Fine pena, mai dire mai di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 4 ottobre 2021 La rieducazione ha senso se prepara al reingresso nella società; ciò che in linea di principio è escluso dalla pena dell’ergastolo. “La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Questa affermazione della Corte Costituzionale rappresenta un discrimine: la divisione tra chi ci crede e chi non ci crede; tra chi pensa che questa sia la premessa fondamentale dell’atteggiamento che lo Stato che punisce deve avere nei confronti dei cittadini che condanna e chi invece la rifiuta. L’immagine del “buttar la chiave” della cella del detenuto, meglio di molte argomentazioni, descrive una posizione che confligge con l’indicazione vincolante che viene dalla nostra Costituzione. All’art. 27 la Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tutte le pene, qualunque sia il reato che ne comporta l’irrogazione. La rieducazione ha senso se prepara al reingresso nella società; ciò che in linea di principio è escluso dalla pena dell’ergastolo. Contro gli ergastoli, con ricco svolgimento di argomenti, si pronunciano i saggi raccolti e curati da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto nel libro da poco pubblicato dall’editrice Futura. Accanto a quelli dei curatori, il volume contiene numerosi altri interventi di specialisti della materia e documenti importanti per un dibattito che, legato com’è a questioni di principio, deve rimanere aperto, anche in un clima politico e sociale che sembra refrattario. Le finalità che la Costituzione assegna alla pena sono, da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione del condannato. Tra esse non può stabilirsi a priori una gerarchia che valga una volta per tutte e in ogni condizione. L’orientamento della Corte Costituzionale è nel senso che l’incentivo a un’attiva partecipazione all’opera di rieducazione, costituito dalla possibilità di ottenere la liberazione, non può essere escluso neanche nei confronti dei condannati all’ergastolo. In direzione analoga si è mossa la Corte europea dei Diritti umani, riflettendo in ciò una tendenza generale in Europa. Il divieto di trattamenti inumani e la finalizzazione della pena alla rieducazione del condannato implicano prima di tutto l’interdizione di piegare la persona a strumento per fini a essa estranei. Esemplare è la vicenda dell’abolizione della pena di morte, da cui l’adozione della pena dell’ergastolo e la sua disciplina discendono direttamente. Quando Cesare Beccaria propose l’abolizione della pena di morte e la sua sostituzione con la schiavitù perpetua, si aprì in Europa un dibattito. Si sostenne che la pena di morte con i tormenti pubblici che l’accompagnavano dovesse essere sostituita da altra pena, che facesse ancor più paura. In occasione della discussione della proposta di abolizione, nell’Assemblea nazionale francese del 1791, il relatore Luis-Michel Le Pelletier, per convincere che non fosse pericoloso rinunciare alla pena di morte, sostenne che la pena che l’avrebbe sostituita avrebbe dovuto intimorire per la sua spaventosa durezza: “Il condannato sarà detenuto in una cella oscura, in assoluto isolamento, con corpo e arti costretti dai ferri; pane, acqua e paglia gli daranno lo stretto necessario per nutrimento e riposo. E una volta al mese la porta della cella sarà aperta per offrire una lezione al popolo, che vedrà il condannato carico di catene e leggerà sulla porta il nome del prigioniero, il delitto e la sentenza”. Ora naturalmente i costumi e la sensibilità verso la violenza e la crudeltà sono cambiati, ma resta la tendenza a utilizzare il condannato e il suo corpo come strumento per impaurire gli altri e distoglierli da propositi criminali. C’è naturalmente in tutto l’apparato penale e nel carcere in particolare anche uno scopo di intimidazione generale, ma essa non può andar oltre certi limiti. Essi sono superati quando diviene chiaro che l’evoluzione del condannato, con il passare del tempo, ne ha fatto un’altra persona, una persona che si può credere risocializzata. In quel caso è figlio di quella stessa cultura della estrema intimidazione il rifiuto di ammettere anche la sola possibilità che il detenuto, specialmente se condannato all’ergastolo, possa ottenere dal giudice i “benefici”, i “permessi-premio” previsti dalla legge penitenziaria e infine, eventualmente, la liberazione condizionale. Si negano benefici proprio perché si chiamano così e si vogliono incompatibili con la punizione, il dolore della pena. Nasce così quella forma di ergastolo che si chiama ostativo, perché impedisce al condannato ogni accesso a “benefici”, anche se, esaminandone il percorso dopo gli anni di detenzione (almeno ventisei per eventualmente ottenere la liberazione condizionale) si dovesse costatare che la risocializzazione è avvenuta. E anche la forma ordinaria dell’ergastolo, che pur prevede la possibilità che la decisione del giudice possa porvi termine “prima della fine”, viene mantenuta per l’effetto intimidatorio del nome stesso e per il timore che, abolendola, l’opinione pubblica creda che il legislatore abbia ceduto di fronte alla criminalità. La questione dell’ergastolo è al centro di ogni discussione sullo scopo e sulla stessa legittimità della pena detentiva. Il tema del mantenimento o dell’abolizione della pena dell’ergastolo, sempre presente ai giuristi, penalisti, costituzionalisti, filosofi del diritto, emerge di tanto in tanto anche nella discussione politica. Nel 1998 il Senato, all’esito di una discussione di alto livello, si pronunciò per l’abolizione. Ma poi non solo l’abolizione non ebbe luogo, ma vennero previsti nuovi aggravamenti per le diverse ipotesi di condanna. Il diversificato regime previsto per i vari casi rende così possibile parlare di ergastoli al plurale, come vediamo nel titolo del libro di Anastasia, Corleone e Pugiotto, che tutti li contrasta. Ingiusta detenzione e responsabilità civile dei magistrati: servono norme collegate di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 4 ottobre 2021 Dalla relazione della Corte dei conti emerge che dal 2018 le Corti d’appello di Reggio Calabria e Catanzaro sono quelle che più incidono sull’erario. Con la deliberazione 16 settembre 2021, n. 15/2021/G, la Corte dei Conti ha condotto un approfondito il focus d’indagine in tema di equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari, sì da fornire un quadro sull’ammontare dei risarcimenti ed indennizzi che ogni anno pesano sull’Erario. Al di là del mero dato economico, la relazione è utile per portare alla luce le disparità di trattamento fra le varie Corti territoriali e come e perché taluni Fori cadano in più errori giudiziari rispetto ad altre sedi. Dai dati emerge, infatti, che dal 2018 le Corti d’Appello calabresi - Reggio Calabria e Catanzaro - sono gli Organi giudicanti che più incidono sul bilancio. Il dato è anche sintomo di una disciplina che, ad oggi, pur godendo di criteri quantificativi dell’indennizzo di creazione giurisprudenziale, ancora non ha uniformità, comportando dunque che per identici casi si giunga a quantificare in maniera assai differente il quantum del risarcimento conseguente all’errore. La relazione ha altresì sollevato ulteriori questioni di fondamentale importanza sul tema: da un lato l’eventuale necessità di creare norme di coordinamento tra la disciplina ex artt. 314 e 315 c.p.p. e il danno aquiliano ex art. 2043, concernente la responsabilità civile dei magistrati, così come disciplinata dalla c.d. Legge Vassalli del 13 aprile 1988, n. 117, successivamente modificata dalla Legge 27 febbraio 2015, n. 18. Attualmente la disciplina nostrana può dirsi tripartita. Da una parte il Codice di rito concede il diritto a un indennizzo per ingiusta detenzione conseguente all’erronea applicazione di ordinanza cautelare, ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p.p. Il rimedio de qua, quindi, ha il fine di compensare il pregiudizio patito a seguito di un’ingiusta limitazione della libertà personale in regime di misura cautelare. Il secondo tipo di rimedio, disciplinato dagli artt. 643 e 647 c.p.p., è parimenti un indennizzo accordato per chi, a seguito di giudizio di revisione, veda rescissa la propria condanna. L’errore, in questo secondo caso, è dunque determinato non dall’ingiusta applicazione e patimento da una misura cautelare, ma da una detenzione frutto di una condanna ingiusta. Come per il primo rimedio, il soggetto che può godere dell’indennizzo non deve aver concorso con dolo o colpa grave nel determinare l’errore. La terza ipotesi, come anticipato, è un vero e proprio risarcimento - e non già indennizzo - scaturente da una condotta gravemente negligente, ovvero dolosa, del magistrato, causando un danno illecito di natura civilistica ai sensi dell’art. 2043 c.c., così come disciplinato agli artt. 2 e 3 della Legge Vassalli. La differente natura delle compensazioni derivanti da errori - leciti o illeciti, penali o civili - comportano una compatibilità fra le due azioni, le quali possono pertanto cumularsi scaturendo in una duplice riparazione per il nocumento subito, con maggior spesa per l’Erario. Ad onor del vero, analizzando la situazione da un punto di vista maggiormente pragmatico, va detto che difficilmente la responsabilità civile del magistrato viene riconosciuta, mentre assai più frequente è la liquidazione per danni scaturenti da ingiusta detenzione ai sensi della disciplina del Codice di procedura penale. Ancora, è necessario far presente che il risarcimento accordato ai sensi della Legge Vassalli risulta piuttosto limitato: l’art. 3, comma 8 dispone che questo “non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”. Tale limite è escluso, tuttavia, se il fatto è stato commesso con dolo. Ad ogni modo, almeno teoricamente, la cumulabilità delle azioni è ammissibile. Non sono ravvisabili eccessive criticità dovute dal doppio peso per l’Erario in considerazione del fatto che l’indennizzo ex Codice di rito e il risarcimento ai sensi della Legge Vassalli prendono le loro mosse da due presupposti differenti. Da un lato si ha un nocumento causato per fatti leciti, fisiologici del sistema penale (seppur con tutte le precauzioni e i discorsi afferenti all’indiscriminata applicazione delle misure cautelati e di cui non si parlerà in questa sede), dall’altro vi è la responsabilità del magistrato per fatti a lui direttamente imputabili causa la condotta colposa, ovvero dolosa. Un coordinamento può rendersi necessario nell’ottica di alleviare il carico processuale degli Uffici giudiziari causato dall’attivarsi di due giudizi distinti, ma potenzialmente connessi, uno in sede civile e l’altro in sede penale, coordinamento che ben potrebbe inserirsi nell’attuale panorama di riforma della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, attesa la ratio deflattiva della stessa. In secondo luogo, una normativa di collegamento può rendersi auspicabile al fine costruire una disciplina dal più ampio sguardo europeo, che funga da raccordo con gli altri stati dell’Ue. Insomma, delle modifiche di coordinamento tra la Legge Vassalli e il Codice di rito penale si renderebbero indubbiamente utili, non tanto per alleggerire il peso sull’Erario - il quale può essere più utilmente abbattuto ponderando le scelte in sede di giudizio (come dimostrato dall’ampia disparità dei dati relativi alle varie Corti) - piuttosto per abbattere i tempi del processo e armonizzare la disciplina nostrana con quella degli altri stati comunitari. *Direttore Ispeg Il Papa prega per le carceri e i detenuti: “Dio aiuti chi rende più umana la loro vita” Il Riformista, 4 ottobre 2021 Disabilità, migrazione, appello per la pace nei paesi devastati dalla guerra e una preghiera per i detenuti nelle carceri dell’Ecuador. Papa Francesco ha rivolto un pensiero a tutti coloro che vengono considerati “ultimi” dalla società. “Ognuno deve riconoscersi nel piccolo” - Il Vangelo di questa domenica, che Papa Francesco commenta all’Angelus, prosegue il racconto del brano letto due domeniche fa. “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”. Prima della recita dell’Angelus in piazza San Pietro, Papa Francesco ha detto: “Chi cerca Dio lo trova lì, nei piccoli, nei bisognosi: non solo di beni, ma di cura e di conforto, come i malati, gli umiliati, i prigionieri, gli immigrati, i carcerati. Lì c’è Lui”. Il Pontefice ha spiegato che ognuno di noi deve riconoscersi piccolo, perché ognuno di noi non basta a se stesso: “Nella prosperità, nel benessere, abbiamo l’illusione di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di non aver bisogno di Dio - ha osservato Bergoglio - è un inganno, perché ognuno di noi è un essere bisognoso, un piccolo”. Il Santo Padre ha poi spiegato: “Nella vita riconoscersi piccoli è il punto di partenza per diventare grandi. Se ci pensiamo, cresciamo non tanto in base ai successi e alle cose che abbiamo, ma soprattutto nei momenti di lotta e di fragilità - ha detto Francesco - lì, nel bisogno, maturiamo; lì apriamo il cuore a Dio, agli altri, al senso della vita. Quando ci sentiamo piccoli di fronte a un problema, a una croce, a una malattia, quando proviamo fatica e solitudine, non scoraggiamoci. Sta cadendo la maschera della superficialità e sta riemergendo la nostra radicale fragilità: è la nostra base comune, il nostro tesoro, perché con Dio le fragilità non sono ostacoli, ma opportunità”, ha sottolineato Bergoglio. Ricordando il Vangelo di due settimane fa, il Pontefice sottolinea come “Gesù, compiendo il gesto di abbracciare un bambino, si era identificato con i piccoli: aveva insegnato che proprio i piccoli, cioè coloro che dipendono dagli altri, che hanno bisogno e non possono restituire, vanno serviti per primi”. Nel vangelo di oggi c’è scritto si indigna, dice ancora Papa Francesco “E la sua indignazione non è causata dai farisei che lo mettono alla prova con domande sulla liceità del divorzio, ma dai suoi discepoli che, per proteggerlo dalla ressa della gente, rimproverano alcuni bambini che vengono portati da Gesù. In altre parole, il Signore non si sdegna con chi discute con Lui, ma con chi, per sollevarlo dalla fatica, allontana da Lui i bambini”. E proprio in occasione della giornata nazionale per l’abbattimento delle barriere architettoniche il Papa all’Angelus ha lanciato un appello: “Ognuno può dare una mano per una società dove nessuno si senta escluso”. Appello per Myanmar e preghiera per detenuti dell’Ecuador - Una preghiera per i detenuti dell’Ecuador e un invito per costruire la pace in Birmania. Nell’Angelus di oggi, il Papa ha lanciato uno sguardo verso quei paesi dove è in atto una violazione dei diritti umani. “Dio ci aiuti a sanare le piaghe del crimine che schiavizza i più poveri e aiuti quanti lavorano ogni giorno per rendere più umana la vita nelle carceri”, ha detto il Santo Padre ricordando la recente tragedia in carcere di Guayaquil in Ecuador dove, per scontri tra bande rivali, ci sono stati oltre cento morti e numerosi feriti. E, intervenendo sul tema della situazione politica e sociale in Birmania, il Papa ha detto: “Desidero nuovamente implorare da Dio il dono della pace per l’amata terra del Myanmar perché le mani di quanti la abitano non debbano più asciugare lacrime di dolore e di morte ma possano stringersi per superare le difficoltà e lavorare insieme per l’avvento della pace”. Scampoli