Volontariato in carcere? Sostanzialmente siamo considerati buoni, ma incompetenti di Luca Cereda Vita, 6 ottobre 2021 Le istituzioni non riconoscono la formazione e le competenze del Volontariato che opera in carcere. Per la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero “questo è inaccettabile. Un modo per escludere le realtà più innovative del sistema dalla Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario”. Prima della pandemia i volontari negli istituti di pena italiani erano compresi le 10mila e le 15mila persone, formate per entrare negli istituti di pena e autorizzate dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il loro ruolo è risultato - ancora più - significativo durante il Covid. Perché le norme che li ha tenuti fuori per mesi dalle carceri, ha fatto emergere a loro siano “delegate” competenze e ruoli fondamentali per mandare avanti un Istituto di pena: “Nonostante tutto ciò, al Volontariato viene riconosciuta la “bontà”, non la competenza. Un modo per escludere le realtà più innovative del sistema dalla Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario? Questo è inaccettabile”, ammette Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Il sistema-carcere, il sistema dei “no” - “Colpisce infatti l’assenza del Volontariato e di tutto il Terzo Settore dalla nuova Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario, istituita di recente dalla Ministra della Giustizia Cartabia, tanto più oggi che il Codice del Terzo Settore parla abbastanza chiaro in materia e mette sullo stesso piano la Pubblica Amministrazione e il Terzo Settore stesso, pur nella diversità dei ruoli, ovviamente”, ammette Favero. L’operato del volontariato penitenziario assume, sulla base delle esigenze, delle disponibilità numeriche di persone formate, e del contesto carcerario, varie forme: dal sostegno morale e materiale alla persona detenuta, a quello alla famiglia. (Troppo) spesso i volontari sono le uniche figure che accompagnano il detenuto nel suo percorso rieducativo - previsto e richiesto però dall’articolo 27 della Costituzione - rappresentando un aiuto per un reinserimento concreto sociale e lavorativo, un ponte di collegamento che tenta di ricucire lo strappo avvenuto con la società. I volontari inoltre da un lato “comunicano” alla società le criticità di un carcere sempre meno umano, soprattutto in tempo di limitazioni a chi già è limitato. Di queste il virus è concausa, non l’unica ragione. La causa “profonda” è un sistema, quello carcere, dove si dice sempre “no” a qualsiasi richiesta, progetto, idea e solo poi la si valuta. Scontare una pena che sia dignitosa e far sì che tutti i bisogni della popolazione detenuta siano ascoltati è un diritto. Un dovere è che la pena non sia punizione ma rieducazione. Ma i soli che a pieno titolo - non gli unici, beninteso - espletano questi diritti e doveri del carcere solo loro. I volontari: “Questo succede grazie alla loro formazione e competenza. Entrambe non sono state riconosciute dalle istituzioni”, chiosa Favero. Un altro “no preventivo” del sistema-carcere. E queste non sarebbero competenze, ma solo “cose buone”? Oggi c’è una parte consistente di volontariato in carcere che ha competenze molto qualificate, competenza che rafforza in un continuo processo di crescita, che permettono di far aumentare anche la qualità delle proposte di attività nelle carceri: “Basta fare un esempio, la formazione organizzata dalla nostra Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia nel progetto “A scuola di libertà”, un’iniziativa di altissimo livello culturale, una formazione che ha saputo coinvolgere migliaia di studenti di tutta Italia, insegnanti, volontari, operatori della Giustizia, personalità del mondo della cultura e detenuti, in un confronto complesso con vittime, figli di persone detenute, detenuti stessi, le persone che hanno finito di scontare la pena. Il tutto con la forza delle testimonianze, ma anche dello studio e dell’approfondimento. Il tutto organizzato dai volontari”, spiega la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Il Volontariato nell’ambito della Giustizia è tra i pochi soggetti - se non l’unico, a di là di alcuni direttori e direttrici di carceri “illuminati” - in grado di avere idee e avanzare proposte innovative di formazione, di creare iniziative “strutturali” e non progetti spot. “Inoltre nell’ambito dell’informazione e della comunicazione su questi temi, il mondo del Volontariato ha saputo mettere in piedi il “Festival della Comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato in questi anni dentro e fuori dalle carceri. E ancora, chi potrebbe portare più efficacemente, a proposito di vita detentiva, il punto di vista di quei detenuti, ai quali a tutt’oggi non viene riconosciuta nessuna forma di rappresentanza elettiva”? Si chiede Favero. E la riforma del Terzo Settore? Il Volontariato e le realtà del Terzo Settore sono le uniche che quando si parla di carcere, detenuti, riabilitazione sociale e lavorativa del condannato, hanno il coraggio e le conoscenze per non essere astratti nelle loro proposte e nelle azioni. Ecco perché stona la loro esclusione dalla Commissione per l’Innovazione del sistema penitenziario. “Riusciamo in molte carceri, e oggi anche nell’area penale esterna, a rendere “nuova” e interessante una parola sempre considerata vecchia e fuori moda dietro le sbarre, come la rieducazione. Ma visto, la nostra competenza non è riconosciuta” continua Ornella Favero. Questo accade nonostante Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, nella sua recente relazione sulla Casa di reclusione di Padova - che è un esempio tra molti -, parla della necessità che la cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in carcere e chi in esso svolge attività volte a saldare il rapporto con la realtà esterna, si basi, scrive Palma, “da una parte, sul rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico e, dall’altra, sul riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce. Non un apporto subalterno, quest’ultimo, né di minore rilevanza”. Un’analisi quella di Favero amara, ma univoca, dato il riconoscimento delle competenze del Volontariato che opera in carcere, non può arrivare dai - formatissimi - volontari o dagli operatori del Terzo Settore, ma dalle Istituzioni. Più avvezze a dire “no”, e quindi a misconoscere, che ad aprirsi, contaminarsi e rendere migliore un sistema che dovrebbe per antonomasia, e per indicazione costituzionale, rendere migliori coloro che intercetta. Carcere e garantismo, le radici della crisi di Sergio Segio Il Manifesto, 6 ottobre 2021 “La pena della prigione è ancora e soprattutto una pena corporale, qualche cosa che dà dolore fisico e produce malattia e morte” scriveva il compianto Massimo Pavarini quasi trent’anni fa. Affermazione che nel tempo della pandemia si è rivelata ancor più vera, nella latitanza degli attuali governo e parlamento, come già dei precedenti, quando si tratti di riformare il carcere e il sistema delle pene per renderli aderenti al dettato costituzionale. Si dice spesso che l’articolo 27 della Costituzione, al pari di molti altri, è rimasto inapplicato, ma - in effetti e ancor peggio - esso è stato invece riscritto nella Costituzione materiale. Quella formale recita: “La responsabilità penale è personale”. Peccato non sia più vero perlomeno da quando, nella “madre di tutte le emergenze”, ovvero quella contro il cosiddetto terrorismo, i magistrati e poi il legislatore si inventarono e usarono a piene mani la fattispecie del “concorso morale”. Nella successiva emergenza contro le mafie il virus del giustizialismo produsse la fumosa variante del “concorso esterno”: appena più presentabile, senza richiami da Stato etico ma di analoga strumentalità repressiva nella logica ormai a quel punto affermatasi del fine che giustifica i mezzi. “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” è poi scritto nel bistrattato articolo. E qui la forzatura sostanzialista avvenuta è ancora più estesa e precedente, poiché, come ben si sa e si vede, chiunque incappi in un provvedimento restrittivo e giudiziario è automaticamente considerato colpevole in perpetuo dal senso comune, a sua volta indotto da un sistema mediatico che - anche qui a seguito delle diverse “emergenze” - è assai spesso divenuto ossequiosa appendice delle procure. Infine, i lungimiranti e utopisti padri costituenti, che numerosi avevano provato la galera sulla propria pelle, scrissero: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. E qui, più che una riscrittura, va constatata l’aggiunta di una postilla, laddove, oggi, nel concreto, diritti e garanzie sono subordinati alla “collaborazione”, vale a dire al mandare altri in galera. È questa la ratio dell’ergastolo cosiddetto ostativo, del regime duro del 41bis e in generale della legislazione antimafia. Pur in modi diversi, una analoga filosofia agisce in generale nei confronti, se non di tutti, di una buona parte dei reclusi, attraverso i meccanismi della giustizia riparativa, che, al di là dei suoi condivisibili principi, è divenuta soglia e condizione per l’accesso a benefici e misure alternative. Da queste torsioni della Costituzione e dell’ordinamento emerge il quadro di un sistema penale e processuale sostanzialista e giustizialista e di un sistema penitenziario vendicativo. Eppure, si sente da ultimo dire che “il sistema funziona”. Paradossalmente anche o proprio da quelli che dicevano di volerlo cambiare per via referendaria in una alleanza contronatura tra Partito Radicale e Lega di Salvini, della cui vena garantista è lecito dubitare. A meno che per garantismo non si intenda solo quello verso i Mori e i Morisi, vale a dire i potenti. Un garantismo a corrente alternata che, non da oggi, caratterizza le destre di questo paese. È bastata la sentenza assolutoria nel processo di appello sulla “trattativa Stato-mafia” per far loro affermare con giubilo e soddisfazione che il sistema giudiziario funziona. Come funziona, e quali interessi difenda, ce lo ha ora di nuovo mostrato l’entità abnorme della pena inflitta a Mimmo Lucano. Non è certo il generale Mori a essere rappresentativo del mondo dolente e variegato delle vittime della giustizia che affollano a decine di migliaia le celle. È a loro che è rivolto un diverso, più credibile e potenzialmente incisivo referendum: quello per la legalizzazione della cannabis, promosso, tra gli altri, da Forum Droghe e Società della Ragione. Ergastolo ostativo, anche il giudice Salvini critica il ddl M5S di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 ottobre 2021 Il magistrato milanese ritiene, invece, interessante la proposta di Enza Bruno Bossio del Pd, dove si parla di “dichiarazione pubblica” e contesta l’accentramento di competenze al tribunale di sorveglianza di Roma. Non solo quelli di sorveglianza, ma anche i magistrati che hanno lottato contro il terrorismo e criminalità organizzata difendono i principi espressi dalla Consulta sulla modifica dell’ergastolo ostativo. Uno di quelli è il giudice Guido Salvini che, audito in commissione Giustizia della Camera, ha rilevato suggerimenti e taluni aspetti critici soprattutto presenti nella proposta di legge a firma del Movimento Cinque Stelle. Anche in questo caso, a differenza di altri suoi colleghi antimafia, il magistrato Salvini è entrato nel merito, facendo esempi concreti per poter suggerire alcune correzioni (o integrazioni se pensiamo alla proposta a firma della deputata Dem Enza Bossio) alle proposte di legge sull’ergastolo ostativo. Ricordiamo che parliamo di una modifica legislativa dopo le sentenze delle Alte Corti relative all’illegittimità della preclusione assoluta dei benefici per chi ha deciso di non collaborare con la giustizia. In sostanza si trattava di ritornare al decreto originale ideato da Giovanni Falcone, quello che poi è stato inasprito dopo la strage di Capaci. Il giudice Guido Salvini, in commissione Giustizia, ha premesso che negli anni si è occupato soprattutto di terrorismo, però anche di criminalità organizzata come l’infiltrazione della ‘ndrangheta nel Nord. Ha innanzitutto distinto il discorso della dissociazione riguardante gli ex terroristi da quello relativo gli ex appartenenti alle mafie. Le organizzazioni terroriste come le br, non esistono più. Ci sono irriducibili tuttora in galera che potrebbero uscire e non trovare più i loro riferimenti del passato. Cosa differente, però rispetto al terrorismo internazionale. Per quanto riguarda la criminalità organizzata, ovviamente è diverso. Nonostante gli innumerevoli arresti dei capi, gregari della mafia, l’organizzazione mafiosa esiste tuttora e l’atto criminale continua a riprodursi nel territorio. Salvini fa un esempio. “Un anno e mezzo fa - ha spiegato il giudice - è stato scarcerato per fine pena, dopo 26 anni, il boss della ‘ndrangheta Rocco Papalia. Parliamo di Buccinasco, una di quelle zone del nord chiamate le “Platì del nord”. Papalia è andato a vivere in una parte della sua villetta, mentre un’altra era stata confiscata e passata in uso ad una associazione che tratta i minori disagiati. Ebbene - ha sottolineato Salvini - questo signore si è messo a protestare perché c’è un cortile tra le due parti di cui lui voleva l’uso così come ce l’hanno i ragazzi disagiati”. Per il giudice Salvini era chiaramente una provocazione. Ha fatto causa civile al comune e quando gli è stato detto che lui dovrebbe scusarsi per il crimine che ha commesso, Papalia ha risposto testualmente: “Non devo scusarmi io, perché ho costruito mezza Buccinasco e casomai è il sindaco che deve andarsene”. Guido Salvini ha raccontato questo episodio per evidenziare un punto fondamentale. L’ex boss si limita a dire che ha fatto i conti con la giustizia, non può continuare per via dell’età a delinquere: ma facendo provocazioni di quel tipo, rimane comunque un esempio per i nuovi affiliati. Che fare allora? Salvini non dice, quindi, di non concedere i benefici, ma fa una proposta: “Per la concessione dei benefici - ha spiegato il giudice in commissione giustizia -, c’è bisogno di aggiungere un altro elemento indicatore che dimostri la chiusura con quel mondo, anche come simbolo”. Quale? “Che il detenuto - ha proposto il giudice - si ponga come soggetto che faccia capire all’esterno che i suoi comportamenti non siano da imitare”. Salvini prende come spunto interessante la proposta della deputata Bruno Bossio sull’ergastolo ostativo, dove si parla di “dichiarazione pubblica”. Un aspetto significativo, anche se di difficile realizzazione. “Il detenuto non deve solo limitarsi nel dire che non commetterà più reati, ma dichiarare di non seguire il suo esempio. Lo strumento potrebbe essere l’utilizzo di quei mediatori di giustizia riparativa, di cui l’implemento è previsto dalla riforma Cartabia”, ha sintetizzato Salvini. Il giudice, in perfetta linea con il suo collega Fabio Gianfilippi, critica la proposta del M5S di accentare le competenze al tribunale di sorveglianza di Roma. “Sia per ovvi motivi di organico e ristrutturazione di questo organo giudicante - ha evidenziato Salvini - sia perché ci può essere una minor conoscenza delle singole realtà territoriali che sono il cuore pulsante del potere delle mafie, quindi una distanza dall’oggetto del discutere”. Giustizia riparatrice. Non è una chiacchiera di Fabrizio Mastrofini Il Riformista, 6 ottobre 2021 La pena di morte? È sempre inutile. C’è da credere, se lo dice Dale Recinella, cappellano nel braccio della morte in Florida, laico, che una settimana fa ha ricevuto a Roma il premio “Custode della Vita”, indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita. Venerdì 1 ottobre ha visitato il carcere di Paliano, struttura per i collaboratori di giustizia ed ha incontrato i detenuti ed ha visto le attività lavorative e artigianali che l’amministrazione