità. Le molestie sessuali sui luoghi di lavoro e nello spazio pubblico sono altro tema di massima attenzione, unito all’impatto diseguale che la pandemia ha avuto sulle donne, in termini di perdita di posti di lavoro e, contemporaneamente, di aumento della violenza domestica. In conclusione della visita, pur con il linguaggio diplomatico che si confà ad un organismo - peraltro indipendente, delle Nazioni unite - le conclusioni elaborate possono essere interpretate senza rischio di smentita come una bacchettata alle istituzioni italiane. Il report definitivo sarà pubblicato nel giugno 2022 e consegnato al Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni unite. Intanto, tra le raccomandazioni formulate in via preliminare vi è l’esortazione al governo e alle imprese a “intraprendere azioni decisive per porre fine allo sfruttamento dei lavoratori migranti stranieri e affrontare il loro status giuridico precari”; la necessità di rafforzare i controlli potenziando gli ispettorati del lavoro e di aumentare le risorse per le procure affinché le sanzioni siano effettivamente erogate a chi è responsabile di violare le regole”. Se manca ancora in Italia, secondo l’Onu, un quadro normativo organico sui diritti umani che possa rendere più efficaci gli strumenti esistenti, altrettanto fondamentale è, per avanzare nel rispetto dei diritti riconosciuti, garantirne il piano implementativo, il controllo e il sistema di sanzione. L’Italia è inoltre uno dei pochi paesi europei a non aver istituito un organismo nazionale per i diritti umani, lacuna che, secondo Deva, va colmata al più presto. *Associazione A Sud L’avvocata polacca: “Chi aiuta i migranti rischia pesanti multe e il carcere” di Alessandra Fabbretti agenziadire.com, 7 ottobre 2021 Malgorzata Jazwinska fa parte di un’associazione che offre consulenza gratuita a migranti, rifugiati e richiedenti asilo che arrivano dalla Bielorussia attraverso la rotta orientale. “In Polonia oggi chiunque venga sorpreso a dare del cibo, dell’acqua, vestiario o persino assistenza medica ai migranti che arrivano al confine, rischia una multa che può arrivare a mille euro e fino a un mese di carcere. Se queste persone vengono accompagnate o trasportate in macchina, o accolte in casa per la notte, si rischia addirittura una condanna penale per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”. A parlare con l’agenzia Dire è Malgorzata Jazwinska, avvocata dell’Associazione per il sostegno legale (Stowarzyszenie Interwencji Prawnej, Sip) che in Polonia offre consulenza gratuita a migranti, rifugiati e richiedenti asilo - tra cui iracheni, siriani, afghani ma anche africani - che arrivano dalla Bielorussia attraverso la rotta orientale. Da settembre, però, l’associazione non riesce più a lavorare. Jazwinska denuncia lo stato d’emergenza che a inizio settembre il governo di Varsavia ha imposto lungo la frontiera con la Bielorussia. Interdetto fino a novembre l’accesso a volontari, avvocati, medici e giornalisti, e persino i residenti rischiano denunce. “Il problema principale è che non abbiamo strumenti legali per evitare che i profughi vengano respinti indietro” avverte l’avvocata dello Spi, che denuncia ancora: “Non abbiamo modo di confermare quanti migranti stazionano nei boschi, non abbiamo modo di verificare se sono ancora vivi, siamo all’oscuro di tutto, sappiamo solo che uomini, ma anche donne, anziani e bambini molto piccoli vengono sistematicamente respinti verso la frontiera bielorussa e che, da svariati giorni, al confine, ci sono almeno due insediamenti di una trentina di profughi ciascuno, il primo composto da curdi iracheni e il secondo da afghani”. Uno di questi gruppi ha anche presentato ricorso ad agosto alla Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), che lo ha accolto, chiedendo ben due volte al governo polacco di accogliere i migranti e dargli la possibilità di presentare richiesta d’asilo, o almeno assistenza. “Varsavia ignora le sentenze della Cedu”, commenta l’esperta. Che aggiunge: “Non solo queste persone non possono entrare in Polonia, ma se cercano di andare verso la Bielorussia militari bielorussi di