Il senso della legalità di Mario Bertolissi Corriere della Sera, 3 ottobre 2021 Quella del Pnrr è una scommessa da vincere, essendo in gioco l’interesse dell’intero Paese e quello dei territori più attivi ed organizzati. Inutile dire che le Regioni del Nordest, con le loro manifatture, occupano la prima linea. Anche per questo, è opportuno porsi qualche domanda, suscitata da un dubbio: che molti - confondendo il da farsi con il già fatto - tendano a sottovalutare le carenze endemiche della nostra società: i suoi non esemplari usi e costumi. È sufficiente che il Parlamento approvi le leggi, che hanno la rubrica delle riforme chiave: della pubblica amministrazione, della giustizia, della semplificazione normativa e della concorrenza? Le leggi sono promesse, molte volte mal confezionate, spesso equivoche. Oltretutto, il Pnrr non affronta - se non sul piano puramente descrittivo - gli squilibri del nostro Paese. Si sofferma sugli effetti, quando denuncia “la debole capacità amministrativa del settore pubblico italiano”, non sulle cause. Le quali soltanto sono in grado di spiegare perché, ancora oggi, discutiamo di ciò che Giovanni Abignente - deputato al Parlamento -, già nel 1916, sintetizzava così: serve “Un’Italia (...) più semplice”, non gravata da “una enorme massa burocratica” e da “congegni complicati”. Mentre Adolfo Cuneo - esperto di opere pubbliche - nel 1924, sbottava: “Da noi si deve una buona volta comprendere che gli ingranaggi burocratici debbono essere resi più semplici e spediti”. Siamo nel 2021! Dunque, ha ragione Mario Draghi quando osserva che “nulla può sostituire, per chi deve prendere decisioni, il ruolo di un’analisi rigorosa, accompagnata dall’esperienza”. Il fatto è che rigore ed esperienza non costituiscono gli ingredienti consueti delle decisioni dei pubblici poteri: né del legislatore, né delle amministrazioni. Tutt’al più, si ritrovano presso le amministrazioni locali, le quali debbono misurarsi, quotidianamente, con quanti risiedono nei loro territori. Ma questi enti sono ai margini del Pnrr, che è tutto sbilanciato verso il centro: Roma (non linda e pulita), là dove è collocata la governance. È costituita da quanti, avendo finora fallito gli obiettivi e sfornato testi su testi, contorti, sconclusionati, fuori della realtà ed illeggibili, hanno, tuttavia, il compito, arduo se non impossibile, di semplificare. Tra le varie riforme strutturali richieste, questa è la riforma delle riforme: quella, da cui tutto il resto dipende. Quella, che esige un tempo lunghissimo per la sua messa a punto. È l’orientamento di fondo, che va smascherato e neutralizzato. Il metodo. Va rimosso il pericolo di un agguato sempre imminente, provocato da chi è vittima di una mentalità bizantina. Per liberarsi da questa ipoteca - che impedisce semplificazione e sburocratizzazione -, è indispensabile convincersi che il rimedio sta - ne era persuaso il Costituente nel 1947 - nel recupero del “senso della legalità”. Esso impone di non approvare “leggi fittizie, truccate, meramente figurative”. Di approvare, invece, “leggi chiare, stabili e oneste”. Accade costantemente il contrario. Questa è una riflessione di micidiale concretezza. Le riforme, annunciate dal Pnrr, debbono rinnegare quel che è stato fatto e si fa. I decreti legge n. 76/2020 e n. 77/2021 avrebbero dovuto semplificare. Invece, un diluvio di norme, espressione della tecnica di sempre: rimozione di frammenti, rinvii a catena, incisi inconcludenti, nuove incertezze. Neppure Covid-19 è riuscito a scalfire l’ottusità burocratica. Del resto, imperversano i gabinettisti, i direttori generali, i direttori di dipartimento... i capi di gabinetto dei vari Ministeri, i quali ritengono - come ha ammesso candidamente uno di essi, scafatissimo - che “la selezione degli appuntamenti a cui confermare la presenza è delicata non meno che la stesura di un decreto legge”. Persone, famiglie e imprese lo debbono sapere ed essere coscienti del fatto che il Paese - ivi compreso Mario Draghi - è stato ed è nelle loro mani. Eugenio Albamonte: “Riforma, a rischio la memoria dei processi” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2021 Il pm di Roma critico sulla deindicizzazione degli articoli prevista dalla Cartabia. “Non sono mai stato convinto che la deindicizzazione delle notizie in rete sia la soluzione giusta per risolvere i problemi della corretta informazione e del diritto all’oblio”. Eugenio Albamonte è segretario di Area democratica per la giustizia, il gruppo più progressista della magistratura associata. Un articolo della legge Cartabia prevede che chi è assolto o prescritto o improcedibile possa pretendere che la propria vicenda giudiziaria sia deindicizzata in Rete, dunque introvabile dai motori di ricerca. Non credo sia una soluzione giusta. Oggi non è ancora diffusa la consapevolezza che progressivamente le fonti digitali sostituiranno quasi completamente le fonti cartacee. Dunque ciò che è in Rete sarà ciò che esiste. E ciò che non si troverà in Rete sarà ciò che non esiste. Non si può dunque agire oggi con disinvoltura sul tema della indicizzazione, senza capire che cosa sarà utile sapere domani. Un giudice potrà obbligare mezzi d’informazione e archivi a rendere invisibili e introvabili alcune informazioni... È l’altro aspetto che mi lascia perplesso: dalla delega, sembra di capire che dovrà essere un giudice a decidere che cosa deindicizzare, il giudice della sentenza d’assoluzione o uno successivo da cui presentarsi con la sentenza già emessa. Quello che mi domando è: ma è mai possibile che fra le tante funzioni di supplenza che nel tempo la politica ha deciso di caricare sulla magistratura, ora si debba aggiungere anche quella di riscrivere la storia? È una responsabilità enorme. Addirittura prevedere per legge che un giudice debba decidere che cosa deve essere conosciuto e cosa non debba essere conosciuto. Esistono a suo avviso strade alternative a quella proposta dall’articolo 25 della legge Cartabia? Io credo che la strada sia non eliminare, ma garantire che nei motori di ricerca si trovi la completezza dell’informazione. C’è un problema, in Rete: chi cerca un nome, una notizia, può trovare soltanto notizie - diciamo così - intermedie ed è così difficile ricostruire come sia finita una vicenda. Allora quello che bisognerebbe fare, anziché rimuovere le notizie, è fare in modo che vengano proposte in modo completo, magari indicizzandole a partire dalla fine, in ordine cronologico inverso, a partire dalle più recenti. E poi andando indietro potrei ricostruire tutta la vicenda. Quindi aggiungere, non togliere, indicizzando in modo più completo le notizie. Altrimenti la deindicizzazione diventa una censura mascherata. Avete appena concluso il congresso di Area, che l’ha ricandidata segretario. In un momento difficile per la magistratura, assediata dagli scandali... Il congresso di Area di Cagliari è stato per noi importante, la prima occasione per confrontarci e discutere con serenità e tempo a disposizione sui problemi della magistratura dopo la vicenda dell’Hotel Champagne, lo scandalo Palamara e altri casi che hanno scosso la magistratura italiana. È stata l’occasione per ragionare su alcuni comportamenti della politica e dell’informazione, ma anche di una parte della magistratura, che ha responsabilità serie per eccesso di carrierismo. “Troppo” innocenti: desaparecidos? di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2021 L’Ue e noi: in attuazione della direttiva sulla presunzione d’innocenza si pone un limite alle notizie che le Procure possono diffondere. Col paradosso che si potrebbe vietare di comunicare avvenuti arresti. La Costituzione della Repubblica Italiana, nell’articolo 27 comma 1 stabilisce: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. L’affermazione è diversa da quella degli atti internazionali. Per esempio l’articolo 6 comma 2 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo recita: “Ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Per la prima parte la diversa dizione non altera il significato: dire che l’imputato non è considerato colpevole o che l’imputato è presunto innocente è la stessa cosa. Si tratta di un principio di civiltà in base al quale non deve essere l’imputato a provare la sua innocenza, ma chi procede a provarne la colpevolezza. La specificità italiana consiste nella affermazione “sino a condanna definitiva”, mentre in molti Stati la sentenza di primo grado è esecutiva, in quanto si ritiene che dopo una sentenza la colpevolezza sia stata legalmente accertata. In Italia non è possibile in materia penale (a differenza di quanto accade in materia civile e amministrativa) l’esecuzione della sentenza di primo grado. Questo implica che in Italia siano considerati in custodia cautelare i detenuti anche dopo sentenze di primo grado e di appello oltre che di Cassazione in ipotesi di annullamento con rinvio. Il che fa sembrare che in Italia ci siano (in percentuale) più persone in custodia cautelare. Ricordo che uno dei padri dell’attuale Codice di procedura penale sottolineava come, mentre all’estero di norma le persone venivano arrestate al momento della pronuncia di condanna, in Italia, di solito alla sentenza di primo grado venivano scarcerate. L’Unione europea ha emesso la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, n. 2016/343 del 9 marzo 2016, “Sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti”. Anche qui viene da sorridere visto che in Italia è invece assicurato il diritto dell’imputato di non presenziare al suo processo, incomprensibile in molti altri Stati, ponendo anche talora complicati problemi per la contumacia (ora processo in assenza) e per le notificazioni delle sentenze e delle impugnazioni. Venendo al tema che ci occupa la direttiva impone agli Stati membri di assicurare “che agli indagati e agli imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza” (articolo 3). Il successivo articolo 10 della direttiva stabilisce “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”. In attuazione della direttiva il governo italiano ha predisposto uno schema di decreto legislativo, sottoposto a parere parlamentare (Atto n. 285 della Camera dei deputati), che nell’articolo 2 comma 1 stabilisce: “È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Lo schema prevede poi che, ferme le eventuali sanzioni disciplinari o penali e il risarcimento del danno, l’interessato possa chiedere all’autorità che ha reso la dichiarazione la rettifica e in caso di mancata diffusione di questa possa richiedere al giudice civile che sia ordinata la pubblicazione. Sono stabiliti limiti alle indicazioni che le autorità di polizia e giudiziarie possono fornire e alle denominazioni da attribuire alle inchieste in modo da evitare di indicare indagati o imputati come colpevoli. Viene previsto anche l’inserimento nel Codice di procedura penale di un articolo 115-bis (Garanzia della presunzione di innocenza), in cui si stabilisce: “Salvo quanto previsto dal comma 2, nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. Tale disposizione non si applica agli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”. Quindi, come stabilito dalla stessa direttiva, il pubblico ministero ben potrà, negli atti volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta a indagini o dell’imputato, indicarlo come colpevole. Altrettanto potrà fare il giudice di primo grado, di appello o di rinvio nei provvedimenti “volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato”. Del resto come potrebbe il pubblico ministero chiedere la condanna di un imputato senza dire che lo ritiene colpevole e come potrebbe il giudice dichiararlo colpevole senza dire che lo è? Verrebbe da dire molto rumore per nulla. C’è tuttavia nello schema di decreto legislativo una limitazione alle motivazioni degli atti (nel comma 2 dell’istituendo articolo 1115 bis c.p.p.) e alle notizie che gli organi di polizia giudiziaria e le Procure possono fornire nei comunicati ufficiali e ciò pone una questione di coerenza del sistema. La Corte europea dei Diritti dell’uomo ha più volte precisato che sia la motivazione dei provvedimenti che la pubblicità delle udienze sono una garanzia e che i giornalisti, in una società democratica, svolgono una funzione essenziale nell’informare la pubblica opinione. Allora, fermo restando che bisogna ricordare che una persona non può essere considerata colpevole fino a sentenza di condanna (definitiva in Italia), perché impedire di rendere noti gli elementi acquisiti a suo carico quando non vi è più il segreto? Paradossalmente l’autorità pubblica potrebbe non indicare per quale ragione una persona è stata privata cautelarmente della libertà personale. Proseguendo su questa strada si potrebbe persino vietare di comunicare gli avvenuti arresti e arriveremo ai “desaparecidos”. Siamo sicuri che queste siano garanzie? Mimmo Lucano, una condanna grande quanto la speranza che uccide di Roberta De Monticelli Il Domani, 3 ottobre 2021 Lunare, spropositata, sproporzionata, esorbitante: sono solo alcune delle più frequenti espressioni che troviamo in rete - e non vengono solo da Giuliano Pisapia e dalle moltissime personalità del mondo dell’informazione e dello spettacolo che si sono già espressi sulla condanna a più di 13 anni di galera per Domenico Lucano, l’ex