è riuscita ad attuare. Quale è il senso di questo riconoscimento? “È un immenso onore. Non tanto per me, quanto per tutti gli uomini e le donne la cui vita è sospesa, mentre i politici cercano di ucciderli con la pena di morte. Questo evento rappresenta una importantissima dichiarazione, direttamente dal cuore della nostra Chiesa Cattolica, che la vita ha valore ed è permeata di dignità umana. Dimostra che l’uccisione compiuta per vendetta non risponde alla volontà di Dio. Le persone davvero credenti sono sconvolte quando scoprono che Dio non vuole il nostro sostegno a tutto ciò, e inorridiscono quando viene loro rivelata la verità sul funzionamento della nostra pena di morte”. Da avvocato di Wall Street, benessere economico e successo, ventidue anni fa, è diventato cappellano in carcere, nel braccio della morte in Florida. Come è accaduto? “Lo sono diventato aiutando, come volontario a tempo pieno, il sacerdote che assisteva tutti i condannati a morte e i reclusi in isolamento a lungo termine della Florida. E stava svolgendo questa missione da solo da 17 anni. Fui la sua ombra per un anno intero, al termine del quale mi chiese se, d’accordo con mia moglie Susan, ero disposto a continuare il suo ministero e gestire tutto ciò che un laico può fare in modo corretto. Tutto questo accadde nel giugno 1999”. Cosa provano i detenuti nell’incontrarla? “Nel 1998, quando andai per la prima volta nel braccio della morte della Florida, a visitare, passando di cella in cella, gli oltre 420 condannati, mi presentai a ciascuno. Uno di loro mi chiese: davvero eri un avvocato della finanza di Wall Street? Risposi che era vero. E raccontai un po’ della mia storia, descritta in dettaglio nel mio secondo libro (“Nel braccio della morte”, Edizioni San Paolo, 2012, ndr). Il detenuto riusciva a stento a trattenersi. Mi disse: se Gesù ha potuto salvare un avvocato della finanza di Wall Street gretto e avido di denaro come te, non avrà alcuna difficoltà a salvare me”. Perché negli Usa la pena di morte è così radicata? “Negli Usa diamo per scontato che, poiché in effetti esiste una pena di morte nella Bibbia, allora la Bibbia sia favorevole alla nostra pena di morte. Nel mio primo libro (“The Biblical Truth About America’s Death Penalty”, 2004, ndr), dimostro che non si può utilizzare la Bibbia per sostenere la pena di morte degli Usa. Proprio non si può. Spesso dico: la pena di morte non lascia sopravvissuti. Forse oggi solo il condannato viene ucciso dalla pena di morte, ma tutti coloro che si trovano a contatto con essa ne vengono feriti e danneggiati. Ciò include i familiari del condannato, i familiari della vittima del crimine, le guardie e il personale che lavorano nel carcere. Recentemente la Carolina del Sud ha deciso di riattivare la pena di morte dopo dieci anni senza esecuzioni. Ron McAndrew, ex Direttore del carcere dove si svolgono le esecuzioni in Florida, ha chiesto ai politici di non farlo, pensando alle brave guardie e al personale che lavora nel carcere dove effettueranno le esecuzioni. Nell’articolo ha descritto in dettaglio i danni psicologici che le guardie e il personale subiranno, in particolare quelli dotati di forte rettitudine morale”. Quali alternative ci sono alla pena di morte? “La mia proposta è di andare verso una giustizia riparatrice. È la risposta che la Chiesa ci chiede di dare, di cui hanno bisogno le vittime dei crimini, la comunità e il colpevole. Richiede uno sforzo e un impegno molto maggiori rispetto all’uccisione vendicativa. Ma Dio pensa che noi possiamo farcela, con il Suo aiuto. Altrimenti non ce lo chiederebbe. E ne sono ancora più convinto dopo aver visitato Paliano. Partecipo a molte conferenze sulla pena di morte e spesso mi viene rivolta una domanda: Se non li ammazziamo, cosa ne facciamo di questi? La risposta siete voi con Paliano. Rappresentate la possibilità di riscatto, il giusto percorso. Dopo avervi conosciuto, desidero che anche nel mio paese vengano realizzati luoghi come questi. I’ll never forget you”. Carceri, le patologie delle detenute crescono più di quelle degli uomini agenziadire.com, 6 ottobre 2021 Uno studio di Rose, un network genere-specifico di Simspe, evidenzia una maggiore incidenza di infezioni da Hiv ed epatite C. “Donne al centro dell’attenzione nella Sanità Penitenziaria. Al 31 gennaio 2021 costituivano il 4,2% della popolazione carceraria, per un totale di 2.250 unità. Una componente minoritaria, ma in crescita e soprattutto con numeri più elevati degli uomini in termini di patologie”. Così in una nota stampa Simspe, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, su quanto emerso da uno studio ancora in corso d’opera, i cui primi risultati sono stati presentati in occasione dell’Agorà Penitenziaria 2021, XXII Congresso Nazionale della Simspe. “Il sistema carcerario - si legge - è estremamente complesso, ogni anno vi transitano oltre 100mila persone; recentemente è stato messo a dura prova dal Covid, che però, nonostante i timori iniziali, non ha provocato danni significativi. Per questo ora occorre riportare l’attenzione sulle altre patologie, in particolare quelle mentali e infettive”. Lo studio è stato realizzato da ROSE, un network genere-specifico di Simspe sulla salute delle donne detenute e ha affrontato le infezioni da Hiv e da epatite C nelle donne detenute in diverse carceri italiane. In questa occasione, lo studio ha preso in esame cinque istituti penitenziari di quattro diverse regioni, che rappresentavano il 10% della popolazione femminile detenuta. I dati sono ancora preliminari, ma sono i più significativi mai prodotti a livello di popolazione femminile nelle carceri. “Per quanto riguarda l’epatite C, già i dati del Ministero della Salute evidenziano come le donne incarcerate avessero il doppio delle probabilità rispetto agli uomini e 14 volte rispetto alla popolazione generale di contrarre l’infezione - ha sottolineato la dottoressa Elena Rastrelli, coordinatrice responsabile dello studio e UOC Medicina Protetta-Malattie Infettive, dell’Ospedale Belcolle Viterbo - Le donne rappresentano una popolazione complessa da raggiungere, sparsa su tutto il territorio nazionale e spesso legata a storie di tossicodipendenza e prostituzione. Da novembre 2020, 156 donne detenute sono state iscritte allo studio. Di queste, 89 (il 57%) erano italiane: l’età media era di 41 anni; 28 di loro (il 17,9%) facevano uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Su 134 è stato effettuato uno screening con l’innovativo test salivare per l’Hcv, mentre per le altre è stato fatto per via endovenosa. Abbiamo riscontrato dati eloquenti: la siero prevalenza di Hcv riguardava il 20,5%, una cifra leggermente superiore rispetto alla prevalenza riportata nella letteratura internazionale più recente, nonché di due volte superiore rispetto al 10,4% del genere maschile. Inoltre, le donne avevano un’infezione attiva in oltre il 50% dei casi”. “La maggior parte delle pazienti risultate positive è stata colta di sorpresa: ciò evidenzia la necessità di un intervento mirato sulla popolazione femminile delle carceri, tanto più che oggi per l’epatite C esistono terapie in grado di eradicare definitivamente il virus in poche settimane e senza effetti collaterali- ha aggiunto l’infettivologo Vito Fiore, dirigente medico dell’unità operativa struttura complessa Malattie Infettive e Tropicali di Sassari - Un altro dato interessante riguarda i pazienti coinfetti. Su 84 detenuti maschi trattati con il progetto di microeradicazione dell’Hcv, solo 3 erano positivi anche all’Hiv. Tra le donne trattate nell’ambito di questo progetto, invece, quelle positive anche al virus che causa l’Aids erano ben il 25%. Inoltre, se tra gli uomini non vi erano casi di epatite B, tra le donne ben cinque, quindi il 21%, erano portatrici anche di questo virus. Possiamo dedurre che in carcere le donne sono più esposte degli uomini alle coinfezioni”. “Il numero limitato di donne detenute dovrebbe incentivare una maggiore attenzione, ulteriori servizi, una gestione sanitaria proattiva - ha evidenziato Sergio Babudieri, direttore scientifico di Simspe - In alcune carceri le donne sono poche decine di persone: in queste situazioni è possibile migliorare la sanità penitenziaria. Non possiamo attendere che sia la detenuta a chiedere aiuto o ancor peggio commetta un gesto autolesionista; bisogna capire i bisogni dei singoli”. Un altro filone particolarmente significativo nella sanità penitenziaria, si legge ancora nel comunicato, è quello delle patologie psichiatriche, che rappresenta problema grave e talvolta sottovalutato. “La malattia mentale è una patologia identificabile secondo una codificazione standardizzata a livello mondiale - ha evidenziato Luciano Lucanìa, presidente Simspe - Molte persone ne sono affette. Tuttavia, la parte patologica deve essere distinta da coloro che manifestano un disagio mentale all’arrivo in carcere come segno di risposta al limitato adattamento alla nuova condizione di vita: tra questi figurano coloro che avevano disturbi pregressi, tossicodipendenti, persone che vengono poste in un contesto difficile e totalmente inedito. Anch’essi devono essere curati e tutelati, ma bisogna fare una partizione tra ciò che è malattia e ciò che è disagio. L’aspetto clinico infatti riguarda malattie mentali come la schizofrenia o la paranoia, patologie per le quali un paziente deve andare dallo psichiatra e seguire una terapia specifica. Il disagio mentale - ha concluso - è la risposta di una persona con problemi di base (depressione, tossicodipendenza…) alla privazione della libertà, che resta uno stress gravissimo. Questi ultimi - ha concluso - sono quelli che fanno più notizia, perché hanno maggiore aggressività, minore tolleranza alla frustrazione, alle regole, alla coabitazione forzata, ma le categorie devono essere trattate con le rispettive modalità, senza fare confusione”. La prevenzione, il trattamento e la presa in carico dei sex offender di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 ottobre 2021 Il ciclo di cinque webinar interdisciplinari a partire dal 15 ottobre fino al 3 dicembre. A partire dal 15 ottobre, partirà un ciclo di webinar, dal titolo “Prevenzione, trattamento e presa in carico sul territorio dei sex offenders. Esperienze e modelli di valutazione a confronto per una giustizia di comunità”. Sono previsti 5 incontri, di cui il primo il 15 ottobre, a seguire, ogni venerdì mattina, il 29 ottobre, 12, 26 novembre, per chiudere il 3 dicembre con una tavola tecnica, in corso di ulteriore definizione, per consentire la più ampia partecipazione di tutti gli interessati e per garantire un confronto, tra tutte le istanze, sia collettive (della società), sia individuali (della vittima e dell’autore del reato); senza trascurare un approfondimento (previsto il 26 novembre) per la giustizia riparativa. Tale iniziativa è frutto di una sinergia e stretta collaborazione tra i vari partners, come l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Trento, la Camera Penale di Trento e il terzo settore, Apas Trento (Associazione Provinciale di Aiuto Sociale), con l’obiettivo di fornire degli strumenti conoscitivi e applicativi sulla complessa questione del trattamento e della risocializzazione degli autori di reati a sfondo sessuale, o, di violenza in coppia e in famiglia. Il primo incontro, organizzato e moderato dalla giovane avvocata Veronica Manca del foro di Trento e Sportello Diritti, riguarda l’approfondimento sull’abusante sessuale (il cosiddetto sex offender), ovvero la sua valutazione e trattamento. Sì, perché la pena è proiettata verso la libertà e quindi finalizzata alla sua riabilitazione, per il bene della società tutta. Interverranno il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi, l’educatore del carcere di Bollate Roberto Bezzi, l’educatrice del carcere di Siracusa Felicia Cataldi, la psicologa del Uepe Trento Chiara Paris e lo psicologo Salvatore Massaro del progetto trentino “Sex Offender Treatment”. Il primo incontro parte appunto dall’autore del reato di violenza sessuale, a seguire si parlerà anche della vittima e la comunità. “Il problema della mancanza di trattamento in carcere e di educazione alla giustizia riparativa, all’incontro e alla riflessione sulla propria responsabilità, di fatto - spiega a Il Dubbio l’avvocata Veronica Manca - ricade in modo evidente sulla comunità, a fine pena, o in misura alternativa, nella misura in cui la persona entra a contatto con la comunità, con la vittima e con potenziali vittime, in termini di recidiva. Anche sul fuori mancano opportunità e programmi di trattamento. Inoltre, questo corso è pensato proprio per formare il personale del Dap e degli Uepe”. Non a caso, il corso è di carattere interdisciplinare e vede la partecipazione dei massimi esperti in materia, sia sul fronte dei giuristi, sia dei criminologi, sia del mondo della sociologia. Com’è detto, gli obiettivi degli incontri sarà quello di discutere intorno ai principali profili di autori di reato, per verificarne, in un’ottica di confronto tra le diverse professionalità, quali siano gli strumenti normativi a disposizione per poter concretizzare un percorso trattamentale; quali siano le metodologie utilizzate, a fronte delle risorse disponibili; e quali siano le progettualità virtuose in corso. Il ciclo formativo è aperto a tutte le professionalità e mira a coinvolgere sia l’avvocatura, sia la magistratura, sia il mondo degli operatori penitenziari, dall’area educativa, e del personale dell’esecuzione penale esterna. Giustizia, la maggioranza si divide sulla presunzione d’innocenza e sul riciclaggio di Liana Milella La Repubblica, 6 ottobre 2021 Opposte le richieste di Costa di Azione e di Ferraresi di M5S, mentre il Pd boccia quelle che considera forzature e si attiene alle regole già decise dal governo. E anche sulla giustizia la maggioranza si divide. Su un tema di per sé fortemente divisivo come la direttiva sulla presunzione d’innocenza, ma anche sulle norme europee in materia di riciclaggio. In entrambi i casi, in commissione Giustizia alla Camera, da una parte c’è il Pd che vuole rispettare comunque le decisioni già assunte dal governo e respinge possibili fughe in avanti; dall’altra Enrico Costa di Azione che ha fatto della presunzione d’innocenza una sua battaglia; e dall’altra ancora M5S che con Vittorio Ferraresi, l’ex sottosegretario alla Giustizia dei governi Conte, chiede che su entrambe le questioni si cambino le scelte del governo. Ovviamente in direzione opposta a quello che chiede Costa sulle regole che dovrebbero far diventare del tutto garantista il processo. Una partita delicata, che si giocherà già a partire da oggi. Che succede dunque? All’esame della commissione Giustizia di Montecitorio, presieduta dal grillino Mario Perantoni, approdano per il voto due decreti legislativi che già hanno suscitato un forte dibattito. Soprattutto quello che recepisce, nella legge italiana, la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza che risale al 2016. Mentre l’altro riguarda il riciclaggio. Relatore, per il primo, Costa. E per il secondo Ferraresi. Un caso, ovviamente. Ma che, nello stesso pomeriggio, ha creato più di un imbarazzo in commissione. Perché proprio i pareri incrociati rappresentano la fotografia di un modo opposto di intendere come si fa giustizia. Da una parte, ecco la proposta di Costa sulla presunzione d’innocenza, una direttiva che ha come obiettivo quello di non presentare come “presunto colpevole” colui che finisce indagato in un procedimento penale. Un testo che esce da via Arenula e che subito si è rivelato fortemente divisivo, come hanno dimostrato anche le audizioni fatte in commissione. Tutto il fronte garantista è sulle posizioni di Costa, mentre gli stessi magistrati criticando una stretta eccessiva sulla comunicazione, e