Ergastolo ostativo: sentiti anche i magistrati che difendono la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 ottobre 2021 Non solo i magistrati come Roberto Scarpinato o Giancarlo Caselli che, auditi in commissione Giustizia, legittimamente espongono una loro opinione sulle proposte di legge in merito alla concessione dei benefici a chi è in ergastolo ostativo, ma ci sono anche i magistrati di sorveglianza (sono coloro che da sempre trattano le richieste dei detenuti per mafia) che entrano nel merito delle norme addentrandosi in ogni addentellatura. Non teorie quindi, ma valutazioni basate sulla loro decennale esperienza. Solo confrontando le audizioni dei magistrati, il parlamento può avere una giusta cognizione sull’argomento. C’è una complessità che letta sotto una lente cospirazionista, non rende giustizia alla forma e sostanza della normativa che il parlamento si appresterà a varare. La commissione Giustizia, infatti, ha ascoltato anche i pareri di due magistrati di esperienza e spessore: la giudice Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza (Conams), e il magistrato Fabio Gianfilippi, il quale tratta da anni i benefici riguardanti i detenuti per mafia ristretti nei penitenziari umbri. Interventi non astratti, ma dove si entra finalmente nel merito. Parliamo di due diverse visioni all’interno della magistratura stessa. Una di tipo “paternalistica”, ovvero: “Rischiamo di esporre i giudici di sorveglianza alle pressioni mafiose!”, l’altra di valorizzazione della propria professionalità e capacità di valutazione. Per quest’ultimo aspetto, è interessante riportare la risposta del magistrato Fabio Gianfilippi durante il suo intervento in commissione Giustizia: “In realtà noi magistrati di sorveglianza siamo da sempre esposti a eventuali pressioni mafiose come qualsiasi altro giudice. Fa parte della nostra professionalità, quella di confrontarci con tale difficoltà. In realtà, decisioni di questo calibro sono da sempre nella nostra competenza. Faccio solo due esempi: la valutazione sulla necessità di misura di sicurezza detentiva nei confronti dei condannati per reati di mafia, oppure la valutazione sui benefici legati alla condizione gravi di salute”. Ma andiamo con ordine. Molto incisivo l’intervento della giudice Antonietta Fiorillo, la presidente del Conams. È entrata nel merito delle proposte di legge e ha evidenziato alcuni aspetti critici. “Una delle norme sembra prevedere la concedibilità dei cosiddetti benefici penitenziari solo agli ergastolani e non ai soggetti condannati per gli stessi reati a pene temporanee. Se la nostra valutazione è corretta, si proporrebbe una disparità di trattamento”, ha evidenziato la dottoressa Fiorillo. Altro punto critico è l’onere probatorio che viene proposto a carico del detenuto. “Se il soggetto si è veramente distaccato dal contesto mafioso di appartenenza dopo 20 anni di detenzione, è difficile, se non impossibile che possa offrire degli elementi. Viceversa, se è un soggetto dopo decenni offre degli elementi, noi come magistrati di sorveglianza riteniamo che si debba fare dell’investigazione per avere una idea sulla fondatezza o meno”, sottolinea la giudice. In sostanza non può essere gravato dell’onere di provare il detenuto stesso l’assenza di una attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Come può farlo dopo decenni di detenzione e quindi sconnesso con la criminalità mafiosa di appartenenza? Anzi, se da non collaboratore di giustizia, dovesse fornire elementi lui stesso, la questione può destare anche qualche sospetto circa la genuinità delle dichiarazioni. Ecco, perché, in quel caso, a maggior ragione si dovrebbe vagliare bene. La dottoressa Fiorillo chiede anche che la legge dovrà essere accompagnata da “un rafforzamento ineludibile dell’area educativa, servizio sociale e polizia penitenziaria, tutti attori fondamentali per redigere una osservazione che confluisce nelle relazioni che vengono inviati ai magistrati di sorveglianza”. Altro punto dolente della proposta di legge fatta dal M5S è quella di accentrare tutti i procedimenti presso il tribunale di sorveglianza di Roma. La giudice di sorveglianza respinge con forza tale proposta: “Intanto - ha spiegato la dottoressa Fiorillo - non capiamo quali siano le ragioni per creare un tribunale, tra l’altro di grandissime dimensioni, che si porrebbe innanzitutto in contrasto con il reparto di competenza in materia di sorveglianza, ma anche perché non siamo riusciti ad individuare profili per cui la sorveglianza di Roma possa ritenersi portatore di una specializzazione particolare in questa materia. Se si ragionasse in questa prospettiva, allora dovremmo dire che anche tutti i gip e tutti i processi di mafia dovrebbero concentrarsi a Roma”. Ma ha aggiunto: “Detto questo, c’è un profilo importante di funzionalità. Intanto, in questo modo, si supera una caratteristica fondamentale della magistratura di sorveglianza: il giudice deve entrare in carcere, soprattutto perché è un obbligo, gli serve per conoscere i soggetti rispetto ai quali dovrà decidere. È veramente illusorio pensare che si possa decidere senza attribuire un volto a una cartella biografica, cioè fare una valutazione solo cartolare. Io dubito che i giudici di un tribunale unico di sorveglianza a Roma possano entrare in tutte le carceri per compiere la valutazione”. Infatti non basta nemmeno il colloquio. Secondo la Fiorillo, l’entrata in carcere del giudice è un obbligo perché non si deve conoscere solo il detenuto, ma la polizia penitenziaria, gli educatori, psicologi, psichiatri laddove ci sono, i servizi sociali. “Il giudice di sorveglianza deve conoscere tutta l’area educativa, perché solo così sarà in grado di decriptare le loro relazioni di sintesi. Noi lavoriamo sulle persone. Dobbiamo fare una prognosi sul percorso futuro di questi soggetti e quindi dobbiamo capire se dietro quelle relazioni che a volte sono positivissime, c’è un vero e proprio lavoro di trattamento, oppure altro”, ha concluso la giudice di sorveglianza. In commissione è intervenuto anche il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi. È ritornato anche lui sulla proposta di concentrare tutte le competenze a Roma. “Frusta completamente i principi generali sul giudice naturale - ha sottolineato il magistrato Gianfilippi - e si finisce per allontanare la decisione dal giudice che meglio conosce la persona e il contesto penitenziario dove si è dipanata la sua vita”. Indirettamente risponde anche ai sui colleghi che in commissione antimafia hanno lanciato l’allarme sul fatto che possano uscire gli “irriducibili”. Il magistrato Gianfilippi parte da un esempio concreto: “C’è un primo bilancio che può essere utile da quando c’è stata la prima sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo. Sono otto i permessi concessi agli ergastolani, e tra l’altro nessuno di loro è al 41 bis dove, di fatto, è quasi impossibile concederli per via della normativa sul carcere duro. Questo è un chiaro indice che i parametri attuali stabiliti dalle sentenze costituiscono già uno strumento importante per la magistratura di sorveglianza per valutare seriamente le richieste di benefici!”. Non solo. Il magistrato di sorveglianza Gianfilippi valuta molto positivamente uno dei punti della proposta di legge della deputata del Pd Enza Bossio. “Il contributo che ci arriva dalle procure antimafia o dalle forze dell’ordine del territorio, deve essere più possibile concreto, attuale e individualizzato. Non serve tanto un parere, ma gli elementi per dare la possibilità a noi di valutare”. Il dramma della giustizia politicizzata di Luciano Capone Il Foglio, 5 ottobre 2021 Il rapporto perverso tra magistratura, politica e opinione pubblica spiegato attraverso i comizi di Scarpinato contro Consulta e Cedu e le parole di Magistratura democratica su Domenico Lucano. C’è qualcosa di perverso nel rapporto tra magistrati, politica e opinione pubblica. E il fatto che la credibilità dei giudici sia a livelli minimi, travolta dagli scandali e dal crollo di grandi teoremi giudiziari (dalla Trattativa a Palermo al processo Eni a Milano), ne è la conseguenza. Due casi minori, fuori dalle aule giudiziarie, mostrano che il problema è soprattutto culturale e riguarda il senso che i magistrati hanno della loro funzione. Giovedì scorso, la commissione Giustizia ha audito diversi giudici nell’ambito della revisione della legge sui benefici penitenziari per i reati cosiddetti ostativi. Contesto: dopo le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale che hanno dichiarato illegittimo l’ergastolo ostativo per violazione della dignità umana, il Parlamento ha un anno di tempo per legiferare sul tema tenendo conto del nuovo equilibrio tra diritti umani e lotta alle mafie. Ebbene, tra gli auditi, la Camera ha convocato lo storico procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che, anziché fornire suggerimenti tecnici, si è messo a contestare le sentenze. Prima dicendo che l’abrogazione dell’ergastolo ostativo era una richiesta di Riina e l’oggetto di una “lunga trattativa” tra stato e mafia (e te pareva) e poi che le decisioni della Corte Edu (che Scarpinato confonde con la Corte di giustizia Ue) e della Corte costituzionale secondo lui “non sono culturalmente ed eticamente condivisibili”. Scarpinato ha aggiunto che le sentenze delle Corti sono un caso di “decisionismo politico” frutto di una “omologazione al pensiero unico neoliberista oggi dominante”. A parte il merito della ricostruzione di Scarpinato, che è un pochino ridicola (in Italia chi si è battuto contro le storture dell’ergastolo è la cultura garantista di sinistra, altro che neoliberismo), ciò che sorprende è il metodo. Tanti si sono scandalizzati per la vicequestore Schilirò che si è scagliata contro il green pass, ma non è molto differente il comportamento di un magistrato che va a comiziare alla Camera contro le sentenze della Corte Edu e della Consulta, usando banali argomenti veteromarxisti alla stregua di un Fusaro minore. Destano scandalo i politici che parlano di “toghe rosse”, ma evidentemente è normale che un magistrato dica che le Corti supreme sono asservite al “neoliberismo”. La lettura ideologica delle sentenze è emersa, un paio di giorni dopo, il 2 ottobre, in un convegno in cui il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino ha, di fatto, contestato la condanna di Mimmo Lucano: la pena è troppo elevata, come dimostrano le “reazioni dell’opinione pubblica” alla sentenza e “finisce per condannare un modello di accoglienza”. E la difesa dei giudici da parte dell’Anm, secondo Musolino, mostra una magistratura “che non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche”. Ferma restando la presunzione d’innocenza per Lucano, ciò che sconcerta è quest’idea dei giudici che quando analizzano un caso debbano perseguire generici “effetti sociali” e preoccuparsi delle “reazioni” dell’opinione pubblica. È l’anticamera di una giustizia politicizzata che subordina le garanzie individuali e il diritto a un giusto processo, anche per Mimmo Lucano, alle “reazioni” dell’opinione pubblica e al perseguimento di generici “effetti sociali”. Sul filo dei voti la sfida per separare le carriere di giudici e pm di Valentina Stella Il Dubbio, 5 ottobre 2021 Oggi alle 15 in commissione Affari costituzionali alla Camera scade il nuovo termine per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare per la separazione delle carriere tra pm e giudici, promossa dall’Unione Camere penali. Il testo è in commissione dall’ormai lontano 31 ottobre 2017. L’esame è iniziato solo nel febbraio 2019: sei discussioni, presentazione di alcuni emendamenti e poi l’approdo in Aula il 27 luglio dello scorso anno, che si è concluso con un nulla di fatto in quanto si è deciso di far tornare il provvedimento in commissione. Ma a inizio settembre di quest’anno i deputati Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (+Europa), con una lettera all’Ufficio di presidenza, hanno formulato apposita richiesta di nuova calendarizzazione che è stata accolta dal presidente Giuseppe Brescia. Proprio Magi, nuovo relatore del provvedimento, ci dice: “Si tratta di una riforma non più rinviabile nel merito. Inoltre è stata depositata alla fine della precedente legislatura, e quindi bisogna assolutamente discuterla, per non rischiarne la decadenza, trattandosi di una legge di iniziativa popolare. I partiti si devono assumere la responsabilità di esprimersi, anziché escogitare scappatoie per eludere l’esame, seppellendo la legge in commissione. In generale, è arrivato il momento di dare una risposta alle leggi di iniziativa popolare, soprattutto in questo momento in cui ci si sta confrontando sull’equilibrio tra iniziativa popolare e Parlamento”. Abbiamo cercato di capire come si comporteranno oggi i partiti, rispetto anche a quanto preannunciato in piazza a giugno alla manifestazione dell’Ucpi per accelerare l’iter di discussione. In quell’occasione si dissero favorevoli FI, FdI, Italia Viva, Lega, Azione e +Europa. Igor Iezzi della Lega conferma il sostegno all’iniziativa: “Noi siamo assolutamente d’accordo. Non credo che presenteremo emendamenti, se non qualcuno di dettaglio. Ma in generale appoggiamo il testo”. Sulla stessa scia Annagrazia Calabria di Forza Italia: “Noi non presenteremo emendamenti”. Piena condivisione dal deputato Catello Vitiello di Iv: “Come penalista sono pienamente d’accordo con il testo dell’Ucpi. Noi non presenteremo alcun emendamento in quanto il testo va bene così com’è, e siamo per accelerare la discussione, anche se non sono molto ottimista perché ci sono forze che remano contro”. Non presenterà emendamenti neanche FdI, ci dice il responsabile Giustizia Delmastro delle Vedove. Contrari invece Partito democratico e Movimento 5 Stelle. Proprio il costituzionalista dem Stefano Ceccanti ci dice, non volendo specificare però come questo si tradurrà a livello emendativo, che “come ho specificato più volte, la Corte costituzionale ha già chiarito nel 2000, quando ha dichiarato ammissibile il referendum dei radicali, che non ci sono ostacoli alla separazione delle carriere per via ordinaria, non è necessaria una revisione costituzionale. Quasi tutte le norme contenute nel ddl possono essere discusse come emendamenti a leggi ordinarie, tranne lo sdoppiamento del Csm. Inoltre, quella che riguarda la possibilità del Parlamento di proporre priorità per l’azione penale ha già subito una modifica nella riforma appena varata sul processo penale. Quindi non vedo la necessità di andare avanti con un testo di modifica costituzionale, quando dovremmo muoverci nell’alveo di leggi ordinarie”. Per il M5S abbiamo sentito il