Un ristoro necessario di Bruno Mellano* cr.piemonte.it, 31 ottobre 2021 In questi mesi si è molto discusso sulla necessità e sull’opportunità di riconoscere ed erogare sostegni, risarcimenti, rimborsi alle molte categorie colpite dal Covid e dalle misure decise dai Governi per la tutela generale della salute pubblica. Un dibattito animato e animoso che divide a causa della limitatezza delle risorse e della necessità di operare scelte di priorità. Vi è un settore della nostra società che in questo periodo di emergenza sanitaria ha vissuto forti conseguenze per le decisioni delle autorità competenti volte alla limitazione dei contagi e alla definizione di procedure di prevenzione o di intervento. È la comunità penitenziaria. Un segmento significativo delle nostre società moderne: in Italia oltre 53.000 detenuti e oltre 102.000 altre persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale prese in carico dagli uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe). In Piemonte oltre 4.000 detenuti e altre 13.000 persone seguite dagli Uepe. Abbiamo vissuto questi mesi di pandemia come un’insopportabile limitazione della libertà, ma quasi tutti abbiamo accolto con favore le disposizioni volte a proteggerci e a proteggere in primo luogo i cittadini più deboli e più esposti alle tragiche conseguenze del contagio. Se ci si domanda, con mente aperta e cuore disponibile, quali siano state le condizioni di vita per chi già era privato o limitato nella libertà, la risposta è abbastanza evidente. Per chi è stato recluso in carcere, ai domiciliari o sottoposto a misure restrittive in strutture comunitarie la detenzione è stata doppia o ancor più pesante per via della sospensione dei colloqui con i famigliari e dell’interruzione di tutte le attività che prevedevano l’ingresso di figure esterne al carcere, dagli insegnanti ai formatori, dai volontari agli operatori di progetto. A ciò si aggiungano i timori amplificati dalle informazioni incerte, la variabilità delle decisioni, la pretesa di considerare la comunità penitenziaria - inevitabilmente esposta - ambiente protetto. Solo in Piemonte si sono registrati, dall’inizio della pandemia, 498 detenuti, 420 agenti penitenziari e 33 operatori amministrativi o del comparto centrale positivi. Ora siamo quasi a zero: ancora due agenti risultano positivi all’ultimo monitoraggio. Credo che abbiano molte e valide ragioni coloro che propongono siano considerati dei ristori speciali per la comunità penitenziaria: per il lavoro assicurato in condizioni di grave difficoltà ma anche per la detenzione vissuta in condizioni obiettivamente straordinarie. Un ristoro sollecitato alle istituzioni e alla politica in questi giorni di caldo e di ferie anche da una parte della popolazione detenuta, quella che non ha perso la speranza nel dialogo e nel confronto. Rinunciando a consumare il cibo del carrello una parte di detenuti ci interroga sull’opportunità di un ristoro anche per le persone detenute al tempo del Covid. Si tratta della più classica iniziativa nonviolenta, proposta in primis dalle “ragazze delle Vallette” ma fatta propria da varie carceri italiane e con la previsione di devolvere il cibo non consumato ad associazioni del territorio che accudiscono persone senza fissa dimora o povere. Un ristoro non in termini di denaro, come avviene quotidianamente quando la Magistratura di sorveglianza riconosce le forme dell’esecuzione penale “ingiusta e degradante” secondo quanto previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Un ristoro in termini di liberazione anticipata per tutti quei detenuti che abbiano vissuto questo periodo di emergenza sanitaria in carcere e siano riusciti a mantenere una buona condotta e magari pure a fare cose eccellenti come concludere un anno scolastico e ottenere un attestato regionale di formazione. O che abbiano assicurato l’adesione ai percorsi lavorativi interni o semplicemente siano riusciti, senza lavoro, denaro, sostegno, presenza di operatori e contatti diretti con la famiglia, a resistere. Un ristoro per la capacità di resistenza e di resilienza che buona parte dei detenuti italiani ha dimostrato di avere avuto. *Garante regionale dei detenuti del Piemonte La giustizia che ricuce di Venanzio Postiglione e Alessia Rastelli Corriere della Sera, 31 ottobre 2021 Conversazione con Marta Cartabia e Liliana Segre. La senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, ha accompagnato la ministra Marta Cartabia al Memoriale della Shoah di Milano, sorto attorno al binario oscuro da cui partirono i treni per i lager. Prima una visita silenziosa, poi un colloquio in cui cercare le parole per “parlare di giustizia nel luogo della massima ingiustizia”. Il dialogo è tornato indietro alle leggi ingiuste, quelle razziste del 1938, per arrivare all’oggi, ai diritti umani, all’esigenza di “verità e memoria” per riparare il mondo. Il silenzio, il buio, il binario. Un tempo sospeso, sotto la stazione Centrale di Milano. Qui gli ebrei venivano chiusi nei vagoni e mandati verso i campi di sterminio. Qui è nato e si sta ampliando il Memoriale della Shoah. E qui arrivano adesso, per fortuna, ragazzi di tutta Italia per ascoltare e vedere cosa è successo. Nel nostro Paese, pochi decenni fa. Quando il “Corriere della Sera” ha chiesto a Liliana Segre, senatrice a vita, e a Marta Cartabia, ministra della Giustizia, di incontrarsi e dialogare, la risposta è stata sì, di slancio. Ma Segre ha aggiunto un “però”. Che sembrava una condizione e invece era un valore in più. “Però venite al Memoriale”. Aveva ragione lei, naturalmente. La ministra ha accettato subito (e volentieri) l’invito, si è fatta guidare a lungo tra le immagini e i ricordi. La conversazione sulla giustizia, sul senso della giustizia, si è tenuta a pochi passi dal binario dell’orrore più grande. Sul muro scorrono i nomi dei perseguitati: in bianco chi non è più tornato, quasi tutti, in rosso chi è sopravvissuto. I sommersi e i salvati di cui parlava Primo Levi. Non era facile, soprattutto i primi minuti, trovare il filo, le parole. E così questa esperienza che ha scosso e commosso tutti, in una mattina d’autunno, ci è apparsa quasi una metafora (in piccolo, infinitamente in piccolo) di quanto sia difficile e allo stesso tempo inevitabile ripartire dopo le ferite. Liliana Segre ha raccontato l’odio di allora e quello di adesso, con la sua missione pubblica per combatterlo. Marta Cartabia ha detto che “il bisogno di giustizia è innanzitutto un bisogno di verità e di memoria”. E poi i diritti umani che sono rimasti a metà strada. La libertà “che ha sempre una dimensione comunitaria”. La giustizia per ricucire e riparare il mondo, quindi il contrario della vendetta. Dopo l’abisso dell’umanità, abbiamo abbracciato l’epoca dei diritti. Faticosamente, certo. Cominciamo da una riflessione suggerita dalla stessa senatrice, che ha voluto proprio qui, all’ingresso del Memoriale, la scritta “Indifferenza”: cosa vuol dire un dialogo sulla giustizia nel luogo della massima ingiustizia? LILIANA SEGRE - Ho vissuto anni spaventosi in cui la giustizia sembrava aver perso la strada e poi ho passato gran parte della vita a testimoniare l’indifferenza del mondo davanti alla violenza delle leggi ingiuste. Mi fa molto piacere, allora, aver mostrato alla gentilissima ministra della Giustizia questo luogo. Che parla da solo di ingiustizia. Ci interessa molto il suo parere. Anche se il Memoriale invita al silenzio, certe parole sono necessarie per rimettere la giustizia al suo posto. Non bisogna avere mai paura delle parole. MARTA CARTABIA - È stata un’esperienza molto intensa: abbiamo visitato il Memoriale e lo abbiamo fatto in silenzio, come proposto dalla stessa senatrice. Se c’è un posto dove ha senso provare, magari balbettando, a rimettere al centro la parola “giustizia” è proprio qui, nel luogo della massima ingiustizia conosciuta nella nostra epoca. Perché - e questa è una convinzione profonda in me - nell’esperienza umana e sociale noi ci accostiamo alla giustizia sempre e comunque attraverso l’esperienza dell’ingiustizia. Noi ci avviciniamo al senso, al bisogno di giustizia - perché è un’esigenza, prima di ogni altra cosa - quando entriamo in contatto con l’ingiustizia. Quella che ha subito la senatrice è senza paragoni, storica, ma nell’esperienza di ogni uomo e di ogni donna, anche dei più piccoli, si può riconoscere, almeno come un’eco sbiadita, che cosa significhi. E allora io credo che bisogna sempre partire da lì, e farlo in questo luogo ha senso per quell’enorme parola, “Indifferenza”, che ha ferito e continua a ferire. Quando mi capita di incontrare persone offese, vittime - e mi capita spesso in questa fase della vita da ministra -, il bisogno più grande è che quell’ingiustizia a cui non puoi porre rimedio - quei nomi bianchi sul muro del Memoriale restano bianchi - sia però riconosciuta. Io credo che il bisogno della giustizia sia innanzitutto un bisogno di riconosci mento, di verità e di memoria, che cioè non si disperdano la coscienza e la conoscenza di quello che è successo. Lo raccontano Liliana Segre e Gherardo Colombo nel loro libro “La sola colpa di essere nati” (Garzanti): giustizia e legalità non sempre sono andate di pari passo. Si pensi solo alle leggi razziali fasciste del 1938, anzi “razziste”, come ha detto anche il presidente del Consiglio Mario Draghi qui al Memoriale della Shoah lo scorso 30 settembre. Cosa succede se la legge diventa ingiusta? MARTA CARTABIA - Nella storia del diritto la Shoah segna una cesura. Gustav Radbruch, giurista tedesco grande fautore del positivismo giuridico, ovvero dell’idea che bisogna obbedire alle leggi così come sono, proprio nel 1946 rivede il suo pensiero e in un articolo parla di “ingiustizia legale”. Risale a quella fase una costruzione nuova del diritto. Nascono le Costituzioni, intese come piccoli scrigni in cui incastonare alcuni valori: la dignità umana, la libertà, i diritti fondamentali, che vengono protetti addirittura dalle clausole d’eternità, cioè non si possono più rimuovere. E si formano i garanti, le Corti Costituzionali, che non esistevano prima in Europa. Quale compito hanno? Proprio di eliminare, in parte o in tutto, eventuali aspetti della legge che possono essere ingiusti. Le leggi razziste sono casi clamorosi ma l’ingiustizia può insinuarsi anche nelle pieghe delle nostre norme giuridiche, per cui serve un’istituzione che vegli affinché le leggi non diventino ingiuste e, se ciò avvenisse, le elimini. LILIANA SEGRE - Proviamo a pensare a cosa sarebbe accaduto se la guerra fosse andata a finire in un modo diverso. Non so neanche immaginare quante categorie, oltre agli ebrei, avrebbero fatto sparire ignominiosamente dalla faccia della terra: perché il progetto di razza eletta, di razza pura, di razza più bella delle altre, avrebbe portato a un disastro ancora maggiore. Per fortuna non è accaduto e io mi sono innamorata fin da giovanissima della Carta, scritta dai padri costituenti che per mesi hanno studiato quel gioiello che è la Costituzione italiana. E quell’articolo 3, che andrebbe fatto imparare a memoria nelle scuole ai giovani cittadini: un inno alla libertà. C’è una prima parte in cui è scritto che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E una seconda parte, molto innovativa, ancora da attuare, in cui si dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono “il pieno sviluppo della persona umana”... LILIANA SEGRE - Poter essere sé stessi, che non è una cosa da poco. È un grande testo, un grande insegnamento di cui l’Italia post fascista si può fare vanto. La Costituzione entrò in vigore il primo gennaio 1948. Un anno e mezzo prima, il 2 giugno 1946, si era tenuto il referendum in cui fu scelta la Repubblica e votarono le donne. Senatrice Segre, che anni furono? LILIANA SEGRE - Allora per votare ci volevano 21 anni. Io ero una ragazzina con un bagaglio terribile ma, sono del 1930, al referendum non partecipai. Erano gli anni della rinascita, che sarebbero stati entusiasmanti, e lo sono stati per la maggior parte degli italiani, che non volevano più sentir parlare di bombardamenti, di guerra, di razioni, di paure, di spaventi, di ricordi. C’era un’atmosfera gioiosa, la voglia di ridere, di ballare. Non ha molta importanza nel quadro generale, ma la mia voce si era spenta. Io ero un essere ferito, ero una che non partecipava. Una volta di più ero diversa. Una diversità che mi è sempre pesata, devo dire anche adesso. Tuttora mi chiamano “l’amica ebrea”, e più in generale si parla di protezioni, di lobby, è così... c’è un pregiudizio di secoli. Ministra Cartabia, abbiamo assistito nel tempo a vari tentativi di cambiare la Carta. Secondo lei è ancora attuale? MARTA CARTABIA - La Costituzione nasce dalla storia ed è destinata a durare nella storia. Ci sono valori e principi frutto di lezioni apprese a caro prezzo. Quell’articolo 3, appunto, “senza distinzione di razza”: quanto sangue, quanto dolore, quanta morte ci sono dietro. Le Costituzioni sono testi che hanno una ricchezza culturale prima che giuridica, radicata nella vita dei popoli. Dopodiché io ho messo una firma su una legge costituzionale che modifica l’età per il voto al Senato, abbassandola da 25 a 18 anni. Questi sono cambiamenti fisiologici. La Costituzione è un pezzo di storia vivente, non si tratta di adorare un monumento fisso, per cui è del tutto naturale ci sia qualche ritocco qui e lì, ad esempio per una maggiore attenzione all’uguaglianza uomo-donna. Nei miei nove anni alla Corte Costituzionale, avevamo la Carta sempre sul tavolo. Si potrebbe dire “sono solo 139 articoli, li saprai a memoria”, eppure tante volte ricominciavo da lì, andavo a rileggere quello che c’era scritto. E, credetemi, si riscoprono sempre sfumature diverse: grandi valori che nel contatto con una situazione nuova, un contesto nuovo, con i problemi che vengono dalla vita, sprigionano nuovi significati, nuova luce. Perciò, la nostra Costituzione, teniamocela cara. Dopo la Seconda guerra mondiale si aprì una stagione diversa anche