altrettanto fanno i giornalisti. A questo punto si fronteggiano tre pezzi della maggioranza. Da una parte Costa che, da relatore, propone una stretta ulteriore rispetto a un testo già duro con magistrati e giornalisti, mentre Ferraresi chiede di allargare le maglie per entrambi. Il Pd si chiude sulle posizioni del governo e respinge quelli che considera opposti estremismi. C’è da scommettere che Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia saranno sulla linea di Costa. Di fatto mandando il governo in pezzi. Ma cosa propongono Costa, nella sua relazione, e Ferraresi nei suoi emendamenti sulla presunzione d’innocenza? Costa chiede che siano assolutamente cancellate le conferenze stampa delle procure, compreso il margine residuo che le rendeva possibili solo in casi eccezionali, perché questo “non risulta coerente con quanto stabilito dalla direttiva Ue”. Via anche la motivazione, quel riferirsi alla “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, una formula che Costa considera “equiparabile a interesse mediatico dei fatti e totalmente estranea dal concetto di interesse pubblico”. Il rischio potrebbe essere - secondo lui - quello di “un’applicazione differenziata e discrezionale”. Ma non basta, perché Costa vuole pure che ci sia “il divieto di comunicazione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti e processi penali loro affidati”. Insomma, la garanzia della presunzione d’innocenza passerebbe addirittura per l’oscuramento totale degli autori di un’inchiesta. E c’è da chiedersi se la stessa presunzione d’innocenza se ne avvantaggerebbe perché non avrebbe più un nome né un’identità - quantomeno mediatica - l’autore dell’indagine. Bavaglio anche alle polizie: “La facoltà di interlocuzione con gli organi di informazione sia esclusiva del procuratore della Repubblica e gli ufficiali di polizia giudiziaria o gli uffici stampa delle forze di polizia non siano autorizzati a fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”. In una parola, una coltre di silenzio cadrebbe sulle indagini, non si saprebbe più neppure da chi vengono condotte. Ovviamente le proposte di Ferraresi vanno in direzione del tutto opposta. Via l’avverbio “esclusivamente” quando la direttiva scrive che le procure devono parlare “esclusivamente” tramite comunicati ufficiali, e solo nei casi “di particolare rilevanza dei fatti tramite conferenze stampa”. Ferraresi suggerisce di scrivere “preferibilmente”. Allo stesso modo chiede di togliere dal testo la parola “particolari” laddove la frase suona così: “casi di particolare rilevanza pubblica”. Ritocchi di Ferraresi anche per un’altra frase strategica della direttiva. Quella che recita: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. L’ex sottosegretario alla Giustizia, considerato un “bonafediano”, chiede di togliere due parole strategiche, “strettamente” e “rilevanti”, per cui la frase alla fine sarebbe questa: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre ragioni di interesse pubblico”. A questo punto tocca al Pd scegliere da che parte stare. Chi ha parlato con il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli può già dire che la via d’uscita, per tenere il governo unito, è quella di non cambiare una virgola del decreto legislativo. Franco Vazio, un avvocato Dem che ha sempre tenuto una linea garantista, ieri sera si attestava su un diplomatico “vedremo”. E vedremo che anche cosa accadrà sulle norme che riguardano il riciclaggio, anche in questo caso in ossequio a una direttiva europea, si materializzano proposte opposte di Ferraresi, che in questo caso è il relatore, e il resto della maggioranza. Il deputato M5S deposita il suo parere sul decreto legislativo, ma chiede, per approvarlo, che anche per questo reato valgano le regole previste per la mafia, quindi la possibilità di ricorrere all’uso della microspia Trojan, il virus inoculato nel cellulare, nonché alle operazioni sotto copertura. Infine, proprio per la gravità riconosciuta anche in Europa a questo reato, ecco la scelta di affidarlo alle procure distrettuali, anziché a quelle ordinarie, proprio come per mafia e terrorismo. Ma anche qui tutto lascia credere che il Pd non accetterà la proposta. Riforma processo penale, dal 19 ottobre in vigore l’improcedibilità e lo stop alla prescrizione di Dario Ferrara Italia oggi, 6 ottobre 2021 Entrerà in vigore martedì 19 ottobre la riforma del processo penale: è pubblicata sulla Gazzetta ufficiale 237/21 la legge 134/21 che contiene all’articolo 2 modifiche “immediatamente precettive” a Cp e Cpp, oltre alla delega al Governo. Con l’improcedibilità il giudizio d’impugnazione cade se la sentenza non arriva entro tempi standard: scatta la tagliola per i processi che, a regime, dal 2025 potranno durare al massimo tre anni in appello e un anno e mezzo in Cassazione, proroghe comprese. L’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi d’impugnazione è introdotta per bilanciare lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado voluta dalla riforma Bonafede: grazie a una norma transitoria entrerà in vigore in modo graduale. Entro dodici mesi, poi, Palazzo Chigi dovrà riempire di contenuto la riforma con i decreti attuativi su indagini preliminari, misure alternative al carcere e altri interventi deflativi. Regola e deroga. Confermata la regola introdotta dalla Spazzacorrotti secondo cui la prescrizione del reato si blocca con la sentenza di primo grado, che sia di assoluzione o no. Il decreto penale di condanna, emesso fuori dal contraddittorio fra le parti, non può interrompere in modo definitivo la prescrizione. Se la sentenza è annullata e il procedimento torna al primo grado o a una fase anteriore, il corso riprende dalla pronuncia definitiva di annullamento. L’improcedibilità dei giudizi d’impugnazione riguarda soltanto i reati commessi dopo il primo gennaio 2020: la norma transitoria è prevista fino al 31 dicembre 2024 per consentire agli uffici giudiziari di adeguarsi. Per i primi tre anni di applicazione della riforma i termini saranno più lunghi per tutti i processi: tre anni in appello; un anno e sei mesi in Cassazione. E con la possibilità di eventuale proroga: un anno in appello, sei mesi davanti alla Suprema corte. In tutto fino a quattro anni in appello (tre più uno di proroga); fino a due anni in Cassazione (un anno e sei mesi, più sei mesi di proroga). E ciò per tutti i giudizi in via ordinaria. Ogni dilazione deve essere motivata dal giudice nell’ordinanza in base alla complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto e per il numero delle parti. Contro il provvedimento è possibile presentare ricorso in sede di legittimità. Di regola è prevista la possibilità di procrastinare soltanto una volta il termine di durata massima del processo. Un regime diverso è previsto soltanto per alcuni gravi reati come associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione criminale finalizzata al traffico di droga: in tal caso non c’è un limite al numero di proroghe, che però devono sempre essere spiegate dal giudice sulla base della complessità concreta del processo. Per i delitti con aggravante del metodo mafioso, oltre alla proroga prevista per tutti i reati, ne sono possibili altre due: massimo tre anni di proroga sia in appello sia in Cassazione. In caso di 416 bis.1 (aggravante mafiosa) scattano fino a due proroghe ulteriori, oltre a quella prevista per tutti i reati: in tutto fino a tre proroghe di un anno in appello; il che significa massimo sei anni in appello e massimo tre alla Suprema corte nel periodo transitorio fino al 31 dicembre 2024, che dal 2025 diventano massimo cinque anni in secondo grado e massimo due anni e mezzo in piazza Cavour. Esclusi dall’improcedibilità i delitti sanzionati con l’ergastolo. Piani distinti. Con l’entrata a regime, passati i primi tre anni, in appello i processi possono durare fino a due anni di base, più una proroga di un anno al massimo; alla Suprema corte, un anno di base, più una proroga di sei mesi. Proroga sempre senza limiti per i giudizi per reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e mafiosa. Ma sempre motivata dal giudice e ricorribile per Cassazione. Un altro binario diverso è previsto per reati con aggravante mafiosa (416 bis.1/comma primo): massimo due proroghe in appello (di un anno ciascuna) e massimo due proroghe in piazza Cavour (ognuna di sei mesi). Anche qui da motivare. Delega per punti. Fra i punti della delega ci sono i criteri generali per l’esercizio dell’azione penale indicati dal Parlamento, con priorità individuate dalle Procure e sottoposte al Csm. Il pm chiede il rinvio a giudizio solo se sussiste una ragionevole previsione di condanna. Misure alternative al carcere al posto delle pene detentive entro i quattro anni. Allargata la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Messa alla prova per reati puniti fino a sei anni di carcere se l’imputato s’impegna a riparare. L’autunno caldo della giustizia, in attesa della rivoluzione al Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 6 ottobre 2021 Dai decreti attuativi alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Si presenta un autunno caldo in tema di giustizia: da un lato i decreti attuativi per quelle parti di riforma del penale e civile non immediatamente vigenti, dall’altro il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. La Commissione ministeriale presieduta da Massimo Luciani ha consegnato alla ministra Cartabia una relazione più una proposta di articolato di emendamenti al Disegno di legge A. C. 2681. A breve la Guardasigilli dovrà iniziare a sentire i partiti di maggioranza e poi presentare il suo pacchetto emendativo. Se è vero che nella road map degli stanziamenti prevista dal decreto legge del 6 agosto non troviamo specifiche indicazioni riguardanti la questione, comunque, come si legge nel dossier del centro studi della Camera, “il Piano nazionale di ripresa e resilienza si propone di intervenire anche sull’Ordinamento giudiziario, attraverso modifiche del disegno di legge A. C. 2681. In particolare, il Governo si propone gli obiettivi di: ottenere un generale miglioramento sull’efficienza e sulla complessiva gestione delle risorse umane, attraverso una serie di innovazioni dell’organizzazione dell’attività giudiziaria; garantire un esercizio del governo autonomo della magistratura libero da condizionamenti esterni o da logiche non improntate al solo interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia”. Lo sfondo è quello delle “note, non commendevoli vicende che hanno riguardato la magistratura”, disse la Guardasigilli. E per evitare nuovi scandali bisogna modificare il sistema di voto del Csm, benché, come leggiamo nella relazione, la Commissione “ha condiviso appieno la “ferma convinzione”, manifestata dalla ministra Guardasigilli, che “non debba nutrirsi l’illusoria rappresentazione che un intervento sul sistema elettorale del Csm possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana, le quali attingono invero a un sostrato comportamentale e culturale che nessuna legge da sola può essere in grado di sovvertire”“. Ritenendo “non soddisfacente” quanto proposto del ddl Bonafede, la Commissione propone il voto singolo trasferibile, che “consente di produrre, in collegi di ampiezza almeno media (quattro - cinque seggi) dei risultati di tipo tendenzialmente proporzionale e valorizza fortemente il potere di scelta dell’elettore”. Altro tema affrontato è quello delle porte girevoli tra magistratura e politica, che viene emendato in maniera più stringente rispetto alla proposta dell’ex ministro: “La scelta è nel senso di proporre una disciplina più rigorosa di quella ivi ipotizzata, ritenendosi che qualsiasi incarico di natura politica sia suscettibile di appannare l’immagine di indipendenza e imparzialità della magistratura. Quanto al ricollocamento in ruolo dei magistrati che abbiano aspirato a conseguire o abbiano conseguito tali cariche, invece, la scelta è stata in favore di un loro ricollocamento nei ruoli della magistratura, ma con decise limitazioni alle funzioni esercitabili”. Ad esempio l’aspettativa sarà senza assegni durante il mandato politico. Circa la composizione della Sezione disciplinare del Csm e delle Commissioni, la linea Luciani boccia ancora il Ddl Bonafede che prevedeva il ricorso al metodo del sorteggio sottolineando che questo “sembra implicare una sorta di contraddittoria sfiducia nell’efficacia delle misure che si vanno proponendo, dalle quali dovrebbe invece scaturire una forte responsabilizzazione sia dell’intera magistratura che del Consiglio superiore”. Un’innovazione significativa riguarda il sistema delle valutazioni quadriennali di professionalità, un tema su cui si batterà molto l’Unione delle Camere Penali, che chiede anche di prendere in considerazione il numero di sentenze riformate o le inchieste terminate in un nulla di fatto. Attualmente sono previsti tre tipi di valutazione: negativo, non positivo e positivo. Si prevede che il giudizio positivo sia ulteriormente articolato in “discreto, buono o ottimo con riferimento alle capacità di organizzazione del proprio lavoro”. Nei consigli giudiziari poi è previsto il potenziamento del ruolo dell’avvocatura, chiamata a partecipare, “con pieno diritto di parola”, alle valutazioni sulle progressioni carriera dei magistrati. Su questo punto il Pd invece è pronto a combattere anche per ottenere il diritto di voto. Giustizia, Ferri: “Dai tribunali risposte inadeguate alle vittime di violenza” di Silvia Mari agenziadire.com, 6 ottobre 2021 La docente di Filosofia e Logica del diritto, di Diritto internazionale e della Ue interviene sul tema della violenza contro donne e bambine e dei procedimenti civili per l’affido. Violenza contro donne e bambini, procedimenti civili per l’affido dei minori e cambiamenti introdotti dalla Riforma Cartabia. Rita Ferri, docente che si occupa di Filosofia e Logica del diritto, di Diritto internazionale e della Ue ha approfondito le questioni in un’intervista per l’agenzia Dire. Professoressa, lei si occupa di Filosofia e Logica del diritto, di Diritto internazionale e della Ue, con particolare attenzione al tema della violenza contro donne e minorenni. Cosa può dire in merito alle risorse utilizzate in contrasto alla violenza sulle donne? “L’Eige (European institute for gender equality) ha pubblicato i risultati di uno studio che riguarda le risorse utilizzate per il contrasto alla violenza sulle donne. La violenza di genere costa all’Ue 366 miliardi di euro all’anno. Il costo maggiore deriva dall’impatto fisico ed emotivo (56 %), seguito dai servizi di Giustizia penale (21 %) e dalla perdita di produzione economica (14 %). La spesa per servizi di sostegno come i rifugi costituisce solo lo 0,4 % del costo della violenza di genere. Particolarmente in Italia, la carenza di rifugi e la mancanza di risposte immediate ed efficaci sono solo due tra gli aspetti che interessano le vittime. Esiste un problema di qualità dei servizi e di qualità della preparazione che, per contro, dovrebbe essere tesa all’efficacia della funzione di tutela di donne e minorenni, rivolta alla loro ‘liberazione’ ed emancipazione, soprattutto sul piano economico. Dunque si tratta di un problema di carenza nella progettazione di regole e modalità di approccio che dovrebbero essere dettate dalle leggi e dall’indirizzo esecutivo e di controllo amministrativo tenendo conto dell’efficacia dei servizi. Fondamentale resta la necessità di comprendere e valutare i bisogni delle vittime e la qualità dei servizi erogati direttamente da chi ne è fruitore, senza intermediazioni”. Ferri aggiunge: “È da rivedere la qualità di chi opera nell’ambito dei servizi a favore delle vittime di violenza, dettando, da parte del legislatore o dell’amministrazione, chiare finalità e controlli di