deputato Vittoria Baldino: “Noi non siamo favorevoli a questa proposta di legge. Tuttavia, trattandosi di una pdl di iniziativa popolare, crediamo debba essere discussa. Presenteremo i nostri emendamenti”. Tuttavia ne esistono diversi da parte dei grillini che in sostanza chiedono la soppressione di ogni articolo della pdl. Da Leu, invece, ci spiega l’onorevole Federico Conte: “Non presenteremo ulteriori emendamenti, oltre a quello già presentato per sopprimere l’articolo 10 relativo alla modifica sull’obbligatorietà dell’azione penale. Noi abbiamo presentato modifiche alla riforma dell’ordinamento giudiziario che realizzano in maniera forte la separazione delle funzioni. Da parte nostra non c’è una chiusura pregiudiziale ma il tema ha bisogno di una discussione che riguardi l’intero assetto della magistratura italiana. Adesso potrebbe sembrare una picconata ulteriore alla credibilità della magistratura”. Stando così la situazione, si prevede un testa a testa tra favorevoli e contrari. Bisognerà capire che faranno Coraggio Italia e gli altri del Misto: D’Ettore, Colucci e Sorte, venendo dalla coalizione di centrodestra, potrebbero essere a favore. Contrario sarà molto probabilmente Forciniti de l’Alternativa c’è. Giustizia minorile: sbagliato lasciare un giudice da solo di Sara De Carli Vita, 5 ottobre 2021 Nella riforma della giustizia fatta a tempo di record c’è anche l’istituzione del Tribunale unico per le persone, le famiglie e i minori. Le associazioni lo definiscono un “blitz”. Il collegio di quattro giudici (di cui due esperti di discipline umanistiche) lascia il passo a un giudice monocratico. Ma quando si ha a che fare con i bambini la logica giuridica della vittima e del colpevole non basta: occorre trovare i percorsi per costruire il futuro. Nella corsa del PNRR, c’è un punto su cui fermare il treno sarebbe un atto di coraggio. Il punto è quello che riguarda l’istituzione del nuovo Tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie: un Tribunale unico che tutti - giudici, avvocati e terzo settore - chiedevano da anni ma che ora, in una corsa contro il tempo senza audizioni e senza confronto con nessuno, in una manciata di giorni ha preso una forma inattesa, che rischia di tradursi di fatto in meno garanzie per i minori e di buttare al vento quello sguardo collegiale e multidisciplinare che la giustizia, quando ha a che fare con una persona in crescita, deve sempre avere. Il tutto con un iter a sorpresa che ha visto un emendamento comparire ed essere approvato in commissione e dopo due giorni arrivare all’Aula del Senato con voto di fiducia, con un impianto non poi così differente da quello tratteggiato nel 2016 dalla “riforma Orlando”, che aveva provocato una vera e propria levata di scudi a difesa dei Tribunali per i Minorenni. L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, l’Unione Nazionale Camere Minorili hanno espresso la loro “seria preoccupazione” per una riforma che “sembra ancora una volta prestare maggiore attenzione ai diritti degli adulti” mentre gli esponenti di cinque organizzazioni non profit impegnate quotidianamente con i minori (Frida Tonizzo di ANFAA-Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, Liviana Marelli del CNCA-Coordinamento delle Comunità di Accoglienza, Federico Zullo di Agevolando, Gianni Fulvi del CNCM-Coordinamento Nazionale Comunità per Minori e Samantha Tedesco di SOS Villaggi dei Bambini) hanno inviato una lettera ai parlamentari dell’intergruppo Infanzia per chiedere di intervenire nel passaggio alla Camera, con la speranza che in accordo con il Senato e con il Governo si possa stralciare e rivedere il testo della legge. “L’istituzione di un unico organo giudiziario è apprezzabile per superare l’attuale suddivisione di competenze, in parte sovrapponibili, tra i tribunali ordinari e quelli per i minorenni”, dice Samantha Tedesco, Responsabile Programmi e Advocacy di SOS Villaggi dei Bambini Italia. Sì al Tribunale unico, quindi, “ma assolutamente è inaccettabile l’assegnazione delle delicatissime cause minorili a un giudice monocratico, penalizzando questioni molto delicate che un giudice secondo il disegno di legge dovrà affrontate magari frettolosamente perché essendo la riforma a spesa invariata ci sarà un sovraccarico di lavoro e certamente da solo, senza più quello sguardo collegiale e multidisciplinare che la presenza nel collegio dei giudici onorari - psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, psichiatri - oggi garantisce. In più, alcune situazioni verrebbero seguite a livello circondariale da un giudice per tutto ciò che riguarda gli allontanamenti e le limitazioni della responsabilità genitoriale che possono determinare un affidamento ma poi passerebbero a un altro giudice nel caso si arrivasse a dover valutare e decidere l’adottabilità dello stesso minore: che accompagnamento ci sarà?”. Di fatto quindi la prossimità ricercata si traduce in realtà in una vicinanza geografica ma senza unitarietà del contesto, dal momento che ancora la separatezza di funzioni e ruoli resta. Nel nuovo Tribunale unico infatti confluiranno gran parte delle procedure attualmente seguite dai Tribunali per i minorenni, cui resteranno solo la parte penale e le adozioni. I procedimenti de potestate, quelli cioè che limitano la responsabilità genitoriale, saranno trasferiti al giudice monocratico circondariale: sarà lui, da solo, a decidere dell’allontanamento di un minore dalla famiglia, del suo inserimento una famiglia affidataria o in una comunità mentre alle sedi distrettuali resterà la competenza sulla dichiarazione di adottabilità e sui procedimenti penali. La perdita della collegialità propria del Tribunale per i minorenni è il vulnus più preoccupante nella riforma della giustizia minorile prevista dal disegno legge AS 1662 approvato dal Senato con voto di fiducia lo scorso 21 settembre. Liviana Marelli, responsabile infanzia del CNCA- Coordinamento nazionale delle comunità d’accoglienza, parla esplicitamente di un “blitz”: “Un intervento sul procedurale era atteso, sull’ordinamentale nessuno se lo aspettava. L’esistente è discutibile, ma una riforma così importante non può essere fatta, come è stata fatta, senza alcun ascolto e confronto”. Accanto all’assenza di collegialità e multidisciplinarietà, Marelli sottolinea come parlando di minori “la cornice del contraddittorio tipica delle battaglie legali, con una vittima e un colpevole” non sia “la cornice entro cui collocare le problematiche e le sofferenze delle persone. Una famiglia fragile si troverà ad avere a che fare con interlocutori che parlano solo il linguaggio giuridico, senza grosse possibilità di ascolto. Ma qui non c’è una parte contro l’altra, qui si tratta di individuare i processi migliori a sostegno dei diritti dei minori: è qualcosa che richiede necessariamente anche sguardi altri rispetto alla competenza giuridica”. I giudici onorari - rispetto a cui già si è provveduto a sciogliere il nodo del conflitto di interessi - sono coloro che portano questo sguardo altro: il confinamento dei giudici onorari e dei servizi sociali appare invece più che altro come l’esito della accesa campagna denigratoria contro il sistema di tutela dei minori più vulnerabili, prima e dopo Bibbiano, con cinque disegni di legge in discussione per la riforma della legge 184 e una commissione d’inchiesta sull’accoglienza dei minori in comunità. “E non diciamo che è l’Europa a chiedercelo, perché non è certo l’Europa a dirci cosa mettere nella riforma: all’Europa non interessa se a decidere è un giudice monocratico o un collegio di quattro giudici e non è vero che da questo dipende la possibilità di avere o non avere i finanziamenti del PNRR”, afferma Frida Tonizzo, consigliere nazionale di Anfaa-Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie. “Chiediamo uno stralcio di questi contenuti dalla riforma, lasciando l’istituzione del Tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie ma demandando a un confronto più articolato e aperto l’indicazione dei contenuti. Occorre aver chiaro che ciò che si intende cambiare oggi non è un piccolo passaggio di una singola procedura, ma stravolge l’intero sistema processuale. Con l’ovvia conseguenza che si va a modificare drasticamente anche tutta la sfera dei diritti dei minori. È una partita troppo delicata per essere giocata in solitaria. E di certo non si possono fare errori sulla pelle dei bambini”. Dagli ordini di allontanamento alla negoziazione assistita, ecco come cambia il diritto di famiglia di Giacomo Galeazzi La Stampa, 5 ottobre 2021 Svolta tra le mura domestiche con la riforma del diritto di famiglia. Tra le variazioni che hanno un maggior impatto sulla vita concreta delle persone ci sono la nuova figura del curatore speciale, la rivoluzione del processo minorile (verrà per esempio abolito il Tribunale dei minori e istituito il Tribunale della famiglia), il riparto di competenze, gli ordini allontanamento, la negoziazione assista familiare. Su questa riforma di ampia portata Stampa.it ha intervistato l’avvocato Alessandro Simeone, membro del comitato scientifico di IlFamiliarista.it, un portale dedicato al diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre, casa editrice professionale in ambito legale e fiscale. Avvocato Simeone, in quale direzione si sta muovendo la riforma del diritto di famiglia? “La riforma darà attuazione ai principi del giusto processo e permetterà di uscire dal malinteso che i tribunali siano un luogo di cura delle persone e non di tutela dei diritti, tra i quali il primo è quello del minore a crescere nella propria famiglia. Il cammino sarà lungo e a step: nel 2022 verrà estesa la negoziazione assistita, saranno ridotte le aree di intervento del Tribunale per i minorenni e potenziata la figura del curatore speciale; nel 2023 saranno introdotte regole chiare, che dovrebbero impedire i processi lumaca e saranno introdotte norme speciali contro la violenza domestica; dal 2025 avremo finalmente il giudice unico specializzato in materia “familiare” e minorile: basta con la vita dei bambini decisa tra una causa condominiale e una di risarcimento del danno tra autovetture; basta con i diritti delle persone gestiti da figure che di diritto, e di diritti, sanno poco o nulla”. Quali saranno le conseguenze sulla vita delle persone? “Genitori e figli riacquisteranno il diritto, troppe volte calpestato, di potersi difendere e potranno sperare di ottenere dai tribunali risposte celeri, immediate e non stereotipate. I bambini avranno maggiore voce all’interno del processo, tramite il potenziamento del curatore speciale. Saranno posti limiti ai Servizi sociali -che torneranno ad assistere, senza giudicare, le famiglie in difficoltà - e, lo speriamo, anche alla discrezionalità, oggi assoluta, di psicologi, psichiatri e assistenti sociali. La possibilità poi di chiedere il divorzio assieme alla separazione dimezzerà i costi della famiglia disgregata. Sarà necessario vigilare attentamente affinché i principi delle riforma, al momento della formulazione da parte del governo delle norme, non siano stravolti da chi già oggi chiede il mantenimento dello status quo. E, comunque, dopo la riforma occorrerà formare i riformati: giudici e avvocati saranno costretti a un radicale cambio di prospettiva se veramente vorremo far funzionare le nuove regole”. Come si configura il curatore speciale? “Inizialmente era previsto solo per le adozioni e poi, dopo l’intervento di alcuni tribunali, primo fra tutti quello di Milano, è stato esteso a tutti le cause in cui, a causa del conflitto tra i genitori, il figlio ha necessità di essere rappresentato da un soggetto autonomo. Se vogliamo semplificare, il curatore speciale è l’avvocato del bambino. La riforma chiarisce quando il curatore deve e quando può essere nominato e, soprattutto, prevede che il giudice possa concedere al curatore il potere di prendere decisioni per la vita del bambino. Una novità dirompente che nasce, anche se nessuno lo dice, dalla constatazione dell’inerzia di molti, non tutti sia chiaro, servizi sociali che, seppure teoricamente obbligati a farlo, si rifiutano, ad esempio, di firmare i moduli di iscrizione a scuola o di scegliere il medico curante dei bambini che sono a loro affidati. Gli avvocati saranno chiamati a svolgere, di fatto gratuitamente o quasi e senza tutela assicurativa, un importante ruolo di supplenza alle drammatiche carenze del servizio pubblico”. In cosa consiste la negoziazione assistita familiare? E’ un procedimento gestito dagli avvocati e dalle parti, attraverso il quale, in buona fede, con trasparenza e sotto obbligo di totale riservatezza, si tenta di raggiungere un accordo che eviti il ricorso al giudice. Fino a oggi era possibile fruirne solo per separazione, divorzio e scioglimento dell’unione civile; la riforma la estende, già dal prossimo anno, anche ai figli nati fuori dal matrimonio, alla gestione delle liti sul mantenimento dei maggiorenni e a quelle per gli alimenti anche tra conviventi. La riforma però, prevede anche per le separazioni e i divorzi tradizionali non sarà più necessario presentarsi in udienza; c’è il rischio che, grazie a questa apprezzabile novità, la negoziazione assistita perda di appetibilità anche perché ad essa non sono state estesi gli sconti fiscali introdotti per la mediazione civile”. Tra le novità della riforma, la figura del curatore speciale, la rivoluzione del processo minorile (abolito il Tribunale dei minori e istituito il Tribunale della famiglia) e il riparto di competenze. Criticare la sentenza non è “lesa maestà” di Simone Spina* Il Manifesto, 5 ottobre 2021 Processo di Locri. Tramite la critica pubblica e popolare alle attività giudiziarie si rompe infatti la ‘separatezza’ del giudiziario dalla ‘civitas’, si favorisce l’emancipazione dei giudici dai vincoli politici, burocratici e corporativi, si delegittima la ‘cattiva’ giurisprudenza e si contribuisce, infine, ad elaborare e rifondare continuamente la deontologia giudiziaria. La vicenda ‘Lucano’ e le levate di scudi che da più parti, all’interno della magistratura, si sono subito affacciate contro le critiche alla pesantissima sentenza di condanna pronunciata giovedì scorso, sono scene di un film già visto: la ‘cittadella della magistratura’, sentitasi attaccata e sotto assedio, innalza muri elevati e scava fossati profondi per separarsi dalla ‘civitas’, ripiegando su se stessa davanti alle critiche pubbliche alla sentenza, percepite quasi come ‘lesa maestà’. Eppure, la ‘cittadella’ dimentica che in una democrazia costituzionale le critiche alle decisioni pubbliche, specie se autoritative, dovrebbero essere sempre salutate ed accolte con favore: come un segno di salute istituzionale e civica, dato che si tratta di uno strumento di controllo diffuso e popolare sull’esercizio dei pubblici poteri, incluso quello giudiziario. La soggezione delle attività giudiziarie alla critica dell’opinione pubblica, anzi, rappresenta una delle principali garanzie di controllo sul funzionamento della giustizia. Ma vi è di più. A quanti, specie all’interno della magistratura, oppongono preconcette chiusure verso la critica pubblica ai provvedimenti giudiziari, occorrerebbe replicare ribaltando l’argomento dell’’attacco’ alla indipendenza del giudiziario, evocato spesso in occasioni simili: ricordando, più in particolare, che il controllo dell’opinione pubblica sulle attività giudiziarie è un fattore essenziale non soltanto di responsabilizzazione democratica per i cittadini, ma anche di educazione dei giudici ad un costume di indipendenza. Critica pubblica ed indipendenza della magistratura, in altri termini, sono legate a doppio filo, nel senso che la critica, ben più che ledere, contribuisce a rafforzare la cultura dell’indipendenza. All’apparenza, ciò potrà forse sembrare paradossale. Ma così non è. Tramite la critica pubblica e popolare alle attività giudiziarie - non quella generica e vaga, ovviamente, ma quella argomentata e documentata, rivolta a singoli giudici e a concreti provvedimenti - si rompe infatti la ‘separatezza’ del giudiziario dalla ‘civitas’, si favorisce l’emancipazione dei giudici dai vincoli politici, burocratici e corporativi, si delegittima la ‘cattiva’ giurisprudenza e si contribuisce, infine, ad elaborare e rifondare continuamente la deontologia giudiziaria. La critica pubblica e il conseguente controllo popolare sulla giustizia rappresentano, d’altra parte, la seconda via che collega il potere giudiziario alla sovranità popolare, assieme a quella della garanzia dei diritti fondamentali: formalmente enunciati dalla Costituzione come appartenenti a tutti e ciascuno, ma concretamente inverati e sostanziati dalla loro possibilità di tutela e ‘giustiziabilità’. Ecco perché alla critica della giurisdizione da parte dell’opinione pubblica i magistrati dovrebbero associare un valore: non soltanto da ‘tollerare’, ma anche e soprattutto da ‘praticare’ ed ‘esercitare’ essi stessi, sia come singoli che come gruppi. La critica pubblica ai provvedimenti giudiziari è quindi un fattore necessario ed essenziale: necessario per la vitalità democratica del nostro Paese, essenziale per il costume d’indipendenza del potere giudiziario. *Componente dell’esecutivo di Magistratura democratica L’abuso di umanità non è reato di Eugenio Mazzarella e Luigi Manconi Il Manifesto, 5 ottobre 2021 Mimmo Lucano. Sottoscrizione e manifestazione giovedì 7 ottobre ore 17,30 a Roma, Piazza Montecitorio, manifestazione pubblica. “Il pubblico ministero ha detto che i giudici non devono tenere conto delle “correnti di pensiero”. Ma che cosa sono le leggi se non esse stesse delle correnti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che carta morta. E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà”. Così Piero Calamandrei, il 30 marzo 1956 davanti al Tribunale di Palermo, in difesa di Danilo Dolci promotore di uno sciopero all’incontrario di disoccupati al lavoro su una strada comunale abbandonata, nelle campagne di Partinico. Ecco, davanti al raddoppio della pena richiesta dall’accusa per Mimmo Lucano in ragione degli illeciti amministrativi e penali imputatigli, ci sono venute alla mente queste parole di Calamandrei. Con l’amara sensazione che i giudici siano andati ben oltre l’indifferenza alle “correnti di pensiero” del proprio tempo per attenersi alla “lettera” della legge. E che nelle vive correnti di pensiero del proprio tempo, di cui anche le leggi e la loro applicazione sono espressione, siano entrati, eccome. Ma dal lato sbagliato. Dove - nella biblica tragedia delle migrazioni - non ci sono i propositi delle nostre speranze, di un’Italia e un’Europa più accoglienti. E non c’è in alcun modo la consapevolezza che anche fare il “bene” non è un pranzo di gala, e Mimmo Lucano in questi anni ne ha saputo qualcosa. Diventa difficile, in presenza di questa sentenza, sottrarsi all’idea di uno spropositato accanimento giudiziario. Senza tenere in nessun conto lo sforzo di Lucano, pur tra errori e imperizie amministrative, di suscitare un “circolo virtuoso” fra i nuovi arrivati e la cultura locale, in un contesto complesso, rivitalizzando un territorio gravemente depresso, assicurando “ordine pubblico”. Con la sentenza del Tribunale di Locri, tutto sembra ridursi a un sodalizio a delinquere. E come spiegare la mancata concessione delle attenuanti “per motivi di particolare valore morale o sociale” e, persino, di quelle generiche? Tale circostanza fa temere il peggio: che dietro questa sentenza possa esservi una certa concezione ideologica destinata a sanzionare la politica dell’accoglienza come interpretata da Lucano e dai suoi sodali. E a penalizzare quel diritto al soccorso che costituisce il fondamento stesso dell’intero sistema dei diritti universali della persona. In attesa del processo di appello che - ci auguriamo - saprà restituire equilibrio e misura all’esercizio della giustizia nei confronti del “modello Riace”, qualcosa intanto possiamo fare: aiutare Mimmo Lucano e gli altri condannati a sostenere il peso economico del risarcimento richiesto. E, qualora un successivo grado di giudizio vorrà ricondurre la sanzione a più ragionevoli criteri, destineremo la somma raccolta a progetti di accoglienza in quello stesso territorio. Per chi voglia contribuire, nella misura che ritiene opportuna, a questa raccolta fondi, ecco i dati: A Buon Diritto Onlus Banco di Sardegna Causale. “Per Mimmo” IBAN: IT55E0101503200000070333347 A sostegno di questa iniziativa: giovedì 7 ottobre ore 17,30 a Roma, Piazza Montecitorio, manifestazione pubblica: “Modello Mimmo. L’abuso di umanità non è reato”. Promuovono: Eugenio Mazzarella, Luigi Manconi, Riccardo Magi, Sandro Veronesi e la Rete Io Accolgo con Acli, Caritas, Arci, Cgil, Legambiente, Campagna ero straniero, Saltamuri, Cnca, Centro Astalli, AOI e decine di altre associazioni. E: Dacia Maraini, Alessandro Bergonzoni, Elena Stancanelli, Maurizio de Giovanni, Michela Murgia, Sandro Veronesi, Monica Guerritore, Massimo Cacciari, Vittoria Fiorelli, Erri De Luca, Sonia Bergamasco, Moni Ovadia, Donatella Di Cesare, Francesco Merlo, Mauro Magatti, Fabrizio Gifuni, Ascanio Celestini, Luigi Ferrajoli, Roberto Esposito, Massimo Villone, Paolo Corsini, Roberto Zaccaria, Marino Sinibaldi, Lucio Romano, Luca Zevi, Gad Lerner, Domenico Procacci, Luciana Littizzetto. Vinicio Capossela, Caterina Bonvicini, Teresa Ciabatti, Roberto Sessa, Kasia Smutniak, Carlo Degli Esposti, Nora Barbieri, Paolo Virzì, Alessandro Gassmann, Edoardo De Angelis, Mimmo Paladino, Ferzan Ozpetek, Guido Maria Brera, Edoardo Nesi, Pierfrancesco Favino, Francesca Archibugi, Giovanni Veronesi. Per aderire: modellomillo@gmail.com Musolino: “Comprensibili le critiche alla sentenza Lucano: 13 anni si danno ai mafiosi” di Simona Musco Il Dubbio, 5 ottobre 2021 Il segretario di Md “difende” quella parte di opinione pubblica che ha protestato contro la decisione del Tribunale di Locri. Da un lato c’è l’Anm, che raccogliendo l’invito di alcune toghe difende i magistrati di Locri, denunciando “un’inaccettabile mancanza di senso istituzionale” nell’attacco “mediatico” nei confronti della procura. Da un lato chi, come Stefano Musolino, pm antimafia a Reggio Calabria e segretario generale di Magistratura Democratica, respinge al mittente i discorsi di chi sostiene che una critica delle sentenze non sia possibile. “La richiesta di interventi dell’Anm a tutela” della sentenza emessa dal tribunale di Locri nei confronti di Mimmo Lucano, ha dichiarato nei giorni scorsi a conclusione di un convegno sul tema “Un mare di vergogna”, “accresce la percezione pubblica di una magistratura chiusa, auto- percepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce, non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche, sollevando l’alibi del tecnicismo”. Dottore, come mai si è esposto in questo modo sulla vicenda che riguarda Lucano? Proprio perché altri gruppi associati sono intervenuti nel dibattito pubblico a tutela, a prescindere, di quella sentenza e hanno invocato interventi del Csm e dell’Anm. Mi è sembrato che queste richieste mostrassero l’incapacità di una parte della magistratura di interrogarsi. Credo che tutti i gruppi associati manifestino la loro sensibilità valoriale ed è tutto perfettamente legittimo. Ma sono preoccupato del fatto che si chieda un intervento degli organismi istituzionali per tacitare le critiche rivolte a quel dispositivo. Proprio perché mi sembra la dimostrazione - e purtroppo non è la prima volta - di come la magistratura non riesca a comprendere le ragioni di questa reazione. E quali sono le ragioni? L’entità di una pena che, obiettivamente, è molto molto alta. Si pensi che qualche settimana fa a Reggio si è concluso il processo “Gotha” e un politico giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa - condotta tenuta per 20 anni di attività politica - è stato condannato a 13 anni. Mi sono immedesimato in chi legge queste cose e legittimamente esprime delle critiche. Se poi sono fondate o no lo potremo dire quando leggeremo il ragionamento dei giudici e capiremo cosa li ha condotti a graduare la pena in questo modo, però credo sia legittimo che ci siano delle critiche da parte dell’opinione pubblica, perché immagino che abbia percepito che non si volesse condannare soltanto Lucano e gli altri coimputati, ma l’intero sistema. Qualcuno ha parlato di soccorso da parte delle “toghe rosse” al compagno Lucano. Si riconosce in questa definizione? Queste sono semplificazioni. Quando non si vuole argomentare qualcosa e discuterne ci si attacca un’etichetta e ci si impedisce di ragionare. Io ho fatto un ragionamento, se mi si dice che è sbagliato con argomenti che in questo momento io non colgo accetto il dibattito. Se la discussione è di questo livello lascia il tempo che trova. Il procuratore di Locri è intervenuto ribadendo le ragioni della sua indagine. Secondo lei è opportuno? Conoscendolo, sono sicuro che sia intervenuto spinto da una buona intenzione, ovvero tentare di fare chiarezza di fronte ad una lettura del dispositivo che solo chi ha vissuto il processo conosce bene. Ma in questo suo tratto di generosità probabilmente si è lasciato un po’ andare. Affermazioni come “bandito western”, in un momento in cui è stata anche recepita la norma sulla presunzione d’innocenza, lasciano il tempo che trovano, come pure giustificare la mancata concessione delle attenuanti generiche con l’omesso interrogatorio, quindi punendo un diritto difensivo. Però lo comprendo, perché non è stato facile gestire questa situazione. Si è fatto un’idea di come si sia arrivati a questa condanna? Siamo sul campo delle congetture. Nel primo blocco di reati in continuazione il reato principale è stato quello del peculato. Quindi la riqualificazione dell’abuso d’ufficio in truffa aggravata ha avuto un effetto limitato sul calcolo complessivo della pena. Bisogna davvero entrare nel processo per capire se c’erano i margini per poterlo fare, se c’era una prevedibilità, perché l’imputato ha anche diritto ad avere una prevedibilità della riqualificazione giuridica. Però sulle ragioni della decisione non mi sento di dire nulla. Nessuno dice che quella pena è illegale, perché è previsto dalla legge, e nell’emetterla i giudici hanno esercitato una loro legittima discrezionalità, che poi capiremo meglio con le motivazioni, ma alla fine il risultato è una pena elevata che legittimamente può suscitare nell’opinione pubblica delle critiche. Non credo che come magistrati possiamo dire che non lo si possa fare. È una presa di distanza della magistratura che stride col suo ruolo e rischia di far perdere di vista la necessità di essere non solo autoritari, ma anche autorevoli. Che vuol dire fare anche le cose contro l’opinione pubblica, quando significa difendere i diritti fondamentali e quindi non avere timore di andare contro la stessa, ma anche non chiudersi ad ogni forma di critica. C’è poi una questione di tempistica: la sentenza è stata pronunciata a tre giorni dal voto... Si poteva fare cinque giorni dopo. Credo che questo faccia parte della sensibilità e dell’equilibrio del giudice. Non conosco le ragioni per cui non era possibile emettere questa sentenza la prossima settimana, quello che posso dire è che in generale questo fa parte di un equilibrato esercizio dei poteri discrezionali nella gestione delle udienze da parte dei giudici. Poi i nostri sono tribunali complicati e quindi l’organizzazione delle tempistiche dipende da tante cose, ma trattandosi di una vicenda così delicata, che rischiava di impattare su un momento essenziale della nostra vita democratica, quello elettorale, ci voleva una particolare attenzione, che va oltre la tutela corporativa. E questo è un problema. Lei ha avuto a che fare con reati gravi e anche con una gestione dell’accoglienza diversa da quella di Riace. Che differenze ci sono? Ho fatto processi drammatici in relazione alle modalità di accoglienza dei migranti a San Ferdinando quando ero alla procura di Palmi, con strumentalizzazione della forza lavoro, associazioni finalizzate al caporalato e allo sfruttamento schiavistico dei migranti. Ho visto aggressioni a colpi d’arma da fuoco a migranti che non calavano la testa eli ho visti anche in aula indicare gli autori di gravi atti delittuosi contro di loro, con un coraggio che spesso non ho visto da parte dei cittadini italiani. Qual è stata la pena più alta in questi casi? Non glielo so dire perché poi sono stato trasferito a Reggio Calabria e il processo non l’ho seguito. Ma certamente sotto i 13 anni. Assoluzione ribaltata anche se le dichiarazioni non sono rinnovate di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2021 Per le Sezioni unite la sentenza può essere rivista in appello. La riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è impedita quando la rinnovazione della prova dichiarativa, oggetto di valutazione controversa, è diventata impossibile per decesso, irreperibilità° infermità del dichiarante. Tuttavia, la motivazione della sentenza che si fonda sulla prova già acquisita, deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, che il giudice ha l’onere di ricercare e acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’articolo 6o3 del Codice di procedura penale. Queste le conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite penali, note per ora solo nella forma