di normalità in carcere di Claudio Caprara ilpost.it, 4 ottobre 2021 Luciana Delle Donne poteva dirigere una banca a Londra, ma ha scelto di tornare a Lecce per fare qualcosa per le donne detenute: “Made in carcere” è nato così. La casa di Luciana Delle Donne, nel centro storico di Lecce, è mille cose. Un grande appartamento colorato e pieno di luce. Un ufficio confortevole. Un pensatoio e una sede per fare brainstorming. Si trasforma quasi in un ristorante notturno. Un bed and breakfast per amici. Una sala riunioni. La sede legale della cooperativa Officina Creativa, che ha ideato il marchio Made in carcere. “È una casa che ho ristrutturato nella mia prima vita - spiega Delle Donne - è un simbolo di bellezza, ospitalità, gioia di vivere”. La “prima vita” dell’ideatrice di Made in carcere è assai diversa da quella che fa oggi. “Ero una sciura milanese. Andavo in giro vestita bene, portavo i gemelli, avevo le camicie con le cifre ricamate, le scarpe con il tacco… Facevo una vita piena di comodità e di lusso (un lusso relativo, ovvio). Abitavo i piani alti della società: lontano da chi non ha nulla e fa una vita di privazioni”. Luciana nel 2000 era una manager ed ha ideato e lavorato ad una delle prime banche on line italiane. Era una donna di successo, rampante, yuppie. A Milano è rimasta quattro anni. Ma poi non reggeva più le riunioni una in fila all’altra, le corse su ogni scadenza, la necessità di produrre sempre di più del trimestre precedente. La rottura è avvenuta quando la sua banca le ha fatto una di quelle proposte che non si possono rifiutare: andare a Londra a dirigere una nuova struttura. “Quella proposta mi ha molto lusingata: l’ambizione è umana. Io ho lavorato all’automazione dei processi con l’idea di creare degli strumenti utili per le persone: clienti, promotori finanziari, dipendenti della banca… Andare a Londra significava crescere ancora, ma voleva anche dire aumentare le distanze tra me e il resto delle persone. Ero a disagio. Mi sentivo una privilegiata in un mondo non mio. Non mi sentivo più in grado di fare delle scelte innovative, come avevo fatto negli anni precedenti. Insomma mi sono sentita intrappolata in meccanismi che non potevo modificare. Quando mi hanno proposto di fare una cosa ancora più grande, più importante, ho detto basta: mi sono stancata di essere un dente di questo ingranaggio”. La scelta di “scendere da quella giostra” non è una grande novità per i manager di quel livello, e dopo un paio di mesi di trattativa si è definita l’uscita: capita sovente tra i dirigenti d’azienda che si scelga di cambiare, ma in casa sua è stato un cataclisma: “Mia madre era bancaria, mio padre bancario, mio fratello e mia sorella bancari… quando hanno saputo che mi volevo licenziare mi hanno presa per pazza…”. La scelta di Luciana riguardava anche la sua vita privata, il desiderio di un figlio, la voglia - a 40 anni - di trovare una vita più “normale”. Le cose non sono andate esattamente come sperava. Il 2005 è stato un anno di svolta. Passato in Brasile a fare volontariato, ma soprattutto dedicato a decidere cosa fare della sua seconda vita. “Il mio desiderio era quello di aiutare direttamente i bambini, ma le regole e le strutture che riguardano l’infanzia mi hanno costretto a desistere e ho pensato: invece di aiutare i bambini aiuto le loro mamme. Mi sono chiesta: quali sono le madri che vivono peggio? Quale è l’ultimo livello sociale, da dove cominciare?”. È da qui che è partita l’idea di cercare di fare salire un gradino di benessere a una parte dei 65 mila che stanno chiusi in carcere in Italia, applicando le conoscenze manageriali alle azioni di recupero dei detenuti. La prima volta che Luciana Delle Donne è entrata in una prigione ha incontrato la direttrice del carcere di Lecce, che allora era Anna Rosaria Piccinni. Si è presentata così: “Io non so nulla: sono qui per dare una mano”. Tra le passioni di Luciana c’è la moda: aveva brevettato un collo di camicia, al primo appuntamento lo ha fatto vedere alla direttrice, chiedendole se si poteva produrre in carcere. “Piccinni all’inizio era molto scettica, ma ha avuto totale fiducia in me, e ha detto: proviamo!”. Made in carcere nasce in questo modo. Nei primi tempi la sede era uno stanzino angusto e soffocante, come tutte le celle, dove le detenute stavano strette e guardavano questa manager che veniva da un altro pianeta. Ma presto hanno cominciato ad apprezzarne l’entusiasmo e la passione. “All’inizio - ricorda Luciana - volevo dimostrare che si potevano fare cose belle. Quando è venuto fuori il nome Made in carcere ho chiesto alle persone che lavoravano se erano d’accordo che si dicesse che i nostri prodotti venivano fatti in prigione. 15 anni fa la moda era fatta per fighetti e se sapevano che una cosa era prodotta in carcere, magari si voltavano dall’altra parte, nonostante si tratti di cose di qualità. Abbiamo fatto sei mesi di formazione e quando eravamo pronti per partire con la produzione è arrivato un provvedimento di indulto e non c’era più nessuna detenuta. Questo però mi ha insegnato il senso del progetto: io volevo andare lì da manager, quasi da crocerossina, da borghesuccia, a lavorare qualche ora al giorno a fare il colletto di camicia brevettato, carino… Insomma volevo fare un po’ di volontariato per compensare tutta la fortuna che avevo avuto fino a quel momento donando un po’ del mio tempo. Sbagliavo. Quando sono rimasta sola ho capito che dovevo cambiare totalmente approccio. Dovevamo essere più veloci, le persone dovevano imparare a cucire in fretta. Per questo ho cominciato a mettere in produzione pezzi meno elaborati, con cuciture dritte, da confezionare rapidamente. In questo modo le ragazze acquisiscono in fretta una competenza tecnica, ma anche la consapevolezza del ritmo del lavoro”. Il collo di camicia è finito nel cassetto e si è passati ad altri accessori. L’idea di fondo del progetto è utilizzare materiali di scarto delle produzioni sartoriali “ufficiali” per produrre accessori di moda. Con questa produzione si vuol far capire che dagli scarti possono nascere cose ambite e belle. Un messaggio subliminale, pedagogico, didattico anche per chi sta in carcere ed è comunemente considerato uno “scarto della società”. Il modello produttivo degli accessori e gadget per la moda Made in carcere non è particolarmente innovativo: si raccolgono materiali di recupero, gli scampoli vengono catalogati, Luciana disegna i prodotti (che vengono personalizzati per i clienti, in particolare aziende), si realizzano, poi vengono venduti. Accanto a questo freddo processo c’è un lavoro sulle persone per costruire una consapevolezza diversa di umanità, di nuovo rapporto con il mondo rispetto a quella che era la vita precedente dei carcerati. “La nostra logica di economia circolare si intreccia con un sistema di circolarità del sistema di recupero di persone che hanno fatto degli errori, anche molto gravi e tragici. Quindi c’è un progetto di rigenerazione degli scarti dei tessuti che accompagna un processo di rigenerazione umana. Non è un caso che i dati sulla recidiva di reato delle persone che hanno fatto questa esperienza sfiorino lo zero”. Un dato assai diverso rispetto a quello storico italiano. “Per me - dice ancora Luciana Delle Donne - questa esperienza è una vera palestra di vita. Mi costringe a parlare con le persone, a conoscerle, a motivarle. Una volta mi è venuta una frase con una ragazza che aveva avuto una brutta notizia. Le ho detto: il dolore è una perdita di tempo, e comunque noi qui in carcere non ce lo possiamo permettere. Il dialogo è una parte fondamentale del lavoro che si fa con queste persone”. L’idea iniziale era realizzare un modello di impresa sociale, ma per come era strutturato il mercato 15 anni fa la scelta più logica è stata dare vita ad una cooperativa sociale dove tutti: donne, uomini, ragazzi impiegati percepiscono un regolare stipendio, hanno un contratto. Si è sempre cercato di trovare delle commesse, dei clienti, delle forme di distribuzione. Insomma dare vita a un “lavoro vero”. Perché, se la salute consiste - per dirla con Freud - in amare e lavorare, all’Officina Creativa potevano puntare, per lo meno, a lavorare con passione. Ho chiesto a Luciana Delle Donne se, rispetto alla sua prima vita, ha cambiato idea sulla punizione, sul concetto di castigo. “A me piacciono le regole. Il loro rispetto mette ordine nei rapporti tra le persone. Non ho mai chiesto ad un detenuto per quale reato fosse finito in carcere, noi non siamo lì per giudicare, cerchiamo solo dei compagni di viaggio. Prima di avviare questa attività mi sono confrontata con esperti, docenti universitari, psicologi”. Da quando è nato il marchio “Made in carcere” sono oltre duecento le persone che hanno collaborato e, finito il periodo di reclusione, non tutti potevano aggregarsi in forma stabile alla gestione del progetto. Oggi ci sono circa 40 addetti (oltre la metà sono persone in stato di detenzione). Nei diversi progetti aperti c’è un’altra sessantina di detenuti coinvolti nella formazione. Il reclutamento di queste persone avviene su indicazione della direzione del carcere. Lo staff della cooperativa incontra le persone e, normalmente, arrivano in una condizione di sottomissione. “Si sentono in colpa anche con noi, sono diffidenti, impaurite, preoccupate, mantengono una grande distanza. Non possono credere che in carcere ci possa essere una cosa come la nostra”. Un po’ alla volta si cerca di costruire un filo di fiducia. “Noi ci presentiamo, raccontiamo il nostro progetto, offriamo loro il caffè, le ascoltiamo, portiamo in carcere persone che hanno delle cose da raccontare: scrittori, filosofi, giornalisti, artisti: Michelangelo Pistoletto è venuto a disegnare sul muro del carcere il Terzo Paradiso…” L’ambiente di lavoro dell’Officina Creativa nel carcere di Lecce è un posto bello, normale. L’hanno chiamato “La Maison”. Ci sono tappeti, divani, una sala allestita a palestra, una sala lettura, una sala riunioni. C’è addirittura un frigorifero. “Lo sai che significa in carcere potere usufruire di un frigo d’estate? Per chi sta fuori è una cosa normale, ma dentro no. In estate le celle sono un forno. Nel carcere le cose che noi abbiamo normalmente in casa sono un lusso”. Insomma con il tempo le persone cominciano ad apprezzare questa condizione, si prendono più cura di loro stesse: si vestono con il capo migliore che hanno per venire a lavorare, si truccano, si riappropriano di autostima, di dignità che è la precondizione per diventare persone migliori. “Vedere che piano piano queste persone si riappropriano di questi strumenti è una grande soddisfazione”. “Lavoro 14 ore al giorno e sono sempre in giro, un po’ come prima, ma oggi ho due grandi obiettivi: trovare qualcuno che possa fare andare avanti questa iniziativa anche senza di me e fare in modo che la nostra esperienza sia copiata dal maggior numero di realtà carcerarie possibili”. Attorno a Made in carcere si è creata una social academy finanziata dalla Fondazione Con Il Sud, per fare in modo che il modello possa essere esportato. Si parte da Lecce, ma i laboratori sono anche a Matera, Taranto, Trani, Bari. Per rendere l’esperienza leccese condivisa da diversi giovani da tempo si organizzano periodi di stage avviati in collaborazione con la Luiss “Guido Carli” di Roma. Luciana Delle Donne è una persona rara, con una forza, una curiosità e una determinazione notevoli. Basta passare un paio di giorni nella sua casa, con i suoi ritmi frenetici, in carcere o a Lequile (meglio evitare di andare in macchina quando lei guida, anche perchè continua a fare tutte le cose che fa in ufficio) per esserne conquistati. “Come sarà la sua vita tra cinque anni?”, le ho chiesto. “Sulla mia terza vita… ci stiamo lavorando”. Molte idee. Molta voglia di stimolare la fantasia di chi incontrerà, di attivare collaborazioni. Ha l’idea di ricreare vecchi mestieri con una rinnovata creatività. Insomma una terza vita, in fin dei conti, piena come le prime due. Il buon dibattito fra i magistrati di Gian Carlo Caselli La Stampa, 4 ottobre 2021 Finalmente una bella notizia! La si trova nell’interessante resoconto di Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa di ieri circa le divergenze fra magistrati in ordine alla condanna di Mimmo Lucano. Bella notizia, perché la magistratura finalmente prova a riemergere dalla maleodorante e soffocante poltiglia del laido sistema Palamara, confrontandosi su temi puliti, diversi dalle clientele e cordate per lo scambio di nomine. La condanna dell’ex sindaco di Riace è un brodo di coltura perfetto per discussioni e conflitti. Prima di tutto per l’opinione pubblica, per la politica e per l’informazione: nell’area cristiana Mimmo Lucano è come un santo, un modello pionieristico di accoglienza, un uomo che ha fatto solo del bene; per molti laici è un uomo coraggioso, un disobbediente civile emulo di Danilo Dolci o addirittura di Gandhi; per altri invece è il capo di un’associazione a delinquere, un affarista spregiudicato, un falsario, un profittatore, un bandito. La magistratura vive e opera nel mondo che la circonda e ne respira gli umori. Ed ecco discussioni e conflitti anche al suo interno. Ma con un recupero da parte delle “correnti” - la bella notizia - del ruolo di strumenti di dibattito e orientamento culturale (pubblico e trasparente) com’era prima della degenerazione causata dal sistema Palamara. Così, tra i magistrati si va da chi teorizza la difesa “senza se e senza ma” dei colleghi di Locri, “fatti bersaglio di inusitati e ingiustificati attacchi”; a chi invece parla di “chiusura ed autoreferenzialità di una casta sacerdotale”, di indifferenza rispetto agli “inevitabili effetti sociali dei provvedimenti” giudiziari, di “alibi del tecnicismo per nascondere l’acquiescenza a politiche securitarie”. Dispute antiche, che al di là delle formule ripropongono il tema fondamentale e intramontabile del rapporto fra legalità e giustizia: se il magistrato debba interpretare la sua funzione con un’impostazione burocratico-formale, oppure facendosi anche carico di contestualizzare le vicende da giudicare nella realtà concreta che le ha espresse. Quanto al tecnicismo, vero è che a volte può essere un alibi (tipico, in alcuni processi di mafia, il tecnicismo in modalità scaltrezza, consistente nel riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere legale, per poi perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza). Ma nel caso Lucano è un profilo da valutare quando si potrà verificare la coerenza della motivazione della condanna. Ponendo fin d’ora, per altro, alcune domande. Una delle tante possibili si riferisce all’art. 133 C.P., secondo cui il potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena - entro la forbice minimo-massimo - va esercitato in base alla gravità del reato, tenendo altresì conto dei precedenti penali e giudiziari e, in generale, della condotta e della vita del reo antecedente, contemporanea o susseguente al reato (sul punto non sembra vi siano ombre su Lucano, incensurato); per capire, in sostanza, come sia stata motivata l’esclusione di ogni attenuante, comprese le generiche che in pratica non si negano a nessuno; e in definitiva come si sia arrivati ad una pena assai severa ( di fatto quasi il doppio della già pesante richiesta del pm). Sperando che interrogarsi sulla proporzionalità della