“Nelle carceri va garantito un livello minimo di assistenza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2021 “Fortunatamente, il Covid non ha prodotto i danni inizialmente temuti. Tuttavia, l’importante penetrazione del virus in alcuni Istituti e la quasi totale assenza in altri dimostra chiaramente la mancanza di linee organizzative minimamente omogenee nel sistema”. Così evidenza Luciano Lucanìa, Presidente della Società italiana di medicina penitenziaria (Simspe), durante il Tavolo Tecnico Istituzionale e Interdisciplinare “Sanità Penitenziaria. Quale futuro?” di giovedì scorso, organizzato con il contributo non condizionato di Gilead Sciences in apertura del congresso Simspe a Roma. Com’è noto, la Simspe si confronta da anni con un sistema quale quello penitenziario italiano estremamente complesso, in cui ogni anno transitano oltre 100mila persone, alle quali deve essere costituzionalmente garantito il diritto inalienabile alla salute. Questo obiettivo già di per sé non è semplice visto il contesto di riferimento; si è poi ulteriormente complicato da tredici anni a questa parte, a seguito del Dpcm 1/4/2008, che ha trasferito questa competenza al Servizio Sanitario Nazionale, generando un sistema disomogeneo, reso ancor più intricato dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute. Le difficoltà emerse in questi anni si sono palesate con estremo vigore durante la pandemia, che ha messo a nudo i limiti di questa organizzazione e hanno posto come sempre più urgente un intervento legislativo sul tema. “Non è facile far coesistere nello stesso ambiente - ha proseguito Luciano Lucanìa durante il tavolo - con l’obiettivo di gestire le stesse persone, l’azione di due amministrazioni così profondamente differenti come quelle riconducibili ai ministeri di Giustizia e Salute. Troppo spesso si finisce per lasciare l’organizzazione dei 190 Istituti Penitenziari italiani alla buona volontà di chi vi opera. Il messaggio lanciato da Simspe riguarda la necessità di favorire il dialogo tra le due amministrazioni, possibilmente con una Legge quadro che tracci i contorni organizzativi della Sanità penitenziaria in modo omogeneo sia all’interno delle Regioni che in ogni singolo Istituto”. Ha evidenziato l’infettivologo e direttore scientifico della Simspe Sergio Babudieri: “Il carcere è un ambiente complesso su cui hanno competenza due dicasteri diversi, Giustizia e Salute, per tutelare un doppio. Queste amministrazioni non sono coordinate: la nostra richiesta è che inizino a collaborare e che vi siano presupposti normativi che consentano di affrontare in maniera dettagliata tutti gli aspetti organizzativi negli istituti penitenziari. La riforma del 2008 ha trasferito le competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute, quindi il controllo della sanità penitenziaria è passata dal Dap che governa tutti gli istituti penitenziari alle singole regioni: per garantire alle persone detenute una qualità dell’assistenza sanitaria pari ai liberi cittadini, il prezzo pagato è stato la perdita dell’unicità del sistema”. Quello che il professor Babudieri denuncia, è che nelle carceri italiane manca uniformità anche solo nei contratti del personale medico, infermieristico e tecnico. “Il sistema è altamente disomogeneo anche all’interno delle stesse regioni. Il Decreto aveva istituito degli osservatori regionali per la tutela della salute in carcere, ma solo poche regioni particolarmente virtuose come Emilia- Romagna, Toscana e Lombardia si sono organizzate; manca un approccio sistematico”, ha concluso. Il contesto della sanità penitenziaria è estremamente difficoltoso. Il controverso equilibrio normativo che condiziona la sanità penitenziaria si inserisce in un quadro con risvolti sociali altrettanto complessi. “La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la frammentazione, la mancanza di adeguate normative forti sono elementi che lasciano la sanità penitenziaria in un guado - ha spiegato ancora Lucanìa. La pandemia ne ha rilevato non solo l’intrinseca fragilità, ma anche le prospettive assolutamente incerte per il domani. Mancano figure professionali adeguate alla sanità carceraria, ma soprattutto una visione comune di cosa debba essere la medicina penitenziaria all’interno del sistema”. Secondo la Simspe è necessaria anzitutto una legge quadro, che dica alle regioni quali sono i requisiti minimi, i Lea, che vanno assicurati all’interno delle carceri. “Non è possibile che ogni regione eroghi servizi differenti: un livello minimo deve essere garantito e uniformato. Ogni azienda sanitaria è fatta da unità operative, che siano complesse, semplici o dipartimentali e sono modulate in base a quello che fanno; il carcere non può sfuggire a questa regola. Non è solo un problema legislativo, ma proprio di organizzazione”, ha concluso Lucanìa. Non solo Covid, i detenuti ad alto rischio per epatiti e Hiv Non è solo il Covid 19 il problema delle malattie contagiose in carcere. Secondo le stime dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simpse), dei 105mila detenuti possono essere positivi all’HCV anche il 20% (circa 21mila), la metà dei quali possono essere viremici (10%), il 5% vengono studiati e il 4% trattati, con l’auspicio che quindi almeno 4 su 5 vengano avviati alla terapia antivirale. Il carcere, si sa, è un luogo in cui si concentrano problematiche sociali e di salute, in special modo riguardo alle malattie infettive come Hcv e Hbv. Il monitoraggio nel corso degli anni della prevalenza dei virus a trasmissione ematica in questo ambito mostra un trend in netta riduzione, in gran parte dovuto alla disponibilità di farmaci antivirali molto efficaci. Ma il carcere rimane comunque ad alto rischio di infezioni virali. In Italia un detenuto su tre ha commesso reati contro il testo unico per la lotta agli stupefacenti ed è verosimile che abbia o abbia avuto in passato una storia di rischio per infezioni da virus trasmissibili per via ematica e sessuale. La popolazione carceraria differisce da quella generale in quanto costituita da individui che presentano spesso problemi di salute nonostante un’età media non elevata, e allo stesso tempo beneficiano di un accesso ridotto all’assistenza sanitaria prima della condanna. Gran parte dei detenuti hanno una storia di comportamenti sessuali ad alto rischio, uso di droghe per iniezione e tatuaggi. Per questi motivi presentano frequentemente coinfezioni, come epatite B (HBV) e HIV. Considerata l’elevata prevalenza di infezioni e la potenziale adozione di comportamenti a rischio negli istituti di pena (scambio di siringhe, rapporti omosessuali), le carceri sono luoghi che favoriscono la trasmissione di virus per via ematica. In aggiunta, una volta tornati in libertà, i detenuti infetti possono contribuire alla diffusione dei virus nel resto della comunità. Per rispondere agli obiettivi dell’Oms in merito all’eradicazione dell’HCV entro il 2030, la Simpse ha messo in atto un piano di microeliminazione dell’infezione in ambito penitenziario approvato dall’Istituto Superiore di Sanità. Un’altra criticità in questo ambito era l’infezione da HIV ma, grazie alla disponibilità delle attuali terapie antiretrovirali, dal 2001 al 2018 la prevalenza dei detenuti positivi al virus è passata dall’ 8,4% all’ 1,8%. La microeliminazione prevede di operare per singola sezione detentiva (50-60 soggetti) quindi su gruppi ristretti di detenuti, previa un’educazione sanitaria specifica su come si intende procedere e quale messaggio veicolare. Successivamente viene effettuato lo screening tramite i nuovi e più maneggevoli test salivari e vengono supportati in maniera attenta quanti risultano sieropositivi. In questo modo si monitora la prevalenza all’interno di una data sezione, si effettua la stadiazione clinica dei soggetti positivi, si avviano le terapie e si eradica il virus. Sezione dopo sezione si copre l’intero istituto e a quel punto sarà sufficiente effettuare un’attività di screening per i nuovi entrati per avere il controllo totale nel tempo. Su una popolazione studiata di 2.687 soggetti il 4,6% (122) ha rifiutato la fase di educazione e quindi il test rapido e il 7% (189) era disponibile al percorso ma è stato rilasciato prima, così sono stati effettuati un totale di 2.376 test (88,4%), per una risultante siero- prevalenza del 10,4% (248) e una sieropositività a HCV- Rna del 40,7% (101/248). Dal Congresso Simspe tre proposte per migliorare la sanità penitenziaria di Chiara Stella Scarano sanitainformazione.it, 2 ottobre 2021 Il presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria: “Riorganizzare il sistema per renderlo più omogeneo sul territorio nazionale, attivare l’Osservatorio epidemiologico sulla salute nelle carceri e creare reparti di medicina protetta in ospedale”. Con il Dpcm del 2008 la sanità penitenziaria è passata dalle competenze del Ministero della Giustizia a quella del Ministero della Salute. Un passaggio che si è poi trasformato in una inevitabile frammentazione della sanità penitenziaria derivante dalle autonomie regionali. Le criticità scaturite sono andate a sommarsi alle ataviche complessità che caratterizzano il sistema penitenziario, che vede transitare ogni anno, nei 190 istituti dislocati sul territorio, oltre 100mila persone cui deve essere garantito il diritto fondamentale della salute. Cosa è cambiato da allora? Quante e quali delle evidentemente anacronistiche norme che regolano da 50 anni la sanità penitenziaria sono state realmente adeguate alle esigenze attuali, e su quali c’è ancora da lavorare? Soprattutto, quanto e come ha inciso la pandemia di Covid nell’evidenziare la necessità di riorganizzare il sistema sanitario penitenziario in modo più omogeneo, che superi i limiti del Dpcm 2008? A far luce su questi interrogativi il Tavolo Tecnico Istituzionale e Interdisciplinare “Sanità Penitenziaria. Quale futuro?”, organizzato ieri con il contributo non condizionato di Gilead Sciences in apertura del Congresso Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) presso l’Hotel dei Congressi a Roma. Il Covid e la sanità penitenziaria - “Durante il primo lockdown le carceri si sono chiuse dall’esterno - spiega ai nostri microfoni il presidente Simspe Luciano Lucania - e c’è stata una contrazione generale di ogni tipo di attività finché non sono arrivati i vaccini. Il sistema ha retto bene, tutto sommato, nonostante la presenza di alcuni focolai. I colloqui con le famiglie sono stati gestiti online. Nella seconda fase si è cominciato a vaccinare”. “La percentuale di detenuti vaccinati - precisa - è stata sin da subito molto alta, oggi siamo oltre il 70%, e la stragrande maggioranza dei detenuti si è mossa attivamente per aderire alla campagna vaccinale. E tuttavia - sottolinea Lucania - proprio l’importante penetrazione del virus in