dell’informazione provvisoria, che sembrano allontanarsi dall’esito raggiunto nel 2016 dalle medesime Sezioni unite con la sentenza Dasgupta, la n. 27260, nella quale si affermava che “può accadere che la rinnovazione in appello della prova dichiarativa si riveli impossibile, ad esempio per irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare. Ma anche in questi casi, salva l’applicabilità nel giudizio di appello dell’articolo 467 del Codice di procedura penale per l’assunzione La lettura delle motivazioni farà chiarezza, intanto però, già l’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite, la n. 25283 di quest’anno, corroborava le perplessità rispetto alle conclusioni del 2016, con una serie di considerazioni. La prima delle quali faceva perno sul fatto che il principio enunciato dalla sentenza Dasgupta non ha è espressione necessaria della norma costituzionale sulla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti che ammette invece espressamente, Corte costituzionale sentenza 440/2000, eccezioni fondate su “accertata impossibilità di natura oggettiva”. Una via d’uscita è comunque offerta dal Codice di procedura penale, sinteticamente richiamato dall’informazione provvisoria, dove l’impossibilità di procedere al riascolto delle dichiarazioni chiave è “compensato” dalla facoltà attribuita al giudice di procedere alla rinnovazione dell’attività istruttoria. In questo senso allora, già sottolineava l’ordinanza, il giudice di appello potrebbe declinare la necessità dell’integrazione istruttoria “in termini comprensivi di tutti gli elementi potenzialmente idonei a confermare o, a fortiori, inficiare, “falsificandola”, la diversa valutazione della prova dichiarativa”. Come pure la motivazione della pronuncia di secondo grado dovrebbe essere rafforzata sul punto con elementi di particolare solidità a proposito del valore attribuito alla dichiarazione non rinnovata. Sardegna. Allarme suicidi nelle carceri: preoccupanti condizioni delle donne detenute cagliaripad.it, 5 ottobre 2021 In Sardegna sono ristrette 25 donne su 1985 detenuti, la percentuale più bassa in Italia. Caligaris (Sdr): crea sgomento il numero irrisorio di donne private della libertà e il profondo disagio di alcune di loro. È necessaria l’adozione di misure alternative al carcere. Sono stati quasi una decina in meno di due mesi i casi di suicidio nella Casa Circondariale di Sassari-Bancali. Preoccupano le continue segnalazioni di interventi delle Agenti della Polizia Penitenziaria e dei Sanitari per scongiurare atti estremi di autolesionismo. A preoccupare è soprattutto la situazione di disagio vissuta dalle detenute nelle carceri sarde. A lanciare l’allarme è Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che - prendendo in esame i dati ministeriali e le sollecitazioni delle principali sigle sindacali del personale penitenziario - sottolinea “la scarsa propensione alla commissione di reati in particolare delle donne sarde e la necessità di disporre di strutture alternative al carcere”. “A creare sgomento è il numero irrisorio di donne private della libertà e il profondo disagio di alcune di loro - evidenzia Caligaris -. Purtroppo la realtà femminile nelle due Case Circondariali di Sassari e Cagliari è molto complessa per diversi ordini di motivi che richiedono urgenti interventi personalizzati. Appare paradossale che in una regione come la Sardegna dove sono complessivamente ristrette 25 donne su 1985 detenuti, con una percentuale dell’1,2%, la più bassa d’Italia (al secondo posto c’è la Calabria con l’1,85% di presenze femminili dietro le sbarre), possano verificarsi atti così gravi e preoccupanti. In realtà è opportuno sottolineare che, aldilà del numero (9 donne a Bancali e 16 a Uta) sono altri i fattori che rendono particolarmente problematica la vita in cella delle donne”. Tra le maggiori criticità, sottolinea Caligaris, vi è innanzitutto la distanza dalla famiglia. “Molte detenute infatti sono straniere e sentono il peso del distacco dai figli e/o dalla famiglia. Non le aiuta la scarsa conoscenza della lingua e della cultura locale. Tante faticano a condividere un percorso riabilitativo perché in un ambito così ristretto e con pene detentive “brevi” risulta spesso impossibile poter accedere a corsi professionali o attività che possano condurle a scelte di vita alternative, dopo aver scontato la pena. Le possibilità di accedere al lavoro interno sono limitate e quello esterno è condizionato dal livello professionale. Spesso per fare la scopina nascono tensioni. Anche la scuola viene vissuta più come un’occasione per uscire dalla cella che come un’opportunità. Talvolta la condizione di perdita della libertà viene considerata un errore indotto dal bisogno della famiglia e/o dal soddisfacimento di una necessità personale sentendosi quindi vittima della propria dabbenaggine o ingenuità, fino a cadere in depressione. C’è poi il problema del soddisfacimento della sfera affettiva e sessuale che in carcere é svalutato e/o negato. Sicuramente il Covid-19, con le limitazioni imposte ai colloqui con i familiari, ha accentuato il senso di solitudine e abbandono che gioca un ruolo”. “È indubbio che la realtà femminile dietro le sbarre è trascurata perché ritenuta poco significativa - evidenzia Maria Grazia Caligaris -. Non si può però nascondere che sono necessari interventi personalizzati con individuazione delle problematiche personali e la gestione dell’aggressività verso sé stesse e verso le altre. Un progetto che prevede soluzioni alternative alla detenzione e investimenti culturali e sociali anche per rispettare il difficile lavoro che le Agenti e le Educatrici portano avanti con sempre maggiore difficoltà”. Palermo. Torna in funzione il Consiglio di aiuto sociale per i detenuti e gli ex detenuti Adnkronos, 5 ottobre 2021 Torna in funzione il Consiglio di aiuto sociale presso il Tribunale di Palermo, che si occupa dell’assistenza penitenziaria e post penitenziaria. Un organismo che ha il compito, di prendersi cura, ad esempio, dei detenuti e di coloro che, ad esempio, a breve lasceranno il carcere. Si assicurano che “siano fatte frequenti visite ai liberandi, al fine di favorire, con opportuni consigli e aiuti, il loro reinserimento nella vita sociale”. Oggi c’è stata la prima riunione presieduta da Antonio Balsamo, Presidente del Tribunale di Palermo. Presenti anche Leoluca Orlando, sindaco di Palermo; Francesco Micela, Presidente del Tribunale per i Minorenni; Tina Montinaro, presidente dell’Associazione Quarto Savona Quindici; Aida Portolano, Presidente dei Gruppi di Volontariato Vincenziano di Palermo; Maria Agnello, Magistrato di Sorveglianza; Mariangela Di Gangi, Coordinatrice dall’Associazione Laboratorio Zen Insieme; Maria Mantegna, Assessore Cittadinanza Sociale. E ancora: il direttore della Casa di Reclusione dell’Ucciardone e il Direttore della Casa Circondariale di Pagliarelli; Mario Affronti, responsabile Uos di Medicina delle migrazioni, nella qualità di direttore dell’Ufficio Regionale per le Migrazioni della Conferenza Episcopale Siciliana; Dalila Mara Schirò, Ricercatrice di diritto penale al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo; Aida Portolano, Presidente dei Gruppi di Volontariato Vincenziano - Palermo; Anna Maria Rita Cullotta, della Caritas diocesana, designata dall’Arcivescovo Lorefice; Marco Guccione, designato dall’Associazione Jonas Palermo. Il Consiglio di aiuto cura anche che “siano raccolte tutte le notizie occorrenti per accertare i reali bisogni dei liberandi e studia il modo di provvedervi, secondo le loro attitudini e le condizioni familiari” e “assume notizie sulle possibilità di collocamento al lavoro nel circondario e svolge, anche a mezzo del comitato di cui all’articolo 77, opera diretta ad assicurare una occupazione ai liberati che abbiano o stabiliscano residenza nel circondario stesso”. Inoltre, organizza, anche con il concorso di enti o di privati, corsi di addestramento e attività lavorative per i liberati che hanno bisogno di integrare la loro preparazione professionale e che non possono immediatamente trovare lavoro. Promuove, altresì, la frequenza dei liberati ai normali corsi di addestramento e di avviamento professionale predisposti dalle regioni e cura il mantenimento delle relazioni dei detenuti e degli internati con le loro famiglie. Infine, segnala anche alle autorità e agli enti competenti i bisogni delle famiglie dei detenuti e degli internati, che rendono necessari speciali interventi, concede sussidi in denaro o in natura e collabora con i competenti organi per il coordinamento dell’attività assistenziale degli enti e delle associazioni pubbliche e private nonché delle persone che svolgono opera di assistenza e beneficenza diretta ad assicurare il più efficace e appropriato intervento in favore dei liberati e dei familiari dei detenuti e degli internati. Non solo. Il Consiglio di aiuto sociale presta soccorso, con la concessione di sussidi in natura o in denaro, alle vittime del delitto e provvede all’assistenza in favore dei minorenni orfani a causa del delitto. Il consiglio di aiuto sociale ha personalità giuridica, è sottoposto alla vigilanza del Ministero di grazia e giustizia e può avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. I componenti del consiglio di aiuto sociale prestano la loro opera gratuitamente. Teramo. Volontaria al carcere, perché? di Margherita Befacchia Città Nuova, 5 ottobre 2021 Un’esperienza riportata da una volontaria del carcere di Teramo. “Dio ci aiuti a sanare le piaghe del crimine che schiavizza i più poveri e aiuti quanti lavorano ogni giorno per rendere più umana la vita nelle carceri”, ha detto il Papa all’Angelus di domenica scorsa. Perché non andare? Il volere comune è recludere ma dietro quella reclusione ci sono persone che, per rinascere, non possono essere dimenticate. L’abbandono, o meglio, il sentirsi abbandonate, non porta a quella rinascita, a quella possibilità di cambiare, di rinvenire un sé smarrito, che ha bisogno dell’altro per potersi ritrovare. C’è proprio la necessità di riapprendere il bene, di recuperare ciò che è stato smarrito, offeso, deviato, rovesciato ed oscurato. Il male è un baratro dove sprofondi e dal quale non esci se il bene non ti tende la mano. Ecco perché andare. Non andare significa recludere, dimenticare, abbandonare. Io volevo andare, ma occuparmi dei bambini, invece sono andata come una bambina e mi sono così annullata che mi sono sentita Giovanna, Elvira, Giuseppina… Il carcere non si può raccontare, perché ti entra dentro così profondamente che lo senti. Senti il freddo delle mura, che non lasciano passare il calore del sole. Le finestre non illuminano abbastanza e per questo non riescono ad eliminare le ombre. Io non esisto se tu non ci sei, ma se tu ci sei siamo Noi. Nella realtà del carcere Noi, Gabriella, Teresa, Elisabetta, Luisa, Amedeo, Martina, gli agenti di custodia e tutte le recluse e i reclusi costruiamo quel campanile di Città Nuova che vuole includere anziché emarginare. Il pregiudizio è vecchio, appartiene al passato, vogliamo edificare il nuovo, come una città ideale che include, accoglie, accompagna anche fuori le mura della casa circondariale, perché quando si aprono i cancelli e si torna a vivere “il fuori”, che ha mille incognite, insieme possiamo farcela. Era il 16 agosto, avevo una mano completamente scottata da una pentola di besciamella bollente che mi aveva procurato una scottatura di 2° grado. Dovevo andare a prendere Elena che finiva la pena e accompagnarla alla stazione. Il giorno prima anche lei si era scottata con la moka e la notte non era riuscita a dormire, anche perché aveva sognato di non trovarmi davanti al piazzale ad aspettarla. Dal carcere quella mattina mi chiamano tre volte, per confermare e mi informano dell’orario preciso di uscita della detenuta. Arrivo ed aspetto. Quando esce, Elena è sorridente e piena di buste. Mi saluta con affetto e mi confessa di avere uno stato ansioso che le durava da giorni. Le avevamo acquistato abiti nuovi, così si spoglia e si cambia in macchina. Dalla casa circondariale alla stazione ci vogliono circa 15 minuti, durante il tragitto parliamo come due vecchie amiche. Appena arrivate, io vado a fare il biglietto con una busta che conteneva 600 euro, i risparmi che aveva accumulato durante la detenzione e li portava tutti in una busta gialla. Dico allora ad Elena di nasconderla e di tenere a portata di mano solo 20 euro. Entriamo in stazione: il treno stava per ripartire. Chiedo alla capostazione, una bella ragazza, di aspettare, perché dovevamo prendere le buste. Ci guarda intensamente e altrettanto intensamente ci ha amate con la sua risposta: “Datemi il biglietto che adesso lo vado ad obliterare”. In macchina, io con una sola mano, ed Elena anche, non riusciamo a prendere tutto. Allora si avvicina un ragazzo di colore e ci dice: “Porto io”. La capostazione aveva uno sguardo radioso, dal treno ci guardano sorridenti. Io e il ragazzo saliamo sul convoglio, lui lascia le buste e scende, io saluto Elena augurandole una vita nuova. L’amore è contagioso, perché è dono, è il dono più bello e più prezioso che il genere umano ha ricevuto e ridonarlo non costa niente. Buona vita nuova Elena, insieme possiamo. Nuoro. Da Trudu a Princesa, l’arte oltre le sbarre di Marilena Orunesu L’Unione Sarda, 5 ottobre 2021 In un’esposizione a Nuoro le opere realizzate nei luoghi di reclusione come carcere o manicomi giudiziari. Un occhio nero gigantesco, uno sguardo gelido. Macchie di colore attorno, senza turbarne la fissità. Al di là delle sbarre del carcere di Rebibbia Domenico Giglio dipinge così l’occhio del custode che tiene sotto perenne sorveglianza il detenuto. Lui, da recluso, si affida a tele e pennelli per esprimere ciò che ha dentro. Utilizza anche il lenzuolo della cella. Grande e fragile: il fuoco, appiccato per protesta dallo stesso detenuto, rosicchia una porzione del drappo dando però un tocco inimitabile all’opera. Quel lenzuolo viene esposto in una parete del circolo culturale “Sa bena”, nel centro di Nuoro, in una mostra inusuale, andata avanti fino ai giorni scorsi e promossa dall’associazione ScartaBellArte. Si intitola “Risorse vitali”, riunisce forme espressive dalla reclusione, che sia quella del carcere, dei riformatori o dei manicomi giudiziari. Storie da brivido: anime dannate in vita tratteggiano immagini che rimandano a gironi infernali, ne sono specchio drammatico e impietoso. Ogni opera racconta un carico di dolore, un vortice di sentimenti da togliere il fiato. Tutte sono custodite dall’Archivio di scritture, iscrizioni e arte irritata della cooperativa “Sensibili alle foglie”. Una