nella legislazione sui diritti umani. Che cosa resta di quel momento storico? MARTA CARTABIA - È stata davvero una fase gloriosa. Tutta quell’epoca del Dopoguerra, che Norberto Bobbio ha definito L’età dei diritti nell’omonimo e bellissimo libro (Einaudi, 1990), è stata una stagione di grande fermento e di movimento culturale ad ampio spettro. Un’altra pagina bellissima è stata la scrittura della Dichiarazione universale dei diritti umani, che fu condotta con una sapienza straordinaria da Eleanor Roosevelt. Mentre il mondo si spaccava in due e sarebbe rimasto diviso per lunghi anni, lei riusciva con una pazienza infinita a far convogliare su quelle trenta affermazioni, a partire dalla dignità umana, persone che esprimevano le culture più diverse: araba, cinese, europea, africana, sudamericana. Sembrava impossibile e invece quelle pagine hanno messo in moto grandi cambiamenti. Noi abbiamo la Corte europea dei diritti umani, istituita nel 1959, che è ancora oggi un pungolo molto importante: all’Italia, ad esempio, ha sollecitato diversi interventi sul tema delle carceri. Non tutto dunque, di quella stagione, è andato perduto. Forse, con un eccesso di fiducia, si è coltivata l’illusione che i diritti umani si sarebbero diffusi ovunque nel mondo. Proprio di recente l’Afghanistan ha fatto vacillare le nostre speranze. Perché non siamo riusciti a far germogliare a Kabul lo Stato di diritto? MARTA CARTABIA - Anche in Afghanistan negli ultimi venti anni si sono realizzati molti cambiamenti, nei quali - tra l’altro - l’Italia ha avuto un ruolo importantissimo. Con il coinvolgimento di tanti uomini e soprattutto donne. Queste ultime hanno fatto un lavoro straordinario. Dopo il ritorno dei talebani, tante donne hanno provato anche a opporre resistenza e sono scese nelle piazze. Un seme è stato gettato e un germoglio ha iniziato a spuntare. Certo, quello che è accaduto di recente ci dice della fragilità di queste conquiste, che ora possono sopravvivere solo nella coscienza. Il lavoro che ora stiamo cercando di fare è sostenere le persone che sono scappate e quelle che sono rimaste, perché quel germoglio non venga soffocato. Quella ventata di libertà, che si è rivelata purtroppo effimera, aveva dato una grande possibilità alle donne. Sappiamo infatti che esiste un mondo in cui non possono studiare, in cui non hanno diritti. Queste donne afghane mi hanno molto turbato, soprattutto perché mi hanno riportato alla mente cose che io non posso dimenticare. Mi hanno colpito quelle mamme che, rendendosi conto che stavano partendo gli ultimi aerei e non ne sarebbero più decollati, hanno preso un loro figlio bambino e lo hanno affidato a uno sconosciuto sperando in un futuro migliore. E questo affidare un bimbo per farlo diventare, nella loro speranza, un uomo libero, libero da condizionamenti sociali, religiosi, ha voluto dire per quelle mamme togliersi un piccolo figlio dal grembo. Ecco, le recenti immagini dall’Afghanistan hanno mostrato un senso materno così forte che mi ha veramente sconvolta. Non dissimile da quello delle mamme che sono in mare e si portano appresso un neonato nuotando anche per lui. Ho sempre pensato che per mettere in salvo un figlio si può fare qualunque cosa. Anche, appunto, rischiare che lo sconosciuto al quale lo si affida sia un incosciente, che non abbia capito il gesto. Ma si tenta comunque. Nelle scorse settimane la senatrice Segre ha firmato una mozione per “sciogliere i partiti, i movimenti e le organizzazioni di matrice fascista”, nonché “tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista”. Il 15 ottobre è stata insultata in una manifestazione No green pass a Bologna. Dal 7 novembre 2019, inoltre, vive sotto scorta: una scorta di carabinieri diventati famiglia, ma che le è stata assegnata per le minacce d’odio che ha ricevuto e continua a ricevere. Lei stessa presiede una Commissione contro l’istigazione all’odio. Che effetto fa, alla luce della sua storia, dopo tanti anni di testimonianza, che accada ancora questo e che ci sia bisogno di iniziative straordinarie? LILIANA SEGRE - La matrice è talmente forte in qualcuno da portarlo a odiare così tanto una persona che neppure conosce. Da quando avevo otto anni sono stata allevata nella consapevolezza di far parte di un gruppo che veniva anche odiato. Così, se dal punto di vista individuale davanti agli epiteti, alle ingiurie vergognose, rispondo sempre con il silenzio, ecco che come ultimo atto pubblico della mia lunga vita ho cercato di promuovere una Commissione contro l’istigazione all’odio. Ho invitato anche la ministra Cartabia a partecipare a una delle audizioni conoscitive. Spero, bisogna sempre sperare fino all’ultimo, che sia utile, che serva, che qualcuno si renda conto. Temo l’utopia. Non perché l’utopia non mi piaccia, ma se questa Commissione diventasse utopia allora sarebbe nata invano. “Dobbiamo agire sulle radici profonde del razzismo e dell’antisemitismo, arginare ogni forma di negazionismo”, ha detto Mario Draghi qui al Memoriale, ricordando che le istituzioni italiane sono impegnate con la Commissione presieduta da Liliana Segre e con la Strategia nazionale coordinata da Milena Santerini. Strategia che chiede proprio, come prima cosa, di rendere rilevanti le norme sull’apologia di fascismo. Serve un ampliamento legislativo o almeno un’applicazione più stringente di quanto già esiste? MARTA CARTABIA - Quando leggo degli attacchi alla senatrice mi dico: “Ma come si fa? Come è possibile di fronte a una persona con la sua storia, di fronte a quello che ha vissuto?”. E mi viene in mente una frase che lei pronuncia spesso, di Primo Levi: “lo stupore per il male altrui”. Questo sul piano personale. Ma mi rendo conto che purtroppo succede. E quindi occorre una reazione. Processo penale, Cartabia si affida alle “grandi firme” per la riforma della giustizia di Liana Milella La Repubblica, 31 ottobre 2021 Per la Guardasigilli l’obiettivo è garantire il rispetto dei tempi del Pnrr. Cinque commissioni, con 48 componenti tra docenti universitari, magistrati e avvocati, e con i tecnici dell’ufficio legislativo di via Arenula, scriveranno nel dettaglio le norme che hanno già ottenuto il via libera del Parlamento: dalle novità nelle indagini preliminari, dall’improcedibilità alla giustizia riparativa. Un ex presidente della Consulta come Giorgio Lattanzi, due ex presidenti della Corte di Cassazione come Gianni Canzio ed Ernesto Lupo, un professore di criminologia come Adolfo Ceretti, e uno di diritto penale come Gian Luigi Gatta. Sono queste le “grandi firme” del diritto italiano che la Guardasigilli Marta Cartabia ha scelto per compiere l’ultimo rush sulla riforma del processo penale. Ognuno presiederà un gruppo di altrettanti colleghi - in tutto sono 48 - che avranno il compito di scrivere materialmente i decreti legislativi. Parliamo dell’ultima tappa della riforma penale che, per gli impegni presi con l’Europa nel Pnrr, deve essere pienamente legge nella primavera del 2022. Una tappa che deve essere rispettata, e che la ministra della Giustizia intende assolutamente rispettare. Per questo, seguendo il “metodo” che aveva già utilizzato nella prima stesura degli emendamenti ai disegni di legge del suo predecessore Alfonso Bonafede sul processo penale, sul processo civile, e sul Csm, anche questa volta ha deciso di usare dei giuristi esterni da affiancare al lavoro dell’ufficio legislativo di via Arenula anche perché la riforma è molto impegnativa e massiccia. Tant’è che sarà proprio la vice capo di quest’ufficio, Concetta Locurto, a coordinare il lavoro con Gian Luigi Gatta, nella veste di consigliere della stessa ministra. A scorrere l’elenco dei nomi, suddivisi in cinque gruppi, colpisce la presenza di un avvocato penalista, nonché docente di diritto penale come Vittorio Manes. E poi magistrati come il procuratore aggiunto di Roma Rodolfo Sabelli, l’ex pm Luigi Orsi, oggi in Cassazione dopo gli anni trascorsi a Milano, Guglielmo Leo, oggi assistente alla Suprema Corte, e prima nel consiglio direttivo della Scuola della magistratura di Scandicci. I cinque “compiti” da fare sembrano complicati. Il primo gruppo, che avrà al vertice Lattanzi, dovrà occuparsi di tutta la fase preliminare del processo, con le novità sulle indagini preliminari e sul rapporto più stringente tra pm e gip. Il secondo, sotto la direzione di Lupo, lavorerà sul processo di primo grado, sui processi in assenza, e sul sistema delle notifiche. Il terzo gruppo, con Canzio, scriverà sul diritto all’oblio e la deindicizzazione dei dati (tema che fa molto discutere), nonché sul sistema delle impugnazioni, e sulle regole del sequestro e della confisca dei beni. Il quarto, con Gatta come presidente, lavorerà sul sistema sanzionatorio penale. Il quinto infine, con Ceretti, ha in carico il capitolo tutto nuovo della giustizia riparativa. Come si può vedere si tratta di una rivoluzione del processo penale, anche se dal centrodestra, che punta solo sui suoi referendum, arriva una ventata fortemente critica sulla Guardasigilli, con l’accusa di “non essere andata a fondo su nessuna questione”. Ci penseranno prima i referendum del Caroccio e dei radicali? Finora la Cassazione ha accettato le firme, e la Lega si è “sfilata” dalla consegna sostenendo che ormai quelle raccolte nelle singole Regioni già c’erano e quindi non aveva senso consegnarne altre. E questo ha sollevato più di un dubbio sul fatto che effettivamente queste firme siano state raccolte ed esistano degli scatoloni, come quelli dell’Associazione Luca Coscioni sull’eutanasia. Ma la partita delle riforme deve chiudersi. Il processo civile è già in ritardo perché l’aula della Camera è fissata per il 29 novembre. Si voterà con la fiducia, come al Senato, quindi il testo resta uguale. Ciononostante, la commissione Giustizia ha tenuto le audizioni ed è in attesa degli emendamenti. Per il processo penale i decreti legislativi, dopo il via libera del consiglio dei ministri, dovranno ottenere un voto delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, ma il governo non è tenuto ad accettare gli eventuali correttivi. In coda la riforma del Csm per la quale siamo ancora alle primissime battute. La giurisdizione deve garantire la qualità di Gianluca Gambogi* La Nazione, 31 ottobre 2021 Da settimane avvocati, magistrati e operatori di giustizia, non fanno altro che parlare della riforma Cartabia. Nei giorni scorsi il ministro ha firmato il decreto per l’attuazione con il quale vengono costituiti 5 gruppi di lavoro. Sono molti gli aspetti che meritano attenzione: si pensi, ad esempio, alla cosiddetta giustizia riparativa, una vera e propria scommessa per il futuro. L’argomento più discusso tuttavia è il cosiddetto ufficio del processo. Non è una novità: l’istituzione risale al 2012. La novità, vera, riguarda la recentissima normativa che prevede procedure di reclutamento del personale addetto all’ufficio. Saranno oltre 16.000 gli assunti, in due scaglioni, con contratto a tempo determinato, con la finalità di aiutare i magistrati a smaltire l’arretrato e organizzare meglio il lavoro. L’obiettivo di ridurre i tempi della durata dei processi è imposto dall’Europa e al suo raggiungimento l’Italia conseguirà cospicui finanziamenti. Difficile spiegare che cosa s’intenda per ufficio del processo. Potremo però riassumere, per semplicità, nel modo seguente: il lavoro del giudice è di tre tipi, studio del fascicolo, decisione e scrittura della sentenza. I nuovi assunti dovranno coadiuvare il magistrato nella prima e nella terza attività e cioè studiare le carte e predisporre la minuta della sentenza. Tutto ciò funzionerà? Auguriamoci di sì. Perché ciò avvenga sarà importante una formazione molto puntuale sui compiti da svolgere delle persone che saranno assunte. Non sarà semplice. In un incontro con gli avvocati penalisti, la Camera penale e il consiglio dell’Ordine, il presidente della Corte d’appello di Firenze ha ricordato che smaltire l’arretrato e ridurre i tempi del processo non deve distogliere l’attenzione dall’obiettivo primario: garantire la qualità della giurisdizione. Una sottolineatura condivisibile poiché il momento che stiamo vivendo e le scelte non devono riflettersi negativamente sulla giurisdizione e sulla qualità delle decisioni che riguardano i diritti dei cittadini. *Professore Ordinario di Diritto Penale all’Università Internazionale di Milano Lo strano caso delle firme leghiste per i referendum sulla Giustizia di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 31 ottobre 2021 Ecco perché sono ininfluenti. Alla Lega va bene. Entro il 10 gennaio la Cassazione avrebbe dovuto trasmettere alla Corte costituzionale il via libera sulla corretta raccolta delle firme. Venerdì mattina, due giorni fa, nel cortile del quartier generale della Lega, in via Bellerio a Milano, ci sono tre grossi furgoni, impreziositi dai manifesti “Chi sbaglia paga”. Sono stracolmi degli scatoloni che racchiudono la bellezza di 4 milioni e 275 mila firme, quelle raccolte dalla Lega per i sei referendum sulla giustizia promossi insieme ai Radicali. Mentre i militanti stipano i furgoni, Roberto Calderoli - con al collo un borsone contenente i sei hard disk con le firme digitali e i relativi certificati - parla al telefono con la Cassazione. La Suprema Corte ha infatti reso noto alla Lega che delle firme non ha alcun bisogno. Perché per quanto la riguarda, sono sufficienti le nove richieste di indire i referendum provenienti dai consigli regionali. Sono pure troppe anche quelle, in realtà: per promuovere la consultazione popolare sono sufficienti le richieste di cinque Regioni. Mentre a sollecitare i referendum sono state tutte le Regioni a guida di centrodestra: Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Veneto. Nove. Calderoli aveva l’appuntamento per la consegna ieri mattina alle 10. Ci pensa un attimo, si consulta con Salvini e i radicali e poi lo disdice: “Non preoccupatevi, non veniamo. Non le consegniamo”. È vero, Calderoli per quattro mesi ha passato i giorni e pure le notti