sindaco di Riace. Parliamo dei testimoni e dei compagni di quell’impresa che il mondo intero conosce come il Modello di Riace: un modello non di accoglienza, ma di integrazione e reciprocità, che di due deserti - quello di provenienza e quello di approdo - avevano fatto un giardino. Un’impresa che nel giro di vent’anni, dal primo sbarco di Curdi sulla costa nel 1998, aveva acceso quest’altra nostra Africa disperata, la Locride devastata dalla ‘ndrangheta, dall’emigrazione e dall’assenza di servizi e istituzioni funzionanti, la luce di una speranza enorme. Con l’aiuto di registi come Wim Wenders (che a Riace ha dedicato il film Il volo), della rivista americana Fortune che ha incluso Lucano fra le cinquanta più influenti persone al mondo precisamente perché il suo modello “ha messo contro Lucano la mafia e lo stato, ma è stato studiato come possibile soluzione alla crisi dei rifugiati in Europa”. Con l’aiuto delle platee che in tutt’Europa - Italia esclusa - hanno applaudito Un paese di Calabria, il documentario diretto da Shu Aiello e Catherine Catella girato nel 2016, rifiutato dalle sale italiane dopo gli arresti domiciliari inflitti a Lucano nel 2018. Come cancellata dalla programmazione Rai è stata Tutto il mondo è paese, la fiction che racconta questa grande avventura di cooperazione - ripeto, non di semplice accoglienza - in cui una comunità multietnica ha riportato in vita gli antichi mestieri, riaperto laboratori di ceramica e tessitura, bar, panetterie e persino la scuola elementare, ha avviato un programma di raccolta differenziata con due asinelli che si inerpicano nei vicoli del centro. E allora ascoltateli, questi uomini e donne di buona volontà, che con Lucano hanno condiviso l’utopia e l’impegno quotidiano per realizzarlo: parlano dal filmato di Tommaso D’Elia, Daniela Preziosi, Simone Pallicca, Ugo Adilardisi, Non rimarrò in silenzio, messo in rete da Arcoiris TV Channel. Vi fanno toccare con mente e cuore l’idea di Lucano e di tutti loro, fiorita nel culto di chi alla lotta contro la ‘ndrangheta infiltrata nelle istituzioni aveva sacrificato la vita, come Peppe Valarioti, ucciso a trent’anni nel 1980. La forza del vero - Ascoltateli tutti, a partire dalla straordinaria figura dell’arcivescovo Giancarlo Maria Bregantini, già vescovo della Locride, sceso dal Trentino in terra di Calabria: ascoltate la sua dolcissima invettiva contro “chi ha ucciso la vita nel grembo della terra”. Ecco: non c’è dubbio che l’enormità di questa condanna è semplicemente proporzionale all’enormità della speranza che uccide. In tutti noi che vediamo l’insufficienza - questa sì, criminogena - dell’accoglienza senza integrazione. E senza riflessione su questo modello di reciprocità che fa rivivere le terre desolate e spopolate d’Italia, e annaffia i deserti attingendo alla fonte di ogni vita che valga la pena d’esser vissuta: la dignità, il valore riconosciuto alle proprie mani, alla propria lingua, alla propria gioia. E se questa condanna non sarà ribaltata dalla forza del vero, facciamone ciò che Socrate e don Milani, obiettore pacifista, volevano si facesse della pena accolta anche se ingiusta: una leva per leggi migliori. Lucano, tutto ciò che non torna in una sentenza abnorme di Simona Musco Il Dubbio, 3 ottobre 2021 Il modello Riace non viene messo in discussione. Ovvero, non c’è stato un “traffico” di esseri umani, dato che l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è naufragata. Da qualunque punto di vista la si guardi, la decisione che ha riguardato l’ex sindaco di Riace Domenico Lucano appare “abnorme” e “sproporzionata”. Lo dicono tutti: giuristi, magistrati - magari sottovoce - avvocati e anche politici, perfino quelli che in qualche modo hanno ignorato Riace quando Lucano chiedeva loro aiuto. Anche perché - ed è del tutto lecito, ma qualche domanda la fa sorgere -, la Corte che ha giudicato Lucano ha deciso di riqualificare l’accusa di abuso d’ufficio contestata dalla procura (che prevede una pena da uno a quattro anni) in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, che prevede una pena tra i 2 e i 7 anni di reclusione. L’accusa di associazione a delinquere - Per tutto il dibattimento, il presidente Fulvio Accurso ha insistito affinché l’ufficio di procura provvedesse a modificare i capi d’imputazione. In parte ciò è avvenuto, ma semplicemente isolando le singole condotte per individuare l’eventuale maltolto e calcolare il tempo di prescrizione. Ma in camera di consiglio, la Corte ha cambiato le carte in tavola, optando per la truffa, anche nella forma tentata. Caduta la concussione, il reato più grave contestato all’ex sindaco e che dunque ha fatto da base per il calcolo della condanna è quello di peculato, punito con il carcere da 4 a 10 anni. A ciò si aggiunge l’accusa di associazione a delinquere, messa in piedi “allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)”, così orientando l’esercizio della funzione pubblica “verso il soddisfacimento degli indebiti ed illeciti interessi patrimoniali delle associazioni e cooperative”. Insomma, Lucano, che di quell’associazione ne sarebbe stato a capo, avrebbe favorito le associazioni, senza intascare, come è emerso dal processo, nemmeno un euro. In aula è stato lo stesso teste principale dell’accusa, il colonnello Nicola Sportelli, ad evidenziare come il progetto sia nato con fini nobili e come lo stesso Lucano non si sia arricchito, indicando come parte dell’associazione quattro persone, Lucano compreso. I giudici non hanno applicato le attenuanti generiche - Ma i giudici hanno riconosciuto il reato associativo per ben sette imputati su 27. Tutti “soldati” senza i quali il ruolo di capo di Lucano, che appunto non avrebbe ottenuto alcunché a livello economico, non avrebbe avuto senso. Quale sarebbe stata, dunque, la sua utilità? Un tornaconto politico. Che stando alla sua storia è uno solo: essere sindaco di Riace, un paesino di poco più di 2mila abitanti, ripopolato grazie ai migranti. Mai, infatti, ha tentato la strada del Parlamento, rifiutando anche una poltrona in quello europeo e scansando così la possibilità di poter godere dell’immunità. Nonostante si tratti di un incensurato, i giudici non hanno ritenuto di applicare le attenuanti generiche all’ex sindaco, come accade quando un imputato non fornisce alcun apporto contributivo nel corso del processo. Eppure in aula Lucano ha ammesso di aver consegnato le carte d’identità gratuitamente ad alcuni richiedenti asilo, tra le quali quella concessa ad una mamma nigeriana che ne aveva necessità per ottenere la tessera sanitaria e curare il figlio piccolissimo. Ma cosa emerge, in attesa delle motivazioni, dalla sentenza? Il modello Riace non viene messo in discussione. Ovvero, non c’è stato un “traffico” di esseri umani, dato che l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è naufragata alla prova dei fatti. Anzi, sosteneva lo stesso Sportelli: “Dal punto di vista della gestione umana sicuramente i beneficiari erano tenuti bene, sicuramente non era assicurato tutto quello che era previsto nel progetto, sicuramente abbiamo visto che dal punto di vista del personale non c’era un personale qualificato, sicuramente abbiamo visto che il personale era minore rispetto a quello che…, però i beneficiari erano tenuti bene”. Le pronunce del Tar e del Consiglio di Stato sul “modello riace” - Sui progetti si erano espressi anche Tar e Consiglio di Stato: “L’Amministrazione statale prima di adottare qualunque misura demolitoria deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi operando in modo da riportare a regime le eventuali anomalie”, scriveva Palazzo Spada, sottolineando come “il potere sanzionatorio/demolitorio è esercitabile solo se l’ente locale che si assume sia incorso in criticità sia stato avvisato, essendogli state chiaramente esposte le carenze e le irregolarità da sanare, gli sia stato assegnato un congruo termine per sanarle, e ciò nonostante, non vi abbia provveduto”. Lo Stato, però, non avrebbe fatto questo passo con Lucano. Avrebbe, cioè, potuto aiutarlo e sistemare le storture. Ma così non è stato. Anzi: per i giudici del Tar è “palesemente irragionevole e contraddittorio ritenere che, ad appena un mese dal decreto con il quale era stato rifinanziato il “sistema Riace”, il Viminale abbia diffidato l’ente ed avviato il procedimento per revocare i fondi. Come se un procedimento già chiuso fosse stato riaperto e modificato nel suo contenuto. La gestione dei fondi - Il problema principale, secondo la Guardia di Finanza, è rappresentato dalla gestione dei fondi. Anche perché con quei fondi, oltre all’accoglienza, era stato fatto di tutto, compresi una fattoria didattica e un frantoio. E su questo Lucano pubblicamente più volte aveva ammesso un dato pruriginoso per i professionisti (veri) dell’accoglienza: con 35 euro a ospite si poteva fare molto di più che limitarsi a dare una casa e del cibo. Ovvero creare un sistema di integrazione reale, sfruttando i fondi per garantire a quante più persone possibile non solo di sopravvivere, ma di vivere in un contesto che li comprendesse davvero. E sul punto anche il gip Domenico Di Croce era stato lapidario: nonostante le opacità nella gestione del denaro, “il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti”. Le cui conclusioni sarebbero state, in gran parte, “o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci”. Poco conta, verrebbe da dire. Non foss’altro che proprio le accuse che maggiormente, secondo il gip, sembravano solide - e che sono servite per mandarlo ai domiciliari prima e fuori da Riace poi - sono state sconfessate dal processo. Che lo ha assolto dal reato di favoreggiamento, come già detto, nonché da quello di concussione, mentre risulta prescritta la turbata libertà degli incanti. Punti sui quali anche i giudici del Riesame e della Cassazione erano stati feroci: “Inconsistenza del quadro indiziario”, ipotesi fondate su “elementi congetturali o presuntivi”, inattendibilità dei testi, calcoli “errati” e insussistenza del pericolo di reiterazione del reato, aveva sentenziato il secondo Tdl rimettendolo in libertà. Sempre per il Riesame, risultava congetturale la tesi secondo cui i prelievi di denaro sarebbero stati destinati a soddisfare interessi diversi dall’accoglienza e in merito all’associazione a delinquere veniva evidenziata la “inconsistenza del quadro indiziario relativo alle contestazioni dei reati fine” che “si riverbera negativamente sulla possibilità di configurare il delitto”, in quanto “il programma perseguito dagli indagati non si è tradotto in condotte penalmente rilevanti”. In merito alla raccolta differenziata, invece, secondo il Palazzaccio non apparivano sufficienti, e in ogni caso, non emergevano “con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa” indizi contro l’ex sindaco di Riace in relazione all’accusa di aver “turbato” le procedure di gara per l’assegnazione, nel suo Comune, del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, che veniva effettuato con la modalità dell’asinello porta a porta”. Per l’accusa mancava un requisito fondamentale: l’iscrizione delle cooperative che se ne occupavano all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma quell’albo, semplicemente, non esisteva. Chi è Emilio Scalzo, il No Tav che verrà estradato in Francia di Maurizio Pagliassotti Il Domani, 3 ottobre 2021 Emilio Scalzo è un ex pescivendolo in pensione, già pugile dei medio massimi in gioventù, sulla cui vita da romanzo è stato scritto un libro che si intitola “A testa alta”, Edizioni Intra Moenia, a cura della scrittrice Chiara Sasso. Vive a Bussoleno, bassa val Susa, provincia di Torino. Scalzo, sessantasei anni, verrà estradato in Francia per aver usato violenza contro un gendarme appena al di là del confine, durante una manifestazione a favore dei migranti che valicano la frontiera lungo la cosiddetta “rotta delle Alpi”. Sono migliaia ogni anno gli uomini, le donne e i bambini che, in arrivo dall’Asia o dall’Africa, coprono a piedi i dodici chilometri di montagna a quasi duemila metri di quota che separano Claviere, ultimo paese italiano in val Susa, da Briancon, primo centro francese dove si trova un piccolo rifugio - a rischio di smantellamento - che funge da punto di approdo dopo una traversata che, soprattutto nei mesi invernali, sfida la morte. Il cammino parte dal campo da golf estivo pista da fondo invernale, e si dipana dapprima in una foresta di larici e poi, lungo un sentiero molto ripido porta al fondo valle francese, dove una casetta sotto assedio politico - la gestione umana dei flussi migratori da parte del precedente sindaco socialista Gerard Fromm ha fatto vincere le destra - ha accolto migliaia di esseri umani spesso a un passo dall’assideramento. Solo una settimana fa due afghani sono stati salvati a 2400 metri di quota, in Italia, in stato di ipotermia, dopo essere precipitati in un lago alpino: la presenza di migranti lungo questo asse è sostenuta, e i passaggi quotidiani raramente scendono sotto le cinquanta unità. Attualmente il flusso migratorio è in arrivo dall’est, Afghanistan in particolare, ed è atteso per l’inverno un ulteriore aumento delle famiglie, spesso con bambini e bambine di pochi anni: si tratta della prosecuzione della rotta dei Balcani che porta fino in Germania, dato che le