pena non comporti l’addebito sprezzante di buonismo, per ora - ripeto - è già importante che i magistrati abbiano ripreso a confrontarsi su temi che a Palamara e ai suoi epigoni dànno l’orticaria. Gianni Canzio: “Sì, ora un’altra giustizia è possibile” di Errico Novi Il Dubbio, 4 ottobre 2021 Parla Gianni Canzio, presidente emerito della Cassazione: “Ddl Cartabia e nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza possono spegnere il populismo penale”. Siamo a una svolta? Può darsi. Le coincidenze ci sono. Intanto, la fine di un’epoca alla Procura di Milano, consumata dalle liti fra i protagonisti di quella Mani pulite che inaugura la guerra dei trent’anni sulla giustizia. Poi una guardasigilli che ha il senso della Costituzione. Una maggioranza finalmente sbilanciata sulle garanzie dopo anni di infatuazioni populiste. E una magistratura forse indebolita, e quindi vulnerabile, ma anche cosciente di una necessaria ricostruzione. Ne parliamo con una figura forse unica nell’ordine giudiziario: Gianni Canzio, presidente emerito della Cassazione. Fra i pochissimi magistrati che abbiano saputo rovesciare il riflesso pavloviano dell’irrigidimento corporativo. E sicuramente fra i non molti, anche oltre il fronte della giurisdizione, che negli ultimi anni abbiano saputo guardare lontano. Presidente Canzio, qualcosa è cambiato davvero? Nelle scelte recenti della politica, e nel suo linguaggio, intravede la fine del conflitto sulla giustizia? Il confronto esasperato, nei toni e nei contenuti, che nell’ultimo ventennio ha visto schierati su fronti contrapposti garantisti e giustizialisti ha lasciato macerie difficili da rimuovere in breve tempo. A mio avviso, il pendolo continuerà verosimilmente ad oscillare a seconda delle convenienze dettate dai riflessi di singoli episodi o da specifiche occasioni di rilievo mediatico. Tuttavia, a me sembra che il drammatico scenario disegnato dall’emergenza pandemica abbia reso evidente, tra l’altro, l’esigenza di guardare al futuro in termini di radicale ricostruzione organizzativa della giurisdizione, secondo un modello di efficienza e qualità. Nella consapevolezza, da parte sia della politica che della magistratura, che il protrarsi oltre ogni limite della crisi di effettività e autorevolezza della giurisdizione, almeno in parte prodotta anche dalle forme aggressive di quel confronto, rischia di risolversi in una crisi di fiducia dei cittadini non solo nella giustizia ma anche sulla tenuta complessiva del sistema democratico. Il cambiamento passa per il dialogo, ma anche per le riforme. La direzione tenuta in questi mesi è giusta? Occorre chiedersi perché gli interventi sulla giustizia previsti dal Pnrr prendono l’avvio dal dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano, che presenta tempi di definizione di molto superiori alla media europea e al quale s’intende apprestare urgenti rimedi. Non credo che si tratti solo di adesione a una pressante richiesta dell’Unione europea dettata da ragioni connesse a un ordinato sviluppo dell’economia e del mercato. Seppure con grave ritardo si è preso atto che l’età postmoderna ha reso oltremodo complicato il rapporto fra il fattore temporale e la funzione di giustizia. I ritmi della giurisdizione esigono scansioni adeguate alla ricostruzione probatoria dei fatti, all’analisi delle questioni, alla scelta della soluzione corretta e alla spiegazione delle ragioni della decisione. La mentalità e l’agire dell’uomo postmoderno sono, viceversa, orientati intorno al “presente continuo” e al “tutto accade ora”, pretendendo, anche in virtù dell’inarrestabile progresso scientifico e tecnologico - si pensi agli approdi applicativi dell’IA! - un cambio di passo nella rapidità, trasparenza e comprensibilità dei provvedimenti giudiziari. Quindi la modernità, rispetto alla riduzione dei tempi, ha le proprie buone ragioni? La verità è che l’eccessiva durata dei giudizi reca un serio pregiudizio sia alle garanzie delle persone coinvolte - indagato, imputato e vittima - sia all’interesse dell’ordinamento all’efficace accertamento e alla persecuzione dei reati. Il modello Cartabia intende dunque fronteggiare con determinazione il problema creato dalle gravi ricadute mediatiche dei tempi lunghi e talora della non uniformità delle decisioni giudiziarie, in termini di irrazionale privilegio accordato all’ipotesi solo provvisoriamente formulata dall’accusa, alle risultanze delle indagini preliminari, alla privazione della libertà personale e alla “gogna” dell’indagato, rispetto all’accertamento dei fatti nel giudizio e agli esiti decisori di quest’ultimo. Una frattura del paradigma della tradizione giuridica occidentale e una deriva, questa, dei valori anche etici del giusto processo, che ha caratterizzato numerose vicende anche di rilievo storico dell’ultimo ventennio. Il “processo mediatico”, insomma, è anche figlio dei tempi lunghi... Ed è sembrato pertanto necessario procedere all’adozione di una serie di misure dirette, oltre che a ridurre l’ipertrofia della giustizia penale e a semplificarne le procedure, a riportare in equilibrio i rapporti (poteri-doveri-responsabilità) fra il Pubblico Ministero e il Giudice, sia nelle indagini preliminari con la previsione delle cosiddette finestre di giurisdizione (sulla durata, sulla stasi e sulla discovery degli atti d’indagine, sulle iscrizioni, sulla chiarezza dell’imputazione), sia nella fase di analisi e filtro delle accuse che si prospettino effettivamente meritevoli di verifica dibattimentale solo se e in quanto assistite da una qualificata prognosi di condanna dell’imputato. Il che dà ragione della quasi unanime volontà riformatrice, espressa di recente da Camera dei deputati e Senato, di intervenire sul regolamento dei tempi della complessa macchina della giustizia, secondo più agili e virtuose pratiche operative dei suoi protagonisti e nel rispetto delle garanzie difensive. Lei parla di riequilibrio nei poteri e nelle responsabilità fra pm e giudice. Ma la loro coesistenza in uno stesso ordine è davvero sostenibile? Vorrei ribadire, anche se è implicito nel mio ragionamento, il giudizio negativo che ho espresso in più occasioni circa il disegno legislativo di separazione delle carriere dei magistrati di pubblico ministero e di giudice. Il progetto, oltre a destrutturare larga parte del modello costituzionale sull’ordinamento della magistratura, potrebbe a mio avviso determinare, per una paradossale eterogenesi dei fini, l’effetto di una spiccata autoreferenzialità del potere d’inchiesta come baricentro del rito, anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica, e perciò di sostanziale indifferenza della pubblica accusa rispetto al reale accertamento della verità dei fatti all’esito del giudizio: fonte, a ben vedere, del prevalere di logiche corporative e di un rinnovato squilibrio di poteri-doveri nei rapporti fra pubblico ministero e giudice nel processo. Con il lineare corollario, beninteso, che l’opera riformatrice debba comportare un ormai indifferibile rinnovamento metodologico dei saperi, della professionalità e della deontologia di coloro che sono destinati ad esercitare i differenti “mestieri” di attore nel processo. Dopo le norme sulla procedura, sono ora in gioco quelle sulla comunicazione giudiziaria. Possono contribuire a portare anche nell’opinione pubblica quella nuova consapevolezza di cui lei parlava? Strettamente legato alle riflessioni fin qui svolte appare il tema del rafforzamento della presunzione d’innocenza dell’imputato, di cui allo Schema di decreto legislativo di adeguamento alla direttiva (Ue) 2016/343, che è stato sottoposto dal Governo al parere del Parlamento il 6 agosto 2021. A me sembra chiara la stretta coerenza delle relative prescrizioni di matrice europea con lo spirito liberale che permea il complessivo disegno riformatore del processo penale. Si riconosce cioè che l’eventuale divario fra il tempo delle indagini preliminari, condotte sulla base di quella che è pur sempre una ipotesi accusatoria, e le ordinate cadenze della verifica dei fatti e delle prove nel contraddittorio fra le parti nel giudizio non può mai risolversi in una lesione, soprattutto di tipo mediatico, delle garanzie e del rispetto del diritto dell’imputato a non essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva. Sicché si stabilisce che non sono consentite dichiarazioni delle autorità pubbliche o di polizia sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale, conferenze stampa e comunicati dell’organo dell’accusa relativi alle indagini in corso, contenuti di decisioni diverse da quelle sulla colpevolezza che, nelle informazioni offerte ai media, presentino l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata, fatto salvo il diritto a tutela della libertà di stampa e dei media. La Corte Edu avverte che neppure la rilevanza pubblica del caso può azzerare la tutela della vita privata degli individui e che, nell’ipotesi d’illegittima pubblicazione di informazioni, sussiste un preciso obbligo dello Stato di adottare misure per prevenirne il rischio e di condurre efficaci investigazioni per rimediare alla violazione di siffatti doveri. Forse la portata delle indicazioni europee, in questi termini, non era ancora stata compresa... La sterilizzazione o almeno la mitigazione dei deprecabili episodi di illegittima diffusione di dati lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona, con la puntuale repressione di eventuali violazioni della relativa garanzia, potrebbe - a mio avviso - contribuire, seppure in tempi non brevi, a un più responsabile e critico approccio sia dei media che dell’opinione pubblica alle gravi distorsioni causate dal fenomeno del cosiddetto populismo giudiziario. Uno snodo decisivo sarà la riforma del Csm. C’è il rischio però che gran parte della dialettica si consumi sul sistema per eleggere i togati... Quella che in altre occasioni ho definito “la stagione delle riforme” annovera anche il progetto governativo di riforma del Csm, la cui bozza è stata elaborata dalla Commissione Luciani e che sarà presto portato all’esame del Parlamento. Mi limito a svolgere qualche osservazione di merito, che nasce dall’esperienza vissuta di componente, nel tempo, dei vari organi di governo autonomo della magistratura, dicendo fin d’ora che condivido la radicale esclusione di ogni ipotesi, pur temperata, di sorteggio per l’elezione dei componenti togati: una scelta, questa, che sarebbe non solo lesiva della lettera e dello spirito della norma costituzionale ma verrebbe letta come ingiustamente punitiva e degradante per una istituzione di rilievo costituzionale. La complessità organizzativa della macchina della giustizia esigerebbe innanzitutto che il Csm, espressione più alta del governo autonomo della magistratura, cedesse sostanziose quote di sovranità decisoria ai Consigli giudiziari, organi distrettuali, ai quali sono viceversa attribuiti poteri prevalentemente di tipo istruttorio e consultivo, riservandosi in talune materie (penso, ad esempio, alle valutazioni di professionalità o ad altre competenze di minor rilievo quali le incompatibilità o gli incarichi extragiudiziari) solo un più snello e agile potere regolatorio, di coordinamento e controllo. Dovrebbe poi ispirare le sue deliberazioni, oltre che ai criteri virtuosi della chiarezza e della sintesi, oggi palesemente disattesi (basta leggere le chilometriche circolari!), a una ragionevole e responsabile flessibilità delle regole predeterminate. E ciò sulla base di valutazioni e decisioni assistite dal rigore e dalla trasparenza delle relative giustificazioni di merito, valorizzando la duplice garanzia della motivazione e dell’eventuale sindacato impugnatorio, anziché l’ossequio formale a rigidi e burocratici automatismi. L’autorevolezza del Csm sarebbe inoltre più efficacemente assicurata da una più larga presenza di giovani giuristi, anziché di magistrati di carriera, in qualità di assistenti dell’ufficio studi e delle segreterie delle diverse Commissioni. Avvocati nei Consigli giudiziari: il tabù resiste? Quanto ai Consigli giudiziari, ritengo che il paventato rischio di un governo autoreferenziale e corporativo dello statuto professionale dei magistrati potrebbe essere precluso dalla presenza attiva dei componenti laici - avvocati e professori universitari - a ogni genere di discussione e deliberazione. A prescindere dal riconoscimento di una maggiore o minore ampiezza del cosiddetto diritto di tribuna (che brutto termine!) e alla luce dell’esperienza vissuta, ho sempre considerato l’asimmetria della disciplina dei Consigli giudiziari ‘a composizione ristretta’ ingiustificata, se non addirittura mortificante per l’Avvocatura e per l’Accademia. L’indipendenza di giudizio, la correttezza dei comportamenti e la serietà dei contributi offerti dagli avvocati e dai professori, nella ricerca della soluzione più equilibrata in tema di valutazioni di professionalità, conferimento o conferma di incarichi direttivi o semi-direttivi, incompatibilità, incarichi extragiudiziari ecc. dovrebbe, di volta in volta, essere misurata sul campo e non in base ad astratte e immature logiche di tipo pregiudiziale. Sarebbe questo un passo avanti e un segnale di fiducia per il consolidamento dell’efficacia, del buon andamento e della credibilità del complessivo sistema giudiziario, in grado di sdrammatizzare conflitti ormai antistorici fra magistrati e avvocati. Questi anni sono segnati anche dalla sproporzione fra le troppo diffuse distorsioni dell’autogoverno e del correntismo e la limitata efficacia delle risposte... Con riguardo al sistema disciplinare, credo che sia giunto il momento di immaginare la costruzione di una diversa architettura (anche costituzionale) del relativo procedimento, che parta dalla proposta avanzata già da alcuni anni da Luciano Violante, da me condivisa nei suoi aspetti essenziali: istituire cioè un’Alta Corte di giustizia, esterna agli organi di governo autonomo di ogni magistratura, alla quale attribuire la giurisdizione disciplinare (compreso il relativo potere d’inchiesta, oggi affidato al vertice dell’ufficio del pubblico ministero) su tutti i magistrati italiani. Una sorta di Authority composta da un adeguato numero di membri, eletti - come per la Corte costituzionale - per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo da tutte le magistrature (ordinaria, amministrativa, contabile, tributaria, militare). Per un verso, non si vede la ragione di una diversità di regolamentazione sostanziale e procedurale del tessuto deontologico dei doveri, delle violazioni e delle sanzioni disciplinari per tutti coloro che svolgono comunque un’attività giurisdizionale. Per altro verso, la sicura terzietà espressa, nella sua composizione, da tale organo garantirebbe i cittadini e gli stessi incolpati da ogni apparenza di corporativismo da parte della categoria di appartenenza. La giustizia e la divisione delle carriere di Massimo Krogh Corriere della Sera, 4 ottobre 2021 Politica e giustizia sono temi che sollecitano gli umori in direzione del concetto di legalità, avvertito come un traguardo ambìto ma tutt’altro che raggiunto nelle tante ingiustizie che dividono il Paese. Fra l’altro, è naturale chiedersi se possa considerarsi giustizia la lentezza dei processi che ci affligge. Nel campo civile, può dirsi giusta una sentenza pronunziata dopo una decina d’anni? Ciò è