qualità, incentivando e tenendo conto delle valutazioni ottenute dai fruitori dei servizi: le vittime appunto. Mi occupo di questo tema da molti anni - espone la docente - lo faccio da sempre secondo un’ottica internazionale e, particolarmente, secondo la prospettiva dettata dall’Unione europea. Per questo posso affermare che le carenze italiane, purtroppo, non consistono solo nel numero inadeguato di centri antiviolenza. Il problema è molto più complesso e riguarda vari aspetti”. Studiando gli atti processuali “oramai da quasi un ventennio - continua l’esperta - appaiono chiari i deficit istituzionali a partire dalle risposte provenienti dall’ambito giudiziario, in cui si mostra, ancora troppo spesso, una incongruenza tra diritto applicabile e giudizio. Ascoltando poi direttamente dalla voce delle vittime quanto appartiene alla loro viva quotidiana esperienza, si può avere chiara la percezione delle cattive risposte fornite - sul piano amministrativo e giudiziario - per quanto attiene all’assistenza, alla tutela e all’emancipazione delle vittime. “In tema di violenza istituzionalizzata e di vittimizzazione secondaria - afferma Ferri - così come indicato nell’articolo 29 della Convenzione d’Istanbul, l’European institute for gender equality e la Grevio puntano il dito su giudici, avvocati, assistenti sociali, consulenti, mostrando sempre più attenzione tanto alla qualità dell’applicazione della legge in sede giudiziaria, quanto alla qualità del controllo e riscontro dei servizi da parte delle amministrazioni che effondono denaro pubblico. Per tutti valga il caso emblematico attuale di Laura Massaro”. In Italia si stanno facendo passi in avanti? “Spesso si è trattato di affermazioni d’intenti sul piano teorico, carenti sul piano programmatico complessivo e su quello applicativo. In tema di risarcimento, per esempio, nonostante i tanti fondi devoluti dall’Unione europea, non pare che sia presente un interesse concreto per le vittime, bensì parrebbe meglio per i ‘centri di potere’. Al contrario di altri Paesi ove esiste un rapporto diretto e immediatamente efficace tra vittime e istituzioni pubbliche di assistenza, nessun conto si tiene in Italia anche del fatto che la necessità primaria di donne e minorenni vittime di violenza è di tipo economico. Molte delle donne che hanno denunziato le violenze domestiche e che poi sono finite triturate dalla macchina della malagiustizia, osteggiate in ambito giudiziario e sovente mal difese dai propri avvocati, hanno subito la perdita del lavoro, danni consistenti alla salute, la perdita della casa abitativa. Dunque, oltre ai danni determinati loro dalla violenza domestica e da quella prodotta da chi opera all’interno delle istituzioni, devono far fronte a problematiche economiche gravissime, con relativa perdita dei rapporti sociali e tanto altro. Per questa ragione, il risarcimento per i danni prodotti in sede istituzionale è una necessità fondamentale nella immediatezza, oltre che precisato come dovere dalla Convenzione d’Istanbul. Voglio al riguardo ricordare il tema dei prelevamenti forzati dei minorenni dalla casa materna e i traumi provocati per l’allontanamento violento in età precoce dalla figura care-giver. Molti di questi casi avvengono in totale assenza di una ragione di Diritto che giustifichi il grave provvedimento di ablazione: tutt’altro”. Ferri prosegue: “Egualmente, voglio menzionare la terapia psicologica imposta su minorenne, illegittimamente obbligata da alcuni provvedimenti giudiziari al fine di costringere il bambino all’accettazione della figura genitoriale che sanamente rifiuta perché violenta e/o pedofila - come accade in alcuni casi anche laddove vi sia un procedimento penale ancora aperto o condanne - e i relativi danni irreversibili sull’equilibrio psico-fisico e sui comportamenti futuri. In sede giudiziaria - ribadisce la docente - tanto le denunce nei confronti dei giudici, quanto quelle verso assistenti sociali, Ctu, tutori, curatori, evidenziano il dato di una profonda crisi nell’osservanza in indagine o in giudizio del principio d’isonomia. Medesimo discorso è da farsi per quanto concerne l’ambito civilistico del risarcimento per responsabilità dei danni subiti e subendi. Dunque, al di là degli slogan enunciati - riferisce la Ferri - sul piano pratico dell’applicazione del Diritto e sul piano amministrativo della qualità dei servizi erogati, ancora molta strada è da percorrere”. Secondo la docente “un’importante eccezione tuttavia deve essere segnalata perché, in sede legislativa, la senatrice Fiammetta Modena insieme alle colleghe Anna Rossomando e Julia Unterberger hanno senza dubbio inciso profondamente nel processo civile compiendo, senza alcun clamore e utilizzo mediatico ma con abilità in materia giuridica, una rivoluzione, trovando nella ministra Cartabia un’ottima alleata. Si tratta dell’emendamento a firma prima della senatrice Modena - conclude la professoressa Ferri - che ha introdotto alla riforma del processo civile il ‘Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie’. Al tribunale saranno trasferite le competenze civili, penali e di sorveglianza del tribunale per i minorenni e tutte le materie riguardanti la famiglia, le separazioni o il divorzio. Soppresso il Tribunale per i minorenni, sarà istituito un unico tribunale composto dalla sezione distrettuale istituita presso ciascuna sede di Corte di Appello o di sezione di Corte d’Appello, e dalle sezioni circondariali costituite presso ogni sede di Tribunale Ordinario”. La narrazione del femminicidio e tutte le colpe che non ho di Caterina Serra Il Domani, 6 ottobre 2021 Per la violenza contro le donne si usa un linguaggio che in contemporanea condanna e giustifica il colpevole. È il patriarcato che protegge sé stesso, con gli uomini che sono complici di un sistema che si autoalimenta. Uomini, e spesso donne, parlano di donne che subiscono violenze con gli stessi aggettivi che userebbero per i loro persecutori. “Mi fa incazzare, mi ride in faccia, la odio, parla troppo, mi fa perdere il controllo, fanno tutte così, prima carine e gentili poi fanno quello che vogliono, ti prendono per il culo, per forza che poi uno si incazza, e guarda che io la amo tanto, da morire la amo, non posso stare senza di lei, mi ammazzo piuttosto, ha detto che vuole andarsene, non può farmi questo, magari ha un altro, adesso che lavora, avrà qualcuno vedrai, ma poi con quelle troie delle sue amiche, con le loro idee, sono libera mi ha detto, non puoi comandarmi, non faccio quello che vuoi tu, ma se non sa neanche parlare, è una cretina, ho ancora le chiavi, so quando esce, mi scoppia il cervello, dopo tutto quello che ho fatto per lei, non può farmi questo, la ammazzo se non si calma, se non torna com’era…”. È la voce di un uomo immaginario, ma di uomini che parlano così se ne incontrano tanti, da così a peggio. Ho passato un anno a raccogliere le loro parole e a domandarmi: qual è la lingua che usano per dire del loro amore? E perché le parole dell’amore sono accanto a parole che descrivono gesti violenti, atteggiamenti umilianti, oppressivi, pieni di odio. Perché parole della violenza raccontano storie d’amore? Mi interessano le narrazioni perché nelle parole ci sono i nostri modi di guardare le cose, di vedere le persone, il nostro modo di porci di fronte al mondo, quindi di affrontare ogni tipo di esperienza intima, personale, pubblica e sociale. Comunemente un uomo che uccide una donna è definito: carnefice, ex, pazzo di gelosia, sconvolto, preso da un raptus, fuori di testa, gesto estremo, non ci ha più visto, accoltella, spara, strangola, violenta e sgozza, è stress, depressione, follia, rifiuto, tempesta emotiva. L’accusato ha detto: Ho solo sparato a mia moglie. Un linguaggio che è un meccanismo ben oliato che condanna e al contempo salva, giustifica, legittima, scagiona, riduce le pene, e prima ancora non allontana quell’uomo, non lo crede il solo colpevole, lo reputa esasperato pazzo, ubriaco, geloso, un meccanismo narrativo che favorisce il punto di vista di chi agisce, per cui siamo portati a prendere le sue parti, a capirlo, a non condannarlo, a provare pena, pietà. Quanti di voi, voi uomini, intendo, provano rabbia, orrore, ascoltano le donne credendo alla loro versione, vedendo la loro paura, il loro terrore, danno importanza alle loro parole, senza minimizzare, prendendo sul serio la loro denuncia di minaccia di morte senza archiviarla per dieci, venti volte. Quante donne si sentono non credute, non prese sul serio, perfino in colpa, come se qualcosa del loro racconto, del loro modo di essere, fosse complice, corresponsabile, se non del tutto responsabile quindi colpevole (Processo per stupro è un documentario del 1979: dovrebbe essere visto nelle scuole, è disponibile su YouTube). Un’aula di giustizia non è un luogo del giudizio diverso da quello della società e quindi della nostra esperienza personale: difficilmente ci troveremmo di fronte uno sguardo meno maschilista, cattolico, familistico. Uomini, e spesso donne, parlano di donne che subiscono violenze di ogni genere, che vengono uccise orribilmente, con gli stessi aggettivi che userebbero per i loro persecutori, esecutori: manipolatrici, opprimenti, esasperanti, maniache, narcisiste patologiche, calcolatrici, egoiste, false, aggressive, manesche, vendicative, arroganti, colleriche, pazze, isteriche, stronze, troie, puttane, come se questo loro modo di essere, vero o presunto, fosse una ragione sufficiente a farle fuori. Abbiamo sempre bisogno che incarnino la femmina cattiva, quella che noi riteniamo tale perché non conforme allo stereotipo della cosiddetta femminilità, il grande bluff della storia: donne intelligenti chiamate pazze, donne sapienti finite sul rogo, donne sessualmente libere messe alla gogna se non uccise. Ma a chi appartiene questa narrazione? Chi ha fatto alle donne questo bel servizio? Vogliamo finalmente dirci che sono stati gli uomini? Certi uomini, certo, ma quanti sono? E perché oggi non si mettono a ripensare la loro narrazione colonial-sessista che li informa e informa la società patriarcale bianca che continuano ad abbracciare con lo stesso atteggiamento mentale, la stessa secolare idea di supremazia sulle donne, senza mai fare i conti col potere, con la libertà, col diritto a una buona vita, con corpi che possono mutare, volersi soli o insieme ad altri, seduttivi o no, riproduttivi o no, produttivi o no, liberi anche di non essere piacevoli, desiderosi di aderire in tutto al desiderio di chi si ama o in nulla senza rischiare di essere uccise. Come raccontare un femminicidio senza il corpo sorridente dell’assassinata, la sua faccia piegata di lato in qualche social, i suoi capelli, la sua foto insieme all’uomo che la ucciderà, prima in una posa sensuale, ammiccante, poi ripiegata su sé stessa, accovacciata, rannicchiata, corpo fragile, impaurito, la faccia tumefatta, gli occhi gonfi e poi chiusi di cadavere. Perché non compare mai solo il nome e la faccia di lui, presunto colpevole, va bene, ma perché sotto la lente ci mettiamo sempre lei, la cosiddetta vittima, (quanto lavoro fanno quei centri anti-violenza la cui politica femminista cerca di eliminare dalla narrazione della vittima proprio questa stessa parola, vittima, per dar modo a chi ha subìto violenza di non sentirsi tale, dentro la stessa fenomenologia della preda, della vittima designata, dentro quel sistema di segni per cui quell’uomo ha predestinato quella donna alla paura, alla sottomissione, all’obbedienza, alla mortificazione mentale, all’eliminazione fisica), bisognosa di protezione, di controllo, come se il corpo delle donne fosse meno corpo pubblico, cioè corpo nella sfera pubblica, come valesse meno quindi politicamente, facesse meno parte della pólis (la vecchia buona assemblea democratica, sessista e razzista, ateniese)? Donne come bottino di guerra, vendute, stuprate, bruciate vive, messe incinta, fatte abortire, o impossibilitate a farlo, mutilate del piacere, punite per troppa bellezza, allontanate per troppa intelligenza, (il “troppo” è una aggravante, naturalmente) affamate secondo canoni di gradimento non loro, relegate all’invisibilità di una cucina o di una cella monastica, razzializzate, sessualizzate, lasciate da parte, messe a tacere, pagate di meno, pagate mai: non dagli uomini di turno di una qualche azienda, di una casa, una università, una fabbrica, un parlamento, fate voi, ma da un intero sistema che funziona solo grazie al fatto che tutte queste pratiche sessiste sono garantite. Pensate a come starebbe una casa senza il lavoro gratuito di cura di una donna, o una azienda o un teatro senza il lavoro sottopagato di operaie ma pure dirigenti e registe e performer e maestranze femminili, o non per forza definibili in qualche vetusta binarietà? Insomma come starebbe il capitalismo senza il patriarcato? Il fatto è che la violenza c’entra sempre in un sistema basato sulla volontà di dominio, e l’amore non ne è affatto escluso. La violenza c’entra con l’amore perché il potere lo attraversa nelle sue forme migliori e peggiori, quelle che potenziano e quelle che depotenziano e dominano. E il denaro c’entra, una forma di potere che controlla, ricatta, lega, quando non è gestito da un patto di reciproco scambio, che implica libertà, intesa perfetta di reciprocità materiale: come si negozia, come si concilia con tempo e passioni, individualità e messa in comune, come se ne condivide il potere, come ha a che fare con il piacere, come libera il desiderio? Gli uomini che uccidono le donne ogni giorno non sono dei mostri, sono come ciascuno di voi, siete voi, amatissimi uomini, siete voi che dovreste avere paura degli uomini, di quelli fatti di tutto ciò che vi ha cresciuto e ancora vi cresce, quelli del questo è mio, quelli dell’adesso sei mia, quelli del padre a capo tavola, quelli che non possono cedere, sentirsi deboli, abbandonati, traditi, umiliati, perché perderebbero quel che li fa entrare nello spazio domestico e urbano con sicurezza, spavalderia, con quel passo che non teme di essere fermato, di essere guardato per essere commentato, voluto, posseduto, ucciso, quelli innamorati di questa tecnica di potere che è il patriarcato, (anche certe donne lo hanno interiorizzato al punto da difenderlo con le unghie, lo so). Continuerete nel ridicolo di certe reazioni impaurite o goliardiche con cui ancora vi legittimate e assolvete, con la vecchia storia della vergogna che tirate fuori per fare della vostra debolezza la vostra forza virile, della vostra volontà di dominio la vostra legittima capacità di potere? Quando sarà facile sentirvi dire per strada, “Un’altra donna uccisa adesso basta”, quando rinuncerete a quel posto che vi viene dato solo per privilegio, quando non griderete la vostra rabbia per non essere stati all’altezza di una donna, quando non vi sentirete innocenti, quando vi sentirete colpevoli di avere messo in piedi un sistema ingiusto, persecutorio, alla base di una economia colonialista basata sullo sfruttamento e la sopraffazione, quando la smetterete di volere dominare come foste la specie eletta, quando finirete di volere controllare singole vite, intere comunità di viventi, esseri umani e non, animali e vegetali, quando non avrete più paura di corpi che non corrispondono alla vostra idea binaria di mascolinità e femminilità, quando accuserete e condannerete uomini come voi riconoscendone le radici culturali e storiche comuni, quando starete in casa e fuori ci saranno strade per donne che si sentiranno sicure da sole, quando smantellerete la vostra politica fatta di gerarchia patriarcale, di sessismo e razzismo, allora, forse, sarete ammessi a un altro genere di assemblea, quella di umani e non-umani, quella che quei corpi coi loro femminismi in movimento continuano da anni a ideare e costruire con le loro pratiche degli affetti