guardia lì vicino li minacciano di tornare dove si trovavano. Cioè nel nulla”. E di notte, nell’area, le temperature già scendono sotto lo zero. Stati Uniti. Pena di morte: ucciso Ernest Johnson, la giustizia come vendetta di Maurizio Patricello Avvenire, 7 ottobre 2021 Aiutare le future generazioni a vivere meglio di come abbiamo vissuto noi è l’obiettivo che tutti ci prefiggiamo. Almeno a parole. Educare, quindi, è e rimane la grande sfida di ogni singolo e di ogni società. Essendo l’uomo un intreccio di egoismo e di desiderio di donazione, di bene sporcato dal male, abbiamo compreso che fin dai primi mesi occorre accompagnare i bambini e aiutarli a discernere, di volta in volta, che cosa fare e che cosa, invece, è meglio evitare. Non tutti i valori sono uguali, non tutte le leggi sono giuste. Non tutti i ‘diritti’ sono davvero tali. Come in ogni cosa c’è una scala. Ogni costruzione inizia dalle fondamenta e, pian piano, sale verso il tetto. Il fondamento di tutto ciò che ci riguarda sta nel fatto di essere nati. Diritto alla vita, dunque. Un diritto che va al di là della ‘qualità della vita’. Poveri e ricchi hanno gli stessi diritti di vivere ed essere felici. Accade purtroppo che il nostro diritto alla vita potrebbe essere minacciato, o, addirittura, stroncato da qualcuno. Quando accade, la società civile s’indigna, protesta, chiede giustizia. Nel corso dei secoli è accaduto che la parte offesa si facesse giustizia da sola. Il più delle volte, una vera e propria vendetta. È successo fino all’altro ieri, in casa nostra. Grazie a Dio, col passar del tempo, siamo riusciti a vergognarci di codeste oscenità. La giustizia deve essere sempre giusta. Deve cioè tener presente chi è Tizio e perché ha ucciso Caio; se aveva la precisa volontà di farlo o incappò in un incidente. E, soprattutto, se, nel momento del delitto, era sano di mente. Si indaga, si studia, si valuta, si decide, si condanna o si assolve. Ma, essendo la vita di ognuno un valore inestimabile, la società civile s’impegna a punire il reo ma anche vuole in qualche modo recuperarlo. Non sempre è facile. Gli adulti educano le giovani generazioni con le parole solo se precedute, accompagnate e seguite dagli esempi. Sono passati 27 anni da quando Ernest Johnson, un giovane di colore, durante una rapina, uccise tre impiegati nel Missouri. Una cosa orribile. Tre vite stroncate, decine di familiari e amici distrutti dal dolore, un’intera comunità gettata nel più grande sconforto. Ernest Johnson, però, non è sano di mente, quindi è un malato. I malati vanno curati e messi in condizioni di non far del male a sé stessi e agli altri. La società civile ha la possibilità, i mezzi e le capacità di mettere in sicurezza i propri cittadini. Occorre solo investire di più perché nonostante le diversità, gli uomini possano convivere senza farsi (eccessivamente) male. Ernest, invece, è stato condannato a morte. In Missouri è possibile, la legge lo prevede, la gente non si scandalizza più di tanto. Non è un bene, la pena di morte deve uscire per sempre dal consesso umano. Non posso ripagare con la stessa moneta chi ha reciso il grande dono di una vita, comportandomi come lui. Così vince la morte non la vita. Al di là di questo, però, Ernest non avrebbe dovuto essere ucciso perché ha problemi mentali. Qualcosa si ribella dentro ogni persona di buona volontà. Papa Francesco stesso ha umilmente chiesto la grazia il governatore dello Stato americano, Mike Parson, e con lui migliaia di cittadini. Niente da fare. La richiesta è stata respinta ed Ernest, ormai 61enne, è stato ucciso. Fine della storia. Dopo 27 anni la ‘giustizia’ è stata servita su un piatto di ghiaccio, tanto da somigliare a una vendetta. Ernest muore. Inutilmente. Anzi, pericolosamente. Avremmo potuto aiutare lui, difendere i cittadini e continuare la nostra opera di educazione al grande valore della vita verso i bambini e i giovani. Non è successo. Tristissima storia. Nessun vincitore, nessuna soddisfazione, nessuna giustizia. Solo il rammarico di aver perduto l’occasione di esercitare la pietà e aver dato un pessimo esempio ai nostri figli, in tutto il mondo. Polonia. Dalla