in via Bellerio per coordinare i volontari, parecchi dei quali deputati e senatori, con un compito pochissimo divertente: verificare le firme. Accoppiare le firme raccolte nei gazebo con le certificazioni arrivate dai Comuni sull’iscrizione alle liste elettorali di ciascun firmatario. Ma a quel punto era cambiato tutto. Calderoli si è fermato per un motivo molto concreto. Entro il 10 gennaio, infatti, la Cassazione avrebbe dovuto trasmettere alla Corte costituzionale il via libera sulla corretta raccolta delle firme per il parere sulla legittimità dei quesiti. “Io ho fatto un rapido calcolo: fatti i conti, sarebbero serviti 112 giorni con cento persone che ci lavorassero per dieci ore al giorno”. Davvero troppo. Anche in considerazione del fatto che la Cassazione più o meno nello stesso periodo dovrà passare al vaglio le firme per il referendum sulla coltivazione domestica della cannabis, quello sull’eutanasia dell’associazione Coscioni e quello sull’abolizione della caccia: per il fantastico totale di 6 milioni e 750mila firme. “Avremmo rischiato un ingorgo. La mia paura era che non si riuscisse a perfezionare l’iter, e addio ai referendum. Almeno per l’anno prossimo”. In più Calderoli aveva una seconda preoccupazione. La raccolta delle firme è legata ai rimborsi elettorali: in questo caso, si sarebbe trattato di circa due milioni e mezzo da dividersi tra tutti i promotori di referendum (oltre ai costi del personale della Cassazione). E dunque, una parte cospicua sarebbe finita nelle casse della Lega. Non è un bene, per il partito? “Niente affatto. Non oso pensare a che cosa sarebbe accaduto se fosse venuto fuori che abbiamo messo a carico del pubblico quella cifra quando in realtà bastavano le richieste regionali senza spendere un euro”. In effetti… Resta il fatto che, al di là della novità della firma digitale, l’organizzazione di un referendum resta complicatissima. Ma secondo l’ex ministro alla Semplificazione, quale potrebbe essere una soluzione? “Abolire l’abbinamento del certificato d’iscrizione alle liste elettorali, visto che il ministero dell’Interno ha tutti i dati per sapere chi sia effettivamente iscritto alle liste. Una verifica incrociata tra Cassazione e Interno senza obbligare i promotori a muovere quintali di carta o certificati digitali. Poca spesa, molta resa…”. L’inevitabilità del male che arma i presunti buoni di Simonetta Sciandivasci Il Foglio, 31 ottobre 2021 Il male è inevitabile. Certo, è anche banale, relativo, talvolta persino utile, ma questi sono attributi, valutazioni, e cambiano. Ciò che del male non cambia, invece, è la sua inevitabilità, che è un fatto, difficile ma importante da accettare. Visto da questa prospettiva, ogni crimine, specie se odioso, non acquisisce senso ma realtà, quindi concretezza. Un dramma come quello di Ercolano, se non ci si munisce di questa consapevolezza, presta il fianco alla demonizzazione del responsabile, che a sua volta presta il fianco alla vendetta anziché alla giustizia. E difficile restare lucidi davanti a un uomo che spara a due ragazzi inermi, mentre sono in macchina a chiacchierare, perché li crede due ladri che stanno architettando il furto della sua macchina; un uomo che, mentre non corre alcun pericolo, spara undici colpi a due sconosciuti che stanno facendosi i fatti loro e li ammazza. È difficile guardare nel dramma di Vincenzo Palumbo, l’assassino (53 anni, autotrasportatore), perché quello delle sue vittime, Giuseppe Fusella e Tullio Pagliaro, 26 e 27 anni, sembra infinitamente più grande, anche perché è irreversibile: loro sono morti, lui è vivo. Eppure, sono tre vittime: del male che è inevitabile e pure (soprattutto?) di chi, dando del male una visione moralistica, afferma che esistono buoni e cattivi, e quindi che i buoni siano legittimati a difendersi dai cattivi anche in via preventiva e anzi addirittura che debbano farlo. Tutte le volte che qualcuno ha sparato contro ladri, scippatori, aggressori veri o presunti, il coro delle voci di chi lo ha difeso e lo ha tutelato, in verità, non ha fatto altro che lasciarlo solo, non ha fatto che dire, in un sottotesto che abbiamo il dovere di espungere: lo spazio pubblico è una foresta piena di malintenzionati nella quale ciascun cittadino è solo ed è bene che badi da sé alla propria sopravvivenza. Quest’idea ha contribuito ad alimentare qualcosa che, tra le persone, vista la disgregazione sociale del nostro tempo, abita da molto tempo: il sospetto verso l’altro, che sarebbe, in quest’ottica, sempre animato dalle peggiori intenzioni. La politica sull’immigrazione dell’ultra destra, di fatto e di fondo, si basa su questo assunto - oltre che sulla perversione del principio andreottiano secondo il quale per fare il bene si deve fare il male. Il movente, a Ercolano, è stata l’esacerbazione della paranoia securitaria, che è il prodotto inevitabile del vivere nel sospetto costante. Palumbo dice di essere stato svegliato dall’allarme e di essere corso a prendere la sua Beretta calibro 40, acquistata due mesi fa dopo aver subito un furto, e di aver sparato a uno dei ragazzi perché lo ha visto fuggire. Invece, sembra che abbia sparato quando i ragazzi stavano già allontanandosi in macchina dalla sua abitazione. Undici colpi devono essergli sembrati il solo modo di fare il suo bene, anche quello inevitabile. Quello di Ercolano non è un fatto isolato di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 31 ottobre 2021 Armi. La legittima difesa e i due giovani uccisi. Non erano ladri e non stavano rubando. E, anche se stavano rubando, nessuna norma di legge permette di sparare ad un ladro che non stia minacciando qualcuno. Ma è successo l’altra notte a Ercolano (Napoli). Vincenzo Palumbo, camionista di 53 anni, vedendo un’automobile sospetta non lontano da casa è sceso in strada con la sua pistola, legalmente detenuta, ed ha esploso sei colpi contro la vettura, una Panda, centrando alla testa due giovani, Tullio Pagliaro (27 anni) e Giuseppe Fusella (26 anni), uccidendoli all’istante. Il camionista avrebbe poi telefonato ai Carabinieri dicendo di aver “ucciso due ladri” e, scoprendo che i due giovani non erano malviventi e si erano fermati per caso in quella strada, si sarebbe giustificato dicendo di aver subito di recente il furto dell’auto e un furto in casa di una ingente somma. Non è un episodio isolato. È invece, il frutto, certo indiretto ma avvelenato della propaganda politica delle destre di Salvini e Meloni che per anni hanno diffuso lo slogan “la difesa è sempre legittima”. Lo hanno fatto soprattutto in occasione delle modifiche apportate nel 2019 all’articolo 52 del Codice Penale. Articolo che, pur modificato, prevede tuttora che per essere legittima, la difesa deve rispondere a criteri precisi (“necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta”), ma la tenace propaganda politica ha lasciato intendere che quel “sempre” introdotto nella legge costituisse un viatico a farsi giustizia da soli. Non è casuale, perciò, il silenzio dei due esponenti politici sempre pronti a chiedere condanne esemplari soprattutto quando a commettere furti e rapine sono immigrati o extra-comunitari. La responsabilità penale è sempre del singolo, certo. Ma non si può non notare la responsabilità morale di chi lancia slogan per fare incetta di voti senza considerare gli effetti nefasti delle proprie parole. Soprattutto in un Paese in cui, la voglia di farsi giustizia da sé pervade non solo i social, ma intere, barbare, trasmissioni televisive. Se c’è un allarme oggi in Italia non è certo quello delle rapine nelle abitazioni. Lo certificano i dati Istat che riportano nel 2019 (ultimo dato disponibile e anno prima del lockdown per la pandemia Covid) un minimo storico degli ultimi venti anni di 1.818 rapine in abitazione. Se consideriamo tutte le rapine (banche, uffici postali, esercizi commerciali, abitazioni, in strada ecc.) nel 2019 ve ne sono state 24.276 meno della metà delle 51.210 del 2007. E nel 2019 sono stati 9 gli omicidi per “furti e rapine” in tutta Italia: fatti gravissimi, ma rappresentano un altro minimo storico degli ultimi venti anni. Non si hanno, invece, dati ufficiali sugli omicidi con armi legalmente detenute perché né il Viminale né Istat li riportano. È una grave mancanza perché, come si evince dai dati resi pubblici dall’Osservatorio Opal, nel triennio 2017-19 sono stati almeno 131 gli omicidi perpetrati con armi regolarmente detenute a fronte di 91 omicidi di tipo mafioso e di 37 omicidi per furto o rapina. Oggi quindi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o dai rapinatori. È un dato impressionante e che dovrebbe far riflettere se si considera che meno di una persona su dieci o dodici tra la popolazione adulta ha una regolare licenza per armi. È ciò che, purtroppo, hanno sperimentato sulla loro pelle i due giovani di Ercolano. Non vi è, pertanto, nessuna necessità di porre mano alle norme che regolamentano la legittima difesa: anche con le recenti modifiche non giustificano nessuna pretesa di farsi giustizia da soli e garantiscono il diritto a difendersi quando è minacciata la nostra incolumità. Sarebbe, urgente invece introdurre - come abbiamo ripetuto su questo giornale - norme più restrittive sulle licenze per armi e controlli più frequenti e rigorosi sui legali detentori. Ma, soprattutto, è necessaria un forte presa di posizione da parte delle forze politiche che davvero hanno a cuore la sicurezza pubblica. Soffiare sul fuoco della paura e del rancore per alimentare la corsa alle armi rischia di portarci ad una deriva di stampo giustizialista. Di cui, francamente, non abbiano alcun bisogno. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa - Opal E se a morire fosse la retorica della difesa sempre legittima? di Lorenzo Rosoli Avvenire, 31 ottobre 2021 Il duplice omicidio di Ercolano e i frutti di certi slogan politico-mediatici. La tragedia di Ercolano ha fatto due vittime innocenti. Speriamo che possa farne una terza. Che però è molto meno innocente. Ed è tempo venga messa a tacere per sempre. I primi due morti sono Giuseppe Fusella, 26 anni, e Tullio Pagliaro, 27 anni, ammazzati a colpi di pistola a Ercolano (Napoli) da un autotrasportatore di 53 anni, Vincenzo Palumbo, che li aveva presi per ladri. Una vicenda che ha suscitato dolore e scandalo. Ma c’è una terza morte che si augurano quanti credono in una convivenza dove “pace e giustizia si baceranno”, e per costruirla agiscono e lottano. E la morte di quella scellerata retorica per cui “la difesa è sempre legittima”. Una retorica che affonda le radici nell’insicurezza - reale e percepita-di tanta parte della società italiana, ma che è stata deliberatamente coltivata da ampi settori della classe politica e dei nuovi e vecchi media. Fino a generare un’atmosfera velenosa. E frutti letali. Le indagini stanno svelando il contorno di questa tragedia. I due studenti di Portici erano incensurati. E, ha reso noto la Procura di Napoli, “non avevano armi da fuoco né strumenti atti allo scasso o per agire a volto coperto. Nessun elemento acquisito permette di ipotizzare che le vittime si trovassero” davanti alla villetta di Palumbo “per commettere furti o altro genere di reati contro il patrimonio o la persona”. Ciò nonostante, Palumbo li ha presi per ladri. E ha sparato. Ben undici colpi, cinque dei quali hanno raggiunto l’auto con i due ragazzi a bordo. La dinamica dei fatti, alla luce degli “esiti documentati dell’indagine”, prosegue la nota della Procura, “appare rivelare una condotta intenzionalmente e senza giustificazione rivolta a cagionare la morte violenta dei giovani”. Di fronte a queste prime risultanze, l’esecrazione per l’uccisione di Giuseppe e Tullio è stata generale e condivisa. Ma dolore e scandalo sarebbero stati egualmente unanimi se fosse, invece, accaduto che le due vittime fossero risultati ladri in azione, o persone che per tali potevano essere verosimilmente scambiate? Ecco il punto. Se sei un ladro e ti colgo sul fatto, ho il diritto- dovere di spararti? O di ucciderti? Se sei un ladro, la tua vita vale meno del bene che stai rubando a me o ad altri? C’è un pezzo di Italia che sembra pronto a dire sì. C’è un pezzo d’Italia che crede, appunto, alla retorica della “difesa” che è “sempre legittima”. C’è un pezzo d’Italia che crede nella sicurezza “fai date”, dove il privato cittadino, fosse anche un legale detentore di armi (com’era Palumbo: e si dovrà riflettere sul fatto che tante violenze nel nostro Paese siano commesse da legali detentori di armi), si sostituisce al poliziotto e al giudice, e in tempo reale fa le indagini, emette la sentenza ed esegue la condanna. C’è un pezzo d’Italia che la pensa così, anche grazie a una propaganda martellante. Quel pezzo d’Italia non va lasciato solo. Non va abbandonato ai piazzisti della paura, della violenza, della morte. Va invece ascoltato, educato, portato alle ragioni, alla cultura, allo stile della vita. Chissà che la tragedia di Ercolano non aiuti a seminare dubbi nelle persone e negli ambienti contagiati da quella retorica. Chissà che la “morte per errore” di Giuseppe e Tullio non ci insegni che l’errore non sta nel fatto che sono stati uccisi due innocenti, ma che nessuno è mai abbastanza colpevole da meritare di essere ammazzato. Nella ragione o nel torto, direbbe don Mazzolari, “tu non uccidere”. Mai. Il delitto del Circeo e quella verità che abbiamo voluto dimenticare di Jennifer Guerra L’Espresso, 31 ottobre 2021 Il massacro fu uno spartiacque: lo stupro come reato contro la persona. Eppure, a distanza di 46 anni i femminicidi non smuovono né intellettuali né politici. E ancora si fatica ad accettare che ogni violenza privata abbia una dimensione pubblica. La prima volta che ho sentito parlare del massacro del Circeo avevo 10 anni. Angelo Izzo era stato messo in semilibertà e non appena uscito di prigione aveva ucciso a Ferrazzano Maria Carmela e Valentina Maiorano, madre e figlia. Non so cosa mi rimase impresso all’epoca: se la vicenda in sé, lo sguardo luciferino di Izzo o la