alcuni Istituti e la quasi totale assenza in altri dimostra chiaramente la mancanza di linee organizzative omogenee nel sistema”. Fare salute in carcere: il problema del personale e i diritti dei detenuti - “Se oggi c’è in generale carenza di personale sanitario, nelle carceri la situazione è ancora più drammatica - afferma Sergio Babudieri, direttore scientifico Simspe. Al netto della “vecchia guardia”, che ha fatto dell’assistenza ai detenuti una missione oltre che un lavoro, c’è una tendenza a considerare la medicina penitenziaria un impiego di serie B. C’è quindi bisogno di chiarezza e uniformità a cominciare dai contratti del personale medico, infermieristico e tecnico”. “La riforma del 2008 - continua Babudieri - ha trasferito le competenze dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, quindi il controllo della sanità penitenziaria è passata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che governa tutti gli istituti penitenziari alle singole regioni: per garantire alle persone detenute una qualità dell’assistenza sanitaria pari ai liberi cittadini, il prezzo pagato è stato la perdita dell’unicità del sistema. Il Decreto aveva istituito degli osservatori regionali per la tutela della salute in carcere - sottolinea - ma solo poche regioni particolarmente virtuose come Emilia-Romagna, Toscana e Lombardia si sono organizzate; manca un approccio sistematico”. Le operazioni di sistema necessarie per potenziare la sanità penitenziaria - “È sicuramente urgente - afferma il presidente Simspe Lucania - inquadrare in maniera oggettiva il sistema nell’ambito dell’offerta sanitaria del SSN. Il sistema sanitario penitenziario è attualmente competenza di ogni singola Regione, motivo per cui abbiamo 21 sistemi simili nei servizi erogati ma profondamente diversi nelle forme e nei modi. Questa frammentazione è fallimentare. È necessaria una norma quadro nazionale che inserisca nei Lea una serie di aspetti relativi alla salute dei detenuti”. “In secondo luogo - prosegue Lucania - attivare in maniera reale l’Osservatorio Epidemiologico Nazionale sulla salute nelle carceri. Il vero problema sanitario nelle carceri non sono infatti le malattie infettive, ma le acuzie, le subacuzie e le cronicità. Pensiamo ai cardiopatici, ai malati di cirrosi epatica, agli oncologici, alle patologie legate alla dipendenza, per non parlare del vastissimo capitolo della patologia psichiatrica compresi i disturbi psichiatrici di cui spesso la detenzione è causa. Il sistema oggi non è adeguatamente integrato con i servizi territoriali delle aziende sanitarie, c’è bisogno di maggior chiarezza relativamente alle strutture da utilizzare, al ruolo del personale, alle singole responsabilità”. “Infine - conclude il presidente Simspe - ampliare quei validissimi progetti pilota, attualmente in vigore in alcune strutture ospedaliere italiane, dei reparti di medicina protetta: dei normali reparti ospedalieri destinati ai detenuti, dotati di un nucleo stabile di polizia penitenziaria all’interno che provvede a tutti gli aspetti di gestione, oltre ovviamente al personale medico e infermieristico. Il modo migliore per gestire il paziente detenuto in un ambiente protetto e corretto sotto il profilo sanitario per qualsiasi tipo di intervento o cura necessiti”. Al via il Festival dell’economia carceraria: tutto il meglio del social business di Antonella Barone gnewsonline.it, 2 ottobre 2021 È partito ieri il 2° Festival Nazionale dell’Economia Carceraria, evento dedicato a tutto quanto di buono, solidale e rigenerativo è realizzato nel mondo penitenziario. Una manifestazione “nata per far conoscere l’aspetto produttivo dell’esecuzione penale e uscire dalla visione stereotipata del carcere, perfino ridendo, mangiando, vestendo, ascoltando” spiega Paolo Strano, presidente di Semi di Libertà Onlus, tra le realtà promotrici del festival, insieme a Isola Solidale APS e alle cooperative Co.R.R.I. e O.R.T.O. In programma nella tre giorni (1 - 3 ottobre) - ospitata a Roma nello spazio WeGil di Largo Ascianghi 5 - convegni, laboratori, mostre, performance, gare di cucina e degustazioni di prodotti gastronomici provenienti da produzioni penitenziarie. Il lavoro come strumento di dignità e reinserimento e la valutazione dell’impatto sociale ed economico della recidiva, sono stati i temi al centro della conferenza inaugurale. In presenza o in streaming sono intervenuti: Luciana delle Donne, fondatrice, nella casa circondariale femminile di Lecce, dell’ormai storica azienda “Made in Carcere”; Marta Covelli, già magistrato di sorveglianza di Viterbo e attuale responsabile dell’Ufficio Ispettivo del Ministero della Giustizia; Damiano Cortese, ricercatore in Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Torino, e Claudio Marchiandi, direttore dell’Ufficio trattamento e lavoro detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel pomeriggio, Vincenzo Lo Cascio - responsabile Ufficio Centrale lavoro detenuti del Ministero della Giustizia, Lucia Castellano, direttore generale per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova, e Gabriella Stramaccioni, Garante delle persone private della libertà di Roma Capitale, si confronteranno sul lavoro come forma di riparazione e riconciliazione con la vittima e la società e sulle esperienze di co-progettazione nella rigenerazione urbana, tra Terzo Settore ed Enti Locali, realizzate con il contributo del lavoro di pubblica utilità e socialmente utile. Del ruolo che lo studio può avere nei percorsi di cambiamento e di reinserimento, hanno invece parlato studenti universitari “ristretti “nell’incontro organizzato da POP- Pena e Opinione Pubblica, un Osservatorio congiunto sul “populismo penale” del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma 3 e dell’Ufficio Garante detenuti della Regione Lazio. Paola Severino: “Nelle carceri ho toccato con mano la grande voglia di riscatto” di Mirko Bompiani ilsussidiario.net, 2 ottobre 2021 L’ex ministro Paola Severino: “Da ministro ne ho visitate decine, mettendo a fuoco problemi e cercando soluzioni”. Paola Severino e il suo rapporto con Napoli nella lunga intervista rilasciata a Il Mattino. L’ex ministro della Giustizia ha ricordato in particolare la visita al carcere di Poggioreale, dove si accorse della sofferenza dei detenuti e della loro voglia di redimersi: “Procedemmo lungo i corridoi, e nei cortili - e c’era chi applaudiva, chi batteva sulle sbarre delle celle, chi scandiva “mi-ni-stro, mi-ni-stro, mi-ni-stro” a gran voce”. Un’accoglienza che sorprese Paola Severino, tanto da spingerla a chiedere a un detenuto quali fossero le ragioni di tutto quel clamore: “La sua risposta mi commosse: “Vuje vulite bene a nuje, e nuje vulimme bene a vuje”. Il riferimento era “al gran lavoro realizzato nelle carceri”: “Da ministro ne ho visitate decine, mettendo a fuoco problemi e cercando soluzioni. E quello era il loro modo di ringraziarmi”. Al Festival di Venezia 2021 è satato presentato il docufilm “Rebibbia lockdown”, nato da un’idea di Paola Severino. L’ex ministro ha spiegato che era scettica sull’interessa prestato dai ragazzi a questo tema, ma fu smentita: “L’aula magna si riempì, molti rimasero in piedi e alla fine venni subissata di domande”. Paola Severino ha evidenziato: “Capii che i giovani hanno molta voglia di sentir parlare di legalità, ancor più in contesti difficili. Così decisi di introdurre alla Luiss un progetto in cui i nostri studenti ne fossero ambasciatori - nelle scuole a rischio, nelle carceri. Poi ci ha pensato il lockdown a tessere il filo rosso che ha legato le nostre e le loro vite”. La riforma penale è piena di buoni propositi, vedremo se basteranno di Luigi Scollo Il Domani, 2 ottobre 2021 La riforma è ricca di buoni propositi, è bene dirlo da subito, specie in materia di riforma del sistema sanzionatorio. Il primo è la possibilità per il giudice di sostituire le pene detentive fino a quattro anni con le nuove pene sostitutive (la semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità e la pena pecuniaria). Ciò, anche in caso di patteggiamento. Il secondo è l’ampliamento degli istituti della messa alla prova e della tenuità del fatto, che evitano l’applicazione di una pena. Il terzo è l’ampliamento dei reati procedibili a querela, che stimola le parti a trovare un accordo transattivo e alternativo al processo. Si tratta di misure volte anzitutto a superare il primato del carcere nella gestione del contenzioso penale, perché oramai ritenuto eccessivamente afflittivo e incapace di risocializzare i condannati, quantomeno per i reati minori. Fin qui, sembrerebbe un’ottima riforma. Senonché, tali strumenti dovrebbero anche diminuire il carico giudiziario, sia nei tribunali, che soprattutto nelle corti d’appello e in Cassazione, dove pende la spada di Damocle della nuova improcedibilità. La riforma della prescrizione - La nuova legge modifica lo stop alla prescrizione voluto dall’ex ministro Bonafede, affiancandole il nuovo istituto dell’improcedibilità, per cui la prescrizione rimane bloccata dopo la sentenza di primo grado, ma il processo si estingue egualmente se il giudizio di impugnazione non si celebra nei tempi previsti dal nuovo articolo 344 bis del codice di procedura penale, che sono di due anni per l’appello e di un anno per la cassazione (salvo proroga in casi particolari). L’improcedibilità è stata criticata da una parte dell’accademia, perché presenterebbe dubbi di legittimità costituzionale. Ma il vero problema è un altro: mentre l’improcedibilità entra subito in vigore, la riforma del sistema sanzionatorio, che dovrebbe avere effetti deflattivi, invece, è tutta da scrivere, perché è solo una delega che il governo “potrà” esercitare entro il prossimo anno, oppure potrà lasciar cadere nel vuoto, com’è già accaduto in passato. Le modifiche, dunque, non sono concomitanti e ciò suscita incertezza e preoccupazione, sia nella magistratura sia in quella parte dell’avvocatura più sensibile alle esigenze di tutela della persona offesa. C’è un noto aforisma, solitamente attribuito a Mark Twain, e talvolta anche a Winston Churchill, che recita più o meno così: “Una bugia fa in tempo a fare il giro del mondo, mentre la verità si sta ancora allacciando le scarpe”. Nel nostro caso, potremmo riformularlo così: l’improcedibilità farà in tempo a fare il giro delle corti d’appello, mentre la riforma Cartabia si starà ancora allacciando le scarpe. In altre parole, se la delega al governo dovesse cadere nel vuoto, oppure se non dovesse avere gli effetti deflattivi sperati, l’improcedibilità rischierebbe di falcidiare i processi, anziché ridurne i tempi. E non è cosa da poco. Innovazioni tecnologiche - Va detto che, tra le novità della riforma, l’improcedibilità è forse l’unico istituto che ha avuto una vasta eco mediatica, soprattutto per gli