frontiere con l’Austria sono sigillate. In passato, soprattutto nel biennio 2018 - 2019, la rotta delle Alpi che passa dall’Italia alla Francia in val Susa è stata anche oggetto di una scomposta fuga “interna” da parte dei “destinatari” del “decreto sicurezza 1” che di fatto mise in mezzo alla strada migliaia di esseri umani, nonché di un clima di terrore che anti migranti che dilagava in Italia. Emilio Scalzo è notoriamente uno degli attivisti più industriosi, forse il vero cuore della rete di solidarietà che si è formata su queste montagne, un uomo che con le sue mani ha cavato dalla neve uomini, donne e bambini, e molto altro. Con lui decine di altri, di ogni età e afferenti ad una miscellanea di appartenenze culturali, che da circa quattro anni operano lungo una frontiera interna e che, di fatto, con il loro operato hanno evitato che le Alpi occidentali fossero la tomba di un numero imprecisato di esseri umani che si perdevano nelle notti di gelo, spesso senza scarpe e vestiti, senza una meta precisa. Scalzo è anche un accanito No Tav. Le mani di quest’uomo avrebbero anche, questa l’accusa, usato violenza contro un gendarme durante una delle molte manifestazioni che si svolgono lungo la frontiera e per questa ragione la procura di Torino ieri ha concesso l’estradizione in Francia di Scalzo. Non è chiaro cosa sia successo, ma un gendarme avrebbe riportato delle lesioni a seguito di una accesa discussione svoltasi lontano dal corteo che si stava svolgendo. La procura di Gap, poche settimane fa, aveva emesso un “mandato di arresto europeo” e Scalzo era finito in carcere a Torino per dieci giorni. Danilo Ghia, avvocato di Scalzo commenta: “La sentenza prevede che Scalzo venga consegnato affinché partecipi al processo in Francia e nel momento in cui la sentenza diventasse esecutiva questa verrà scontata in Italia. Io credo che questa scelta dei giudici sia errata, Scalzo potrebbe essere processato in Italia perché non sussistono pericoli di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del reato. L’imputato inoltre è sotto processo per occupazione abusiva di una ex casetta cantoniera, in cui veniva dato rifugio ai migranti in transito lungo la rotta alpina: processo che impedirebbe la sua estradizione, ma i giudici hanno scelto di consegnarlo ai francesi. Depositerò al più presto un ricorso Cassazione”. Scalzo rischia che una misura cautelare gli venga comminata in Francia, oppure potrebbe essere rilasciato e tornare in Italia. Potrebbe essere condannato a sette anni di carcere, pena massima prevista. Il mandato di arresto europeo staccato dalla Francia nei confronti di Emilio Scalzo è usato raramente e per i reati più gravi: l’Italia ne ha emanato uno recentemente per Danish Hasnain, fratello di Samira Abbas, uccisa, secondo l’ipotesi degli investigatori italiani, dai suoi familiari che non accettavano la relazione sentimentale della ragazza con un giovane italiano. I tempi previsti per la sentenza della Cassazione sono molto brevi e fino a quel momento Emilio Scalzo rimarrà a casa sua, a Bussoleno. Campania. Carcere e elezioni, solo due detenuti hanno chiesto di votare La Repubblica, 3 ottobre 2021 La denuncia del garante regionale Ciambriello. Non voterà nessuno a Benevento, Santa Maria Capua Vetere e Salerno. “Solo due detenuti del carcere di Poggioreale hanno chiesto di esercitare il loro diritto al voto anche se imputati. Nessun detenuto a Benevento, Santa Maria Capua Vetere e Salerno. Alle ultime regionali erano stati 48 votanti, mentre alle ultime politiche furono 120.Cresce un disinteresse verso la politica che per certi versi ha rimosso il carcere, anche in questa sofferenza pandemica. E’ necessario fornire ai detenuti gli strumenti per votare in maniera seria e consapevole”: così il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. “I detenuti sono poco informati sui loro diritti e le modalità di come esercitarli, i politici pur avendo la prerogativa di entrare in carcere non lo fanno. C’è il populismo penale che si coniuga con quello politico e poi la procedura per votare è infatti estremamente tortuosa. Gli articoli 8 e 9 della legge 23 aprile 1976 numero 136, prevedono la costituzione di un seggio elettorale speciale nel luogo di detenzione. È previsto un onere importante per i detenuti che intendono votare: questi, con il tramite dell’Ufficio Matricola del carcere, non oltre il terzo giorno antecedente alla data della votazione, devono far pervenire una dichiarazione attestante la propria volontà al sindaco del Comune nelle cui liste elettorali sono iscritti. Anche la complessità di questa procedura spiega la bassissima affluenza alle consultazioni negli ultimi anni”, conclude il garante. Ivrea (To). “Ci vediamo domani mattina”, invece nella notte si è impiccato di Saverio C. lafenice.varieventuali.it, 3 ottobre 2021 Si e suicidato un altro detenuto in carcere per la forte depressione e anche per il forte senso di colpa che si portava dietro: avrebbe compiuto 40 anni il 17/01/2022. lo tempo fa ho già scritto qualcosa riguardo alla depressione in carcere e lo intitolai: “la depressione in carcere è devastante” e ancora oggi ne sono più che convinto. lo il giorno prima ho visto che costui, passeggiava nel corridoio dell’altra sezione di fronte alla nostra come se niente fosse, poi lui mi ha chiamato e mi ha detto “ciao Saverio come stai?” e io gli ho risposto “io sto bene e tu come stai?” e lui mi ha risposto “anch’io sto bene e comunque tiro avanti”. Poi mi ha detto “Saverio ma tu al passeggio non scendi più?” e io gli ho risposto di aver cominciato la scuola e adesso la mattina non ho più tempo ma domenica scendo e ci facciamo 2 passi “all’aria”. Lui mi ha risposto “va bene, allora ci si vede domenica mattina giù all’aria” e invece il giorno dopo vengo a sapere che quella notte tra le h.20.00 e le h.23.00 Alexandro era morto perché sì era impiccato con una maglia. A me sembrava una persona normalissima, almeno fino a l’ultima volta che avevo fatto due passi con lui “all’aria” circa un mese fa perché io con lui ho passeggiato spesso e abbiamo anche parlato tanto, anche perché erano pochissime le persone che volevano passeggiare o parlare con lui visto il reato che aveva commesso. lo Alexandro lo avevo conosciuto giù al passeggio perché con il suo compagno di cella mi faccio sempre volentieri 2 passi ogni volta che ci incontriamo, cosi dopo 10 minuti che parlavamo mi è venuto spontaneo di chiedergli “scusa, ma come mai hai fatto un gesto simile? perché hai ucciso tua moglie e tuo figlio di 5 anni e anche il cane? ma cosa ti ha fatto quella donna per mandarti fuori di testa fino a questo punto?”… io gli ho fatto questa domanda perchè mi ero accorto, da subito, che costui era una persona molto colta e istruita; e non credevo possibile che una persona così potesse commettere un reato simile. Lui mi ha risposto: “Saverio, non lo so nemmeno io perché l’ho fatto, quello che è sicuro è che mia moglie non mi aveva fatto niente di male ma io in quel periodo ero un po’ fuori di testa e andavo anche con un’altra donna; e poi quando lei lo ha scoperto mi è cascato il mondo addosso e ho fatto quello che ho fatto, poi ho cercato di suicidarmi anch’io ma non ci sono riuscito e mi sono solo spaccato tutto inutilmente, ma avrei tanto voluto morire anch’io quel giorno” e io gli ho risposto “si vede che questo è un segno di Dio, lui ha voluto che tu vivi ancora” e lui sì e messo a piangere. Poi nei giorni a venire Alexandro mi chiedeva sempre le stesse cose cioè come funziona il sistema carcerario, quanti anni di carcere una persona deve farsi prima di poter chiedere un permesso premio; e cosa bisogna fare per uscire a lavorare in semilibertà o in art.21 e tanto altro riguardo a una detenzione alternativa. lo avevo capito da subito che costui era una persona molto intelligente ma debole di carattere e mi sono sentito in dovere di mentirgli per non buttarlo giù di morale più di quanto lui lo era già, questa e una cosa che faccio sempre quando capisco che chi ho di fronte non sta bene e non è preparato per sentire la verità riguardo a questo mondo carcerario. Cosi gli ho detto “anche se tu prendi il massimo della pena fra 5 anni puoi chiedere un permesso premio; e se sblocchi con un permesso premio poi puoi chiedere di uscire in art.21 oppure in semilibertà, sempre se hai un lavoro ovviamente!”. Alexandro non stava più nella pelle da quanto era eccitato e contento e mi ha detto subito “caspita allora e fatta! chiamo subito mio fratello e gli dico che mi prepara un contratto di lavoro a tempo indeterminato senza metterci la data per andare a lavorare lì da lui e appena sblocco un permesso io chiedo subito la semilibertà”. Questo significava una cosa sola: che costui non aveva ancora messo a fuoco di quello che aveva fatto e che aveva davanti a sé una lunga vita carceraria. Ma non volevo essere io a dirglielo, preferivo che lo avesse scoperto da solo e un po’ alla volta, ma così non è stato perché ha preferito togliersi la vita e farla finita… solo un mese dopo quella nostra chiacchierata. Roma. Amministrative: voto dietro le sbarre, la città con più affluenza tra detenuti di Silvia Mancinelli sbircialanotizia.it, 3 ottobre 2021 È Roma la città del Belpaese dove i detenuti voteranno di più in queste elezioni amministrative. A scegliere il sindaco della Capitale saranno infatti 96 detenuti: 17 a Rebibbia Femminile, 58 al maschile e 21 a Regina Coeli. “Il voto rappresenta un elemento di democrazia, anche nei luoghi di privazione della libertà. Voteranno i detenuti che non sono interdetti e i residenti a Roma, per questo il numero è ridotto - spiega all’Adnkronos Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma - Significativo il fatto che in tutti gli istituti penitenziari siano stati allestiti seggi elettorali, è un segnale di democrazia anche questo”. Saranno invece appena tre i detenuti su un totale di 750 a esprimere la propria preferenza a Bologna. “Sono quelli che ne hanno fatto richiesta e per i quali è stato istituito il seggio speciale - spiega all’Adnkronos Antonio Ianniello, garante dei detenuti nel capoluogo emiliano - Ma il dato va considerato tenendo presente che nella casa circondariale di Bologna ‘Rocco D’Amato’ il 60% della popolazione reclusa è straniero. Poi ci sono gli interdetti, i detenuti in alta sicurezza. Anche i numeri delle politiche non erano più ampi, in quell’occasione furono appena 30, 35 a votare”. Nemmeno dieci i detenuti milanesi che si recheranno nei seggi dietro alle sbarre: “Due a Bollate, uno a Opera, dove però ci sono condanne più pesante, pochi allo stesso modo a San Vittore e all’istituto penale per i minorenni ‘Cesare Beccaria’ - aggiunge Francesco Maisto, garante dei detenuti di Milano - Numeri molto diversi rispetto alle percentuali delle politiche, d’altronde il numero dei milanesi con pene al di sotto 5 anni è bassissimo. Molto attivo, tuttavia, è stato l’ufficio elettorale del comune, così anche rilevante il lavoro dei direttori che nei giorni precedenti hanno fatto le affissioni nei raggi. Non c’è astensionismo, quelli che potevano votare voteranno”. “Nel carcere di Torino i seggi sono già stati installati e i detenuti che hanno diritto al voto sono già stati interpellati. In base alla mia esperienza e ai dati raccolti anche nelle precedenti elezioni, la percentuale è sempre molto molto bassa: su 1.400 detenuti votano circa dalle 40 alle 70 persone al massimo, pur avendo la situazione organizzatissima - dice all’Adnkronos Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino - C’è una sostanziale diffidenza nei confronti della politica, non ho mai trovato, soprattutto per le amministrative, un grande interesse a votare. Un po’ perché la maggior parte delle persone recluse conoscono poco il territorio, poi perché la campagna elettorale fatta a livello locale non entra nell’istituto e loro non la sentono. Paradossalmente più alta è la percentuale di votanti nel minorile, naturalmente in proporzione al numero totale dei reclusi, circa venticinque sui quaranta in totale”. Di tutt’altro avviso il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, secondo il quale “cresce il disinteresse verso la politica”. A Napoli Poggioreale appena due i detenuti (sui 5 che lo avevano chiesto) che esprimeranno la propria preferenza, zero a Salerno e Benevento. “La disaffezione alla politica si vede facilmente confrontando l’affluenza al seggio speciale alle ultime regionali in Campania, quando furono 48 i detenuti a votare, e alle politiche del 2018 quando al seggio si presentarono in 120. Il diritto al voto - dice all’Adnkronos - è sacrosanto per quelli che lo possono esercitare ma la farraginosità nell’esercitarlo, insieme alla disinformazione e alla poca presenza del tema carceri negli aspiranti sindaci ha portato a questo astensionismo”. Castelfranco Emilia (Mo). Miele e tortellini made in carcere, detenuti apprendisti di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 3 ottobre 2021 Al via tre nuovi progetti di reinserimento lavorativo ispirati dal Comune: ripareranno anche biciclette. Imparare a tirare la pasta sfoglia e a fare i tortellini (tra l’altro con maestre d’eccezione, che insegnano anche a grandi chef), aggiustare le biciclette, apprendere l’arte dell’apicoltura e quindi del miele. Sono questi tre dei