collezione molto vasta, che va avanti da decenni, a cui attingere per proporre mostre sempre nuove sull’arte attecchita oltre le sbarre. I colori sfogano la rabbia di vite tempestose e fanno emergere percorsi di sopravvivenza, non sempre di successo. L’occhio è immagine ricorrente non solo nell’arte di Giglio, detenuto campano passato alle Brigate rosse, alle spalle omicidi e sequestri di persona, recluso negli anni Ottanta nel carcere di Badu ‘e Carros a Nuoro. In cella dà sfogo a giornate sempre uguali buttandosi nella ricerca artistica. Le sue opere portano la sigla Giglio 9999, numero che sta a significare il fine pena mai. Continua l’attività pittorica fuori dal carcere, ora è un artista di successo. L’occhio è immagine simbolo anche per Stefano Bombaci, che trascorre gli anni Ottanta in carceri speciali: mostra la sorveglianza perenne, la condizione più mortificante di ogni recluso. Così fa anche Mario Trudu, originario di Arzana, morto nel 2019 nell’ospedale di Oristano dopo 41 anni di detenzione. Viene condannato all’ergastolo ostativo per due sequestri di persona finiti male. L’arte diventa per lui l’unica boccata d’ossigeno. Nella sua narrazione grafica Trudu traccia un occhio cieco, senza iride né pupilla. Racconta le paure che ruotano attorno alla vita da ergastolano. Tra i tanti disegni traccia i ferri ai polsi, li definisce “attrezzi di tortura del periodo dell’inquisizione”. “Io ne sono stato vittima per oltre un decennio”, annota nel disegno realizzato nel 2015 nel carcere di San Gimignano. Fernando Eros Caro è l’autore di un’opera dove domina la morte: uno scheletro appare coperto da un mantello nero con il cappuccio. Tiene in mano una clessidra. Immagine forte, come la sua storia. Indigeno Yaqui-Aztec nato nel 1949 nel sud della California, dal 1981 è rinchiuso nel braccio della morte del carcere di San Quentin. Il 28 gennaio del 2017 viene trovato morto in cella: decesso per infarto, recita il certificato medico. Trascorre 35 anni dentro uno spazio angusto, in perenne agonia. Diceva: “Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire”. Franca Settembrini, nata a Firenze nel 1947, ha undici anni quando finisce nell’ospedale psichiatrico San Salvi, in Toscana, dove frequenta l’atelier “La tinaia”. Poi approda nel manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere, a Mantova, dove continua a dipingere fino alla morte nel 2003. Le sue opere sono piene di colore, pennellate forti e tenaci, espressione dei momenti più leggeri nel mezzo di un’esistenza piena di travagli. In mezzo ai disegni, dentro una teca, ci sono pagine scritte in stampatello. Riportano la data del 16-9-91. Sono gli appunti di Fernanda Farias de Albuquerque, autrice con l’ex brigatista Maurizio Jannelli del libro Princesa. Il racconto del transgender brasiliano ispira la famosa canzone Princesa di Fabrizio De Andrè. Lei inizia a scrivere in una cella di Rebibbia. Ripercorre la sua storia, la vita transessuale, le strade della prostituzione, la metamorfosi del suo corpo. Giovanni Tamponi, detenuto anche lui nel carcere romano, la incoraggia a raccontare i suoi tormenti per non buttarsi a terra. Così fa da tramite con Jannelli fino a farli incontrare nella chiesa del carcere dove matura un processo di scrittura solidale. Il risultato è un libro. A Fernanda non basta quello né uscire dal carcere: muore suicida pochi anni dopo. “Documentare le risorse creative che le persone recluse utilizzano per sopravvivere all’interno delle istituzioni totali, esponendo le opere della mostra “Risorse vitali” - spiegano gli organizzatori - ha la duplice funzione di mettere al centro la persona, da un lato, e di costituire un efficace analizzatore dell’istituzione da cui quelle opere provengono dall’altro. Mettere al centro la persona vuole dire non de-umanizzare chi è recluso, non mostrificarlo, non farlo coincidere con il suo reato o la sua diagnosi”. Concorso. Premio Castelli: così i detenuti scrittori raccontano la pandemia fai.informazione.it, 5 ottobre 2021 Bergamo, Casa circondariale don Fausto Resmini: si terrà venerdì 8 ottobre 2021 la XIV edizione del Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà, concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli in collaborazione con Camera, Senato, Ministero della Giustizia, Università Europea di Roma e Pontificio Dicastero per la Comunicazione. Quello del carcere è un mondo difficile, ma che sa sorprendere con una solidarietà inaspettata. Volontari, operatori, educatori, lo sanno bene: talvolta è proprio chi nella vita “ha sbagliato”, a compiere gesti di attenzione verso quel mondo esterno da cui è stato separato. “Il contagio della solidarietà vince ogni pandemia e ogni barriera” è il tema della XIV Edizione del “Premio Carlo Castelli per la solidarietà”, concorso letterario dedicato ai detenuti, promosso dalla Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, con i patrocini di Camera, Senato, Ministero della Giustizia, Università Europea di Roma e con uno speciale riconoscimento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al Premio Castelli collaborano il Pontificio Dicastero per la Comunicazione, con Vatican News e le emittenti della CEI TV2000 e Radio inBlu. La premiazione si terrà venerdì 8 ottobre 2021, a partire dalle ore 10, presso la Casa Circondariale di Bergamo “Don Fausto Resmini”. Non a caso, visto che la pandemia è entrata nei racconti dei reclusi, è stato scelto il carcere della città che ha pagato il prezzo più alto durante la prima ondata dell’emergenza: la Casa Circondariale intitolata a don Fausto Resmini, sacerdote dei poveri e cappellano, stroncato dal Coronavirus nel marzo 2020. Quest’anno, più che in passato, si può apprezzare il valore della solidarietà che hanno espresso donne e uomini che in un periodo di pandemia particolarmente pesante, anche se limitati nel loro ridotto spazio fisico e nella libertà di movimento, hanno contribuito, con piccoli ma significativi gesti, ad aiutare coloro che sono oltre il muro: “Persone come noi che, - scrive Antonio Gianfico, Presidente della Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli - seppure responsabili di errori, sono capaci di amare, di sognare, di preoccuparsi per gli altri, parenti e sconosciuti, di sentirsi coinvolti al punto di dare lezioni di solidarietà a quanti, liberi, sono tuttavia prigionieri del loro egoismo e dell’incapacità di amare”. “Un premio - prosegue il Presidente Gianfico - che vuol essere un ponte tra il ristretto e le istituzioni, tra il recluso e la società, finalizzato a riconoscere la dignità della persona indipendentemente dal reato”. Durante la pandemia, le persone detenute, superato lo sconcerto iniziale, si sono sentite coinvolte e partecipi di una gara di solidarietà che, tramite i canali d’informazione, hanno visto svilupparsi un po’ ovunque. Anche loro hanno dato vita a raccolte di generi alimentari da destinare fuori ai più bisognosi, hanno messo insieme piccole somme il cui valore supera di gran lunga quello effettivo, per aiutare alcuni ospedali ad acquistare materiale indispensabile nel gestire l’emergenza. E poi si sono organizzati laboratori per produrre mascherine. È proprio questo il “contagio della solidarietà” che emerge dai numerosi elaborati che la giuria ha valutato durante questa edizione. Ma il “Premio Carlo Castelli per la solidarietà” è molto più di un concorso letterario, perché offre la possibilità, a chi ha sbagliato, di fare qualcosa di buono per la società. Il premio in denaro, infatti, è suddiviso in due parti: una viene accreditata al recluso, autore del racconto, un’altra parte viene destinata ad un’opera nel sociale. Così, chi vince, avrà la possibilità di finanziare un progetto di reinserimento nel mondo del lavoro, o un’adozione a distanza, o la costruzione di un’aula scolastica, e così via. Alla cerimonia di Premiazione seguirà un Convegno a cui parteciperanno relatori e ospiti illustri accolti dalla Direttrice della Casa Circondariale di Bergamo Teresa Mazzotta, che parlerà del senso della pena oggi. Tra gli invitati la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, il giornalista e scrittore Luigi Accattoli, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia Pietro Buffa, il Magistrato Pietro Caccialanza che per oltre trent’anni ha ricoperto il ruolo di Giudice della Corte d’Appello, la giornalista Carla Chiappini che del carcere di Parma coordina la redazione di Ristretti Orizzonti, il Presidente vicario del Tribunale di Sorveglianza di Brescia Gustavo Nanni, il Comandante della Casa Circondariale di Bergamo Aldo Scalzo, il Direttore della Casa circondariale di Milano San Vittore Giacinto Siciliano, la Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti Valentina Lanfranchi, L’Assessora ai Servizi Sociali Marcella Messina, il Direttore della Caritas Diocesana di Bergamo don Roberto Trussardi, il Presidente del CSV di Bergamo Oscar Bianchi, il Presidente di Carcere e Territorio Fausto Gritti e, per la Società di San Vincenzo De Paoli, il Presidente della Federazione Nazionale Antonio Gianfico, l’ideatore del Premio Carlo Castelli Claudio Messina, la Presidente del Consiglio Centrale di Bergamo Serena Rondi e Marco Del Vecchio membro della Giunta Esecutiva della Federazione Nazionale. Modera Davide Dionisi di Vatican News. Nel corso della premiazione sarà Rosario Tronnolone, di Vatican News, a leggere i testi delle opere vincitrici. La cerimonia di premiazione verrà trasmessa in streaming sul sito web sanvincenzoitalia.it sabato 9 ottobre alle ore 18,30, mentre il convegno verrà trasmesso giovedì 14 ottobre alle ore 18,30 al link: https://www.sanvincenzoitalia.it/la-xiv-edizione-del-premio-carlo-castelli/ Radio. “Tre soldi. Storie di giovani ex detenuti” di Flavio Artusi e Matteo Calzolaio raiplayradio.it, 5 ottobre 2021 In onda dal 4 all’8 ottobre 2021 alle 19.50, con le ultime due puntate in podcast. Si parla spesso di detenzione in Italia, e nella maggior parte dei casi non positivamente. Si parla di sovraffollamento, di violenza, di sopraffazione e di disorganizzazione. È un sistema che va rivisto sotto molti aspetti, certo, ma vale lo stesso discorso per le carceri minorili? Cosa significa essere affidati a un Istituto Penale Minorile in giovane età, spesso durante l’adolescenza? Quali sono le motivazioni e le cause che spingono i più giovani a mettersi nei guai? Non si tratta di ragazzi da prima pagina, non sono solo nomi che si leggono in cronaca, ma persone con dei sogni, delle paure, delle insicurezze, con una vita alle spalle e un futuro ancora tutto da scrivere. Sbagliare è facile, ma rimediare è difficile, eppure molti di loro hanno ancora la forza e il coraggio di rialzare la testa, dimostrando a tutti che un’altra via è sempre possibile. Raccontare il mondo giovanile sotto questa prospettiva è l’obiettivo di questo audio documentario. Le voci di coloro che hanno vissuto un’esperienza detentiva ci accompagnano in un viaggio nell’Italia dei quartieri e delle periferie, quelle più famose e quelle meno note alla maggior parte delle persone. Quartieri e periferie che spesso li hanno cresciuti, nel bene e nel male. I protagonisti si raccontano in maniera disincantata e matura, come se avessero già vissuto tante vite diverse, consapevoli di aver sbagliato e di non voler più cadere nei tranelli che il destino, spesso, lascia lungo il cammino. Ascolta: https://www.raiplayradio.it/programmi/tresoldi/archivio/puntate/ Libri. Arrigo Cavallina: l’amicizia e il carcere mi hanno salvato di Angelo Picariello Avvenire, 5 ottobre 2021 Storie da un’amicizia. Quella fra Cesare Cavalieri, direttore di “Studi cattolici” e delle edizioni Ares, e l’ex terrorista, fondatore dei Proletari armati per il comunismo, Arrigo Cavallina. Nata per una reminiscenza di scuola - il professor Cavalieri riconobbe in lui, imputato in un maxi-processo, l’ex allievo in un istituto tecnico di Verona, di cui conservava un caro ricordo - “suggellata davanti ai tortellini scodellati da mia moglie Elisabetta”, ricorda Cavallina, e divenuta un sodalizio umano ed editoriale. La prima lettera, spedita a Rebibbia, data 16 aprile 1984, ma il carteggio è proseguito anche quando non c’era più l’ostacolo delle barriere del carcere. Ne sono nati anche dei libri. Nel 2005 uscì Una piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo e ora, di nuovo per Ares, “Il terrorista e il professore. Lettere dagli anni di piombo & oltre” (pagine 344, euro 16,00), che è il carteggio fra i due uscito a doppia firma. Cavallina da 28 anni è un uomo libero, impegnato a parlare di non violenza e umanizzazione delle carceri ovunque lo si inviti. Spesso, lui la considera una sorta di “pena accessoria”, gli viene chiesto di parlare di Cesare Battisti, uno dei “proletari” che aveva arruolato alla lotta armata da semplice rapinatore che era, impegnato in tutti questi anni a scappare da un continente all’altro, per sfuggire a quel carcere che a Cavallina, invece, ha fatto bene, consentendogli anche di approfondire lo studio delle sacre scritture e conseguire una seconda laurea. Di che cosa era accusato quando Cavalieri si fece vivo? Ero coinvolto nel processo contro Potere operaio e la rivista “Rosso”, per alcune rapine e l’incendio alla Face Standard del 1974, compiuto per protesta contro il colpo di Stato in Cile. Arrestato nel 1975, restai in carcere tre anni, e attraverso la rivista “Senza galera” iniziai a occuparmi della condizione carceraria. Assolto, uscii nel dicembre 1977, ma il mio iter processuale è andato avanti molti anni ancora. Nel frattempo, nel 1978 fondai con altri militanti di Milano i Pac, coinvolgendo anche Cesare Battisti. Dal ‘79 all’86 di nuovo in carcere, poi ai domiciliari e al lavoro esterno con Exodus. La condanna definitiva arriva nel 1993, accusato anche di concorso in uno degli omicidi compiuti dai Pac, quello del maresciallo Santoro. Assolto e messo in condizione di fare altri danni, condannato quando il suo recupero era già ultimato. Quando era finito il sogno rivoluzionario? In galera, molto presto. Ma anche se non pensavo più di vincere la rivoluzione, volevo alleviare la ferocia delle carceri simboleggiata dalle carceri speciali. Così fondò i Pac. Quando se ne staccò? Già nel 1979. Mi sentivo sconfitto, la gente invece di seguirci ce l’aveva con noi. Così anticipò di almeno 5 anni il fenomeno della dissociazione… Mi resi conto che di tanti temi cruciali, dalla questione educativa alla condizione femminile, dall’ambiente alla salute, non ci eravamo mai occupati. Bisognava allora uscire dalla logica della merce. Ho capito che non sei tu che usi le armi, ma sono le armi che usano te, da mezzo diventano fine. Poi il nuovo