Allarme del Garante: detenuti in aumento, rischio sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2021 Negli ultimi 28 giorni si sono registrate 310 nuove presenze. L’aumento riguarda anche i ristretti per pene inflitte (non residue) inferiori a 3 anni. Si rischia un ritorno gradualmente, ai numeri allarmanti del sovraffollamento carcerario. “Aumenta, ormai con costanza, il numero dei detenuti. Oggi sono 54.240, con un aumento di 310 presenze soltanto negli ultimi 28 giorni. Un ritmo che suscita preoccupazione”, osserva il Garante nazionale delle persone private della libertà. Si tratta, secondo quanto segnala il Garante, di un segnale in controtendenza rispetto alla riduzione che si era avuta nel 2020, anche a seguito dell’emergenza sanitaria. Allora i detenuti erano scesi da oltre 61mila di marzo 2020 a 53.387 alla fine di maggio. L’aumento riguarda anche le persone ristrette per pene inflitte (non residue) molto brevi, inferiori a 3 anni: oggi sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1211 persone, altre 5967 per una pena da uno a tre anni. “Un dato numerico che da solo risponde a coloro che affermano che in Italia nessuno è in carcere per pene così brevi”, denuncia il Garante. È un segnale che preoccupa il Garante nazionale dei diritti delle persone privare della libertà personale e che chiama a una riflessione attori diversi: da quelli territoriali alla magistratura sia di cognizione che di sorveglianza nonché chi ha responsabilità politica e amministrativa affinché vi siano volontà, rapidità nelle procedure e risorse che permettano di affrontare con modalità alternative - e certamente socialmente più utili - pene di così lieve entità. Monta, come ha scritto più volte Il Dubbio, una insofferenza che non riguarda solo i detenuti, ma anche gli agenti di polizia penitenziaria che non riescono più a far fronte agli eventi critici che si manifestano. Riforma a parte che riguarda un discorso a lungo termine e che non incide direttamente sugli aspetti dell’esecuzione penale, finora non è stata varata nessuna misura urgente, magari tramite un decreto carcere, che risolva il sovraffollamento estendendo dei benefici, la custodia cautelare come extrema ratio, il discorso dei detenuti con gravi problemi psichici e - come ha sottolineato il Garante nazionale - le persone ristrette per pene lievi da uno a tre anni. Come è noto, contro l’emergenza carceri - sovraffollamento, ma non solo - la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato il decreto di costituzione di una Commissione - presieduta da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Roma tre - per “l’innovazione del sistema penitenziario” i cui lavori si chiuderanno entro il 31 dicembre 2021. La commissione è composta da persone di spessore, tra le quali c’è anche Daniela De Robert del collegio del garante nazionale. Ma i tempi, come la storia insegna se pensiamo alle commissioni dei governi precedenti, sono lunghi e il rischio che infranga con un nulla di fatto è reale. A questo proposito Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, dichiara: “Nel disegno di legge di bilancio approvato dal Consiglio dei ministri le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria vengono totalmente ignorati”. Sessualità proibita: in prigione l’amore è un atto osceno di Andrea Pugiotto Il Riformista, 30 ottobre 2021 La sentenza della Cassazione che vieta l’ingresso di una rivista hard per un detenuto al 41bis è una finestra chiusa su un tema rimosso in Italia: l’affettività dietro le sbarre. Negato anche l’autoerotismo: forse perché serve a evadere? 1. Come spesso accade, ha ragione Luigi Manconi (la Repubblica, 20 ottobre) a richiamare l’attenzione sulla recente sentenza di Cassazione (Sez. I penale, 8 giugno 2021, n. 36865) che ha confermato il divieto d’ingresso di una rivista hard richiesta da un detenuto in 41-bis, il c.d. carcere duro. Entrando nel merito (extragiuridico) del nesso tra immagini pornografiche e onanismo, i giudici ammettono con riserva che l’autoerotismo sia “un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata”. E scrivono poi che “la fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile”. L’abbonamento - a spese del detenuto - ad una rivista per adulti, dunque, è stato legittimamente proibito dalla direzione del carcere, anche a prevenire il pericolo di comunicazioni criptate con l’esterno, capaci di eludere la censura penitenziaria. Azzerando così la diversa decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, la Cassazione accoglie il ricorso del DAP secondo cui “la visione di immagini pornografiche non appariva essenziale all’integrità della sfera sessuale e all’equilibrio psicofisico della persona” ristretta. 2. Scrivono i giudici che “l’autoerotismo non è impedito - di per sé - dallo stato detentivo”. Davvero? I detenuti raccontano altro (cfr. N. Valentino, L’ergastolo. Dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009, pp. 51-52). Ti dicono che “spesso avere un attimo di intimità in carcere è più difficile che fare una rapina”, dovendo pianificare ogni dettaglio. L’orario, da calcolare in relazione ai turni della guardia che passa e dell’infermiere che porta la terapia. Lo spioncino del bagno, sempre aperto per i controlli. L’assenza di riservatezza, in una cella condivisa con più persone. L’inibente imbarazzo, perché ti senti osservato o immaginato da agenti e compagni. “La lotta titanica” tra il desiderio di concentrarsi e la paura di essere colto sul fatto. Ecco perché “è esperienza comune che gli atti migliori d’amore sono quando sei in punizione, in isolamento”. Su tutto questo il diritto rincarava la dose: masturbarsi in cella, infatti, configura il reato di atto osceno in luogo pubblico, perché pubblico è lo spazio del carcere. Oggi depenalizzato, la violazione dell’art. 527 c.p., poteva essere sanzionata con la pena da 3 mesi a 3 anni (dato che l’onanismo è una condotta dolosa). Puoi comunque essere punito con la sottrazione di un semestre dal calcolo della liberazione anticipata, e sono così 45 giorni di galera in più. Si sa, le seghe servono alla fuga. Perché permettono di tagliare le sbarre alla finestra della cella. Oppure perché permettono - per un breve fazzoletto di tempo - di immaginare di essere altrove, con la persona desiderata. Servono per evadere. Ecco perché sono vietate in carcere. 3. A suo modo, la sentenza della Cassazione è una finestra chiusa su un tema rimosso: la sessualità in prigione. Altrove, il problema non è stato ignorato. Come ha ricordato Angela Stella su queste pagine (Il Riformista, 21 settembre), sono 31 i Paesi europei (ma è così anche in India, Messico, Israele, Canada) che prevedono la possibilità per i detenuti di usufruire, in carcere, di spazi in cui trattenersi con persone cui sono legate affettivamente, al riparo dal controllo visivo degli agenti penitenziari. Il riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’affettività inframuraria è anche l’approdo raccomandato da atti del Consiglio d’Europa, del Parlamento europeo e da sentenze della Corte di Strasburgo. Da noi, invece, non esiste alcuna norma legislativa o regolamentare che disciplini la materia: sul punto, infatti, tace la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti (d.m. 5 dicembre 2012). Su questa anomia si è sedimentata un’indulgente narrazione: le relazioni affettivo-familiari sarebbero garantite attraverso molteplici previsioni normative (corrispondenza epistolare, periodiche telefonate ora anche in video-chiamata, permessi di necessità, detenzione - di regola - in un carcere prossimo alla residenza familiare). Quanto ai colloqui, elementari ragioni di sicurezza impongono il controllo a vista da parte degli agenti di custodia. Vale anche per le visite negli appositi spazi di socialità del carcere: l’intimità sarà maggiore, ma mai completa e compiuta. Inevitabilmente sacrificato, il diritto alla sessualità del detenuto troverebbe comunque satisfattiva compensazione nel beneficio extramurario dei permessi-premio. 4. Dunque, i corpi carcerati sono inesorabilmente esposti allo sguardo altrui. Uno sguardo che li accompagna sempre e ovunque, anche nelle azioni fisiologicamente più intime. Uno sguardo che non conosce pause, intermittenza, eclissi. L’incapacità del detenuto di sottrarsi a questo controllo molto ci racconta della proibizione sessuale inframuraria. Un corpo perennemente guardato, infatti, non appartiene più soltanto a chi lo abita. Fatto oggetto di continua e forzata esibizione, vive il paradosso di esun corpo sempre “nudo” pur non potendo mai essere realmente nudo. E poiché “l’erotizzazione del corpo necessita la sua velatura” (M. Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, 2017, 94), la vita sessuale che occasionalmente e clandestinamente si consuma dietro le sbarre non può che ricalcare le forme della pornografia: “qui dentro l’amore è un atto osceno”, testimonia - non a caso il detenuto intervistato (G. Bolino-A. De Deo, Il sesso nelle carceri italiane, Feltrinelli, 1970, 25). 5. In realtà, l’anomia dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) sul diritto alla sessualità intramuraria è solo apparente. Nella concretezza della sua applicazione, cela un operante dispositivo proibizionista che non lo ignora semplicemente, né lo nega soltanto. Proibendolo, lo reprime. Si spiega così il parere negativo espresso dal Consiglio di Stato sulla norma del regolamento penitenziario del 2000 (sostitutivo di quello fascista del 1931) che introduceva la possibilità di visite fino a 24 ore consecutive in apposite unità abitative interne al carcere, sorvegliate all’esterno dagli agenti, legittimati a controllarne l’interno solo in casi di comprovata emergenza. La previsione venne stralciata perché considerata contra legem. Non a caso, dal 1975 ad oggi, mai l’amministrazione penitenziaria o la magistratura di sorveglianza ha autorizzato un detenuto di un qualsiasi istituto penitenziario ad avere relazioni sessuali con il proprio partner. Ciò in ragione di un orientamento giurisprudenziale che riduce la castrazione del suo diritto alla sessualità in un mero pregiudizio di fatto, derivante dallo stato di reclusione, come tale giuridicamente non apprezzabile. La stessa apparente eccezione alla regola - i permessi premio - conferma che solo in occasione di eventuali parentesi extrapenitenziarie può esercitarsi il diritto alla sessualità del detenuto, non anche dietro le sbarre, e solo dopo molti anni di detenzione e per un numero limitato di volte, come “una caramella da assaggiare per quarantacinque giorni all’anno (al massimo)” (N. Valentino, op. cit., 47). L’operatività di un dispositivo proibizionista intramurario ne esce confermata appieno e trova la propria sineddoche normativa nel formalismo legale dei matrimoni bianchi in carcere (art. 44, legge n. 354 del 1975), celebrati ma non consumati. Per la Cassazione - secondo un ragionamento che si avvita su sé stesso - essi non giustificano la concessione di un breve permesso premio, neppure di necessità, poiché tra gli eventi di particolare gravità che ne sono il presupposto normativo “non può rientrare il diritto ad avere rapporti sessuali, che per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalità” (Sez. I penale, 26 novembre 2008, n. 48165). Vale per tutte le persone, è vero, purché non detenute. 6. L’operatività di questo dispositivo proibizionista pone un serio problema di costituzionalità, come ha avvisato la Consulta. La sua sentenza n. 301/2012 riconosce che il diritto alla sessualità inframuraria è compatibile con lo stato di reclusione, annoverandolo così tra quei residui di libertà personale di cui il detenuto conserva titolarità. Considera il superamento della persistente anomia come doveroso, tracciandone le linee-guida. Certifica l’insufficienza dei permessi-premio a rimedio del problema perché larga parte della popolazione carceraria, de jure o de facto, non può beneficiarne. Eppure, colpito da sospetta ipoacusia, il legislatore ha finto di non sentire. Ora qualcosa si è mosso. Giace in Senato una proposta di legge del Consiglio regionale toscano e analoga iniziativa intende assumere anche il Consiglio regionale del Lazio. In attesa di esserne normato l’uso, è stato realizzato nell’istituto Rebibbia femminile il Modulo per l’Affettività e la Maternità (M.O.M.A.): uno spazio abitativo di 28 mq per incontri tra detenute e familiari, replicabile altrove. Tocca al Parlamento fare la propria parte, aiutato da una Guardasigilli che sa bene come quello in gioco non sia un lusso, ma un bene primario. Parallelamente, bisognerà tornare a Palazzo della Consulta, perché al suo monito - inascoltato da nove anni - seguano finalmente decisioni coerenti. Il diritto allo studio: l’esempio delle carceri di Flavia Pruner ilgazzettinometropolitano.it, 30 ottobre 2021 A due anni dalla firma del protocollo di intesa tra Dap e Cnupp, la Direzione Generale dei detenuti e del trattamento del Dap ha inviato il documento ai Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria affinché il tutto possa essere inoltrato a tutti gli istituti penitenziari. Le linee guida individuate e tanto attese, riguardano i percorsi di studio universitario delle persone che stanno scontando la pena e spiega come debbano essere organizzati i rapporti tra i soggetti coinvolti, le Università, i Dipartimenti, i Provveditorati, e gli Istituti Penitenziari, illustrando come debbano essere recepite ed applicate le linee guida predisponendo idonee convenzioni o protocolli di intesa fra atenei e direzioni degli istituti. Gli elementi determinanti che hanno permesso l’avvio organizzativo di una serie di attività, come implementare la connessione all’interno delle carceri, agevolare rapporti tra docenti, studenti o tutor, colloqui di orientamento, pratiche amministrative agevolate, sono stati i numeri, una lettura oggettiva dei dati, come riporta in maniera estremamente chiara e dettagliata un articolo di gNews il quotidiano online del Ministero della giustizia. L’anno accademico 2020-2021 nonostante fosse l’anno della massima emergenza pandemica, non ha impedito alla cultura di arrestare il suo cammino, forse l’unico lato positivo della pandemia, è che è stata l’occasione per molti individui, di cogliere il momento, per valorizzare il bagaglio di conoscenze personali, e questo, è quello che è accaduto tra i detenuti, secondo un monitoraggio svolto dal Cnupp, con 1.034 studenti universitari iscritti, di cui 970 uomini e 64 donne, 925 distribuiti in 82 strutture penitenziarie e 109 distaccati scontanti la pena con un lavoro esterno. Ben 32 sono le Università coinvolte in questo percorso con 146 dipartimenti che sta a significare una grande varietà e adesione su tutto il territorio. Dato da non trascurare, il fatto che tra gli studenti costituisca un valore importante il numero non esiguo di carcerati in regime di massima sicurezza circa 355 iscritti e circa 21 quelli sottoposti al regime speciale di detenzione previsto dall’Ordinamento Penitenziario e noto alle cronache come art. 41-bis. Solo il 13 per cento degli iscritti ha optato verso una Laurea Magistrale mentre l’87 per cento degli iscritti ha scelto il ciclo triennale. Non stupisce quindi che questa tendenza allo studio cominciata con numeri inferiori negli anni precedenti in ogni caso abbia permesso di concludere un percorso a 23 detenuti che si sono laureati nel 2020, numero che, viste le iscrizioni del 2020, sarà inevitabilmente destinato ad avere un incremento esponenziale nei prossimi anni. Vale