e la loro politica inclusiva, non violenta, partecipata, relazionale, tentando di ripensare il potere, dove il denaro c’entra senza oppressione, e pure l’amore. Caso Lucano, cosa non torna nelle parole del procuratore di Simona Musco Il Dubbio, 6 ottobre 2021 In un’intervista alla Stampa, il procuratore di Locri Luigi D’Alessio contesta all’ex sindaco di Riace di aver spedito i migranti nella baraccopoli di San Ferdinando. Ma a farlo era la prefettura. Lucano ha effettivamente avuto “una mirabile idea di accoglienza”, però gestita male e riservata a soli pochi eletti: avrebbe mantenuto a Riace sempre gli stessi migranti, senza alcun avvicendamento periodico, “e gli altri li mandava nell’inferno delle baraccopoli di Rosarno”, diceva qualche giorno fa su La Stampa il procuratore di Locri Luigi D’Alessio. E ancora: “Non ho mai visto tanti migranti manifestare in suo favore”. Due frasi importanti, quelle pronunciate dal procuratore, che chiama Lucano “bandito western”, che però non trovano riscontro nei fatti. Soprattutto la prima: era lo Stato a gestire l’inferno della baraccopoli di Rosarno e sempre lo Stato - la prefettura, nello specifico - ad inviare lì i migranti. Compreso quando Riace ha dovuto chiudere il Cas, perché la stessa prefettura - all’epoca guidata da Michele Di Bari, colui che ha ordinato le ispezioni su Riace - aveva smesso di versare da tempo il dovuto al Comune. Due anni a secco - Per quasi due anni, infatti, da Reggio Calabria non è arrivato nemmeno un euro. E a ridosso di Natale, i migranti cominciarono a vedersi staccare la luce in casa. La soluzione trovata da Lucano per sopperire i continui ritardi - i bonus, ovvero la moneta alternativa “coniata” a Riace, prima elogiata pubblicamente dal Viminale e poi disconosciuta dallo stesso - non era più perseguibile. Con quella moneta, prima, i migranti potevano comprare nelle botteghe locali, che così avevano riattivato la loro economia incassando direttamente dallo Stato il dovuto. E inoltre potevano gestire direttamente il denaro, senza rischiare che qualcuno lo facesse per loro. Un modo per promuovere l’integrazione ed evitare ruberie, insomma. Ma cancellata a colpi di marca da bollo quella idea, toccava fare i conti con la burocrazia. La prefettura di Reggio Calabria, di punto in bianco, comunicò di voler chiudere il progetto. Una decisione non condivisa dai migranti, che protestarono per restare, e nemmeno dall’allora presidente della Regione, Mario Oliverio, che chiese alla prefettura di temporeggiare. Nulla da fare, però: la situazione era ormai ingestibile. Così fu Lucano stesso a decidere di chiudere il progetto, inviando una nota in prefettura il 21 dicembre del 2018, ma lasciando in piedi i progetti Sprar e le porte aperte a chiunque volesse restare tra coloro che facevano parte dei Cas. Il 28 dicembre, dunque, tutti gli ospiti furono costretti a partire. A San Ferdinando ci finì anche Becky Moses, che a Riace non poteva rimanerci per il rifiuto della commissione territoriale di riconoscere la sua richiesta d’asilo. Per la legge e per la prefettura, infatti, la donna non poteva essere trasferita in uno Sprar. Così andò via dalla Locride, raggiungendo alcuni connazionali che vivevano ormai stabilmente nella tendopoli a 70 km più a sud. L’ultimo viaggio - Quel viaggio per Becky è stato l’ultimo: la giovane è morta in un rogo dentro “l’inferno della baraccopoli” il 27 gennaio 2018. Un rogo nato per una lite tra migranti all’interno della struttura, dove però gli ospiti vivevano in condizioni pietose: senza servizi igienici, tra pozze di fango e rifiuti, nel completo degrado. Una situazione legale, a quanto pare, legalmente gestita dallo Stato. E poco prima di partire verso quel buco nero, Lucano le rilasciò una carta d’identità, illegale, ammette lui stesso, proprio perché a Becky nessuno aveva riconosciuto il diritto di stare da qualche parte. Per quel documento, però, l’ex sindaco non è stato mai indagato. Gliene hanno contestate delle altre - tra cui quella rilasciata ad un bambino di 4 anni che altrimenti non avrebbe potuto curarsi -, ma non quella. “Perché?”, si chiede oggi, ricordando come la responsabilità della baraccopoli fosse della prefettura e come proprio grazie a quella carta d’identità quella giovane donna abbia trovato sepoltura: dopo quattro mesi, infatti, l’obitorio contattò il Comune, sottolineando come nessuno volesse saperne niente. Se ne lavarono le mani di quei resti considerati - letteralmente - “rifiuti speciali”. Ossa e cenere chiuse in una scatola alla quale tutti voltavano le spalle. Così finì a Riace. Le manifestazioni - Per D’Alessio, inoltre, nessuno dei migranti ha manifestato per Lucano. E ciò nonostante le foto e le immagini degli ospiti del borgo in testa al corteo il 6 ottobre del 2018, quattro giorni dopo essere finito ai domiciliari. E nonostante le foto e i video di gente in lacrime in piazza, ogni volta che di Lucano e della sua storia giudiziaria si è tornati a parlare pubblicamente. L’ultima volta è successo pochi giorni fa, dopo la condanna a 13 anni e 2 mesi decisa dal Tribunale di Locri. Oggi i pochi migranti rimasti a Riace non vivono di progetti - chiusi, sentenziano Tar e Consiglio di Stato, “illegittimamente” dal ministero dell’Interno -, ma di puro e semplice volontariato. “Sto mantenendo l’accoglienza senza niente”, dice l’ex sindaco osservando una donna e i suoi figli camminare per le vie del borgo. L’accoglienza, per lui, è stata un boomerang. E le cose sono cambiate quando la cifra è passata da 20 euro a migrante a 35. Troppi, ha spiegato lui stesso, che ha così deciso di usare le economie dei progetti per fare integrazione. “Come si fa a rendicontare se la cifra raddoppia? - ha spiegato -. Nei soggetti gestori scatta la necessità di diventare bravi ragionieri, quella di giustificare la spesa, ma con progetti insignificanti. I lungo permanenti non esistono. Io ho posto un problema a livello tecnico al ministero: sei mesi non sono sufficienti per l’integrazione. Ho dovuto pagare anche le deficienze dello Sprar. Ma nessuno capiva che Riace non può essere Milano o Trieste, ci sono caratteristiche tipiche del territorio, l’accoglienza deve avere una duplice funzione, deve creare opportunità anche per la gente del posto”. Lucano quando racconta ricorda la storia di ognuno.Di ogni immigrato, dei problemi di salute del singolo ospite, il dramma dietro ogni viaggio. E mentre racconta le storie di quasi 20 anni di accoglienza viene inondato di messaggi di migranti, tra i quali quello di Jimenez, giovane donna che stava per essere trasferita a San Ferdinando con suo figlio. Quella volta l’ex sindaco si oppose fisicamente al suo trasferimento, così come l’ex governatore Oliverio. E alla fine rimase a Riace, assieme agli altri. Dei quali anche lui si sente parte: “Io sono uno di loro”. Campania. L’allarme di Antigone: le prigioni tornano a scoppiare di Viviana Lanza Il Riformista, 6 ottobre 2021 Si fa un gran parlare di riforma, di giustizia, di misure alternative da preferire al carcere e di carcere come extrema ratio ma, alla fine, nei fatti, il populismo penale è ancora imperante e in carcere ci continua a finire non solo chi ha commesso reati particolarmente gravi e chi ha una condanna definitiva da scontare. Lo dimostra l’ultimo report di Antigone, l’associazione impegnata in favore dei diritti delle persone detenute. In Campania la popolazione detenuta continua a crescere: è aumentata dell’1,8% negli ultimi mesi. Un trend che è ben al di sopra della media nazionale che è pari al +0,7%. Cosa vuol dire? Vuol dire che ci sono sempre più persone che finiscono in cella perché arrestate in flagranza di reato, perché destinatarie di provvedimenti di custodia cautelare o perché hanno una condanna da scontare. Ora, al netto delle considerazioni sugli altrettanto elevati tassi di criminalità organizzata e di delinquenza diffusa che sicuramente incidono sul numero di arresti registrati ogni mese in Campania, il dato registrato dal report di Antigone non lascia indifferenti: quanti di questi arresti sono veramente necessari? Quanti non potrebbero consentire il rispetto delle esigenze cautelari, e più in generale di giustizia, anche attraverso il ricorso a misure alternative? Quanti riguardano persone soltanto indagate che potrebbero risultare innocenti al termine di un processo penale? Perché è ormai un dato consolidato - e l’analisi di Antigone lo conferma - che circa la metà dei detenuti non ha condanne definitive da scontare ed è in cella in attesa di un processo. Nel carcere di Poggioreale, per esempio, la percentuale di persone recluse con una condanna definitiva è pari a 49,6%, vuol dire che su 2.100 detenuti presenti nell’istituto penitenziario cittadino 1.041 hanno avuto una sentenza di condanna passata in giudicato e gli altri 1.059 no. E il dato è in linea con quelli dei più grandi istituti di pena a livello nazionale. Il popolo dei detenuti cresce, dunque. Da agosto a settembre, in tutta Italia, ci sono stati 373 detenuti in più. A fronte di una capienza regolamentare di 50.857 posti, a settembre le carceri del Paese sono arrivate a ospitare 53.930 persone. La Campania è tra le regioni dove l’aumento è più significativo, assieme al Trentino-Alto Adige (+2,7%) e all’Emilia Romagna (+1,8%). Se aumenta il numero dei detenuti è facile immaginare che risulti in aumento anche il tasso di affollamento. Sorprende, sotto questo aspetto, che la situazione sia più drammatica a Brescia Canton Mombello dove il tasso di affollamento è arrivato addirittura al 198,4%, a Grosseto con il 180%, a Brindisi con il 160,5%. Il carcere di Poggioreale registra invece un tasso di affollamento del 138,89%: non è tra le percentuali più alte del Paese ma è pur sempre la spia di una popolazione detenuta che si trova a vivere in spazi inadeguati e insufficienti, dove è facile che la pena rischi di trasformarsi in punizione e privazione dei diritti, anche di quelli più elementari. Volendo puntare ancora la lente sul grande carcere cittadino, il più affollato della Campania e il più grande d’Europa, dal report di Antigone emerge che nessuno dei 2.100 detenuti presenti a fine settembre risulta assegnato al lavoro esterno; non ci sono, inoltre, detenuti al 41bis né in regime di semilibertà. Situazione diversa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove l’1,2% della popolazione detenuta è assegnato al lavoro esterno e dei 902 reclusi nella struttura dieci sono in semilibertà. Tuttavia, nell’analisi della situazione nel carcere sammaritano, il dato che più balza agli occhi è quello relativo ai provvedimenti di isolamento disciplinare: 194 casi in un anno, una percentuale pari al 21,5%. E qui la memoria torna ai tragici fatti del 6 aprile 2020 e al racconto dei detenuti picchiati dagli agenti e poi messi in isolamento per nascondere i segni delle percosse. Bologna. Il carcere minorile aumenta la capienza. Il Garante: “Temiamo involuzione” redattoresociale.it, 6 ottobre 2021 La preoccupazione del Garante del Comune di Bologna per la prossima apertura di un nuovo piano detentivo. Da qui alla fine dell’anno la capienza passerà da 22 a 36: “Aumenteranno anche gli organici? Rischio che vengano meno gli attuali standard qualitativi che hanno portato risultati concreti” Aprire il secondo piano dell’Istituto penale per i minorenni di Bologna per aumentare la capienza e portarla da quella attuale di 22 a quella di 36 ragazzi detenuti attraverso una graduale pianificazione temporale a partire dall’inizio di ottobre (capienza massima 24 ragazzi) sino al 1° gennaio 2022 (36 ragazzi). Una scelta che ha visto l’immediata reazione di Antonio Ianniello, garante comunale dei detenuti che, in una nota inviata alle istituzioni competenti, ha espresso “alcuni profili di preoccupazione”. La prima considerazione riguarda il contesto detentivo “che già si caratterizza per le croniche inadeguatezze strutturali degli ambienti - spiega Ianniello -, trattandosi di un edificio storico riadattato per l’uso carcerario, che si ripercuotono anche sulle condizioni di vita dei ragazzi”. I corridoi a ridosso delle camere sono particolarmente stretti, tanto da “rendere difficilmente operativo il regime detentivo aperto quando i ragazzi non sono impegnati nelle attività e restano nelle celle. Questa considerazione, già rilevante oggi con la capienza a 22, potrà essere ovviamente estesa anche al secondo piano detentivo una volta aperto. Di conseguenza, il profilo di criticità risulterà amplificato”. La seconda considerazione, invece, riguarda l’eventualità che al progressivo ampliamento della capienza non corrisponda un adeguamento dell’organico, tanto dell’area educativa quanto della polizia penitenziaria. “Il timore è che, senza un adeguato rafforzamento degli organici in servizio, possa configurarsi un grave impatto sugli equilibri organizzativi. Potrebbe materializzarsi un significativo disagio lavorativo per le varie professionalità penitenziarie, anche con il rischio concreto di ricadute negative sulle complessive condizioni di detenzione dei ragazzi, con eventuale collegato aumento del clima di tensione”. La preoccupazione è che la stessa organizzazione dell’offerta di attività trattamentali - scolastiche, formative, culturali, ricreative e sportive - “attualmente congrua rispetto al numero dei ragazzi presenti e all’organico del personale”, possa subire contraccolpi. “Lo scenario che, per questa via, potrebbe profilarsi sarebbe in controtendenza rispetto a quanto ha caratterizzato il locale istituto penale minorile”. Come sottolinea Ianniello, in questi anni sono stati conseguiti importanti risultati: dal conseguimento del diploma da parte di alcuni ragazzi, anche durante l’emergenza sanitaria, all’iscrizione di alcuni di loro all’università, “tutti indicatori che possono essere letti come importanti risultati ottenuti anche da parte di tutto lo staff e grazie al rapporto equilibrato che si è instaurato fra le varie aree. Allo stato attuale sembrano esserci le condizioni affinché il progetto educativo personalizzato possa esplicarsi nella sua pienezza, tracciando percorsi orientati alla responsabilizzazione, all’educazione e al pieno sviluppo psico-fisico anche - e soprattutto - per una preparazione adeguata alla vita libera”. E porta come esempio l’esperienza dell’osteria formativa all’interno del carcere che, prima della pandemia, aveva aperto le porte alla città: “La sensazione era e rimane che questa grande opportunità per i ragazzi possa anche diventare patrimonio della città di Bologna”. Considerate le premesse, “la preoccupazione è che, portando la capienza a 36 ragazzi, possa alterarsi quel delicato equilibrio organizzativo grazie al quale si sono raggiunti i risultati accennati. Nel caso di mancanza di congrui interventi di adeguamento degli organici, il rischio è che vengano meno le condizioni essenziali per mantenere l’attuale standard qualitativo delle condizioni di vita e degli interventi educativi, lasciando spazio a una deriva involutiva in cui i contenuti di mera detenzione e/o di mero contenimento dei ragazzi possano prendere il sopravvento”. Palermo. Una mano a chi sta in carcere e agli ex detenuti: il Consiglio di aiuto sociale palermotoday.it, 6 ottobre 2021 L’organismo istituito presso il Tribunale si pone l’obiettivo del reinserimento nella vita sociale attraverso corsi di avviamento professionale e ricerca di lavoro, ma si occupa anche di sostenere le vittime di delitti. Torna in funzione il Consiglio di aiuto sociale presso il Tribunale di Palermo, che si occupa dell’assistenza penitenziaria e post penitenziaria. Un organismo che ha il compito, di prendersi cura, ad esempio, dei detenuti e di coloro che, ad esempio, a breve lasceranno il carcere. Si assicurano che “siano fatte frequenti visite ai liberandi, al fine di favorire, con opportuni consigli