effetti che potrebbe avere e di cui si è accennato sopra, ma non è l’unico. Oltre alle modifiche sul sistema sanzionatorio, degne di nota sono senz’altro le innovazioni in campo tecnologico, alcune delle quali sono state sperimentate in epoca Covid e hanno dato buoni frutti. La delega, infatti, consente di introdurre la possibilità che i cittadini ricevano le notifiche via mail, la facoltà delle parti di assistere alle udienze in videoconferenza e di formare gli atti processuali in digitale, senza ricorrere cioè alla stampa ed alla sottoscrizione olografa. Verrebbe da dire: finalmente! Benvenuti nel ventunesimo secolo. La riforma, in questo, potrebbe davvero cambiare il volto della giustizia penale del nostro paese, rendendola meno burocratica, farraginosa e più pragmatica. Le parole chiave della delega, del resto, sono: speditezza, semplificazione e razionalizzazione. A questi principi si ispirano, soprattutto, le modifiche al codice di procedura penale, non senza qualche inciampo. Ne è un esempio proprio l’introduzione del processo penale telematico che, nell’ottica del legislatore, dovrebbe avere disciplina graduale, differenziata e adeguata alle strutture amministrative centrali e periferiche. In astratto, si tratta di principi razionali e, sulla carta, condivisibili. Sul punto, però, i rischi da scongiurare sono almeno tre. Il primo è l’introduzione di procedure diverse per ogni grado di giudizio e persino in base all’ufficio territoriale competente. La differenziazione, infatti, è nemica della semplificazione e potrebbe produrre effetti paradossali, e cioè: tribunale che vai, usanza che trovi. Il secondo è che la gradualità apra le porte a continue modifiche normative, che creerebbero solo confusione tra gli operatori ed aumenterebbero il contenzioso. Il terzo è che si introducano quelle sole innovazioni che la macchina è in grado di gestire così com’è, anziché adeguare le strutture amministrative alle innovazioni che è necessario introdurre per ammodernare profondamente la giustizia. La strada da preferire dovrebbe essere un’altra, e cioè: prima occorrerebbe ammodernare la struttura amministrativa e solo dopo introdurre una disciplina semplice e, soprattutto, uniforme su tutto il territorio nazionale e per tutti i gradi di giudizio. Ciò, oltre al contenzioso, potrebbe ridurre i cosiddetti “tempi morti”, che sono il vero male della giustizia italiana, ossia il tempo che un fascicolo impiega per passare (fisicamente) da un ufficio ad un altro, come nel caso delle impugnazioni: a volte passano anche diversi anni. Il processo penale telematico, infatti, dovrebbe rendere il transito molto più semplice ed immediato. Il giudice d’appello e poi il giudice di cassazione dovrebbero poter avere gli atti del processo, la sentenza e l’impugnazione a portata di click. In altre parole, non dovremmo più sentire la frase che molti avvocati e magistrati hanno udito troppe volte in aula, ossia: “Dobbiamo aspettare il fascicolo, perché non è ancora arrivato”; non dovremmo più vedere i camion che escono dall’ufficio posta delle corti d’appello, diretti a Roma per la cassazione, e poi che tornano indietro in caso di annullamento con rinvio. Insomma, sarebbe davvero una bella rivoluzione. Meno udienze - La riforma dovrebbe incidere profondamente anche sulla disciplina delle udienze. Il testo approvato, infatti, stabilisce che il giudice indicherà da subito alle parti un calendario di udienze entro cui celebrare il dibattimento. La norma, invero già prevista dal testo Bonafede, mira ad evitare la dilatazione dei tempi del processo ed i lunghi rinvii tra un’udienza e un’altra, che causano non pochi problemi, primo tra tutti la possibilità che muti il giudice e che il processo debba ripartire da capo. Cambieranno radicalmente anche il giudizio di appello e di cassazione, che diventano cartolari: i giudici, infatti, decideranno solo sulla base delle carte presentate, senza convocare le parti in udienza, salvo che non ne facciano espressa richiesta. Già oggi, sia in appello che in cassazione, l’udienza è un inutile orpello, dal momento che le parti si riportano integralmente a quanto hanno già scritto, senza discutere oralmente la causa, oppure - se lo fanno - si limitano a ripetere quanto hanno già indicato nel ricorso. La riforma, in questo, mira a semplificare le procedure e a razionalizzarne i tempi, a scapito però della “collegialità” della decisione che costituisce una garanzia sia per l’accusato sia per la vittima del reato. Infatti, l’udienza è l’unico momento in cui tutti i membri del collegio (tre giudici in appello, cinque in cassazione) ascoltano direttamente dalle parti le censure mosse alla sentenza impugnata. Con la nuova procedura semplificata, e cioè senza udienza, invece, la collegialità della decisione sarà rimessa alla buona volontà dei singoli magistrati, ciascuno dei quali - non potendo ascoltare le doglianze in udienza - dovrà andarsi a leggere tutti i ricorsi: visto il carico di lavoro per ciascun magistrato, è umanamente impossibile che ciò accada, e dunque è verosimile che la decisione finale sarà appannaggio quasi esclusivamente del relatore, ossia il giudice che scriverà materialmente la sentenza. La collegialità consente maggiore prudenza e ponderazione nella decisione, ma - va detto - una minore collegialità non riduce necessariamente la qualità del giudizio. Il problema, semmai, è un altro, e forse ancor più serio e coinvolge l’intera collettività. Così facendo, si potrebbe minare l’applicazione uniforme del diritto: se i giudici non avranno piena consapevolezza dei ricorsi, prima di decidere, non vi sarà un vero confronto in camera di consiglio, e quindi si potrà verificare una maggiore difformità tra le decisioni assunte da ciascun giudice. Ciò potrebbe diminuire la prevedibilità delle decisioni e la certezza del diritto, che sono le principali cause che aumentano il contenzioso e rendono la giustizia, anche quella penale, un vortice infernale nel quale tutto può accadere. Occorre, perciò, scongiurare che si verifichi una tale catastrofe. A ciò, precisamente, dovrebbe servire l’ufficio del processo, che costituisce una tra le più significative innovazioni della riforma Cartabia. Nella legge delega, in particolare, si prevede che gli oltre ottomila addetti, che verranno assunti nei prossimi mesi, supporteranno l’attività dei magistrati, predisponendo - tra le altre cose - schede di sintesi dei motivi di ricorso ed evidenziando i precedenti giurisprudenziali in ciascuna materia, proprio al fine di assicurare l’applicazione uniforme del diritto. Basterà? Difficile prevederlo, specie senza una riduzione drastica del numero di fascicoli per magistrato, in modo da consentire a ciascuno di avere tempo sufficiente per un esame approfondito della causa, tanto più se non sarà discussa in udienza. Un risultato, quello della riduzione, che è possibile ottenere in due modi diversi: più magistrati o meno ricorsi. I posti messi a bando periodicamente nei concorsi di magistratura sono, di norma, limitati a poche centinaia: occorrerebbe aumentare questa soglia e bandire concorsi più ravvicinati nel tempo per poter incidere su questo fattore. La riforma, si concentra invece sul secondo aspetto. Disincentivi alle impugnazioni - La legge delega prevede dei disincentivi alle impugnazioni. Il più significativo è lo sconto di pena di un sesto se si rinuncia ad impugnare la sentenza di condanna pronunciata con rito abbreviato. Le nuove norme renderanno, inoltre, più difficile impugnare la sentenza. Precisamente, l’atto di appello dovrà contenere motivi più specifici e puntuali, com’è già previsto per la cassazione, altrimenti sarà dichiarato inammissibile. La delega, però, non prevede espressamente, quale conseguenza dell’inammissibilità, la condanna a pagare una somma in favore della cassa delle ammende, com’è previsto per la cassazione (fino a seimila euro). Forse è una dimenticanza, che però rischia di vanificare l’effetto deflattivo auspicato con questa misura. Un ulteriore disincentivo all’impugnazione è di tipo burocratico. Con le nuove norme, infatti, l’avvocato non potrà impugnare autonomamente la sentenza (come ora prevede l’ordinamento), ma occorrerà, a pena di inammissibilità, che l’assistito sottoscriva un atto da allegare al ricorso: se l’accusato non è mai comparso al processo, dovrà sottoscrivere uno specifico mandato ad impugnare; se invece è comparso, occorrerà comunque sottoscrivere una dichiarazione in cui si indica il domicilio al quale essere citati. L’intento della riforma di per sé è pregevole, ossia quello di richiedere al diretto interessato di manifestare un proprio interesse all’impugnazione e, allo stesso tempo, quello di evitare che vengano proposte impugnazioni per mero dovere di difesa. Un esempio - che accade non di rado - riguarda i difensori d’ufficio che non riescono (non per loro colpa) a contattare l’assistito durante il processo, né dopo la pronuncia della sentenza. In questi casi, infatti, non potendo discutere l’opportunità di accettare l’esito del giudizio, il difensore si trova nella condizione di dover impugnare il provvedimento, anche per evitare possibili contestazioni da parte dell’assistito. La soluzione per cui opta la riforma, tuttavia, è un po’ farraginosa e rischia di produrre più danni che benefici, soprattutto per la classe forense. L’avvocato, infatti, sarà onerato di comunicare all’assistito l’esito del giudizio e di raccogliere tempestivamente la sottoscrizione del nuovo mandato o l’elezione di domicilio. Come è facile comprendere, tali adempimenti potranno rivelarsi inutilmente gravosi per il difensore, specie in caso di imputati assenti o detenuti, e sottrarranno tempo alla stesura dei motivi d’impugnazione. Inoltre, sebbene la riforma preveda che non costituisce colpa professionale il ritardo o la mancanza di comunicazione all’assistito per fatto a lui imputabile (se, ad esempio, non ha comunicato al difensore il nuovo recapito telefonico o il nuovo indirizzo mail), non esclude però che il cliente attivi, comunque, un contenzioso col difensore. Ma vi è di più: dimostrando di non aver avuto notizia della sentenza, l’assistito potrebbe essere rimesso nei termini per impugnare, per cui non solo non vi sarebbe alcun effetto deflattivo, ma addirittura si provocherebbe un allungamento dei tempi del processo. Una soluzione più coerente e meno problematica sarebbe la seguente: prevedere la notifica della sentenza all’interessato e riservare l’impugnazione esclusivamente a quest’ultimo, anziché al difensore. Più archiviazioni nei casi dubbi - L’ingolfamento della macchina della giustizia penale è dovuto, soprattutto, al numero esagerato dei processi, una parte considerevole dei quali finisce con l’assoluzione. La riforma prova ad incidere su questa stortura, che costituisce