Corte Ue nuova bocciatura per la riforma della giustizia polacca ansa.it, 7 ottobre 2021 Già oggetto di una procedura d’infrazione della Commissione Ue. I trasferimenti di un giudice senza il suo consenso a un altro organo giurisdizionale o da una sezione all’altra di uno stesso organo possono pregiudicare i principi di inamovibilità e di indipendenza dei giudici. Lo ha stabilito la Corte di giustizia Ue in una sentenza riguardante la Sezione di controllo straordinario e delle questioni pubbliche presso la Corte suprema polacca. Tale sezione è stata istituita nell’ambito della riforma della giustizia voluta dal governo di Varsavia, già oggetto di una procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea che ravvisa in tale riforma una minaccia all’indipendenza dei togati. In particolare, il caso riguarda un giudice, AS, nominato membro della sezione di controllo dal Presidente della Repubblica, sulla base di una delibera di cui la Corte Suprema amministrativa polacca aveva disposto la sospensione. AS si è pronunciato come giudice unico della sezione di controllo, sul ricorso del giudice WZ, trasferito senza il suo consenso ad una diversa sezione del tribunale cui apparteneva, dichiarandolo irricevibile, senza peraltro disporre del fascicolo e senza ascoltare il ricorrente. Oltre ad aver impugnato il trasferimento, WZ aveva presentato un’istanza di ricusazione di tutti i giudici della Corte suprema appartenenti alla Sezione di controllo, chiamata in linea di principio a statuire sul suo ricorso. Il giudice sosteneva che, a causa delle modalità della loro nomina, i membri di tale sezione non offrivano le garanzie di indipendenza e di imparzialità richieste. Per la Corte Ue l’ordinanza con cui un organo - che si pronuncia in ultimo grado e come giudice unico - ha respinto il ricorso di un giudice trasferito contro la sua volontà, deve essere considerata inesistente se la nomina di tale giudice unico è avvenuta, come nel caso di AS, in palese violazione delle norme fondamentali riguardanti l’istituzione e il funzionamento del sistema giudiziario. Russia. Nel carcere di Saratov stupri e torture, Putin oscura il sito dell’ong Gulagu.net di Michela A.G. Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2021 Uno degli zar della letteratura russa, Lev Tolstoj, diceva che per giudicare il grado di civiltà di uno Stato bisogna visitare le sue prigioni. Quelle della Federazione di Putin sono un inferno e adesso ci sono le prove: un enorme “archivio segreto delle torture”, compiute sui detenuti dalle forze di sicurezza russe, è riuscito ad arrivare oltreconfine, in Europa, e ieri tre video di un enorme repertorio dell’orrore, di 40 giga e mille filmati, sono stati diffusi dall’organizzazione per i diritti umani Gulagu.net, “No al gulag”. Legato a mani e gambe divaricate alle sbarre del letto d’ospedale del carcere, un detenuto urla a due secondini: “Cosa mi fate? Non fatelo! Voi siete brave persone!”. Il video prosegue riprendendo il suo stupro con un lunghissimo tubo rosso. Quando le parole del prigioniero vengono deformate dal pianto, dallo strazio e dalle urla delle sue viscere, una guardia gli risponde: “Adesso non ti alzerai per almeno tre giorni”. Questa Guantanamo russa si trova a Saratov, la città dove scorre il fiume Volga. Un altro detenuto piegato in due, a cui sono stati legati piedi e mani allo stesso punto, viene violentato da un uomo nudo che geme. Coperto da un lenzuolo bianco che nasconde il suo volto nella stanza buia, il prigioniero è un fantasma stuprato in un silenzio assordante. Le immagini testimoniano che nelle carceri della Federazione la tortura degli operativi dell’Fsb, Servizi segreti russi, e della Fsin, Sistema penitenziario federale, è sistematica e massiva: stupri e violenze contro i prigionieri vengono esercitate per ottenere confessioni forzate che servono a dichiarare casi chiusi e fare carriera, dice l’Ong. “Che c’è suka, puttana? Chi sei tu? Tu sei nikto, nessuno”. La guardia lo dice al detenuto mentre preme la sua faccia sul pavimento con lo stivale. Ha le mani legate dietro la schiena e risponde: “Sono nessuno”. I corpi