la pena ricordare che come prevede la nostra Costituzione nell’art. 34 per il diritto allo studio, non importa la sede ma “i capaci e meritevoli (…) hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Carcere: intervista a tutto campo a Stefano Anastasia di Federica Chirico extremaratioassociazione.it, 30 ottobre 2021 Abbiamo intervistato Stefano Anastasìa, Filosofo e sociologo del Diritto, fondatore e già presidente dell’Associazione Antigone e di recente riconfermato come Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. Lei ha seguito in prima persona, come Garante delle persone private della libertà personale di Lazio e Umbria, le condizioni dei detenuti durante la tempesta del Covid-19. L’emergenza Covid nelle carceri è rientrata? Qual è, dopo quasi due anni di pandemia, il bilancio della gestione da parte dello Stato del sistema penitenziario in questa delicata fase? Cosa non si è fatto che si sarebbe dovuto fare e cosa, invece, si è fatto di buono? Per fortuna (e per impegno del personale sanitario e penitenziario) siamo in una fase positiva, di contenimento dei contagi e dei rischi, in carcere come sul resto del territorio nazionale, anche grazie alla sollecitudine e alla responsabilità con cui la gran parte dei detenuti ha accettato l’offerta vaccinale. Stanno riprendendo così le attività e gradualmente il carcere sta tornando alla normalità. Ciò detto la gestione della pandemia in carcere non è sempre stata encomiabile e soprattutto nella prima fase si sarebbe potuto fare di più e meglio. Penso in particolare alle scellerate modalità con cui sono state improvvisamente interrotte le relazioni con i familiari ai primi di marzo dello scorso anno, suscitando comprensibili proteste dei detenuti, purtroppo sfociate in danneggiamenti e ben tredici morti. Penso al lungo silenzio sulla priorità vaccinale per le comunità penitenziarie, riconosciuta solo dopo mesi di nostre richieste. Penso ai minimi provvedimenti per ridurre la popolazione detenuta, che non sono serviti quasi a nulla: la gran parte della riduzione effettiva della popolazione detenuta è stata dovuta, infatti, ai minori ingressi, alle revoche delle custodie cautelari inessenziali e al ricorso agli ordinari strumenti di alternativa al carcere. Sarebbe stato necessario un immediato provvedimento di amnistia-indulto, anche di un solo anno, per alleggerire la pressione sulle carceri e prevenire l’insorgenza di focolai negli istituti. Così come oggi sarebbe necessario un ristoro anche per i detenuti, una minima misura di giustizia dopo quello che hanno sofferto in questi due anni: basterebbe un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno di detenzione scontato in regime di emergenza Covid per riconoscere a chi è stato detenuto in questo periodo di aver scontato una pena di fatto più dura della detenzione ordinaria. D’altro canto, la pandemia ha rotto il tabù delle tecnologie dell’informazione e il carcere è entrato nell’era digitale, con le videochiamate e le videolezioni. Ora bisognerà vigilare perché da qui non si torni indietro. È stata di recente approvata la riforma del processo penale. Una riforma che, pur tra luci e ombre, rappresenta comunque il superamento dell’era Bonafede. Come giudica finora l’operato della Ministra Cartabia? Tra l’altro, è da poco stata istituita la “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”? E’ fiducioso? Cosa si aspetta dall’esecutivo in materia penitenziaria? La Ministra Cartabia ha imposto una positiva soluzione di continuità nell’azione di governo in materia di giustizia, e di giustizia penale in particolare. Ovviamente la sua azione non può non essere condizionata dalla composita maggioranza che sostiene il governo, tra cui figura più di una forza politica che ha fatto dell’uso populista del diritto e della giustizia penale il principale veicolo del proprio consenso elettorale. Ciò nonostante, sono fiducioso che soprattutto in via amministrativa sia possibile fare molto e credo che la Commissione autorevolmente presieduta dal Prof. Ruotolo possa far tanto in questa direzione. Rimanendo sul tema. Cosa pensa della proposta del Prof. Giovanni Fiandaca di istituire la figura di un Vice-ministro con la delega sul tema carcerario? La convince? Ne avevamo discusso, con il collega e amico Giovanni Fiandaca, ancor prima che avanzasse per la prima volta la sua proposta, dalle colonne del Foglio, nei giorni in cui si andava costituendo il Governo Draghi: il penitenziario e, in generale, l’esecuzione penale, hanno una complessità tale da aver bisogno di un indirizzo politico costantemente presente. Da qui nasce l’idea di un viceministro per le carceri. Non semplicemente un sottosegretario, ma proprio un viceministro, con delega e capacità di interlocuzione diretta con la Presidenza del Consiglio e con il Consiglio dei ministri. E’ questa l’unica condizione perché l’esecuzione penale sia effettivamente governata e non lasciata alla fondamentale, ma insufficiente direzione amministrativa dei vertici dipartimentali. Un Ministro, anche la migliore Ministra che abbiamo, non può fare la politica penitenziaria, costretta com’è dalle urgenze della più generale politica della giustizia, e un sottosegretario senza i poteri di un viceministro sarebbe costantemente scavalcato dalla naturale tendenza dei vertici amministrativi a riferirsi al Ministro. Insomma, sì, sono d’accordo con Fiandaca, e non solo per questa straordinaria contingenza, ma come ordinario assetto istituzionale del ministero della giustizia. L’associazione Antigone è una delle realtà che ha promosso il Referendum sulla legalizzazione della Cannabis. La legalizzazione delle sostanze inciderebbe davvero così tanto sul sovraffollamento carcerario? Più di un quarto della popolazione detenuta è formalmente legata alla circolazione illegale di sostanze stupefacenti e molti altri sono in carcere per la commissione di reati strumentali all’acquisizione di droghe illegali. Quindi sono certo che una sana e seria politica di legalizzazione di tutte le sostanze stupefacenti, a partire dalla cannabis, aiuterebbe a superare quell’idea di carcere come contenitore della irregolarità e della marginalità sociale che si è andata affermando negli ultimi trent’anni. Ciò detto sono consapevole che la legalizzazione da sola non basta, se mancano politiche di integrazione sociale sul territorio che prevengano devianza e domanda di controllo sociale istituzionale. In assenza di politiche di questo genere, ci vuol poco a sostituire la legge sulla droga con altri strumenti repressivi, per togliere dalla strada e tenere sotto chiave i soliti noti che vivono per strada e disturbano la quiete pubblica. Sono passati alcuni mesi dalla diffusione dei video di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta di un caso isolato o eventi del genere sono più diffusi di quanto non si possa pensare? Al di là della singola vicenda giudiziaria, come si può intervenire a livello sistemico per evitare che simili episodi si ripetano? La cosa più impressionante di quelle immagini è una certa metodicità negli abusi (si pensi, p. es., alle due fila di poliziotti che bastonano i detenuti che attraversano il corridoio), che testimonia di un uso più frequente di quanto si sappia (ricordo che proprio quelle due fila di poliziotti furono documentate a Sassari nel 2000), e poi l’idea dell’impunità che traspare da quelle azioni svolte sotto telecamere a tutti note. Questi sono indici di una cultura che sopravvive nel corpo a dispetto delle migliori intenzioni dei suoi dirigenti e dei vertici amministrativi. Eradicare quella cultura di sottobosco, che ancora contrappone i poliziotti ai detenuti, di fatto equiparando gli uni agli altri come due fazioni in lotta tra loro, è la sfida più difficile per i vertici dell’Amministrazione penitenziaria e per gli stessi dirigenti e operatori di polizia che vengono da altra cultura e formazione. Su questo dobbiamo essere tutti impegnati, sia nella formazione che nelle prassi, affinché il corpo della polizia penitenziaria possa vantarsi a pieno titolo di essere un corpo di operatori pubblici che garantiscono la piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità alla finalità rieducativa della pena. A proposito, come giudica la scelta del Dap di riprendere l’iniziativa di introdurre le body-cam e di riparare i sistemi di video sorveglianza entro il 2024? Vanno bene tutte le iniziative che diano trasparenza alle operazioni di polizia all’interno delle carceri. Aggiungerei la necessità di sistemi di identificazione individuale dei poliziotti in servizio, in modo particolare durante le operazioni più delicate, come peraltro raccomandato dal Garante nazionale e dagli organismi internazionali di tutela dei diritti umani. A dieci anni di distanza da “Contro l’ergastolo”, di cui Lei è autore insieme a Franco Corleone e Andrea Pugiotto, è stato pubblicato “Contro gli ergastoli”. Cos’è cambiato negli ultimi dieci anni? Il Parlamento interverrà, dopo l’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale, o accadrà quanto già successo sul tema del “fine vita”? Negli ultimi dieci anni è cambiato tanto, tantissimo. Il fenomeno dell’ergastolo ostativo è diventato sempre più grave, innanzitutto per dimensioni, ma nel contempo la Corte europea dei diritti umani e la Corte costituzionale hanno detto cose importanti da cui non si può tornare indietro. E non lo può fare neanche il Parlamento con la legislazione ordinaria. Dunque, o le Camere riescono a trovare soluzioni normative che rispettino il principio affermato dalla Costituzione con l’ordinanza 97/2021, oppure è meglio lasciare scorrere il tempo e far dire l’ultima parola alla Corte, che non potrà che essere di censura dell’ergastolo ostativo. È malato grave: per il perito della Corte è incompatibile, istanza rigettata dai giudici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2021 Antonio Tomaselli fu il primo caso di Covid al 41 bis. Il medico: “i problemi cardiologici, oltre al tumore, lo esporrebbero a “morte improvvisa” e le procedure carcerarie non consentirebbero un soccorso immediato”. Antonio Tomaselli è al 41 bis del carcere Opera di Milano affetto da grave patologia tumorale. Nella scorsa ondata ha contratto il Covid. Per un pelo non ci ha rimesso le penne, ma l’ha ulteriormente debilitato. È stata fatta istanza per sostituzione della pena. La corte d’appello di Catania ha inviato un perito per verificare, tra le altre cose, l’incompatibilità con l’ambiente penitenziario. Il medico ha scritto chiaro e tondo che non può stare in carcere. La Corte ha rigettato l’istanza nonostante il parere del suo perito - Nonostante il parere richiesto, la Corte ha rigettato l’istanza. Una vicenda che ancora una volta coinvolge il dritto alla salute. Ma chi è al 41 bis, dopo le famigerate polemiche contro le cosiddette “scarcerazioni” per gravi motivi di salute, sembra che sia inevitabile il destino di morire senza una assistenza non fattibile dietro quelle quattro mura. Si può essere ostaggio di taluni giornali che come sciacalli volteggiano sui detenuti, gravemente malati, teoricamente incompatibili con il carcere, con la speranza di creare indignazione appena un giudice faccia il suo dovere? Fu il primo caso di Covid al 41 bis - Il caso del catanese Tomaselli è ancora più emblematico. In attesa di giudizio, è stato tratto in arresto perché sarebbe diventato il nuovo reggente della famiglia Santapaola-Ercolano. Fu il primo caso, riportato da Il Dubbio, di un detenuto al 41 bis che ha contratto il Covid 19. Gli avevano diagnosticato un tumore inoperabile al IV stadio al polmone destro, al polmone sinistro e al surrene, con una speranza di vita di pochi anni. Dopo il Covid, la sua situazione fisica si è aggravata, tanto è vero che recentemente ha subito un episodio sincopale tanto da essere ricoverato d’urgenza al pronto soccorso. Il medico nella sua relazione evidenzia la grave situazione di salute - Ma per comprendere la sua grave situazione di salute, basta leggere la relazione fatta dal medico per conto della corte d’appello stessa. C’è scritto chiaro e tondo che è “purtroppo altamente probabile che “prima o poi” la malattia neoplastica riprenda la sua attività, principalmente a livello cerebrale: e tale ripresa avrà conseguenze prognostiche nefaste”. Viene accertato il fatto che Tomaselli deve essere periodicamente e intensamente monitorato con vari esami, che deve praticare follow-up oncologico/radiologico con TC. “È evidente che si tratta di esigenze cliniche assolutamente particolari, cui un carcere può fare fronte non senza difficoltà”, scrive il perito del tribunale. Non solo. Ha continui problemi cardiologici. Episodi di “fibrillazione atriale”. Secondo il medico, ciò espone “il soggetto a morte improvvisa”. Il perito spiega perché è incompatibile con la struttura penitenziaria - Ma perché è incompatibile con la struttura penitenziaria? Lo spiega bene il perito. Si pensi solo che qualsiasi accesso in ospedale anche solo per una visita deve essere adeguatamente programmato per tempo e studiato: cosa che cozza con il quadro clinico in discussione che necessita di approccio dinamico, ovvero che affronta i problemi in maniera estemporanea via via che si palesano. “Riallacciandoci alla problematica cardiologica - scrive il perito -, bisogna ammettere che la tempistica del soccorso soprattutto per eventuali emergenze cardiologiche viene a costituire un quid pluris rispetto a fuori. Infatti, qualora il Tomaselli (che peraltro è in cella singola per oltre 20 ore/die e dunque un teorico allarme non può essere dato dal suo concellino) rimanga vittima di un evento acuto, deve essere “quam celerrime” essere trasferito in una struttura cardiologica territoriale attrezzata e sottoposto alle terapie rianimatorie del caso: terapie che hanno tanto più successo quanto più sono tempestive”. E tutto ciò, in carcere - “non per colpa di alcuno ma per la necessaria burocrazia ivi esistente”, ci tiene a sottolineare il medico - tale trasferimento non è immediato ma necessita di una serie di passaggi obbligati. “Non appena dato l’allarme, viene allertato l’ispettore di guardia, chiamato il medico, rilevata da quest’ultimo la gravità della situazione, disposto il trasferimento in ospedale esterno dotato del servizio di cardiologia e partenza della ambulanza precedentemente allertata; è di tutta evidenza che i tempi del soccorso sono dissimili rispetto a quelli che avrebbe al domicilio: e per un soggetto con problematica cardiologica acuta trattasi di tempo che davvero può fare la differenza tra la sopravvivenza ed il decesso”, scrive senza mezzi termini il perito disposto dal tribunale. Ma nulla. I familiari: a che cosa è servito nominare un perito? Nonostante la relazione disposta dal tribunale di Catania stesso, la corte d’appello ha ritenuto, in sole poche righe, che Tomaselli è compatibile con il 41 bis. I famigliari del detenuto in attesa di giudizio, si chiedono a cosa sia servito disporre un perito che ha confermato l’incompatibilità, quando la decisione è andata comunque in senso contrario? Si può concludere con una seria, umana e professionale considerazione che lo stesso perito del tribunale pone nella relazione: “Sarà giusto mantenere un soggetto/malato terminale non autonomo in carcere? Anche riguardo a recenti pronunce giurisprudenziali, risulterà tollerabile tale situazione detentiva da parte di un soggetto comunque non più autonomo?”