oltretutto un enorme spreco di risorse pubbliche. La soluzione contemplata nella legge delega è mandare a processo solo i fascicoli in cui vi è una “ragionevole previsione di condanna”. Non basterà più che vi siano elementi per avviare un processo, bensì occorrerà che siano molto solidi tanto da effettuare una prognosi di condanna. La riforma mira ad introdurre tre nuovi filtri per verificare la solidità delle prove. Il primo riguarda il pubblico ministero, il quale potrà esercitare l’azione penale solo se ritiene ragionevole la previsione di condanna. In caso contrario, dovrà archiviare l’indagine. Ma non basta. Si prevedono due ulteriori momenti di controllo, da parte del giudice. Nei reati più gravi, se ne occuperà il giudice per l’udienza per l’udienza preliminare. Nei reati meno gravi, sarà il giudice del dibattimento. Entrambi dovranno ripetere la valutazione del pubblico ministero, pronunciando una sentenza di non luogo a procedere se non ritengono ragionevole la previsione di condanna. Il nuovo sistema dovrebbe ridurre drasticamente il numero dei processi ed incentivare l’accusa a proporre riti alternativi come il patteggiamento. Ma l’istituto che davvero potrebbe ridurre il numero ed i tempi dei processi è ancora tutto da scrivere: si tratta del controllo del giudice per le indagini preliminari in caso di inerzia del pubblico ministero. La delega al governo, sul punto, è ampia e potrebbe perciò favorire l’introduzione di un meccanismo che permetta alle parti di sollecitare una decisione sostitutiva da parte del giudice, consentendogli cioè di disporre l’archiviazione su richiesta motivata dell’indagato (o, viceversa, l’imputazione su richiesta motivata della vittima). Un simile meccanismo avrebbe l’effetto di ridurre i tempi morti tra la conclusione delle indagini e la decisione del pubblico ministero sull’azione penale. Inoltre, incentiverebbe l’indagato a raccogliere ed esporre già al giudice delle indagini gli elementi favorevoli, in modo da valutare (e, se del caso, escludere) la ragionevole previsione di condanna. Il sistema, così facendo, porterebbe ad una migliore selezione dei procedimenti da mandare a giudizio, limitando il processo a quei soli casi con un solido impianto accusatorio. Tabulati telefonici, bene il decreto ma adesso i gip la smettano di arrendersi ai pm di Raffaele Marino Il Riformista, 2 ottobre 2021 Il Consiglio dei ministri ha licenziato il testo di un decreto legge in materia di tabulati telefonici: si tratta di quei documenti conservati dai gestori delle reti di telefonia contenenti i dati relativi ai contatti in entrata e in uscita fra una utenza e tutte le altre. È superfluo dire che si tratta di dati sensibili che, al pari delle intercettazioni propriamente dette, costituiscono una pesante intrusione nella vita privata di un cittadino. E questa intrusione risulta particolarmente penetrante perché coinvolge non solo la persona sottoposta a indagini, ma anche tutti coloro che con essa hanno avuto contatti anche se irrilevanti ai fini dell’indagine penale. Finora per l’acquisizione dei tabulati era sufficiente un decreto del pubblico ministero che lo trasmetteva alla polizia giudiziaria per la notifica a tutti i gestori e la acquisizione dei dati. La giurisprudenza formatasi in materia di acquisizione di tabulati era peraltro assai permissiva, tanto da consentire, per esempio, l’emissione del decreto di acquisizione anche con motivazioni di stile (cioè espressioni sintetiche tese a sottolineare la necessità delle investigazioni) oppure facendo un generico riferimento alle ragioni esposte in una informativa di polizia giudiziaria. Ma la Cassazione era andata ben oltre, affermando che un decreto nullo, cui conseguiva l’inutilizzabilità della prova, poteva essere reiterato nell’ambito dello stesso procedimento o, ancora, che il tabulato acquisito poteva essere utilizzato anche in altro procedimento senza la necessità di applicare le regole proprie delle intercettazioni. Questa giurisprudenza così permissiva era il frutto di una concezione secondo cui i tabulati avrebbero comportato un modesto livello di intrusione nella sfera di riservatezza delle persone. La situazione, però, oggi sembra essere mutata e il decreto legge costituisce un segnale importante di una rinnovata attenzione ai diritti e alle garanzie dei cittadini. Anche in questa occasione l’Europa ha svolto un ruolo fondamentale: è grazie a una pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea che il nostro Governo ha approntato la modifica al codice in materia di dati personali. Nella sentenza dei giudici europei, emanata nel marzo di quest’anno a seguito di una pronuncia pregiudiziale della Corte suprema dell’Estonia, si afferma esplicitamente che la normativa dell’Unione contrasta con quelle normative nazionali che attribuiscono al pubblico ministero la facoltà di autorizzare l’accesso di una autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale, senza il preventivo controllo di un’autorità giudiziaria indipendente. L’Italia, dunque, si è dovuta adeguare, anche perché la nostra Cassazione, proprio a proposito dei tabulati, aveva affermato che le sentenze dei giudici del Lussemburgo, pur costituendo una fonte del diritto comunitario, non avevano efficacia immediata e diretta all’interno del territorio nazionale, contraddicendo peraltro l’opposto orientamento da tempo seguito in altre materie, per esempio per i tributi armonizzati (è il caso dell’Iva). Il testo del decreto in uscita prevede che, in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza per i reati per i quali è possibile procedere a intercettazione e per i reati di minaccia o molestia gravi col mezzo del telefono, il pubblico ministero o il difensore dell’imputato o della persona offesa possano chiedere al giudice per le indagini preliminari l’emissione di un decreto motivato. Solo in caso di urgenza il pubblico ministero potrà emettere direttamente il decreto motivato che dovrà essere convalidato dal gip nelle successive 48 ore. Verrebbe da dire che la montagna ha partorito il topolino. In sostanza, infatti, è cambiato poco rispetto alla precedente normativa, soprattutto ove si consideri che per acquisire i tabulati bastano i sufficienti indizi non i gravi indizi non di colpevolezza, ma della semplice sussistenza di un reato, che allo stato può essere anche soltanto ipotizzato dal pubblico ministero che procede alle iscrizioni. Inoltre, se dovessimo valutare quale è stato l’atteggiamento dei giudici per le indagini preliminari rispetto alle richieste dei pubblici ministeri, potremmo contare i casi (davvero pochi) in cui si sono verificati dei rigetti, complice anche la giurisprudenza “di copertura” della Cassazione. Resta il dubbio su che fare rispetto ai processi pendenti, nei quali i tabulati sono stati acquisiti in violazione della nuova legge. Con norma transitoria inserita nel codice della privacy, il Governo li ha fatti salvi sicché, almeno in apparenza, abbiamo risposto positivamente alle richieste dei giudici europei. Nei fatti, però, resta il timore che ben poco cambierà. E alcune recenti e clamorose assoluzioni pronunciate dal nostro Tribunale e dalla nostra Corte di appello sembrano confermarlo. Dalla palude Giustizia-Politica si esce se torna l’immunità di Vittorio Macioce Il Giornale, 2 ottobre 2021 Queste elezioni amministrative di mezza stagione mostrano anche a chi non vuole vedere i segni di una democrazia malata. La giustizia batte il tempo della politica, puntuale, metodica, spesso invadente. Queste elezioni amministrative di mezza stagione mostrano anche a chi non vuole vedere i segni di una democrazia malata. La giustizia batte il tempo della politica, puntuale, metodica, spesso invadente. La politica non è da meno e disegna la giustizia, la influenza, la colora. Non c’è più un confine. Non c’è spazio tra l’una e l’altra e neppure autonomia. È una maledetta invasione di campo, che ormai dura da decenni, e nessuno sembra avere la forza, la voglia e soprattutto il buon senso di frenare. La riforma Cartabia non ha toccato la pelle viva, non ne ha sfiorato i nodi. Lo farà il referendum, tagliando di netto e a quel punto la sfida sarà ricostruire senza lasciare troppe cicatrici. È così che ogni volta che i due poteri si incontrano, si toccano, finiscono per annichilirsi. È come materia e anti materia. Si annientano, lasciando per terra dubbi, domande, incertezze e in clima di sfiducia che avvelena qualsiasi cosa. La sensazione diffusa è che le regole del gioco democratico non siano mai davvero affidabili, qualcosa le falsa, le corrompe, le lascia indeterminate e così gli sconfitti non riconoscono la sconfitta e i vincitori non troveranno mai piena legittimazione. È lì che la piazza rancorosa, virtuale e non, trova forza e spazio e spinge lo scontro alla logica binaria del rosso e nero. Lo sconfinamento reciproco di politica e giustizia ha creato quella palude da dove si fa fatica a immaginare il futuro. Adesso si vota, ma al centro del tavolo non ci sono idee e progetti. Non c’è davvero una visione su cosa sarà Roma o Milano. È marginale. Si sta qui a ragionare di Morisi o di Lucano e si vota contro l’uno o contro l’altro, tutti convinti di avere in tasca una verità che non può essere messa in discussione, perché è “metapolitica” e “meta-giudiziaria”, viene prima di qualsiasi valutazione o giudizio, viene prima perfino dei fatti. Il risultato è che non siamo più elettori ma giurati: parziali, carichi di pregiudizi, irrimediabilmente tifosi. È una storia lunga e comincia alla fine della prima repubblica. È la conseguenza di una rivoluzione politica fallita, che si è arenata all’improvviso davanti alla vittoria di Berlusconi nel ‘94. È da allora che i due poteri non trovano pace. A rendere invisibile il confine è stata l’abolizione di una garanzia antica, quella che proteggeva il rappresentante del popolo sovrano nell’esercizio delle sue funzioni. L’immunità parlamentare era la camera di compensazione che separava i due poteri. Nessuno è superiore alla legge, ma ti processo quando non sei più senatore o deputato. Non è un privilegio. È una tutela contro la vendetta giudiziaria degli avversari politici. L’immunità è nata per questo e forse aveva un senso. Sentenza Lucano, i magistrati irritati reagiscono alle critiche di Letta di Giulia Merlo Il Domani, 2 ottobre 2021 Dopo la sentenza Lucano, il segretario del Pd ha parlato di “crescita della sfiducia nei confronti della magistratura” e ha provocato reazioni prima della giunta Anm. Da quello che è stato possibile sapere, le toghe progressiste del gruppo di Area avrebbero provato a smorzare la polemica, per evitarne l’approdo nelle sedi istituzionali. Tuttavia, il sentimento di irritazione per l’attacco si è diffuso tra magistrati di diverso orientamento, dei quali si è