fotografia di Donatella Colasanti che usciva insanguinata dal bagagliaio della Fiat 127, rimandata in onda da qualche telegiornale o talk show pomeridiano. Sta di fatto che quel nome, quel fatto, rimasero latenti da qualche parte nella mia testa di bambina, per poi ritornare nell’adolescenza, quando lessi il famoso articolo di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera dell’8 ottobre 1975. Allora lessi di quel massacro con il distacco dell’aneddoto storico, come se fosse possibile trattarlo allo stesso modo dei fatti di Valle Giulia o dell’uccisione di Aldo Moro, ma nemmeno quella interpretazione bastava a rendere il Circeo qualcosa che potessi riuscire a comprendere. In anni più recenti, anche grazie al mio percorso femminista, lo spettro del Circeo è tornato più volte a trovarmi. Nei libri che raccontano il femminismo storico degli anni Sessanta e Settanta, le sevizie inflitte a Donatella e Rosaria e la morte di quest’ultima sono sempre citate insieme ai fatti più importanti di quei decenni, quasi uno spartiacque tra una stagione radicale e l’inizio del suo declino. Nella sua efferatezza e spettacolarizzazione, per più di una generazione di donne di questo Paese è stato un trauma collettivo, qualcosa che sconvolgeva nel privato e andava discusso nelle assemblee e nei luoghi della cultura. D’altronde, era avvenuto in un anno particolarmente significativo per le lotte femminili: nel 1975 esplodeva il caso dell’aborto con l’arresto dei radicali del Cisa (Cenro Italiano Sterilizzazione e Aborto) di Firenze, veniva fondata la Libreria delle donne di Milano, si teneva il secondo grande convegno femminista a Pinarella di Cervia. Tra le tante questioni al centro del dibattito c’era anche quella dello stupro, all’epoca reato contro la morale pubblica e non contro la persona e, soprattutto, confinato nel rapporto uomo-donna: “Una violenza, quella dello stupro, che nessuno considera politica: politica è la violenza davanti alle scuole, sono gli attentati fascisti, gli agguati, i corpo a corpo, ma lo stupro no”, si scriveva a giugno di quell’anno sulla rivista femminista Effe. Pochi mesi dopo sarebbero cambiati per sempre i codici per decifrare la realtà: al Circeo la violenza era anche e innegabilmente politica e di classe, come sottolineò quasi ogni commentatore dell’epoca. Il massacro che si era consumato era anche nato dallo scontrarsi di due mondi all’apparenza non comunicanti tra loro. Ma soprattutto, sebbene non fosse di certo il primo caso di cronaca a coinvolgere una violenza carnale, l’eufemismo lirico con cui si chiamava un tempo la violenza sessuale, fu il primo a mostrare che a violentare e uccidere non erano soltanto squilibrati o maniaci, ma anche ragazzi per bene e dalla faccia d’angelo, che non avrebbero fatto alcuna fatica a trovare una compagna. Per la prima volta, con l’evidenza testimoniale e scioccante delle immagini e delle parole di una sopravvissuta, per un breve momento apparve con chiarezza che il movente che si celava dietro la violenza non era il desiderio sessuale, ma il potere. Era il potere che aveva spinto Ghira, Guido e Izzo ad arrogarsi il diritto di disporre come volevano del corpo delle due ragazze; era il potere che li aveva convinti di poter restare impuniti; era il potere che aveva concesso loro di ridere e scherzare per le due morte nel bagagliaio. Ma questo fu, appunto, un breve momento. Le femministe che si erano formate nella mutualità del supporto alle vittime di violenza lo ripetevano da anni: lo stupro non era sesso, non era un’indecenza contro la morale pubblica, ma un crimine contro la persona che si radicava nel rapporto, prima di tutto politico, di sopraffazione dell’uomo sulla donna. Il delitto del Circeo sembrava la prova più incontrovertibile di questa ipotesi, che tuttavia a 46 anni di distanza dai fatti sembra ancora non essere stata accettata. Se così fosse, oggi nessuno parlerebbe di “raptus” o di “troppo amore” quando una donna viene uccisa dall’ex o dal partner attuale o cercherebbe segni di colpevolezza in una ragazza che “non si è difesa” o “è stata ingenua” e si è fatta stuprare. Lo stupro nel 1996 è diventato reato contro la persona e non più contro la morale, ma questo non è bastato a convincere l’opinione pubblica che ogni violenza sessuale, da quelle quotidiane che nessuno racconta alle più eclatanti, si consuma nell’abuso di potere. Oggi il tema della violenza non è più motivo di scandalo, ma è diventato una specie di rumore di fondo. Ho provato a pensare se la mia generazione abbia avuto un caso analogo al delitto del Circeo, ma non mi è venuto in mente nulla di simile. I casi di cronaca che hanno popolato la mia infanzia e che hanno per vittime giovani donne, dal delitto di Avetrana a quello di Garlasco, li ricordo solo come sequenze di immagini e video martellanti o ricostruzioni dettagliate e morbose in programmi televisivi spazzatura. I femminicidi che nel nostro Paese continuano ad avvenire uno ogni tre giorni e le violenze sessuali di cui è stata vittima almeno una donna su tre sono ormai qualcosa a cui ci siamo tristemente abituati: non ci scioccano né ci fanno discutere, non ci chiamano direttamente in causa e non smuovono gli intellettuali del Paese. L’unica analisi politica che viene fatta è quando a commettere la violenza è una persona non italiana o di origine straniera. Solo quando la notizia è strumentale alla propaganda di qualche partito si chiama in causa la dimensione pubblica che irrompe su quella privata. Ma come ha dimostrato il delitto del Circeo, ogni violenza di genere ha una valenza politica, perché politico è il rapporto tra i generi e politico è il modo in cui esso è stato plasmato. Per pochi mesi dopo il 30 settembre 1975 sembrava una verità incontrovertibile, mentre oggi passa inosservata tra i mille massacri di cui non c’è una fotografia iconica che ne dimostri l’efferatezza. Napoli. La denuncia di Ciambriello: “Detenuto con diversi tumori in carcere a Secondigliano” di Antonio Lamorte Il Riformista, 31 ottobre 2021 “Corsia preliminare per tutela salute”. Le lungaggini della giustizia gli impediscono di ricevere cure mediche specialistiche. È quanto sta vivendo Massimo, 43enne detenuto nel reparto SAI del carcere napoletano di Secondigliano, che deve convivere con diversi tumori. A segnalare il caso è Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, che questa mattina gli ha fatto visita nel penitenziario del capoluogo. A Massimo, spiega Ciambriello, sono stati autorizzati il 12 ottobre scorso dalla Corte di Assise di Catania gli arresti domiciliari nel suo comune della provincia “autorizzandolo a lasciare la propria abitazione per recarsi ad effettuare le necessarie cure mediche, cure e terapie”. Anche la direzione sanitaria di Secondigliano, aggiunge Ciambriello, “ha dichiarato la sua incompatibilità con il carcere”. Qui però sorge il problema: “Stando in carcere per un altro reato definitivo, si attende da giorni la decisione della magistratura di Sorveglianza di Napoli”, spiega il garante campano dei detenuti. Quindi, nonostante le condizioni del 43enne siamo gravi e incompatibili con lo stato di detenzione, “resta ancora in carcere, aspettando carte “e cartuscelle”, direbbe Pino Daniele”. Per Ciambrielllo “i ritardi non possono giustificare, in questi casi, sia la fisiologica solitudine del momento decisionale che i tempi lunghi per la parte conoscitiva ed organizzativa per le decisioni del magistrato. La tutela della salute e della vita dovrebbero avere una corsia preliminare”. Prato. Da detenuto a imprenditore. “Ora do lavoro a chi esce” di Giacomo Cocchi Avvenire, 31 ottobre 2021 Da detenuto a imprenditore di successo che dà lavoro ai carcerati. E la storia di riscatto di Manci Gezim, cittadino albanese di 33 armi, che ha passato un terzo della propria vita in carcere. “Quali reati? Tanti capi di imputazione, anche gravi, non lo nascondo, ma oggi se sono una persona diversa lo devo all’aiuto della Caritas”, dice Manci che adesso ha un lavoro - ha aperto in proprio una impresa edile - una moglie e una figlia di diciotto mesi. Siamo a Prato, dove da alcuni anni esiste Casa Jacques Fesch, una struttura messa a disposizione da Una parrocchia della periferia ovest della città. Qui vengono accolti i detenuti a fine pena che hanno diritto a un periodo di permesso, ma non hanno un luogo dove andare, e le famiglie dei carcerati che hanno bisogno di impunto di appoggio quando vengono in visita ai propri cari reclusi alla Dogaia, il secondo istituto penitenziario della Toscana per dimensioni e capienza. Jacques Fesch era un criminale francese convertito in carcere, a lui sono dedicati questi ambienti aperti da Caritas e gestiti dall’associazione Don Renato Chiodaroli insieme al cappellano del carcere don Enzo Panini. Manci. Gezim ci arriva nel 2017, quando la casa è in ristrutturazione. Il giovane sta finendo di scontare dieci anni di carcere, una volta fuori deve ricominciare daccapo, non ha documenti, non ha un lavoro, non ha un posto dove andare. Per quelli come lui il rischio di recidiva è altissimo: quasi due detenuti su tre, senza opportunità, quando sono liberi tornano a delinquere. Gezim viene coinvolto dalla ditta di costruzioni Saccenti nei lavori alla Casa Jacques Fesch e impara il lavoro di muratore. Per sei mesi vive nella struttura e qui viene aiutato da Elisabetta Nincheri, una dei volontari della Chiodaroli. Il giovane capisce che si stanno aprendo possibilità importanti per lui. Ricambia la fiducia data e inizia a ricostruire la propria vita. Conosce quella che diventerà sua moglie, il lavoro va così bene che decide di mettersi in proprio e aprire una impresa edile dove adesso lavorano nove dipendenti. “Di questi, tre sono ex detenuti-sottolinea Gezim Come hanno aiutato me, anche io voglio fare altrettanto. Quando si esce dalla prigione si è vulnerabili e il rischio di tornare a delinquere è altissimo. Per fortuna quando sono tornato libero ho incontrato la Caritas e non le brutte compagnie che mi avrebbero sicuramente riportato sulla cattiva strada. Questo servizio di accoglienza e accompagnamento fa parte di un progetto più ampio promosso dalla Diocesi di Prato attraverso la Caritas, chiamato “Non solo carcere”, con l’obiettivo di sostenere i detenuti in un percorso di reinserimento nella società. Tra le varie iniziative c’è l’apertura di un reparto di confezioni all’interno della Dogaia. “Una vera e propria sfida perché rappresenta una opportunità di lavoro vero, con un regolare contratto per i sei detenuti operai impiegati nella produzione di coprimaterassi” dice il vescovo di Prato, Giovarmi Nerbini, che sette mesi fa ha benedetto l’avvio dell’impresa. Non si tratta dunque di “assistenzialismo”, ma di una vera e propria attività imprenditoriale realizzata grazie alla collaborazione con il gruppo Pointex, tra le maggiori realtà del distretto tessile di Prato. Dopo un iniziale periodo di rodaggio, negli ultimi tempi questa piccola costola produttiva della grande azienda sta viaggiando ad una media di circa 300 pezzi al giorno, ed è così riuscita a raggiungere l’obiettivo prefissato dai committenti. I sei lavoratori impiegati hanno una giornata lavorativa di otto ore per cinque giorni la settimana e uno stipendio base di 1.200 euro netti al mese. “La loro risposta è buona, stanno lavorando bene” dice il titolare della Pointex, Marco Ranaldo. Si tratta di un altro importante tassello del grande impegno della Caritas al contrasto alla recidiva, calcolata, secondo le ultime stime, intorno al 70%. Livorno. Rugby in carcere: il resoconto di un pomeriggio memorabile nprugby.it, 31 ottobre 2021 La partita tra “Pecore Nere” e “Rino...Cerotti”- Un evento dal sapore speciale, che va ben oltre il significato tecnico-sportivo. La partita di rugby valida per la giornata di apertura del campionato toscano Old tra le ‘Pecore Nere’ - la squadra dei detenuti del carcere labronico de ‘Le Sughere’ - e i Rino…Cerotti - la formazione Old dei Lions Amaranto Livorno - è stata seguita molto da vicino da rappresentanti delle istituzioni, dai rappresentanti ai vertici dello sport cittadino, e non solo. Sugli spalti del campo in sintetico posto all’interno dell’istituto penitenziario si sono dati appuntamento, nel pomeriggio di questo sabato di fine ottobre, tra gli altri, la vice sindaco del comune di Livorno Libera Camici, il direttore de ‘Le Sughere’ Carlo Alberto Mazzerbo, la responsabile area trattamentale del carcere labronico Marcella Gori, il garante dei detenuti del comune di Livorno Marco Solimano, il delegato provinciale del CONI Gianni Giannone, il fiduciario comunale di Livorno e Collesalvetti del CONI Mario Fracassi, e inoltre per il comitato toscano della FIR il consigliere Edoardo Barcaglioni e l’addetto stampa Luca Sardelli, per i Lions Amaranto Livorno il presidente Mauro Fraddanni, il consigliere Fabio Bizzi e l’addetto stampa Fabio Giorgi, e per l’Associazione Amatori Rugby Toscana il presidente Stefano Magonzi e il consigliere Arienno Marconi. Si è trattato di un vero e proprio derby tra due squadre con la stessa ‘radice’: la meritoria attività di un pallone da far rotolare all’interno del carcere è da attribuire infatti ai Lions Amaranto Livorno, che - con la stretta collaborazione dell’Associazione Amatori Rugby Toscana e grazie alla sensibilità e al concreto appoggio della direzione e del personale dell’istituto penitenziario - hanno lanciato, nel 2014, il progetto. Dopo le prime esperienze, i primi allenamenti e le prime partite amichevoli, il ‘sogno’ di inserire la compagine dei detenuti all’interno di un vero campionato (quello amatoriale Old, nel quale possono giocare solo elementi con almeno 35 anni d’età) si è materializzato nel 2019. La stagione 2019/20 si era chiusa anzitempo, per colpa dell’emergenza della pandemia. Dopo 20 lunghi mesi, il sintetico de ‘Le Sughere’ è tornato dunque, questo sabato, di fronte ad una platea tanto importante, ad ospitare una partita di rugby, con punti in palio. Le sfide del G20: democrazie alla prova, i