. No, non è giusto in uno Stato di Diritto, dove anche il giuramento di Ippocrate dovrebbe avere ancora un senso. Un giorno in prigione (da agente penitenziario) di Marco Sarno La Repubblica, 30 ottobre 2021 Dopo gli scandali dei pestaggi siamo andati nel carcere di Spoleto per vedere come si vive di qua e di là delle sbarre. È sempre difficile risalire all’origine. Ma se vogliamo capire da dove inizia davvero la storia dobbiamo cominciare da un video e da una data. Il materiale risale alla primavera del 2020. Le immagini raccontano della rappresaglia seguita alla rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Detenuti pestati da alcuni agenti del corpo di Polizia Penitenziaria. In sottofondo le urla, i rumori ovattati prodotti dai manganelli sui corpi e dal picchiare forte sulle sbarre. Suoni che mi illudevo di aver dimenticato. Non era così. Due domande mi ossessionavano: come possono trasformarsi in carnefici uomini delle istituzioni? E quali danni producono sull’intero sistema violenze come queste? Un fiume in piena che trascina con sé buoni e cattivi. Così provo a chiedere l’autorizzazione: vorrei entrare in una Casa di reclusione. L’idea è trascorrere una giornata da agente penitenziario. Fare un turno con uno di loro. Vestito come uno di loro. La richiesta viene accolta all’inizio di ottobre 2021. E il 7, giorno della Beata Vergine Maria del Rosario, si aprono le porte del penitenziario di Spoleto. Lo dirige Chiara Pellegrini, una donna minuta e gentile che ha sulle spalle anche l’onere del carcere di Orvieto. Si fa fatica a immaginarla in un posto del genere. Condivide questa esperienza con il comandante Marco Piersigilli - un cognome che pare garantire sicurezza. Parla con parole semplici, i modi sono spicci. Sa come non perdere tempo. Di questo carcere conosce ogni anfratto ma soprattutto i 436 ospiti quasi tutti di spessore come si dice in gergo. Novantatré gli ergastolani, il 10 per cento dei fine pena mai d’Italia. Quello che segue è il resoconto della mia, della nostra giornata. Da dove cominciamo - Un lungo stradone che costeggia la campagna fino al bivio del cimitero. Da lì ancora qualche chilometro tra stradine laterali senza uscita e ingressi verso case in mezzo al nulla. Lungo il percorso qualche bar, poche attività commerciali, un’edicola. L’appuntamento è intorno alle 7 del mattino davanti al penitenziario. Ad aspettarmi c’è Stefano, assistente capo coordinatore di polizia penitenziaria, oggi nell’insolito ruolo di guida. La sveglia di Stefano Conti Arcangeli, 52 anni, suona da sempre alle 5.50. Il tempo di una colazione prima di salutare la moglie che lavora come commessa nel centro di Spoleto. Poi in auto percorrendo i tredici i chilometri del tragitto casa-carcere. I ritardi non sono ammessi. È qui dal 23 dicembre 1997. Per lui, spoletino di nascita, si è trattato di un ritorno a casa dove aver prestato servizio tra Terni, Avezzano, L’Aquila, Roma (Rebibbia). Sbrighiamo la pratica dei controlli Green pass e le verifiche delle autorizzazioni. Le poche parole che ci scambiamo sono sovrastate dalle comunicazioni interne al di là dei vetri blindati del gabbiotto controlli. Solo adesso mi accorgo di non essere ancora riuscito a vedere il volto di Stefano, coperto dalla mascherina. In uno dei reparti più difficili - Lo spogliatoio è una piccola stanza con una finestra da cui filtra una luce che a quest’ora del mattino rende cupo il paesaggio. Grigio come gli edifici. Nell’armadio hanno preparato la divisa d’ordinanza: camicia azzurra a maniche corte, un paio di pantaloni un po’ troppo lunghi, tenuti su da una cintura nera. C’è una tabella di marcia da rispettare per cui non oppongo resistenza e me li faccio piacere. Indosso il maglioncino blu e le scarpe nere. Cerco uno specchio per valutare la mia trasformazione in ardimentoso agente penitenziario. Devo accontentarmi del riflesso sullo schermo del telefonino che sto per consegnare. Non mi sembra niente male, ma il capello brizzolato attenua un po’ l’entusiasmo. Stefano continua a fissare l’orologio. Usciamo per raggiungere la sezione Media Sicurezza. Lungo il viale guardo gli agenti in servizio rubando con gli occhi piccoli segreti: postura, gestualità, il modo di rispondere ad un saluto. L’attenzione cede alle urla disperate che arrivano dall’infermeria nel settore psichiatrico. Sono di un recluso che il medico tiene sotto osservazione. Ha tentato più volte di farsi del male. Ora è bloccato in un letto, gli somministrano farmaci che lo aiutano a calmarsi. Intuisco che non dovrebbe neppure essere qui ma in una struttura sanitaria adeguata. È uno dei primi segnali di quello che mi aspetta. L’ardore si affievolisce ulteriormente quando siamo a un passo dalla porta di accesso al padiglione. Dall’altra parte dell’inferriata intravedo alcuni detenuti. Cerco di non far trasparire il disagio che sto provando. Sarà per questo che Stefano, nel tentativo di alleggerire la tensione, mi spiega che non c’è da preoccuparsi: stiamo entrando in uno dei reparti più difficili. In quest’area i reclusi scontano pene detentive che vanno dallo spaccio agli omicidi passando per abusi e violenze. C’è una discreta presenza di stranieri. Il disagio aumenta quando ascolto dei casi di autolesionismo, di suicidi e di tentati suicidi. Tragedie ridotte a statistiche che non rendono giustizia. Non va meglio quando nelle mani di Stefano spuntano le fatidiche chiavi che aprono le porte di questo inferno. In un attimo precipita tutto l’entusiasmo che ho mostrato all’arrivo. Entriamo. I detenuti non guardano, scrutano. Per loro un volto nuovo significa molto. Genera curiosità non per chi hanno difronte ma per quello che potrebbe rappresentare. Restano ligi all’etichetta e salutano. Una babele di dialetti e richieste. Sono incollato a Stefano. Continuo a voltarmi perché ho la sensazione che da un momento all’altro potrebbe materializzarsi l’imprevisto. Non voglio sfigurare. Vorrei mantenere il passo ma percepisco netta l’impressione che il tempo e lo spazio all’interno di queste mura hanno altre unità di misura. Ostento serenità ma serve a poco. Sfioro la débâcle quando si avvicina un detenuto. Pretende di essere ricevuto dal comandante. Ha bisogno di lavorare e mostra i denti. Quasi tutti marci e neri. “Mi serve la protesi, non riesco neppure a mangiare. Niente soldi, niente protesi”. La richiesta sembra legittima ma non ho fatto i conti con Stefano: “Non lasciarti fuorviare. A nessuno possiamo garantire un lavoro fisso. Sono in tanti e i nostri mezzi economici pochi. Le rotazioni sono necessarie per garantire un po’ di equità a tutti. C’è sempre chi ci prova...”. In ogni caso vige la formula del “fai una domandina”. Scrivere e aspettare. Comincio ad avvertire una fatica che non conoscevo. Anche il bloc-notes, rimasto intonso nella tasca dei pantaloni dall’inizio del turno, pesa. Non ho preso un solo appunto, ma fissato nella memoria volti e storie di cui so ancora poco. Raggiungiamo una saletta dov’è in corso una breve riunione mentre sui monitor di sorveglianza scorrono le immagini dei reparti. Il mio ego si risolleva quando mi sento dire: “Ciao collega, sei nuovo?”. Sono pochissimi gli agenti che conoscono la mia identità. In ogni caso Stefano chiude la questione sbrigativamente: “È qui per fare un giro” senza dare altre spiegazioni. La tappa successiva prevede l’ora d’aria nel cortile sterrato attiguo al campetto di calcio curato dai detenuti e che ospita piccoli tornei. La discesa è un percorso a ostacoli. Bisogna evitare incroci e incontri pericolosi. L’operazione è scandita dal clangore delle chiavi che aprono e chiudono le pesanti serrature delle porte di ferro. Le voci dei reclusi si aggiungono a quelle degli agenti che parlano ai telefoni interni. “Tre chiuso, il due scende... Aprire. Chiudere”. Nel cortile, defilato, ci sono anch’io. Osservo i detenuti passeggiare costeggiando il muro di cinta sovrastato dalle garitte dove sono posizionate le sentinelle armate. Queste scene le ho viste in tanti film americani, la differenza è che qui è tutto vero. “Sembra facile ma non lo è”, mi spiega Stefano. “Noi quando stiamo quassù non ci limitiamo alla sorveglianza. Bisogna notare le cose. Intuirle e prevederle. Come ad esempio il modo in cui si formano le coppie, con quale frequenza, le sezioni a cui appartengono”. Ricominciare daccapo - Pausa pranzo. Si va in mensa. La suggestione sembra dare al cibo un altro sapore. Mangiamo lentamente, assaporando le pietanze quasi a voler recuperare il senso del tempo. In questo stanzone dalle ampie vetrate c’è più luce e questo rendere meno spettrale il dentro e il fuori. Approfitto per affrontare il tema per cui ho chiesto di poter visitare un carcere: che segno ha lasciato, tra gli agenti di polizia penitenziaria, la rappresaglia di Santa Maria Capua Vetere. Al tavolo gli agenti non si nascondono. “Siamo a terra. Bisogna ricominciare tutto daccapo, pagando un prezzo molto alto anche di immagine. Fatti del genere non hanno giustificazioni. E il danno che procurano a tutti noi è anche quello di far passare in secondo piano le condizioni in cui lavoriamo, gli organici ridotti, i turni snervanti, i colleghi aggrediti, le violenze gratuite subìte. Comunque, quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere lo conosciamo bene, da quel carcere ci hanno mandato pure alcuni detenuti. E sappiamo bene che quando c’è tensione è sempre meglio non far intervenire personale da fuori, gente che non conosce bene la realtà locale”. La visita ricomincia. Infermeria, sala musica, palestre, aule scolastiche, falegnameria... Sono l’orgoglio di un penitenziario che prova a immaginare le occasioni di rinascita di chi prima o poi riuscirà ad uscire da qui. Gli agenti ne parlano facendo trasparire la fierezza del compito a dispetto delle promesse quasi mai mantenute “dal ministero”, o “dalla politica”. Sono l’altra faccia di un avamposto condiviso con il fardello che grava anche sulle loro famiglie, anche quelle costrette di riflesso ad una vita in semilibertà. “Bisogna inventarsi sempre qualcosa per non essere schiacciati dalla quotidianità fatta di sbarre e divieti” mi dice uno degli agenti. “Ma non mi lamento. Alla fine questo mestiere è l’unico che so fare. Come mio padre”. Difficile immaginare che un lavoro del genere si possa tramandare. Ma siamo alla fine del turno. Stefano ha tolto la mascherina anti Covid mentre camminiamo in uno dei viali dove svetta il reparto occupato dai 41bis. Lo chiamano le Gelosie. Non possiamo avvicinarci più di tanto. Finalmente riesco a guardarlo in volto con la dovuta attenzione. Ricordo di aver letto da qualche parte che la superficie più divertente (bella) della Terra è per noi quella della faccia umana. La sua, come quelle dei suoi colleghi, dice molto. È l’imbrunire quando torno nello spogliatoio. Avverto la fatica e il peso della divisa indossata. Ripiego gli abiti con cura, quasi volessi mischiare rispetto e benevolenza verso chi mi ha aiutato a capire e anche a vedere. Saluto idealmente tutti mentre mi avvio al parcheggio. Lì dentro lascio molte cose. Penso al detenuto con i denti marci, e a quei giovani e meno giovani in divisa, agli anni che ancora trascorreranno tra celle e cortili sorvegliati. Mi volto per un ultimo sguardo al fortino. Un agente fa un cenno di saluto con la mano e con cortesia mi chiede: “Allora, come si sente?”. Rispondo: “Da Dio”. Sono fuori. Qualche parola di giustizia per le vittime di Marco Bouchard Il Domani, 30 ottobre 2021 La vittima è ambivalente. Porta il peso della sofferenza ma suscita, proprio per questo, diffidenza piuttosto che compassione. L’offesa subita, a sua volta, tende a giustificare - nella vittima stessa - la vendetta e la ritorsione: anche nelle forme più miti, ma non meno pericolose, del risentimento. In tempi di crisi d’identità e di progettare il futuro la vittima offre, appunto, questo attributo a buon mercato: l’innocenza, l’assenza di responsabilità. Per questo si diffonde il vittimismo, leva fondamentale per promuovere l’insicurezza. Eppure. Proprio questi pericoli non ci devono indurre a sbarazzarci della vittima. Al contrario ci devono convincere che, in tempi di diffusa vulnerabilità, la tutela delle vittime reali è una questione ineludibile per un paese democratico e per uno stato di pieno diritto. Vulnerabilità - Nel riflettere sulla giustizia dal punto di vista delle vittime la prima parola che associo a in-sicurezza è “vulnerabilità”. Io considero la vulnerabilità contemporanea - intrisa com’è di paura oggettiva e soggettiva - come la cifra della nostra insicurezza. Questa vulnerabilità viene normalmente affrontata cercando di alzare i livelli di sicurezza inseguendo il miraggio di una impossibile invulnerabilità. Io mi chiedo se sia possibile concepire la vulnerabilità come occasione riparativa volta al cambiamento. Ma questa operazione è possibile a patto di riconsiderare la vulnerabilità stessa. La vulnerabilità - parola tutto sommato molto recente (a differenza dell’invulnerabilità) - è sempre stata considerata come difetto o mancanza rispetto alle qualità di cui deve essere dotato il soggetto normale, autonomo e capace di agire. La vulnerabilità contraddice l’etica dell’individualismo ed è stata sempre associata alla fragilità dell’umana condizione fisica, dell’incertezza dei sentimenti, delle percezioni, dell’affettività. Io penso che nella ricerca di parole di giustizia per le vittime dobbiamo invece valorizzare la strutturale dipendenza e vulnerabilità dell’esperienza umana su cui poggiare il senso delle responsabilità sociali e pubbliche. La vulnerabilità - ce lo ha insegnato Lévinas - prima ancora di essere esposizione al rischio, è esposizione all’altro e, dunque, inevitabile incontro con il volto dell’altro. È responsabilità. Responsabilità che possiamo anche rifiutare. L’esperienza dell’offesa è esperienza della vulnerabilità umana a cui tutti siamo esposti. È un’esperienza fisiologica e non un fenomeno patologico. In altri termini la condizione di vittima è semplicemente uno degli aspetti della vulnerabilità umana e non indica le stimmate che connotano i più deboli e fragili. Così intesa, allora, la ferita dell’offesa comporta, accanto ai dispositivi di accertamento dei fatti e di eventuale sanzione, strategie sociali e pubbliche di cura e riparazione. La vulnerabilità intesa come rischio di vittimizzazione ulteriore e secondaria è una delle parole chiave della Direttiva 2012/29/UE sui diritti delle vittime. Cura - Un tempo la parola “sicurezza” significava innanzitutto protezione dai rischi sociali fisiologici insiti nella vulnerabilità umana. Da tempo purtroppo questa parola è stata associata al rischio criminale soprattutto attraverso il suo negativo “insicurezza”. Sicurezza vuole dire “sine cura”. Se la riferiamo a chi ne dovrebbe beneficiare sta certamente a significare assenza di preoccupazioni, di affanni, d’inquietudine (sine cura). Ma dal punto di vista di chi la deve garantire significa anche assenza di cura, di riguardi, di attenzioni. Ma è proprio quest’assenza di cura che caratterizza le parole d’ordine di chi ricerca l’impossibile invulnerabilità attraverso l’esasperazione del diritto penale o l’edificazione di muri. Se fosse più chiara l’ambivalenza di questo termine si giocherebbe di meno con le parole e si valorizzerebbe proprio la parola centrale che è quella della cura. Cura significa avere consapevolezza della vulnerabilità umana e che il crimine è anche una delle manifestazioni di questa vulnerabilità e che, proprio per questo, necessita di risposte sul piano della “cura” e non solo della “sicurezza” intesa come prevenzione e repressione del crimine. È