nudi dei reclusi sembrano ancora più pallidi e cerulei quando vengono circondati dalle divise scure che li picchiano e urinano sulle loro facce. Disonorati nelle parti più intime, umiliati nella dignità, alcuni sono costretti a coprire genitali di altri prigionieri mentre ripetono il loro nome. Ai più fortunati vengono spaccati solo i polsi contro il muro. Alcuni torturatori e torturati hanno già un nome, chi ha trafugato i video dell’orrore ancora no. Il whistleblower che è riuscito a trasportare all’estero le prove degli abusi, dissotterrandoli dal segreto e dall’omertà in cui sono stati compiuti, è un ex detenuto bielorusso dello stesso carcere di Saratov: le guardie hanno abusato di lui finché non hanno capito che era un programmatore e hanno cominciato a sfruttarlo per dividere in fascicoli foto e video dei supplizi. Concedendogli ingenuamente accesso ai server dei computer, l’informatico è riuscito a trasportare rocambolescamente oltre i muri delle celle le prove delle violenze, compiendo il più grande leak della storia delle prigioni della Federazione. Rimane senza nome: la sua identità sarà svelata se gli verrà garantito l’asilo politico che ora è in attesa di ricevere dallo Stato europeo in cui si nasconde. Se i filmati non fossero stati veri, il Cremlino forse non sarebbe già stato costretto a pronunciarsi. Verranno presi “seri provvedimenti” se i video si riveleranno essere autentici, ha riferito Dmitry Peskov, portavoce del presidente Putin. Cinque ufficiali d’alto grado e il direttore del carcere di Saratov sono stati licenziati. Il Fsin ha aperto un’indagine interna, parallela a quella aperta dalla Procura generale, “per verificare le informazioni, inquirenti sono stati inviati nella regione di Saratov dal capo della Fsin, Aleksandr Kalashnikov” ha reso noto il Sistema penitenziario. Aleksey Fedotov, a capo del dipartimento regionale, si è dimesso ed è “partito per una vacanza, da cui potrebbe non tornare più a lavoro”. Vladimir Osechkin, che ha fondato l’ong Gulagu.net nel 2011 e dal 2015 non vive più in Russia, dalla Francia riferisce di avere le prove di violenze sessuali e fisiche compiute su almeno duecento prigionieri che si trovano nelle regioni di Saratov, Vladimir, Irkutsk, Belgorod, Kamchatka. Sono testimonianze non di abusi compiuti su singoli, ma di “uno schema”: le carceri sono “una macchina della tortura”. Mentre le immagini arrivano al Consiglio d’Europa e all’Onu, il sito dell’ong, vietato in Russia da luglio, è irraggiungibile. Colpito da un cyberattacco che, secondo il fondatore, arriva da Mosca, risulta inesistente proprio come i diritti dei galeotti slavi, i cui orrori sono stati denunciati da quello che già chiamano “lo Snowden bielorusso”, in onore dell’informatico Usa a cui è stato garantito asilo proprio in Russia. Russia. Anna Politkovskaja, il coraggio giornalistico si paga caro di Leonardo Coen Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2021 Quindici anni “senza Anna” sono tanti. Sono troppi. Quindici anni fa un killer ammazzò la grande, determinata e indomita giornalista nell’androne di casa sua, in pieno centro a Mosca: era il 7 ottobre 2006, il giorno del compleanno di Putin, e la cosa a molti è parsa più che una semplice coincidenza (due giorni prima era il compleanno di Ramzan Kadyrov, il dittatore ceceno spesso e volentieri al centro delle inchieste di Anna). La ricorrenza è spunto di riflessioni e di ricordi, e il sito di Novaja Gazeta, il bisettimanale in cui Anna lavorava, è il luogo virtuale in cui ribollono memorie e considerazioni sui tempi bui che la Russia sta vivendo, e di cui Anna Politkovskaja aveva amaramente previsto l’avvento, descrivendo l’opacità dell’ascesa al potere di Putin. Parlare di Anna oggi in Russia è come inoltrarsi in un campo minato. Lo scorso 18 luglio i siti vesti.ru e rbc.ru avevano messo in Rete degli articoli sulla scomparsa di Raissa Aleksandrovna Mazepa, la madre di Anna: aveva 92 anni. Le due testate hanno ricordato la caparbietà con la quale si era battuta per avere giustizia. Invano. Il mandante dell’assassinio non è mai stato trovato. Nel 2014 il tribunale di Mosca aveva