vantaggi dei regimi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 31 ottobre 2021 Ciò che più conta è avere mostrato all’opinione pubblica mondiale che certi Paesi, le democrazie occidentali in particolare, sono ancora in grado di cooperare fra loro. Troppi e aggrovigliati problemi per un summit solo? Nell’incontro del G20 che si conclude oggi a Roma, tra colloqui ufficiali e riservati, si è discusso di Covid, di clima, di energia, ma anche di Afghanistan, di Mediterraneo, di nucleare iraniano, di Africa. Al di là delle dichiarazioni e di qualche accordo (global minimum tax) ciò che più conta è avere mostrato all’opinione pubblica mondiale che certi Paesi, le democrazie occidentali in particolare, sono ancora in grado di cooperare fra loro. Anche se le divisioni restano. Molto di più non si poteva pretendere. Basti pensare che il presidente Joe Biden è arrivato a Roma con un piano di investimenti su welfare e transizione ecologica su cui non dispone ancora dell’approvazione del Congresso. O si pensi a come, in tutti i temi, a cominciare da clima e energia, siano in gioco conflitti di interesse anche aspri. E su quanto pesi la competizione fra le grandi potenze. Il summit è però anche un’occasione per riflettere sul rapporto fra le democrazie e le potenze autoritarie, grandi (Cina, Russia) o medie che siano. Al tempo della Guerra fredda le democrazie occidentali vivevano in un mondo “semplice”: noi di qua, loro di là. Allora gli occidentali, per contrapporsi all’Urss, potevano appoggiare (e lo fecero, eccome) governi autoritari in America Latina, in Asia o in Africa ma quell’appoggio, ai loro occhi, era giustificato, sia pure a malincuore, dalla Realpolitik, ossia dal fatto che occorreva costruire dighe per impedire al comunismo sovietico di dilagare. Oggi il mondo, per gli occidentali, è molto più complicato. Come dimostrano i rapporti difficili e ambigui che tanto gli Stati Uniti quanto gli europei intrattengono con le potenze autoritarie. Con le quali devono cooperare pur cercando di tenerle a bada. Liaisons dangereuses, legami pericolosi. Le differenze, istituzionali, politiche e sociali, mostrano i punti di forza ma anche di debolezza delle democrazie rispetto alle potenze autocratiche. Le democrazie sono vincolate al rispetto dei diritti dei loro cittadini. Le autocrazie devono soprattutto guardarsi dalle periodiche rivolte popolari. I governi delle democrazie sono condizionati dagli umori e dalla volontà degli elettori. I regimi autocratici hanno i mezzi per manipolare le elezioni (quando e se ci sono). Le democrazie si innestano su società relativamente aperte, ove imprese e associazioni di ogni tipo agiscono, dentro e fuori i confini nazionali, subendo solo un blando controllo governativo. I regimi autocratici esercitano il controllo politico, almeno in linea di principio, su ogni aspetto della vita economica e sociale dei propri Paesi. Queste differenze si riflettono nei rapporti internazionali. Le democrazie hanno due grandi punti di forza. Quando una democrazia è in pericolo, quando si trova in guerra con potenze autoritarie, e a rischio di invasione, essa mostra una capacità di mobilitare i cittadini per la difesa del Paese superiore a quella che sono in grado di esibire le suddette potenze autoritarie: nelle prove drammatiche i cittadini (della democrazia) sono pronti a sopportare spontaneamente maggiori sacrifici di quelli che sopportano, per pura coercizione, i sudditi, spesso demoralizzati, delle autocrazie. Il secondo punto di forza è che le società aperte (democratiche e occidentali) hanno mostrato una capacità di creare legami transnazionali - la cosiddetta globalizzazione - che le chiuse società autocratiche non avrebbero mai potuto generare (anche se possono, vedi Cina, sfruttarne i vantaggi). Anche il G20 è figlio dell’Occidente e della sua vocazione aperta e includente, rappresenta un’evoluzione dell’originario G7. Forse non è un caso se le due massime potenze autocratiche (Cina e Russia) abbiano partecipato all’incontro di Roma solo in videoconferenza. Ma ci sono anche i punti di debolezza. Le democrazie, come diceva un osservatore dell’Ottocento, Alexis de Tocqueville, sono meno attrezzate dei regimi autoritari per condurre con efficacia i loro affari esteri. Sono perennemente in bilico fra le esigenze imposte dalla competizione di potenza e i vincoli interni, la necessità di rispondere a elettorati volubili. Gli autocrati, privi di forti vincoli interni, possono pianificare le loro mosse di politica estera anche nel medio termine. I governi democratici si muovono in un orizzonte temporale ristretto, definito dai tempi delle scadenze elettorali (e dagli umori popolari rilevati dai sondaggi). Da qui le tante incertezze e ambiguità. Come mostrato dalla disastrosa ritirata americana da Kabul e dalla più generale incapacità, di americani e europei, di definire chiare linee di azione quando devono fronteggiare l’aggressività dei regimi autoritari. Si pensi alla difficoltà di stabilire come neutralizzare certe mosse del despota turco Erdogan, capo di un Paese membro della Nato ma anche ostile all’Occidente. O come mantenere l’alleanza strategica, essenziale in Medio Oriente, con l’Arabia Saudita senza provocare il rigetto delle proprie opinioni pubbliche, se chi oggi la governa decidesse di nuovo di ammazzare in modo spettacolare - magari proprio in Occidente - qualche altro dissidente (come fece, in un consolato a Istanbul, vittima il giornalista Jamal Khashoggi). O come fare fronte comune davanti alla nuova politica di potenza cinese che ormai si esercita in molti modi e su tutti i tavoli. O come arginare il neo-imperialismo russo. Giusto a proposito: Putin conosce la storia e il suo modello è lo zar Pietro il Grande (vissuto a cavallo fra XVII e XVIII secolo) con i suoi disegni imperiali. L’Occidente ha abolito la storia, vive solo nel presente e non ne sa nulla. Nel breve termine gli autocrati sono avvantaggiati. Si pensi alla rapidità con cui Cina e Russia hanno accresciuto la loro influenza in Africa. Dopo quella europea dell’0ttocento, la prossima “spartizione” dell’Africa sarà fra russi e cinesi? Nel medio-lungo termine, però, i punti di forza delle democrazie potrebbero favorirle. Soprattutto, potrebbe favorirle la loro vocazione all’apertura (che pure, al momento, le espone a continue, malevoli interferenze) e alla inclusione. Apertura e inclusione che anche il G20 dimostra. Ipotizzarlo può essere, a scelta, il frutto di un eccesso di ottimismo oppure di un realismo non del tutto infondato. I chiaroscuri finanziari delle scelte del G20 di Nicoletta Dentico Il Manifesto, 31 ottobre 2021 Il vertice. Draghi ripropone la formula da applicare alle multinazionali. Critiche dalla società civile. Per interrompere quanto prima le conseguenze sanitarie e socioeconomiche della pandemia, liberando la scienza e la moltiplicazione delle capacità produttive in ambito farmaceutico, stimolando politiche finanziare e una ripresa economica in grado di attaccare le profonde disuguaglianze interne ai paesi, impegnandosi a una drastica e tempestiva riduzione delle nefaste emissioni di CO2. Oppure possono decidere di proseguire nella solfa retorica delle buone intenzioni, cui finora hanno fatto seguito scelte di campo spesso vecchie, ispirate a un rilancio di quella che lo studioso Dani Rodrick chiama iperglobalizzazione: scelte empiricamente già sbagliate. Il summit G20 si è aperto con l’ennesima denuncia, da parte del presidente del G20 Mario Draghi, dell’inaccettabilità morale dello scenario che riguarda il mancato accesso dei vaccini ai paesi poveri, e con l’ennesima invocazione a fare ogni sforzo per superare l’impresentabile realtà di una copertura vaccinale che lambisce il 70% nei paesi ad alto reddito, contro il 3% dei paesi a basso e medio reddito. La mancata partecipazione del presidente russo Vladimir Putin, motivata da ragioni epidemiologiche, dimostra che il contagio continua a colpire con la sua imprevedibilità e con pesante numero di vittime (oltre 1000 al giorno in Russia da alcune settimane), ciò che impone un altro piglio per gestire la crisi. Peraltro, la stessa asimmetria si configura sul piano economico. Lo scoppio della pandemia ha imposto massicci piani di stabilizzazione che hanno impegnato nel mondo qualcosa come 16.000 miliardi di dollari in fondi pubblici tra aprile 2020 e 2021, per il sostegno alle imprese, alle famiglie, e ai sistemi sanitari. Come ha ricordato in apertura dei lavori il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres, i paesi ricchi sono riusciti a investire il 28% dei loro bilanci annuali nelle politiche di ripresa dalla pandemia, mentre i paesi più poveri hanno destinato allo scopo solo il 2%. Per questo è urgente un serio impegno finanziario del G20, rivolto soprattutto alle economie africane, ha chiesto Guterres. Alla vigilia del G20, il presidente francese aveva annunciato un intervento addizionale di 100 miliardi di dollari da parte del G20 a sostegno del continente. Nella conferenza stampa d’avvio del summit, Draghi ha parlato della necessità di una redistribuzione delle risorse attraverso la riallocazione di parte dei diritti speciali di prelievo (special drawing rights, SDR) emessi dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) il 23 agosto scorso, in ragione di 650 miliardi di dollari. Si tratta di emissioni proporzionali alle quote che ogni paese versa al FMI, e alla dimensione economica (in termini di PIL) di ciascuno stato. Secondo il FMI, 375 miliardi di diritti speciali di prelievo sono stati già distribuiti alle economie avanzate, lasciando alle economie emergenti e a quelle dei paesi a basso reddito i restanti 275 miliardi di dollari. Solo ai paesi a basso reddito servirebbero almeno 450 miliardi di dollari per venire incontro alle esigenze economiche prodotte dalla pandemia, secondo il FMI. “L’apertura di Draghi è interessante” ha commentato Riccardo Moro, sherpa del C20 a presidenza italiana, “ma diventa seria solo se l’impegno dei paesi ricchi è vincolante nei confronti di quelli a basso e medio reddito, ai quali serve una urgente iniezione finanziaria”. Secondo Moro, “650 miliardi di dollari sono peraltro insufficienti: come società civile avevamo chiesto al G20 una iniezione molto più generosa, di almeno 2000-3000 miliardi”. Evidentemente occorre far buon visto a cattivo gioco. Alla società civile spetta ora monitorare attentamente le modalità di questo trasferimento: le erogazioni devono rispondere a principi di trasparenza, non condizionalità diretta o indiretta, non sostituzione con i fondi dedicati alla cooperazione o alla finanza climatica. È possibile e del tutto auspicabile uscire dalla crisi di Covid con una storica iniezione di cassa: lo spiega molto bene un briefing sul tema messo a punto da Global Policy Forum per il G20, denso di proposte. Ora è il momento di passare all’azione concreta. Draghi ha anche confermato un accordo del G20 a sostegno di una tassazione globale per le transnazionali (corporate tax). L’idea, concepita qualche tempo fa in ambito OCSE e poi ripresa nei negoziati G7, aveva riscosso l’appoggio di circa 136 paesi lo scorso ottobre. Le fonti fiscali che provengono dai grandi attori economici sono la grande sfida per i paesi in via di sviluppo. Come spiega Oxfam, la tassazione delle multinazionali copre il 19,2% delle entrate fiscali in Africa e il 15,6% dei ricavi in America Latina e nei Caraibi, ma il sud globale si trova in generale più esposto all’evasione fiscale da parte delle imprese multinazionali, a causa di sistemi fiscali più fragili e facili da eludere. Ora spetta al G20 consegnare alla corporate tax un approdo operativo. A Roma, l’accordo riguarda una tassazione del 15% a partire dal 2023, si legge nella bozza di comunicato finale. L’elefante che partorisce il topolino, nel senso che siamo molto lontani dalla aliquota del 21% definita in origine dalla amministrazione Biden. Il tetto fissato dal G20 rappresenta un’aliquota veramente minima e ampiamente insoddisfacente, “quasi al limite della presa in giro”, ha chiosato Riccardo Moro. Il limite del 15% è poco più del 12% applicato nei paradisi fiscali. La proposta di global corporate taxation non cambia affatto dunque il quadro di riferimento dei regimi fiscali che si dovrebbero combattere. Inoltre, anche qui, il rischio è che lo schema di tassazione sia costruito in modo da riorientare i fondi nei paesi in cui le multinazionali sono maggiormente operative, ovvero hanno le sedi fiscali. Una partita di giro? La giornata è stata segnata nel pomeriggio da incontri bilaterali, appuntamenti essenziali per ritessere i fili di una fiducia che fa acqua da tutte le parti tra i paesi della comunità internazionale. Il G20, che non È un’istituzione multilaterale, può tuttavia giocare un ruolo importante per sostenere e rafforzare la costruzione di un assetto multilaterale adeguato alle sfide del mondo. In questo senso, le organizzazioni del C20 in conferenza stampa hanno posto l’accento sulla necessità della costruzione di processi di democrazia intergovernativa sotto l’egida delle Nazioni Unite. Anche Xi Jinping, in collegamento da Pechino, chiede un “vero multilateralismo” per promuovere la costruzione di una “comunità con un futuro condiviso per l’umanità”. Ma non c’è molto agio per l’ottimismo. Restiamo invischiati in una bassa marea della politica globale. Il flop della scuola italiana? Non per tutti: per le élite funziona benissimo di Roberto Contessi* Corriere della Sera, 31 ottobre 2021 Riflessioni sul saggio “Il danno scolastico” di Mastrocola-Ricolfi: se l’ascensore sociale è bloccato è colpa anche dei professori che ormai fanno lezione solo per le prime due file, quelle dei ragazzi che hanno in casa libri e giornali: un’élite che si perpetua scegliendo per i propri figli gli indirizzi, le scuole e spesso anche le sezioni migliori. Se ci potessimo nascondere nella tasca di un professore di scuola superiore e potessimo spiare quanto avviene in classe, il panorama cui di solito