quanto avviene nella materia successoria, dove si dà tempo agli eredi in lite di morire per modo che a loro volta diano spazio a una nuova causa fra gli eredi che arrivano. E che dire del penale! Può ritenersi giustizia mantenere sotto processo per anni una persona per “atto dovuto”, come si dice, per assolverla poi, magari per prescrizione, dopo un calvario penoso e distruttivo? Da noi, forse unici al mondo, c’è l’obbligo di esercizio dell’azione penale, inoltre rinforzato dal reato di depistaggio. Insomma, una corsa al processo quasi che fosse fonte di benessere piuttosto che una rovina per il Paese. Pare che siamo fuori della logica. In effetti, bisogna prendere atto del vuoto che la politica ha creato trasferendo le proprie ansie d’idealità nella giustizia penale, intravista illusoriamente come un miraggio di moralizzazione, con l’effetto imprevedibile ma inesorabile di assimilare lo Stato di diritto a uno Stato di diritto penale. Non va dimenticato che il dilemma politica-giustizia non è esclusivo dei palazzi di giustizia. La giustizia non deve essere intesa come un’accademia d’indiziati ma come un altissimo servizio dello Stato che esprima soprattutto chiarezza e ragionevole moderazione. E ogni potere dev’essere soggetto alla regola del bilanciamento, in modo da evitare eccessi di potere che non giovano. Difatti, può vedersi come l’eccesso di potere conferito con delega in bianco all’ufficio del pubblico ministero diviene oggi causa di disfunzioni giudiziarie che rompono il necessario equilibrio fra indagini e processo. Queste considerazioni inducono in favore della separazione delle carriere giudici-pm, anche per un adeguamento al resto del mondo occidentale, visto che siamo l’unico Paese ad avere un pubblico ministero che, nei fatti e nell’opinione pubblica, viene considerato (impropriamente) un giudice. Quelle sentenze scritte e depositate ma ferme in attesa di pubblicazione di Sergio Rizzo La Repubblica, 4 ottobre 2021 Alla Suprema Corte, sezione civile, ci sono 5.703 verdetti già compilati, controllati e firmati dal Presidente ma non possono vedere la luce perché manca il timbro che solo un “cancelliere esperto” può apporre. Cinquemila settecento tre. Dice tanto, questo numero, a proposito di come funziona, in Italia, la giustizia civile. E degli ostacoli contro cui rischiano di andare a sbattere tutti i propositi di riforma che dovrebbero permetterci di non sprecare i denari europei del Piano di ripresa e resilienza. Il numero, 5.703, compare in fondo alla tabella relativa ai procedimenti pendenti presso la Suprema Corte elaborata dall’ufficio statistico della Cassazione. Dove c’è scritto che al 31 agosto scorso i procedimenti civili ancora pendenti nel terzo e ultimo grado di giudizio erano 118.761. Cifra decisamente esigua, in confronto al gigantesco arretrato di tutti i processi in materia civile, che prima della pandemia superava 3 milioni e 300 mila cause. Di cui più del 30 per cento nel cassetto da almeno tre anni. Con casi ben oltre il limite del paradosso, se al Tribunale civile di Roma ci sono procedimenti aperti da decenni senza esito. Ci sarebbe addirittura un contenzioso risalente al 1959, tre anni prima che a Berlino venisse tirato su il Muro. Ma qui il problema, sia pure in qualche modo collegato alla storia dell’arretrato, è di altro genere. Perché di quei 118.761 procedimenti, quelli ancora da trattare sono 107.517. E i rimanenti 11.244? Sono già conclusi ma aspettano di venire pubblicati. Ce ne sono 2.477 “in attesa di minuta”. E poi altri 3.064 “con minuta consegnata”. Che cosa significa? Semplice: che la sentenza è scritta, ed è pronta per la revisione conclusiva prima del deposito ufficiale. Infine, ecco i famosi 5.703: quelli che non solo hanno la “minuta” scritta e consegnata, ma che quella “minuta” è stata controllata, e hanno già in calce pure la necessaria firma del presidente. Però restano anche queste in attesa di pubblicazione. E qui comincia una nuova partita. La sentenza dovrebbe infatti essere tecnicamente pubblica nel momento in cui viene depositata nella cancelleria. Ma il condizionale è d’obbligo, perché dopo il deposito c’è un passaggio ulteriore, ossia quello della pubblicazione. Un passaggio in teoria automatico, ma siccome anche la burocrazia richiede il suo pedaggio, non è affatto automatico. La pubblicazione di una sentenza già scritta, firmata e depositata non rappresenta intuitivamente un compito di eccessiva responsabilità, né di impegno particolarmente gravoso. Nel corso degli anni è stata invece caricata di significato dalle burocrazie ministeriali, al punto che si è deciso di affidare l’espletamento di questa mansione non a un dipendente qualsiasi, bensì a una figura amministrativa con un ruolo specifico, quello di “cancelliere esperto”. Cioè una figura gerarchicamente superiore al normale cancelliere, per ragioni che hanno a che fare esclusivamente con la necessità di avere ulteriori stratificazioni burocratiche. Il risultato è la formazione di un singolare trenino di sentenze già depositate, e quindi pubbliche ma non ancora pubbliche del tutto perché manca un timbro, che restano nel limbo alimentando così anche in modo incomprensibile le statistiche dell’arretrato giudiziario. Sorprendente. Ancor più sorprendente, tuttavia, è il fatto che essendo perfettamente a conoscenza di questa assurdità, nessuno al ministero della Giustizia per anni si sia posto il problema di mettervi fine con un semplice atto amministrativo, non una grande riforma. Una circolare di poche righe basterebbe a eliminare del 5 per cento circa l’arretrato finto della Cassazione civile. Questa vicenda apparentemente marginale nel contesto dei gravi e annosi problemi della giustizia civile rende però evidente quanto il sistema sia pesantemente condizionato da dettagli burocratici spesso inutili e incomprensibili che non c’entrano nulla con l’esercizio della funzione giudiziaria. Si tratta della sindrome del “carrello”, per usare un termine che abbiamo sentito citare a fine settembre a Insolvenzfest, la manifestazione annuale che si tiene a Bologna per ragionare sulle crisi d’impresa e i problemi della giustizia, dal procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il carrello è lo strumento che serve a trasportare i fascicoli processuali da un posto all’altro del Tribunale. E il suo viaggio, spesso, ha una durata infinita. Al Tribunale penale di Roma, ad esempio, per coprire la distanza che lo separa dalla Corte d’Appello, quantificabile in una cinquantina di metri, impiega anche nove mesi. Alla impressionante velocità di sette millimetri l’ora. Da che cosa dipende? Dai meccanismi della burocrazia interna, che riguardano l’intero sistema: dai bizantinismi procedurali alle carenze di personale amministrativo. Mancano anche coloro che dovrebbero spingerlo quel carrello, nonostante le statistiche dicano che la spesa del nostro Paese per i Tribunali sarebbe addirittura in linea con la media europea. Il carrello si presenta forse come uno dei problemi più rilevanti, adesso che per tagliare i tempi dei processi e l’enorme arretrato si è scelta la strada dell’improcedibilità in appello dopo due anni per la stragrande maggioranza dei reati. Perché quei cinquanta metri percorsi all’andatura di sette millimetri l’ora rischiano di far evaporare tanti giudizi di secondo grado che non si riesce neppure a immaginare, mangiandosi già quasi metà del tempo a disposizione per il processo d’appello. E non è assurdo immaginare che la conseguenza possa essere quella di far accelerare l’evaporazione di molti procedimenti per reati ambientali, di bancarotta e contro la pubblica amministrazione, che in questo Paese avremmo invece necessità di colpire con prontezza e severità. La dimensione del fenomeno, che si riflette in maniera pesante anche su piaghe endemiche italiane, come la massiccia evasione fiscale e contributiva, è anch’essa in numeri sconcertanti. Basta dire che tutte le procedure fallimentari in corso cumulano debiti già certificati verso l’Erario, sia riguardo a imposte non pagate che a contributi previdenziali non versati, per una somma di poco inferiore ai 162 miliardi di euro. Il doppio rispetto ai debiti dovuti ai fornitori delle imprese fallite: non tutte, ovviamente, a causa di crisi aziendali cristalline. Il bello è che di una tale cifra si riesce a recuperare appena l’1,64 per cento: vale a dire poco più di 2 miliardi e mezzo su 162. Il resto l’hanno già tristemente pagato i contribuenti. Un Garante per collaboratori di giustizia, testimoni e whistleblowing di Vincenzo Musacchio huffingtonpost.it, 4 ottobre 2021 La lotta alle nuove mafie non può prescindere da chi è interno alle organizzazioni e ne conosce meccanismi e segreti. Partendo dal presupposto che la lotta alle nuove mafie e alle sue continue evoluzioni criminali non può prescindere da chi è interno alla criminalità organizzata e ne conosce meccanismi e segreti, il 24 settembre del 2021 ho depositato presso la Commissione Giuridica del Parlamento europeo presieduta da Adrian Vazquez Lazara un progetto embrionale per l’istituzione di un Garante nazionale per la tutela dei collaboratori di giustizia, dei testimoni e dei whistleblowing adattabile ai vari Stati membri. Ho ricevuto a breve giro di posta il suo pieno apprezzamento all’idea e appena possibile approfondirò il tema in sede europea. Depositerò a breve lo stesso progetto in Italia presso la Commissione Parlamentare Antimafia al suo presidente Nicola Morra. Senza i collaboratori di giustizia colpire al cuore la criminalità organizzata è impossibile. Giovanni Falcone riconobbe, in più occasioni, che senza Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino-Mannoia non avremmo mai potuto avere il Maxiprocesso di Palermo che segnò per la prima volta nella storia di “Cosa Nostra” la fine del mito d’invincibilità della mafia siciliana. Il Garante nel mio progetto sarà un’Autorità di garanzia, collegiale e indipendente, non giurisdizionale, con la funzione di vigilare su tutte le attività che interessino direttamente collaboratori, testimoni, whistleblowing e loro familiari, con potere d’intervento su tutte le criticità di carattere generale o su questioni che richiedono un’immediata risolvibilità. Dovrà essere una figura di garanzia di chi collabora con la giustizia con il compito di aprire un dialogo costruttivo con tutte le amministrazioni interessate sollecitando o proponendo interventi di carattere amministrativo o politico che consentano di risolvere i problemi riscontrati nella realtà quotidiana. Accerterà violazioni alle norme che regolano la materia, verificherà la fondatezza delle istanze e dei reclami a lui proposti, invierà raccomandazioni per risolvere criticità o irregolarità. Il progetto di legge prevede che il Garante attui un monitoraggio degli enti che si occupano dei collaboratori di giustizia, dei testimoni e dei whistleblowing. Intratterrà rapporti con le relative Amministrazioni, in particolare con le Direzioni Distrettuali antimafia, i Tribunali e le Procure della Repubblica e le magistrature competenti nonché con enti e istituzioni nell’ambito di competenza. Dovrà incidere su alcuni punti critici quali ad esempio il monitoraggio e visita dei Servizi ospedalieri e di diagnosi e cura (Spdc), la visita di strutture sanitarie, socio-sanitarie e assistenziali. Dovrà curare i rapporti con le Autorità istituzionali, curare la fase istruttoria dei reclami e redigere relazione annuale al Parlamento, attraverso la raccolta del materiale predisposto dalle unità organizzative territoriali. Tra i poteri propri del Garante anche quello di vigilare affinché siano rispettati i diritti dei collaboratori di giustizia, dei testimoni e dei whistleblowing in conformità alle convenzioni europee e internazionali ratificate dall’Italia. Per esercitare le sue funzioni, potrà visitare senza restrizioni e senza necessità di autorizzazione, se non quelle riguardanti la sicurezza e alla segretezza, qualunque locale adibito o comunque funzionale alle esigenze dei soggetti da lui tutelati e le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a protezione, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a protezione. Dovrà essere previsto lo stanziamento di una cifra di bilancio destinata al funzionamento del Garante, per le spese concernenti le indennità di funzionamento e per il rimborso delle spese di missione. Allo scopo di prevenire abusi o inadempienze del contratto di protezione si prevede l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nei luoghi in cui le persone protette sono collocate. Oltre a quelle indicate nel provvedimento di legge istitutivo del Garante sono oggetto di monitoraggio e indagine del meccanismo nazionale di prevenzione le strutture di reclusione volontaria quali le comunità terapeutiche o le case per anziani, i luoghi di detenzione domiciliare e d’interrogatorio delle autorità inquirenti. Come organismo nazionale il Garante assicurerà la collaborazione di tutti i soggetti che, a qualsiasi titolo, vi cooperano per il raggiungimento degli obiettivi della propria funzione. In particolare, spetterà al Garante nazionale coordinare la rete dei garanti regionali promuovendone in primis il consolidamento istituzionale mediante il riconoscimento di adeguate garanzie d’indipendenza e autonomia rispetto ai governi locali di cui sono espressione. Il Garante monitorerà le procedure di ammissione al piano di protezione. Sarà necessario un provvedimento legislativo che dovrà istituire presso il Ministero dell’Interno o della Giustizia il “Garante nazionale dei diritti dei collaboratori di giustizia, dei testimoni e dei whistleblowing”, così da rispettare anche gli obblighi discendenti dalla ratifica di eventuali provvedimenti dell’Unione europea. Rispetto ai Garanti regionali, il nuovo organismo, nominato con decreto del Capo dello Stato e su parere delle commissioni parlamentari, si caratterizzerà per l’uniformità delle garanzie a tutela dei suddetti soggetti estese all’intero territorio nazionale. Il legislatore dovrà disegnare una figura istituzionale indipendente e non un ufficio ministeriale dotato di autonomia. Sarà comunque cruciale la sistematicità dei controlli sulle modalità di esecuzione del programma di protezione per verificare il rispetto dei diritti e della dignità della persona e dei suoi familiari. Strumenti chiave sono visite e monitoraggi senza necessità di alcuna autorizzazione. Nel caso di flagrante violazione il Garante deve informare l’autorità competente perché provveda immediatamente a fermare la violazione in atto. La nuova istituzione merita particolare attenzione e sostegno: nonostante sia priva di poteri diretti d’intervento e armata di meri rilievi e raccomandazioni, la sua autorevolezza e imparzialità potrebbero avere effetti dirompenti sul clima opaco di omertà, prevaricazioni, violenze fisiche e psichiche che, nei luoghi di dimora, è alimentato da chi sfrutta lo stato di soggezione e vulnerabilità delle persone sottoposte a protezione. È prevista la massima trasparenza dell’operato del Garante, tenuto a pubblicare sul proprio sito l’esito di visite e monitoraggi e il rapporto annuale sui risultati dell’azione svolta, da trasmettere innanzitutto al Presidente della Repubblica che l’ha nominato. Se allo Stato chi collabora con la giustizia torna utile (e lo è), perché consente di conseguire ottimi