emanato una sentenza secondo cui gli imputati Rustam Makhmudov e Lom-Ali Gajtukaiev venivano riconosciuti colpevoli e condannati all’ergastolo. Il primo in quanto esecutore dell’omicidio; il secondo perché organizzatore del crimine. C’erano altri tre imputati: Serghei Khadzhikurbanov, Ibraghim Makhmudov e Dzhbrail Makhmudov - due dei quali agenti di polizia che hanno “coperto” i killer - sono stati accusati d’essere complici nell’organizzazione dell’agguato e dei pedinamenti, e quindi condannati rispettivamente a 20, 12 e 14 anni da scontare in una colonia penale. Due settimane prima che Anna fosse assassinata, suo padre Stepan Mazepa, ex diplomatico di carriera al tempo dell’Urss (Anna è nata a New York nel 1958), era morto d’un colpo apoplettico mentre si trovava nella metropolitana di Mosca. Sua moglie Raissa non poté presenziare al funerale perché era stata ricoverata in ospedale dove le avevano diagnosticato il cancro. Il giorno dell’omicidio Anna doveva visitare la madre in ospedale (faceva i turni con sua sorella Elena Kudimova). Lo stesso 7 ottobre, all’uscita del supermercato vicino alla casa della madre sul lungomoscova Frunzenskaja, la Politkovskaja fu pedinata da un uomo con un cappellino da baseball in testa, e pure da una donna di cui non si sa ancora nulla. I dettagli non consolano. Ma pongono domande. Gli inquirenti hanno preso i pesci piccoli, i mandanti sono rimasti nell’ombra. Ingiustizia è stata fatta… Dmitri Muratov, il direttore di Novaja Gazeta, ha affiancato coi suoi giornalisti gli investigatori, e in redazione, nella stanzetta in cui lavorava Anna, tutto è rimasto come il giorno in cui è uscita dal giornale. Sul tavolo c’è sempre un fiore rosso, un garofano o una rosa… ai primi di agosto, Dmitri ha invitato la gente di buona volontà a celebrare il compleanno della Politkovskaja (il 30 agosto) con flash mob o scrivendo il suo nome un po’ dappertutto, oppure eseguendo il pezzo Libertango di Astor Piazzolla che le piaceva tanto. L’idea chiave di questo intervento di Muratov è quello di dover riconoscere che i boia che l’hanno uccisa hanno purtroppo vinto: nel quindicesimo anniversario della morte scatta infatti la prescrizione, per cui i mandanti dell’agguato possono scamparla, né possono essere riconosciuti responsabili penalmente. Ha quindi una sua perversa logica sapere che a Mosca sui media controllati dal Cremlino, sino a ieri, sulla Politkovskaja persisteva il silenzio assoluto. Per forza. Anna incarnava il coraggio e l’indipendenza giornalistica. Ora è diventata l’emblema universale della lotta per la libertà d’opinione. Un’immagine insopportabile ed insostenibile per il Cremlino. Raramente, anzi, rarissimamente, è capitato che qualcuno dell’opposizione riuscito ad accedere ai microfoni di Radio Mosca o di qualche superstite canale indipendente su YouTube, abbia ricordato Anna tra le pieghe delle critiche mosse al potere, denunciando il trend sull’annientamento morale (e sovente fisico, come nel caso di Anna, e prima di Jurij Scekocikhin, suo collega e deputato, come tre anni dopo è stato per Boris Nemsov, ucciso sotto le mura del Cremlino). Chiedersi perciò se una parola libera sia ancora possibile in Russia, è più che lecito. Le notizie che provengono sono ogni giorno sempre più inquietanti. Arresti di oppositori e di giornalisti, divieti per i media indipendenti, censura di Internet, brogli elettorali, processi pilotati, aggressioni a militanti pacifisti, emarginazione dei nuovi dissidenti. La pandemia ha reso soffocante questa cappa di piombo, non soltanto perché ha aggravato la cronica mancanza di risorse del sistema sanitario o perché le autorità hanno a lungo negato il reale impatto del Covid sulla popolazione. Ma perché questa crisi sanitaria è stata usata come pretesto per continuare a reprimere il dissenso, con opportune modifiche, per esempio, alla legislazione sulle “notizie false” o inasprendo le restrizioni sugli incontri pubblici. Manifestanti e difensori dei diritti umani e attivisti civili e politici sono stati arrestati e perseguiti. Il diritto ad un processo equo è stato regolarmente violato. Altre modifiche legislative