arresto... Mi occupavo principalmente della malattia di mia madre, quando il 21 dicembre 1979 vennero a prendermi, nel quadro dell’operazione “7 aprile” contro Toni Negri e Autonomia. Ma stavolta in carcere ho potuto incontrare persone impegnate a superare il paradosso per cui il carcere, che dovrebbe favorire un percorso di recupero, finiva, attraverso trattamenti disumani, per creare un’aura di eroi nei reclusi, radicandoli ulteriormente nel progetto eversivo. E nel 1984 si rifà vivo Cavalieri… Mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Ne scaturì un impegno comune contro la stupidità della pena. Pestaggi come quelli che ancora si registrano, vedi il recente caso di Santa Maria Capua Vetere, non servono a niente. Perché tenere sotto chiave persone capaci, anche istruite che, in un’ottica di giustizia riparativa, possono rendersi utili ponendo rimedio ai danni commessi alle persone o alla società? Poi l’assurda incarcerazione del 1993, quando era ormai reintegrato… Dovevo scontare un residuo di pena di un anno e mezzo, ma ebbi presto accesso alle misure alternative e dopo qualche mese ottenni la liberazione anticipata. Nel frattempo il carcere era cambiato, c’era stato il riconoscimento della dissociazione, dopo la stagione dei pentiti che avevano beneficiato di sconti di pena in cambio di rivelazioni, ancora in una logica emergenziale “di guerra”. Il contributo di Cavalieri fu importante. C’erano state molte resistenze. Da quali settori? Il mondo cattolico fu determinante, grazie alla testimonianza dei cappellani delle carceri, e soprattutto al gesto di Giovanni Paolo II che a Rebibbia incontrò e perdonò il suo attentatore Ali Agca. Le ostilità vennero soprattutto dal partito comunista. Ma preferisco ricordare i tanti che ci vennero in aiuto: la deputata Leda Colombini e il marito Angiolo Marroni, vicepresidente della Regione Lazio. Ma anche Ettore Scola e Luigi Magni, registi vicini al Pci, ci hanno sostenuto. Ha lottato contro le angherie del carcere, ma a lei ha fatto più bene che male... Di sicuro ho tratto più beneficio dalle relazioni nate in carcere che dalle ore passate alla manovella del ciclostile appresso a stupidaggini. Ma questo lo si deve all’impegno di uomini come l’allora direttore degli istituti di pena Niccolò Amato, o il senatore Mario Gozzini, o il cardinale Martini. Battisti, invece, come se avesse fermato le lancette dell’orologio a 40 anni fa… Non lo giudico, non so se fossi stato all’estero, libero, come mi sarei comportato. Dipende anche da come si pone la giustizia, se ti chiede solo di pagare il conto o se propone un percorso riparatore, a risarcire la società che hai offeso. Come giudica le reazioni al via libera della Francia all’incriminazione di alcuni ex terroristi? Alcuni politici e opinionisti hanno dato sfogo a un’idea di giustizia vendicativa e feroce che non porta da nessuna parte. Ma confido che il ministro della Giustizia Marta Cartabia, studiosa della giustizia riparativa, possa contribuire a individuare un percorso di cambiamento anche per queste persone. Non potendo riportare in vita le vittime la riparazione è l’unica via ragionevole. Cadute le ideologie per i giovani la nuova insidia viene da Internet? Noi cademmo in una visione totalizzante, loro rischiano la totale superficialità. Ma l’errore è lo stesso: il rifiuto delle relazioni umane. L’antidoto consiste nel rimettere al centro le relazioni concrete, non virtuali, fra esseri umani. Cinema. Guido Quaglione: “Il film sul massacro del Circeo, una storia doverosa e necessaria” di Valerio Cappelli Corriere della Sera, 5 ottobre 2021 Guido Quaglione è nel cast del film “La scuola cattolica” di Stefano Mordini sul crimine del 1975: “Il mio personaggio era mosso dalla noia”. Stefano Jervi non partecipò al massacro del Circeo, tra il 29 e il 30 settembre 1975; non c’era quando i tre aguzzini neofascisti suoi amici, Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo, uccisero Rosaria Lopez (l’attrice è Federica Torchetti), facendola annegare in una vasca da bagno, e ferirono gravemente Donatella Colasanti (Benedetta Porcaroli), credendola morta, rinchiusa nel bagagliaio dell’auto con Rosaria, ormai senza vita. Dopo l’anteprima alla Mostra di Venezia, giovedì per Warner esce nelle saleLa scuola cattolica di Stefano Mordini, tratto dal monumentale libro di Edoardo Albinati. Di Stefano Jervi si sa poco. Nel film è impersonato da Guido Quaglione, romano, 27 anni. Guido, chi era Jervi? “Un lupo solitario, un cane sciolto figlio di una famiglia danarosa come poche. È morto giovane, mentre piazzava una bomba su un tetto per un gruppo organizzato che non era di estrema destra. In lui non c’era solo la politica, era mosso da altro, dalla noia...”. Per noia nel film va a letto con la madre di un suo amico? “Sì, con la madre di Picchiatello (che è uno un po’ schizzato), interpretata da Jasmine Trinca. Jervi la tratta come una bambola di gomma. E ancora per noia, con l’obiettivo di svoltare una serata nata male, al compleanno di un amico si porta a letto la sorella senza porsi alcun problema. Ha avuto la sua iniziazione sessuale. È uno completamente disincantato, c’era il machismo della destra ma, come dicevo era mosso anche da altro”. Da cosa? “Dal disprezzo per le donne e da una ricerca inconsapevole di se stesso in una continua sfida, era belloccio, prestante, con gli amici non si vantava delle sue conquiste, era egoriferito”. È il suo primo film, girare scene intime è una delle cose più difficili. “Jasmine mi ha rassicurato e anche il regista. A tutti noi attori, giovani o più esperti e famosi, ha detto che non ci avrebbe lasciati soli”. Sono passati 45 anni, era un altro mondo, ma lei ha conosciuto l’ambiente che gravita tra Parioli, Villa Flaminia, San Leone Magno? “Nel film ci sono sia il quartiere Trieste che l’ambiente delle parrocchie. Li ho frequentati entrambi. Sembra fatto apposta. Ma il mondo degli oratori c’entra solo perché facevo parte di una compagnia di giovanissimi attori, Tutti in scena, che lavorava in quei luoghi. La mia vita è opposta alle dinamiche dei personaggi del film. Il teatro mi ha aperto gli orizzonti, ma chissà quanti Jervi ho incontrato nella mia adolescenza”. È stato uno dei processi più importanti sugli uomini che odiano le donne. Anzi, è stato “Il” processo: in seguito, lo stupro è passato da reato contro la morale a reato contro la persona. “Io sono nato molti anni dopo ma ne ero al corrente, me ne parlarono i miei genitori, è un po’ come l’uccisione di Falcone e Borsellino, le stragi di Stato... Ha detto bene Benedetta Porcaroli, che interpreta Donatella: è una storia doverosa e necessaria”. Nel film manca il contesto del fascismo. “C’è però l’assenza delle famiglie in quell’ambiente agiato apparentemente così normale”. Lei finora è soprattutto un attore di teatro. Ha recitato Racine in francese, può farlo in tedesco, ha partecipato a un corso del grande Eimuntas Nekrosius… “L’ho conosciuto poco prima della sua morte. Ho fatto un’improvvisazione sul Gabbiano di Cechov dove il mio personaggio, Sorin, sulla sedia a rotelle, lo facevo alzare per cercare la giovinezza. Nekrosius mi disse: non è sbagliato ma non è credibile, aggiunse che si può fare tutto ma deve essere giustificato. Fu una grande lezione. Nelle pause di lavoro fumava e non mangiava, si nutre del suo lavoro, ci diceva la sua assistente lituana”. Qual è il teatro con cui è cresciuto? “La recitazione è nata come passatempo, la passione è venuta dopo, a 18 anni ho cominciato a guardarmi attorno, è stato un processo naturale. A teatro il primo impatto fu con il post modernismo inglese di Sarah Kane”. E il cinema? “Ho amato i supereroi della Marvel, poi ho scoperto il cinema neorealista del dopoguerra, fino a Ken Loach che con stile diverso fa un cinema sociale non così diverso. Le ultime passioni sono state per Lars Von Trier e Gus Van Sant. Ho tuttora il poster in camera di Qualcuno volò sul nido del cuculo. L’amore per Jack Nicholson me l’ha trasmesso mio padre. I miei sono medici, mi hanno sempre incoraggiato. Io dormo con Jack Nicholson che guarda il cielo oltre il filo spinato. Ogni tanto mi fa fare sogni strani”. Migranti. La sanatoria dei braccianti si sta rivelando una beffa di Isabella De Silvestro Il Domani, 5 ottobre 2021 La Capitanata, il nord della Puglia, è il binario morto delle politiche migratorie italiane, dove ogni retorica sul nostro modello di accoglienza rivela la sua inconsistenza. A maggio 2020 erano state riposte molte speranze nel provvedimento di emersione dall’irregolarità che ambiva a sanare fino a 220mila lavoratori impiegati nei settori dell’agricoltura, dei servizi domestici e dell’assistenza alla persona: braccianti, colf e badanti. Presentata insieme alle lacrime dell’allora ministra Bellanova come “traguardo storico” in grado di rendere visibili gli invisibili, l’operazione si rivela oggi un fallimento burocratico e politico. Bassirou è arrivato dal Senegal nel 2013 e per otto anni ha vissuto da irregolare. Dopo un lungo periodo passato in una baracca di lamiera condivisa con altri braccianti nel gran ghetto di Rignano, tra Foggia, Rignano Garganico e San Severo, senza acqua corrente, in balìa dell’afa estiva e del gelo invernale, ha iniziato a vagare per la provincia di Foggia. Inseguiva lavori a breve termine nelle campagne e dormiva ovunque la sua paga da tre euro all’ora gli permettesse di poggiare il corpo provato da dieci ore di lavoro quotidiano. A luglio di quest’anno ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno per lavoro subordinato grazie alla sanatoria promossa dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova con il governo giallorosso di Giuseppe Conte. Ma solo grazie a un amico sindacalista che l’ha aiutato a presentare la domanda, dopo un anno di attesa Bassirou è uscito dalla clandestinità. “Sono fortunato”, dice sapendo di essere stato uno dei pochi richiedenti a farcela. “Senza documenti non vali niente, ti usano come vogliono. Se un capo non ti vuole pagare quello che ti spetta non puoi denunciare perché hai paura della polizia. Sei in terra d’altri, completamente solo”. La Capitanata, il nord della Puglia, è il binario morto delle politiche migratorie italiane, dove ogni retorica sul nostro modello di accoglienza rivela la sua inconsistenza. Durante l’estate nei ghetti della campagna foggiana affluiscono migliaia di lavoratori per la raccolta di frutta e verdura che vanno ad aggiungersi agli stanziali, uomini e donne approdati in Italia anche molti anni fa e ormai rassegnati a viverne solo i meandri sudici a cui li relega la mancanza di un permesso di soggiorno. Non si tratta di centinaia, ma di migliaia di persone, ed è il risultato di una gestione dell’immigrazione che ha progressivamente smantellato i canali di accesso regolare creando grandi sacche di irregolarità. Ne trae profitto il settore della grande distribuzione che porta sugli scaffali dei supermercati prodotti a basso costo il cui prezzo è pagato dai braccianti. A maggio 2020 erano state riposte molte speranze nel provvedimento di emersione dall’irregolarità che ambiva a sanare fino a 220mila lavoratori impiegati nei settori dell’agricoltura, dei servizi domestici e dell’assistenza alla persona: braccianti, colf e badanti. Presentata insieme alle lacrime dell’allora ministra Bellanova come “traguardo storico” in grado di rendere visibili gli invisibili, l’operazione si rivela oggi un fallimento burocratico e politico. Secondo l’ultimo dossier della campagna “Ero straniero”, pubblicato il 29 luglio scorso, sono circa 60mila i permessi di soggiorno rilasciati dal ministero dell’Interno a fronte delle 220mila domande presentate: solo il 27 per cento del totale. Inoltre, nonostante la misura sia stata presentata principalmente per gli irregolari delle campagne, le domande di emersione provenienti dal settore agricolo non sono che il 15 per cento del totale (30mila), tutte le altre riguardano colf e badanti. Si può quindi stimare che i braccianti ad oggi regolarizzati si aggirino intorno agli 8mila in tutta la penisola. Un numero irrisorio se si pensa che nella sola provincia di Foggia, secondo le stime della Flai Cgil - il sindacato dei lavoratori agricoli e dell’industria alimentare - gli irregolari impiegati nei campi sono anche 45mila, nei periodi di punta. La sanatoria è un’occasione mancata e la condizione dei braccianti è rimasta invariata, se non addirittura peggiorata. “Non mi sono mai illuso su questa sanatoria”, afferma Raffaele Falcone, il sindacalista della Flai Cgil di Foggia che ha aiutato Bassirou. “È una misura estremamente complessa, scritta male, modificata tramite infinite circolari ministeriali spesso difficili da interpretare anche per chi lavora nel settore. Gli unici che hanno la speranza di sanare la propria situazione grazie a questa misura sono quelli che avevano già un rapporto di lavoro stabile. Io ho personalmente portato a termine un centinaio di emersioni con esito positivo facendo pressione sulla prefettura, che registrava ritardi imbarazzanti. Si trattava però di lavoratori che conoscevo e seguivo da anni e che aspettavano solo un provvedimento per regolarizzare un rapporto di lavoro già consolidato, anche se irregolare. I veri marginali ne rimangono totalmente esclusi”. Non solo, infatti, la misura esclude gli altri settori dove la manodopera irregolare è largamente impiegata, come logistica, edilizia o ristorazione, ma impone requisiti tanto specifici e difficili da dimostrare che rende impossibile presentare la richiesta a chi versa in condizioni di grande marginalità. Su 45mila irregolari stimati nel foggiano per il settore agricolo, solo 1.200 hanno potuto presentare la domanda. Tanto nelle città, quanto negli insediamenti abusivi, infatti, c’è chi lavora nei campi e chi lavora per chi lavora nei campi. I ghetti ospitano moltissime attività commerciali del tutto informali ma consolidate, fonte di sussistenza più o meno stabile per molti. “Chi gestisce uno dei tanti esercizi commerciali del ghetto”, continua Falcone, “come può pensare di trovare un datore di lavoro che lo regolarizzi? Chi lavora nei campi ma risponde ai comandi di un caporale e non sa nemmeno chi sia e che faccia abbia il proprietario dell’azienda agricola, a chi chiederà di presentare la domanda di emersione?”