assisteremo sarebbe il seguente: metà dei ragazzi stenta a seguire la lezione, di solito condotta a braccio dalla cattedra, mentre un’altra metà, di solito disposta nelle prime due file, partecipa e capisce. Tra di loro, solo tre o quattro ragazze o ragazzi si mostrano capaci di operare in modo veramente autonomo. Questa fotografia è scattata oramai in modo consolidato da tutte le indagini statistiche, nazionali o internazionali, che valutano le capacità fondamentali dei nostri studenti, cioè leggere, scrivere e far di conto. Ovviamente, le medie generali raccontano le cose dall’alto, senza dirci che l’andamento degli alunni risente dell’indirizzo scolastico (classico, scientifico, tecnico, navale, e così via), dalla zona di residenza (nord, sud, campagna o città) e addirittura dalla sezione scelta nello stesso istituto scolastico. In ogni caso, mezza classe, dunque il 50% dei nostri figli e nipoti, oggi è in chiara difficoltà nell’eseguire compiti fondamentali alle porte dell’esame di Stato. Per quale ragione? Una tesi che sta tornando di nuovo al centro del dibattito è quella dell’abbassamento dell’asticella, tesi contenuta ne Il danno scolastico: avete voluto la scuola dell’inclusione, intendendo per inclusione la promozione di massa? Questi sono i risultati: il titolo di studio frutto di un atteggiamento inclusivo è un guscio vuoto che non è utile soprattutto al figlio delle famiglie meno abbienti e meno colte. Perché? È vero che quel giovane giungerà alla fine del percorso scolastico, ma il titolo di studio ottenuto lo rende un uccellino incapace di trovare un lavoro, fare un concorso, men che meno seguire un corso universitario. Al massimo, dicono gli autori del saggio Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, alcuni ragazzi ottengono quel titolo a furia di ripetizioni, ma, attenzione, neanche quel tipo di insegnamento li libererà dalla loro debolezza. E’ però possibile trarre dagli stessi dati utilizzati da Mastrocola-Ricolfi una tesi completamente opposta. Poiché il sistema scolastico spesso non permette di emancipare i figli delle famiglie in difficoltà, i ceti colti e spesso benestanti continuano a trasmettersi, quasi in modo ereditario, lavoro e ricchezza attraverso una buona formazione culturale. Il sistema scolastico che abbiamo rappresentato, infatti, è proprio una mela tagliata a metà: se ci concentriamo sulla parte ammaccata e poco saporita, ci accorgiamo che essa non può migliorare lo status sociale di chi parte svantaggiato, se però ci concentriamo sulla parte matura e succosa, ci accorgiamo che il sistema nutre chi non parte per nulla svantaggiato, in quanto riesce a trarre il massimo dal metodo scolastico pensato esattamente per lui. Com’è possibile? Poiché è dotato dal contesto sociale e familiare di strumenti culturali potenti. Se torniamo nella tasca di un qualunque professore, l’esempio esplode in tutta la sua forza: l’insegnante che parla dalla cattedra a braccio, in orario mattutino, al massimo usando un libro di testo o una slide, sta parlando agli uditori delle prime due file, che infatti annuiscono, lo seguono, e a cui riesce ad accendere una passione perché quei ragazzi, bontà loro, vengono da case con una certa dotazione di strumenti di cultura. Hanno familiarità con libri, giornali, e-book, concerti, film. Le indagini più attente ci dicono che non per forza sono benestanti ma hanno famiglie per cui la formazione rappresenta un valore. Il sistema scolastico è dunque marcio per coloro che ne hanno più bisogno per emanciparsi ma è un frutto saporito per chi sa benissimo cosa farne. I genitori gli hanno trasmesso un talento e loro lo applicano, continuando a rappresentare una élite che nel nostro Paese si attesta grosso modo al 20% della popolazione. L’élite fa di tutto per essere tale: sceglie per i propri figli gli indirizzi scolastici migliori, gli istituti scolastici pubblici di qualità e, non contenta, sceglie anche la sezione migliore, come attesta un indicatore spia all’interno delle indagini statistiche Invalsi, secondo cui gli alunni più bravi si addensano dentro specifiche scuole, di certi quartieri, di certe città, addirittura di certe sezioni in specifici istituti scolastici. A questo punto l’analisi di Mastrocola e Ricolfi sembra incapace di vedere chi sono i veri attori del danno scolastico. Il danno si celebra nello scrutinio finale: passando artificialmente i voti annuali dall’insufficienza alla sufficienza, in quello scrutinio si deruba il promosso di quanto gli viene attestato. Questo “furto di competenze” provoca un vuoto che non viene mai colmato: e chi mai dovrebbe colmarlo se non gli stessi attori dello scrutinio? Però, per contro, come potrebbero mai colmarlo se l’azione didattica non è rivolta a compensare il derubato? Nel mantenimento dei privilegi, l’élite mostra tutta la sua avarizia ma anche la sua miopia. E’ avara perché l’élite di una società dovrebbe essere generosa con le classi più svantaggiate, come lo erano finanche gli aristocratici francesi che nel Settecento investivano parte dei propri proventi per migliorare le condizioni di chi poi avrebbe lavorato per loro. L’élite stessa, insomma, dovrebbe richiedere una scuola più giusta ed equa invece di prodigarsi a formare giovani con competenze di altissimo livello che esportiamo all’estero a fronte però di una massa sempre più debole culturalmente e a bassa occupazione. Lo dovrebbe fare soprattutto perché questa massa sta assumendo atteggiamenti sempre più intolleranti, che alla fine mineranno le basi democratiche della società, replicando l’avarizia delle loro classi dirigenti con la violenza. *Insegnante e scrittore Ddl Zan, proteste in 48 città: “In Senato una vergogna” di Adriana Pollice Il Manifesto, 31 ottobre 2021 Nuove iniziative a L’Aquila, Siena, Piacenza e Rovigo. A Firenze sit in di protesta davanti la sede di Italia viva: “Il partito di Renzi tra i maggiori responsabili”. Quarantotto piazze mobilitate in 4 giorni per protestare contro la “tagliola” che ha affossato il ddl Zan al Senato. Ieri a Palermo il coordinamento del Pride cittadino ha avvisato: “Inopportuna qualunque presenza istituzionale in testa al corteo. Nella tutela dei nostri diritti siamo sole e soli, l’apertura del corteo è presidiata esclusivamente dal movimento Lgbtqia+. Ma la partecipazione di chiunque abbia un ruolo istituzionale è come sempre ben accolta”. Il sindaco Leoluca Orlando nel pomeriggio ha aderito con la giunta alla manifestazione: “La bocciatura del ddl è un atto eversivo che viola i principi della Costituzione”. Bologna si era già mobilitata in mattinata con il Rivoltapride, piazza Maggiore piena al grido di “Molto più di Zan”: “Siamo scesi in strada consapevoli che questa legge rappresentava il minimo di ciò che vogliamo, un primo passo verso una legge sull’autodeterminazione di genere”. Il sindaco Matteo Lepore ha esposto la bandiera arcobaleno dal palazzo comunale. “Bologna deve dire qualcosa - ha dichiarato Porpora Marcasciano, consigliera comunale trans di Coalizione Civica -, siamo una spanna avanti ai palazzi romani”. A Firenze l’appuntamento era in piazza della Repubblica ma un gruppo nutrito di contestatori ha scelto il sit in davanti la sede di Italia Viva. Il presidente dell’associazione Love my way, Marco Filippini: “Iv non è l’unica responsabile ma è quella che più ha contribuito, tra i partiti non di destra, al fallimento a cui abbiamo assistito”. Dal partito sono scesi il coordinatore cittadino, Francesco Grazzini, e Marco Ricci: le loro spiegazioni non hanno convinto i manifestanti che hanno replicato urlando “fascisti”. A Torino piazza Carignano gremita, anche in questo caso il neo sindaco si è schierato con le proteste A Udine mani alzate al grido di “vergogna”. In mille a Cagliari dove è arrivato Alessandro Zan, che sta girando le città in risposta al voto del Senato. Anche qui si è urlato “vergogna” ma in sardo: “Bregungia. Con la sceneggiata in parlamento avete decretato la vostra fine”. Manifestazioni anche a Bari e Caserta. A Napoli l’appuntamento era nel pomeriggio. Tra gli attivisti Daniela Lourdes Falanga, prima donna trans a ricoprire la carica di presidente dell’Arcigay cittadina: figlia di un boss di Torre del Greco, da anni è impegnata in percorsi formativi nelle scuole per fermare la spirale di violenza contro le persone Lgbtqia+, violenza che spesso comincia proprio in famiglia. Lo scorso marzo Falanga ha seguito la vicenda di Maria Paola Gaglione, la ventenne del Parco Verde di Caivano uccisa dal fratello che non accettava la sua relazione con un ragazzo trans. Allora dichiarò: “Se vogliamo capire cosa vuol dire che bisogna avere una legge contro l’omolesbobitrasfobia, questo è uno dei casi più espliciti”. Ieri ha spiegato: “Il ddl Zan aveva tre punti importanti. La formazione: avere la possibilità negli enti di ogni ordine e grado di trattare l’argomento degli affetti, delle differenze sessuali, dell’identità di genere. Dava la possibilità a uno stato ancora retrogrado sul piano culturale, non laico, non pienamente democratico di poter preparare tutti, già da piccoli, sulle differenze e libertà individuali, per una crescita sana sul piano della socialità”. E poi gli enti di accoglienza: “Sono pochissimi in Italia - sottolinea Falanga - a occuparsi delle persone Lgbtqia+ vittime di violenza, ostracismo sociale, di una cultura della negazione. Era anche l’occasione per fare chiarezza sull’identità di genere, il modo in cui ci percepiamo e come volgiamo che la società ci percepisca. Le persone trans sono più bersagliate, hanno problemi nei momenti importanti: quando vanno a votare, a scuola, in ospedale. Inoltre la legge ci avrebbe permesso di mettere l’attenzione sulla misoginia di uno stato patriarcale e machista che ostacola il protagonismo femminile, portare alla luce i diritti dei disabili”. La destra ripete che la violenza è già punita: “Paghiamo lo scotto di una lettura della Costituzione affidata a gruppi eteronormativi. La legge contro le violenze esiste, lo sappiamo. Il problema è che una persona trans o due gay vengono violati quando intercettati come tali. Urla e applausi in Senato danno giustificazioni agli ignoranti per incidere nelle vite degli altri. È una discussione violenta quella della destra, anche cattolica”. L’ostracismo sociale può diventare povertà: “Le persone trans, gay, non binarie - conclude Falanga - non trovano lavoro perché intercettate come tali, la ricerca di un’occupazione diventa assurda. Per fortuna sta cambiando l’approccio dei genitori. Nelle scuole incontro 6mila ragazzi l’anno, sono solidali con i compagni che fanno coming out. Quella dei partiti retrogradi è una politica fallimentare”. Gli applausi dopo la bocciatura della legge Zan sono come crimini d’odio di Pietro Turano L’Espresso, 31 ottobre 2021 Quelle urla risuoneranno per sempre nella storia del nostro Paese come violenze contro tutte le persone lesbiche, gay, bisessuali, trans che aspettavano una legge che le tuteli. Ma la lotta non si ferma certo qui. Quelle grida, quegli applausi. Quegli abbracci, quelle esultazioni da stadio, quelle risate. Sono violenze contro tutte le persone lesbiche, gay, bisessuali, trans. Contro tutte le donne, tutte le persone disabili, cittadini e cittadine italiane che da 25 anni chiedono, pretendono, aspettano una legge che le tuteli dalle discriminazioni, dalle violenze dai crimini d’odio che ogni giorno vengono raccolti attraverso le testimonianze, le richieste di aiuto e di accoglienza da servizi come la Gay helpline. Quelle risate e quegli applausi sono come crimini d’odio. E sapremo da oggi, da ieri, che dietro ogni discriminazione a scuola, sul lavoro, dietro ogni ragazzo e ragazza cacciata di casa, ci sono e ci saranno quelle risate e quegli applausi e quelle esultazioni che non dimenticheremo. Perché risuoneranno per sempre nella storia del nostro Paese. Rimbalzeranno per sempre sulle pareti delle aule del Parlamento della Repubblica. E c’è un dato ancora più amaro, ancora più difficile da digerire: quelle forze politiche, quella peggiore destra omotransfobica del nostro paese, che esultava, non rappresenta la maggioranza parlamentare e questo significa che oltre alle loro feste, c’erano le feste, gli applausi invisibili silenziosi di tanti altri senatori e di tante altre senatrici fra i banchi delle stesse forze politiche di cui fanno parte anche i primi firmatari e le prime firmatarie del disegno di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Questo è il dato politico che ci portiamo a casa, una sconfitta generale di un’intera classe politica che non ha fatto il suo lavoro. Perché l’unico compito è quello di ascoltare e rappresentare i bisogni e le esigenze, le voci dei cittadini e delle cittadine italiane: un compito che non è stato portato avanti. Ma alle persone, a chi vive quotidianamente la discriminazione e dentro contesti di violenza interessa fino a un certo punto sapere il nome o il cognome di chi ha tradito, chi è colpevole, di chi è la responsabilità. Perché alle persone interessa il risultato, interessa sapere se è stato raggiunto un nuovo risultato, un nuovo strumento per emanciparsi dai contesti di violenza. Però allo stesso tempo potremmo chiederci e iniziare a riflettere sulla legittimità dell’uso del voto segreto in quei casi in cui esporsi da una parte o dall’altra non implica un pericolo per la vita del politico e della politica di turno. Le associazioni hanno gridato a gran voce, segnalando i pericoli e rischi fin dalle prime modifiche al testo originario, i primi accordi, i primi compromessi interni alla stessa maggioranza e su cui le destre hanno solamente potuto fare leva consapevoli dei nervi scoperti, sapevamo che c’era e che stava piombando una sentenza capitale su questo disegno di legge. Eppure ci abbiamo sperato. Ci siamo illusi e ci siamo illuse perché ci sembrava incredibile che dopo 30 anni non saremmo riusciti e riuscite a raggiungere questo risultato eppure questo è quanto. Ma sia chiaro: quel grido che è stato ascoltato nelle aule