risultati giudiziari, proprio per questo, uno Stato che vuole realmente combattere le mafie, deve offrire loro giusta tutela con nuove misure previste da una legge ad hoc, eliminando le criticità che fisiologicamente caratterizzano la loro vita e quella dei loro familiari. Il Garante può essere un ottimo organismo per perfezionare l’ambito applicativo delle leggi che riguardano i soggetti che collaborano con la giustizia. Pietro Paolo Melis, storia di un innocente al quale la giustizia ha rubato 18 anni di Simona Musco Il Dubbio, 4 ottobre 2021 Arrestato nel 1997 e condannato sulla base di prove inesistenti a 30 anni di carcere per il sequestro dell’imprenditrice Licheri, verrà scagionato solo nel 2015. È la storia di due vite rubate. Una, quella di Vanna Licheri, perduta per sempre, risucchiata da un buco nero. L’altra, quella di Pietro Paolo Melis, spezzata in due, inesorabilmente. Due vite che non si sono mai incrociate e che però sono legate indissolubilmente. Pietro Paolo Melis ha trascorso 18 anni, sei mesi e cinque giorni in carcere, accusato ingiustamente di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 e mai più tornata a casa. La portano via mentre si trova a mungere il bestiame di prima mattina, nell’azienda di famiglia. Accade tutto a pochi chilometri dal centro di addestramento di Abbasanta, distaccamento super moderno e super attrezzato nel quale vengono preparati gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie anti-sequestri. Occhi vigili e pronti ad ogni evenienza che però, in quel momento, sono all’oscuro del dramma che si sta consumando a pochi passi. Un dramma doppio, capace di logorare le vite di molte persone. A quei tempi Melis è un allevatore di 38 anni della provincia di Nuoro, in procinto di crearsi una famiglia. Ma il 10 dicembre 1997 i suoi progetti cambiano bruscamente e inesorabilmente direzione. Una pattuglia dei carabinieri lo aspetta sul ciglio della strada mentre fa ritorno a casa, lo ferma e gli punta il mitra contro. Pietro non sa che aspettarsi, ma è tranquillo. I carabinieri lo arrestano alle porte del suo paese, Mamoiada (Nuoro): in mano, oltre al mitra, i militari hanno un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Cagliari. Lo cercano per sequestro di persona, ma questo Pietro lo immagina già, perché per la scomparsa di Licheri - che manca da casa già da due anni e mezzo - ha già ricevuto un avviso di garanzia. In quei due anni e mezzo più volte i quattro figli della donna si dicono disponibili a pagare il riscatto, ma la legge non glielo permette. I beni sono congelati, non possono muovere un dito. Devono solo sperare che la macchina della Giustizia non si ingolfi e riporti a casa la loro madre e che i suoi carcerieri ne abbiano pietà. Speranza che si rivelerà vana. Melis non ha idea di chi sia quella donna. Mai vista, mai sentita, dice ai carabinieri. E quindi li segue tranquillo, sicuro che l’innocenza sia un biglietto da visita più che valido per non finire in cella. Sbaglia. Insieme a lui in carcere ci finiscono pure Giovanni Gaddone - che poi si scoprirà essere un ‘emissario’ dei sequestri - Sebastiano Gaddone, Tonino Congiu - gli ultimi due ritenuti i custodi della donna - e Salvatore Carta. Ma vengono condannate solo due persone: Pietro Paolo Melis e Giovanni Gaddone. È il 1997 quando arriva la sentenza di primo grado. Melis, che in aula spiega che la sua famiglia è stata vittima dei sequestri e, dunque, non potrebbe mai macchiarsi di tale crimine, si becca 30 anni di carcere sulla base di alcune intercettazioni telefoniche, nelle quali gli inquirenti riconoscono la sua voce: è lui, per la procura, l’uomo che discute con Gaddone dei particolari organizzativi per la prigionia dell’imprenditrice. Lui, in aula, lo dice più volte: quella voce non è la mia. Ma non serve a nulla se non può dimostrarlo. Il 13 dicembre 1999 la sentenza diventa definitiva: dovrà passare 30 anni in cella. Pietro è distrutto, piange, non sa spiegarsi cosa gli sia accaduto. Sa solo che è innocente. Prova a sopravvivere in carcere, a prendersi cura del suo corpo ma anche della sua mente, studiando e diplomandosi all’istituto artistico in carcere. Sa che rassegnarsi e limitarsi a contare i giorni è il modo sicuro per morire. Per impazzire e farsi del male, come in tanti, intorno a lui, fanno. Insieme a tre compagni detenuti vince un concorso, con un progetto sulle fontane di Spoleto. Il primo premio sono sette ore di libertà. Gli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci però non vogliono rinunciare. Provano a scagionarlo, chiedendo una revisione del processo che nel 2012 viene respinta dalla Corte d’Appello di Roma. Lì gli avvocati hanno chiesto nuove analisi su quella telefonata, ma per i giudici la perizia fonica su cui si basa la condanna dell’allevatore sardo non può essere messa in discussione dalle nuove tecnologie. “L’elemento indiziario, rappresentato, secondo la perizia, dalla riferibilità alla persona del Melis della voce intercettata nella conversazione con il Gaddone - scrivono i giudici non è stato considerato, in sé e per sé, fattore decisivo per l’affermazione della responsabilità, ma è stato dal giudice ritenuto dato utilizzabile per la formazione del suo convincimento una volta che, dopo averlo associato, in un processo di intreccio e concatenamento agli altri elementi di eguale valenza è giunto a ritenere che fosse proprio Pietro Paolo Melis il mamoiadino delle intercettazioni ambientali, non senza puntualizzare che il Melis non ha in alcun modo contestato con i motivi del gravame la ricostruzione operata dal primo giudice a riguardo del ruolo avuto, nel sequestro Licheri, dal mamoiadino delle intercettazioni suddette, essendosi limitato a sostenere di non essere lui l’interlocutore del Gaddone”. Insomma, non ha urlato a sufficienza la sua innocenza. Gli avvocati, però, non si arrendono: fanno ricorso in Cassazione, dove i giudici annullano la decisione presa a Roma spedendo gli atti a Perugia. Anche lì i giudici dicono di no e così tocca fare un altro ricorso in Cassazione prima di trovare un giudice a Perugia. Toccherà fare un nuovo processo, questa volta, però, con la speranza che quell’innocenza possa essere finalmente dimostrata. Il processo di revisione parte e arriva la certezza: la voce in quella registrazione, la prova chiave dell’accusa contro Melis, non è sua. Ma non si tratta solo di questo: quella persona, chiunque essa sia, non è nemmeno originaria di Mamoiada, come lo è Pietro. L’accento lo dice chiaramente: è qualcuno che viene da un’altra parte. Qualcuno che non verrà mai identificato. E il 15 luglio 2016, sono passati due anni e quattro mesi dalla riapertura del processo. La corte d’Appello di Perugia dà ragione, dopo 18 anni, a quell’uomo, che intanto ha perso tutto: Pietro Paolo Melis non ha commesso il fatto, può tornare libero. “Il mio antidoto in tutti questi anni è stato la speranza - ha raccontato dopo la scarcerazione in un’intervista a Panorama -. Sapevo di essere innocente. In carcere, prima a Spoleto e poi a Nuoro, ho avuto solo qualche permesso per far visita ai miei genitori. Mio padre è morto mentre ero dietro le sbarre, mia madre ottantacinquenne mi ha rivisto pochi giorni dopo essere uscito di prigione e non credeva ai suoi occhi. Non ho voluto un pranzo o una festa, non ho nulla da festeggiare. Mi hanno rovinato per sempre. Al momento dell’arresto avevo 38 anni, oggi 56. Avevo una compagna, volevo costruirmi una famiglia, lei ha resistito otto anni poi mi ha lasciato. Non l’ho neanche sentita dopo la mia liberazione, non so se si sia sposata. Con una sola visita a settimana puoi resistere qualche anno, poi i sentimenti si raffreddano, è inevitabile”. Compensazione delle spese tra imputato assolto e parte civile: solo per ragioni eccezionali di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2021 La regola della soccombenza non può essere superata per la complessità della questione o la moltitudine degli imputati. Se ricorrono giustificati motivi, che siano gravi ed eccezionali, il giudice può compensare le spese in caso di assoluzione dell’imputato o di rigetto della domanda della parte civile. Come spiega la Cassazione, con la sentenza n. 35931/2021, non è sufficiente che il giudice faccia rilevare la complessità della vicenda o la pluralità di imputati che non hanno permesso di porre una domanda “mirata” di parte civile. Così come non può avere rilevanza l’affermazione del giudice che sottolinea come l’assoluzione sia dipesa dal difetto di prova dell’elemento psicologico dell’imputato, cioè il mancato accertamento della sua consapevolezza. Proprio nel caso concreto era stata utilizzata tale formula che ora la Cassazione boccia. La norma al centro del ricorso e del giudizio della Cassazione è quella dell’articolo 541 del Codice di procedura penale che consente solo come eccezione la compensazione delle spese di lite tra le parti, in caso di assoluzione dell’imputato o di respingimento della domanda di risarcimento della parte civile. La norma parla esattamente di giustificati motivi e la Cassazione precisa che essi devono essere gravi ed eccezionali e ovviamente esplicitati dal giudicante. In particolare la Cassazione non considera legittimamente motivata la sentenza di assoluzione del ricorrente che ha previsto la compensazione delle spese sul rilievo della complessità della scena processuale. La Cassazione ripercorre, con intento chiarificatore, quanto stabilito in ambito civile dove il Legislatore aveva cercato di tipizzare in sole tre ipotesi i casi di superamento della regola della soccombenza per aprire la via alla compensazione delle spese: la reciproca soccombenza, la novità assoluta della questione trattata o il mutamento significativo di giurisprudenza e quest’ultimo non è identificabile nel caso di incertezza sull’orientamento giurisprudenziale applicabile. Sempre la Cassazione fa rilevare che la norma “tipizzante” è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale proprio dove non consentiva un apprezzamento di fatto del giudice al fine di poter statuire la compensazione per altre analoghe “gravi ed eccezionali ragioni”. E concludono i giudici di legittimità che da tale orientamento tracciato in ambito civilistico non c’è ragione di discostarsi quando si tratta della parte civile nel processo penale. In conclusione la Cassazione rinvia per la seconda volta la questione al giudice di merito affinché espliciti - nel caso concreto - il ricorrere di tale ragioni gravi ed eccezionali. Roma. A Rebibbia la redenzione sociale passa per la sartoria di Enrico Maria Albamonte La Repubblica, 4 ottobre 2021 Sette detenuti hanno sfilato mostrando le proprie creazioni al ministro della Giustizia Cartabia. Uno di loro lavorerà per l’atelier di Ilario Piscioneri. La sartoria, forza trainante del Made in Italy, può essere anche strumento di riscatto sociale. Questo il messaggio di sostenibilità e inclusione lanciato nella capitale dall’Accademia nazionale dei Sartori con l’evento moda “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme” svoltosi a Roma in concomitanza con l’ultima fashion week milanese. Davanti al ministro della Giustizia Marta Cartabia, sette detenuti di Rebibbia hanno sfilato in passerella sfoggiando le loro 25 creazioni, per lo più giacche mimetiche, gilet e blazer doppiopetto, frutto dei quattro anni di corso nella scuola romana e di un progetto di recupero nel consorzio civile promosso dai vertici del carcere romano, da BMW Italia e dall’Accademia dei Sartori. L’ente fondato nel 1575 a Roma per volontà di papa Gregorio XIII, oggi promuove la cultura della sartoria come faro di stile, eccellenza e bellezza, fulcro dell’apostolato di Gaetano Aloisio, attualmente alla guida dell’accademia impegnata a proiettare un settore apparentemente di nicchia in una dimensione digitale e globale. L’Accademia ha sviluppato un’iniziativa di elevato impatto sociale con l’istituto penitenziario di Rebibbia proprio per dare visibilità al lavoro compiuto dai ragazzi dietro le sbarre, valorizzandone la voglia di rinascere. Dice Sebastiano Di Rienzo, ex primo tagliatore di Valentino Garavani, segretario ed ex presidente dell’Accademia e soprattutto responsabile della formazione dei detenuti: “Con i ragazzi di Rebibbia ho instaurato un rapporto umano che trascende un mero corso di taglio, perché la sartoria è una scuola di vita. Dovevo fare solo quattro lezioni, poi sono rimasto tutto l’anno con loro perché mi hanno conquistato”. E aggiunge: “Sono orgoglioso dei miei sette allievi e soprattutto di Manuel Zumpano, un vero talento premiato direttamente dalla ministra Cartabia che sarà assunto dalla sartoria Ilario Piscioneri, ideatrice nel 2017 del progetto made in Rebibbia, un bel traguardo per noi e per loro”. A Zumpano inoltre è stata data la possibilità di uscire dal penitenziario senza scorta per lavorare in atelier e acquisire così un mestiere. Dopo un anno di apprendistato il detenuto, una volta scontata la pena, potrà essere assunto dalla sartoria Piscioneri scommettendo sul suo futuro. Qualche giorno prima dell’evento a Rebibbia, nella sontuosa cornice del Casinò dell’Aurora, la storica accademia romana ha svelato le prodezze manuali degli allievi sarti e dei membri storici dell’ente come Gaetano Aloisio e Doriano Pergolari, assegnando il premio ‘forbici d’oro’ alle nuove leve del tailoring nazionale. Fra il pubblico anche l’erede della sartoria Cifonelli e il talentuoso artista pop Marck Art ribattezzato ‘pittore degli angeli’. Giuseppe Pinu, finalista delle Forbici d’oro 2021, al timone dell’atelier di famiglia a Nuoro, ha così commentato Made in Rebibbia: “Oltre a essere la spina dorsale dell’Italian Style, la sartoria ha una missione etica perché aggrega le persone e le educa a sentirsi meglio trasformando difetti fisici in pregi, per spronarci a superare i momenti bui nel segno della bellezza e della sostenibilità sociale”. Torino. Presentato il progetto “Liberi di Imparare” aronanelweb.it, 4 ottobre 2021 Sabato 2 ottobre l’amministrazione comunale di Arona e i referenti di Unpli Piemonte hanno incontrato i rappresentanti del Museo Egizio, in occasione della recente apertura della mostra “Liberi di Imparare”. Frutto della collaborazione iniziata nel 2018 tra il Museo Egizio, la Direzione della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” e l’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, la mostra “Liberi di Imparare” espone le copie di alcuni reperti dell’antico Egitto, riprodotte fedelmente dai detenuti delle sezioni scolastiche della Casa Circondariale dell’Istituto tecnico “Plana” e del Primo Liceo Artistico, tra cui la Cappella di Maia, gli affreschi della tomba di Iti e Neferu, i ritratti del Fayyum, l’ostrakon della ballerina. L’incontro è stata l’occasione per ascoltare la genesi del progetto e della collaborazione tra Unpli Piemonte e Museo Egizio. L’esposizione di Arona, che si chiude il 17 ottobre e rappresenta la prima tappa di un tour, ideato in collaborazione con Unpli Piemonte, comitato regionale dell’Unione nazionale pro loco d’Italia, con il patrocinio della Regione Piemonte, che porterà le opere dei detenuti in tutte le province piemontesi, grazie all’ospitalità delle Pro Loco. “Le Pro Loco Piemontesi sono per loro natura portatrici di cultura, sentinelle del patrimonio immateriale, operatrici di promozione del