fatta interprete soprattutto Magistratura indipendente con la richiesta di discuterne durante la giunta dell’Associazione nazionale magistrati. La condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, ha scatenato forti reazioni politiche, soprattutto nel centrosinistra. Ma una in particolare ha irritato fortemente la magistratura associata e in particolare le toghe conservatrici, quella del segretario del Partito democratico, Enrico Letta. Letta ha detto che la sentenza dà un “messaggio che credo alla fine farà crescere la sfiducia nei confronti della magistratura” e le sue parole hanno mandato in ebollizione sia le chat dei vari gruppi associativi che la mailing list collettiva dove i magistrati si confrontano tra loro. Ad aver fortemente infastidito le toghe, che da tempo si sentono al centro di uno stillicidio mediatico, è il fatto che un leader di partito ed ex presidente del Consiglio si sia lasciato andare a un attacco così pesante nei confronti di tutta la categoria. Le toghe progressiste del gruppo di Area avrebbero provato a smorzare la polemica, per evitarne l’approdo nelle sedi istituzionali. Tuttavia, il sentimento di irritazione per l’attacco si è diffuso tra magistrati di diverso orientamento, dei quali si è fatta interprete soprattutto Magistratura indipendente con la richiesta di discuterne durante la giunta dell’Associazione nazionale magistrati prevista per oggi. E la richiesta potrebbe arrivare anche fino al Consiglio superiore della magistratura, sfociando nell’apertura di una pratica a tutela dell’esercizio autonomo della funzione giudiziaria (ovvero un tipo di iniziativa formale di intervento che può prendere il Csm). In anticipo sui tempi della giunta di cui fa parte, il coordinamento del gruppo di Autonomia e Indipendenza ha anticipato una sua nota in cui stigmatizza gli attacchi, pur senza un diretto riferimento a Letta. Secondo A&I, “autorevoli esponenti del mondo politico” mostrano “un sostanziale disprezzo” della libera funzione giurisdizionale, accusando la magistratura “in maniera scomposta” e indiretta di esercitare “una indebita attività di tipo latamente politico”. Una presa di posizione potrebbe arrivare, dopo il dibattito in giunta, anche da parte dell’Anm presieduta da Giuseppe Santalucia. Se così fosse, sarebbe l’ennesimo segnale di tensione e incompatibilità tra magistratura e politica, proprio nella delicata stagione delle riforme. La commissione antimafia - Una ulteriore conseguenza della pesante sentenza di primo grado, invece, investe direttamente Lucano, candidato alle elezioni regionali della Calabria a sostegno di Luigi de Magistris. La commissione Antimafia presieduta dal senatore calabrese Nicola Morra si è riunita ieri per stilare la lista cosiddetta “degli impresentabili”, ovvero i candidati alle elezioni che sono stati condannati o sono imputati in processi penali in corso. Per questa ragione nella lista dovrebbe figurare anche Lucano, di cui la Lega ha chiesto il ritiro della candidatura subito dopo la sentenza. Nell’elenco, infatti, finisce chi non ha ancora subito una condanna in via definitiva e, come nel caso di Lucano, è pronto ad appellare la sentenza di primo grado. La lista è una iniziativa specifica della commissione Antimafia e non provoca alcun effetto concreto: chi viene inserito rimane legittimamente candidato, subisce solo una “bollinatura” sfavorevole, che potrebbe condizionare il voto degli elettori. In vista di queste amministrative, inoltre, arriva poche ore prima del silenzio elettorale. Un cattivo servizio alla causa della giustizia di Massimo Villone Il Manifesto, 2 ottobre 2021 Le sentenze si accettano, indubbiamente. L’errore, quando c’è, va corretto nei modi e secondo le procedure previste. Ma questo non preclude la critica, possibile ed anzi doverosa, se la potestà punitiva dello Stato non è correttamente esercitata. La pesante condanna inflitta a Mimmo Lucano ha scatenato la politica di bassa cucina, come dimostra l’aggancio (inesistente) al caso Morisi. Convulsioni inevitabili, a poche ore da un voto amministrativo non privo di riflessi politici. Le sentenze si accettano, indubbiamente. L’errore, quando c’è, va corretto nei modi e secondo le procedure previste. Ma questo non preclude la critica, possibile ed anzi doverosa, se la potestà punitiva dello Stato non è correttamente esercitata. Tale è il caso della sentenza di Locri, censurabile non già per ragioni politiche, ma per le sue incongruenze. Una domanda preliminare: può un sindaco per ragioni umanitarie violare consapevolmente le norme che disciplinano i suoi poteri amministrativi? La risposta è negativa, anche se la motivazione è cercata nella diretta attuazione di valori costituzionali. La febbre politica e istituzionale è alta se un sindaco si sente costretto a una disobbedienza civile, che non gli è consentita. Se la praticasse, incorrerebbe secondo i casi in responsabilità civili, penali, amministrative. Dai fatti noti, Lucano ha tenuto comportamenti che un sindaco prudente avrebbe evitato. Una condanna era possibile, e una piena assoluzione forse difficile da prevedere. Ma un medesimo fatto può avere qualificazioni giuridiche diverse, mentre possono essere riconosciute o meno attenuanti, ad esempio per motivi di particolare valore morale o sociale. Qui cominciamo a percepire una distanza dalla sentenza di Locri. Colpisce, anzitutto, che la sentenza abbia praticamente raddoppiato la misura della pena rispetto alle richieste dell’accusa. Normalmente, non accade. La distanza tra il richiesto e il deciso indica che la sentenza assume un impianto interpretativo e decisorio diverso da quello dell’accusa. È il segno che qualcuno ha sbagliato: o la pubblica accusa, o il giudice. Non possono entrambi aver fatto al meglio il proprio mestiere. È paradossale il compiacimento espresso dal procuratore di Locri per la conferma dell’impianto accusatorio. La sentenza: Lucano ha ripetutamente e dolosamente violato la legge nell’ambito di un vasto e sistematico disegno criminoso, forse non specificamente finalizzato a favorire l’immigrazione illegale, ma comunque volto a gestire clientele e conseguire per sé ed altri vantaggi, anche economici. Un impianto tale da giungere a una pena cumulata non lontana da quella che si riterrebbe congrua per gravi fatti mafiosi o di sangue. E sembra essere proprio qui la diversità rispetto all’accusa. La più contenuta misura della condanna richiesta dall’accusa suggerisce che un’altra lettura era possibile. Una lettura che avrebbe forse consentito anche le attenuanti, precluse invece dalla ricostruzione data in sentenza, ovviamente incompatibile con il riconoscimento di motivi di particolare valore morale o sociale. E che probabilmente non avrebbe condotto alla sanzione di oltre mezzo milione di euro. Aspetteremo le motivazioni. Ma intanto, dai fatti noti e da quel che si sa sullo svolgimento del giudizio, viene un dubbio sul pesantissimo impianto decisorio adottato. Dall’abuso di ufficio alla truffa e al peculato corre un mare. Di grandi imbroglioni e truffatori ne abbiamo conosciuti non pochi, e sono altra cosa. Non si può omettere di considerare che - a quanto sappiamo - non risulta alcun lucro o arricchimento personale per Lucano. Non crediamo a tesi complottiste su una precisa volontà politica e/o giudiziale di criminalizzare la solidarietà o sabotare l’accoglienza. Né dubitiamo che il giudice sia in coscienza convinto dell’impianto assunto in decisione. Ma non troviamo riscontri che la sua convinzione sia pienamente fondata e condivisibile. Per questo esprimiamo a Lucano solidarietà umana e politica per una sentenza che - senza polemica - riteniamo avrebbe potuto e dovuto essere diversa. Potrà essere corretta. Ma non sarà ripagato il danno morale a chi è stato condannato. Come rimarrà il danno per una decisione assunta a poche ore dal voto, tale da incidere sull’esito. Questo avrebbe dovuto suggerire al giudice un’altra tempistica, per non entrare a gamba tesa nell’agone politico. Nell’insieme, un cattivo servizio alla causa della giustizia. Ma poteva andare anche peggio. Ad esempio, se la sentenza fosse venuta a seguire una indicazione legislativa di priorità al pubblico ministero, come da riforma così cara ad alcuni. Mimmo Lucano travolto dai giudici come tanti, troppi altri di Gioacchino Criaco Il Riformista, 2 ottobre 2021 Forse, come qualcuno gli suggeriva, Mimmo Lucano non avrebbe dovuto difendersi dalle accuse, almeno da alcune. Avrebbe dovuto rivendicare la propria storia di disobbedienza civile, ribadire che di fronte alla minaccia di disumanità rispetto alla disperazione dei fratelli che arrivavano da oltre il mare lui non conosceva altra risposta che l’umanità, altro rimedio che la filoxenia che nutre da sempre la gente della Locride. Che di fronte alla sofferenza si debba correre il rischio di violare le regole, di pagarne le conseguenze. Forse, come chi gli voleva bene suggeriva, Mimmo Lucano non avrebbe dovuto personalizzare l’idea dell’accoglienza legandola in modo indissolubile a sé stesso e esponendola al pericolo di cadere con lui. Ci fosse riuscito sarebbe stato un gigante. Sulle malversazioni, sulla associazione a delinquere, sulla concussione: lì avrebbe dovuto urlare con tutto il fiato che aveva in gola la propria innocenza. Lui ha contribuito a creare, insieme a molti, molti altri che sono svaniti dietro la sua figura, un modello di accoglienza straordinario, trasformando il paese dell’abbandono nel posto della rinascita, della speranza. A tutto un mondo politico che falliva in vari modi nell’affrontare l’immigrazione ha contrapposto una soluzione facile, umana, risolutiva. Accogliere, integrare, allargare le braccia, a costo di deformare le regole, di applicare le leggi del cuore. L’esempio di Riace è andato in conflitto con i fallimenti e con gli egoismi italiani, europei, è entrato in collisione con gli scarsi rimedi ministeriali. Sono cominciati gli attriti col ministero dell’interno, già nati con Minniti e poi proseguiti con Salvini. Dal rappresentare un risolutore, a cui venivano scaricate le emergenze, per le prefetture, è passato a essere una sorta di autocrate. La rivista americana Fortune l’ha inserito fra le quaranta persone più potenti al mondo. Mimmo il curdo è diventato famoso, troppo in vista. Un concorrente che è apparso pericoloso a qualcuno. Si è trasformato in un’icona da abbattere. Una relazione prefettizia ha innescato un’indagine giudiziaria obbligatoria. E tutti o quasi sono convinti che Lucano abbia forzato le regole. Ma tutti o quasi passerebbero i palmi delle mani sopra la brace. Che sia un ladro, un concusso, il capo di un’associazione a delinquere, non ci crede nessuno. Ma il tribunale di Locri ha scaricato 80 anni di condanna a un gruppo che sognava un mondo diverso, 13 anni e 2 mesi tutti per