e aiuti, il loro reinserimento nella vita sociale”. Ieri c’è stata la prima riunione presieduta da Antonio Balsamo, Presidente del Tribunale di Palermo. Presenti anche Leoluca Orlando, sindaco di Palermo; Francesco Micela, Presidente del Tribunale per i Minorenni; Tina Montinaro, presidente dell’Associazione Quarto Savona Quindici; Aida Portolano, Presidente dei Gruppi di Volontariato Vincenziano di Palermo; Maria Agnello, Magistrato di Sorveglianza; Mariangela Di Gangi, Coordinatrice dall’Associazione Laboratorio Zen Insieme; Maria Mantegna, Assessore Cittadinanza Sociale. E ancora: il direttore della Casa di Reclusione dell’Ucciardone e il Direttore della Casa Circondariale di Pagliarelli; Mario Affronti, responsabile Uos di Medicina delle migrazioni, nella qualità di direttore dell’Ufficio Regionale per le Migrazioni della Conferenza Episcopale Siciliana; Dalila Mara Schirò, Ricercatrice di diritto penale al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo; Aida Portolano, Presidente dei Gruppi di Volontariato Vincenziano - Palermo; Anna Maria Rita Cullotta, della Caritas diocesana, designata dall’Arcivescovo Lorefice; Marco Guccione, designato dall’Associazione Jonas Palermo. Il Consiglio di aiuto cura anche che “siano raccolte tutte le notizie occorrenti per accertare i reali bisogni dei liberandi e studia il modo di provvedervi, secondo le loro attitudini e le condizioni familiari” e “assume notizie sulle possibilità di collocamento al lavoro nel circondario e svolge, anche a mezzo del comitato di cui all’articolo 77, opera diretta ad assicurare una occupazione ai liberati che abbiano o stabiliscano residenza nel circondario stesso”. Inoltre, organizza, anche con il concorso di enti o di privati, corsi di addestramento e attività lavorative per i liberati che hanno bisogno di integrare la loro preparazione professionale e che non possono immediatamente trovare lavoro. Promuove, altresì, la frequenza dei liberati ai normali corsi di addestramento e di avviamento professionale predisposti dalle regioni e cura il mantenimento delle relazioni dei detenuti e degli internati con le loro famiglie. Infine, segnala anche alle autorità e agli enti competenti i bisogni delle famiglie dei detenuti e degli internati, che rendono necessari speciali interventi, concede sussidi in denaro o in natura e collabora con i competenti organi per il coordinamento dell’attività assistenziale degli enti e delle associazioni pubbliche e private nonché delle persone che svolgono opera di assistenza e beneficenza diretta ad assicurare il più efficace e appropriato intervento in favore dei liberati e dei familiari dei detenuti e degli internati. Non solo. Il Consiglio di aiuto sociale presta soccorso, con la concessione di sussidi in natura o in denaro, alle vittime del delitto e provvede all’assistenza in favore dei minorenni orfani a causa del delitto. Il consiglio di aiuto sociale ha personalità giuridica, è sottoposto alla vigilanza del Ministero di grazia e giustizia e può avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. I componenti del consiglio di aiuto sociale prestano la loro opera gratuitamente. Padova. “Servono spazi più adeguati per i colloqui con i detenuti” Il Mattino di Padova, 6 ottobre 2021 Uffici di Esecuzione Penale Esterna. In una stanza dove vengono fatti ì colloqui sì trovano a lavorare anche quattro assistenti sociali contemporaneamente. Per non parlare di quando, sempre gli assistenti sociali, si trovano a dover redigere delicate relazioni e non hanno uno spazio adeguato dove poterlo fare. Il problema, sollevato da Massimo Zanetti, segretario regionale Uil-pa, è il seguente: la struttura di viale della Navigazione Interna 38 dove si trovano oggi gli uffici Uepe (Uffici dì esecuzione penale esterna) non è per nulla adatta. Qui infatti lavorano circa una decina di assistenti sociali, che quotidianamente hanno colloqui con persone che hanno commesso un reato e che devono reintegrarsi nella società. Sono detenuti o persone ai domiciliari, in ogni caso imputati in un processo penale che hanno bisogno di un reinserimento sociale. In pratica l’ufficio, in seguito a una serie di incontri con l’interessato e a volte anche con ì suoi familiari, concorda un programma e chiede l’adesione degli enti territoriali. Non solo. Ogni colloquio deve essere trasmesso al magistrato attraverso un report dettagliato che fa l’assistente sociale. Insomma si tratta di un lavoro molto delicato. “I colloqui richiedono riservatezza. È assolutamente inaccettabile che in una stanza di normali dimensioni stazionino 3, o addirittura 4, assistenti sociali con una compresenza di 3, 4 detenuti. E per colloqui di tale rilevanza”, dice Zanetti. Una situazione difficile che starebbe mettendo a dura prova gli stessi assistenti sociali dell’Uepe per i quali uffici passano circa 2 mila detenuti all’anno. “Si trovano in difficoltà oltre che durante i colloqui anche quando devono redigere i report da inviare al magistrato. Sono relazioni che vanno fatte in un certo modo e non è certo plausibile poterle scrivere in una stanza dove ci sono alt i colleghi che parlano o magari rispondono al telefono”. Altra criticità riguarderebbe la zona dove si trovano oggi questi uffici, e cioè la zona industriale. “Oltre ad essere difficilmente raggiungibile come ubicazione, il sabato mattina quella zona è deserta. Spesso gli assistenti sociali si sono trovati di fronte a persone, che magari avevano avuto a colloquio, non proprio raccomandabili”. Una soluzione a questi disagi ci sarebbe. Ci sono infatti tre piani di un edificio dì piazza Insurrezione, ex Coni, proprio dietro al palazzo dell’ex Inps, che sono di proprietà del demanio e che sarebbero già stati destinati agli uffici Uepe. “Potrebbero essere dentro a questo nuovo spazio da anni, e invece ancora non cominciano i lavori di ristrutturazione”. Lavori che si aggirerebbero attorno ai 500 mila euro. “Da Roma dovrebbero darsi una mossa. Se pensiamo che con l’affitto degli spazi dì viale Navigazione interna lo Stato spende 85 mila euro più iva, oltre alle spese, che vuol dire quasi 100 mila euro all’anno, in cinque anni avrebbe pagato i lavori dì piazza Insurrezione. Sta avvenendo è uno sperpero di denaro pubblico”. Ancona. Il Garante: “La situazione a Montacuto è complessa, interventi necessari” anconatoday.it, 6 ottobre 2021 Dopo i casi di autolesionismo e le aggressioni dei giorni scorsi, che hanno visto come protagonisti alcuni detenuti, il Garante dei Diritti si è tenuto costantemente in contatto con la casa circondariale anconetana. Riprende dal carcere Montacuto di Ancona il monitoraggio del Garante regionale dei Diritti, Giancarlo Giulianelli, negli istituti penitenziari marchigiani. Dopo i casi di autolesionismo e le aggressioni dei giorni scorsi, che hanno visto come protagonisti alcuni detenuti, Giulianelli si è tenuto costantemente in contatto con la casa circondariale anconetana per avere il quadro aggiornato della situazione ed ha deciso di riavviare i sopralluoghi partendo proprio da questa realtà, in cui sono trattenuti 306 detenuti (di cui 131 stranieri) per una capienza regolamentare di 256 posti. “Una situazione complessa - dice Giulianelli in una nota - che come ho avuto modo di dire è già stata più volte resa nota ai rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria nelle loro diverse articolazioni. È ormai evidente la necessità di interventi in molteplici settori della Casa circondariale, per la cui concretizzazione occorre, oggi più che in altre occasioni, collaborazione e unità d’intenti”. Il monitoraggio del Garante proseguirà nei prossimi giorni con le visite alla Casa di reclusione di Fermo e alla Rems (Residenza per le misure di sicurezza) di Macerata Feltria. Circeo e nuove censure di Dacia Maraini La Stampa, 6 ottobre 2021 Il film “La scuola cattolica” è stato vietato ai minori di 18 anni perché, secondo i censori, avrebbe equiparato vittime e carnefici. Dovremmo sempre cercare di dare la parola, anche solo simbolicamente, a chi è stato messo a tacere. Per questo nel 1975, ai tempi del delitto del Circeo - di cui si torna a parlare oggi per l’uscita del film La scuola cattolica - scrissi un articolo intitolato “La violenza sulle donne è una costante nel tempo”, concentrandomi sulle vittime. Perché spesso non hanno parola. Gli aguzzini possono difendersi, chi subisce, no. Addirittura, nei casi di violenza la vittima spesso si trasforma in imputata, la si accusa di aver provocato i suoi aggressori. Oggi per fortuna qualcosa è cambiato. All’epoca del delitto del Circeo il “se l’era cercata” era un punto di vista diffuso, ora fa parte di una mentalità più ristretta e minoritaria, ma sono ancora in troppi a pensarlo. In quegli anni diventò centrale nel dibattito la “purezza” di una delle due vittime. Oggi il concetto di purezza è decaduto, per lo meno nelle nuove generazioni. Certo esistono ancora sacche limitate dove il corpo delle donne è visto come una proprietà del marito e quindi una proprietà deve essere intonsa. Per certi tradizionalisti sposare una ragazza non più vergine è come comprare una macchina usata anziché nuova. Per fortuna su tutti questi temi il femminismo ha inciso in maniera determinante. Molti luoghi comuni, entrati nell’etica sociale, sono stati scardinati. Non è un caso che tutta la legislazione sulla famiglia sia cambiata solo fra gli anni 70 e 80, in seguito alle battaglie per i diritti civili del femminismo. Parlo del Diritto di famiglia, della legge sul delitto d’onore, della parità di salario, delle leggi sulla violenza contro le donne. La violenza contro le donne è una costante di tutte le culture patriarcali. E non mi sembra che nel mondo oggi esista una cultura non patriarcale. Eschilo ha raccontato molto bene il passaggio da una cultura del potere materno a una cultura del potere paterno. Quando Oreste, che aveva ucciso la madre, viene perseguitato dalle furie si rivolge agli dei. E il nuovo Dio Apollo indice un processo a cui partecipano tutte divinità maschili, salvo Atena che era nata dalla testa di Zeus. E Il tribunale decide che Oreste è innocente perché il solo seme che dà la vita sta nel corpo del padre. La madre è solo un vaso che contiene il seme del padre. E con questo ha sancito il passaggio dal prestigio materno a quello paterno. Da quel momento le donne sono considerate una proprietà maschile. Ogni loro autonomia è vista come una offesa ai privilegi paterni. Ecco da dove viene tanta violenza contro le donne. Ancora, per certi uomini, la rivendicazione dei diritti civili suona come un’offesa alla supremazia maschile, e va punita con rabbia. Naturalmente non dipende dalla divisione biologica dei generi ma dalla divisione culturale che è stata considerata legittima per millenni e non è facile per i più deboli e i più spaventati, accettare la perdita di molti privilegi. Un delitto come quello del Circeo scuote ancora a tanti anni di distanza l’opinione pubblica perché si stanno ripetendo nel tempo. La cronaca ci dice che gruppi di ragazzi che credono di spadroneggiare trattando le ragazze come agnelli da sacrificio sono ancora fra noi. È vero che spesso, presi uno a uno, quei ragazzi possono anche sembrare bravi, ma in gruppo nascono delle dinamiche di sadismo che possono essere devastanti. Qualche osservatore studioso della psiche ha sostenuto che sono rituali di omosessualità nascosta. Si tratterebbe di un eros maschile che, non accettando l’omoerotismo, prende a pretesto un corpo femminile per scatenare il desiderio proibito. Il film “La scuola cattolica” è stato vietato ai minori di 18 anni perché, secondo i censori, avrebbe equiparato vittime e carnefici. Io purtroppo non l’ho visto non posso dire niente a proposito ma sarebbe un grave errore mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. Anche perché la violenza contro le donne è in continuo aumento e mostrare i violenti come persone accettabili significherebbe dare loro una giustificazione. Una persona che lavora sul piano della cultura non può prescindere da un giudizio, anche se solo culturale, su dei ragazzi viziati ed egocentrici che hanno trattato le due ragazze come fossero animali da macello. Il privilegio di classe dura ancora purtroppo, anche se in maniera meno determinante. Troppi ragazzi viziati, spesso in preda alla droga, si accaniscono contro le loro coetanee. Anche utilizzando gli strumenti tecnologici come il caso di quella ragazza il cui fidanzato, che lei amava e di cui si fidava, l’ha fotografata mentre facevano l’amore e poi ha messo le foto sulla rete per umiliarla e violentarla psicologicamente. E ci è riuscito perché lei si è uccisa. Verso Ninive, un libro su carcere, pena e speranza di Francesca Mozzi chiesadibologna.it, 6 ottobre 2021 Conversazioni di Paola Ziccone con il cardinal Zuppi su pena, speranza, giustizia riparativa. Mercoledì 15 settembre 2021, in Sala Borsa, c’è stata la presentazione del libro “Verso Ninive” che raccoglie Conversazioni dell’autrice Paola Ziccone con il cardinal Zuppi su pena, speranza, giustizia riparativa. I proventi a Gomito a Gomito. “Esiste una giustizia che va oltre la logica punitiva e repressiva e che trova compimento nella restituzione di un futuro all’intera società”. Si tratta della giustizia ripartiva, tema portante, insieme a pena e speranza, di Verso Ninive, volume in cui Paola Ziccone, da decenni impegnata nell’esecuzione penale minorile, dialoga con il cardinale Matteo Zuppi. La giornalista Luciana Apicella ha moderato l’incontro nel quale è intervenuto anche Adolfo Ceretti, professore di Criminologia all’Università di Milano-Bicocca autore della postfazione. Paola Ziccone, che dirige il dipartimento di giustizia minorile, ha deciso di devolvere i proventi dei diritti d’autore del libro alla cooperativa Siamo Qua che gestisce il laboratorio di Sartoria Gomito a Gomito del carcere della Dozza. Il titolo del volume, recentemente pubblicato da Rubettino, trae ispirazione dal libro di Giona, profeta mandato a predicare a Ninive, città minacciata e poi salvata da Dio. L’episodio biblico viene richiamato nel dialogo tra l’autrice e l’arcivescovo di Bologna. Frutto di quattro incontri tra l’autrice, ex direttrice degli istituti penali minorili di Firenze e Bologna, e il cardinale, il dialogo esplora il tema della giustizia riparativa e lo mette a confronto con una mentalità diffusa che appare incentrata sulla vendetta. Le conversazioni sono avvenute nella primavera dello scorso anno, quando l’intero paese ha sperimentato il lockdown e con esso un’esperienza di separazione, considerata simile a quella del carcere. “Le mie riflessioni - spiega l’autrice - nascono dall’incontro con centinaia di ragazzi, autori di reati o vittime, genitori, volontari, insegnanti, educatori, studenti, avvocati, artigiani, docenti universitari, agenti di polizia penitenziaria, sacerdoti, persone che mi hanno aiutato a rispondere alle mie domande sul male e sulla possibilità di arginarlo”. Verso Ninive, non è dunque un approfondimento teorico intorno alla giustizia ripartiva, tema che vanta una lunga bibliografia, ma un testo che, come scrive l’autrice nella prefazione, cerca di raccontare come sia possibile infrangere l’inimicizia, la “disamistade” cantata da De Andrè in Anime Salve. “Solo l’uscita dall’idea della restituzione del male ricevuto, fa sì che la giustizia si apra alla speranza e diventi capace di aprire prospettive di futuro e di rinnovamento - spiega il cardinale nel libro - Se la giustizia si limita alla logica della vendetta, diventa fine a se stessa e rischia di generare un movimento senza fine che, non estinguendo mai la rabbia e la violenza, permette che il male continui ad agire e a produrre le sue conseguenze”. Fra Martino Colombo, presidente della Cooperativa “Siamo Qua - Gomito a Gomito” ha raccontato, a margine della