grandi progetti che coinvolgono direttamente la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, presso il Forte Urbano, e che intendono appunto dare una nuova opportunità a diversi detenuti o ex detenuti, per ricostruirsi una vita una volta scontata la loro pena. Queste tre importanti iniziative, ispirate dall’amministrazione comunale di Castelfranco (in primis il sindaco Giovanni Gargano e il vicesindaco Nadia Caselgrandi) in stretta e fattiva collaborazione con la direzione della Casa di Reclusione (rappresentata ai massimi livelli dalla direttrice Maria Martone), sono state presentate ufficialmente ieri nel corso di un evento dedicato, che si è svolto proprio presso il Forte Urbano. Presenti, tra gli altri, oltre alle personalità già citate, anche la vicepresidente della Regione Emilia Romagna, Elly Schlein, Gloria Manzelli, Provveditore regionale alle Carceri per l’Emilia Romagna e le Marche, Marcello Marighelli, Garante regionale delle persone private della libertà personale. Per illustrare più nel dettaglio queste iniziative sono poi intervenuti anche Gianni Degli Angeli, presidente dell’associazione La San Nicola, Sergina Caponcelli, coordinatrice dell’associazione Maestre Sfogline, Yuri Costi per Arci Solidarietà, Francesco Ori di For Modena, Ginevra Balboni e Chiara Trerè che hanno realizzato un video sul tortellino legato a questa esperienza. Congratulandosi nello specifico per l’esperienza che è già in corso sul tortellino, il sindaco Giovanni Gargano ha ricordato che il tortellino “oggi entra all’interno della casa di detenzione per un’iniziativa di reinserimento delle persone. Così come avverrà per la ciclo-officina, dove le biciclette potrebbero essere riparate anche da chi un tempo magari le rubava”. Poi, proprio l’altro ieri, a proposito del valore di questi progetti, dal Forum Italiano sulla Sicurezza Urbana di Perugia è arrivata la comunicazione che il progetto in corso alla Casa di Reclusione di Castelfranco si è classificato al secondo posto assoluto, e il ritiro del premio avverrà a fine mese a Nizza, nel corso del Forum Europeo per la Sicurezza Urbana. La direttrice Martone ha definito il lavoro che si sta portando avanti tra comunità locale e Casa di Detenzione “un emblema straordinario di integrazione tra carcere e comunità”, mentre il vicesindaco Caselgrandi ha ricordato l’apertura della ciclofficina (un progetto seguito da vicino da Arci Solidarietà) già la prossima settimana, tra via Tarozzi e via Zanasi. Degli Angeli ha poi aggiunto: “Apprezziamo la disponibilità della direttrice Martone”, mentre la Capponcelli si è detta “molto soddisfatta di potere dare un’opportunità a chi ha sbagliato trasmettendogli un patrimonio della nostra tradizione”. Per quanto riguarda l’apicoltura, infine, sono 80 gli apiari attualmente presenti nella Casa di Reclusione. Lecce. Lina, ex detenuta: “Il carcere mi ha fatto scoprire la vita” di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 3 ottobre 2021 Grazie all’esperienza fatta con la cooperativa Made in Carcere, ha riscoperto la sua vita. E oggi è felice. Lina è di origine colombiana, nata in un piccolo paese del Manizales nel 1972. È partita a 19 anni dalla Colombia per arrivare in Italia con il sogno di un lavoro e una vita più facile di quella che aveva nel suo Paese. Così è stato, almeno in parte. In Italia Lina ha vissuto per 20 anni anche se i suoi quattro figli non sono sempre stati con lei: vivevano fra Colombia, Europa e Usa. Lina in Italia ha avuto dei problemi con la legge ed è stata incriminata per alcuni reati. Quando pensava di aver risolto tutto, ha scelto di tornare in Colombia, insieme a suo marito sposato in Italia, per riunirsi con la sua. Rientrata nel suo paese nel 2012, nel 2018 ha scoperto di avere un tumore alla testa e per curarsi decide di rientrare in Italia. Qui è stata incarcerata per quasi tre anni: la sua situazione giuridica non si era chiusa positivamente ma lei non ne era a conoscenza. In carcere è stata curata e ha trovato sostegno soprattutto in Made in carcere - Officine Creative, una cooperativa sociale, fondata dalla manager Luciana Delle Donne, non a scopo di lucro che insegna alle detenute a confezionare manufatti, con lo scopo di un definitivo reinserimento nella società lavorativa e civile. In carcere Lina ha imparato a cucire, oggi è una bravissima ricamatrice. Durante la detenzione, ha coltivato la sua passione più grande, la cucina e il primo ottobre Lina ha tenuto uno show cooking presso la sartoria sociale di Lequile (Lecce) in occasione della manifestazione “Non sono un murales”, organizzata da Acri in occasione della Giornata Europea delle Fondazioni. Made in Carcere ha deciso di partecipare alla manifestazione con il progetto BIL (Benessere Interno Lordo), sostenuto da Fondazione con il Sud e dedicato al reinserimento lavorativo degli ex detenuti. Durante lo show cooking verrà svelato il murales protagonista della manifestazione e dedicato al concetto di “prendersi cura dell’altro”. Lina, come ha reagito al carcere appena rientrata in Italia? “Nel 2012 sono tornata di nuovo nel mio paese dopo essermi sposata. Avevo deciso di vivere lì e riunirmi con i miei figli. Purtroppo nel 2018 in Colombia ho scoperto di avere un tumore (era la seconda volta che tornavo, la prima volta ero riuscita a sconfiggerlo proprio in Italia). Ho deciso di tornare in Italia per curarmi perché la sanità in Colombia non è efficiente e non riuscivo neanche a fare gli accertamenti di cui avevo bisogno, figuriamoci le terapie necessarie. Tornata in Italia ho rinnovato i documenti e ho scoperto di avere un definitivo di 2 anni e mezzo. Lo stesso giorno in cui ho scoperto questa cosa mi hanno portato in carcere. Una realtà a me sconosciuta, un mondo diverso, non mi ero mai trovata in un contesto così e inoltre ero malata, quindi la mia situazione non solo fisica, ma anche psicologica, era estremamente difficile. Ero molto confusa, non sapevo cosa fare e non sapevo se sarei sopravvissuta”. Cosa ti ha aiutata? “In carcere ho sentito le altre detenute parlare di Made in carcere -Officine creative dove si facevano corsi per imparare a cucire, a realizzare manufatti e inoltre si poteva anche lavorare. Iniziai un corso di nove mesi. Ero brava e iniziai a lavorare con la ditta, mi sono trovata benissimo, ho vissuto un’esperienza bellissima. La fondatrice di Made in Carcere, Lucia Delle Donne è una persona speciale, io la ringrazio tutti i giorni della mia vita. È grazie a questa attività che sono uscita viva dal carcere. In Made in carcere era un altro mondo, non ti sentivi in carcere. C’era vita, c’era speranza, c’era la voglia di cambiare le cose. Per me se non fosse stato per quell’esperienza non credo sarei andata avanti. Ancora oggi continuo a lavorare con loro”. Come ha vissuto la malattia in carcere? “In carcere in Italia sono stata curata bene, ho potuto fare tutti gli accertamenti necessari. Ho anche potuto fare la prima dose di vaccino covid-19. Il carcere mi ha fatto crescere. Ho visto tanta disperazione, tanta mancanza di amore, ma anche tantissimi talenti nascosti, persone brave anche se hanno sbagliato, persone buone”. Cosa si porta dentro di questa esperienza? “Voglio lanciare un messaggio ai giovani: usate la testa! Cercate di evitare errori così gravi da portarvi in carcere perché l’esperienza che ho avuto io, la possibilità di dare una svolta alla mia vita, non viene concessa a tutti”. Oggi è felice? “Oggi i miei figlia abitano tutti lontano da me, ma appena posso li raggiungo e li vado a trovare e con loro sono felice. Due figlie abitano in Colombia, uno in Germania e l’altro negli Usa. Ho in totale 8 nipotini, adesso sono felice, ho una famiglia bellissima e, anche se non siamo tutti vicini, io mi sento amata. Il carcere mi ha fatto apprezzare di più la vita”. Paliano (Fr). Recinella ai detenuti: “La vostra è la giusta risposta alla pena di morte” di Davide Dionisi vaticannews.va, 3 ottobre 2021 Il cappellano laico che assiste i condannati a morte in Florida ha visitato la casa di reclusione del frusinate. Ai ragazzi collaboratori di giustizia ha detto: “Rappresentate la possibilità di riscatto, il giusto percorso”. Quando Dale Recinella, assistente spirituale dei condannati a morte in Florida, ha varcato ieri le mura ciclopiche dell’antica fortezza Colonna del carcere di Paliano, in provincia di Frosinone, ha capito subito che non si trovava in uno dei “suoi” penitenziari. Arrivato Roma domenica scorsa per assistere ai lavori dell’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita e ricevere il premio “Custode della vita”, l’ex avvocato della finanza di Wall Street, laureato alla Notre Dame Law School, oggi cappellano laico, ha scelto di andare a visitare un luogo a lui caro. Il carcere, appunto. Ma non un istituto qualunque, ma quello di Paliano, la casa di reclusione che Papa Francesco scelse nel 2017 per presiedere la messa in Coena Domini, lavare i piedi agli ospiti, tutti collaboratori di giustizia, e condividere con loro l’inizio del Triduo Pasquale. I segni di quella visita sono ancora oggi visibili e chi ha vissuto quei momenti ha continuato nel tempo a rispondere concretamente all’appello che nell’occasione lanciò Francesco: “Se voi potete dare un aiuto, fare un servizio qui, in carcere, al compagno o alla compagna, fatelo. Perché questo è amore”. Nell’istituto del frusinate è stata realizzata dagli ospiti artigiani la “Croce della Misericordia” per inviare il loro messaggio di solidarietà e di vicinanza a tutti i detenuti italiani che patiscono le loro stesse sofferenze. E poi i numerosi incontri di preghiera e le riflessioni sulla Parola di Dio. Qui ha fatto tappa la Croce della Gmg, la Madonna Pellegrina ed è stato realizzato un ciclo di trasmissioni della Radio Vaticana intitolate “Il Vangelo dentro”. Insomma un luogo “dove il Signore ha posto il suo sguardo”, ripetono i ragazzi che qui scontano la loro pena ma, al tempo stesso, lavorano e si impegnano a ricostruire la loro vita. Il giusto percorso - E questo anche grazie ad una equipe di professionisti guidati dalla direttrice, Anna Angeletti, che ha fortemente voluto l’incontro con Dale nella struttura da lei diretta. Al cappellano della Florida, ha spiegato (e mostrato) le attività degli ospiti: “Abbiamo una cereria, un pastificio, un laboratorio di ceramica, un forno, una falegnameria e un’azienda agricola. A Paliano sono tutti impegnati. Non c’è tempo per pensare ad altro se non al proprio futuro”, ha spiegato Angeletti, anticipando la prossima apertura al pubblico di una gelateria e di una pizzeria perché questo carcere “è un esempio in cui direzione, polizia penitenziaria e volontari (in particolare il gruppo di S. Egidio) hanno trovato il coraggio della parola e dell’esempio. Avallando in via prioritaria politiche solidali e di sostegno per i detenuti. Insomma ha dato speranza a chi non ne ha”. Immediata la riflessione di Dale: “Partecipo a molte conferenze sulla pena di morte e spesso mi viene rivolta una domanda: Se non li ammazziamo, cosa ne facciamo di questi? La risposta siete voi. Rappresentate la possibilità di riscatto, il giusto percorso”. Gli esordi da “cappellano laico” - Poi l’incontro tanto atteso. Nella sala intitolata all’Unità d’Italia ad attenderlo c’erano una trentina di ragazzi e due ragazze. Dale si è presentato dicendo: “Sono qui perché dopo aver visto l’orrore della morte nel mio Paese, ho avuto bisogno di incontrarvi. Più di quanto voi pensiate”. E poi quello che tutti avevano immaginato, letto o visto nelle pellicole più note, ma mai ascoltato dal vivo: “Dipendo dai 9 vescovi della Florida e se i nostri assistiti non sono contenti del mio lavoro, scrivono direttamente ai presuli”, ha detto scherzando. Parlando degli esordi, il cappellano statunitense ha raccontato: “Quando iniziai questo servizio, nel 1998, i detenuti mi prendevano in giro: La Chiesa cattolica non aveva altro da fare? Perché mandare qui uno come te? Non aveva una persona più in gamba? Incalzavano con le domande: Cosa facevi prima di venire qui? Gli rispondevo: Ero a Wall Street e mi occupavo di finanza. Uno di loro mi colpì replicando: Questa sì che è una buona notizia! Se Gesù ha perdonato una persona avida e affamata di soldi come te, sono certo che perdonerà anche me”. La tortura psicologica nel braccio della morte - Il braccio della morte in Florida si trova al confine con lo stato della Georgia. Fratello Dale percorre molta strada per raggiungerlo: “E’ un luogo sperduto, adatto solo per alligatori, non per gli esseri umani. Nei mesi di luglio, agosto e settembre, le temperature sono altissime, ma in carcere non c’è aria condizionata perché per i condannati a morte, dicono, non è necessario spendere soldi”. Il luogo descritto dal cappellano americano è un girone infernale. Le celle sono larghe due metri e profonde tre. In un angolo ci sono i servizi igienici e un ripiano in acciaio. Il materasso del letto è molto sottile, così il detenuto non può nascondere nulla sotto. Il boia negli Usa non risparmia le donne e Dale ha snocciolato davanti a una platea sconvolta alcuni dati: “Il penitenziario femminile è situato nel centro dello stato. Una volta emessa la sentenza, vengono trasferite anche loro nel braccio della morte. Fino a pochi anni fa erano 12, oggi sono 4”. Il macabro rito - Successivamente il cappellano si è soffermato a raccontare nei dettagli il macabro rito: “Una volta emessa la condanna, si dovranno attendere cinque lunghe settimane, durante le quali il detenuto non potrà avere alcun contatto. Sarò io a spiegare ai familiari la decisione del governatore e ciò che potranno, o non potranno fare, in questo periodo. Mi è capitato di dare la ferale notizia e di ascoltare in diretta il profondo dolore dei congiunti. In qualche caso non ce l’hanno fatta e sono svenuti”. Dale ha raccontato che nei 35 giorni che separano il condannato dalla morte, rimane con lui fino alla fine “anche perché sono l’unica persona che può accedere alla death chamber, insieme all’avvocato difensore”. Ma di solito il legale non assiste, perché è impegnato a fare telefonate fino all’ultimo per cercare di salvarlo. “Mi siedo sempre al solito posto e l’ultima cosa che dico è: Guarda me. Non appena si alza la tenda mi fissa, e io comincio a pregare con lui. E’ atroce vedere una persona che muore davanti a te e questa, paradossalmente, è la migliore delle soluzione”. I precedenti finiti in tragedia: Diaz e Medina - E a tal proposito Dale ha ricordato i 34 minuti di agonia di Angel Diaz, ucciso nel 2006 nel carcere di Starke, in Florida, in esecuzione di una condanna per un omicidio del 1979. Lui c’era. “Fu colto da tremiti, mostrando smorfie al volto, come se soffrisse. Dopo una ventina di minuti, gli fu somministrata una seconda dose di sostanze letali che era pronta proprio per il timore che l’organismo di Diaz, per una patologia al fegato, si rivelasse troppo lento a metabolizzare il veleno. Sembrava provare un gran dolore, boccheggiò per 11 minuti. Il medico legale che eseguì l’autopsia sul cadavere, spiegò che il problema era legato a un inserimento errato degli aghi nelle vene. Ho assistito in tutto a 40 esecuzioni, 19 del tutto inutili. Quella di Diaz è una di queste”. L’episodio ha cambiato la vita del cappellano, tanto è vero che ha raccontato ai ragazzi di Paliano di aver avuto costantemente incubi notturni e di aver vissuto momenti di angoscia senza precedenti. “Gli stessi che provò il sacerdote che vide trasformarsi in un rogo la sedia elettrica su cui venne giustiziato nel 1997 Pedro Medina. Dopo quell’episodio il sacerdote lasciò l’incarico”. Fratello Dale, piangendo, ha raccontato questo suo profondo malessere superato solo grazie al conforto e al sostegno di sua moglie Susan. 320 detenuti in attesa di essere giustiziati - Proprio nei giorni scorsi il nunzio negli Stati Uniti, monsignor Cristophe Pierre, ha invitato il governatore del Missouri, Michael l. Parson a non eseguire la sentenza capitale, fissata al 5 ottobre, di Ernest Johnson, un 61.enne colpevole di omicidio, come segno della “sacralità della vita umana”. La lettera di Mons. Pierre è stata diffusa su Twitter da suor Helen Prejean, una religiosa statunitense della congregazione delle suore di San Giuseppe che da quasi 30 anni combatte contro la pena di morte negli Stati Uniti. Per quanto riguarda la Florida, con i suoi 320 detenuti, è lo stato con il più grande braccio della morte attivo negli Stati Uniti. Di questi, una sessantina sono cattolici e altri 17 si stanno convertendo. Dale Recinella li conosce bene e, insieme a Susan, li assiste, accompagnandoli ogni giorno parlandogli di Gesù. Prima di morire gli dicono: “Se avessi conosciuto prima una persona come te, non avrei fatto questa fine”. “I’ll never forget you” - Il racconto di Dale ha lasciato il segno. A partire dalla Direttrice: “Non potrei mai guidare un istituto del genere”. Uno dei ragazzi, commosso, ha chiesto al cappellano una cortesia personale: “Dopo quello che ci hai raccontato, ti chiedo di dire a tutti quelli che incontrerai quando tornerai a casa che siamo privilegiati”. Infine, salutando lo staff il cappellano ha detto: “Vi ringrazio per quello che fate ogni giorno” e, guardando i ragazzi, “Ringrazio soprattutto voi. Dopo avervi conosciuto, desidero che anche nel mio paese vengano realizzati luoghi come questi. I’ll never forget you”. Vercelli. “Cinema con mamma e/o papà” alla Casa circondariale di Francesca Siciliano lasesia.vercelli.it, 3 ottobre 2021 Il diritto alla genitorialità: l’Associazione “Insieme è... di più” e la Fondazione “Marco Falco” di Biella vorrebbero vederlo garantito per tutti i bimbi. Per questo motivo, nell’ambito del progetto “Cinema con mamma e/o papà” e con la collaborazione dell’area educativa della casa circondariale di Vercelli, hanno pensato all’allestimento della sala teatro ammodernata del carcere cittadino dove i minori potranno vedere un film con i propri genitori. Sarà inoltre allestito un piccolo bar dove i piccoli potranno fare finta di acquistare popcorn, caramelle e leccornie tipiche. In questo modo anche questi bambini “potranno dire che sono andati al cinema con la mamma o il papà” hanno evidenziato da Insieme è… di più. A illustrare l’iniziativa è stata la direttrice della casa circondariale Antonella Giordano ha consegnato una pergamena ai rappresentanti del volontariato: “Oggi è una giornata particolare di ringraziamenti - ha detto - Questa sala inoltre darà la possibilità di essere utilizzata per altre attività”. In questo specifico caso i piccoli vedranno appunto un film: “Qui i bambini e i genitori potranno ritrovarsi in un ambiente sereno” ha evidenziato Stefania Falco, presidente della fondazione Marco Falco che si occupa di minori che vivono situazioni di disagio. A coordinare il progetto è stata Insieme è… di più che opera anche lei con uno scopo preciso: “La nostra associazione - ha spiegato la presidente Elisa Incoronato Gobbi - nasce per difendere i diritti di tutti i minori che spettano anche e soprattutto ai figli dei detenuti. Qui, secondo un calendario che stabilirà l’area educativa, ci sarà la possibilità per i bambini di vedere un film con mamma o papà”. L’iniziativa sarà di supporto anche per i detenuti e i bambini potranno svolgere un’attività che sarebbe possibile solo all’esterno: “A volte penso a cosa voglia dire essere privati delle persone che amiamo di più. È un’attenzione all’aspetto umano” ha evidenziato l’avvocato Nicoletta Solivo che si occupa di famiglia, diritti dei minori e anche di penale. Non solo: “Questo progetto - ha detto la psicologa Lucia Barolo - aiuterà i bambini a portarsi un pezzettino di ricordo che permetterà loro di crescere”. Per arrivare a queste iniziative c’è anche il lavoro della Polizia penitenziaria: “Gli agenti - ha detto il comandante Nicandro Silvestri - instaurano un dialogo con i detenuti”. La sala, che ha ricevuto la benedizione di don Davide Besseghini, così potrà ritornare in funzione ammodernata: “Ha attraversato tre fasi - ha evidenziato Valeria Climaco, capo dell’area educativa - la chiusura, le vaccinazioni e ora finalmente la ripresa”. Al termine i detenuti hanno voluto ringraziare tutti; tra gli enti e le persone che hanno lavorato al progetto ci sono anche il Centro territoriale per il volontariato e Antonietta Pisani. Il dissenso non è disobbedienza di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 3 ottobre 2021 Nonostante sia dimostrato che le vaccinazioni sono alla base della ripresa, continuano le manifestazioni dei contrari. E preoccupa che si inciti a una sistematica violazione delle regole che stanno evitando danni maggiori. Benché il presidente del Consiglio abbia reiteratamente dichiarato e documentato che le vaccinazioni sono alla base della ripresa, le manifestazioni dei contrari ai vaccini sono sempre più incessanti e, in alcuni casi, hanno assunto dimensioni di una certa gravità non soltanto per le minacciate e talvolta realizzate iniziative rilevanti dal punto di vista penale, ma anche, forse soprattutto, per gli effetti di decadimento culturale che potrebbero determinare. Non è in discussione la possibilità di dissentire contro provvedimenti legislativi posto che le manifestazioni di disaccordo rappresentano, se pacifiche, una legittima forma di protesta. Ma anche una azione politica non convenzionale attraverso la quale si punta a cambiare talune disposizioni legislative esercitando una influenza sociale. Tuttavia, nell’eterogeneo mondo dell’antivaccinismo è possibile individuare delle posizioni estreme come quelle di chi assume di essere sottoposto a una dittatura sanitaria, oppure altre, talvolta espresse anche da donne e uomini delle istituzioni che, sul presupposto della illegittimità di un provvedimento legislativo, dichiarano di non volerlo rispettare incitandone la disobbedienza. È quanto è accaduto, per esempio, il 25 settembre scorso, quando in una manifestazione di protesa a Roma contro il green pass ed i vaccini, è salita sul palco una vice questore che richiamandosi alle parole di Gandhi è giunta a sostenere che “la disobbedienza civile è un dovere sacro quando lo Stato diventa dispotico o corrotto”. Per lei ci sono stati molti applausi e autorevoli prese di posizioni favorevoli. A prescindere dal possibile avvio di un’azione disciplinare nei confronti dell’interessata, ciò che suscita maggiore preoccupazione è il rischio che questi comportamenti incitino una sistematica violazione di regole che, nel caso della pandemia, piaccia oppure no, hanno certamente evitato una maggiore diffusione della stessa. D’altra parte anche Mohandas Karamchand Gandhi, auspicava un potere dello Stato fondato sul consenso della maggioranza dei cittadini che in tal modo sono portati a rispettare le leggi non per timore delle sanzioni ma perché partecipano direttamente al processo di promulgazione delle stesse. Da qui due considerazioni: una è che l’86,4% degli italiani, si è sottoposto volontariamente al vaccino. L’altra è che la dimensione utopistica gandhiana deve essere collocata nel contesto storico culturale nel quale lo stesso è vissuto. Certamente supporre acriticamente che l’obbedienza alla legge possa garantire l’ordine, la stabilità e la pace, potrebbe indurre ad altri gravi errori della storia quando, come ricorda Howard Zinn, sul binomio “legge e ordine” sono stati costruiti gli Stati totalitari del Novecento. Pur tuttavia, in uno Stato di diritto e democratico come il nostro, sono stati realizzati efficaci strumenti di garanzia contro gli abusi del potere, i quali costituiscono oggi un presidio invalicabile di legalità. La nostra Costituzione rappresenta un indiscusso strumento di tutela dell’equilibrio tra cittadini e autorità; una condizione che esclude in radice la possibilità di attuare forme di disobbedienza alla legge. Senza sottovalutarne la portata e anzi aprendo ogni possibile dialogo con gli oppositori, bisogna evitare che le estrinsecazioni di dissenso possano ingiustificatamente scavalcare le leggi per costruire una realtà distinta ed autonoma che non può essere ammissibile in uno Stato democratico, caratterizzato da pluralismo culturale e condivisione di valori. Sorprende non poco che in un contesto contrassegnato da una forte ideologia liberale, dove vi sono ampi margini di libertà di dissenso, si possa essere attratti da manifestazioni di chiara autoreferenzialità. La disobbedienza, in quanto espressione di un individualismo esasperato e del tutto disancorato dalla solidarietà sociale, non può che condurre alla dissoluzione dello Stato. Migranti. Lasciati morire in mezzo al mare: per la strage pagano solo marinai e scafisti di Fabrizio Gatti L’Espresso, 3 ottobre 2021 Otto anni fa il naufragio di Lampedusa in cui morirono 368 migranti. Il processo di primo grado ha condannato l’equipaggio di un peschereccio e due dei responsabili della tratta. Restano i punti oscuri sui mancati soccorsi. Parla un testimone che aiutò i superstiti. La fotografia di quella notte sotto le stelle di Lampedusa è sempre lì nella mente che lampeggia. Sono le ultime due ore di spensieratezza per i testimoni del naufragio del 3 ottobre 2013, Vito Fiorino e i suoi amici. E sono gli ultimi centoventi minuti di speranza per 523 profughi, quasi tutti eritrei, che verranno presto separati dall’acqua: 368 sommersi e 155 salvati, secondo gli atti dell’inchiesta. Da quella tiepida notte d’autunno, l’Europa contemporanea ha definitivamente perso la sua innocenza. La strage di uomini, donne e quattro bambini è infatti così vicina alla costa che da quel giovedì nessuno può più dire di non aver visto o sentito. Dopo otto anni, questo è il primo anniversario che, oltre alle vittime, può elencare i presunti colpevoli. Il 9 dicembre 2020 il Tribunale di Agrigento ha condannato in primo grado il comandante, Matteo Gancitano, 63 anni, e i sei marinai dell’Aristeus, un peschereccio partito dal porto siciliano di Mazara del Vallo. Secondo il giudice monocratico Alessandro Quattrocchi, i sette hanno violato l’articolo 1158 del Codice della navigazione: omissione di assistenza a navi o persone in pericolo. Sei anni di reclusione, la pena per il capitano. Quattro anni, per i membri dell’equipaggio. I tracciati del loro Ais, il sistema di identificazione automatica a bordo del peschereccio, dimostrano che per cinquantasette minuti si sono fermati e hanno girato intorno all’imbarcazione stracarica di profughi che, con il motore fermo, prima di affondare gridavano e chiedevano loro aiuto. Cinquantasette minuti di attesa, per poi andare a scaricare il pesce fresco nel porto di Lampedusa, non sono un po’ troppi