Mìmì. Lo ha fatto a quattro giorni dalle elezioni in cui Domenico Lucano era il candidato di punta della formazione di de Magistris, che si propone di innovare la politica calabrese, ed è evidente che la condanna avrà effetto sul voto. E senza bisogno di pensare ai complotti, l’azione giudiziaria nei confronti di Lucano, nei fatti, ha posto fine al sogno di Riace, nei fatti ne determinerà il risultato politico. Travolgerà il destino umano di Mimmo Lucano, come è stato travolto quello di tanti, tanti uomini, che a queste latitudini si svegliano spesso col suono stridulo delle sirene e dopo, per anni, smarriscono la speranza, a volte la dignità, dentro le aule dei tribunali. Il percorso dell’ex sindaco di Riace, lungo i corridoi grigi, durerà ancora a lungo. Quando la giustizia chiuderà il proprio ciclo forse non sarà più possibile salvare una storia, un sogno, un uomo. La condanna a Mimmo Lucano colpisce lui, ma per la terra che sta intorno colpisce pure l’Istituzione che l’ha decisa. Perché tutti, o quasi, giurano sull’innocenza dell’imputato. Tutti sono rimasti scossi dall’entità della pena. E in Calabria si sa che il principio costituzionale dell’innocenza è un samaritano troppo lento per arrivare in soccorso, in tempo. Giffoni: “Lo Stato che ho servito mi ha messo sotto accusa, ora il ministero mi riabiliti” di Simona Musco Il Dubbio, 2 ottobre 2021 Intervista all’ex ambasciatore italiano Michael Giffoni, assolto dopo 7 anni dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: “Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. Un presunto colpevole invece che un presunto innocente. Sa come mi sono sentito? Come se mi avessero destituito della mia stessa anima”. “Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. Un presunto colpevole invece che un presunto innocente. Sa come mi sono sentito? Come se mi avessero destituito della mia stessa anima”. A cinque giorni dalla sua assoluzione Michael Giffoni, ex ambasciatore italiano a Pristina, ha già la voce più serena. Per lui è la fine di un incubo, anche se la strada per la riabilitazione manca ancora di un pezzo: rientrare al ministero degli Esteri che lo ha cacciato prima ancora che qualcuno decidesse se fosse colpevole e innocente. Tutto è accaduto nel 2014, quando Giffoni, mente raffinatissima e con un curriculum da fare impallidire chiunque, è stato destituito dall’incarico e addirittura radiato dalla diplomazia italiana sulla base di accuse dalle quali, sette anni dopo, è stato scagionato con formula piena: di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere. Tutto questo, sette anni dopo, è svanito nel nulla. Ma la sua carriera è ormai distrutta. Ambasciatore, come ci è finito in questa situazione? È una vicenda complessa e ingarbugliata dal punto di vista giuridico e dolorosa dal punto di vista umano. Non mi sento una vittima della malagiustizia, perché la giustizia mi ha salvato. Lo sono se consideriamo i tempi, perché l’iter è stato lunghissimo, ma è stato grazie ad un tribunale se ho avuto questa liberazione. La cosa peggiore, però, è che le accuse sono state alla base della mia destituzione, provvedimento amministrativo sanzionatorio a dir poco estremo. Da quel momento si è sviluppato un incredibile corto circuito tra legge, procedure disciplinari, procedure giuridico-amministrative e processo penale. Il tutto ha creato, alla fine, una situazione difficile da sbrogliare. Il tribunale più duro è stato quello interno al ministero degli Esteri? Essere destituiti per un funzionario dello Stato, almeno per quello che io sono e sono sempre stato, ha significato la destituzione della mia stessa anima, del mio modo di essere, della mia dimensione umana. Questo sulla base non di accuse accertate e attestate da chi ha la competenza giurisdizionale per farlo, ma da una commissione disciplinare interna al ministero. È molto difficile da accettare: per quanto legalmente ortodossa, dal punto di vista umano e civile è molto grave, perché la Costituzione prevede il principio di presunzione di innocenza. E io avrei dovuto essere considerato innocente fino a prova contraria. Ma questo vige solo sulla carta, perché per sette anni e mezzo sono stato privato di tutto, della mia stessa essenza, sulla base di accuse mai provate. Un presunto colpevole. Una cosa difficile da accettare in uno Stato diritto, perché questo contraddice in pieno i principi dello stesso. È stato audito dalla commissione? Sì, ho spiegato le mie ragioni fin dall’inizio e fin dall’inizio ho fatto presente che quelle accuse si basavano su voci e pregiudizi. Non c’era nessuna prova, ma il ministero ha deciso comunque di sanzionarmi. Il Tar del Lazio mi ha dato ragione ben due volte, proprio sulla base della presunzione di innocenza, evidenziando che le accuse non erano mai state accertate e che il ministero non poteva intestarsi una funzione che non aveva, in quanto organo del potere esecutivo e non di quello giudiziario. Quindi avevano ordinato la mia riammissione in servizio, in attesa di un processo. Il Consiglio di Stato, però, ha ribaltato il ragionamento, dando ragione al ministero che aveva valutato l’esistenza di un danno ingente allo Stato. Bene, questo danno, come la sentenza ha dimostrato, in realtà non c’è mai stato. Penso che questo capovolgimento sia alquanto bizzarro. Come sono stati questi sette anni? Non voglio star qui a rimuginare: questi sette anni sono andati. La sentenza mi ha ridato la dignità civile e morale, ha ristabilito la verità, mi ha fatto giustizia. Certo, ci si poteva mettere di meno. Però quello che ora esigo è semplicemente una cosa: che mi venga restituita anche la dignità professionale, che per me era una missione di vita. È come se avessero scomunicato un sacerdote, sulla base di accuse infondate. Essendo venuti meno i fondamenti di quei provvedimenti che avevano giustificato sanzioni così estreme, penso che sia un’aspettativa legittima e fondata quella di tornare a lavorare al ministero degli Esteri. Qualcuno le ha chiesto scusa? Figuriamoci. Non c’è stato finora nessun contatto. Lo so che probabilmente non è la fine, ma per me in ogni caso è un nuovo inizio, perché finalmente sono sereno. Prima non potevo esserlo. Sono finalmente sereno da lunedì 27 settembre 2021 alle ore 13.45. Spero che da parte dell’amministrazione prevalga il buon senso e che si prenda atto che la sentenza è inequivocabile. La conseguenza immediata dovrebbe essere la mia riabilitazione. Quindi non ha perso totalmente la fiducia nelle istituzioni? Io sono un funzionario dello Stato e lo sono nell’anima, lo sono stato anche in questi sette anni. In molti mi hanno invitato a portare la mia storia nei salotti tv, ma io non sputo nel piatto in cui ho mangiato, non porto lo Stato, nonostante mi abbia riservato questo trattamento, sul palco degli accusati. Ma ora sì. Ora ho una sentenza. Ora io dico che le conseguenze di questa sentenza se le devono assumere le istituzioni, perché la riabilitazione professionale che voglio io non me la può ridare un tribunale, me la deve dare chi mi ha cacciato. Lei ha firmato i referendum promossi dal Partito Radicale. Per quale ragione? Non perché vada di moda o perché si tratta di temi legati alla giustizia, ma perché ho letto le proposte e le ho trovate sensate e ho pensato che potesse essere un modo per iniziare a migliorare la situazione. La mia è stata una vicenda grave, fatta di sofferenze, ma se la paragoniamo a tante situazioni estreme mi è andata anche bene: c’è gente che ha fatto anni di carcere prima di essere assolto. E mi sembra che queste proposte possano alleviare, almeno, quelli che sono i problemi principali. Secondo lei cosa non funziona? In primo la presunzione d’innocenza, che deve esistere nei fatti e non solo sulla carta. Deve tornare ad essere un principio fondamentale. Poi il processo deve finalmente uscire dalla natura inquisitoria nel quale ancora, nonostante tutto, si trova. Deve basarsi sulle garanzie e sulle tutele degli imputati, che non possono essere condannati prima ancora che sia emessa la sentenza. E poi c’è il problema dei tempi: nel mio caso è stato un iter micidiale. Tecnicamente si deve trovare una soluzione e non penso che sia solamente un problema di organico, ma anche un problema di mentalità. Anche la sua vita personale ha subito dei duri colpi... Abbiamo tutelato soprattutto gli interessi del bambino, che è cresciuto bene e sono contento di essere riuscito a spiegare tante cose ad un ragazzo che all’epoca aveva 5 anni e quindi è cresciuto con questo dramma. Poi il matrimonio è un’altra storia: è nato sotto l’assedio a Sarajevo e sono stati 20 anni bellissimi. Ma lasciamo perdere: la fine della storia è frutto di un momento difficile. Era difficile starmi vicino, perché mi sono ritrovato sbalzato in una situazione completamente diversa, che era l’annullamento di tutta la mia vita. Le sofferenze però sono state immani, anche fisiche. Non sto a dire che le malattie dipendono solo da quello, ma in gran parte sì: prima ero sano come un pesce e poi improvvisamente ho avuto problemi cardiologici, endocrinologici, istologici… Qualche cosa ci deve essere stato. Poi ho avuto sofferenze materiali, perché non essendoci più entrate sono finiti i risparmi. Mia madre mi ha aiutato, qualche amico ha messo mano anche al portafoglio e non gliene sarò mai grato abbastanza. Queste situazioni le abbiamo superate, ma quello che lascerà strascichi sono le conseguenze morali. Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. È stata un’odissea. Ma ci sono state tantissime lezioni ed io non sono così stupido da non coglierle al volo. Nessuno può ripagarmi per questi anni, sono andati. Ma ciò che ho imparato lo metterò a frutto e sono sicuro che la vita mi ridarà altri sette anni di cose positive. Marche. “Celle sovraffollate e personale all’osso. Serve un nuovo carcere nel maceratese” di Paola Pagnanelli Il Resto del Carlino, 2 ottobre 2021 Il Garante Giulianelli dopo le proteste nei penitenziari marchigiani: ho segnalato i problemi al ministro Cartabia, ora mi aspetto risposte. Sono 900 i detenuti nelle Marche, tra carceri e residenze psichiatriche. Stando ai dati di metà luglio, ce ne sono una cinquantina in più del previsto. “E mancano sia il personale, gli agenti della polizia penitenziaria e gli operatori per l’attività trattamentale dei detenuti, sia gli spazi. Ecco perché dobbiamo fare i conti con le proteste”. Il Garante per i diritti della persona, l’avvocato maceratese Giancarlo Giulianelli, illustra la condizione delle strutture di detenzione delle Marche, evidenziando problemi e prospettive. Dal punto di vista numerico, la situazione è questa: a Montacuto al 31 luglio c’erano 306 detenuti, contro i 256 consentiti; al Barcaglione di Ancona 69, contro un massimo di 100; ad Ascoli 106, mentre il limite è di 104; a Fermo 48 invece di 41; a Fossombrone ce ne sono 93, mentre la capienza massima è 202, ma ci sono dei lavori in corso; a Pesaro infine sono 197, invece dei 143 consentiti. Infine a Casa Badesse, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza a Macerata Feltria ci sono 24 pazienti. Avvocato Giulianelli, cosa ha portato alle rivolte? “Bisogna distinguere. In alcune carceri ci sono problemi di polizia penitenziaria. I sindacati hanno più volte evidenziato alcune mancanze da parte della direzione di due strutture, Villa Fastiggi a Pesaro e Marino del Tronto ad Ascoli; a Pesaro di recente ci sono state proteste sindacali, su Ascoli anche interrogazioni parlamentari. Per quanto riguarda invece casi come Montacuto, dove c’è stata una aggressione, si tratta di problemi di sanità penitenziaria: per mancanza di spazi, i detenuti psichiatrici sono inseriti tra quelli comuni. Il personale non sempre riesce a gestire anche i detenuti psichiatrici. Poi alcune strutture sono sovraffollate, e in altre manca il personale sia della polizia penitenziaria, sia dell’area trattamentale”. Cosa sarebbe? “Nelle carceri è prevista e necessaria la possibilità di svolgere attività che impegnino il detenuto. Devono esserci educatori, con progetti gestiti dall’ambito sociale, dalla Regione, dal volontariato, di lavoro o di studio. Il Barcaglione di Ancona ha caseificio, mielificio, orto sociale, vigna, uliveto. Sto siglando un altro accordo per corsi sulla protezione nei luoghi di lavoro, di orticoltura, o sull’uso delle trattrici. Speriamo di poter fare qualcosa anche a Montacuto, una vigna in una zona vocata alla produzione del Rosso Conero. Ma al momento manca il personale per queste attività. Ho segnalato il problema al ministro Cartabia, nell’incontro con i garanti regionali. Per la polizia penitenziaria si stanno facendo i concorsi, con i tempi di queste procedure, ma per l’area trattamentale? Le carenze sono forti, soprattutto a Montacuto”. C’è chi ritiene i progetti superflui... “E invece sono costruttivi per il futuro del detenuto e utili per la società. Il carcere deve essere la strada per il ritorno alla legalità, evitando il pericolo di recidivanza. Si può lavorare dentro o anche fuori dal carcere, con la sensibilità da parte delle imprese del territorio. A breve, solleciteremo le associazioni dell’industria e dell’artigianato, spiegando i vantaggi nell’assumere un semilibero o un ex detenuto: ci sono sgravi fiscali del cento per cento fino a un certo periodo. In questo modo, si offre al detenuto la possibilità di pagare il suo debito con la società, e lo si prepara per quando sarà libero, dandogli una alternativa all’illegalità”. Perché non ci sono più attività in carcere? “Nelle carceri marchigiane non c’è spazio. A Fermo è molto difficile fare attività trattamentale. Il 6 ottobre incontrerò il sindaco e sto sensibilizzando i politici per trovare una struttura idonea. Un carcere nuovo serve a Fermo ma anche in provincia di Macerata; tra l’altro con la chiusura di Camerino abbiamo perso una struttura che era vetusta sì, ma che aveva l’unica sezione femminile in centro regione. Mi auguro che il ministero prende in considerazione la costruzione di un nuovo carcere nel territorio maceratese. Al ministro Cartabia ho esposto le difficoltà delle strutture marchigiane, ora mi aspetto un riscontro”. Benevento. “In cella niente diritto alla salute: che aspetta il Dap a intervenire?” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 2 ottobre 2021 Parla il procuratore Aldo Policastro. “Il carcere, così com’è oggi, va ricivilizzato. La qualità del trattamento riservato ai detenuti è inaccettabile, soprattutto per quanto riguarda il diritto alla salute”. La pensa così Aldo Policastro, magistrato di lungo corso e da tempo alla guida della Procura di Benevento. È lui il capo dell’ufficio che sta indagando sulla morte di Mirko, il 27enne napoletano affetto da disturbi della personalità che si è recentemente impiccato nel carcere sannita. Sulla vicenda la Procura indaga senza escludere alcuna pista: gli inquirenti sono al lavoro per capire se si sia trattato effettivamente di suicidio o se il giovane sia stato in qualche modo indotto a compiere l’estremo gesto o, ancora, se la sua morte sia il frutto di omissioni o deficit di assistenza medica. La vicenda, d’altra parte, riaccende i riflettori proprio sul tema delle cure garantite a chi vive dietro le sbarre, a cominciare da chi vive quotidianamente il disagio psichico. Non si tratta di casi isolati se si pensa che, secondo il garante campano, il 65% dei reclusi convive con un disturbo della personalità e gli psicofarmaci costituiscono il 43% dei medicinali somministrati dietro le sbarre. “Il diritto alla salute è quello che patisce le maggiori sofferenze - sottolinea Policastro - e, in particolare, la salute mentale vive una condizione drammatica in tutti i penitenziari. Le cure sono palesemente inadeguate, il che rende ancora più inaccettabili i suicidi dei detenuti con problemi psichici”. Il procuratore sannita è da sempre particolarmente attento al tema della detenzione. In passato ha visitato più volte i penitenziari di Benevento e di Ariano Irpino, che ricadono sotto la sua giurisdizione, e l’istituto per minorenni di Airola. E non ha potuto fare a meno di notare la scarsa qualità del trattamento riservato ai carcerati. “Pesano la mancanza di articolazioni psichiatriche specifiche in molte strutture e il fatto che psicologi e psichiatri siano disponibili in modo “puntiforme” - aggiunge Policastro - L’assistenza, invece, dovrebbe essere costante. E poi gli spazi per la socialità e le attività per il reinserimento sociale dei detenuti sono troppo scarse. Senza parlare del personale. Così non va, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dovrebbe affrontare questi temi”. Sullo sfondo resta il problema del sovraffollamento: in Campania sono circa 400 i detenuti “di troppo” nei 15 penitenziari e circa il 40% della popolazione carceraria totale è in attesa di giudizio. Non sarebbe il caso che le Procure facessero ricorso meno facilmente alla custodia cautelare? “Secondo me non si ricorre a questo strumento a cuor leggero - replica il procuratore di Benevento - La magistratura ha raggiunto una consapevolezza dei diritti di indagati e imputati che mi porta a escludere un troppo facile ricorso alla custodia cautelare in carcere. Ciò non toglie che il carcere debba essere ridotto al minimo e che debba trovare più spazio, invece, una giustizia riparativa seria. Il che significa dotare il sistema di strutture e risorse adeguate, se si vogliono evitare farse burocratiche”. Insomma, servono misure strutturali capaci di velocizzare i processi, ridurre i tempi di attesa delle sentenze e garantire ai detenuti un trattamento in linea con quanto stabilito dalla Costituzione. Come si fa? “Serve una decisa depenalizzazione - conclude Policastro - Le contravvenzioni punite con sanzioni pecuniarie o con l’arresto vanno derubricate a illeciti amministrativi e trattati di conseguenza. Solo in questo modo si può ridurre, in prospettiva, la mole di lavoro per gli uffici giudiziari. Ma c’è bisogno di una svolta culturale: in Italia non si può andare avanti configurando come reato qualsiasi comportamento. Così si paralizza tutto” Napoli. Il dramma di Angelo, chiuso in cella con le voci nella testa di Veronica Manca e Nicola Galati Il Riformista, 2 ottobre 2021 Angelo e i suoi occhioni neri, fari di luce nelle tenebre della cella; dietro le sbarre, non solo fisiche. Quando conobbi Angelo, compresi, all’istante, che voleva narrare una storia diversa da quella che emergeva dalle carte. Poche parole, sguardo perso nel vuoto: “Avvocato, non mi crede nessuno, ma io sento le voci; sono loro che mi dicono che sono diverso; alle volte mi fanno paura; alle volte mi fanno compagnia; sono il mio mondo”. La situazione era chiarissima; un solo colloquio era sufficiente per capire che lì Angelo non ci sarebbe dovuto mai entrare. Eppure il suo caso, come quello di tanti altri, ha reso tangibile che la malattia mentale in carcere non esiste e le persone malate sono invisibili. Non solo. Ha messo in luce che l’infermità di mente non riesce nemmeno ad emergere in sede processuale: chi si pone o si dovrebbe porre la questione? Esistono processi in cui, per il tipo di imputato, non si sollevi la questione? Esistono difese tecniche o d’ufficio, per cui non vale la pena percorrere strade, ardue, solitarie, ma di giustizia? Chiunque indossi la toga, magistrato o difensore, con dignità, serietà e profondo senso di responsabilità, sa perfettamente che la risposta non può essere che una sola. La Giustizia non ha volti né ceti né classi sociali: i diritti sono di tutti e tali vanno garantiti. Anche, e soprattutto, ad Angelo. Uno straniero, emarginato sociale, povero, senza padre, rimasto in Bulgaria, una madre malata e sola; una lunga storia di strada, droga e acidi; una lunghissima storia di solitudine e abbandono, in cui la malattia mentale non solo ha potuto fiorire, ma ha rappresentato l’unico elemento salvifico: le voci terrificanti, quella “famiglia” che riempiva il vuoto di una vita destinata a spezzarsi, nella solitudine e nel dramma più assoluto. Angelo è in carcere ed è accusato di violenza sessuale: lo stigma più pesante. Il processo corre veloce, secondo cadenze e istruttoria già stabilita, a condanna altamente probabile. Intervenire a storia processuale scritta non è facile per nessuno, né per il difensore né tanto meno per le altre parti processuali. Ma la toga impone e insegna che se l’evidenza fattuale è così lampante e distante dalla verità che è in corso di scrittura nel processo, l’interruzione del processo è atto dovuto. Con buona pace dell’eco mediatica, del giustizialismo e del populismo penale: perché il processo è verità e giustizia; e ciò bisogna ribadirlo continuamente, nella lotta contro le ingiustizie e a difesa dei diritti. Il resto è storia. Angelo è stato assolto, con formula piena. Conclusione che non può distrarci da alcuni interrogativi ineludibili. Per Angelo il sistema ha infine funzionato, ma quante altre storie simili hanno purtroppo finali diversi? Quante persone sono abbandonate in una cella ad affrontare la loro malattia, senza avere la fortuna di incontrare la determinazione e la sensibilità di tutti gli attori del processo? Quanto ad Angelo, perché non ha avuto prima l’assistenza e le attenzioni di cui aveva bisogno? La nostra società deve ancora fare pienamente i conti con la malattia mentale, non si possono ignorare ed escludere le persone come Angelo, magari lasciando che sia il sistema penale a farsi carico di compiti che non gli spettano e di problemi che non potrà mai risolvere. Per una volta Angelo ha sentito delle voci non dentro ma fuori di sé, voci non ostili, che non lo