conferenza, la missione del laboratorio Gomito a Gomito: “siamo molto grati alla nostra amica Paola Ziccone per questa iniziativa. Da una decina d’anni lavoriamo nel carcere di Bologna. Offriamo un lavoro regolare alle detenute e ai detenuti del carcere. Crediamo infatti che il lavoro sia la via migliore per aiutarli a reinserirsi nella società. Ci sosteniamo con le vendite dei prodotti realizzati nel nostro laboratorio”. “Scritti dal carcere”, prima traduzione italiana di tutte le prose e le poesie di Bobby Sands umbria24.it, 6 ottobre 2021 Si chiama “Scritti dal carcere” il libro che contiene la prima traduzione italiana di tutte le prose e le poesie inedite scritte durante la prigionia da Bobby Sands, il rivoluzionario irlandese morto il 5 maggio 1981 per sciopero della fame nel carcere di Long Kesh a Belfast. La presentazione è in programma per venerdì 8 ottobre a Perugia, all’Osteria del Gufo di via della Viola, nell’ambito del programma di iniziative organizzate dalla libreria Mannaggia di via Cartolari insieme alle altre realtà del quartiere. Il libro, edito da Paginauno, contiene la prefazione inedita di Gerry Adams ed è curato da Riccardo Michelucci e dal professor Enrico Terrinoni, che parteciperà alla presentazione insieme a Carlo Floris. Il volume comprende oltre 200 pagine tra poesie e brani di prosa, scritti mai pubblicati in Italia, oltre a una prefazione inedita di Gerry Adams, storico leader del partito repubblicano irlandese Sinn Féin. Chi era Nato nel 1954, Bobby Sands era il primogenito di una famiglia cattolica e operaia, e fu bersaglio di continui attacchi e discriminazioni insieme ai famigliari. Animatore e attivista di comitati di quartiere, a 18 anni si arruolò nell’Ira, l’Irish Republican Army. Nel 1976 venne arrestato senza prove a suo carico. Fu leader delle proteste dei detenuti; da carcerato venne eletto deputato del parlamento britannico. Nel 1981 guidò uno dei più celebri scioperi della fame della storia contemporanea. Il libro “I testi di Bobby Sands, toccanti e intensi, compongono una raccolta di grandissimo spessore - spiega la casa editrice - sia per la qualità letteraria che per l’incredibile valore di testimonianza storica. Scritti in condizioni di detenzione difficili da immaginare, tracciati segretamente su minuscoli pezzi di carta igienica e cartine per sigarette, i testi raccontano l’amore per la libertà, l’attaccamento alla propria terra, l’attenzione per i compagni, il sogno di una repubblica socialista. Parlano delle ragioni della protesta per il riconoscimento dello status di prigionieri politici, delle condizioni disumane e della violenza continua e degradante a cui i detenuti irlandesi erano costretti dal regime britannico. Lasciano trapelare le passioni di un ragazzo intelligente e vitale: letteratura, storia, sport, ornitologia. Descrivono la tenacia di un ribelle acuto, lucido e inflessibile e allo stesso tempo un giovane uomo dotato di una straordinaria sensibilità umana e poetica, oltre che di un senso morale altissimo che lo porterà in assoluta consapevolezza a scegliere di morire”. Quell’inganno di un popolo senza potere di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 6 ottobre 2021 Vero è, dunque, che una delle ragioni del successo nella raccolta delle firme digitali è da rinvenire nella debolezza del Parlamento, ma ciò non ha nulla di positivo. Anzi, deve far riflettere e preoccupare ancor più. Dopo il successo della partecipazione “digitale” alla raccolta di firme referendarie, ora si registra il netto calo dell’affluenza al voto. Sono il sintomo della trasformazione della nostra democrazia. Sempre più immediata, sempre meno meditata. Una democrazia divisa: da un lato il demos - il popolo - spesso indignato, ma poco propenso ad un impegno che vada oltre un click, un tweet, un’imprecazione contro lo stato di cose presenti. Dall’altra il kratos - il potere - impermeabile alle proteste. Quest’ultimo sembra seguire logiche puramente autoreferenziali, tecnocratiche, al più quelle vuote di significato della retorica populista, comunque lontane dal senso comune, dai bisogni sociali, dai problemi reali del primo. È come se la sovranità popolare non riuscisse più a manifestarsi dentro le nostre istituzioni repubblicane. Qualcuno pensa che sia giunto il tempo di far parlare il popolo senza mediazioni. Si inganna: le “Leggi”, da Socrate in poi, le fanno sempre i “Governanti”. È per questo che l’essenza e il valore delle democrazie contemporanee non risiede nella decisione diretta del popolo, ma nella capacità di questo di concorre a determinare le politiche nazionali. Ai partiti e alle istituzioni rappresentative spetta poi dare forma e razionalità politica alle diverse domande sociali, dentro i luoghi del potere. Com’è scritto in apertura della nostra Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ed è per questo che non ci si può affidare esclusivamente alla partecipazione digitale. Dopo la raccolta delle firme per potere indire i referendum, saranno i poteri a decidere le sorti della richiesta. Il garante della costituzione (la Consulta) stabilirà se questi sono ammissibili, i poteri governanti (Governo e Parlamento) dovranno creare le nuove regole, sia che intervengano prima sia che provvedano successivamente all’eventuale abrogazione della vigente normativa. Basta guardare al passato per accorgersi come il vero problema del popolo non è chiedere, quanto ottenere. Quante richieste si sono arenate perché ritenute inammissibili? Ed ancor più, quanti referendum espletati sono poi rimasti sulla carta per inerzia del legislatore? È per questo che l’entusiasmo nei confronti degli ultimi quesiti referendari mi sembra quantomeno eccessivo. Non si tratta del merito, che è sacrosanto: tanto la liberalizzazione della cannabis, quanto la dolorosa questione dell’eutanasia sono due temi che devono da tempo trovare una regolamentazione legislativa. Nel secondo caso addirittura due decisioni della Corte costituzionale hanno chiesto al legislatore di intervenire. Questo invece è rimasto sordo, senza dare seguito alcuno. Ma proprio qui è il vero scandalo: l’inerzia delle Camere, che non troverà soluzione con un click. Vero è, dunque, che una delle ragioni del successo nella raccolta delle firme digitali è da rinvenire nella debolezza del Parlamento, ma ciò non ha nulla di positivo. Anzi, deve far riflettere e preoccupare ancor più, solo che si ammetta che la democrazia telematica non esiste. Non è neppure difficile prevedere l’esito di questa esplosione di partecipazione passiva. Quando tra breve ci si renderà conto che non basta un voto travolgente (500.000 firme in quattro giorni per la raccolta sulla cannabis) per risolvere il problema, ci si dovrà di nuovo appellare ai poteri governanti. E allora tutti i nodi verranno al pettine. Se questi non saranno in grado di dare soluzioni adeguate tutto sarà ancora più difficile. Il popolo negletto, il potere delegittimato, la democrazia ancor più infragilita. Un esito a saldo negativo per tutti. Sarebbe saggio tornare ad interrogarsi su come ripristinare una rappresentanza politica reale. Come far sì che il Parlamento riacquisti una sua centralità ed autonomia di indirizzo politico, in ragione della sua capacità di rispecchiare la volontà popolare e non più solo limitarsi ad esprimere la sua immagine riflessa; come assicurare ai rappresentanti della nazione la loro legittimazione “dal basso”, senza far più dipendere la loro elezione e il loro successo politico dalla fedeltà ai diversi capicorrente; come dare corpo e forma politica alle moltitudini disperse, incanalando la rabbia entro strategie di effettivo e duraturo cambiamento sociale; come assicurare un seguito alle iniziative della cittadinanza attiva e dare senso alla partecipazione politica intesa non solo come investitura, ma anche come parte integrante del processo di definizione della volontà generale. Sono questi i problemi di fondo delle nostre democrazie che non verranno risolti né da una raccolta di firme “a distanza”, né da una vittoria elettorale dimezzata in assenza del popolo. Come scriveva in tempi austeri Pietro Ingrao, il merito storico della sinistra in Italia è stato quello di riuscire a collegare le “masse” al “potere”. Oggi chi si propone più un simile compito? L’europarlamento contro la sorveglianza di massa nei luoghi pubblici di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 6 ottobre 2021 Il Parlamento europeo chiede alla Commissione di proibire la ricerca e l’utilizzo di tutti gli strumenti di riconoscimento facciale nei luoghi pubblici dell’Unione europea. Sconfitti popolari e destre. Si contano i voti, con molta tensione. Ma alla fine l’”emendamento distopico” - come lo chiamavano - è respinto. I no della sinistra, dei socialisti, dei verdi e di qualche “indipendente” prevalgono. E si può così votare a grande maggioranza il rapporto Vitanov sull’intelligenza artificiale. Meglio e più nel dettaglio: si può così votare il rapporto che vieta il riconoscimento facciale da parte delle forze di polizia. Anche a non voler seguire l’entusiasmo del verde-pirata tedesco Patrick Breyer - “è un momento storico” - il documento approvato dall’assemblea dei deputati europei, il 5 ottobre, è destinato ad incidere profondamente nelle prossime scelte della Commissione sull’argomento. Il parlamento di Strasburgo ha infatti chiesto che la regolamentazione del settore “escluda qualsiasi trattamento di dati biometrici, comprese le immagini del volto”. Li escluda in “qualsiasi luogo pubblico”, ne vieta l’uso anche alle forze di polizia. L’obiettivo? Esplicito: evitare nel vecchio continente la sorveglianza di massa, che penalizza le minoranze, il dissenso, le comunità svantaggiate. Di più: il Parlamento chiede alla “Commissione di bloccare i finanziamenti per la ricerca biometrica e di bandire la diffusione di programmi che potrebbero comportare una sorveglianza indiscriminata negli spazi pubblici”. Questo è il mandato che il Parlamento assegna alla Commissione quando dovrà varare l’Artificial Intelligence Act. Non era scontato, perché proprio all’ultimo, pochi giorni fa, i popolari e le destre avevano presentato un emendamento al rapporto. Al posto del divieto chiedevano solo che le forze dell’ordine adottassero “cautela nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale per fare previsioni comportamentali”. Sarebbe stato, di fatto, il via libera alla “polizia predittiva”, quell’applicazione dell’intelligenza artificiale che i movimenti sociali e quelli per i diritti civili stanno provando a sconfiggere negli States. A Strasburgo non è passato. La questione, ovviamente, anche in Europa è tutt’altro chiusa, spesso è successo che la Commissione non tenga conto del voto parlamentare. Ma il fronte dei diritti ha segnato un punto. L’ex manager di Facebook: “Intervenite, è come per il fumo o gli oppiodi” di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 6 ottobre 2021 L’audizione di Frances Haugen, manager uscita dalla società: le app di Zuckerberg sono nocive per la salute. Le polemiche sul blackout: ecco com’è successo. “Quando il governo si è reso conto che il fumo è nocivo per la salute è intervenuto. Quando è stato chiaro che le cinture di sicurezza salvano vite umane il governo ha obbligato l’industria dell’auto ad adottarle. Quando si è visto che i farmaci oppioidi creano dipendenza la politica è intervenuta. Vi supplico di farlo anche ora davanti ai danni sociali provocati da Facebook”. È il momento più potente della testimonianza resa ieri al Senato di Washington da Frances Haugen, la ex product manager della società di Mark Zuckerberg che, lasciata l’azienda, ha deciso di denunciare i suoi comportamenti nocivi prima consegnando a un quotidiano documenti interni che dimostrano la consapevolezza da parte del gigante dei social media dei danni che provoca ai suoi utenti (soprattutto i più giovani), poi esponendosi in prima persona davanti alle telecamere della Cbs, infine con un’audizione parlamentare. Appello forte quello della Haugen anche perché il senatore Richard Blumenthal, presidente del comitato che l’ha convocata, ha ricordato che qualche decennio fa, da procuratore generale del Connecticut, fu tra i protagonisti della battaglia per la regolamentazione di big tobacco per il fumo e ha promesso di fare ora altrettanto con big tech. Ottenendo su questo l’apparente consenso dei senatori repubblicani, altrettanto indignati nei confronti di un’azienda che coi suoi 3,5 miliardi di utenti di tutte le sue piattaforme (Instagram, WhatsApp, Messenger e Oculus, oltre a Facebook) ha più potere di molti Stati e, oltre a condizionare i giovani, altera toni e natura del dibattito politico, incide sulla struttura del commercio e di altre attività economiche e perfino su problemi di sicurezza nazionale. Quale sia il suo peso planetario si è visto lunedì quando per oltre sei ore tutte le piattaforme di Facebook sono letteralmente sparite dalla rete: imprese che fanno pubblicità e vendono attraverso i siti del gruppo californiano bloccati in tutto il mondo, dall’India al Brasile, mentre i tanti che si sono dotati di apparecchi attivati attraverso l’intelligenza artificiale di Facebook non riuscivano aprire la porta di casa o ad accendere la tv. Sabotaggio? Stavolta è stato subito evidente che gli hacker non c’entrano: il colossale blackout è stato provocato da errori degli stessi ingegneri di Facebook che, nel cambiare alcune configurazioni interne del sistema informatico, hanno inavvertitamente interrotto le comunicazioni tra i router. In pochi minuti si è prodotto un effetto domino che ha colpito l’intera rete, compresi i sistemi di sicurezza interna delle sedi del gruppo che hanno smesso di funzionare lasciando fuori dagli uffici, per la disattivazione dei badge di riconoscimento, i dipendenti che stavano tornando per riattivare manualmente i sistemi. Identificato il problema (la configurazione del Border Gateway Protocol, o BGP) la difficoltà è stata quella - in un’era di lavoro remoto post-Covid e di sistemi sui quali sono abilitati a intervenire solo pochissimi specialisti per evitare il rischio di infiltrazioni dei pirati informatici - di mettere insieme un team di persone competenti e mandarlo a intervenire direttamente sui server del data center di Facebook a Santa Clara. Riattivato il servizio, sono cominciate le polemiche che si sono sovrapposte alle denunce etiche per i comportamenti della società. C’è chi vede in questo incidente un’ulteriore dimostrazione della necessità di spezzare il semi-monopolio del gruppo nelle reti sociali, mentre per il presidente turco Erdogan bisogna sganciarsi da questi giganti e crearsi reti nazionali. E Zuckerberg? Salvo un breve post di scuse agli utenti per l’interruzione del servizio, solo un video nel quale lo si vede sorridente a bordo di una barca a vela con la moglie Priscilla. È la nuova linea di comunicazione: staccare l’immagine del capo dai guai aziendali. Di quelli parlano i portavoce che ieri hanno respinto le accuse della Haugen dicendosi d’accordo su un solo punto: “È ora che la politica decida regole standard per Internet anziché aspettare che siano le imprese a fare scelte che spettano al legislatore”. Stati Uniti. Confermata l’esecuzione di un detenuto disabile, inascoltato l’appello del Papa di Elena Molinari Avvenire, 6 ottobre 2021 Il governatore repubblicano del Missouri ha ordinato l’uccisione dell’uomo per iniezione letale. Ernest Johnson, un condannato a morte del Missouri affetto da gravi deficit intellettuali, non ha ricevuto la grazia. Nella tarda serata di ieri si preparava dunque nella prigione di Bonne Terre l’esecuzione del 61enne afroamericano, riconosciuto colpevole di aver ucciso tre impiegati in una stazione di servizio durante una rapina nel 1994. Mike Parson, governatore repubblicano dello Stato, ha