esattamente ciò che manca in Italia: una strategia di attenzione e cura verso le vittime. Non comprendiamo che l’assenza di servizi di assistenza alle vittime (non solo per le donne vittime di violenza) è una delle ragioni di profonda sfiducia verso le istituzioni. Uno stato di diritto non potrà mai garantire le istanze di giustizia delle vittime ma deve poter garantire di prendere in considerazione i loro bisogni/diritti di informazione, assistenza, protezione, accompagnamento. Basterebbe seguire il processo per le stragi terroristiche di Parigi del 2015, che si sta celebrando in questi mesi, per capire quale può essere un modo positivo di curare/riparare: accompagnare le vittime a vedere l’aula prima di sentire la loro testimonianza; assegnare loro un badge rosso per chi non vuole parlare con i giornalisti; dotare le parti civili che non possono seguire il processo in presenza di una web radio con canale dedicato. Sono queste attenzioni che generano sicurezza. La penultima parola - Parafrasando un concetto teologico penso che quando diciamo Giustizia dovrebbe essere chiaro che il giudice tantomeno quello penale può dire mai l’ultima parola, anche quando la sentenza è passata in giudicato. Il giudice può avere tutt’al più la penultima, se gli va bene. Perché spesso le sue parole tornano addirittura all’inizio come se nulla fosse successo quando le sentenze, ad esempio, vengono cassate o annullate. È in questo senso che invoco un “ridimensionamento” del diritto penale. Il diritto (non solo quello penale) ha un ruolo importante per la vittima perché permette alla vittima il suo riconoscimento pubblico, la riconosce qualificandola in un ruolo sostanziale e, a volte, processuale. Ma la vittima deve anche potersi liberare dal ruolo in cui la inchioda il diritto stesso. A fine novembre come rete Dafne faremo un convegno a Napoli sui rapporti tra giustizia riparativa e servizi di assistenza alle vittime. Abbiamo ospitato la giornalista Silvia Giralucci il cui padre venne assassinato dalle Brigate rosse nel 1974. Lei ci ha proposto come titolo del suo intervento: “Uscire dall’ergastolo di essere una vittima”. Il che mi sembra una frase di grande significato e che in fondo risponde e supera quella ricorrente - per certi versi anche comprensibile - di molti famigliari di vittime del terrorismo che hanno sempre respinto possibilità d’incontro con ex terroristi proprio perché - dicevano - loro non potevano considerarsi ex vittime. Ecco io penso che una giustizia riparativa dovrebbe proprio avere questa qualità e caratteristica: costituire un ponte verso un’esistenza riparata. Più che un diritto penale minimo io parlerei di un diritto penale “transitivo”. Verità - Credo che una parola di giustizia irrinunciabile quando entrano in scena le vittime sia “verità”. Da questo punto di vista la giustizia riparativa, soprattutto nell’esperienza sudafricana della Commissione sulla verità e riconciliazione, ci ha aiutato a capire come accanto alla verità giudiziaria e alla verità storica si collocano delle verità soggettive (non quelle che vengono elaborate all’interno della propria coscienza, all’interno del proprio gruppo o con il proprio terapeuta): quelle che possono essere frutto di un tentativo di condivisione, di ricostruzione comune da parte dei protagonisti del fatto. La possibilità di ricostruire delle verità soggettive soddisfacenti è una base essenziale per una prospettiva realmente riparativa. Tanto è vero che uno dei criteri di ammissione per i programmi di giustizia riparativa previsti dalla Raccomandazione 2018 e dalla Direttiva vittime è proprio quello del riconoscimento essenziale dei fatti. Un requisito che, invece, manca nella legge delega di riforma cd. Cartabia. Albie Sachs, giudice della Corte costituzionale sudafricana, in occasione di un suo intervento a Milano nel 2016 parlò, a proposito del modo di lavorare della commissione di come si affrontava un tipo di verità diversa per tecnica e obiettivi da quella giudiziaria. Lui parlava, attraverso il confronto delle narrazioni dei responsabili dei crimini dell’apartheid e delle vittime, del combinarsi di una verità esperienziale con una verità dialogica. Ecco le sue parole: “Perché la verità non è qualcosa che può essere catturato una volta per tutte, come per l’entomologo una farfalla che finisce in una teca di vetro. Ciò che s’inchioda non è la verità, esattamente come la farfalla nella teca di vetro non è più una farfalla”. Referendum giustizia, via libera dalla Cassazione: appuntamento possibile in primavera di Fabio Calcagni Il Riformista, 30 ottobre 2021 La Corte Suprema di Cassazione dà il via libera ai sei referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. A renderlo noto è il partito di Matteo Salvini nella serata di venerdì: i giudici hanno infatti accolto la richiesta dei consigli regionali di Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Veneto, tutti governati dal centrodestra. Una decisione, quella dei giudici di piazza Cavour, che “anticipa, e di fatto rende ininfluente, il deposito delle firme certificate: tra le 700mila e le 775mila a seconda del quesito, oltre a 18mila adesioni elettroniche. Il totale provvisorio è di 4.275.000 autografi, ma questa mattina nella sede milanese della Lega in via Bellerio ne sono arrivate altre 80mila”, spiegano dal Carroccio. Come noto sono sei i quesiti che dovrebbero essere sottoposti agli elettori: tra questi la responsabilità civile diretta per le toghe, la riforma del Csm, la separazione delle carriere dei magistrati, l’abolizione della legge Severino. L’appuntamento col voto, se la Corte Costituzionale dovessero stabilire che i quesisti sono compatibili con la Carta, dovrebbe avvenire nella prossima primavera 2022, tra aprile e giugno. Un periodo ‘fitto’ di impegni elettorali: in primavera potrebbero celebrarsi infatti anche i referendum per l’eutanasia legale e quello per la legalizzazione della cannabis, che hanno già raggiunto il numero di firme necessarie e sono in attesa del vaglio da parte della Cassazione. “Pagelle” per i magistrati nella riforma del Csm, stavolta la stretta ci sarà di Errico Novi Il Dubbio, 30 ottobre 2021 Dall’addio alle promozioni automatiche dipende il ritorno della politica al primato sulla magistratura. Sorteggio? Leggi elettorali sofisticate? No: la riforma del Csm non si gioca sul sistema di voto per i togati. Lo snodo decisivo è un altro: rendere più credibili le cosiddette “valutazioni di professionalità” dei magistrati. Finora se n’è parlato poco: di certo non al vertice di quattro giorni fa tenuto dalla ministra Marta Cartabia con i partiti di maggioranza. Eppure, come ricorda per esempio l’Ucpi, per governo e Parlamento la sfida più difficile riguarderà l’introduzione di criteri più rigorosi nei giudizi sulla carriera delle toghe, giudizi che tuttora restano positivi per ben oltre il 90 per cento della magistratura. È chiaro che concorrono più fattori. Da una parte la guardasigilli, che di qui a pochi giorni illustrerà alle forze di governo il pacchetto di emendamenti con cui intende rimodulare il testo originario, firmato da Alfonso Bonafede. Dall’altra appunto i partiti, che hanno già depositato i loro emendamenti nella scorsa primavera e che hanno ancora margini per orientare la linea di via Arenula. La prima mossa tocca a Cartabia. Che considera le ipotesi della commissione Luciani, da lei incaricata di formulare una proposta complessiva di restyling del ddl Bonafede, solo un punto di partenza. È molto probabile che gli emendamenti della guardasigilli siano alla fine un po’ meno benevoli, nei confronti delle toghe, rispetto a quanto suggerito dal gruppo di esperti. I quali su diverse materie del ddl hanno seguito una linea più misurata rispetto allo stesso testo originario, a cominciare dalle norme sui magistrati che entrano in politica. Ma persino nella relazione Luciani c’è un pur minimo tentativo di cambiare passo sulle valutazioni di professionalità. Nella risposta data da via Arenula all’interrogazione di Enrico Costa, la percentuale dei “promossi a pieni voti” è al 92 per cento, un po’ più bassa rispetto al passato, ma comunque altissima. La commissione di esperti suggerisce, intanto, di fare chiarezza sui giudizi che, nei confronti dei magistrati, arrivano dagli uffici in cui hanno lavorato. Anche quando si deve esaminare il curriculum di una toga che aspira a presiedere un Tribunale o guidare una Procura, si dovrà “assicurare ai procedimenti di valutazione risultanze istruttorie più ampie e sicure”, si legge nella relazione Luciani. Che segnala, in particolare, “la possibilità di acquisire i pareri redatti dai dirigenti ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati dell’ufficio, affinché ne siano verificate l’effettività e attendibilità”. Si introduce insomma almeno un principio dubitativo sui meccanismi “autodifensivi” dell’ordine giudiziario. Gli esperti chiamati dalla ministra provano a sciogliere in modo semplice il nodo dei giudizi tutti impeccabili: “L’articolazione del giudizio positivo in discreto, buono o ottimo quanto alle capacità organizzative”. Un piccolo passo avanti. Si capirà chi ha qualche limite quanto meno dal punto di vista del coordinamento. Ma è chiaro che non basta. E anche se nell’ultimo vertice non se n’è parlato, è certo che sulle valutazioni di professionalità sta per iniziare una delle partite più tese. Diversi partiti hanno presentato, ad esempio, proposte per far discendere conseguenze, sulle valutazioni di professionalità, da un numero eccessivo di richieste (dei pm) o ordinanze (dei gup) di rinvio a giudizio seguite da insuccessi processuali. Nella scorsa primavera hanno depositato emendamenti con proposte simili non solo Forza Italia e Azione, ma anche Italia viva e, cosa forse sorprendente, il Pd. E quasi l’intera maggioranza, dalla Lega, a FI al partito di Calenda e agli stessi dem, è d’accordo sul riconoscimento, nei Consigli giudiziari, del diritto di voto agli avvocati (e agli accademici) anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Non a caso la proposta è tra quelle su cui radicali e Lega hanno indetto i referendum. E che si tratti di un passaggio utile a evitare giudizi generosi anche per i giudici dalle performance non proprio impeccabili, lo conferma un passaggio della stessa relazione Luciani. La commissione di esperti non ha proposto alla ministra il diritto di voto ma solo il “pieno diritto di parola” (che però era già previsto dal testo Bonafede). Eppure, nell’illustrare le ipotesi di emendamento, il gruppo di lavoro ha indicato “il rafforzamento delle garanzie partecipative per l’avvocatura (anche con la conseguente uniformazione di prassi, allo stato, discordanti)” tra le “proposte emendative, relative alle valutazioni di professionalità” che si ritiene siano “tuttora di sicura importanza”. Gli esperti non possono fare a meno di riconoscere che un maggior peso dall’avvocatura aiuterebbe a superare il paradosso di un ordine giudiziario con pochissimi casi di rendimento non positivo. Il nodo è determinante: lo segnala un incisivo intervento firmato sul Riformista di ieri da Giuseppe Di Federico. Che tra l’altro scrive: “La grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali”. Viene giudicato male, insomma, solo chi arriva addirittura a commettere reati. Di certo, mettere in discussione la tetragona impermeabilità della magistratura all’autocritica funzionale è il terreno su cui si misurerà la capacità dei partiti di riconquistare il primato nel gioco democratico, smarrito dai tempi di Mani pulite. Più che sul sorteggio dei togati o sulle porte non più girevoli ma sbarrate ai pochissimi giudici candidati in Parlamento, la riforma del Csm dovrà mostrarsi coraggiosa proprio con l’intromissione della politica nella perenne autodifesa della magistratura. Riforma giustizia penale, al via i lavori per attuazione legge delega gnewsonline.it, 30 ottobre 2021 La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato il decreto con il quale vengono costituiti cinque gruppi di lavoro, per l’attuazione della legge delega di riforma della giustizia penale. In totale sono coinvolti in 48, tra professori universitari, magistrati e avvocati. Insieme ai tecnici dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, hanno il compito di tradurre i criteri di delega, già approvati dal Parlamento (legge 27 settembre 2021, n.134), in proposte di norme di modifica del codice di procedura penale, del codice penale e di altre leggi collegate, che confluiranno in schemi di decreto legislativo da sottoporre al Consiglio dei Ministri e poi alle Commissioni parlamentari competenti, per i necessari pareri. Si tratta di una delle riforme indicate tra gli obiettivi del P.N.R.R., che prevedono in particolare la riduzione del 25% dei tempi medi del processo penale entro i prossimi cinque anni. Dei cinque gruppi di lavoro, tre sono dedicati alla riforma del processo penale (coordinati rispettivamente da Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte Costituzionale, Ernesto Lupo e Giovanni Canzio, presidenti emeriti della Corte di Cassazione); un gruppo alla riforma del sistema sanzionatorio (coordinato da Gian Luigi Gatta, professore ordinario di diritto penale nell’Università degli Studi di Milano e Consigliere della Ministra della Giustizia); un gruppo, infine, alla giustizia riparativa (coordinato da Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia nell’Università di Milano-Bicocca). Un ulteriore gruppo di lavoro, per l’attuazione della delega in materia di processo penale telematico, sarà prossimamente costituito, contestualmente alla riorganizzazione in corso della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero. I gruppi di lavoro - di cui fanno parte anche tutti i membri della commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi - svilupperanno le conclusioni di quella stessa commissione, confluite nella legge delega. Il coordinamento e il raccordo tra i gruppi sarà assicurato dal Vice capo dell’Ufficio legislativo del Ministero, Dott.ssa Concetta Locurto, e dal Consigliere della Ministra, Prof. Gian Luigi Gatta. Scarica il decreto in pdf: https://www.gnewsonline.it/wp-content/plugins/download-attachments/includes/download.php?id=83933 L’Italia e la corruzione percepita di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 30 ottobre 2021 Le statistiche internazionali spesso penalizzano i Paesi che più la contrastano. L’Italia occupa tradizionalmente posizioni non lusinghiere nelle statistiche internazionali sulla presenza di fenomeni corruttivi. Non è facile però reperire dati puntuali su cui fondare confronti significativi per stabilire se davvero da noi la corruzione sia tanto maggiore che in altri Paesi europei e, addirittura, in alcuni africani e asiatici. Si tratta, infatti, di statistiche molto spesso basate sulla cosiddetta “corruzione percepita” e che quindi penalizzano, paradossalmente, proprio i Paesi che più si impegnano nel contrasto al fenomeno, non tentano di nasconderlo e anzi ne fanno oggetto di dibattito pubblico. Su questa percezione negativa incidono due caratteristiche proprie del nostro ordinamento costituzionale - l’indipendenza della magistratura, anche requirente, e l’obbligatorietà dell’azione penale - che producono una notevole quantità di indagini e processi. Non solo: pesa altrettanto il fatto che, per cause storiche che non è qui possibile illustrare, le indagini giudiziarie su corruzione e mafia (fenomeni spesso collegati), sono da decenni parte integrante della lotta