per un’omissione di soccorso? Stavano forse aspettando le motovedette, che però non sono intervenute? E come mai la consueta chiamata via radio dell’Aristeus alla capitaneria, prima di entrare nel porto di Lampedusa, proprio quella notte non risulta agli atti? I sopravvissuti, già negli interrogatori e durante l’incontro con l’allora premier Enrico Letta e il presidente della Commissione europea, José Barroso, raccontano di essere stati illuminati dai fari di due imbarcazioni, che poi si sono allontanate senza prestare soccorso. Se una è il peschereccio di Mazara, di chi era l’altra unità senza tracciamento Ais, come accade con le navi militari, tanto da non essere mai stata identificata? Durante il processo, i sette imputati hanno scelto di non fare dichiarazioni, peggiorando la loro posizione. Vedremo se anche in appello accetteranno anni di carcere per mantenere il silenzio concordato con l’armatore, Marco Marrone, intercettato più volte al telefono mentre discute su come comportarsi durante le udienze. L’ottavo condannato di questa tragedia, in un procedimento concluso con sentenza definitiva nel 2017, è lo scafista: Khaled Bensalem, 42 anni, tunisino di Sfax, deve scontare 18 anni per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, naufragio e omicidio plurimo e pagare, chissà come, una multa di dieci milioni. Il nono è uno schiavista somalo, sbarcato a Lampedusa qualche giorno dopo la strage e riconosciuto dai sopravvissuti: sempre nel 2017 la Corte di Cassazione ha così confermato la condanna a 30 anni di Mouhamud Elmi Muhidin per traffico di persone e violenza sessuale ai danni di venti ragazze eritree. La storia sembra definita, anche dal punto di vista giudiziario. Ma non è così. La ricostruzione ufficiale dei fatti lascia in sospeso testimonianze che raccontano di ritardi nei soccorsi e presenze mai chiarite. La voce di Vito Fiorino, 72 anni, lombardo di Sesto San Giovanni, si increspa al pensiero di quel buio stellato, due ore prima del disastro, quando il Mediterraneo era per tutti il mare nostrum e non ancora un mare mortis. Eccolo, una mattina di fine settembre, mentre va a imbarcarsi all’aeroporto di Milano Linate per tornare a Lampedusa. Da allora, ogni 3 ottobre, vuole essere lì dove hanno salvato dall’acqua, raccogliendole con le loro mani, quarantasette persone: “Quarantasei uomini e una donna”, dice per precisione. “Noi siamo usciti con la Gamar, la mia barca, attorno a mezzanotte, insieme a me c’erano altri sette amici. Abbiamo fatto il nostro bagno, siamo stati tranquilli in compagnia. Ricordo che prima di andare a dormire, intorno alle due e mezzo di notte e io ero seduto a poppa della mia barca con Alessandro Marino, a un certo punto ho visto in mezzo al mare una luce blu, una luce sulle motovedette o su una nave militare. E allora ho detto ad Alessandro: guarda, sicuramente stanno portando in porto qualche imbarcazione di migranti. E però questa barca è rimasta ferma per parecchio tempo. Solo quella luce vedevamo, erano a una distanza di un chilometro al massimo. Però quella luce era ben definita”, racconta Vito Fiorino. Sono le stesse parole che Fiorino ripete davanti al Tribunale di Agrigento, nel processo al comandante e ai sei marinai dell’Aristeus, due italiani, tre tunisini e un senegalese. Quella luce che lampeggia in lontananza viene confermata davanti al giudice anche dagli altri amici a bordo della Gamar, Alessandro Marino e Linda Barocci. “La mattina alle sei, dopo aver dormito un po’ di ore, ho sentito che la nostra imbarcazione si metteva in moto. Ma neanche dopo dieci secondi di navigazione il motore si è spento, al che sono andato in cabina di pilotaggio e ho chiesto ad Alessandro cosa fosse successo. Lui mi ha guardato e mi ha detto: stai zitto, ma ‘u senti vuciari? Io non sentivo queste grida. Lui insisteva, gli ho detto: metti in moto e andiamo al largo. Io mi sono messo a prua della barca. A un certo punto davanti a me si è presentato un anfiteatro di teste che urlavano, che gridavano, che volevano aiuto, ho capito che il suo sentir vuciare era verità. Ho chiesto di fermare la barca. Albeggiava, il sole non c’era assolutamente. Erano almeno duecento persone in mare. Immediatamente, ho detto ad Alessandro di avvisare la capitaneria di porto con la radio di bordo. Lui l’ha fatto, ha segnalato che cosa stava accadendo”, dice Fiorino al giudice. Ancora oggi il proprietario della Gamar ripete parole che dipingono una Guernica di Picasso sui colori dell’alba: “Ho portato a bordo la prima persona. Era disperata, aveva gli occhi che sembravano palle di fuoco. Poi è arrivato il secondo naufrago, alcuni di loro avevano solo la maglietta, altri solo le mutandine, ma molti erano veramente proprio tutti nudi. Scivolavano dalle mani, avevano il corpo che era tutto sporco di gasolio. Ho saputo l’anno scorso, perché sono andato a trovarli a Stoccolma, e mi hanno detto che quando è successa la tragedia, il primo segnale che si sono dati è stato “spogliatevi”, perché l’acqua appesantiva gli abiti. Ma era anche per una questione di sopravvivenza: non permettere a chi non sapeva nuotare, di attaccarsi alla maglietta e salvare almeno la propria vita. Ci hanno detto che erano circa tre ore che erano in mare”. I soccorsi, chiamati via radio sul canale 16 delle emergenze, però non arrivano. La prima chiamata, verso le 6,30. Vi hanno risposto? “Le prime due-tre volte sì. Ci dicevano: state lì, arriviamo. Ma dopo non ci hanno più risposto. Loro sono usciti precisamente alle 7,25”, conferma da otto anni Vito Fiorino, visto che l’ultima volta che guarda l’ora su un telefonino sono le 7,20 e ancora non appare nessuno. “Sono stato chiamato dopo quindici giorni in capitaneria di porto”, aggiunge Fiorino nella sua deposizione giurata al processo: “Quando sono entrato nella stanza del comandante, mi dava del tu. Mi ha detto: “Ti voglio comunicare che ho già parlato con le alte sfere della capitaneria e della presidenza della Repubblica perché vi verrà assegnata una medaglia d’oro... Guarda Vito, io sono andato a controllare i tabulati e la prima chiamata che hai fatto è alle 7 e un minuto”. Se così fosse, perché non me l’ha portato subito il tabulato? Mi avrebbe convinto e avrei detto: ho sbagliato. Gli ho detto: mi dispiace, ma io non posso accettare di firmare un documento su un orario che sono convinto non sia quello. Allora un militare che è entrato dopo di me mi ha detto: “Guardi signor Fiorino che lei verrà denunciato”. Me ne sono andato. Il comandante mi è venuto dietro subito: “Fiorino fermati, vieni a firmarmi questo documento. Devi capire che io ho una famiglia e ho una bambina piccolina”. Gli ho risposto: sai quante famiglie, mio caro, sono morte e quanti bambini da quella notte non ci sono più, io non ti firmo assolutamente niente, io non vengo a raccontarti o a firmarti cose che ti fanno comodo. Mi ha poi telefonato sul cellulare: “Ci vediamo in ufficio e mi firmi questo documento”. Gli dico: perché devo dichiarare il falso? E così si è chiusa la questione”. È tutto scritto nel verbale d’udienza del 3 giugno 2019. Un altro retroscena, mai indagato, lo riferisce sempre Vito Fiorino che, con onestà e precisione, non ha mai censurato i suoi ricordi: “La prima sera dopo la tragedia sono stato avvicinato da un maresciallo della capitaneria di porto, che mi ha detto: “Guarda Vito, sono dispiaciuto per quello che è successo. Vado sempre sul posto di lavoro almeno un’ora prima e quando sono arrivato c’era questo ragazzo nell’ufficio dei telefoni che era disperato, perché non sapeva più come comportarsi e cosa fare e io non ho potuto fare tanto di più, perché gli equipaggi avevano finito alle quattro e mezzo di mattina e si rifiutavano di fare questa missione che andava fatta”. Gli equipaggi lavorano su turni di ventiquattro ore durante i quali, se necessario, non è previsto riposo. Il nome del maresciallo è agli atti fin dal 2014. Così come quello del comandante della capitaneria di porto di Lampedusa che, per conto della Procura di Agrigento, ha tra l’altro indagato e testimoniato contro l’equipaggio dell’Aristeus. Le luci in lontananza viste dal gruppo di amici a bordo della Gamar coincidono poi con l’orario di rientro di un pattugliatore classe Zara della Guardia di finanza, che come tutti i mezzi militari non è tracciato dal sistema Ais. Alle due e mezzo di quella notte, i finanzieri portano a Lampedusa 276 profughi tra cui 90 bambini, in un’operazione coordinata dall’agenzia europea Frontex: hanno forse visto i 521 profughi alla deriva e deciso di rinviare il loro recupero alla mattina dopo? Scrive però il giudice Alessandro Quattrocchi nella sentenza: “Del tutto indimostrato è l’assunto secondo cui abbiano avuto un ruolo, o meglio, una responsabilità gli uomini in forze presso la locale capitaneria di porto della guardia costiera”. In altre parole, salvo colpi di scena, le uniche prove finora raccolte condannano il comandante del peschereccio e i sei marinai che hanno scelto il silenzio. Gps, fotocamere, satelliti: il fallimento delle guerre tecnologiche di Domenico Quirico La Stampa, 3 ottobre 2021 L’arte bellica degli Stati Uniti si arena quando si scontra con la guerriglia “primitiva”. Già la chiamavano pomposamente, con ariostismo spicciolo, “l’arte americana della guerra”; o se preferite con ben più squallido acronimo “RMA”, “la rivoluzione nelle faccende militari”. Nientemeno. Era la traslazione, in termini bellici, di un’altra scalcinata teoria made in Usa, ovvero la fine della storia: e sì, gli eredi di Patton avevano seppellito l’incertezza della battaglia grazie all’invenzione del conflitto informatico, freddo e ordinato come una sala operatoria, preciso come un cronometro svizzero. Finita anche la guerra, vinciamo sempre noi. Si passi ad altro. Voilà: addio Clausewitz decrepito Marte prussiano, con la sua avvertenza che bisogna, prima o poi, avere a che fare con la nebbia della battaglia. Che non è solo l’impalpabile caligine atmosferica, responsabile peraltro di rinomati disastri anche per geni militari “d’antàn”, ma la constatazione che sempre in queste sanguinose faccende giocano un ruolo l’azzardo e il rischio imprevedibile. Addio dunque incertezza: cancellata dai vocabolari militari. Non più una gerusia di generali chini su carte geografiche per intuire dove stanno i nostri e soprattutto i loro, con il fiato sospeso per la incerta trasmissione degli ordini. La guerra americana è un gioioso pullulare di GPS che rilevano la posizione di ogni soldato, di ogni automezzo o mezzo corazzato, nave, aereo: al millimetro. Occhi elettronici infaticabili scrutano già da mesi il futuro luogo dello scontro, ventiquattro ore su ventiquattro, instancabili. Forniscono alimento per voraci algoritmi e supercalcolatori che hanno fissato lo scenario del momento in cui si combatterà davvero: non c’è scampo. Il nemico non lo sa ma ha già perso. Non solo: per satellite o per radio i nostri sono in contatto con la sala comando. Niente stati maggiori ingombri di generali incartapecoriti dalla carriera e dalla età, arroccati ai termosifoni o all’aria condizionata: ci sono computer e schermi giganti alimentati permanentemente da una infinità di rilevatori, radar, fotocamere, sensori. Da laggiù, dove si combatte, fissano la posizione esatta del nemico. Allora su questi miserelli pretecnologici che credono ancora nella tattica e nella strategia, si abbatte l’implacabile uragano della potenza americana. Perché oltre che le informazioni sono millimetriche anche le bombe. La vittoria la si gusta su uno schermo. Comodi. Da signori. Fine. Era uno dei tanti miti della guerra al terrorismo. Perché poi sono venuti l’Iraq e l’Afghanistan, una nota spesa dopo l’undici settembre di seimila miliardi di dollari, settemila morti americani, 350 mila civili uccisi in Iraq, Afghanistan e Pakistan, quaranta milioni di rifugiati e profughi (ma i due ultimi dati ai generali, purtroppo, non interessano). Si immaginerebbe che ci sia molto da riflettere a West Point e al Pentagono. La supremazia informatica, il conflitto del terzo millennio alla maniera americana, si è già arenata nelle nuove guerre senza fine tra le montagne dell’Hindu Kush e nelle sabbie irachene. Guerriglie proteiformi e tecnologicamente primitive hanno sconfitto la guerra ultramoderna. L’usura del conflitto prolungato ha fatto saltare i meccanismi perfetti della formosa blitzkrieg fantascientifica. Allora la nebbia della guerra continua a scendere spessa a confondere perfino congegni che non sbagliano come i sensi umani... Non pare, però, che gli stati maggiori e i politici siano approdati alla saggezza del dubbio. Per Biden l’Afghanistan è missione riuscita, salvo periferici dettagli. I generali dicono che è tutta colpa dei politici: si sa, sono sempre affezionati alla guerra precedente, se ne distaccano con la pena di un addio all’amante. E noi? A giudicare dallo smaniare di consumismo tecnologico-militare che sembra aver infocato il Ministero della difesa, la guerra afgana non è mai esistita. Crediamo ancora nel congegno miracoloso, nell’arma definitiva. L’arte americana della guerra prematuramente defunta a Kabul e a Baghdad era il riflesso del diffondersi in Occidente del mito della società a rischio zero. I morti in battaglia, i nostri si intende, sono insopportabili, come le vittime delle