. Una delle più grandi fragilità della sanatoria risiede nell’enorme potere che la misura lascia al datore di lavoro. La norma prevede che sia questo ad autodenunciarsi e a pagare un contributo forfettario di 500 euro per l’emersione del lavoratore. Non solo è improbabile che un datore di lavoro che impiega da anni forza lavoro in nero - o più comunemente “in grigio”, registrando poche ore di lavoro rispetto a quelle realmente lavorate dal bracciante - abbia interesse a regolarizzare i lavoratori, ma altrettanto improbabile è che sia disposto a pagare il prezzo della regolarizzazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, i 500 euro vengono pagati dai lavoratori stessi, che non hanno però alcuna certezza che la loro pratica porti, dopo peripezie burocratiche insensate e psicologicamente sfiancanti, a un permesso di soggiorno per lavoro. Chi riesce a compiere la trafila assume così un’aura eroica, un fatto tanto desolante quanto più rende evidente che la regolarizzazione in Italia richiede una combinazione di fortuna, tenacia, particolare intelligenza e rapporti consolidati con italiani disposti a fare da mediatori e garanti. Pochissimi dunque i regolarizzati. Sotto di loro, una larga schiera di illusi e delusi, lavoratori irregolari esasperati e facilmente manipolabili che cadono nelle maglie di datori di lavoro che li ricattano o faccendieri e truffatori che hanno trovato nella sanatoria una fonte di denaro facile. Molti i casi di compravendita di finti contratti di lavoro, che arrivano a costare anche più di duemila euro e non portano alla regolarizzazione. Le truffe rimangono impunite, al massimo si insabbiano in una denuncia contro ignoti. Poi ci sono le difficoltà legate alla natura stagionale del lavoro agricolo, che avrebbe dovuto essere messa in conto dai promotori della misura di emersione. La forte mobilità richiesta dal settore agricolo raramente permette un rapporto di lavoro stabile e continuativo che copra l’intero anno. “C’è una netta disconnessione tra una certa politica e il mondo reale”, afferma Aboubakar Soumahoro, sindacalista e attivista da anni in lotta per i diritti dei braccianti. “È una misura scritta senza conoscere l’àmbito di intervento. Nessuno si è curato di indossare gli stivali e visitare le campagne, entrando nei tuguri dove vivono i diretti interessati a cui viene negato ogni diritto. Il migrante serve fintanto che è funzionale, fintanto che lavora fino allo sfinimento senza avanzare pretese”. La sanatoria è stata varata come misura emergenziale durante il primo lockdown, quando si registrava una mancanza di lavoratori stagionali nelle campagne e il governo avvertiva l’urgenza di assicurare la frutta e la verdura negli scaffali dei supermercati. Mentre tutto si fermava, ai braccianti veniva richiesto di continuare a lavorare senza che venissero forniti dispositivi di protezione individuale o garantite condizioni igieniche di base per lavorare e vivere in sicurezza. Daniela Zitarosa, operatrice dell’organizzazione umanitaria Intersos che opera nei ghetti delle campagne foggiane, mette l’accento sulle gravi condizioni igieniche in cui versano uomini e donne: “Non solo era impossibile chiedere di rispettare il distanziamento, ma era anche ridicolo pretendere certe precauzioni per noi scontate. Mentre spiegavo ad una bracciante l’importanza di lavarsi le mani di frequente, lei scaldava un ferro da stiro per gettarlo in un secchio d’acqua: era l’unico modo che aveva per lavarsi con acqua calda”. La pandemia ha acuito le disuguaglianze. I lavoratori senza documenti sono finiti in fondo alla coda nella campagna vaccinale e l’introduzione del green pass ha creato problemi agli stagionali costretti a spostarsi da una regione all’altra per cercare lavoro. Se la sanatoria prometteva di porre rimedio alla marginalità anche in ambito sanitario, la situazione non è rosea neppure per chi ha fatto richiesta di emersione. I richiedenti, al momento della presentazione dell’istanza, venivano forniti di una tessera sanitaria provvisoria con un codice numerico - e non alfanumerico, come per le normali tessere dei cittadini regolari - che non permetteva di registrarsi sui sistemi digitali della sanità pubblica. Un’impasse burocratica che non è formale. Determina l’ennesima esclusione di centinaia di migliaia di persone dai diritti basilari che dovrebbero essere garantiti a chiunque risieda nel nostro paese. Ritardi, inadempienze, leggerezze sembrano il frutto della mancanza di interesse reale. Per il governo la regolarizzazione degli invisibili non è una priorità. Stati Uniti. Facebook, la sicurezza degli utenti conta meno del profitto di Marina Catucci Il Manifesto, 5 ottobre 2021 Le rivelazioni della whistleblower Frances Haugen sulle politiche della piattaforma social. Ha un nome la whistleblower che ha fornito al Wall Street Journal decine di migliaia di pagine di ricerche e documenti interni di Facebook. Si tratta di Frances Haugen, 37enne, un’ingegnera ed ex product manager del social media, che lavorava proprio al dipartimento addetto alle questioni di integrità civica dell’azienda, responsabile di garantire la correttezza del processo democratico e di contrastare la disinformazione. Dipartimento chiuso proprio poche settimane dopo le elezioni presidenziali del 2020, un allentamento dei controlli sui contenuti che ha finito per favorire la diffusione dei messaggi sui presunti brogli. “In pratica (a Facebook) hanno detto: ‘Oh bene, abbiamo superato le elezioni. Non ci sono state rivolte. Ora possiamo sbarazzarci dell’integrità civica’ - ha dichiarato Haugen durante la trasmissione tv 60 Minutes andata in onda domenica sera - E un paio di mesi dopo abbiamo avuto la rivolta. Quando si sono sbarazzati di Integrità civica, è stato il momento in cui mi sono detta ‘non mi fido che siano veramente disposti a investire in ciò che serve per impedire a Facebook di essere pericoloso’”. I documenti divulgati da Haugen hanno scatenato una tempesta e persino portato il Senato a interrogare un dirigente di Facebook sugli effetti della piattaforma sugli utenti più giovani. Circa un mese fa, Haugen aveva presentato almeno otto denunce alla Securities and Exchange Commission, l’organo di vigilanza dei mercati finanziari che può accusare le aziende di ingannare gli investitori, e al Congresso - che sta indagando sul ruolo della piattaforma nella rivolta al Campidoglio - sostenendo che la società stesse nascondendo delle informazioni importanti agli investitori e al pubblico. Poi ha anche condiviso i documenti con il Wall Street Journal, che ha pubblicato un’indagine in più parti in cui si prova che Facebook era a conoscenza dei problemi con le sue app, compresi gli effetti negativi della disinformazione, in particolare sui giovani. Durante 60 Minutes Haugen ha riaffermato che la società è del tutto consapevole che le sue piattaforme sono utilizzate per diffondere odio, violenza e disinformazione e che cerca di nasconderne le prove, in quanto mette “il profitto al di sopra della sicurezza” degli utenti. Facebook ha respinto fermamente tutte le accuse, e il suo vicepresidente degli affari globali, Nick Clegg, ha definito “ridicolo” attribuire la colpa per la rivolta del 6 gennaio a Facebook, aggiungendo che la società non potrà mai essere in grado di controllare tutti i contenuti del proprio sito, al limite potrebbe essere aperta a ulteriori normative. La whistleblower oggi verrà ascoltata dalla Commissione del Commercio del Senato Usa. E ieri si è messo in moto anche il Parlamento europeo: due deputate, Christel Aschaldemose e Alexandra Geese hanno sollecitato un’indagine sulle rivelazioni e un giro di vite sulla regolamentazione delle compagnie high-tech: “Dobbiamo regolamentare l’intero sistema - ha osservato Geese - e il modello di business che favorisce la disinformazione e la violenza rispetto ai fatti, e consente la loro rapida diffusione”. Stati Uniti. In Missouri l’esecuzione di un detenuto con un tumore al cervello di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 ottobre 2021 In suo favore sono intervenuti l’ex governatore Bob Holden e persino papa Francesco, con una richiesta di clemenza al governatore del Missouri Mike Parson. Ma se, nelle prossime ore, non succederà qualcosa oggi, 5 ottobre, Ernest Johnson sarà messo a morte. Ad agosto la Corte suprema dello stato ha apparentemente scritto la parola fine, dopo che a maggio quella federale aveva rifiutato di esaminare il caso: “Johnson non è stato in grado di dimostrare la sua disabilità mentale”. Johnson è stato condannato a morte nel 1995 per un triplice omicidio commesso in un negozio di alimentari un anno prima. Nel 2008, dopo la scoperta di un tumore, gli è stato rimosso un quinto dei tessuti cerebrali. Il tumore non è stato tuttavia rimosso del tutto, dando luogo a ripetuti episodi di epilessia. “Secondo gli standard costituzionali, la sua esecuzione costituirebbe una punizione crudele e inusuale”, è l’opinione di minoranza lasciata nero su bianco dal giudice della Corte suprema del Missouri Michael Wolff. Libia. Così Tripoli ostacola gli ispettori Onu. Crimini di guerra e abusi, nuove prove di Nello Scavo Avvenire, 5 ottobre 2021 Dagli stupri eseguiti davanti agli altri migranti prigionieri alle sevizie compiute da funzionari statali. La denuncia della missione di investigatori indipendenti nominati dalle Nazioni Unite. Stupri da praticare ed esibire. Torture da infliggere al buio e sevizie da mostrare alla platea di prigionieri, perché le ferite aperte dei malcapitati siano da esempio per tutti. “Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che in Libia siano stati commessi crimini di guerra, mentre la violenza perpetrata nelle carceri e contro i migranti potrebbe equivalere a crimini contro l’umanità”. Lo scrive la missione d’inchiesta indipendente dell’Onu, istituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha trovato in Libia prove di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in particolare nei confronti di migranti e detenuti. “Tutte le parti in conflitto, compresi Stati terzi, combattenti stranieri e mercenari, hanno violato il diritto internazionale umanitario, in particolare i principi di proporzionalità e distinzione, e alcune hanno anche commesso crimini di guerra” ha affermato Mohamed Auajjar, che guida la missione, il cui rapporto mette in evidenza crimini come omicidio, tortura, riduzione in schiavitù, esecuzioni extragiudiziali e stupri e stupri di gruppo. La missione è stata istituita dopo che il Consiglio Onu per i diritti umani ha adottato una risoluzione nel giugno 2020 che chiedeva l’istituzione di un organismo di inchiesta da inviare in Libia. Gli esperti hanno raccolto ed esaminato centinaia di documenti, intervistato oltre 150 persone e svolto indagini in Libia, Tunisia e Italia. L’organismo delle Nazioni Unite ha affermato di aver stilato un elenco confidenziale di sospetti, i cui dettagli non saranno rivelati fino a quando non saranno stati condivisi con appropriati meccanismi di responsabilità. Investigare non è stato facile. “Sono stati riscontrati notevoli ritardi nell’ottenere i visti necessari, che hanno interferito con la pianificazione e ritardato l’arrivo della missione” si legge nel report. “Durante un incontro tenutosi a Tripoli nell’agosto 2021, il ministro degli Affari esteri ha assicurato alla missione che il rilascio dei visti sarebbe stato facilitato in futuro”. Non subito. Tanto che “le speciali procedure di autorizzazione applicabili alle organizzazioni internazionali che lavorano in Libia hanno ostacolato le interazioni della missione con le autorità e hanno anche interferito con le visite in loco della missione”. Non bastasse alcune richieste di ispezione “in particolare presso prigioni e centri di detenzione per migranti, sono rimaste senza risposta”. La missione ha circoscritto la portata delle indagini alle violazioni e agli abusi più gravi. “Migranti, richiedenti asilo, rifugiati e prigionieri, sono particolarmente a rischio di violenza sessuale. Al di là dell’ambiente di detenzione, ci sono indicazioni credibili che la violenza sessuale è anche usata da agenti statali o membri delle milizie come strumento di sottomissione o umiliazione”, specie per mettere a tacere coloro che potrebbero ribellarsi. Libici compresi. Gli esperti hanno esaminato “diversi rapporti secondo cui attivisti per i diritti sono stati rapiti e successivamente sottoposti a violenza sessuale per dissuaderli dal partecipare alla vita pubblica”. Per rallentare il lavoro della commissione indipendente, le autorità hanno adoperato tutte le possibili pratiche burocratiche. Obiettivo: “ostacolare le interazioni della missione”, con gli esponenti del governo di Tripoli che “hanno anche interferito con le visite in loco della missione”. Nonostante questo “le prove raccolte hanno indicato che la violenza sessuale assume diverse forme”. Gli investigatori non hanno avuto a che fare solo con la depravazione dei carcerieri, ma hanno ottenuto la conferma che l’istituzionalizzazione della tortura ha lo scopo di umiliare, assoggettare e anche mostrare a tutti i prigionieri cosa potrebbe accadergli se protesteranno: “Oltre allo stupro - si legge ancora -, le donne o gli uomini possono essere costretti a spogliarsi nudi, a compiere atti sessuali con altri o ad essere testimoni di uno stupro da parte di altri”. Gli incaricati del Consiglio Onu per i Diritti Umani hanno inoltre segnalato i “crimini atroci commessi nella città di Tarhuna (a sud-est di Tripoli) tra il 2016 e il 2020”. Proprio ieri, riferisce l’agenzia Nova, altri dieci corpi non identificati sono stati riesumati dalla zona agricola nota come “Chilometro 5” nella stessa municipalità di Tarhuna. Lo scorso 28 luglio, 12 corpi erano stati estratti dopo la scoperta di altre due fosse nella stessa area. Le squadre di ricerca dell’Autorità hanno cominciato i lavori nella zona “Chilometro 5” lo scorso mese di aprile, recuperando fino ad oggi almeno 50 cadaveri. Notizie confermate anche dalle immagini satellitari contenute nel report degli esperti Onu i quali, pur tra ostacoli e qualche tentativo di depistaggio, sono riusciti a trovare conferma alle testimonianze raccolte faticosamente sul campo. Afghanistan. I collaboratori dell’Italia e richiedenti asilo ora tentano la fuga in Iran di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2021 “Ma senza i documenti non hanno possibilità”. Sarebbero già diversi i cittadini afghani, in particolare di etnia tagika o hazara, ad aver varcato la frontiera e aver chiesto aiuto all’ambasciata italiana a Teheran: “Il flusso si muove in quella direzione”, spiegano dalla Farnesina. Ma fra la mancanza di documenti, nessuna presenza diplomatica nel Paese e visti impossibili da ottenere, sono centinaia le persone ancora bloccate nel nuovo Emirato Islamico. L’inferno afghano per centinaia di collaboratori della missione italiana rimasti fuori dal piano di evacuazione di agosto. Per fuggire dall’oscurantismo dell’Emirato rimesso in piedi dai Talebani, a distanza di quasi un quarto