hanno ulteriormente ridotto l’indipendenza della magistratura. E tuttavia, il giornalismo indipendente esiste e resiste in Russia: ma per quanto tempo ancora? Circola una battuta feroce, pessimista come ai tempi dei gulag: “Un buon giornalista è un giornalista morto”. Perché se uno è bravo ed onesto, deve raccontare la realtà, non l’impudente fiction mediatica allestita dal governo. Anna non concedeva sconti al Potere. Era una giornalista straordinaria, brava e impietosa nelle sue inchieste sulla corruzione dei politici, sulle connivenze del Cremlino con l’illegalità, sui comportamenti violenti e disumani dell’esercito in Cecenia, sul massacro della scuola di Beslan, dove un gruppo di 32 terroristi fondamentalisti islamici sequestrò 1200 persone. Due giorni dopo le forze speciali russe fecero irruzione: fu un’ecatombe, morirono più di trecento persone, di cui 186 bambini, e pure i 32 terroristi, oltre a 700 feriti. La Politkovskaja criticò la brutale gestione della crisi, e l’incompetenza delle squadre d’intervento speciali, raccogliendo testimonianze dei sopravvissuti. Persino Putin fu costretto ad ammettere, poi, che c’era stata una certa mancanza di professionalità nel gestire la crisi e l’intervento. Purtroppo, il coraggio giornalistico si paga caro. Eppure, c’è chi non desiste. A prezzo d’immolarsi. Come è successo giusto un anno fa. Sempre all’inizio d’ottobre. Mese infame ed infausto per i giornalisti che non si arrendono alle minacce delle autorità. Anna avrebbe raccontato la storia della giornalista Irina Slavina, 47 anni e la sua estrema determinazione, immolandosi in nome della libertà. E dei diritti calpestati dall’arroganza e dalla corruzione del potere. L’avrebbe raccontata suscitando nei lettori indignazione e ribellione. Spostiamoci da Mosca a Nizhny Novgorod, a metà strada fra Mosca e Kazan, sul tracciato della Transiberiana. Ha un milione e trecentomila abitanti, è la quinta città della Russia, capitale del circondario federale del Volga. È un grosso centro industriale (vi ha sede la fabbrica automobilistica Gaz), ha ferventi attività culturali e politiche, qui è nato Massimo Gor’kij. Qui, il primo ottobre del 2020, la polizia fa irruzione a casa di Irina Slavina, capo redattore del giornale indipendente on-line Koza Press: l’ultima delle infinite vessazioni cui è sottoposta Irina e la testata che dirige, molto seguita dai giovani e dalle élites cittadine. Gli agenti portano via quaderni di appunti, lap top, cellulari: quelli di Irina, del marito Alexei, dei figli Margarita e Vyacheslav. Viene citata in qualità di testimone nel procedimento penale che coinvolge un attivista di Russia Aperta, movimento d’opposizione fondato dal magnate Mikhail Khodorkovskij, l’oligarca avversario di Putin finito in una galera siberiana per aver sfidato il presidente russo agli inizi della sua irresistibile ascesa al potere. Irina stessa è sospettata di farne parte: con le nuove leggi liberticide, Russia Aperta è considerata “associazione indesiderabile”, ma quel che è ancor peggio è che chi lavora per conto di associazioni non governative con legami all’estero diventa un “agente straniero”. Un nemico della patria. Così ci si libera degli oppositori. Così si azzittiscono i media critici nei confronti del Cremlino. Così si neutralizzano i giornalisti che svelano corruzione e autoritarismo non risparmiando il Cremlino e il suo zar Putin. Irina imbocca una strada terribile: l’unica, a suo avviso, che potrebbe richiamare l’attenzione del mondo su quanto sta accadendo in Russia. Il 2 ottobre va davanti alla sede del dipartimento regionale del ministero degli Interni. Si cosparge di benzina. E si dà fuoco. Poco prima, aveva postato su Facebook un ultimo disperato messaggio al mondo, a noi: “Vi chiedo di considerare responsabile della mia morte la Federazione Russa”. Sono quindici anni che Anna ci manca. Che manca ai russi. È un anno che Irina ci manca. E manca ai russi. Le loro storie sono un ritratto della vita e della morte al tempo di Putin. Storie che bruciano di politica, di amore, di fede nella libertà e in un mestiere troppo odiato dai potenti e dai loro complici.