malattie. La morte è insopportabile. Ed essere sorpresi dal nemico (gli americani hanno una certa pratica da Pearl Harbour alla offensiva del Thet), equivale allo smacco di un calo in Borsa non preventivato. Per fortuna aiuta la nuova scienza, l’informatica, l’abracadabra della conoscenza totale. In fondo la nebbia della guerra non è che un banale difetto di informazioni, basta annullarlo perché le cattive sorprese scompaiano. Abbiamo raggiunto il Santo Graal: le informazioni cancellano il rischio, la battaglia diventa una partita a scacchi in cui terreno di gioco, regole, pedine e soprattutto possibilità sono definite in anticipo (da noi) e soprattutto accettate dai due avversari. Invece nella guerra c’è anche lui: il nemico. Sì, quello preso in giro, deriso come incompetente e primitivo, baciapile da moschea o nomade analfabeta, con due qualità epiche e un po’ contadine: costanza e reticenza. Dispettoso, imprevedibile, scorretto, paziente, indifferente alla morte, non fa altro che modificare regole, luoghi, tempi. Genti ibride e mistilingue che si nascondono in mezzo ai civili, mettono ordigni da quattro soldi sulle strade, marciano infaticabili a chilometri e parasanghe, trovano appoggi nella popolazione che invece secondo i modelli della sociologia americana dovrebbe essere incantata da democrazia, libero mercato, Starbucks... Le informazioni che alimentano i computer infallibili arrivano per lo più dalla analisi delle inaffidabili reti social o da ambigui contatti telefonici dei presunti terroristi. Alla fine la tecnologia non basta, bisogna ricorrere al vecchio metodo delle spie locali, ai collaborazionisti, una razza dannata, che fa il doppio o il triplo gioco o per avidità di denaro fornisce informazioni fasulle. I politici e i militari locali necessari per la contro guerriglia si rivelano incapaci o disonesti. Corruzione, danni collaterali moltiplicano la rabbia delle popolazioni. La nebbia scende sempre più fitta. Le sconfitte si allungano. In attesa del prossimo miracolo che ci darà la vittoria sicura: l’intelligenza artificiale, i robot, il fucile che spara da solo? Stati Uniti. Fondi Covid per costruire nuove carceri: usati 400 milioni di dollari, è polemica di Davide Giancristofaro Alberti ilsussidiario.net, 3 ottobre 2021 Fa discutere la decisione dell’Alabama di costruire due carceri con i fondi destinati alla pandemia di Covid, ben 400 milioni di dollari. Negli Stati Uniti, e precisamente in Alabama, si è deciso di costruire delle carceri utilizzando i fondi di emergenza per la pandemia di Covid. Come si legge su apnews.com, i legislatori dello Stato hanno approvato nella giornata di ieri, venerdì 1 ottobre, un piano per attingere a ben 400 milioni di dollari dell’American Rescue Plan per la costruzione di due carceri di grandi dimensioni. In Alabama è stato approvato in via definitiva un piano di costruzione di una prigione da 1.3 miliardi di dollari, e parte di questi fondi giungeranno proprio dall’ARP. A firmare i progetti di legge, il governatore Kay Ivey, repubblicana, che ha definito il tutto “un importante passo in avanti” per il sistema carcerario federale. “Questo è un momento cruciale per la traiettoria del sistema di giustizia penale del nostro stato”, ha detto Ivey, come si legge sempre su ApNews.com. Ovviamente il piano di utilizzare circa il 20% dei fondi dell’American Rescue ha scatenato non poche polemiche da parte di numerosi democratici al Congresso, fra cui il deputato dell’Alabama Terri Sewell, ma i repubblicani hanno ribattuto che la spesa riguarda un’esigenza di sicurezza pubblica di conseguenza, a loro modo di vedere, consentita dalla legge. “Questa era la cosa giusta da fare per l’Alabama. Abbiamo infrastrutture fatiscenti. Abbiamo persone alloggiate in posti sporchi. Abbiamo persone che lavorano in condizioni non sicure”, è il commento del senatore Rep Greg Albritton, secondo cui grazie a questi fondi si potranno risolvere problemi che da tempo affliggono le carceri dello stato. Duro invece il commento della deputata democratica Juandalynn Givan di Birmingham, secondo cui utilizzare i fondi per il carcere rappresenta uno schiaffo alla miseria: “Ci sono molti bisogni nello stato dell’Alabama e ci sono molte persone che hanno bisogno di questi fondi. Ma loro (i repubblicani) hanno visto l’opportunità di prendere i soldi di Biden, quei 400 milioni di dollari, perché era proprio come l’acqua liquida che scorreva attraverso le loro mani e dicevano: ‘OK, saltiamoci dentro’“. Libia. Blitz contro i migranti, il governo ne arresta 4.000 di Carlo Lania Il Manifesto, 3 ottobre 2021 In manette anche donne e bambini. L’Unhcr: “Uso spropositato della forza”. Il blitz, ordinato dal ministero dell’Interno libico, è scattato venerdì mattina a Gargaresh, distretto a nord di Tripoli, ed è proseguito fino a ieri. Decine e decine di agenti supportati da mezzi blindati sono entrati nelle case abitate da famiglie di migranti arrestando quanti si trovavano all’interno, donne e bambini compresi. Secondo alcuni testimoni, tra i quali anche attivisti di organizzazioni per la tutela dei diritti umani, in alcuni casi gli agenti hanno trascinato le persone con la forza fuori dalle abitazioni, ammanettandole e trasferendole a Tripoli dove sono state richiuse nei centri di detenzione per migranti gestiti sempre dal ministero dell’Interno. Il bilancio temporaneo parla di almeno un morto e 15 feriti, alcuni in modo grave, mentre le persone arrestate sono 4.000, 500 nella giornata di venerdì. “Siamo allarmati dalle notizie di arresti in massa di migranti”, ha detto Dax Roque, direttore in Libia del Consiglio norvegese per i rifugiati che per primo ha dato notizia di quanto stava accadendo. Un attivista libico che lavora con l’Organizzazione Belaady, Tarik Lamloum, ha invece confermato come durante il raid siano stati violati i diritti umani dei migranti, in particolare per il modo in cui donne e bambini sono stati arrestati. Ieri il premier del governo ad interim, Abdulhamid Ddbeibah, ha definito “eroi” gli agenti che hanno partecipato all’operazione, giustificata dal ministero dell’Interno come un blitz contro trafficanti di uomini e spacciatori di droga. Salvo poi ammettere che nessun trafficante risulta tra gli arrestati né tanto meno spacciatori. Almeno non di grosso calibro. E sarebbe stato strano il contrario. La stragrande maggioranza delle persone finite in manette sono infatti migranti che, seppure prive di documenti e quindi presenti in maniera illegale nel Paese, si trovavano in Libia per lavorare e stando a quanto affermato dalle organizzazioni umanitarie in molti sarebbero anche registrati presso l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, come rifugiati o richiedenti asilo. Il blitz di ieri si spiegherebbe quindi più come una prova di forza del governo ad interim in vista delle possibili elezioni di dicembre utile a dimostrare all’opinione pubblica un capacità di controllare il territorio. Sfruttando anche un diffuso sentimento anti migranti che, a detta di alcune organizzazioni internazionali, si starebbe trasformando in una più generale avversione verso gli stranieri in generale. In serata un funzionario della polizia ha annunciato l’intenzione del governo di espellere quanti più migranti possibile nei loro Paesi di origine. “Siamo scioccati per quanto sta accadendo in questi giorni. Negli anni ci sono stati altri blitz contro i migranti ma mai di queste dimensioni e comunque il ministero dell’Interno non li rivendicava come invece fa oggi”, commentava in serata il volontario di una ong presente in Libia. “Non dovremmo sorprenderci se le persone sono spaventate e se tentano di fuggire via mare”, ha commentato Vincent Cochetel inviato speciale dell’Onu per i rifugiati nel Mediterraneo centrale, denunciando anche lui un “uso eccessivo della forza” da parte delle autorità libiche. Egitto. Un nuovo premio ad al-Sisi. Alla faccia dei diritti umani di Riccardo Noury* Il Manifesto, 3 ottobre 2021 L’Egitto è stato nominato Stato ospitante, nel 2022, della Conferenza annuale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop27). Ora è ufficiale: l’Egitto è stato nominato Stato ospitante, nel 2022, della Conferenza annuale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop27). La sua disponibilità il governo del Cairo l’aveva data già all’inizio di quest’anno. E, in base al principio della rotazione delle sedi, era noto che la sessione del 2022 sarebbe stata ospitata da uno Stato africano. Il presidente al-Sisi, dunque, è pronto ad accrescere il suo peso e il suo prestigio sul piano internazionale e non sorprende che l’annuncio sia stato dato ieri a Milano proprio da John Kerry, l’inviato Usa al prevertice della conferenza che si terrà quest’anno a Glasgow. Naturalmente, alla faccia dei diritti umani. Come noto, in Egitto migliaia di difensori e difensore dei diritti umani, giornalisti, blogger, avvocati, attivisti, dissidenti e ricercatori, tra i quali Patrick Zaki, sono ingiustamente detenuti sulla base di leggi liberticide e spesso in condizioni che mettono a repentaglio la loro salute pisco-fisica. Un rapporto del 16 settembre di Amnesty International, intitolato significativamente “Tutto questo finirà solo quando sarai morto”, descrive l’operato dell’onnipresente Agenzia per la sicurezza nazionale (i servizi segreti civili del Cairo) che ha creato un vero e proprio sistema del terrore che cerca di chiudere la bocca a tutti coloro che si occupano di diritti umani o che criticano le politiche governative. Il braccio giudiziario di questo sistema è la Procura suprema per la sicurezza dello stato, l’organo ufficialmente istituito per trattare i casi di terrorismo ma che dal 2013, anno del colpo di stato di al-Sisi, ha più che triplicato il suo volume di lavoro occupandosi di tutt’altro. La Procura suprema non solo presiede a processi e a condanne emesse al termine di procedimenti irregolari, spesso basati su prove estorte con la tortura, ma è anche l’architrave del clima d’impunità che circonda il fenomeno dei desaparecidos: i suoi giudici attestano regolarmente che un detenuto è comparso davanti a loro nel rispetto della procedura - entro due giorni dall’arresto - cancellando dunque settimane se non mesi di sparizione forzata. Sotto la presidenza al-Sisi viene inoltre fatto costantemente ricorso alla detenzione preventiva. Sebbene la legge preveda un periodo massimo di carcere senza processo di due anni, non si contano i casi in cui quel termine è stato prolungato anche fino a quattro o cinque anni, attraverso il sistema delle “porte girevoli”: quando si approssima la fine del periodo di detenzione in attesa di giudizio chi è prossimo alla scarcerazione viene raggiunto da nuove accuse. Le più frequenti: minaccia alla sicurezza nazionale, diffusione di notizie false, sovversione, incitamento a manifestazione illegale e propaganda per il terrorismo. L’ultimo detenuto in attesa di processo ad aver superato la soglia dei due anni è stato, pochi giorni fa, Alaa Abd el-Fattah, l’iconico leader della rivoluzione del 25 gennaio 2011, finito in carcere sotto tutti i regimi da Mubarak in poi - ora esce in Italia una raccolta dei suoi scritti (“Non siete stati ancora sconfitti”, Hopefulmonster Ed.). Insomma, se c’era un’occasione in cui la comunità internazionale poteva dimostrarsi preoccupata per le violazioni dei diritti umani e dunque evitare di conferire un “premio reputazionale” al presidente al-Sisi, in questo caso è andata persa. Non meraviglia ma amareggia. Conosciamo bene l’ipocrisia della narrativa per cui occasioni del genere sono utili per esercitare pressioni in favore dei diritti umani. La realtà è purtroppo un’altra: occasioni del genere servono ai regimi per far dimenticare sparizioni, torture, processi politici e condanne a morte. *Portavoce di Amnesty International Italia Cina. “I gulag sono un inferno, ma noi uiguri non ci arrendiamo al lavaggio del cervello” di Leonardo Martinelli La Stampa, 3 ottobre 2021 Una storia più grande di lei, Gulbahar Haitiwaji, che non era mai stata (e non lo è neppure oggi) un’attivista politica, ma una donna equilibrata e appagata, uigura dello Xinjiang, che si era ricostruita una vita semplice a Parigi, lontana dai riflettori. Vi è finita con un libro, “Sopravvissuta a un gulag cinese”, che esce in Italia per Add editore. E che in Francia è stato un vero bestseller: la sua storia, da incubo, sbattuta all’improvviso in una prigione e poi in un campo di rieducazione per uiguri in Xinjiang, sottoposta a centinaia d’interrogatori, alla malnutrizione, alla violenza dei poliziotti. È un’eroina suo malgrado, che è riuscita a tirare fuori una resilienza insospettabile. E a cavarsela. Ha scritto il libro con una giornalista del Figaro, Rozenn Morgat, che ha incontrato Gulbahar per un anno intero. In prima persona, scorre via come un romanzo, dalla telefonata che richiama la donna in Cina, per sbrigare questioni amministrative, all’incarcerazione imprevista e poi i quasi tre anni di tormento, fino al ritorno insperato a Parigi. Il testo contestualizza la storia della donna in quella degli uiguri. Popolano lo Xinjiang, ricongiunto alla Repubblica popolare cinese nel 1955 e da allora colonizzato dagli han, l’etnia maggioritaria del Paese (gli uiguri sono oggi il 45% della popolazione). Praticano