politica e trovano sui mezzi di informazione un’ampiezza di trattazione sconosciuta agli altri Paesi occidentali. A conferma di ciò, mi paiono significative due notizie di pochi mesi fa. La prima: “Airbus, 3,6 miliardi di euro per chiudere la causa di corruzione. Il colosso europeo degli aerei pagherà la somma una volta chiuso l’accordo di patteggiamento relativo ai contenziosi in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Lo fanno sapere le autorità francesi, spiegando che il maggior produttore mondiale di aerei ha già raggiunto un’intesa da 2,08 miliardi di euro con i procuratori francesi per archiviare le accuse”. La seconda notizia riguarda il pagamento di miliardi di dollari da parte di alcune delle maggiori banche del mondo per definire accuse di riciclaggio, favoreggiamento del traffico d’armi e della tratta di esseri umani, oltre che per gravi violazioni della normativa sull’embargo adottato dalla comunità internazionale verso regimi dittatoriali colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità. Queste notizie confermano come e quanto i fattori prima indicati incidano profondamente sulla percezione del fenomeno corruttivo degli italiani. Vediamo perché. Innanzitutto, la stampa nazionale e internazionale ha dedicato solo brevissimi cenni a questi due fatti, di portata certamente clamorosa, ma che hanno coinvolto altri Paesi. Si può immaginare il rilievo ben diverso che gli stessi avvenimenti avrebbero avuto sui nostri media - e non solo sui nostri - se vi fossero stati coinvolti pubblici ufficiali o società italiani. Oltre a ciò, possiamo notare come altre grandi democrazie preferiscano gestire e risolvere queste problematiche - se e quando esplodono - senza l’intervento della giustizia penale, ritenendo che tale intervento procurerebbe al mercato e all’economia ulteriori danni e che, quindi, sia preferibile “accontentarsi” di una pesante sanzione economica. Ma ciò è possibile solo negli Stati in cui non vige l’obbligatorietà dell’azione penale o in cui, comunque, i pubblici ministeri hanno margini di discrezionalità, anche in tema di patteggiamento, sconosciuti al nostro codice. Vi sono però anche elementi di segno apparentemente contrario: in Germania e in altri Paesi europei il numero di persone detenute per i cosiddetti White collars crimes, cioè i reati dei colletti bianchi, è dieci volte superiore a quello italiano. Ma neppure questo confronto è decisivo come potrebbe apparire, perché influenzato dalle specifiche caratteristiche del nostro sistema giudiziario con i suoi tempi lunghi e i termini di prescrizione (almeno finora) previsti. La gravità della situazione italiana è fuori discussione ma, per restare ai fatti più recenti, non si possono ignorare la condanna dell’ex presidente della Repubblica francese Sarkozy o le dimissioni cui è stato costretto il Cancelliere austriaco Kurz. A dimostrazione che nessun Paese è risparmiato dal fenomeno e che ogni ordinamento reagisce in base agli strumenti, alla cultura politica e all’etica che gli sono propri. Viene allora il dubbio che sia vero ancora oggi ciò che Italo Calvino scriveva nel 1980, proprio su questo giornale, a proposito dell’Italia raffigurata (dodici anni prima di Tangentopoli) come “un Paese di corrotti”: “Gli onesti non si facevano illusioni che in altri Paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste”. Infanzia e giustizia. Tribunali e minori, la riforma è zoppa di Luciano Moia Avvenire, 30 ottobre 2021 Giudici, procuratori, esperti e garante per l’infanzia sostengono che il provvedimento non funzionerà. Dire addio alle decisioni collegiali non servirà a ottenere sentenze più giuste. Una riforma che ci avvicina all’Europa? Forse. Ma magistrati minorili, avvocati, esperti di scienze sociali e anche la garante per l’infanzia e l’adolescenza sono convinti che sarebbe stato possibile adeguarsi alle richieste europee con una riforma più convincente. Quella votata all’unanimità dal Senato e che ora attende il via libera della Camera è invece un provvedimento - sostengono gli addetti ai lavori - largamente lacunoso che finirà per produrre più problemi che vantaggi. L’istituzione del Tribunale della famiglia e della persona insomma, svolta auspicata e attesa da anni dagli stessi magistrati - che al proposito avevano anche messo a punto un progetto già nel 2015 - rischia di creare un cortocircuito tra le decisioni riguardanti i minori e quelle relative ai processi di separazioni e di divorzio. Le novità e i tempi di attuazione - Ma cosa prevede questa riforma? Diciamo subito che si tratta di un provvedimento che entrerà a pieno regime alla fine del 2024. Ma già fin d’ora, non appena cioè la Camera avrà dato il via libera, ci sono alcuni articoli “immediatamente prescrittivi”. Il più contestato riguarda la nuova formulazione della tempistica per l’articolo 403 del codice civile che riguarda l’allontanamento urgente di un minore dalla famiglia d’origine (vedi intervista qui sotto). C’è poi l’articolo 38 che spiega quali saranno le competenze dei tribunali per i minorenni e quelle dei tribunali ordinari. E infine gli articoli 78 e 80 sul curatore speciale del minore che, come hanno chiesto i magistrati, non sarà sempre obbligatorio ma potrà essere nominato solo quanto ci sono situazioni in cui il minore rischia di non essere tutelato in modo adeguato. Alla fine del 2024 poi, quando tutto sarà pronto, si passerà agli attuali 29 tribunali distrettuali (uno in ogni regione con alcune eccezioni) a 165, cioè uno presso ciascun tribunale ordinario (sezioni circondariali). Quasi tutte le funzioni oggi ricoperte dai tribunali distrettuali passeranno a quelli circondariali, ma con una novità sostanziale. A carico dei tribunali circondariali, ai provvedimenti riguardanti i minori (tranne le adozioni che resteranno di competenza dei tribunali distrettuali), si aggiungeranno separazioni e divorzi. Le sedi minorili passano da 29 a 165, ma a decidere la maggior parte dei casi sarà un magistrato da solo, senza il supporto di psicologi e psichiatri come avviene ora. Così si rischia di affidarsi totalmente ai servizi sociali. Il nodo del giudice monocratico - Oggi i tribunali minorili sono formati per metà da giudici togati e per l’altra metà da onorari (cioè psicologi, educatori, neuropsichiatri infantili). Una presenza multidisciplinare che per tanti anni è stata un po’ il fiore all’occhiello del nostro sistema di tutela dei minori e il cui fondamento teorico appare fin troppo evidente. Per valutare i comportamenti, eventualmente illeciti, di bambini e di ragazzi la competenza giuridica dev’essere integrata con quella che deriva dalle scienze umane. La riforma invece cancella tutto. Nei tribunali circondariali il giudice chiamato a valutare maltrattamenti, incurie, abusi e altri ipotetici reati sarà solo - appunto “monocratico” - non avrà alcun supporto di carattere psico-pedagogico. Come farà? Dovrà fidarsi delle relazioni dei servizi sociali - il caso Bibbiano dovrebbe insegnare qualcosa - e, se proprio alcune considerazioni non gli sembreranno coerenti, potrà rivolgersi alle cosiddette Ctu (consulenze tecniche di ufficio). Con una dilatazione dei costi per lo Stato facilmente immaginabile. Il 90 per cento delle famiglie che finiscono nella “macchina della giustizia” minorile chiede infatti e quasi sempre ottiene, viste le condizioni economiche precarie, il gratuito patrocinio. Quindi anche le Ctu (da mille euro in su) saranno a carico dei tribunali. Critiche di magistrati e garante - Le ragioni del “no” espresse dai magistrati minorili, già comunicate direttamente alla ministra Marta Cartabia, sono sintetizzate nell’intervista a Cristina Maggia, presidente dell’Associazione dei magistrati minorili (Aimmf). Ma critiche pesanti sono arrivate da tante altre parti. L’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti è intervenuta in varie occasioni con critiche circostanziate, sia a proposito della scelta del giudice monocratico, sia su altri aspetti. “Si lascia da solo il giudice a decidere, senza la possibilità di confrontarsi con altri magistrati, togati e onorari. Viene meno infatti la collegialità, che invece continua ad essere assicurata, ad esempio, nelle cause civili che riguardano le imprese: forse i diritti dei bambini e dei ragazzi sono meno importanti?”. Altro nodo sul quale la Garante ha posto l’accento è quello della videoregistrazione dell’audizione del minorenne. “L’ascolto non deve essere inteso come un interrogatorio finalizzato a trarre elementi da utilizzare in favore o in danno di una o dell’altra parte, ma deve servire a capire come sta il minore e quali sono le sue esigenze. Il minore non va trattato alla stregua di un imputato o di un indagato”. Sul fronte degli esperti in scienze sociali, il parere più dettagliato è stato espresso da Maria Antonella Costantino, presidente della Società italiana di neuropsichiatria (Sinpia) che in un ampio documento si rammarica per la rinuncia alla multidisciplinarietà che “rischia di inficiare grandemente i già delicati percorsi terapeutici dei minorenni con disturbi neuropsichici”. Palermo. “Cotti in fragranza”, riprendere in mano la vita con dolcezza di Claudio Cucciatti La Repubblica, 30 ottobre 2021 Una seconda possibilità per chi ha commesso degli errori durante l’adolescenza, la ricerca di un approccio alla vita migliore del precedente. Nelle carceri minorili italiane molte associazioni e tanti volontari si adoperano per il reinserimento di ragazze e ragazzi nel mondo del lavoro, dando loro strumenti e competenze. Tra queste c’è la Cooperativa sociale Rigenerazione Onlus che, dal 2016, si prende cura dei detenuti del carcere minorile “Malaspina” di Palermo. Gli operatori hanno dato vita al progetto “Cotti in fragranza”, un laboratorio di pasticceria dove si realizzano delizie con ingredienti biologici e a chilometro zero. Un’iniziativa di successo troppo stretta per i piccoli locali messi a disposizione dal carcere. Per questo UniCredit ha deciso di sostenere la cooperativa. Lo ha fatto in prima battuta acquistando un forno e un’impastatrice per i pasticceri provetti. In seguito ha attivato una linea di credito per la ristrutturazione degli spazi dell’ex convento “Casa San Francesco”, un edificio nel centro storico del capoluogo siciliano che Rigenerazione Onlus ha individuato come sede dove sviluppare ulteriormente il progetto. Operazione da 150mila euro di mutuo che rientra nella missione di impact financing della banca. Nei locali della struttura palermitana, che fu dei frati minori cappuccini, è stata spostata parte della produzione dei biscotti e il loro confezionamento. Gli interventi saranno funzionali anche al comparto catering che la cooperativa ha messo in piedi. Grazie all’ampliamento della capacità produttiva, Rigenerazione Onlus assumerà detenuti ed ex detenuti formati per queste mansioni. Il contributo di UniCredit è stato finanziato dalla UniCreditCard Flexia Classic E, la carta di credito che raccoglie il due per mille di ogni spesa effettuata dai clienti, alimentando così un fondo che la banca destina alle iniziative di solidarietà nel territorio. Dal 2011 a oggi, attraverso questo prodotto bancario, UniCredit ha assegnato in Sicilia oltre un milione 970 mila euro a 181 Onlus che operano nell’isola. Padova. Devastò il cimitero: ora chiede scusa ai cittadini con una lettera di Davide D’Attino Corriere del Veneto, 30 ottobre 2021 Uno dei ragazzi accusati dei vandalismi di aprile (oltre 30mila euro di danni) ha scritto una lettera che il 2 novembre verrà affissa all’ingresso del cimitero. “Sentivo la necessità di chiedervi scusa e di dirvi che io non sono soltanto quello che ha fatto quel brutto gesto di cui mi vergogno. E quindi ho pensato di iniziare con questa lettera, con la quale non vi domando di perdonarmi, ma almeno di considerarmi da un punto di vista diverso. Dopodiché, ho anche deciso di mettermi a disposizione del vostro territorio, con alcune attività di volontariato laddove c’è più bisogno. Spero con tutto il cuore che non riteniate inopportuna questa mia iniziativa. E scusatemi ancora”. Danni per 30 mila euro - È indubbiamente questo il passaggio più sostanzioso della lettera scritta da uno dei quattro ragazzini che, nella notte tra il 2 e il 3 aprile scorsi, alla vigilia di Pasqua, misero letteralmente a soqquadro il cimitero di Sant’Antonino a Padova, in zona Arcella,il quartiere più popoloso e multietnico del capoluogo euganeo. Una “bravata”, quella dei quattro giovanissimi (finiti a processo per vilipendio di tomba e danneggiamento aggravato), che comportò oltre 30 mila euro di danni all’interno di uno dei camposanti più antichi della città. L’ingresso del cimitero - Adesso, a distanza di sette mesi da quell’episodio (dettato, secondo gli stessi autori, da qualche birra di troppo e da una serata, fin lì, piuttosto noiosa), uno dei quattro ragazzini ha appunto deciso di chiedere pubblicamente scusa ai residenti dell’Arcella, in particolare ai tanti che hanno un loro caro sepolto dentro il cimitero di via Enselmini, scrivendo loro una lettera (anonima) che sabato 31 ottobre, proprio in vista dell’annuale commemorazione dei defunti di martedì 2 novembre, verrà affissa all’ingresso del camposanto di Sant’Antonino. “Stiamo parlando di un ragazzo che ha l’età dei miei figli e che - racconta l’assessora cittadina ai Servizi Cimiteriali, Francesca Benciolini - si sente davvero in colpa per il gesto che ha commesso. E dunque spero che questa sua iniziativa faccia quantomeno piacere alla comunità arcellana che, in quei giorni di aprile, rimase veramente molto scossa da quanto accaduto”. Brescia. Angelo Canori, una vita dalla parte degli ultimi nelle carceri Giornale di Brescia, 30 ottobre 2021 Poco più di tre anni fa se ne andava Angelo Canori, l’instancabile promotore di quella forma particolare di volontariato che è quella del volontariato penitenziario. “Il volontario del carcere - sosteneva Canori - possiamo definirlo come il “volontario di frontiera o, come nello sport, volontario estremo”“. Oltre trent’anni di impegno nelle carceri cittadine e di assistenza ai detenuti in cerca di una seconda possibilità, di una nuova vita: questo il lascito che Canori ha lasciato dietro di sé. È certamente riduttivo riassumere la vita di una persona limitandosi al freddo calcolo dei contatti avuti, dei chilometri percorsi, delle telefonate fatte, delle ore donate. Ma dietro questi numeri ci stanno migliaia di volti concreti, di persone reali: storie di cadute e di riprese, di abbandoni e di gesti di accoglienza, di speranze e di inattese rinascite. Uomini e donne che grazie a lui e alle associazioni che ancora oggi meritoriamente operano con grande dedizione nella realtà bresciana, a partire dal Volontariato Carcere (Vol.Ca.) e dall’Associazione Carcere e Territorio, hanno trovato preziose opportunità di reinserimento sociale. “Come si può immaginare di rieducare una persona che ha commesso un delitto se non si creano dentro di essa, ma anche intorno a essa, condizioni diverse da quelle che l’hanno spinta al delitto? Alla persona che ha commesso un reato si può togliere la libertà, ma non la dignità e una prospettiva di futuro”. È questa una delle convinzioni che ha spinto Canori a battersi con determinazione per coinvolgere le istituzioni ai vari livelli e i semplici cittadini per iniziative che favorissero un reale inserimento dei detenuti. “Ci vuole l’impegno politico per affrontare il problema dell’inserimento nel circuito sociale” - sosteneva Canori. E proseguiva: “Dicendo politico