turismo, curatrici del patrimonio storico e naturale dei propri borghi - ricorda Fabrizio Ricciardi, presidente Unpli Piemonte - la collaborazione con il Museo Egizio ci riempie di orgoglio, perché riconosce il nostro ruolo sul territorio e unisce la regione intorno a un bene culturale piemontese famoso nel mondo. Siamo orgogliosi e felici di questa collaborazione”. La lezione di Turati. Nessuno sa nulla delle carceri: “I cimiteri dei vivi” Il Dubbio, 4 ottobre 2021 La casa editrice Il Papavero ha ripubblicato “I cimiteri dei vivi” di Filippo Turati (Prefazione di Stefania Craxi, introduzione di Giuseppe Gargani). Pubblichiamo di seguito un estratto della postfazione a cura del magistrato Giuseppe Cricenti, Consigliere di Cassazione. Filippo Turati trascorse un relativamente lungo periodo in carcere. La sua indignazione per l’inefficienza e la violenza del sistema carcerario del suo tempo in gran parte deriva dalla esperienza fatta in quel luogo, ed infatti egli è il primo a denunciare che l’indifferenza verso quel sistema è basata sulla inesperienza dei fatti, ‘perché nessuno ne sa nulla, perché non vi è comunicazione alcuna tra il nostro mondo e quei cimiteri di vivi che sono le carceri’. Così che l’insensibilità dei più, anche del se del ceto intellettuale e degli stessi rappresentanti politici, deriva dalla ignoranza di quel mondo: ‘provatevi a vivere là dentro e poi sappiatemi dire se tutto non vi è da riformare’. Più tardi, nel 1948, sarà Calamandrei a ribadire questa ragione: “in Italia il pubblico non sa abbastanza - e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di sperimentare la prigionia, non sanno - che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. Sia Turati, prima, che Calamandrei poi, propongono di conseguenza l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, un modo per far luce su una realtà altrimenti ignota agli stessi rappresentanti politici. Essi ritengono che sapere di più su quel mondo può servire a cambiarlo in meglio: entrambi invitano i rispettivi ministri del tempo, a fare visita per averne migliore idea. Sembrano tempi lontani, ed in un certo senso lo sono, ma chi per l’appunto, abbia oggi una qualche idea del sistema carcerario italiano, sa che quasi nulla è cambiato da allora. Anche oggi il carcere è un ambiente del tutto ignoto agli italiani ed è questa condizione che alimenta l’atteggiamento, che sembra insuperabile, di populismo che si registra verso i problemi dei detenuti, e la istituzione carceraria nel suo complesso. Ma non è solo questo. L’analisi di Turati individua storture del sistema carcerario che, non solo permangono oggi, ma sembrano essere, perciò stesso, strutturali, e dunque costitutive del sistema in sè. Intanto, il fallimento della funzione rieducativa: ‘tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato di provvedere alla redenzione del colpevole, garantendo al tempo stesso la sicurezza pubblica contro le recidive, tutto questo è lasciato completamente da parte, è rimasto lettera morta’. Poi, la solitudine dei reclusi, le poche occasioni che essi hanno di comunicare non solo con l’esterno ma con gli stessi organi di gestione del carcere, le condizioni delle strutture e dei luoghi di reclusione, la spietata violenza delle guardie. Tutte queste cose, anche se non sommate, ma singolarmente prese, testimoniano il fallimento di una istituzione in sé e per sé, e non solo in un dato momento storico. V’è allora da chiedersi, prima di ogni altra riflessione, perché il carcere, che pure ha fallito in pressoché ogni suo scopo, ancora oggi è di fatto l’unica risposta al reato che la società moderna sappia esprimere: per quale motivo, pur non riuscendo a soddisfare le finalità che gli sono proprie, l’istituzione carceraria sopravvive, e ciò nonostante, vengano destinate ingenti risorse per farlo funzionare: ai tempi di Turati, 30 milioni, quasi la metà dell’intero bilancio. I dati attuali, ricavabili dal bilancio del Dap, e dalla Ragioneria Generale, indicano che lo Stato italiano spende complessivamente una media di 3 miliardi l’anno per il sistema carcerario, complessivamente. Il risultato di questa spesa è che, sempre secondo dati del Dap, il 68,7 % dei detenuti è recidivo: rimesso in libertà, delinque nuovamente. È dunque, una spesa se non inutile, di certo inefficiente. Viene da chiedersi, allora, perché questa istituzione non solo sopravvive, ma continua ad essere la risposta quasi esclusiva ai reati. Negli ultimi anni il legislatore ha aumentato le pene, ha in particolare aumentato il massimo edittale per molti reati, ma non per esigenze di politica criminale, ossia per rispondere con il carcere ad un maggiore allarme sociale, piuttosto per esigenze pratiche, che non si sa o non si vuole affrontare direttamente: si innalzano le pene edittali per evitare la prescrizione, anziché agire sui tempi del processo o fare direttamente una riforma della prescrizione stessa; si aumentano le pene edittali per consentire l’applicazione di misure cautelari o una loro maggiore durata; pene più elevate per consentire le intercettazioni. Una prassi scriteriata che oltre che fondare politiche del diritto penale sbagliate allontana sempre di più la possibilità di fare del carcere una risposta non esclusiva al reato, ed impedisce di ammettere un numero sempre maggiore di condannati a sistemi alternativi alla detenzione. Se si considera che dalla stessa riforma del 1975, che aveva l’intenzione di sviluppare risposte alternative al carcere, per rendere la detenzione se non eccezionale, perlomeno di minore frequenza; se si considera che da quella riforma sono passati quasi cinquanta anni senza che il sistema penitenziario abbia perso invece la sua assoluta centralità e soprattutto senza che i problemi costitutivi che abbiamo visto in precedenza siano venuti meno; se si pensa a tutto ciò, si intuisce come la gestione legislativa del sistema penitenziario abbia ceduto il posto all’intervento dei giudici, e segnatamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo: è da Strasburgo che vengono ora le indicazioni di maggiore rilievo. Nemmeno i partigiani riformarono la prigione di David Romoli Il Riformista, 4 ottobre 2021 Lo stato delle carceri in Italia non è una vergogna recente. È antica quanto l’Italia unita. Una storia costellata, nell’arco di 160 anni, da tentativi di riforma per lo più timidi, da bruschi arretramenti ed eterne fasi di stagnazione. Una parabola segnata sempre dalla dimensione di “universo a parte”, nel quale leggi e diritti non valgono, che è sempre stata propria del carcere nella storia d’Italia. “La storia delle istituzioni penitenziarie nell’Italia moderna sembra correre lungo binari dotati di una logica esclusiva e autonoma, del tutto avulsa dagli avvenimenti politici e sociali del mondo libero”, scriveva nel 1975 Guido Neppi Modona. L’universo carcerario italiano fu istituito, con cinque regi decreti successivi, in due anni, dal settembre 1860 al novembre 1862. Era una mappa variegata: c’erano i bagni penali, inizialmente dipendenti dal ministero della Marina e passati poi, nel 1865, a quello degli Interni; le carceri giudiziarie, dove erano rinchiusi i detenuti in attesa di giudizio o quelli condannati a pene lievi; le case di pena, per i condannati alla reclusione; le case di forza, per le donne; le case penali di custodia, per i giovani; le case di relegazione, per i crimini contro la sicurezza dello Stato. Regole e condizioni di detenzione diversificati ma con alcuni elementi comuni: l’isolamento notturno, il lavoro in comune durante il giorno ma con l’obbligo del silenzio. Sin dall’inizio furono istituite le commissioni di controllo, che avrebbero dovuto vigilare sullo stato delle patrie galere, e la Direzione generale delle carceri, dipendente dal ministero degli Interni, con il compito di dirigere e gestire l’intero settore. Il primo serio tentativo di riforma complessiva arrivò a cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90 del XIX secolo: un combinato tra il nuovo codice penale Zanardelli, la prima legge sull’edilizia carceraria, il nuovo ed enciclopedico Regolamento carcerario, forte di ben 891 articoli. Nell’occasione fu abolita la pena di morte, sostituita dall’ergastolo, e furono fissate le dimensioni delle celle: m 2,10 x 4 quelle normali, m. 1,40x 2,40 i cosiddetti “cubicoli”. Il regolamento prevedeva anche una dettagliata e per l’epoca decisamente moderna casistica dei vari e molto differenziati modelli di prigione che si sarebbero dovuti edificare. Il tutto rimase solo sula carta: lo stanziamento di 15 mln di lire sul quale poggiava per intero il progetto fu prima tagliato, poi abolito. Qualche cambiamento reale arrivò solo una decina d’anni più tardi, nei primi anni del XX secolo, con i decreti dell’età giolittiana che abolivano la catena al piede dei condannati ai lavori forzati e sopprimevano alcune delle sanzioni più feroci: i ferri, la camicia di forza, la detenzione nelle “celle oscure”, al buio totale. Poi, per una ventina d’anni, con la guerra di mezzo, si susseguirono solo infiniti dibattiti, denunce, ipotesi di riforma che non portarono però a nulla di fatto sino ai primi anni ‘20, quando una ventata riformista investì la Direzione generale. Si tradusse in enunciazioni di principio, per cui gli strumenti di coercizione dovevano essere privi “di ogni senso di rappresaglia o di punizione” e venir adoperati “come mezzo esclusivo di valore sanitario e non disciplinare”: il “maluso o abuso” di quegli strumenti implicava “responsabilità morali e penali”. Dal principio teorico derivavano una serie di allentamenti delle norme carcerarie, veicolati da circolari ministeriali che confluirono poi, nel febbraio 1922, in un testo di riforma che interveniva sulla disciplina interna, sui colloqui, sulla corrispondenza, sul lavoro interno. Può sembrare poca cosa ma è il primo vero tentativo di riforma penitenziaria, siglato anche dallo spostamento della gestione delle carceri dal ministero degli Interni a quello della Giustizia. Durò pochissimo. L’avvento del fascismo riportò subito indietro le lancette sino a sedimentarsi nel nuovo Regolamento, varato dal ministro Rocco nel 1931, un anno dopo la definizione del suo codice penale destinato a dettare legge sino al 1975. Rocco divise l’arcipelago penitenziario in tre grandi gruppi: gli istituti per la detenzione preventiva, quelli per le pene ordinarie e quelli per le pene straordinarie. I cardini del nuovo regolamento, che in buona misura riprendeva quelli in vigore salvo fantasie riformiste, erano la totale separazione del mondo carcerario da quello esterno, la frammentazione atomizzata della gente carceraria, la suddivisione del tempo in tre sole attività: preghiera, lavoro e istruzione. Veniva stabilito anche che il detenuto non potesse essere interpellato per nome ma solo per numero di matricola. La docilità della gente detenuta doveva essere mantenuta tramite bilanciamento di punizioni e benefici, questi ultimi consistenti essenzialmente nella “concessione” del lavoro in carcere o nel trasferimento in strutture più aperte e meno rigide. La casistica delle proibizioni e delle relative punizioni era più folta. Vietati il “contegno irrispettoso”, i reclami collettivi, ogni gioco, l’uso di parole blasfeme, il canto, il riposo in branda, la non partecipazione alle funzioni religiose più numerose altre proibizioni, a partire dal possesso di qualsiasi strumento atto a scrivere. Attività, come la lettura, considerata a massimo rischio. Era consentito solo scrivere due lettere al mese, ma non alla stessa persona. I sorveglianti assistevano ai colloqui con i parenti. I detenuti erano tenuti a indossare divise uguali, inclusa quella a righe per i condannati in via definitiva. Il regolamento Rocco è sostanzialmente rimasto in vigore fino alla riforma del 1975, frutto di un ciclo di conflitti e rivolte nelle carceri senza precedenti allora e mai più ripetuto in seguito. Il “vento del nord” partigiano non varcò infatti i muri delle patrie galere. Ci furono alcune rivolte, soprattutto a San Vittore, nell’immediato dopoguerra, la principale il 21 aprile 1946 quando un gruppo di detenuti prese 25 persone in ostaggio. Ma tra i capi della rivolta, oltre ai detenuti comuni, c’erano gli ex fascisti. Bastò e avanzò per provocare le proteste della Federazione milanese del Pci quando il questore provò a trattare con i rivoltosi. Finì con lo scontro armato e con una strage. Nel 1948 fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri, presieduta dal giurista Giovanni Persico. Lavorò due anni, dispensò suggerimenti e consigli nella relazione conclusiva. Qualcosa si mosse. I detenuti tornarono a essere chiamati per nome e cognome, come persone normali. Poterono anche togliersi la divisa e smettere di essere rasati quasi a zero, fu concesso il diritto di leggere e scrivere. Anche in questo caso si trattò uno spiraglio subito richiuso. Nel febbraio 1954, appena tre anni dopo la decisione di dar parzialmente seguito alle raccomandazioni della commissione Persico, il ministro della Giustizia De Pietro si rimangiò quasi tutto con una semplice circolare. Fino al 1960 di intervenire sulle galere non se parlò proprio. In quell’anno il guardasigilli Gonella propose una riforma, che restò al palo per 12 anni per poi finire ingloriosamente sepolta. A smuovere le cose, a partire dalla primavera 1969, furono solo le rivolte. Prigioni d’amore: fra diritto e teatro La Discussione, 4 ottobre 2021 Riempire di gente teatri e musei, abbattere le barriere fra cittadini e giustizia, sono le due mission dell’edizione 2021-2022 del Premio IusArteLibri: Il Ponte della Legalità. La madrina dell’Associazione Iusgustando, Matilde Brandi, è in prima fila al Teatro Porta Portese per il debutto romano dello spettacolo “L’Odore” di Rocco Familiari. L’avv. Antonella Sotira ideatrice del Premio e l’avv. Giuseppe Belcastro per la Camera Penale di Roma, salgono sul palco prima degli attori, per presentare al numerosissimo pubblico in sala, il percorso di counselling giuridico che sancirà una nuova alleanza fra Cultura e Giustizia. “Prigioni d’amore” consentirà ai soci giuristi, avvocati e magistrati, in sinergia con molti scrittori ed artisti, di mettere in scena, anche nei Tribunali d’Italia, spettacoli e reading, dibattiti e performance iusarte per esaminare le radici culturali della violenza endofamiliare, delle ossessioni amorose che imprigionano le vite ed infine delle barriere fra detenuti e società. L’avv. Belcastro, Responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Roma, ha ribadito l’adesione e l’impegno di ogni difensore nella difesa della dignità dei detenuti le cui voci riecheggiano nelle istanze e nelle memorie dei loro avvocati che spesso costituiscono l’unico contatto con il mondo esterno e con la speranza. Il Ponte della Legalità, costruisce ogni anno nuovi piloni su cui poggiare l’ideale arco di libri, cultura, arte e diritto, fatto da parole e gesti di uomini di buona volontà. La presidente Sotira ha ricordato che nell’anno 2022 ricorre il trentesimo anniversario dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Il Premio si concluderà a Palermo e non a Pontremoli per il Bancarella, come nelle edizioni precedenti, perché “occorre testimoniare concretamente che il martirio di Falcone e Borsellino e di tanti cittadini che hanno lottato per la legalità non è stato