in prevalenza un islam sunnita e la loro cultura attinge a radici turche e non cinesi. L’area ha vissuto un grosso sviluppo economico grazie al petrolio ed è oggi uno degli snodi cruciali delle “nuove vie della seta” di Xi Jinping, senza considerare l’importanza strategica ai confini dell’Afghanistan, dove Pechino conduce un’ambigua politica filo-taleban. Stanchi delle discriminazioni, una parte degli uiguri ha cominciato a chiedere l’indipendenza. Dal 2017 Pechino ha creato dei campi di rieducazione, dove finora è passato almeno un milione di persone. Gulbahar, figlia di due modesti operai, ma studente brillante, riuscì a laurearsi (voleva fare medicina ma diventò ingegnera del petrolio, c’era bisogno di quello). Kerim, il marito, era un suo collega nella stessa azienda. “Passarono gli anni, io feci carriera alla compagnia - scrive Gulbahar - e provai gratitudine nei suoi confronti. Nonostante le discriminazioni subite dagli uiguri, offriva a me e Kerim stipendi dignitosi, sufficienti a crescere le nostre figlie e a non farci mancare niente”. Ma, a causa dell’emarginazione della loro etnia, se ne andarono. Kerim a Parigi è diventato tassista, lei ha lavorato in una mensa e in un panificio. Ma erano soddisfatti. Fino a quel viaggio di Gulbahar in Xinjiang. Andata e ritorno dall’inferno. Intervista a Gulbahar Haitiwaji Gulbahar Haitiwaji è una signora elegante, due occhi vivi e un sorriso spontaneo. Ha preparato i dolci al miele dei deserti e delle montagne del suo Xinjiang. Ora serve il tè al gelsomino in tazze dalla porcellana fragile. Pettinatura impeccabile, tutto è impeccabile. Ma diffidare sempre delle apparenze. Al di là di questa patina di rassicurante normalità, Gulbahar è ritornata dall’inferno. Esponente della minoranza uigura, che vive in quella provincia autonoma del Nord-Ovest della Cina, è riuscita a salvarsi da uno dei campi terribili, che Pechino vi ha creato per rieducare quel popolo, con l’intento ufficiale di sconfiggere il terrorismo. “Ma io - ricorda - non avevo mai fatto neanche politica e ormai vivevo da più di dieci anni in Francia”. Con la giornalista Rozenn Margot, Gulbahar ha scritto il libro Sopravvissuta a un gulag cinese, la sua storia assurda e dolorosa. Ebbene, trascorrere un pomeriggio con lei, nel suo appartamento nella periferia di Parigi, vuol dire piombare in un vortice di freddo, fame e violenze, anche e soprattutto psicologiche: un incubo durato quasi tre anni. Lei, per ricordare, si stringe alla figlia maggiore. Mentre la mamma era scomparsa, Gulhumar, che oggi ha 29 anni, a Parigi fece di tutto per salvarla, contattando i giornalisti, parlando della mamma, finché la Francia (ai massimi livelli) prese la situazione in mano. Nessuna lacrima sui volti delle due donne (“A forza di parlarne - dice Gulbahar - è diventata la storia di un’altra persona. Ho conquistato un certo distacco”). A tratti ridono, “perché certe situazioni erano tragiche, ma anche così ridicole che io ne ho riso pure quando ero lì, disperata, senza sapere se la mia famiglia a Parigi stesse facendo qualcosa”. Da dove iniziamo Gulbahar? “Da una telefonata. Nel novembre 2016 mi chiamarono dall’azienda dove avevo lavorato in Xinjiang. Ero stata una ingegnera nel settore petrolifero, come Kerim, mio marito. Avevo cinquant’anni ormai: mi hanno detto che potevo usufruire della pensione anticipata. Ma dovevo andare lì a firmare dei documenti”. Non si è insospettita? “No. Kerim, mio marito, era giunto nel 2006 a Parigi, stufo delle discriminazioni che gli uiguri patiscono. E io l’avevo raggiunto dopo con le nostre due figlie. Lui aveva avuto l’asilo politico, ma non io. Ho sempre mantenuto la nazionalità cinese e ho continuato ad andare lì a trovare la mia famiglia”. Quella volta cosa è successo? “Sono arrivata a Karamay, la città nel Nord della provincia, nel cuore di un’area ricca di petrolio e gas naturale, dove avevamo vissuto con mio marito dopo l’università. Mi sono presentata nella mia ex azienda, ma mi hanno portata subito al commissariato, dove mi hanno sbattuto in faccia una foto di Gulhumar, con una bandiera uigura tra le mani, scattata a una manifestazione a Parigi. Mi hanno confiscato il passaporto e lasciata temporaneamente libera. Ma il 29 gennaio 2017 sono stata arrestata per terrorismo”. Nel carcere qual è stata la cosa più difficile da sopportare? “Una volta mi hanno incatenato al letto per tre settimane e ancora oggi non ho capito perché. Ma penso soprattutto al lavaggio del cervello. In ogni cella eravamo una trentina di donne e ai muri era scritto il regolamento, che dovevamo imparare a memoria. I sorveglianti passavano e in qualsiasi momento potevano chiederci di recitare un articolo a memoria. Chi non rispondeva bene, era privata del cibo”. A un certo momento le hanno detto che sarebbe andata a “scuola”… “La chiamavano così. All’inizio ho pensato che fosse come l’università. Che avrei potuto rimettermi i miei vestiti. E che mi avrebbero ridato il mio cellulare. Ma poi abbiamo capito che era un campo di rieducazione”. Cosa facevate lì? “Avevamo undici ore di corsi al giorno, tutte cose inutili da imparare a memoria, anche i canti patriottici. Una volta alla settimana dovevamo passare gli esami, dinanzi a tutti. C’erano persone anziane o che parlavano male cinese: dovevano comunque imparare tutto in mandarino. Poi bisognava scrivere un diario”. Di cosa si tratta? “Ci dicevano di annotare quello che pensavamo, liberamente. Ma le guardie lo leggevano ogni due-tre giorni… Dovevamo scrivere che il Partito comunista era l’unica nostra guida e cose simili. È un approccio molto cinese, educativo. Per autoconvincersi…”. Funziona? “Per niente. Una compagna di cella un giorno mi disse che Chen Quanguo, dal 2016 segretario del Partito comunista in Xinjiang, colui che ha intensificato la repressione, ci stava sottovalutando”. Chi erano le donne imprigionate con lei? “C’era di tutto, medici, professori, ma anche gente molto semplice. Talvolta basta aver fatto un viaggio all’estero o ricevere una telefonata da un familiare che vive fuori dalla Cina per essere “rieducati”. Quando ha capito che l’incubo stava finendo? “Stavo perdendo ogni speranza. Ma, a un certo momento, sono stata trasferita in una casa normale. Mi hanno fatto mangiare decentemente. Ho preso 15 chili in poche settimane. Mi hanno tinto i capelli. La Francia era intervenuta per farmi liberare. Prima di partire, mi hanno minacciata, dicendo che non dovevo raccontare nulla di quello che avevo visto. Sono atterrata a Parigi il 21 agosto 2019”. Ma poi lei ha scritto un libro… “Non è stato facile prendere la decisione. Quando sono ritornata, volevo innanzitutto riposarmi. Non dimenticare, non potevo. Ma desideravo ritrovare la mia vita di prima: lo sport, gli amici, la famiglia. E avevo paura per le rappresaglie sui miei parenti in Cina. Ma ho deciso che dovevo lasciare una traccia permanente della mia esperienza. Lo dovevo anche alle compagne del campo. Ho esitato a firmare il libro con il mio nome e cognome. Alla fine, però, ho pensato che sarebbe stata una forma di protezione, anche per i miei familiari. Le autorità cinesi non avrebbero osato fare loro del male”. Com’è andata a finire, subiscono oggi delle persecuzioni? “Stanno bene, per il momento non ci sono problemi. Lo so, anche se non ho contatti diretti con loro”. Nel suo libro lei parla di un “genocidio culturale” in atto in Cina contro gli uiguri. Non è un’espressione troppo forte? “Non credo. Nei campi e nella prigione dove mi hanno rinchiusa, la lingua uigura era proibita. E in Xinjiang ci sono sempre meno scuole dove s’insegna. Gli uiguri non possono praticare la loro religione, in prevalenza musulmana, o celebrare le feste tradizionali. Ci sono sempre più matrimoni forzati, per incoraggiare cinesi e uiguri a mescolarsi. Un cinese, dirigente di un’amministrazione pubblica o di una grossa azienda, che proviene da un’altra provincia, può rivolgersi a una famiglia uigura e dire: ho visto la vostra figlia e voglio che si sposi con me o con mio fratello. Loro non hanno scelta. Ci sono casi di stupri, per obbligare la donna”. Lei agli inizi non voleva venire in Francia. È stato suo marito a insistere… “Kerim è sempre stato appassionato di politica. A un certo momento cominciò a vedere gli annunci di lavoro, dove si specificava che non si volevano uiguri. E si arrabbiava. Noi, entrambi ingegneri, facevamo parte di una certa élite, non vivevamo male. Ma lui, stanco delle discriminazioni, volle partire. Io ero contraria. Ma adesso lo dico pure a mio marito: avevi ragione, abbiamo fatto bene. Malgrado quello che mi è successo”. Oggi si sente un po’ francese? “Sì e la prima volta fu già nel 2006. La sera della finale, ai Mondiali del 2006, andammo a vedere la partita Italia-Francia sul maxischermo, non lontano da casa, con Kerim e le nostre due figlie. Quella sera, per la prima volta, sentii di appartenere alla Francia, anche nella condivisione della sconfitta. Quando Zidane abbandonò il campo, dopo la famosa testata, seguì un silenzio spettrale tra la gente che mi circondava. In tanti piangevano e io mi commossi. Anch’io ero francese” Ecuador. Crisi delle carceri, il governo dispone indulti e rimpatri ansa.it, 3 ottobre 2021 Dopo la morte di 118 detenuti a Guayaquil. Il governo ecuadoriano ha annunciato l’intenzione di concedere circa 2.000 indulti e rimpatriare i prigionieri stranieri nei rispettivi Paesi come prime misure per cercare di ridurre il sovraffollamento nelle carceri del paese, dopo gli scontri di martedì nel carcere El Litoral di Guayaquil che hanno avuto un bilancio di 118 morti e decine di feriti. La notizia, riferisce la tv Ecuavisa, è stata resa nota ieri nel corso di una conferenza stampa tenuta dalla ministra dell’Interno, Alexandra Vela, e dal direttore del Servizio nazionale per l’assistenza globale ai reclusi (Snai), Bolívar Garzón. Quest’ultimo ha spiegato la portata di proposte che sono fra le sue competenze, fra cui “l’avvio immediato di provvedimenti di grazia per persone anziane, donne, disabili e malati terminali”. Si tratta, ha detto, di “provvedimenti di grazia per circa 2.000 persone che non sono implicate in reati gravi” e che lo Snai raccomanderà al governo di rendere effettive. Da parte sua Vela ha ricordato che “la grazia in questi casi può essere concessa da due figure delle istituzioni ecuadoriane: il presidente della Repubblica e l’Assemblea nazionale (An)”. La ministra ha quindi segnalato che è stato anche deciso di “gestire con rapidità il processo di rimpatrio degli stranieri” che scontano pene nelle carceri ecuadoriane. In questo ambito, ha precisato, è in corso l’esame di “82 casi”. Riguardo al Centro di reclusione El Litoral, che nell’ultimo anno è stato l’epicentro di sanguinose risse tra bande legate al traffico di droga, Vela ha affermato che lo Snai sta mettendo a punto misure per “assumere il controllo totale della prigione”. Fra queste, l’inasprimento delle misure di sicurezza e l’istallazione di scanner per esaminare a fondo il materiale che entra nella prigione, e impedire soprattutto l’arrivo di armi ai detenuti. Myanmar. Aung San Suu Kyi, il processo-sfida dei golpisti di Paolo Lepri Corriere della Sera, 3 ottobre 2021 La vincitrice premio Nobel per la Pace 1991 è comparsa in aula per la prima volta venerdì. Ma il mondo si disinteressa alla catastrofe nel Myanmar. Il Myanmar? Non pervenuto. Il mondo si sta disinteressando ad una catastrofe. Il colpo di stato di febbraio ha scatenato una spirale di repressione che è costata la vita a oltre mille persone. Circa 8.000 sono state arrestate e un centinaio almeno sono morte in carcere. Il Covid ha colpito duro, portando al collasso il sistema sanitario. L’economia sta crollando, come dimostra il fatto che la valuta nazionale, il kyat, ha perso nelle ultime settimane il 60% del suo valore. Intanto il presidente ad interim del governo di unità nazionale che è stato costituito dall’opposizione in clandestinità, Duwa Lashi La, ha lanciato un appello per una “guerra difensiva” contro il regime e per “rovesciare la dittatura”. In questo scenario drammatico, il pugno di ferro del generale Min Haung Hlaing non poteva non colpire Aung San Suu Kyi, che si trova in stato di detenzione da quando i militari hanno preso il potere deponendo il suo governo “de facto” e mettendo fine alla sua leadership. Accusata di corruzione e di aver intascato tangenti, la vincitrice premio Nobel per la Pace 1991 (che ha 76 anni) è comparsa in aula per la prima volta venerdì nel processo organizzato contro di lei dal regime. Solo in questo procedimento rischia una condanna a 15 anni di reclusione. Le prospettive sono molto negative. “È chiaro che la giunta ritiene Aung San Suu Kyi la più grave minaccia politica e vuole metterla dietro le sbarre il più rapidamente possibile e il più lungo possibile”, ha detto a The GuardianPhil Robertson, vice direttore della divisione Asia di Human Right Watch. Il calcolo è senza scrupoli, a costo di affrontare un’ondata di solidarietà internazionale che peraltro sta tardando ad arrivare. Ma Min Haung Hliang sembra aver scelto la linea dura: l’unica promessa fatta, cioè convocare le elezioni entro dodici mesi dal colpo di stato, non sarà mantenuta. Ora più che mai è il momento di scrivere il nome Myanmar sulla lavagna delle priorità.