non intendo l’intervento di coalizioni partitiche ma di tutte quelle forze che hanno a cuore il bene delle persone e che formano una Nazione che possa definirsi “una”, libera, democratica e consapevolmente proiettata nel futuro per lasciare alle generazioni che seguiranno la possibilità di progettare con serenità il quotidiano”. Era doveroso un omaggio da parte della città ad Angelo Canori. L’occasione per riflettere sull’attualità della sua testimonianza e del suo insegnamento è costituita dalla presentazione di un volume promosso dal Ce.Doc., in collaborazione con il Vol.Ca. All’iniziativa di venerdì in Loggia, dopo i saluti istituzionali, interverranno Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Monica Lazzaroni, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, Don Adriano Santus, cappellano della Casa Circondariale di Brescia, Carlo Alberto Romano, presidente dell’associazione Carcere e Territorio di Brescia e Luisa Ravagnani, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia. Busto Arsizio. Fermata del bus davanti al carcere: c’era e c’è. Don David: “Miracolo” di Simona Carnaghi malpensa24.it, 30 ottobre 2021 Fermata d’autobus in tempi record quella arrivata oggi, venerdì 29 ottobre, in via per Cassano davanti al carcere di Busto Arsizio. Due anni fa don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale bustocca, aveva chiesto che fosse istituita incassando il parere (tecnico) positivo di Claudio Vegetti, comandante della polizia locale cittadina. Siamo stati ascoltati - Oggi, venerdì 29 ottobre, la fermata è stata allestita. Come auspicato anche dal ministro della Giustizia Marta Cartabia. “Eh sì, con una tempistica davvero top, di venerdì alle 16.30 operai avvistati ad appendere orari della fermata del bus davanti alla Casa Circondariale di Busto Arsizio! Bello dai!!! Le cose accadono!!! Siamo ascoltati! Grazie!!!”, ha commentato don David su Instagram postando un video che documenta l’arrivo di “Una fermata dove speriamo i pullman si fermino. Una tempestività interessante. Che bello quando si attivano le fermate degli autobus al servizio degli ultimi. Così domani, quando passiamo di qua con il Flash Mob possiamo dire di essere già operativi”. A settembre lettera ad Antonelli - La richiesta era rimasta sul piatto dopo quel sì iniziale tanto che don David, insieme al garante per i detenuti Matteo Tosi, a settembre aveva inviato una lettera al sindaco e presidente della provincia di Varese Emanuele Antonelli sottolineando la necessità di istituire la fermata fondamentale sia per i detenuti (che una volta scarcerati avrebbero così avuto un mezzo per raggiungere le stazioni ferroviarie cittadine), sia per i loro famigliari e per chi in carcere lavora o presta servizio come volontario. L’intervento del ministro Cartabia - Una richiesta rilanciata, con forza, dal ministro della Giustizia Marta Cartabia lo scorso 25 ottobre, giorno in cui il Guardasigilli era arrivata a Fagnano Olona per inaugurare la Cooperativa La Valle di Ezechiele (di cui don David è anima) che dà lavoro ad ex detenuti. “Mi dicono di una difficoltà con i trasporti pubblici che possano arrivare sino all’ingresso del carcere”. Nella stessa giornata, lunedì scorso, Stie attivava una serie di orari per la linea extraurbana Busto Arsizio-Cassano Magnago comprensivi di una fermata all’altezza della casa circondariale che collega anche le due stazioni ferroviarie. Il sopralluogo dell’assessore - Appreso il fatto consultando il sito di Stie il nuovo assessore alla Sicurezza di Busto Arsizio Salvatore Loschiavo ha effettuato un sopralluogo. Trovando soltanto un palo all’altezza della fermata del bus. A quel punto l’amministrazione si è attivata scrivendo a Stie di istituire la tabella con gli orari e alla Provincia di Varese di realizzare la segnaletica orizzontale indicante la fermata d’autobus. Il Comune si è reso anche disponibile ad istituire un tavolo con tutti i soggetti coinvolti per valutare la possibilità, qualora servisse, di adeguare gli orari del passaggio del bus alle esigenze della casa circondariale. Il Flash Mob organizzato per le 11.30 di domani, sabato 30 ottobre, resta confermato: “È già tutto organizzato. Ringrazieremo per aver risposto in tempi rapidi alle parole del ministro e alle nostre sollecitazioni”. Milano. Il carcere per tre giorni “centro città” di Bookcity di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 ottobre 2021 Il carcere diventa, per tre giorni di fila, il centro-città della Città dei libri. Nell’ambito della rassegna libraria Bookcity, infatti, il Garante del Comune di Milano per le persone private della libertà personale, Francesco Maisto, organizza tre eventi che, in maniera diversa, puntano ad avvicinare i cittadini ai temi del carcere. Il primo si svolgerà alle 10.30 del 18 novembre nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia in via Freguglia 1, dove, dopo la presentazione del libro “Di Cuore e di coraggio” (Rizzoli) del direttore del carcere di San Vittore, Giacinto Siciliano, si confronteranno in una tavola rotonda il direttore del Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, Bernardo Petralia, il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei e del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa, il presidente dell’Ordine degli avvocati Vinicio Nardo, il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e l’avvocato Valentina Alberta. L’indomani, 19 novembre, alle ore 17 dentro l’istituto minorile Beccaria in via Calchi Taeggi 20, il regista Francesco Clerici presenterà nel Teatro Puntozero il docufilm “Clessidre”, prodotto da Centro Orientamento Educativo in collaborazione con il Comune di Milano, con l’Ufficio Relazioni Internazionali e il Garante delle persone private della libertà personale: lavoro poi discusso in una tavola rotonda dal capo Dipartimento ministeriale per la giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo, dal Provveditore degli istituti penitenziari lombardi Pietro Buffa, e dal criminologo professor Adolfo Ceretti, neocoordinatore del gruppo di lavoro ministeriale sulla giustizia riparativa. Infine il terzo giorno, 20 novembre alle ore 10 nel carcere di San Vittore in piazza Filangieri 2, i curatori Andrea Di Franco e Paolo Bozzuto presenteranno il libro “Lo spazio di relazione nel carcere. Una riflessione progettuale a partire dai casi milanesi”: e proprio sul sottovalutato impatto dell’architettura penitenziaria sulla vita quotidiana dei detenuti e degli agenti interverrà il professore Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. Roma. La partita infinita dell’atletico diritti di Francesco Gottardi Il Foglio, 30 ottobre 2021 Rifugiati, detenuti e studenti “insieme per un laboratorio di integrazione attraverso lo sport”. A volte una chiacchiera in spogliatoio può cambiare il futuro. “Mi era scaduto il permesso di soggiorno, non sapevo come fare”, ricorda Felicien: “Appena ne parlai con ragazzi e dirigenti mi aiutarono a ottenere tutti i documenti necessari”. Altre permette di aggrapparsi alla vita. “Il carcere è un mondo a sé”, assicura Luisa: “Se non metti l’anima in qualcosa perdi la testa. Quando mi dissero quale giorno sarei uscita, reagii con una punta di dispiacere: avrei saltato il torneo di calcio a 5 con le mie compagne”. Il primo ha 24 anni e nel 2015 lasciò la Costa d’Avorio per intraprendere la più disperata delle vie verso l’Italia: “La Libia, un barcone, la speranza di vedere Lampedusa”. Lei ne ha 53, ora è una donna libera, ma il suo cinquantesimo compleanno lo passò a Rebibbia, “con la squadra che mi fece il regalo e riuscì a farmi piangere anche lì dentro”. La loro storia in comune si chiama Atletico diritti. Polisportiva dilettantistica romana e ibrido sociale sul territorio: “Siamo nati nel 2014 dalla convergenza di tre realtà”, racconta al Foglio sportivo la presidente Susanna Marietti. “Antigone, l’associazione di cui sono coordinatrice nazionale e che da 30 anni si batte per la garanzia della giustizia penale”, monitorando le condizioni dei penitenziari, “e Progetto diritti, che offre assistenza legale gratuita alle comunità di immigrati. Insieme abbiamo deciso di creare un laboratorio di integrazione attraverso lo sport. Trovando subito il sostegno dell’Università Roma Tre”. Tutto partì dal pallone: sul campo del Quadraro, all’ombra dell’acquedotto Claudio, “studenti, richiedenti asilo e detenuti con permessi speciali per giocare con noi. Presto è seguita una squadra di cricket a Fondi, con ragazzi indiani e bengalesi ribellatisi al caporalato agricolo del Pontino. Quindi il basket in Serie D e il calcio a 5 femminile in carcere, dove quest’anno abbiamo lanciato anche il tennistavolo maschile. E tranne le ragazze, perché il campo dell’istituto non è regolamentare, tutte le nostre formazioni partecipano a campionati federali. Siamo un piccolo progetto no profit”, l’etichetta ‘Made in jail’ sulle maglie da allenamento, “ma serio e competitivo”. Civil week: il Terzo Settore che ci aiuta (e va rivalutato) di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 30 ottobre 2021 I sei milioni di volontari censiti nel nostro Paese sono anche una forza economica che occupa 800 mila persone e genera un valore economico di circa 72 miliardi: aiutiamoli, perché possano continuare ad aiutarci. “Siete stati generosi, operosi, indispensabili”. Il presidente del Consiglio Mario Draghi si è rivolto così ai “lavoratori e volontari del Terzo settore” aprendo Civil Week Lab, la tre giorni dedicata alla cittadinanza attiva e solidale. Generosi, operosi e indispensabili non solo quando si tratta di affrontare le emergenze, come è stato nei mesi della pandemia. Ecco. Se qualcosa ci hanno insegnato gli incontri di Civil Week, la tre giorni organizzata dall’inserto Buone Notizie, è che questa risorsa ha un valore ben superiore a quello dell’immaginario collettivo. Non i “buoni”, non solo: i sei milioni di volontari censiti nel nostro Paese sono anche una forza economica che occupa 800 mila persone e genera un valore economico di circa 72 miliardi. Sono le associazioni, i comitati e le fondazioni, ma anche le imprese sociali e le cooperative (quest’anno ricorrono i trent’anni dalla firma delle legge che provvidenzialmente le istituì) che danno risposta ai bisogni sociali sempre più ampi. Tutto quello che sta ogni giorno, ogni ora, a contatto diretto con il mondo reale e che ogni volta cerca di rimodularsi in base alle nuove domande di aiuto. E c’è un altro luogo comune da sfatare: questo impegno non è legato soltanto al welfare. Tutti i diciassette obiettivi dell’Agenda Onu 2030, come ha fatto notare nella relazione conclusiva del suo mandato la portavoce del Forum del Terzo settore Claudia Fiaschi, “vedono impegnata almeno una rete nazionale: il 29% degli enti è attivo sul Goal 6 Acqua pulita, l’82% sul 3 Salute e benessere, l’85% sull’11 Città e comunità sostenibili”. La crescita di queste realtà in termini numerici e di autorevolezza va infatti letta e valutata all’interno di un contesto che vede tutta la società, e anche il mondo economico e finanziario, impegnato a costruire modelli di economie civili più attenti alle persone, alle comunità e al Pianeta. Lontane dai “bla bla” ci sono fiumi di persone che ogni giorno nel nostro Paese si mettono in gioco con senso civico per diventare protagonisti del cambiamento. Schierarci con il Terzo settore è nel nostro interesse. E, come ci invitato a fare Draghi, aiutiamoli, perché possano continuare ad aiutarci. Liliana Segre e Marta Cartabia al binario della Shoah: con la vendetta non c’è mai giustizia di Venanzio Postiglione e Alessia Rastelli Corriere della Sera, 30 ottobre 2021 La conversazione tra la ministra e la senatrice a vita al Memoriale di Milano. Ignota destinazione. Due parole che Liliana Segre ripete più volte, perché ne sente ancora il peso, tutto intero, non può essere diversamente: sono passati 77 anni ma è come ieri, come sempre. La nostra idea di viaggio, che è ancestrale, si aggancia alla meta, che si raggiunga o che svanisca: da Gilgamesh a Ulisse fino agli esploratori e agli astronauti. Un percorso magari cosparso di insidie e di trappole, ma verso un orizzonte possibile. Liliana tredicenne, il 30 gennaio del ‘44, fu invece costretta a un altro passo che cancellava la sua identità. Le dissero soltanto “ignota destinazione”. Nel ventre della stazione Centrale, a Milano, c’è il Memoriale della Shoah. La grande scritta “Indifferenza”, le immagini e le voci dell’epoca, i treni che portavano gli ebrei verso i campi di sterminio, il muro digitale con i nomi di chi non è più tornato e i nomi (pochissimi) di chi ce l’ha fatta. È qui che Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, senatrice a vita, ha accolto e accompagnato Marta Cartabia, ministra della Giustizia nel governo Draghi. Una lunga visita, un passo alla volta, fino al binario della morte. Poi il colloquio sulla giustizia e il senso della giustizia: la storia, i limiti, l’attualità, il lato oscuro del web, anche le speranze. Domenica 31 ottobre “la Lettura” pubblicherà la conversazione tra Segre e Cartabia (già sabato 30 sulla App), con le prime quattro pagine. Sul sito abbiamo, in alto, il video della visita e qui sotto il video integrale dell’incontro. Liliana Segre è nata a Milano nel 1930, è coetanea di Anna Frank che era del 1929. Liliana è qui a raccontare, a spiegare, dolcemente inflessibile, e piace ai ragazzi perché ha la stessa energia vitale, Anna ha lasciato il diario più famoso del mondo, per tanti altri abbiamo una foto e un nome, poco più. La senatrice chiede silenzio, poi ricorda. “Eravamo un’umanità disperata. Vitelli al macello. È l’indifferenza che ha permesso la violenza. È quel pregiudizio che sento ancora addosso. Tantissimo. Vedete i nomi? Famiglie intere, che spesso restavano in città per aiutare i nonni. Almeno l’ho vissuto da figlia. Perché da madre che non riesce a salvare i suoi bambini… io non ce l’avrei fatta”. Si sente il rumore dei treni, al piano di sopra. I nazifascisti li rinchiusero a San Vittore in quanto ebrei: La sola colpa di essere nati, come il titolo del libro che Segre ha scritto con Gherardo Colombo per Garzanti. “Quando ci portarono via dal carcere, gli altri detenuti si affacciarono ai ballatoi e si rivelarono straordinari. Loro non furono indifferenti. Non avete fatto niente di male, che Dio vi benedica, ci urlarono. Chi lanciava un’arancia, chi una mela, chi una sciarpa. Chi soltanto ebbe il coraggio di dirci che ci voleva bene”. Il resto della città abbassò le tende, preferì non vedere. “E arrivammo qui al binario. Buttati a decine in carri bestiame come questi, una settimana di viaggio tra chi moriva, stava male, impazziva”. Liliana Segre che guida tutta la visita, dettaglio per dettaglio, ricordo per ricordo, non entra nel vagone della morte, c’è un limite anche per le ferite. Non l’ha più fatto, da quel giorno italiano del ‘44, abisso del nostro Paese. Difficile parlare, dopo il percorso. Ma, come dice Marta Cartabia, “se c’è un posto dove ha senso provare, magari balbettando, a rimettere al centro la parola giustizia è proprio qui, nel luogo della massima ingiustizia”. Anche perché “il bisogno di giustizia è innanzitutto un bisogno di riconoscimento, di verità e di memoria, per non disperdere la coscienza e la conoscenza di quello che è successo”. E la ministra Cartabia non può che pensare anche agli attacchi a Liliana Segre. “Come si fa? Come è possibile? Mi viene in mente una frase che lei ricorda spesso, di Primo Levi: lo stupore per il male altrui. Servono