vano. Una cultura della Legalità cresce e produce frutti solo in una Terra dove i cittadini siedono all’ombra dei grandi alberi della Bellezza e dell’Arte”. La coraggiosa attrice e produttrice Marta Bifano, punta al talento di Ester Pantano, volto noto della serie TV Makari, premiata come “miglior attrice emergente” al Premio Ennio Fantastichini 2021, per emozionare il pubblico ed i giuristi con la storia dell’ergastolano Anton, interpretato da Blas Roca Rey che usa un perverso espediente per usare il suo compagno di cella Andrea Pittorino, come messaggero di un amore che attraversa le sbarre e restituisce speranza alla moglie. Uno spettacolo forte, con scene volutamente ristrette in un medesimo spazio teatrale per dare il senso dello stagnante ed angusto scandirsi della vita in cella e della contestualità interiore della vita che resta fuori e di quella che resta dentro. Gli applausi lunghi ed emozionati del pubblico, fra cui molti soci IusArte come gli avv. Massimiliano Bonifazi, Tommaso Marvasi e Monica Schipani, Adele de Salazar, Nicola Bua, la cantante Giò di Sarno, la conduttrice Rai Antonietta Di Vizia, lo stilista astrologo Massimo Bomba, l’antropologa Alessandra Sannella, accompagnano gli attori e rinnovano l’auspicio del Direttore del Teatro Tonino Tosto di rassegne teatrali civilmente utili, nella certezza che i grandi Valori vadano rappresentati e poi introiettati. I ragazzi smarriti nel crimine sono ostaggio dell’indifferenza di Vanessa Ricciardi Il Domani, 4 ottobre 2021 I minori rischiano di cedere alla criminalità, al bullismo, ai furti, allo spaccio e alla violenza in tutta Italia Succede soprattutto nei contesti di emarginazione e la pandemia ha peggiorato la situazione. Furto, violenza, spaccio. Bullismo e cyberbullismo. Il rischio di criminalità minorile riguarda tutto il paese e oggi è un altro dei pericoli della pandemia. Il rapporto “Giovani a rischio”, realizzato da Openpolis e dall’impresa sociale “Con i bambini”, parla dell’impatto dei comportamenti devianti sui minori prima che il Covid-19 sconvolgesse l’Italia, insieme con la didattica a distanza, la crisi economica e gli squilibri sociali. “I dati ci servono per mettere in atto la prevenzione. In una situazione deteriorata infatti i rischi aumentano e dobbiamo averne consapevolezza”, spiega Marco Rossi-Doria, presidente di Con i bambini. In tutta Italia, si legge, sono stati circa 30mila i minori denunciati nel 2019 per reati di vario genere. La maggior parte riconducibile a un contesto di povertà, un dato, quest’ultimo, che con la pandemia è andato aggravandosi: nel 2020 si parla di oltre 1 milione e mezzo di ragazzi in povertà assoluta, il 13 per cento di tutta la popolazione compresa tra 0 e 17 anni. La quota più alta dall’inizio della serie storica del 2005. Dove mancano i dati, arriva l’esperienza sul campo. “La criminalità minorile con il Covid-19 è aumentata fortemente, i territori sono controllati capillarmente dalla Camorra” racconta Barbara Pierro presidente di Chi rom e chi no, associazione che opera da vent’anni a Scampia, nella periferia nord di Napoli. L’associazione ha vinto un bando di finanziamento di Con i bambini lanciato a maggio dal titolo Cambio rotta per sostenere i ragazzi che hanno avuto problemi di criminalità ma potrebbero ottenere il perdono giudiziario. Una misura chiamata “messa alla prova”. Chi rom e chi no ha spesso accompagnato i minori in percorsi educativi ad hoc. “Facciamo dei laboratori di percezione del reato cui partecipano anche le famiglie, organizziamo cineforum e corsi di teatro. Li portiamo a far emergere il loro vissuto, senza per forza che raccontino la loro esperienza personale”. “Ci sono storie drammatiche - prosegue Pierro - il Covid-19 ha tagliato per molte famiglie anche la possibilità del lavoro nero, e la criminalità ha dato soluzioni rapide. Molti sono tornati a spacciare”. Un esempio eclatante. Già prima della pandemia, nell’ordine Campania, Sicilia e Calabria risultavano le regioni con la più elevata quota di denunce a carico dei minori per associazione criminale; nel 2019 spaccio e reati per droga costituivano già l’11,2 per cento delle denunce. I minori coinvolti, segnala il rapporto, erano sfruttati come “bassa manovalanza”. Alla povertà materiale si associa quasi sempre una povertà educativa molto forte che deriva dalle famiglie. Uno stigma, aggiunge Pierro: “Le occasioni esterne alla scuola vengono viste come unica possibilità per uscirne”. E l’età della manovalanza diminuisce sempre di più. Rossi-Doria, insegnante, esperto di politiche educative e sociali, commenta: “La criminalità organizzata è in tutta Italia, ma al sud sfrutta il combinato disposto: un’esclusione sociale prolungata nel tempo e l’orizzonte di speranza difficile da costruire”. Questo però non significa che sia una questione locale. Saranno avviati altri 16 progetti, dal Piemonte alla Sicilia. Se la criminalità vera e propria si concentra ancora in percentuali maggiori in determinate aree dell’Italia, che la devianza non sia prerogativa del sud ma interessi trasversalmente i vari contesti sociali della penisola è confermato dai dati sul bullismo: più frequente al nord, in primo luogo nelle grandi città, comunque associato, anche in questo caso, a condizioni di disagio. Più della metà dei minorenni italiani è stata vittima di bullismo almeno una volta. Secondo i dati Istat del 2014 presi in considerazione, in nord Italia il 57,3 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver subìto uno o più episodi di bullismo, contro il 49,2 per cento dei meridionali; le vittime di episodi offensivi o violenti tra coetanei sono più di quelle italiane. Non è detto che si tratti di razzismo, afferma Rossi-Doria: “Sono contro tutte le semplificazioni, faccio l’educatore da troppo tempo per poterle accettare, si deve capire caso per caso”. Un altro aspetto della devianza è quello di genere. Nel 2019, l’85,3 per cento dei giovani denunciati erano maschi. Sul fronte bullismo, invece, sono le adolescenti a essere maggiormente prese di mira da chi racconta storie e sparla, o a essere emarginate o prese in giro per le proprie opinioni. Dai dati del 2014 (gli ultimi disponibili presi in analisi), sono sempre loro quelle maggiormente prese in giro per l’aspetto fisico o i difetti di pronuncia. All’epoca non si parlava con così tanta frequenza di “body shaming” e già prima del boom di Instagram e TikTok - nato nel 2016 -, social network basati sull’immagine, 22,2 per cento delle vittime di bullismo subiva azioni di cyberbullismo. Sia sul web sia fuori, sono maggiormente colpite le ragazze: quasi il 10 per cento dichiarava di avere vissuto almeno un episodio di bullismo a settimana, contro l’8,5 per cento dei maschi. Tra i maschi, d’altro canto, oltre ai soprannomi e agli insulti, il bullismo si traduce più spesso in violenza fisica: il 5,3 per cento, si legge, riportava di essere stato colpito con spintoni, botte, calci e pugni almeno una volta al mese. Ad oggi, ricorda il report, in base ai dati del ministero della Giustizia, sono oltre 13mila i minori e i giovani adulti fino ai 25 anni in carico ai servizi di giustizia minorile. La maggior parte ha la possibilità di accedere a un percorso educativo. La posta in gioco è quella di rafforzare i legami intervenendo su almeno due fronti: preventivo e riparativo. “Dal lato della prevenzione, occorre valorizzare il ruolo della scuola e delle comunità educanti. A partire da un investimento educativo contro l’abbandono scolastico”. L’Italia infatti resta oggi tra gli stati dell’Unione europea dove l’abbandono scolastico desta maggiore preoccupazione. “Una tendenza che, a seguito dell’emergenza Covid, rischia di aggravarsi ulteriormente” prosegue il documento. Rossi-Doria tiene a specificare: “Deve essere chiaro: se sei povero non vuol dire che sarai criminale”. La strada non è segnata per nessuno, aggiunge: “I giovani sono molto migliori di quanto si creda. Nonostante la povertà colpisca un terzo di loro e siano stati costretti a casa a vivere il Covid-19, si sono comportati in maniera egregia, interessandosi di temi sociali e affrontando tutto con maturità e spirito di collaborazione”. Migranti. Spoon River Lampedusa, il cimitero dove i morti non riposano in pace di Claudia Brunetto La Repubblica, 4 ottobre 2021 Il camposanto e le sue tombe raccontano le storie di chi non ce l’ha fatta. Numeri e date oggi sono nomi e cognomi grazie all’impegno dei volontari. Dal cimitero di Lampedusa non si vede il mare. È dentro. Nei corpi di chi è morto tentando di varcare la porta di Europa. Sotto le lapidi come negli abissi del Mediterraneo scorrono storie di migranti senza nome che qualcuno, però, sta cercando di ricostruire. Nel giorno dell’ottavo anniversario della strage del 3 ottobre quando a Lampedusa scomparvero in acqua 368 persone, c’è chi coltiva la memoria dei migranti che non ce l’hanno fatta a raggiungere terra da vivi. E lo fa ogni giorno, da anni, lontano dalle commemorazioni. Per trasformare numeri e date tracciate sul cemento delle tombe in nomi, progetti per il futuro, volti. “Quando ci chiedono quanti sono i migranti seppelliti nel cimitero di Lampedusa, rispondiamo 40mila. Tutti quelli che sono morti per mare e per terra e di cui praticamente non si sa nulla”, dicono i volontari del Forum Lampedusa solidale che accompagnano i visitatori del cimitero per raccontare, in un percorso intimo tomba dopo tomba, la storia dei migranti cercando di strapparla all’oblio. Il loro è un difficilissimo lavoro di ricerca. Ricostruiscono il luogo e le circostanze della morte. Nei casi più fortunati sono riusciti a risalire a un nome spulciando articoli di giornali, interviste e verbali delle forze dell’ordine, in altri più fortunati ancora hanno avuto un aggancio con i parenti che hanno mandato una foto del proprio caro. E al molo, al momento degli sbarchi, chiedono ai compagni di viaggio notizie dei morti in mare. “È durissima, ma soltanto così possiamo provare ad avere informazioni per restituire dignità ai morti e ai parenti che restano. Nessuno lo fa. Anche la comparazione del Dna, scattata solo dopo la strage del 3 ottobre, è molto difficile. Dopo anni di tentativi tante famiglie eritree si sono arrese e hanno deciso di adottare una tomba pur di piangere i cari”, raccontano. Le tombe del cimitero di Lampedusa parlano di un Mediterraneo come mare spinato e di una libertà come piume rimaste impigliate in quel mare. Due simboli ricorrenti sulle lapidi che adesso hanno preso il colore della ceramica e non sono più di anonimo cemento. “Pare che si chiamasse Yassin, che venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Certo è che il suo corpo è arrivato senza vita a Lampedusa il 7 settembre del 2015”, c’è scritto su una lapide. “Questa è la vera emergenza - dice chi fa parte del Forum - Non i migranti che arrivano vivi al molo. L’emergenza sono le morti in mare. Ogni tomba è un atto d’accusa, non sono numeri”. La giovane eritrea Welela è arrivata a Lampedusa ad aprile del 2015 già morta per le ustioni riportate dopo un incendio divampato nel capannone dove era segregata in Libia. Lei e altre donne sono state sistemate lo stesso su un gommone e fatte partire verso l’Europa. Il corpo ustionato dalle fiamme è stato al contatto con l’acqua salata del mare e sotto il sole per tutto il viaggio. “Alcuni giorni dopo la sua morte abbiamo ricevuto una telefonata dal fratello profugo in Germania, ci chiedeva se la ragazza fosse stata sepolta a Lampedusa. Abbiamo iniziato una ricerca fra uffici comunali e guardia di finanza e alla fine abbiamo avuto la certezza che fosse stata seppellita nel cimitero dell’isola. Il fratello poi ci ha mandato anche la foto che abbiamo messo sulla lapide”, raccontano. Il sole ha sbiadito la foto, ma presto anche la tomba di Welela avrà la sua lapide di ceramica. Quando i migranti vengono accolti al cimitero, i primi ormai alla fine degli anni Novanta e l’ultimo, il piccolo Yusuf di sei mesi, l’anno scorso, il Forum Lampedusa solidale organizza una breve cerimonia laica. “La lettura di una poesia, delle pagine di un libro, del testo di una canzone. Registriamo un video per farlo avere magari un giorno alla famiglia se mai riuscisse a contattarci”. Mamme, papà, fratelli che hanno perso i loro cari, contattano i volontari per sapere se magari sanno dove sono sepolti i parenti. “Qui nessuno riposa in pace, il cimitero è irrequieto. Ogni tomba racconta la tragedia del mare su cui, prima o poi, tutti saremo chiamati a rispondere, assumendoci delle responsabilità”. Eze Chidi-Ezequiel ed Ester Ada sono sepolti vicini. Il primo nome è stato scoperto grazie al vice parroco di allora che chiese ai sopravvissuti di quel viaggio notizie del ragazzo morto durante la traversata. Ester Ada, invece, 18 anni nigeriana, nel 2009 fu recuperata in mare già morta dall’equipaggio del mercantile turco Pinar insieme con altri migranti. Il suo nome è certo perché insieme a lei in quel viaggio c’era anche il fratello. “Per quattro interminabili giorni queste persone furono costrette a restare in mare”, si legge sulla lapide. E anche Ester Ada chiusa in un sacco verde. In attesa di attraccare in un porto sicuro, proprio come è accaduto tante altre volte a centinaia di migranti. C’è chi invece non ha nome, luogo, né data di morte. Tredici migranti sono sepolti in un’area diventata quasi il simbolo del cimitero dell’isola di Lampedusa. Ci sono delle croci di legno con delle rose rosse. Quella dell’unica donna fra i tredici senza nome è in disparte, lontana dagli altri, al riparo di un albero. Così ha voluto l’ex custode del cimitero che alla fine degli anni Novanta con una mascherina imbottita di foglie di tè e menta per combattere il fetore ricompose da solo i corpi di quelle persone prima dar loro una sepoltura. “Volle che la donna fosse sistemata al riparo dal sole d’estate, dal vento di inverno e dagli sguardi inopportuni”, raccontano al cimitero. Insieme con i tredici migranti seppelliti senza nome, c’è Yusuf della Guinea. Aveva sei mesi quando lo scorso novembre, è morto fra le braccia dei soccorritori dell’Open arms, dopo essere caduto in mare dalle mani della madre non ancora diciottenne. Accanto alla sua lapide colorata con la foto, qualche giorno fa qualcuno ha lasciato due scarpette azzurre e un biglietto. “Non ho potuto allungare la mano, ma sei con noi”. Il giorno del suo funerale una donna di Lampedusa ha messo sulle spalle della madre uno scialle in segno di conforto. Da qual momento in Italia e nel mondo c’è qualcuno che cuce all’uncinetto un quadrato di quella che ormai si chiama la “coperta di Yusuf”. Ogni quadrato è tassello di memoria. E ormai sono cento metri quadrati di stoffa. La memoria dei migranti morti in mare, per chi ogni giorno lavora al cimitero dell’isola di Lampedusa, è una forma di resistenza che viaggia. Proprio come i semi della pianta del cappero. Volano e crescono. Anche fra i sassi, anche nel cemento delle tombe di Lampedusa. Perché almeno la memoria resti viva. Caso Regeni, parla la tutor di Cambridge: “Pronta a collaborare con la giustizia” di Antonello Guerrera La Repubblica, 4 ottobre 2021 Alla vigilia dell’apertura del processo per la morte del ricercatore, Maha Abdelrahman vede i parlamentari della commissione di inchiesta. Maha Abdelrahman, la professoressa e tutor di Giulio Regeni all’università di Cambridge, per anni