del Parlamento risuonerà in tutte le città da oggi perché siamo stanchi e stanchi e perché la lotta non si ferma certo qui. Anzi. Droghe. Dai Serd “grande allarme” per i ragazzi che assumono sostanze chimiche di Francesca Soro La Stampa, 31 ottobre 2021 C’è “grande allarme” per i valdostani sempre più giovani che assumono nuove sostanze chimiche, anche mischiate alle droghe classiche, “con danni a lungo termine incalcolabili”. Lo ha detto lo psichiatra Gerardo Di Carlo, da marzo responsabile del Servizio per le dipendenze patologiche (Serd) dell’Usl della Valle d’Aosta, durante la mattinata di oggi organizzata alla Cittadella dei giovani di Aosta dall’assessorato regionale alla Salute, dall’Usl e dal Comune, in occasione della Giornata mondiale sulla Salute mentale. I ragazzi e le ragazze minorenni arrivati quest’anno al Serd dell’Usl valdostana per l’articolo 121, ossia segnalati al servizio pubblico per tossicodipendenze, sono in media 12-15 al mese. Soprattutto tra i 14 e i 16 anni, con un primo contatto con le sostanze stupefacenti già in prima media. Numeri importanti per la regione. “È vero che stiamo vedendo persone che durante il primo anno di pandemia, nel 2020, era difficile intercettare, ma comunque il trend è in crescita rispetto al 2019” spiega Di Carlo. Il problema deriva dall’aumentare di nuove molecole chimiche create per lo “sballo” (alcune neanche ancora codificate dalle autorità) e spesso inserite in altri prodotti stupefacenti senza che l’acquirente ne sia consapevole: “Ci arrivano continuamente segnalazioni dal sistema nazionale di allerta precoce di sostanze più tradizionali mischiate con sostanze chimiche, di laboratorio, atte a potenziarne gli effetti. Il ragazzo crede di comprare normale hashish invece compra hashish più altre sostanze come il metadone ad esempio, e questo ha effetti incredibili” racconta lo psichiatra. “Su 100 adolescenti che utilizzano hashish o marijuana, tra 5 e 10 sviluppano dei sintomi perché hanno una vulnerabilità che non conoscono - spiega Di Carlo. Alcuni di loro potrebbero diventare propriamente psicotici. Ma se aumento la potenza delle sostanze, la vulnerabilità potrebbe non essere più necessaria. Perché se ci sono cannabinoidi sintetici (che nonostante il nome sono più simili alla cocaina, ndr) 100 o 1000 volte più potenti della cannabis, anche una persona con nessuna vulnerabilità subirà un impatto immenso. Quindi stiamo vedendo dei giovani che manifestano delle disabilità che per un ventenne sono assurde. Al di là dell’aspetto di produttività psicotica, ci troviamo di fronte a adolescenti e ragazzi che hanno bisogno dell’assistenza di un famigliare nella gestione della quotidianità. Parlo di livelli del tipo “ricordati che devi farti la doccia”. Gli effetti sulla psiche, insomma, rimangono nel tempo. Con le nuove sostanze in circolazione, molte delle quali si comprano via internet, capire esattamente cosa ha assunto il giovane che sta male non è semplice. Al pronto soccorso il clinico che ha il sospetto preleva dei campioni e li manda al Centro antiveleni e Centro nazionale di informazione tossicologica della Fondazione Maugeri di Pavia, cui si rivolgono, per consulenza specialistica, tutti gli operatori di pronto soccorso d’Italia davanti a un caso di sospetto avvelenamento. Il Centro è in prima linea sul monitoraggio delle nuove sostanze psicoattive d’abuso disponibili sui mercati mondiali. L’anno scorso sono state individuate in Valle intossicazioni da 4-5 nuove molecole. “Spesso abbiamo il sospetto clinico, ma non il dato certo. Per questo credo che il fenomeno sia molto più ampio di quello che stiamo vedendo” sottolinea il direttore del Serd. C’è qualcosa a cui le famiglie devono fare particolare attenzione? “Anche se l’adolescenza è una fase di transizione - spiega Di Carlo - quando l’adolescente mostra cambiamenti visibili e forti di umore, di comportamento, scatti d’ira, bisogna preoccuparsi e capire cosa sta succedendo”. Tra i prodotti sintetici in voga, Di Carlo cita “Shaboo” e “Khat”, accattivanti nomi per sostanze da fumare o ingerire che si rivelano killer della salute e a volte della vita. Secondo i dati del Cav per ogni cocainomane c’è un consumatore di “novità”: dai cannabinoidi sintetici ai catinoni (usati per le abbuffate sessuali). E si presentano spesso sotto forma di “Spice herbs” (spezie) o di sali da bagno. Tripoli, l’appello all’Italia di 3.000 migranti: “Non finanziate più la guardia costiera libica” di Fabio Tonacci La Repubblica, 31 ottobre 2021 Per la prima volta i richiedenti asilo si sono organizzati in un presidio davanti alla sede dell’Unhcr. Sono lì dal 2 ottobre. “Dopo il raid della polizia nel quartiere di Gargadesh, non ci sentiamo più sicuri”, dicono, in un forum organizzato da Mediterranea e Amnesty International. “Aprite i corridoi umanitari, o moriremo qui”. Da 26 giorni a Tripoli, davanti agli uffici dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, tra materassi e sporcizia sono accampati oltre 2.700 richiedenti asilo. Soprattutto eritrei, ma ci sono anche somali, malesi, gambiani, senegalesi. Almeno trecento sono donne, alcune delle quali incinta. Sono gli scampati della retata del 2 ottobre. All’inizio del mese una maxi operazione di polizia a Gargadesh, uno dei quartieri più poveri della città, ha portato nel centro di detenzione di Ghout al-Shaal - secondo fonti ufficiali - cinquemila migranti. Accusati di violazione della legge sull’immigrazione, traffico di droga, prostituzione. Il ministero dell’Interno libico l’ha definita operazione sicurezza. Chi è scampato al raid adesso è in strada. “Abbiamo paura a tornare nel quartiere, perché non ci fidiamo più di nessuno, possono venire a prendere anche noi, gli arrestati sono stati il doppio dei cinquemila dichiarati”, racconta David Yambio, un ventiquattrenne sudanese in collegamento da Tripoli durante il forum organizzato da Mediterranea Saving Humans (la piattaforma civica impegnata nei soccorsi in mare) e Amnesty International Italia. “Durante il raid del 2 ottobre ci sono stati sei morti, altri fratelli sono spariti e non ne sappiamo più niente. Per favore, aiutateci: dobbiamo essere evacuati, qui non siamo al sicuro”. Per la prima volta, i richiedenti asilo di Tripoli si sono organizzati in un’assemblea permanente e si sono dati un nome: “Refugees in Lybia”. Yambio, che come gli altri manifestanti aveva trovato una sistemazione di fortuna a Gargadesh, ne è il portavoce, anche perché sa parlare inglese. “Il nostro obiettivo è duplice”, spiega. “Da una parte denunciare le violenze, gli omicidi, gli stupri, le torture che subisce chi viene intercettato dalla guardia costiera libica e riportato nei centri di detenzione irregolari. Dall’altra mandare un messaggio all’Italia e all’Europa: smettete di finanziare quella guardia costiera. Dando milioni di euro a questa gente, vi rendete complici di un’enorme e sistematica violazione dei diritti umani. Nelle prigioni ci sono stato, so di cosa parlo”. Yambio è al presidio davanti alla sede dell’Unhcr, ogni tanto gira la telecamera del telefonino e mostra cosa gli sta intorno. Bambini che dormono, donne stese a terra, uomini che parlano in piedi, materassi, tende, sacchi a pelo, sacchetti, coperte, resti di cibo, poco più avanti il via vai delle macchine lungo una strada polverosa. Nessun servizio igienico. “Siamo qui dal 2 ottobre, e resisteremo fino a quando avremo la forza. Non abbiamo altra scelta. L’Unhcr e l’Iom (l’Organizzazione mondiale per le migrazioni) sanno che siamo qui, ma dicono di non poter fare niente per noi. Ripeto: l’unica nostra via di salvezza è l’evacuazione coi corridoi umanitari. Non è che vogliamo venire per forza in Europa, ci basta di vivere in un Paese che rispetti i diritti umani”. Al presidio ritengono che il 2 ottobre sia stato un rastrellamento dimostrativo. “Hanno accusato donne incinte di essere prostitute”, racconta Majed, che dopo il raid è riuscito a scappare dal centro di detenzione dove è stato per una settimana. “Gli abitanti del quartiere dove ci troviamo ora all’inizio ci portavano pane e ci aiutavano, ora stanno diventando più aggressivi perché temono che gli attacchiamo malattie. Mercoledì notte una macchina ha investito un uomo che era con noi, l’abbiamo portato in ospedale. Stamattina abbiamo saputo che è morto”. Sudan. Centinaia di migliaia di sudanesi dicono “no” al golpe di Michele Giorgio Il Manifesto, 31 ottobre 2021 Colpo di stato. Cortei a Khartoum e in altre città. L’esercito ha fatto fuoco e ucciso a tre dimostranti a Omdurman città-gemella della capitale. Decine di feriti. Erano centinaia di migliaia i sudanesi che ieri, mobilitati dalla Sudanese Professional Association, una coalizione di attivisti, hanno percorso le strade di Khartoum e di altre città del Sudan per dire “no” al colpo di stato militare di lunedì scorso guidato dal generale Abdel Fattah Burhan. Fiumi umani, accompagnati da canti e balli, slogan e lo sventolio di bandiere nazionali, che confermano come la popolazione del paese africano non sia disposta a rinunciare alla “transizione democratica” cominciata con le proteste popolari di due anni fa contro il presidente Omar al Bashir. I militari hanno fatto il possibile per limitare l’afflusso dei manifestanti, anche interrompendo o limitando le comunicazioni telefoniche e internet. Ma non hanno potuto fermare il passaparola. Per qualche ora la situazione si è mantenuta calma con l’esercito fermo sulle sue postazioni. Poi quando i cortei si sono diretti verso punti considerati strategici, come i ponti sul Nilo che portano al centro di Khartoum, i militari hanno cominciato a sparare facendo diversi feriti. Lo stesso è avvenuto in altre aree. A Omdurman città-gemella della capitale, tre dimostranti sono stati uccisi dal fuoco dei soldati nei pressi del palazzo del Parlamento. Secondo il Comitato indipendente dei medici sudanesi, a sparare sarebbero state “milizie del consiglio militare golpista”. Spari e lanci di candelotti di gas lacrimogeni anche sulla strada 60 a Khartoum, nell’area di Buri e sulla Nile Street a Khartoum vicino al ponte Al Manshiya. Decine di migliaia di persone sono scese in strada inoltre a Bahri, a nord della capitale. Hanno scandito slogan a favore del ripristino del governo civile sciolto dai militari dopo aver arrestato il primo ministro Abdalla Hamdok, e diversi suoi ministri, e aver sospeso le disposizioni del documento costituzionale che delinea la transizione politica in Sudan. In totale da lunedì scorso il fuoco dell’esercito avrebbe fatto tra 11 e 14 morti e oltre 200 feriti, di cui decine ieri da spari o intossicato dai gas lacrimogeni. Tutto il Sudan è “in arresto” ha protestato la ministra degli esteri Mariam al Mahdi, rimossa ma non arrestata dai golpisti, in un’intervista all’agenzia Afp. “Siamo tutti in arresto in queste condizioni poiché non possiamo più comunicare tra di noi”, ha spiegato al Mahdi, figura di spicco dell’Umma Party, il più grande del Sudan, e figlia di Sadiq al Mahdi, l’ultimo leader sudanese democraticamente eletto ed estromesso da Omar al Bashir nel 1989. “Il golpe del 25 ottobre” ha aggiunto “è stato un tradimento gravissimo. Non ho avuto discussioni con nessuno di loro (i militari, ndr) e non lo farò mai”. Pare che il generale al Burhan, anche per salvare la faccia, voglia coinvolgere il premier Hamdok, di fatto agli arresti domiciliari, nella formazione di un nuovo governo, con la partecipazione di alcuni dei suoi ministri. Esecutivo che, comunque, sarebbe sotto il controllo dei militari e non avrebbe alcuna autonomia. Allo stesso tempo il generale golpista potrebbe scegliere di andare avanti con i suoi fedelissimi, forte dell’appoggio silenzioso dietro le quinte che gli assicurano alcuni paesi, non solo arabi. I golpisti, non è un mistero, sono sostenuti dalla troika araba: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati che hanno rafforzato l’esercito sudanese fin dal giorno successivo alla caduta di al Bashir - vicino al movimento dei Fratelli musulmani considerati “terroristi” dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi - allo scopo di rimettere in questione i rapporti di forza nel Corno d’Africa troppo sbilanciati a favore dell’alleanza avversaria turco-qatariota. Anche la Russia guarda con favore alla mossa fatta da Burhan. Quest’ultimo potrebbe dare a Mosca la possibilità di consolidare la sua presenza in un’area geografica di grande valore strategico. La Russia dal Sudan qualche mese fa aveva ottenuto il via libera a una base logistica sul Mar Rosso ma il parlamento di Khartum non ha mai approvato l’accordo. Diritti negati in Afghanistan: una tragedia da non dimenticare di International Media Association for Peace dirittiglobali.it, 31 ottobre 2021 “Afghanistan Diritti Negati” è il tema dell’incontro organizzato dalla “Federazione delle donne per la pace nel mondo” (WFWP- Padova), dal Comune di Cadoneghe, in collaborazione con “Radio Bullets”, svoltosi martedì 26 ottobre in modalità online. “Come Assessore alle Politiche sociali, alla cultura e all’istruzione del Comune di Cadoneghe, mi sento di dire che l’educazione è una delle cose fondamentali con le quali le persone riescono a difendersi e ad avere un’arma di protezione. È proprio per questo che in Afghanistan si vogliono colpire le donne nel loro desiderio di essere delle persone istruite, autonome, libere e che di conseguenza sanno difendersi”. Con queste parole Sara Ranzato ha aperto l’incontro sui diritti violati in Afghanistan. Sono intervenuti Barbara Schiavulli, Reporter di guerra e Direttrice di Radio Bullets; Arianna Briganti, Vice presidente di Nove Onlus-caring humans; Umberto Angelucci, Presidente della Federazione delle Famiglie del Medio Oriente e Nord Africa; Marilyn Angelucci, Presidente di WFWP dell’Afghanistan e Flora Grassivaro Presidente di WFWP di Padova. “I fatti successi a Kabul ci hanno scosso profondamente, ma purtroppo dopo due mesi l’attenzione sembra molto calata e la situazione appare peggiorata. Oltre al contesto politico e