le regole e gli strumenti di contrasto. Ma le leggi devono affondare le radici nella cultura e nell’educazione”. Durante la marcia della morte, il comandante dell’ultimo lager gettò a terra la pistola. Liliana poteva raccoglierla e ucciderlo. Ci pensò, non lo fece. E da quel momento, ha detto e scritto, è diventata “una donna libera, una donna di pace”. È l’attimo chiave di una vita. E quella pistola non raccolta, per Marta Cartabia, è il simbolo stesso della giustizia “che non è mai vendetta” e può superare il richiamo dell’odio. La ministra ha un legame speciale con Le Eumenidi di Eschilo, perché la dea Atena istituisce il primo tribunale, riesce a spezzare la catena di sangue, fa prevalere la ragione sulle tenebre. “Un passaggio di civiltà, con la nascita del processo e il valore della parola”. Fino all’idea, così attuale, della giustizia riparativa. “La possibilità di ricucire o almeno attenuare le ferite permette davvero di guardare al futuro”. “Toccherà ai ragazzi”, dicono Segre e Cartabia. La visita al Memoriale della Shoah si dovrebbe prevedere nei programmi scolastici: in presenza o almeno in via digitale. Farsi forza, restare in silenzio, entrare nei vagoni con meta ignota, meditare “che questo è stato”, per ricordare ancora Primo Levi. Fra i diritti umani andrebbe inserito anche il bisogno di conoscere la propria destinazione. Sempre e in ogni luogo. La cittadinanza digitale: le regole per vivere nella rete di Giovanni Pascuzzi Il Domani, 30 ottobre 2021 Il mondo dei bit e della rete è un luogo nel quale i diritti (civili, politici, sociali, umani) vengono riconosciuti ed attuati in modo esattamente sovrapponibile a quanto avviene nel mondo reale? La risposta non è univoca, ma si può tracciare un quadro di massima. La cittadinanza comporta, per definizione, la titolarità di diritti e di doveri. Basti citare alcune libertà riconosciute dalla Costituzione come la libertà di informazione (diritto ad informare e ad essere informati), la libertà di comunicazione, la libertà di associazione, la libertà di riunione, la libertà di iniziativa economica privata, le libertà politiche. Le tecnologie digitali offrono nuovi spazi all’esercizio di queste libertà spesso schiudendo opportunità impensabili prima (si pensi alla possibilità di comunicare in tempo reale con tantissimi individui offerta dai social network come Facebook e Twitter). Un discorso simile può farsi per i diritti della personalità o per i diritti di proprietà. Anche in questo caso il mondo digitale apre scenari inediti ad esempio perché si può prefigurare una autonoma identità digitale o perché nascono nuovi beni e nuove forme di appartenenza. Sorgono alcuni interrogativi alimentati dalla necessità di capire se questa evoluzione si governa reinterpretando le norme esistenti ovvero istituendo nuovi diritti anche a livello costituzionale. Cosa comporta l’avvento di uno spazio digitale? Il mondo dei bit e della rete è un luogo nel quale i diritti (civili, politici, sociali, umani) vengono riconosciuti ed attuati in modo esattamente sovrapponibile a quanto avviene nel mondo reale? Oppure tali diritti si configurano in maniera diversa per contenuti e forme di tutela? O, addirittura, nascono nuovi diritti? Ovvero, emergono nuovi interessi che invocano nuove tutele? Il quadro della situazione - Non è semplice rispondere a queste domande. Ma alcuni elementi ci aiutano a definire un quadro di massima. A) Un primo dato da prendere in considerazione è l’uso, nel codice dell’amministrazione digitale, della espressione: diritti di cittadinanza digitale. Nel CAD esiste una intera sezione (la seconda del capo I), denominata “Carta della cittadinanza digitale”: la parola Carta tradizionalmente evoca un documento contenente l’elencazione di principi fondamentali. B) Occorre anche ricordare che, nel 2014, venne istituita, presso la Camera dei Deputati, una Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet. Al termine dei lavori venne elaborata, appunto, una Dichiarazione dei diritti in Internet, composta da un preambolo e da 14 articoli. La Dichiarazione non ha mai assunto valore normativo, ma è senza dubbio un punto di riferimento per la riflessione sui diritti di cittadinanza digitale. Essa testimonia il bisogno avvertito da più parti di canonizzare alcuni diritti propri dello spazio digitale. C) La legislazione recente ha canonizzato nuovi diritti intrinsecamente legati alla rivoluzione digitale: si pensi al GDPR (regolamento UE 2016/679) che riconosce, tra gli altri, il diritto alla protezione dei dati personali, il diritto all’oblio, il diritto di non essere sottoposti a una decisione basata unicamente su trattamenti automatizzati. D) Nella prassi osserviamo la nascita di neologismi nei quali l’attributo digitale viene associato a categorie giuridiche tradizionali. Sempre più spesso capita di imbattersi in espressioni come: identità digitale, eredità digitale, patrimonio digitale, reputazione digitale, esistenza digitale, sovranità digitale e così via. E) Un ultimo tassello da prendere in considerazione giunge dalle iniziative più recenti dell’Unione Europa. Il 9 marzo 2021 la Commissione ha presentato gli obiettivi digitali per il 2030 (“Bussola per il digitale 2030: il modello europeo per il decennio digitale”, Brussels, 9 marzo 2021 COM(2021) 118 final). La Commissione si propone di definire un quadro di principi digitali che contribuirà a promuovere e sostenere i valori dell’UE nello spazio digitale. Un cantiere aperto - Quello della cittadinanza digitale può essere considerato un cantiere aperto. Il concetto di cittadinanza digitale ha a che fare con l’esistenza di strumenti, l’accesso concreto ad essi, il possesso delle competenze necessarie per adoperarli, la titolarità di diritti e doveri, la partecipazione alla vita politica e alle scelte collettive, ed altro ancora. Un concetto, quindi, molto ampio e in continua evoluzione. Essere cittadini nell’era digitale significa accettare molte sfide. La prima è quella dell’inclusione. Quanto più le tecnologie saranno presenti nelle nostre vite, al punto da far scomparire la distinzione tra offline e online, tanto più il rifiuto di misurarsi con esse avrà come unica conseguenza l’esclusione. Invece non solo bisogna combattere questa nuova è più subdola possibilità di emarginazione, ma bisogna fare ogni sforzo per abitare appieno lo spazio digitale. Ecco perché la seconda sfida attiene alle competenze. Non basta comprare un ritrovato tecnologico per essere davvero in grado di padroneggiare opportunità e rischi che lo stesso schiude o comporta. Bisogna apprendere competenze tecniche, cognitive, metacognitive, emotive, sociali, giuridiche utili a metterci in grado di accettare la sfida. Occorre continuare ad imparare per tutta la vita perché le tecnologie diventano sempre più evolute e sofisticate. La terza sfida è direttamente legata al tema delle responsabilità. Cittadinanza digitale non può che essere sinonimo di cittadinanza attiva. Si è cittadini solo se si agisce attivamente per far funzionare la democrazia e dare corpo all’appartenenza ad una comunità sociale e politica. Questa affermazione è ancora più vera se si guarda all’impatto che le tecnologie hanno sull’esercizio concreto della cittadinanza. Il cittadino digitale ha la responsabilità di alimentare la partecipazione democratica; ha la responsabilità di difendere il pluralismo delle idee; ha la responsabilità di vigilare sulle politiche relative ai dati personali. Sono solo esempi. La costruzione della cittadinanza digitale è un cantiere aperto. È responsabilità dei cittadini partecipare a questa costruzione operando perché la transizione al digitale non comporti una regressione sul piano della tutela dei diritti. L’ultima sfida è quella dei valori. I cittadini digitali creano, usano e controllano la tecnologia per migliorare l’umanità. Lo scenario tecnologico, già complesso, si sta popolando di macchine sempre più autonome e intelligenti (i robot, ma non solo). È di vitale importanza portare e riaffermare nel futuro i valori alla base della nostra civiltà. Il volume “La cittadinanza digitale. Competenze, diritti e regole per vivere in rete” si propone di restituire la complessità del tema attraverso modalità che spieghino concretamente chi è e cosa può e deve fare il cittadino digitale: una vera e propria guida alla cittadinanza digitale. Ddl Zan bocciato, fa paura il “genere” perché temono la libertà di Lea Melandri Il Riformista, 30 ottobre 2021 Anche se probabilmente non fermerà il difficoltoso iter parlamentare della legge Zan, la votazione che c’è stata in Senato il 27 ottobre 2021, segna comunque una battuta d’arresto e apre nuovi interrogativi sul variegato fronte che oggi si oppone a riconoscere il salto della coscienza storica del nostro Paese, per quanto riguarda i pregiudizi e le imposizioni di una millenaria cultura patriarcale. Negli interventi della mattinata non poteva non stupire il richiamo alla minaccia che la legge Zan rappresenterebbe per la “libertà” di chi inneggia ai valori della famiglia tradizionale, alla naturalizzazione del destino del maschio e della femmina, all’imposizione dell’eterosessualità come norma e del ruolo della donna come moglie e madre, garante della continuità della specie e, in particolare, della “specie italica”. Pervertire l’uso di alcuni termini, sperando di volgere e usare a proprio favore le ragioni che hanno permesso alle vittime di liberarsi delle loro catene, è sempre stata l’arma con cui il potere ha legittimato le sue ritorsioni vendicative, le sue rappresaglie, i suoi orrori. Oggi si potrebbe dire che se ne fa un uso generalizzato, dai manifestanti contro il Greenpass a chi si oppone a una legge che dovrebbe, al contrario, garantire sicurezza da soprusi, discriminazioni e violenze. La parola “libertà” si svincola dai suoi fondamenti storici per assumere il potere di un amuleto da sventolare davanti all’esercito nemico, e riportare, quasi per incantamento, la responsabilità del male su cui lo ha subito. Le norme, imposte e purtroppo interiorizzate, trasmesse inconsciamente di generazione in generazione e mantenute nell’immobilità delle leggi di natura, sono quelle che hanno garantito finora al sessismo una sorta di “invisibilità”, e oggi alle destre più vicine al fondamentalismo religioso, di contrabbandarlo come difesa di valori essenziali dell’umano. A chi sta sostenendo la necessità di una legge destinata a proteggere, più di quanto non si sia fatto finora, l’inviolabilità di donne, omosessuali, lesbiche e trans, e tutti gli atti che si possono riportare all’odio per un sesso considerato di “natura inferiore” o un orientamento sessuale catalogato come “deviante”, viene persecutivamente imputata la volontà malvagia di attentare alle sue scelte esistenziali e alle sue convinzioni. Nelle parole dei senatori contrari alla legge Zan, la paura che il riconoscimento delle “identità di genere” significhi di fatto aprire alle problematiche e all’educazione di genere le porte della scuola, è stata nominata in modo esplicito, così come è stato purtroppo innegabile il supporto che la posizione di alcuni gruppi e associazioni femminili e femministe hanno offerto alle peggiori destre del nostro Paese che siedono in parlamento. A chi ha conosciuto il lungo percorso che ha portato il femminismo a svelare le tante “illibertà” che hanno fatto forzatamente e loro malgrado delle donne uno degli anelli di trasmissione delle legge dei padri, non può che apparire incomprensibile il fatto che venga scambiata una legge, che intende prevenire la misogina e tutte le forme consequenziali di discriminazione e violenza contro le soggettività che non rientrano nelle norme del binarismo sessuale, per una prevaricazione volta a cancellare il corpo delle donne e la storia dei diritti da loro conquistati. Che l’approfondimento delle analisi e delle pratiche politiche, volto a includere vite, come quelle Lgbtqui+, altrettanto segnate dall’odio, dal disvalore e dalla sofferenza che ne consegue, potesse fare ombra al femminismo, tanto da essere preso per una “cancellazione della donna”, si può ricondurre solo al maternalismo atavico che ha radici profonde nella nostra storia, all’identificazione della donna col corpo capace di procreare, a quel rapporto confuso tra sesso e genere che non ha mai smesso di attraversare il femminismo. Ma c’è un altro aspetto inquietante che è emerso, indirettamente, solo da alcuni interventi, e cioè lo scollamento tra ciò che si muove e che sta rapidamente cambiando nella vita delle persone e della società e il riscontro, mancato, nelle istituzioni che dovrebbero dargli voce e rappresentarlo. La libertà oggi, che si tratti dei corpi, della salute, della sessualità, dei vissuti soggettivi, dei ruoli e delle identità di genere ereditate come “naturali”, dei rapporti familiari, parla di una cultura, per non dire di un modello di civiltà, che sta mostrando il suo retroterra di barbarie e il suo potenziale distruttivo, per l’umanità come per la natura. Da un salto della coscienza, così radicale e ormai acquisito, è difficile tornare indietro. Eutanasia, rinviata ancora la discussione sulla proposta di legge alla Camera di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2021 M5S: “I leghisti minacciano di fargli fare la fine del ddl Zan”. Eutanasia, rinviata ancora la discussione sulla proposta di legge alla Camera. M5s: “I leghisti minacciano di fargli fare la fine del ddl Zan”. La conferenza dei capigruppo ha ricalendarizzato il provvedimento che di fatto slitta di un mese. Il comitato Liberi fino alla fine: “Mancavano i pareri del governo sugli emendamenti”. Intanto continua l’ostruzionismo del centrodestra. Nuovo rinvio per la proposta di legge sull’eutanasia legale: sarebbe dovuto arrivare in Aula alla Camera il 25 ottobre e invece è stato rimandato tutto al 22 novembre. A stabilirlo è stata la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio, che ha ‘ri-calendarizzato’ il provvedimento che è ancora all’esame della commissione Giustizia. “Mancano i pareri del governo sugli emendamenti”, ha denunciato il comitato Liberi fino alla fine che ha appena depositato oltre un milione di firme per chiedere un referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. Il 27 ottobre scorso, durante la seduta congiunta delle commissioni Affari sociali e Giustizia a Montecitorio, il centrodestra ha continuato con l’ostruzionismo. “Il leghista Pagano”, ha dichiarato il deputato M5s Aldo Penna, “ha minacciato per la legge sul suicidio assistito lo stesso destino della Pdl Zan, se i sostenitori del testo base non scenderanno a compromessi”. E ha concluso: “Uomini come Pagano sono la negazione del cristiano principio della misericordia e procedono con la forza arrogante delle falsificazioni storiche e documentali a minacce che vanno solo restituite all’autore perché intraprenda un percorso di ravvedimento che lo metta in sintonia con quesì precetti cristiani di cui pensa di essere difensore”. Per il capogruppo della Lega in commissione Giustizia, il deputato Roberto Turri, la pdl non è tra le priorità da affrontare: “Sinistra e 5S chiariscano se la priorità del Paese è la pdl sul suicidio assistito o garantire le risorse del Pnrr. Con che criterio si preferisce calendarizzare alla Camera il provvedimento sull’eutanasia prima della delega sul processo civile, prevista appunto dal Pnrr e da approvare assolutamente prima della fine di quest’anno se non vogliamo compromettere i fondi Ue? Non vorremmo che, dopo lo stop al Ddl Zan, qualcuno