si è trincerata nel silenzio dopo il tragico destino occorso allo studioso italiano, torturato e ucciso nel 2016 al Cairo, a 28 anni, con tutta probabilità dai servizi segreti egiziani che lo consideravano una spia. Un mutismo che ha generato una ridda di voci e speculazioni sull’accademica inglese, accusata di aver mandato il giovane ricercatore allo sbaraglio in Egitto. Ora, però, Abdelrahman ha rotto il suo silenzio: “Voglio cooperare, Giulio era ragazzo brillante”, ha detto a una commissione di parlamentari italiani in trasferta a Cambridge e Londra la settimana scorsa per sensibilizzare le autorità britanniche ad impegnarsi sempre di più affinché Regeni abbia giustizia, oltre a esortarle alla massima trasparenza. Un’affermazione che contrasta con l’atteggiamento della professoressa, reticente e poco collaborativo, mostrato sinora con gli inquirenti italiani. A fine 2020, il sostituto procuratore Sergio Colaiocco e il procuratore di Roma Michele Prestipino avevano parlato di “assenza di volontà della professoressa di contribuire alle indagini relative alla tortura e all’omicidio del suo studente Giulio Regeni. Le sue dichiarazioni e la sua condotta”, come per esempio sul numero di volte che aveva visto e parlato con Giulio prima e durante la sua permanenza in Egitto, “appaiono in parte contraddette dalle evidenze. In parte piene di ombre e di “non detto”. Come racconta Massimo Ungaro, 34 anni, deputato di Italia Viva eletto per la Circoscrizione Estero-Europa, a lungo londinese e membro della spedizione inglese, quella con i parlamentari italiani è stata un’audizione in cui si percepiva il profondo coinvolgimento emotivo di Abdelrahman. “La tutor si è mostrata emotivamente provata”, racconta Ungaro a Repubblica. Per questa ragione, aggiungono dall’università di Cambridge, a un certo punto pare che i lavori siano stati momentaneamente sospesi. Il resoconto ufficiale delle dichiarazioni di Abdelrahman, che pare abbia subito anche un esaurimento nervoso negli ultimi tempi che l’ha tenuta lontana dall’insegnamento, sarà disponibile tra una decina di giorni, quando sarà pubblicato dalla Commissione. Continua Ungaro: “La professoressa Abdelrahman, i vertici dell’università di Cambridge e le autorità britanniche hanno mostrato una grande disponibilità”. Tuttavia, fa notare il deputato italiano, Cambridge ha cambiato le regole di ingaggio dei suoi ricercatori all’estero dopo la morte di Regeni. “I rappresentanti dell’ateneo hanno sottolineato come tutti gli standard di sicurezza fossero stati rispettati nel caso di Giulio, e che uno scenario simile fosse altamente inverosimile: la paura maggiore era la prospettiva di vedersi revocato il visto”, continua Ungaro. “Invece, con il recente cambio dei protocolli di ingaggio, è stato ammesso il rischio e il dipartimento di Scienze Politiche di Cambridge difatti non manda più studenti in Egitto”. A fine 2019, sempre il magistrato Colaiocco aveva spiegato alla Commissione che in “una email Giulio aveva raccontato agli amici di aver fatto presente alla professoressa Abdelrahman che fare questa attività in questo modo e con questi contenuti al Cairo”, ossia ricerca sui sindacati indipendenti nell’Egitto post-Mubarak, “gli avrebbe sicuramente creato problemi, come accaduto a una sua collega di Cambridge, espulsa dall’Egitto l’anno prima”. “Il perseguimento della verità su Giulio è un obiettivo fondamentale” ha rimarcato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio la settimana scorsa, “verrà dato pieno sostegno all’autorità giudiziaria ricorrendo a tutti gli strumenti internazionali per eseguire la sentenza”. “Giusto tenere l’ambasciatore italiano al Cairo”, ha aggiunto Di Maio, “per monitorare meglio la situazione: i rapporti con l’Egitto non potranno svilupparsi nella loro pienezza fino a quando non sarà fatta piena luce sull’accaduto”. Ungaro aggiunge che il presidente della Commissione Esteri a Westminster, Tom Tugendhat, e il Foreign Office hanno offerto all’Italia collaborazione nella ricerca della verità, “ma per ora non ci sono le basi di azioni congiunte dei due Paesi contro il Cairo”. Il 14 ottobre si aprirà a Roma il processo per la morte di Regeni: i quattro accusati sono membri dei servizi segreti egiziani e risponderanno del reato in contumacia. Libia: il premier Dabaiba chiede maggiore cura per i migranti detenuti nova.news, 4 ottobre 2021 Il primo ministro del Governo di unità nazionale (Gun) della Libia, Abdulhamid al Dabaiba, ha sottolineato la necessità di prestare maggiore attenzione a tutti i detenuti del Dipartimento anti-immigrazione illegale (Dcim), fornendo loro condizioni sanitarie e di vita adeguate. È quanto emerso durante una visita ispettiva del presidente del Consiglio avvenuta ieri presso la sede della Dcim di Tripoli. Dabaiba ha sottolineato l’importanza di seguire le procedure standard, a partire dalla necessità di fornire condizioni di vita decenti, trattando ciascuna categoria (donne, uomini e minori) separatamente e con rispetto della dignità e della vita umana. La visita giunge dopo la denuncia della Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), secondo la quale un migrante è stato ucciso e almeno altri 15 feriti, di cui sei in modo grave, durante un raid delle autorità di sicurezza libiche contro alloggi e rifugi temporanei di fortuna a Gargaresh, una zona di Tripoli densamente popolata da migranti e richiedenti asilo. Secondo la Direzione per la lotta alla migrazione illegale, almeno 4.000 persone, tra cui donne e bambini, sono state arrestate durante l’operazione di sicurezza. Il ministero dell’Interno del Governo di unità nazionale libico (Gun) ha parlato di una “grande campagna contro i trafficanti di droga e contro i migranti irregolari nel sobborgo di Gargaresh. Il primo ministro Dabaiba aveva inizialmente elogiato su Twitter la campagna di sicurezza, dichiarando che non permetterà un’altra guerra contro i suoi giovani, aggiungendo che “i criminali saranno presi di mira in tutte le regioni” del Paese. Oggi, il presidente del Consiglio ha chiesto un maggiore coordinamento tra i ministeri dell’Interno e della Giustizia nell’aggiornamento del sistema legislativo relativo al dossier migranti. Infine, Dabaiba ha sottolineato che il ministero del Lavoro e della riabilitazione dovrebbe regolamentare i lavoratori espatriati, dato che “molti detenuti sono venuti in Libia per lavorare”, riferisce una nota dell’Ufficio informazioni del primo ministro. Puigdemont è tornato in Sardegna una settimana dopo l’arresto: oggi l’udienza sull’estradizione di Monia Melis La Repubblica, 4 ottobre 2021 L’ex presidente catalano è arrivato con gli altri due europarlamentari nei confronti dei quali è stato emesso un ordine d’arresto per il referendum del 2017: un gesto di sfida nei confronti del Tribunale supremo spagnolo. A Sassari anche una delegazione del partito di estrema destra Vox. Stesso posto, seconda udienza. Ma stavolta in presenza, non in videoconferenza dal carcere. A dieci giorni dall’arresto allo scalo di Alghero e dall’unica notte in cella oggi per Carles Puigdemont, è il giorno della verità. O almeno, verso la verità. Nel palazzo a specchi della Corte di appello di Sassari, dalle undici, il collegio presieduto dal magistrato Salvatore Marinaro discuterà infatti la richiesta di estradizione avanzata dalle autorità spagnole. E l’ex presidente della Generalitat catalana ci sarà, come già stabilito il 24 settembre. Quando la giudice monocratica Plinia Azzena ha disposto la mancata convalida di quel fermo e la sospensione di tutte le misure cautelari. Vale a dire libertà immediata recuperata a tempo di record. Sul leader indipendentista catalano comunque pende la richiesta di “consegna immediata”, così ha specificato al tribunale sardo - tramite Eurojust - del giudice del Tribunale supremo spagnolo Pablo Llarena. Il mandato d’arresto è lo stesso del 2019, in cui è accusato di sedizione e malversazione di fondi pubblici per il referendum sull’indipendenza della Catalogna di due anni prima. Al pressing spagnolo Puigdemont ha risposto con un ricorso con procedura d’urgenza per riottenere l’immunità da europarlamentare: la sospensione era stata confermata (anche per altri due ex assessori catalani, Toni Comín e Clara Ponsatí, che hanno accompagnato Puigdemont in questo ritorno in Sardegna) a fine luglio dal Tribunale dell’Unione europea. Nelle motivazioni la poco probabile esecuzione da parte di uno Stato membro dei mandati d’arresto spagnoli. E così era andata: nessun problema durante i viaggi in Europa fino al volo verso Alghero. Nella cittadina di origini catalane il leader indipendentista era atteso a settembre come ospite d’onore all’Adifolk festival, dedicato a balli, canti e costumi identitari. In scaletta anche visite istituzionali e un appuntamento politico a Oristano, organizzato dagli amministratori indipendentisti de Sa Corona de logu. La sua presenza e le ore concitate di arresto e liberazione hanno poi animato e in un certo senso unito le tante sigle indipendentiste isolane. Tra sit-in di solidarietà e battage social per la “persecuzione politica”. Decisamente sobrio, invece, il ritorno in Sardegna di ieri mattina. Ad attendere Puigdemont - con trolley e borsa portadocumenti - non c’erano bandiere catalane, o sarde con i quattro mori, né inni dei simpatizzanti. Il volo Ryanair da Bruxelles è atterrato al Riviera del Corallo in anticipo di dieci minuti, alle 8.50 di una domenica soleggiata, con a bordo soprattutto turisti. Un breve saluto ai pochi giornalisti e al suo staff, incluso l’avvocato catalano Gonzalo Boye, che l’ha subito scortato sull’auto nera. Poi le ore di discorsi serrati in vista dell’udienza, insieme al legale sassarese Agostinangelo Marras, con tappa nel suo studio in centro. “Resterà certamente in libertà”, così sabato sera aveva già dichiarato Marras all’emittente pubblica catalana, Tv3. Una quiete solo di preparazione. Da giorni si organizzano manifestazioni di solidarietà degli indipendentisti. Come la mattina dopo l’arresto quando il passaparola aveva portato davanti alla Corte d’appello del nord Sardegna leader storici tra cui Bastianu Cumpostu di Sardigna Natzione e vari attivisti con stretti rapporti con la Catalogna, considerata un modello. Stamattina non ci saranno solo loro: le sigle Irs, Progres e Torra hanno annunciato delegazioni internazionali da Barcellona e dalla Corsica. Fiocco giallo per Puigdemont e slogan che si ripetono in sardo, inglese e italiano: Sardenya no est Italia, Catalunya no es Espanya. Accompagnati da una novità: A foras sos franchistas dae Sardigna (Fuori i franchisti dalla Sardegna, ndr). Il riferimento è alla contromanifestazione di Vox: una delegazione del partito spagnolo di estrema destra sarà in trasferta a Sassari, con la vice segretaria legale, Marta Castro. Presenza che fa il paio con le azioni legali in favore dell’estradizione. “Un partito politico spagnolo contro un politico catalano in un tribunale sardo, con un’unica motivazione politica” - così ha incalzato su Twitter in italiano lo stesso Puigdemont. E ancora: “La lotta del popolo catalano per la propria autodeterminazione dalla Spagna è anche una lotta contro il franchismo”. Il Pakistan respinge gli afghani ex collaboratori degli occidentali di Floriana Bulfon La Repubblica, 4 ottobre 2021 Islamabad li lasciava passare grazie a un accordo non scritto. La marcia indietro dopo che il Parlamento europeo ha rivisto un accordo sui dazi. Un corto circuito tra le istituzioni europee rischia di trasformare in una trappola la fuga dei collaboratori abbandonati in Afghanistan dalla disastrosa ritirata occidentale. Tanti di quelli che erano inseriti nelle liste degli aerei per lasciare Kabul, ma erano rimasti a terra, si sono messi in marcia per il Pakistan. Hanno affrontato un’odissea pur di salvarsi, rimanendo per giorni in coda alla frontiera: “Ho visto morire le persone in quella ressa. Ho visto i talebani colpire la gente nel mucchio con il calcio delle armi, con pugni e tubi di plastica”, ha raccontato Hamid Ehsan a sosafghanistan@repubblica.it, l’iniziativa di Repubblica per non dimenticare queste persone, esposte alla vendetta talebana. Migliaia di disperati sono riusciti a entrare in Pakistan, senza documenti che li accreditino come perseguitati. Ma grazie all’opera silenziosa della diplomazia hanno trovato la salvezza: in deroga alla legge locale gli veniva permesso di passare la frontiera senza passaporto, poi le ambasciate organizzavano i viaggi per l’espatrio. Dalla fine del ponte aereo di Kabul, quasi un centinaio di persone sono arrivate così in Italia. A metà settembre però il colpo di scena. Il Parlamento europeo chiede di rivedere il GSP+, un sistema di preferenze generalizzate in base al quale l’Unione invece di dare soldi per l’aiuto allo sviluppo assorbe le esportazioni pachistane, soprattutto tessili, senza dazi doganali. Era stato concesso nel 2014. In questi anni ha fatto aumentare del 65% l’export del Pakistan e ha anche permesso all’Italia di vendere telai e macchinari. In cambio Islamabad aveva accettato di attuare una ventina di convenzioni riconosciute a livello internazionale. Per l’Europa però sono rimaste lettera morta: non sono riusciti a fare progressi significativi nella protezione dei diritti umani a partire dalle severe leggi sulla blasfemia con tanto di pena di morte e inoltre pende l’accusa di aver appoggiato la vittoria dei talebani. E così a Bruxelles hanno deciso di chiederne la revoca. Alla fine la Commissione ha stabilito che l’accordo prosegue e ha introdotto sei nuove convenzioni, ma per il governo di Islamabad è stato uno schiaffo: dal GSP+ dipendono un milione di posti di lavoro. Il Pakistan lo ha ritenuto un atto di ingratitudine, dopo il sostegno fornito all’Europa permettendo il passaggio di aerei e navi per il rientro di militari e civili in ritirata dall’Afghanistan. E dopo che, per quasi quattro settimane, hanno concesso una tacita sanatoria dei collaboratori afghani in fuga, che altrimenti sarebbero stati arrestati come immigrati clandestini. Fino a quel momento alle ambasciate europee bastava una nota verbale per ottenere un timbro di ingresso valido trenta giorni, il tempo sufficiente per portare via le persone in pericolo. È arrivata così in Italia Safiya, la giovane pallavolista che, dopo aver visto la sua compagna di squadra uccisa perché giocava senza hijab, è riuscita a scappare anche grazie all’aiuto dell’ex ct dell’Italvolley Mauro Berruto. I costi del viaggio, come anche la garanzia di vitto, alloggio e spese sanitarie, sono stati garantiti per lei e per tanti altri, da privati cittadini e associazioni che si sono dati da fare per aiutare chi ci aveva aiutato in Afghanistan. La proposta di risoluzione dell’europarlamento ha sbarrato questo corridoio, trasformando la speranza in incubo. Lo stanno vivendo Hamid Ehsan e gli altri operatori afghani dell’ong italiana Wave of Hope for the Future. Hanno contribuito a ricostruire la scuola di Farza, rasa al suolo dai talebani, e ora sono rinchiusi in una casa in Pakistan che è diventata la loro prigione perché se la polizia li prende li riporta indietro. Perché, se di regole si tratta, anche i pachistani chiedono di applicarle: se un afghano vuole entrare deve avere un visto. Altrimenti viene arrestato e riconsegnato alle guardie di frontiera talebane. Il che significa la fine.