di secolo dall’ultima volta, devono puntare a occidente. L’unica ancora di salvezza per loro, al momento, è il passaggio in Iran, con o senza documenti regolari, dopo la chiusura dei confini tra Afghanistan e Pakistan, mentre la strada a nord verso le ex repubbliche sovietiche non rappresenta un’alternativa fattibile. Sarebbero già diversi i cittadini afghani, in particolare di etnia tagika o hazara, ad aver varcato la frontiera e aver chiesto aiuto all’ambasciata italiana a Teheran: “Il flusso si muove in quella direzione - spiega a Ilfattoquotidiano.it un funzionario della Farnesina - e da qui in avanti ce ne aspettiamo molti altri. Purtroppo queste persone non hanno chiaro il quadro generale, ma è comprensibile, vista la disperazione. Da quanto mi risulta, stando alle informazioni raccolte direttamente presso la nostra sede diplomatica a Teheran, stanno arrivando persone e famiglie che non rientrano nelle liste stilate prima e dopo l’uscita dei contingenti internazionali che componevano la missione Nato dall’Afghanistan. Per loro sarà molto difficile, se non impossibile, ottenere asilo in Italia”. I rappresentanti al ministero degli Esteri e nella nostra ambasciata in Iran avvisano gli afghani desiderosi di fuggire dal loro Paese con l’obiettivo di arrivare in Italia: “Le autorità iraniane non li lasceranno entrare facilmente se non in possesso di un visto e di documenti regolari. Noi siamo una rappresentanza straniera lì, siamo ospiti, certe libertà non ce le possiamo prendere”, aggiunge la fonte della Farnesina. Il governo e l’opinione pubblica italiana si sono concentrati prettamente sui collaboratori dell’Italia, con famiglie al seguito, ma nessuno si ricorda delle pratiche aperte per i ricongiungimenti familiari. Carteggi che rischiano di diventare carta straccia, la vera tragedia sta lì: proseguire l’iter burocratico per i diretti interessati è ormai inutile. Da Kabul, infatti, la sede diplomatica dell’Italia è stata delocalizzata in Qatar, meta non certo agevole da raggiungere per vidimare le pratiche. Ma come stanno veramente le cose sotto il profilo delle procedure burocratiche per chi vorrebbe venire in Italia? Lo abbiamo chiesto a Daniele Valeri, avvocato di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione: “Andiamo con ordine. Chi ha già avuto il nullaosta per il ricongiungimento familiare è impossibilitato a ottenere il visto non essendoci un’ambasciata che possa rilasciarlo. Questo perché nella pratica di ricongiungimento è il parente stretto che vive già in Italia a rivolgersi alla prefettura chiedendo di potersi ricongiungere con il familiare in Afghanistan. Se le carte sono in regola il richiedete riceve il nullaosta firmato e gira il tutto all’ambasciata italiana a Kabul che però non esiste più. Dunque il procedimento si blocca. Altro ostacolo. Chi ancora si deve ricongiungere deve esibire alla prefettura dei documenti ufficiali delle autorità afghane, certificati di nascita, matrimonio ecc., tutte carte che poi, per essere valide in Italia, vanno tradotte e legalizzate dalla nostra ambasciata, da agosto spostata in Qatar. Potrebbero provare a rivolgersi alla sede diplomatica italiana in un altro Paese, ma anche in questo modo ci sono molti problemi. Inoltre, non tutti i familiari sono automaticamente ricongiungibili. Gli stessi genitori possono lasciare il Paese e venire in Italia solo se hanno superato i 65 anni di età e non hanno altri figli che li possono accudire. La strada dei permessi umanitari poi è molto difficile, l’Italia ne ha rilasciati pochissimi. Ciò che il ministero degli Esteri dovrebbe fare, e in questo senso Asgi ha già fatto richiesta, è emanare linee guida certe sulle procedure da seguire che possano essere diffuse a tutti gli operatori che si stanno occupando di questa problematica, fornendo tempestivamente tutte le informazioni del caso. In mancanza di questo, parlare di impegno per la salvezza di uomini e donne che in questo momento sono in pericolo in Afghanistan risulta del tutto vacuo”. Restando sulla questione documentale, non va dimenticato un aspetto, ossia la confusione amministrativa che regna nell’era talebana. Ottenere qualsiasi tipo di documento personale è diventata un’impresa, specie per chi si sta nascondendo da possibili rappresaglie da parte dei nuovi padroni dell’Afghanistan: “Il mio passaporto è scaduto pochi mesi fa e adesso non so come fare per rinnovarlo. Chissà che fine ha fatto la pratica”, spiega Jailani Rahgozar uno dei tanti collaboratori della cooperai zone italiana di cui Ilfattoquotidiano.it si è già occupato nei mesi scorsi. Di base a Herat, Rahgozar sta cercando di capire come muoversi, come portare fuori dal caos la sua famiglia: “Dall’Italia continuano ad arrivare rassicurazioni, ma io non sono ancora sicuro al 100% di essere nella lista delle persone da evacuare. Gvc, una delle ong con cui ho collaborato qui a Herat, ha fornito al ministero degli Esteri italiano una lista in cui saremmo inclusi io e altri colleghi. Speriamo di ricevere presto buone notizie perché la situazione diventa ogni giorno più difficile”. Arghosha e le donne afghane: “La salvezza inizia a scuola” di Silvio Mengotto Corriere della Sera, 5 ottobre 2021 La stretta del governo dei talebani in Afghanistan: l’organizzazione Arghosha Faraway Schools vuole continuare l’istruzione nei villaggi poveri. Sin dai primi giorni di governo i talebani hanno implementato una rigidissima divisione tra i sessi nelle scuole mentre le restrizioni diventano, giorno dopo giorno, più rigide e marcate. In questa pesante situazione Arghosha Faraway Schools vuole continuare l’istruzione nei villaggi poveri dell’Afghanistan centrale. Ne parliamo con Maria Rosario Niada del Comitato Arghosha. Nel 2005 a Milano viene fondata l’organizzazione Arghosha Faraway Schools per promuovere l’educazione femminile in Afghanistan. Filippo Grandi, Paolo Lazzati, Marco e Maria Rosario Niada sono i fondatori. Paolo e Maria Rosario sono i nipoti di Giuseppe Lazzati. In 17 anni il Comitato Arghosha ha finanziato la costruzione di 15 scuole (elementari, medie e liceo). Le scuole sorgono in zone remote e molto povere dell’Afghanistan centrale, nelle province di Bamiyan e Daikundi. “L’istruzione femminile - dice Maria Rosario Niada- è fondamentale per il progresso di ogni civiltà. Le donne istruite sono una ricchezza sia per la famiglia, sia per la società civile. Noi lo abbiamo sperimentato nel nostro piccolo progetto afghano. Una donna istruita in Afghanistan diviene un’educatrice migliore per i figli, che manda a scuola e segue nel cammino educativo; ha inoltre la possibilità di lavorare, migliorando la condizione economica della famiglia e divenendo parte fondante della comunità e della società cui appartiene. Noi riteniamo che l’istruzione femminile sia così importante per la costruzione di una società più giusta e avanzata, che abbiamo finanziato anche programmi di alfabetizzazione per donne adulte, per offrire loro la possibilità di intraprendere piccole attività economiche, come l’essicazione, la conservazione e la vendita della frutta secca (albicocche e uva), di cui l’Afghanistan è ricco, o anche la produzione e la vendita di formaggi. Se non si sa almeno leggere e far di conto, è difficile uscire da un’economia di pura sussistenza”. Perché avete deciso di rimanere e continuare l’esperienza delle scuole di Arghosha e con quali modalità e strumenti? “Noi vogliamo restare in Afghanistan per continuare a sostenere l’istruzione femminile. Infatti, all’inizio di settembre, abbiamo inaugurato (a distanza, perché è impossibile andarci personalmente, come abbiamo sempre fatto) la 15esima scuola di Arghosha, a Lazir, in un villaggio sperduto nella provincia di Daikundi, alla presenza dei talebani. Al momento però le nostre attività sono sospese, siamo in attesa d’indicazioni più precise dal governo. Le nostre scuole sono aperte fino alle elementari. Attendiamo indicazione per la riapertura delle secondarie. Alcune università sono aperte, con lezioni separate per donne e uomini, ma molte delle nostre ragazze hanno paura di frequentare le lezioni. Il pensionato studentesco per le nostre borsiste all’università di Kabul è chiuso. È troppo pericoloso ospitare 12 ragazze insieme. Le nostre studentesse universitarie o sono tornate a casa o sono rimaste a Kabul ospiti di parenti. È tutto molto incerto. Vediamo cosa accadrà nelle prossime settimane”. Far conoscere la vostra lunga esperienza nelle scuole, nelle università, nel mondo, in Italia, non crede possa essere un passo importante per mantenere viva l’attenzione e la speranza? “Sì, in questo momento il nostro obiettivo è proprio quello di far conoscere il nostro progetto educativo afghano, che ha dato la possibilità a 5.500 bambine e ragazze di accedere all’educazione, a 22 ragazze di frequentare l’università e ad alcune di trovare un buon lavoro. Credo sia importante ricordare che ci può essere un futuro diverso per le donne afghane. Alcune di loro, lentamente ma con forte determinazione, se lo stavano conquistando. Altre, coraggiosamente lo difendono nelle strade e nelle piazze”. Nel mondo si sono rifugiate tante donne afghane che hanno acquisito un capitale umano e imprenditoriale straordinario. Non crede che, nonostante la situazione pesantissima, loro sono il futuro, il potenziale ceto dirigente per un nuovo volto dell’Afghanistan? “Senza dubbio ci sono donne straordinarie afghane nel mondo, e potrebbero tornare e svolgere un ruolo importante nella costruzione del loro paese, quando la situazione lo consentirà. Ma ci sono donne straordinarie anche oggi in Afghanistan, e noi con il nostro piccolo progetto educativo abbiamo contribuito a renderle parte del progresso del loro paese. La società afghana, specie nelle città, si stava visibilmente evolvendo e negli ultimi 10 anni le donne hanno cominciato a occupare posizioni importanti nei media, nelle istituzioni dello stato, nell’arte e nello sport”. Non crede che l’Occidente, tra gli errori commessi, oggi deve sapere “ascoltare”, non solo vedere la situazione delle donne afghane? “La situazione delle donne afghane è la priorità per l’Occidente e noi opereremo perché l’attenzione venga tenuta su di loro”. Spagna. Puigdemont, sospesa l’estradizione di Monia Melis La Repubblica, 5 ottobre 2021 La richiesta della Procura generale alla Corte d’appello di Sassari che in due ore ha dato l’ok. L’ex presidente è libero e può tornare a Bruxelles. Era stato brevemente arrestato su mandato spagnolo. Sull’aula intitolata al giudice ucciso dalla mafia: “Da qui non poteva che uscire una decisione giusta”. Sospensione dell’estradizione: la richiesta è arrivata dalla Procura generale alla Corte d’appello di Sassari. A cui si è ovviamente affiancata quella della difesa. E il collegio giudicante di tre magistrati ha deciso in quasi due ore: accolta. L’ex presidente della Catalogna, di Carles Puidgemont, è libero e può tornare a Bruxelles. Per il legale sassarese Marras: “Un risultato assolutamente positivo”, come ha spiegato all’uscita. Puigdemont più tardi ha twittato una foto che mostra la targa di dedica dell’aula a Giovanni Falcone e ha commentato: “Da un’aula che porta questo nome non poteva uscire che una decisione giusta”. Dalle 11 di questa mattina nel palazzo a specchi del nord della Sardegna si discute sul caso internazionale del leader indipendentista accusato di sedizione che vive in esilio in Belgio. L’ex presidente della Catalogna era stato arrestato ad Alghero, dieci giorni fa, su mandato spagnolo e poi subito rilasciato dopo nemmeno ventiquattro ore nel carcere di massima sicurezza di Bancali. A decidere il collegio presieduto dal magistrato Salvatore Marinaro (insieme a Plinia Azzena e Maria Teresa Lupinu) a cui la procuratrice Gabriella Pintus ha chiesto appunto la sospensione del procedimento a suo carico. A supporto della richiesta la necessità che si chiudano le pendenze, in particolare due. Una è la competenza sul mandato d’arresto europeo, di fatto mai eseguito dal Belgio. La seconda è il procedimento sull’immunità da europarlamentare. Uno status al momento sospeso per Puidgemont dal Tribunale europeo dal 30 luglio. E se il giudice spagnolo ha ribadito “la consegna immediata” al tribunale sassarese, l’ex presidente della Generalitat ha rilanciato con un procedimento urgente di ripristino. Per entrambe le questioni le decisioni devono essere “definitive”. “Ed è indispensabile siano risolte entrambe prima di un eventuale riavvio”, ha specificato l’avvocato Marras. E non è un caso che l’ex presidente catalano sia arrivato con gli altri due europarlamentari (Toni Comín e Clara Ponsatí) che hanno la sua stessa posizione giudiziaria: un gesto considerato di sfida nei confronti del Tribunale supremo spagnolo. All’arrivo a Sassari nessuna sua dichiarazione a favore delle decine di tv (soprattutto spagnole e catalane): né sue, né dei legali (il sardo Agostinangelo Marras e il catalano Gonzalo Boye). Subito è scattato un corridoio di sicurezza, una fila di uomini a braccetto, per scortarlo fino all’ingresso dal pulmino nero che da domenica accompagna lui e lo staff negli spostamenti tra Sassari e Alghero. Ad attenderlo le delegazioni catalane, corse, sarde. Ovunque bandiere identitarie e di rivendicazione: i quattro mori sardi, il moro solitario della Corsica, le strisce gialle e rosse catalane e addirittura quella della Nuova Caledonia, impegnata in un nuovo referendum per l’indipendenza dalla Francia a dicembre. “Oe in Catalunia, cras in Sardigna”, questo l’auspicio degli indipendentisti sardi (oggi in Catalogna, domani in Sardegna). Un verdetto atteso da applausi e dai cori “Llibertat, llibertat!”, “Viva la nostra indipendentzia” scanditi dai sostenitori con striscioni che inneggiano alla fratellanza tra “popoli oppressi”, contro “un processo politico”. Un procedimento e un’attenzione mediatica che ha rianimato anche in Sardegna le tante sigle indipendentiste, con più di cento attivisti già dalla prima mattina in sit-in: “Se ci basassimo sulle presenze e l’energia di oggi dovremmo prendere il 20 per cento”, dice amaro uno di loro. Non c’è stata invece l’attesa contromanifestazione del partito di estrema destra spagnolo Vox, a favore dell’estradizione. Per cui sono state presentate delle azioni legali, e infatti una delegazione di tre è entrata all’interno della Corte d’appello come parte, senza slogan né rivendicazioni. Lo spiazzo sardo è rimasto tutto per gli indipendentisti. E per Puidgemont, atteso all’uscita come una star. Parlerà solo questo pomeriggio, ripetono dal suo staff. Durante una conferenza stampa organizzata da giorni ad Alghero, sua base logistica, prevista nel tardo pomeriggio.