volesse segnare a tutti i costi un punticino a proprio favore”. L’esame della proposta di legge sul suicidio assistito riprenderà mercoledì 3 novembre nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, che oggi non hanno potuto riunirsi visto il voto di fiducia sul decreto infrastrutture e la lunga seduta dell’Aula. Secondo quanto riferiscono alcuni deputati delle due Commissioni le convocazioni di due sedute per mercoledì e giovedì prossimi sono state decise e comunicate, dopo che questa settimana si è potuta tenere solo una seduta - ieri - nella quale Lega e Fdi hanno svolto due lunghi interventi sul complesso degli emendamenti. Sempre la prossima settimana si terrà un ufficio di presidenza delle Commissiioni per mettere a punto la tempistica d’esame del provvedimento, visto che è stato calendarizzato in Aula dalla capigruppo per il 22 novembre. Il cinismo del vertice e le ferite aperte del mondo di Alberto Negri Il Manifesto, 30 ottobre 2021 G20 e Afghanistan. La principale ferita che ci porta questo G-20, come del resto quelli che l’hanno preceduto, è l’assoluta mancanza di giustizia. Per essere tutti d’accordo bisogna che ognuno abbia la sua parte di sangue e di morti. Mai una volta che si senta qualcuno che difenda una causa giusta rispetto al destino dei popoli. Il G-20 è nei fatti una sfilata di conformisti privi di valori ma con una superlativa qualità: il cinismo. Chi sono quelli del G-20 di Roma? Sono per gran parte coloro che intendevano esportare la democrazia in Afghanistan e poi hanno abbandonato gli afghani al loro destino e alla fame: a milioni, compresi migliaia di bambini, rischiano di morire, dicono le Nazioni unite, se non saranno assunte misure urgenti per aiutare il paese. Ma la nostra sola preoccupazione è stringere accordi con l’Iran e il Pakistan perché si occupino di “accoglierli” e fermare il loro viaggio verso ovest. Quelli del G-20 sono quasi gli stessi che volevano liberare gli iracheni da Saddam Hussein e poi li hanno lasciati in mano al Califfato. Quindi hanno colpito Gheddafi, fino al sua fine orribile, lasciando che la Libia e l’intero Sahel scivolassero nel caos. Con la complicità dei turchi e delle monarchie del Golfo hanno scatenato migliaia di jihadisti in Siria per abbattere Assad, poi hanno fatto marcia indietro. Quindi si sono serviti dei curdi siriani contro l’Isis per lasciarli massacrare dalla Turchia nel Rojava. La giustizia vera non ha diritto di cittadinanza al G-20, anche quando viene propugnata non solo dalle autocrazie ma anche dalle cosiddette democrazie liberali. Basta guardare cosa accade ai palestinesi sottoposti da Israele a un regime di apartheid: Israele ha appena approvato oltre 3mila nuove case per i coloni per impedire la nascita di uno Stato palestinese. Gli europei protestano, Washington fa finta di indignarsi ma nel concreto non accadrà nulla: Israele può fare quel che gli pare e ignorare tutte le risoluzioni Onu. Ci lamentiamo giustamente di autocrati come Putin, Xi Jinping, Erdogan, ma quale segnale invia l’Occidente a questi regimi? Non punisce mai Israele: non ci sono mai sanzioni, non c’è mai una presa di posizione tangibile che non vada oltre frasi di circostanza. È questo l’esempio di giustizia che diamo dalle nostre parti e poi la pretendiamo dagli altri? Non c’è neppure voglia di discuterne, visto che è saltato l’incontro Erdogan-Biden. La polvere della Nato si nasconde sotto il tappeto. Il ritiro disastroso dall’Afghanistan, ignorando il destino di un popolo e la sua sopravvivenza, aveva già i suoi chiari precedenti. Non li vedeva soltanto chi non li voleva vedere. Ebbene questi killer di popoli e nazioni e si stringono oggi volentieri le mani, che sia in presenza oppure in video non fa gran differenza. La stringono pure a Mohammed bin Salman che come “principe del rinascimento arabo”, secondo le parole del senatore Renzi - ormai assunto stabilmente alla sua corte - ha fatto torturare, uccidere e smembrare a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi. Lo stesso principe saudita che, secondo alcuni testimoni, avrebbe voluto ammazzare pur lo zio, il re Abdul Aziz. Insomma con lui è come andare a pranzo con Totò Riina. Julian Assange, fondatore di Wikileaks, che ha rivelato i crimini delle guerre e alcune delle trame di Stati e servizi segreti occidentali e dei loro alleati, è invece sotto processo a Londra, dove forse vorrebbero che finisse velocemente i suoi giorni. Assente di rilievo nella congrega romana è Israele, che manda il Mossad in Iran e in giro per il mondo ad ammazzare chi gli pare senza che nessuno abbia niente da ridire. Ma forse al prossimo giro, se si allarga il Patto di Abramo, avremo al G-20 anche Israele che occupa illegalmente la terra dei palestinesi, abbandonati da tutti. Se sono poi questi i capi che tra qualche ora a Glasgow si dovranno occupare di ambiente e salvare il mondo dal riscaldamento globale stiamo freschi. Nelle stanze dell’Eur dove si riuniscono c’è un’aria mefitica, che Draghi apra almeno una finestra se vuole respirare. Che cosa si decide al G-20 di concreto, al di là dei comunicati ufficiali? Una certa spartizione del mondo secondo interessi economici (il G-20 nasce come forum finanziario) e linee di influenza per la verità sempre più mobili. Ma c’è anche una sommaria divisione del lavoro che tiene uniti i protagonisti del vertice di Roma. Usa e occidentali vendono armi ai loro satelliti, facendo finta di esportare la democrazia, Mosca può fare quello che vuole degli oppositori, Pechino - diventata per il suo peso economico, il vero nuovo nemico per il cattolico Biden - ha mano libera per far fuori chi gli pare, da chi dissente agli uiguiri dello Xinjiang, i principi del Golfo possono strangolare chiunque senza che nessuno abbia da eccepire, in cambio aspettiamo i loro investimenti in occidente per lo shopping di armi e di squadre di calcio. The show must go on. La principale ferita che ci porta questo G-20, come del resto quelli che l’hanno preceduto, è l’assoluta mancanza di giustizia. Per essere tutti d’accordo bisogna che ognuno abbia la sua parte di sangue e di morti. Mai una volta che si senta qualcuno che difenda una causa giusta rispetto al destino dei popoli. Il G-20 è nei fatti una sfilata di conformisti privi di valori ma con una superlativa qualità: il cinismo. Cinismo a dosi industriali per tutti, per le nazioni, per interi popoli, per singoli individui, per le generazioni presenti e future. Giulio Regeni è forse l’emblema di tutto questo. La storia del ricercatore italiano torturato e ucciso dagli scherani di Al Sisi, simbolo dei giovani che dovrebbero essere al centro di questo G-20 e delle trasformazioni, è ignorata: nessuno dei leader di questo consesso di ipocriti sa dire una parola che somigli anche lontanamente alla giustizia. Pandemia. “Cinque milioni di vittime nel mondo, è urgente agire contro l’apartheid vaccinale” La Repubblica, 30 ottobre 2021 L’appello al G20 di Oxfam, Emergency e Amnesty International. Le case farmaceutiche che hanno i brevetti continuano a vendere dosi al miglior offerente tra i Paesi ricchi, a un costo fino a 24 volte quello di produzione. Mentre gran parte della popolazione mondiale chiede a gran voce che venga garantito l’accesso globale ai vaccini Covid, le case farmaceutiche, che ne detengono i brevetti continuano a vendere la stragrande maggioranza delle dosi al miglior offerente tra i paesi ricchi, applicando un costo fino a 24 volte quello di produzione. I leader dei Paesi G20 sono a un bivio: agire sulle cause reali dell’attuale disuguaglianza di accesso ai vaccini, rendendoli un ““bene pubblico globale” in grado salvare milioni di vite soprattutto nei Paesi a basso reddito, dove ad oggi è vaccinato appena il 1,8% della popolazione; oppure confermare l’attuale strategia di azione, consentendo all’industria farmaceutica di continuare a realizzare grandi profitti e di avere l’esclusiva nella produzione delle dosi, a fronte di una domanda globale di vaccini che non può essere soddisfatta da un pugno di aziende che detengono i brevetti e decidono quanto e a chi vendere, mentre cinque milioni di vite sono già andate perdute. OMS: “Senza un cambio di rotta la pandemia farà altre vittime”. È il flash-mob organizzato stamani a Roma dagli attivisti di Oxfam, Emergency e Amnesty International (membri della People’s Vaccine Aliance) alla vigilia del G20 dei leader di Governo, in programma il 30 e 31 ottobre. “L’Organizzazione Mondiale della Sanità solo pochi giorni fa ha confermato quanto denunciamo da tempo: senza un radicale cambio di rotta la pandemia continuerà a fare vittime per tutto il 2022 e aumenterà il rischio di pericolose varianti - hanno dichiarato le tre organizzazioni - Per questo chiediamo ai leader del G20 di mettere in campo soluzioni efficaci e immediate per salvare vite e affrontare un’emergenza che sta sempre più spaccando in due il pianeta. Vanno sospesi i diritti di proprietà. E’ perciò cruciale che siano sospesi i diritti di proprietà intellettuale per vaccini, test e trattamenti Covid-19 detenuti dall’industria farmaceutica, sostenendo la proposta presentata un anno fa da Sud Africa e India e supportata da più di 100 paesi all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Una strada che se imboccata, consentirà di aumentare la produzione mondiale di vaccini e soddisfare la domanda di dosi, in stati che non possono permettersi di pagare i prezzi applicati dall’industria farmaceutica. Al Governo italiano, presidente di turno del G20, chiediamo inoltre di prendere finalmente una posizione chiara sul tema, seguendo la strada tracciata dal Presidente Usa Joe Biden e facendosi promotore in seno all’Unione Europa, di un nuovo corso a favore della sospensione temporanea dei brevetti”. Il dossier: “Una dose di realtà”. Alla vigilia del summit, le tre organizzazioni assieme alla People’s Vaccine Aliance hanno pubblicato il report Una dose di realtà. Dossier che denuncia come le Nazioni ricche fino ad ora abbiano donato ai Paesi in via di sviluppo appena 261 milioni di vaccini Covid, a dispetto degli 1,8 miliardi di dosi promesse. L’Italia ne ha consegnate 6,1 milioni dei 45 promessi dal Premier Draghi. Le aziende farmaceutiche, che detengono i brevetti dei vaccini, dal canto loro, hanno destinato solo il 12% delle dosi assegnate al COVAX, l’iniziativa voluta dall’OMS per garantire l’accesso nei Paesi a basso-medio reddito ai vaccini. L’industria farmaceutica nel 2021 produrrà 1,3 miliardi di dosi in meno di quelle programmate, continuando a vendere quelle prodotte al miglior offerente. Afghanistan. “La ragazza decapitata era una fake news, ma a Kabul regna il caos” di Orlando Trinchi Il Riformista, 30 ottobre 2021 “Se prima l’Afghanistan viveva soprattutto grazie ai contributi dei Paesi donatori, in mancanza di questi, nel giro di poco tempo diventerà un Paese al collasso. Se ci aggiungiamo il cambiamento climatico, la siccità e alle porte quello che è previsto come uno degli inverni più rigidi degli ultimi dieci anni, si può senz’altro parlare di un disastro annunciato”. Giornalista, blogger, destinataria di numerosi riconoscimenti - fra cui il premio Luchetta, Antonio Russo, Italian Women in The World, il premio Maria Grazia Cutuli e altri. Barbara Schiavulli testimonia una profonda conoscenza - come corrispondente di guerra - della storia del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia centrale. E l’Afghanistan occupa un posto di rilievo. Quali impressioni le ha suscitato la sua recente permanenza in Afghanistan? Seguo l’Afghanistan da vent’anni. Non mi aspettavo tuttavia che si sarebbe consumata così rapidamente questa catastrofe umanitaria, economica e civile. Ci sarei dovuta tornare in occasione dell’11 settembre, data simbolica del ritiro degli americani, ma la situazione è precipitata a metà agosto: i talebani sono arrivati all’aeroporto di Kabul e tutti i voli sono stati sospesi. Ho lavorato, insieme a Nove onlus e ad altri colleghi, per favorire l’evacuazione di persone dal territorio, ben conscia del fatto che non saremmo mai riusciti a tirarne fuori abbastanza. Ho trovato un Paese spaventato, a cui avevano imposto nuove, indesiderate regole, ma che non possiede più la forza, dopob46 anni di guerra, di ribellarsi. Ho cercato di raccontare la cancellazione sistematica della società civile e l’indigenza dilagante: il 97% degli afgani si trova sotto la soglia della povertà e si rischia che l’anno prossimo muoia un milione di bambini. Il World Food Program dell’Onu, insieme a poche altre associazioni ci sta lavorando, ma c’è un problema di liquidità: le banche e i confini sono chiusi, non c’è modo di far passare fondi se non attraverso un governo regolarmente riconosciuto, ma il governo talebano, oggi, non lo è. Durante una recente manifestazione, Husna Saddat, esponente del “movimento spontaneo delle donne attiviste in Afghanistan”, ha scandito davanti a un reporter: “Perché il mondo ci guarda morire in silenzio?”. Come le appare la reazione internazionale? Tutti hanno assunto posizioni nette a favore delle donne, ma tra il dire e il fare, poi, c’è di mezzo l’intero Afghanistan. Pensiamo all’aspetto educativo: oltre i dodici anni è vietato alle bambine proseguire gli studi, cosa inaudita in qualunque altra parte del mondo, come è inaudito che siano vietate la musica, la pittura e altre arti. Anche se orribile a dirsi, però, la questione dei diritti umani potrebbe costituire una condizione sulla quale trattare. L’Europa potrebbe richiedere il rispetto dei diritti umani in cambio di ciò di cui hanno maggior bisogno i talebani, ovvero il denaro. Il riconoscimento, a mio avviso, non si può concedere: quello dei talebani non è mai stato un movimento pacifico. Quando, durante un’intervista, ho chiesto al vicedirettore della Commissione Cultura perché si opponessero all’istruzione delle ragazze, mi ha risposto: “Quante storie fate voi occidentali! Guardi dove siamo arrivati noi senza università”. Per loro la musica procura svenimenti e per questo è stata vietata! Mancano le basi per un dialogo. Le donne che manifestano oggi sono poche sia perché hanno paura, sia perché sanno che scendere in piazza in questo momento non garantisce cambiamenti sostanziali. Ma si stanno già muovendo in maniera sotterranea: non accetteranno mai di sottostare a questo regime. Recentemente, si è diffusa la notizia della decapitazione di una pallavolista hazara, Mahjabin Hakimi. Come commenta? Come per qualsiasi notizia, per prima cosa cerco di verificarla e, se non sono sicura della sua fondatezza, non la pubblico. Da noi, su Radio Bullets, non è uscita, come anche sui grandi giornali e media internazionali occidentali - BBC, Washington Post, The New York Post, ecc... È stata diffusa solo su alcune testate - di cui una, in particolare, iraniana -, per essere poi ripresa dalla stampa indiana, mentre qualcuno in Italia l’ha pubblicata probabilmente senza prima controllarla. C’è poca cura verso il lettore, mentre in realtà il giornalismo dovrebbe costituire un servizio pubblico. Ha avuto modo di verificarne la mancata correttezza? Sì, mi è bastato contattare la famiglia. Cosa ostacola, in Afghanistan, l’emancipazione femminile? Direi il diffuso conservatorismo e tradizioni difficili da spezzare. Stava avendo luogo un percorso per emancipare la donna attraverso la cultura e l’istruzione: adesso è tutto finito. Il problema sarà quando resteranno i talebani al potere e se, durante questo periodo, il loro oscurantismo intaccherà le giovani menti dei ragazzi e delle ragazze.