ai diritti negati, c’è una gravissima crisi umanitaria”, ha ricordato Flora Grassivaro. Ha inoltre parlato dell’allarme dell’Onu per più di ventidue milioni di Afghani che quest’inverno soffriranno di insicurezza alimentare, della terribile siccità dovuta ai cambiamenti climatici e di circa otto milioni di bambini che non avranno acqua. “Da una stima Unicef diciotto milioni di persone, di cui un milione di bambini, hanno bisogno di assistenza sanitaria ed entro il 2022 ci saranno 550 mila sfollati. La maggioranza della popolazione sarà sotto la soglia di povertà”. Ha sottolineato come “non possiamo più stare a guardare. Le donne sono sottoposte a una pressione enorme, che le vuole rinchiudere tra le mura di casa, senza possibilità di istruzione, di lavoro, soggette all’imposizione maschile e ai matrimoni precoci”. Ha esortato a dare voce a chi non ce l’ha e a continuare a organizzare le raccolte di fondi. Ha parlato della dichiarazione stilata dalla WFWP Internazionale, firmata da diverse organizzazioni internazionali, che è stata inviata alle Nazioni Unite e alla sua Sezione speciale sull’Afghanistan dopo l’avvento dei Talebani. Nel documento articolato in nove punti si afferma che senza il rispetto dei diritti delle donne, dei giovani e dei bambini, il Paese non potrà avere un futuro. Si ricorda il ruolo cruciale delle donne come madri di famiglia, leader di comunità e membri vitali della società. Flora Grassivaro ha concluso affermando che “dobbiamo dare voce alle donne e alle bambine, non solo perché è giusto e lo meritano, ma anche per promuovere una civiltà globale che si prenda cura di tutta l’umanità”. “Sono stata a giugno in Afghanistan pensando di raccontare tutto quello si credeva potesse succedere e improvvisamente è successo prima che la gente se l’aspettasse. Dovevo partire in settembre, ma la situazione è precipitata e mi sono ritrovata bloccata in Italia e ho lavorato per le evacuazioni” ha raccontato Barbara Schiavulli. Appena è stato possibile la giornalista è tornata in Afghanistan per cercare di raccontare la società civile che non si vede più ma che c’è, e per interessarsi dei progetti del World Food Programme. Ha annunciato che tornerà in Afghanistan in dicembre, perché “è importante non abbassare i riflettori su questa situazione. Quello che sta avvenendo può essere arginato raccontando le voci di queste persone che vogliono urlare la loro sofferenza, ma che possono farlo solo attraverso i giornalisti che riescono ad arrivare nel loro paese”. Gli afghani non sono più le persone di vent’anni fa. Le ragazze di oggi non sono più quelle degli anni novanta completamente analfabete. Sono persone che hanno frequentato l’università e soprattutto nelle città si è formato uno zoccolo duro di intellettuali pensanti, attivi, vivaci, ma che ha bisogno di essere sostenuto. Ci sono manifestazioni di donne che vengono represse e i giornalisti che le seguono vengono infastiditi, molestati, feriti. I giornalisti internazionali hanno una sorta di amnistia perché i Talebani stanno parlando con l’Occidente e vogliono dare un’immagine positiva di sé. “La mia preoccupazione è che quando si spegneranno i riflettori, i Talebani saranno liberi di fare tutto ciò che vorranno. Ora non riescono perché ci siamo noi che li stiamo guardando e ne stiamo parlando. La mia speranza è che questa crisi economica fortissima possa strozzare i talebani e che la necessità dei soldi dei donatori possano diventare una condizione necessaria per garantire tutti i diritti”. Arianna Briganti ha spiegato che la sua associazione è presente in Afghanistan da dieci anni; ognuno dei nove soci ha un’expertise afghano e che se si somma tutto il tempo trascorso dai soci in Afghanistan si arriva a circa cento anni. Il nostro esponente più noto, candidato al Premio Nobel per la Pace due volte, Alberto Cairo, è lì da trentacinque anni consecutivi nei centri della Croce Rossa Internazionale”. La cooperante ha raccontato di aver avuto la possibilità di organizzare un ponte aereo insieme al Ministero degli Affari Esteri e della Difesa e di essere riuscita a evacuare quattrocentodue persone. “In questo periodo stiamo lavorando alle emergenze del paese su richiesta e in collaborazione con le autorità locali. Abbiamo organizzato delle cliniche mobili che offrono servizi sanitari di base per assistere seimila donne e bambini. Offriamo un paniere di beni alimentari di prima necessità a circa seicento persone bisognose e con disabilità. Compriamo prodotti in loco per sostenere l’economia locale e forniamo la legna per il riscaldamento. Attualmente stiamo cercando di capire se e come possiamo sostenere le ragazze che stanno per conseguire la maturità o quelle che affrontano l’esame d’ingresso all’università. Vorremmo riunire in maniera discreta 200 donne che non sono mai andate a scuola per dare loro la possibilità di ritrovarsi nelle case degli insegnanti per studiare. Tutto questo perché le donne non smettono di lottare, di pensare che non sia finita e di credere di avere diritto all’istruzione. Vogliono continuare a lavorare e a contribuire a risollevare una società molto provata. Noi assieme agli afghani andiamo avanti, non possiamo fare altro e non c’è altra possibilità che continuare”. “La Wfwp è andata in Afghanistan nel 1995 e in quel tempo le donne afghane erano uguali alle donne del resto del mondo. Nel 2018, secondo una statistica di Amnesty International, l’Afghanistan era diventato ‘il luogo peggiore per le donne’ per le altissime percentuali di analfabetismo, di matrimoni precoci, di suicidi e di violenze domestiche” ha spiegato con l’ausilio di diapositive Marilyn Angelucci. Ha raccontato che quando la WFWP è arrivata in Afghanistan ha investito soprattutto sulle donne, perché la sofferenza le aveva rese forti, appassionate, desiderose di istruirsi e di impegnarsi attivamente. Ha raccontato come alcune donne, dopo essere state elette in parlamento e non sapendo come svolgere il loro mandato, si siano rivolte alla WFWP. Nel 1996 dopo l’arrivo dei Talebani, la WFWP si è trasferita a Nuova Delhi in India, dove ha aperto una scuola per i rifugiati afghani frequentata in maggioranza da ragazze. “Abbiamo notato come, una volta liberi dall’influenza della forte mentalità tradizionale, i genitori e i figli fossero desiderosi di ricevere un’istruzione. Abbiamo realizzato programmi di microcredito per le donne imprenditrici, di cucito e disegno per le ragazze ed elargito borse di studio per le studentesse”. Ha spiegato come le donne, dopo aver conquistato con grande sacrificio il ventisette percento dei posti in parlamento, con l’avvento dei Talebani, si sono sentite devastate e private delle loro ragioni di vita. “Quello che possiamo fare è far sentire la nostra voce, scoprire quello che in realtà sta succedendo alle donne, organizzare conferenze, indirizzare la pubblica attenzione sulla situazione drammatica delle donne afghane e far sentire loro che siamo dalla loro parte”. Con l’ausilio di diapositive Umberto Angelucci ha raccontato che “dopo essere rientrati in Afghanistan, successivamente all’esperienza in India, abbiamo iniziato a lavorare con i giovani, che sono molto talentuosi e hanno un grande desiderio di imparare e di studiare. Abbiamo organizzato dei seminari per la formazione di giovani ambasciatori di pace, perché diventassero promotori di riconciliazione. Per responsabilizzarli sullo sviluppo del loro paese li abbiamo messi in contatto con il Ministero dell’Agricoltura e dell’Educazione. Li abbiamo aiutati a creare dei progetti per la cura dell’ambiente, che nel 2015 sono stati apprezzati anche dall’allora Presidente Ashraf Ghani”. Ha tenuto a sottolineare come gli afghani siano un popolo molto cordiale e desideroso di aprirsi al mondo. Ha spiegato della sua collaborazione con il Comitato Olimpico Afghano, con il quale ha organizzato anche delle competizioni internazionali. Ha parlato dell’organizzazione nel 2006, sotto l’egida di Universal Peace Federation, di una conferenza sulla pace alla presenza di 300 personalità delle diverse etnie afghane. Ha poi ricordato l’incontro della delegazione internazionale di pace promossa da UPF con il Vice Presidente Karim Khalili nel 2014. Ha concluso parlando dei forti contatti che UPF mantiene con gli esponenti del governo precedente e con i rappresentanti della comunità internazionale per favorire il dialogo con i Talebani e pervenire ad un governo di unità nazionale. L’incontro è terminato con l’intervista a un profugo afghano che è riuscito a portare in salvo i membri della sua famiglia a Padova. L’Africa subisce nel silenzio l’ennesimo scempio ambientale di Luca Manes Il Domani, 31 ottobre 2021 L’oleodotto Eacop (East african crude oil pipeline) si appresta a diventare una delle opere nemiche del clima per eccellenza. Ma non solo, già la fase che precede la realizzazione sta comportando pesanti conseguenze sulle popolazioni locali a causa di una militarizzazione dei territori interessati sempre più massiccia. Una volta realizzato, l’Eacop sarà la più grande pipeline riscaldata al mondo. Con i suoi 1.443 chilometri di tubature taglierà in due l’Uganda, partendo dal distretto di Hoima, e la Tanzania, dove terminerà la sua corsa nel porto di Tanga. A rischio altissimo la riserva naturale ugandese delle cascate Murchison, nei cui pressi sarà estratto l’oro nero per una produzione a pieno regime di ben 216mila barili al giorno. Ma tutta l’area del lago Alberto è in pericolo. I principali giacimenti sono due: Kingfisher, gestito dalla China national offshore oil corporation ltd (Cnooc ltd), e il Tilenga, in capo alla francese Total. Risarcire le comunità - Eacop è ancora in una fase di sviluppo. Sono in corso le prospezioni petrolifere, ma non è stato ancora posato un tubo. Ciò non toglie che sia in atto la fase più cruciale dal punto di vista delle compagnie, con le compensazioni da pagare alle comunità locali che dovranno cedere le terre dove passerà l’oleodotto. Sul campo la situazione è molto tesa, come abbiamo compreso parlando attraverso una piattaforma online con alcuni attivisti e attiviste. I nostri interlocutori ci hanno espressamente chiesto di non menzionare i loro nomi e quelli delle organizzazioni di cui fanno parte, per non mettere a rischio sé stessi e altre persone coinvolte nel fronte anti Eacop. Già in questa fase la repressione dei governi locali è durissima. Negli ultimi giorni sono stati arrestati sei attivisti, rilasciati solo dopo 72 ore e una forte pressione delle organizzazioni internazionali che conducono campagne sul progetto. Ma la scorsa primavera anche una giornalista italiana, Federica Marsi, era stata fermata mentre, con l’attivista Maxwell Atuhura, si stava recando a incontrare le comunità di Buliisa, in Uganda. La presenza di forze di sicurezza pubbliche e private è in crescita esponenziale nelle aree oggetto di interventi infrastrutturali. Come accennato, il nodo del contendere è quello dei risarcimenti da distribuire alle comunità, perché le somme di denaro offerto, a detta degli attivisti, sono inadeguate e solo per una parte degli appezzamenti di terreno. Si arriverà al paradosso che numerosi contadini non avranno accesso a parte delle loro terre perché saranno divise dalle tubature. Un “inconveniente” che non sembra suscitare le preoccupazioni del consorzio costruttore, che però ha già chiesto ai diretti interessati di smettere di impiegare le terre di loro proprietà. Quindi le prime ricadute dell’opera, sebbene ancora sulla carta, ci sono di fatto già state. Il potere negoziale delle comunità è ridotto al minimo, per ora chi non vuole desistere si rifiuta di comunicare gli estremi bancari dove dovrebbero essere trasferiti gli importi relativi alle compensazioni. A fare il lavoro “sul campo” per conto di Cnooc e Total ci pensa la società locale Atacama, composta quasi esclusivamente da ex funzionari governativi, e già accusata da più parti di numerose violazioni dei diritti umani. Dal 2018 a oggi - Dal 2018, quando è iniziata la gestazione dell’Eacop, fino a oggi, le informazioni fornite sia dalle compagnie che dai governi sono ridotte all’osso, ci spiegano gli attivisti. Un’opacità che non fa che penalizzare ulteriormente la popolazione locale. Tuttavia, anche il poco denaro che dovrebbe essere pagato rischia di avere un effetto negativo sugli equilibri dell’area. Le donne, ci dicono, sono quelle che lavorano di più la terra. Qualora questa dovesse venire a mancare in maniera definitiva si ritroverebbero fortemente penalizzate, con il pericolo di essere abbandonate dai mariti, i quali come proprietari saranno gli unici destinatari delle compensazioni. Uno sconquasso sociale di cui nessuno tiene conto, né i promotori del progetto, né i finanziatori. L’opera costerà almeno 3,5 miliardi di dollari. La buona notizia sul fronte italiano è che la banca italiana UniCredit ha già fatto sapere di non voler sostenere Eacop, la cattiva è che ci sarà lo stesso un pesante tocco di tricolore. Saipem e Nuovo Pignone parteciperanno alla costruzione della raffineria, mentre anche Bonatti sarà probabilmente destinataria di una commessa, da capire se anch’essa sul fronte estrattivo o - peggio ancora - per la posatura dei tubi, suo core business. Il tutto rischia di essere garantito da Sace, agenzia pubblica di credito all’esportazione, vista la partecipazione delle società italiane, come rivelato durante la puntata di Presadiretta “Petrolio, il tempo perduto”. Insomma, soldi pubblici per l’ennesimo scempio ambientale nel continente africano. Questa intricata vicenda deve varcare il più possibile i confini africani. È quanto chiedono gli attivisti, che durante la conversazione con noi lanciano un grido d’aiuto, affinché il pubblico europeo si interessi della vicenda e denunci il più possibile la condotta dei governi locali. Squarciare il silenzio che avvolge la storia dell’Eacop è un primo passo per provare a bloccare l’opera, che anche in termini di effetti nefasti sul clima si preannuncia tra le peggiori dei prossimi anni.