infatti respinto le lettere di richiesta di pietà inviate da papa Francesco, l’appello di due membri del Parlamento del Missouri e le petizioni firmate da migliaia di persone e ordinato l’uccisione dell’uomo per iniezione letale. Francesco la scorsa settimana aveva esortato per lettera il governatore a concedere al detenuto “un’adeguata forma di clemenza”. “Sua Santità desidera sottoporre alla vostra attenzione il semplice fatto dell’umanità di Johnson e della sacralità di tutta la vita umana”, aveva scritto Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Usa. Jeremy Weis, avvocato dell’uomo, si è detto “molto deluso dalla decisione” e ha spiegato che l’esecuzione di Johnson, che ha la capacità intellettuale di un bambino, violerebbe l’ottavo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che proibisce di mandare a morire le persone mentalmente disabili. Un principio ribadito nel 2002 da una sentenza della Corte Suprema Usa. Ernest Johnson, un condannato a morte del Missouri affetto da gravi deficit intellettuali, non ha ricevuto la grazia. Nella tarda serata di ieri si preparava dunque nella prigione di Bonne Terre l’esecuzione del 61enne afroamericano, riconosciuto colpevole di aver ucciso tre impiegati in una stazione di servizio durante una rapina nel 1994. Mike Parson, governatore repubblicano dello Stato, ha infatti respinto le lettere di richiesta di pietà inviate da papa Francesco, l’appello di due membri del Parlamento del Missouri e le petizioni firmate da migliaia di persone e ordinato l’uccisione dell’uomo per iniezione letale. Francesco la scorsa settimana aveva esortato per lettera il governatore a concedere al detenuto “un’adeguata forma di clemenza”. “Sua Santità desidera sottoporre alla vostra attenzione il semplice fatto dell’umanità di Johnson e della sacralità di tutta la vita umana”, aveva scritto Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Usa. Jeremy Weis, avvocato dell’uomo, si è detto “molto deluso dalla decisione” e ha spiegato che l’esecuzione di Johnson, che ha la capacità intellettuale di un bambino, violerebbe l’ottavo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che proibisce di mandare a morire le persone mentalmente disabili. Un principio ribadito nel 2002 da una sentenza della Corte Suprema Usa. Libia. L’Onu: “Crimini di guerra contro civili e migranti” di Marina Della Croce Il Manifesto, 6 ottobre 2021 Fosse comuni, detenuti torturati e bambini soldato. I risultati choc di una missione dell’Ohchr. Cadaveri di civili sepolti in fosse comuni, detenuti torturati, bambini arruolati come soldati e sparizioni forzate. E in più l’ormai nota, ma non per questo meno drammatica, serie di orrori e violenze compiute contro migranti e rifugiati. Tutto ciò accade a poche miglia dall’Italia, sull’altra sponda del Mediterraneo e in quella Libia con cui i governi occidentali per convenienza fingono ancora di avere un interlocutore affidabile con cui dialogare. L’ultima istantanea dell’inferno libico l’ha scattata il Consiglio per i diritti umani dell’Onu (Ohchr) che due giorni fa ha presentato i risultati di una missione di inchiesta indipendente denunciando come tutte le parti in conflitto abbiamo perpetrato una continua violazione dei diritti umani ai danni della popolazione. “Le nostre indagini hanno stabilito che tutte le parti, compresi gli Stati terzi, combattenti stranieri e mercenari, hanno violato il diritto internazionale umanitario, in particolare i principi di proporzionalità e distinzione, e alcune hanno anche commesso crimini di guerra” ha denunciato il presidente della missione, Mohamed Auajjar, che ha lavorato insieme ad altri due esperti di diritti umani, Chaloka Beyani e Tracy Robinson, Obiettivo della missione era quello di esaminare la condotta di tutte le parti presenti nel conflitto, sia libiche che straniere, a partire dal 2016 studiandone gli effetti e le conseguenze sulla popolazione. Con attori diversi a seconda dei tempi: inizialmente nello scontro tra l’ex premier libico Fayez al Serraj e l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar e successivamente, dalla fine del 2019, con l’arrivo sul terreno dei militari turchi e di mercenari russi e siriani. I risultati non potevano che essere drammatici, “come dimostrano gli attacchi a ospedali e scuole”. “I civili hanno pagato un prezzo pesante durante le ostilità del 2019-2020 a Tripoli, così come altri scontri armati nel Paese dal 2016”, ha spiegato Auajjar. “Gli attacchi aerei hanno ucciso dozzine di famiglie. La distruzione delle strutture sanitarie ha avuto un impatto sull’accesso all’assistenza sanitaria e le mine antiuomo lasciate dai mercenari nelle aree residenziali hanno ucciso e mutilato i civili”. Nel condurre il loro lavoro Auajjar, Beyani e Robinson hanno esaminato centinaia di documenti, intervistato più di 150 testimoni ed esteso le indagini anche a Tunisa e Italia arrivando alla scoperta di crimini atroci. Come quelli commessi tra il 2016 e il 2020 nella città di Tarhuna, a sud est di Tripoli. Qui, in un’area agricola chiamata “Chilometro 5” dallo scorso mese di aprile a oggi la missione ha scoperto numerose fosse comuni recuperando finora almeno 50 cadaveri. Vittime della guerra sono ovviamente anche coloro che hanno dovuto lasciare le proprie case e fuggire: “L’insicurezza cronica - è scritto nel rapporto - ha portato all’evacuazione di centinaia di migliaia di persone che sono finite in aree mal attrezzate. Alcuni gruppi etnici, come i Tawergha, i Tebus e gli Alahali, sono sfollati dal 2011 e continuano a subire gravi abusi. Le prove indicano che la Libia non ha intrapreso azioni per garantire la sicurezza degli sfollati interni e il loro ritorno al luogo di origine, in violazione dei suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale”. C’è poi il capitolo riguardante gli stranieri, quanti arrivano in Libia alla ricerca di una lavoro o nella speranza, spesso vana, di riuscire a raggiungere l’Europa. E in questo caso gli esperti dell’Onu indicano chiaramente le responsabilità della autorità libiche: “Migranti, richiedenti asilo e rifugiati sono soggetti a una litania di abusi in mare, nei centri di detenzione e per mano dei trafficanti”, ha affermato Chaloka Beyani. “Le nostre indagini indicano che le violenze contro queste persone sono commesse su vasta scala da attori statali e non statali, con un alto livello di organizzazione e con l’incoraggiamento dello Stato, il che è indicativo di crimini contro l’umanità”. Medio Oriente. Le madri coraggio arabo-israeliane contro la mafia di Juan Carlos Sanz* La Repubblica, 6 ottobre 2021 Lo chiamano il Triangolo. La regione lungo la Linea Verde che confina con la Cisgiordania proietta un paesaggio di colline senza alberi su cui sono sparse le baraccopoli in città come Taybe che ospitano gran parte della minoranza araba d’Israele, circa il 20 per cento della popolazione del Paese. I discendenti dei palestinesi che rimasero nello Stato ebraico dopo la sua nascita nel 1948 poterono votare solo otto anni dopo e furono soggetti alla legge marziale fino al 1966. “Siamo ancora cittadini di seconda classe, non abbiamo gli stessi diritti della maggioranza ebraica”, sostiene Maisan Jaljuli, 49 anni, direttrice dell’organizzazione femminista Naamat, legata ai laburisti, per il Triangolo meridionale e cofondatrice del gruppo Madri per la vita. “Circa il 60 per cento dei palestinesi in Israele vive al di sotto del salario minimo di 5.300 shekel (1.400 euro); la metà degli alunni sono bocciati a scuola e a 14 anni sono per strada, senza studiare né lavorare...; ci sono più di 50.000 edifici senza licenza in attesa di demolizione...”, spiega Jaljuli, laureata in sociologia, nel suo ufficio di Taybe sui punti critici della discriminazione della principale minoranza d’Israele. “Il lavoro, l’istruzione, la casa e l’occupazione della Palestina sono le nostre preoccupazioni - dice - ma soprattutto ci angoscia la violenza derivante dal crimine organizzato”. Nel 2020, sono state assassinate 96 persone nella comunità araba, una cifra senza precedenti negli ultimi tempi e più del doppio del numero di morti violente tra la maggioranza ebraica (più di tre quarti della popolazione). La spirale del crimine è peggiorata negli ultimi due anni, colpendo donne, bambini e passanti sorpresi dal fuoco incrociato. Alla data di domenica 26 settembre, si registravano altre 92 vittime arabe delle bande nel 2021. Una di loro è Layt Nasra, un meccanico di 19 anni, ucciso sei mesi fa da due uomini mascherati mentre partecipava alla festa di compleanno di un vicino, nella casa accanto a quella della sua famiglia, nella città di Qalansawe, sempre nella regione del Triangolo. Nella sparatoria, è stato ucciso un altro giovane e altri quattro sono rimasti feriti. Sua madre, Zahya Nasra, 54 anni, ha immediatamente chiamato la polizia, ma non ha ancora ottenuto una risposta alla sua richiesta di arresto e punizione dei colpevoli. Da allora si veste solo di nero. “Mi sono svegliato nelle prime ore del mattino per il rumore. Sembravano i fuochi d’artificio di una festa. Quando sono arrivata a casa dei vicini, il corpo di mio figlio era disteso su un divano”, dice in un sussurro dopo aver offerto caffè, pasticcini, fichi e uva ai visitatori. Madre di cinque figli e tre figlie, scoppia in lacrime mentre viene fotografata con una foto del più giovane della famiglia: “Non smetto di pensare a lui ogni giorno”. I suoi vicini erano già stati minacciati da una banda, senza che la polizia intervenisse per proteggerli. I sospetti sull’identità degli autori sono stati ignorati dalla polizia, che ha accantonato l’omicidio di Layt come se fosse solo un altro danno collaterale in un regolamento di conti. “Se fosse stato ebreo, il caso sarebbe già stato risolto. Tutte le madri arabe hanno paura per i loro figli; chiunque può essere la prossima vittima”. Di fronte alla legge del silenzio che prevale nel Triangolo, Zahya Nasra grida contro la routine del crimine. La polizia ha risolto solo il 21 per cento degli omicidi nella comunità araba, rispetto al 50 per cento dei casi tra la popolazione ebraica, secondo un rapporto ufficiale citato dal quotidiano Haaretz. Lo stesso ministro laburista della Pubblica Sicurezza, Omer Bar-Lev, ha riconosciuto che molte famiglie arabe si sono procurate armi da fuoco per difendersi dalle bande. “È la prova evidente che le forze di sicurezza hanno fallito nella loro missione più fondamentale: quella di proteggere i cittadini”, ha denunciato il quotidiano progressista israeliano in un editoriale all’inizio del mese. La violenza continua senza sosta. Lunedì un altro giovane arabo è stato ucciso in una sparatoria durante un matrimonio a Taybe e martedì un altro arabo è stato trovato crivellato di colpi nella regione meridionale del Negev. Da giovedì scorso, sono stati assassinati altri tre membri della comunità. L’organizzazione Madri per la vita è nata nel 2020 dopo un’ondata di omicidi. Parenti delle vittime della violenza e gruppi di attivisti arabi hanno organizzato una marcia da Haifa, nel nord del Paese, a Gerusalemme per chiedere alle autorità israeliane di prendere provvedimenti urgenti contro il dominio della criminalità. Alla marcia si sono uniti migliaia di ebrei a Tel Aviv. “La società è stufa. Ha perso la fiducia nello Stato e non ha fiducia nella polizia”, dice Maisan Jaljuli. L’emarginazione, la miseria e la violenza hanno generato tra la popolazione araba di Israele un senso di abbandono da parte dello stato di Israele, la più grande potenza economica e militare del Medio Oriente, che accusano di trascurare un quinto dei suoi cittadini. Con l’ingresso per la prima volta nella storia di Israele di un partito arabo, l’islamista Raam, nella coalizione andata al potere a giugno, il nuovo governo ha promesso alla comunità etnica palestinese un piano di investimenti di 30 miliardi di shekel (circa 8 miliardi di euro) in cinque anni, compreso lo stanziamento di 1 miliardo di shekel per combattere il crimine. Inoltre, in agosto, ha istituito una forza speciale di polizia anticrimine. L’ufficiale arabo di più alto grado che lo dirige, Jamal Akrush, è già stato minacciato dalle bande. La sua casa è stata fatta oggetto di colpi di arma da fuoco venerdì della settimana scorsa. Tra i vari fattori che spiegano l’aumento della criminalità - secondo Jaljuli, leader sociale della comunità araba - va sottolineata la trasformazione economica che ha avuto luogo, con l’emergere di una classe media di impiegati qualificati e commercianti. Questi settori meno tradizionali hanno smesso l’usanza di sottoporre le controversie agli sceicchi dei clan patriarcali per risolverle attraverso una Sulha (patto o accordo di riconciliazione). Le bande ora offrono questi servizi al miglior offerente. “La discriminazione si vede anche nel sistema bancario israeliano”, dice la direttrice dell’organizzazione Naamat di Taybe, “che è riluttante a finanziare prestiti ai cittadini arabi. Di conseguenza, le famiglie sono costrette a rivolgersi agli usurai legati alle organizzazioni criminali”, spiega. Allo stesso tempo, lo sradicamento negli ultimi due decenni delle mafie ebraiche che dominavano le città costiere, a seguito di un’operazione di polizia durata anni e sostenuta da agenti del Sin Beth (sicurezza interna), ha deviato parte dell’attività criminale verso le popolazioni arabe. I soldati delle bande si sono ormai infiltrati nel tessuto economico fino a controllare le concessioni di servizi pubblici comunali, seguendo le orme di Cosa Nostra, mentre si dedicano alla fiorente attività di riscossione delle tasse di protezione da commercianti e imprenditori. La loro egemonia si regge anche su relazioni segrete con il potere. Un programma investigativo sul Canale 12 della TV israeliana ha rivelato le testimonianze di agenti di polizia che hanno incolpato lo Shin Bet di offrire immunità ai criminali in cambio di diventare informatori e di riferire sulle attività nazionaliste all’interno della comunità. Nel frattempo, le forze di sicurezza si sono limitate a tenere il conto dei crimini, nonostante il fatto che nove sparatorie su dieci avvengano in zone abitate dalla principale minoranza del Paese. Il supermercato della famiglia di Wadfa Jabali, 52 anni, si trova sotto casa sua nel centro storico di Taybe. Dal soggiorno, guarda su uno schermo le immagini delle telecamere di sicurezza del negozio. Mostrano ancora l’inquadratura in cui ha assistito in diretta alla morte di suo figlio Saad, 26 anni, crivellato di colpi nel novembre 2018 mentre era alla cassa, accanto alla quale si è accasciato senza vita in un lago di sangue. Vestita in un rigoroso lutto, offre caffè, dolci e mandorle mentre l’aroma delle spezie orientali che viene dalla cucina pervade l’atmosfera della casa. “Nessuno trovava il motivo di questo delitto e la polizia trascurava le indagini”, dice. Ma la tenacia della madre e le sue continue visite alla stazione di polizia hanno portato all’arresto del colpevole quattro mesi e mezzo dopo. Il colpevole sta ora scontando una condanna a 30 anni di prigione. Nelle città arabe d’Israele è nascosto un arsenale, tra le 200.000 e le 400.000 armi da fuoco, secondo le fonti, molte delle quali rubate all’esercito e per lo più in mano a gruppi criminali. Wadfa Jabali è vista come un modello nel collettivo Madri per la vita per la sua fermezza nel fare pressione sulle autorità fino a quando non sia fatta giustizia. “Mio figlio è stato una vittima della polizia, perché l’assassino si era già aggirato nei pressi del supermercato ma gli agenti si erano rifiutati di indagare nonostante le nostre denunce”, protesta, poco prima di cedere al pianto. Non può contenere le lacrime davanti alle fotografie di questo suo figlio assassinato, il cui nome, Saad, è scritto per sempre su una parete. *Traduzione di Luis E. Moriones