giudicavano e non lo condannavano, voci che lo assolvevano. Se solo avesse sentito prima voci amiche intorno a sé, si sarebbero evitate tante sofferenze per lui e per gli altri. Infine, per l’avvocato resta la consapevolezza di non doversi mai fermare ai freddi atti di una causa, di dover esplorare l’umanità che ha dinanzi a sé, di poter aiutare chi sembra ormai perduto. Così, alle solite domande retoriche sul come si possano difendere coloro che sono accusati di reati orribili, potrà dire di aver trovato la risposta negli occhioni neri di Angelo. Frosinone. Spari nel carcere, il procuratore Guerriero parla di “gravità inquietante” frosinonetoday.it, 2 ottobre 2021 Incontro in mattinata alla presenza del capo del Dap Bernardo Petralia con i rappresentanti della stampa. Il 19 settembre il carcere di Frosinone è finito sulle cronache di tutta Italia a causa di un detenuto campano che ha sparato tre colpi di pistola all’indirizzo di altri tre detenuti, arma che è entrata nella struttura attraverso un drone. L’ora di ordinaria follia all’interno del penitenziario frusinate è iniziata nel pomeriggio del 19 settembre scorso quando il detenuto è riuscito ad immobilizzare un’agente della Polizia Penitenziaria minacciandolo con una pistola e lo ha costretto a consegnarli le chiavi delle celle dov’erano richiusi i suoi presunti aggressori. Lo stesso, però, non è stato in grado di aprire le porte blindate e per questo iniziato a sparare attraverso le sbarre. A restare ferito solo uno dei tre bersagli mentre gli altri due sono riusciti a parare i colpi. Subito dopo l’uomo ha chiamato il suo avvocato che lo ha convinto a consegnare la pistola. Il giovane è ora accusato tentato omicidio. Sul fatto si sta ancora cercando di fare luce, mentre il Procuratore Antonio Guerriero e il Capo del DAP Bernardo Petralia hanno voluto incontrare i media per rassicurare la cittadinanza e per ribadire la volontà di portare a fondo queste indagini. “Volevo ringraziare il Presidente per la sua presenza - ha affermato il Procuratore- la mia conoscenza con Petralia iniziava 40 anni fa e ci siamo sempre confrontati con i temi mafia e camorra. Inutile che vi dica che la vicenda del carcere di Frosinone per la sua gravità è inquietante. Volevo rassicurare i cittadini e che verrà fatta piena luce sulla questione. Ci sono gli investigatori che stanno indagando. Il quadro che emerge è grave e inquietante. Questo determina nuovi standard di sicurezza per le strutture carcerarie. Dobbiamo sviluppare nuove tecnologie anti-droni. Sono convinto che tutto quello che si dovrà fare per il futuro verrà fatto celermente. Tutto quello che facciamo lo facciamo di squadra. C’è perfetta sintonia con tutte le forze dell’ordine. Si farà tutto il possibile per rendere sicure le carceri. Queste nuove tecnologiche sono state acquistate dai mafiosi e camorristi e sono davvero difficili da rintracciare. Le maggiori organizzazioni si sono impossessate sia dei droni che dei cellulari. Il capo del Daf sta lavorando alacremente, noi ci doteremo di tutti gli strumenti possibili ed immaginabili per non farci scappare questi movimenti. Non possiamo rilasciare altre dichiarazioni su quanto avvenuto nel carcere di Frosinone. Nel giro di pochi giorni vi potremo dare degli elementi più chiari sulla vicenda”. A prendere la parola anche il Presidente del Dap Bernardo Petralia: “Il Dap è stato e sarà a completa disposizione del nucleo di polizia. Metteremo a disposizione qualunque capacità e c’è un’investigazione in corso. Per quanto riguarda le misure di sicurezza ci sono già sistemi anti drone e sistemi di monitoraggio. C’è un faro acceso su Frosinone per attività anti drone. Dopo tanti anni purtroppo è entrata anche un’arma. In questi ultimi tempi ci sono stati ingressi di telefonini ma mai di armi. Le tecnologie anti drone sono state già verificate nei vari istituti. A Frosinone siamo in corso. È all’ordine del giorno l’acquisto di tutti i possibili strumenti tecnologici per rintracciare i droni”. Bologna. La redazione di “Ne vale la pena” al Festival Francescano bandieragialla.it, 2 ottobre 2021 Tra le numerose iniziative di piazza che nei giorni scorsi hanno animato e fatto da contorno al Festival Francescano, due meritano, in particolare, di essere ricordate per l’argomento in comune: l’incontro/testimonianza dal titolo “Anche chi sbaglia vale” e l’attività denominata “Biblioteca vivente”. Nella prima di queste iniziative si è parlato dell’esperienza detentiva vissuta da alcuni degli oratori presenti all’incontro, al fine di comprendere se e come le relazioni umane all’interno di un istituto di pena possano concretamente valorizzare la persona condannata ed il suo percorso rieducativo. La conclusione a cui si è giunti è che ciò sia possibile, a patto di impegnarsi nella ricerca di un punto di reciproca convergenza con l’altro e con i suoi bisogni di aiuto, di ascolto e di umana comprensione. L’altro aspetto affrontato ha riguardato, invece, l’attualità del volontariato della giustizia che si presenta, a seguito dei fallimenti dello Stato, come l’unica ancora di salvezza morale e materiale per i carcerati, nonostante qualche zona d’ombra per comportamenti non sempre in linea con un autentico spirito di servizio, ma che comunque non inficiano la indispensabilità del volontariato laico e confessionale all’interno delle carceri. Sui generis, al contrario, è stata l’attività della “Biblioteca vivente”, nella quale i libri erano in realtà delle persone in carne ed ossa che, con la massima disponibilità, hanno cercato di raccontare ai lettori interessati la propria esperienza individuale di vita. Lo scopo era soprattutto quello di tentare di diminuire i pregiudizi che inevitabilmente nascono in determinati contesti e di favorire quindi il dialogo tra persone di varia umanità. Tra gli argomenti a scelta anche quello del carcere che, al pari delle tasse e della morte, la gente comune non apprezza poi tanto, forse per il timore, in tali occasioni, di doversi confrontare con il male e con le proprie paure. Eppure, nonostante ciò, l’interesse per un mondo che appare così lontano dalla quotidianità di tutti i giorni è stato enorme, sia da parte di coloro che per la prima volta affrontavano la questione carceraria sia da parte di coloro che, invece, avevano già una propria idea, sostanzialmente negativa, sulle persone condannate. L’intenzione dei partecipanti alla biblioteca vivente - volontario in carcere o persona con una pregressa esperienza di detenzione - non è stata certo quella di convincere i lettori della bontà di alcuni modelli alternativi al “buttare via la chiave”, ma più semplicemente quella di mettere il proprio interlocutore di fronte all’evidenza empirica che un carcere con altre modalità di espiazione della pena non solo è auspicabile, ma addirittura necessario e indispensabile sul piano della sicurezza sociale e del risparmio economico per l’intera collettività, senza che comunque questo faccia venire mai meno il doveroso senso di giustizia da riconoscere pienamente alle vittime del reato o ai loro familiari. Siena. Anche la Casa circondariale per l’iniziativa dantesca “100 canti per Siena” radiosienatv.it, 2 ottobre 2021 Sono 10 i detenuti di lingue diverse che leggeranno il Primo Canto del Purgatorio. “Può un solo canto della Divina Commedia abbattere steccati e costruire ponti, avvicinare persone e mondi apparentemente separati? Sì, è possibile!” Queste le parole di entusiasmo espresse da Sergio La Montagna, Direttore della Casa Circondariale di Siena per raccontare l’esperienza di un gruppo di detenuti che partecipano a 100 canti per Siena domenica 3 ottobre. “Aderire al progetto 100 canti per Siena - prosegue La Montagna - è stata un’esperienza sorprendente che ha unito i nostri detenuti, appartenenti a diverse etnie, in un unico canto corale dove ognuno ha potuto esprimersi nella propria lingua di origine. Ancora una volta è la forza della poesia a vincere, ad abbattere i muri e a superare ogni barriera. A guidare i nostri cantori la straordinaria sinergia tra gli organizzatori dell’evento e gli operatori del carcere che ogni giorno e a diverso titolo offrono il loro indispensabile contributo, le educatrici Giuseppina Ballistreri e Maria Iosè Massafra, l’insegnante del Cpia Michele Campanini, l’insegnante dell’Istituto Caselli Catlin Giolitti, gli attori e registi del laboratorio teatrale Ugogiulio Lurini e Sergio Licatalosi e tutto il personale della Polizia Penitenziaria. A tutti loro va il mio sentito ringraziamento per aver consentito anche ai nostri ospiti di dare voce al Sommo Poeta”. Sono 10 i detenuti di lingue diverse fra cui romeno, wolof, francese, arabo oltre che siciliano e napoletano che leggeranno il Primo del Purgatorio, che recita “… libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”, che verrà trasmesso in filodiffusione alle 18.00 da Piazza del Campo nelle strade limitrofe. Anche questo - e molto altro! - è 100 canti per Siena, lo spettacolo itinerante che racconta i luoghi e i personaggi dei 100 canti della Divina Commedia attraverso una emozionante performance corale e che trasformerà la città di Siena in grande teatro a cielo aperto domenica 3 ottobre dalle ore 15.30. Una lettura diffusa e corale che darà forma a luoghi e personaggi di tutta la Divina Commedia e che invaderà la città con 99 soste performative in altrettanti punti creati appositamente per una straordinaria occasione di ‘teatro diffuso’. Roma. Made in Rebibbia: sfilata sartoriale di sogni e speranze di Antonella Sotira La Discussione, 2 ottobre 2021 Maestri sartori ed indossatori per una sera, 7 detenuti di Rebibbia sfilano in passerella con le loro creazioni di alta sartoria maschile. Una serata insolita che premia un progetto ideato nel 2016 dal Maestro Ilario Piscioneri, Socio Onorario dell’Associazione di Giuristi IusGustando e fortemente voluto e condiviso dalla Direttrice del Carcere Rosella Santoro e dall’allora Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. La vis creativa e la determinazione di llario Presidente dell’Accademia Nazionale dei Sartori nel marzo 2018 diventano realtà e assurge agli onori della cronaca. La Rai entra a Rebibbia per intervistare gli allievi del corso e far vedere al mondo degli scettici, il laboratorio di sartoria realizzato grazie ai contributi di Bmw Roma e le stoffe donate da i più grandi produttori italiani. Ma alla prima sfilata di luglio 2018, Ilario non parteciperà: stroncato da un infarto ad aprile, lascia in eredità ai figli Daniele, anche lui Maestro Sartore, Alessandro e Manuel, la “venture philanthropy” del suo brand. A settembre 2021 il cortile di Rebibbia ridiventa, anche per i cittadini invitati a partecipare, un red carpet su cui sfilano i sogni e le speranze. La collezione estiva e invernale “Made in Rebibbia” non racchiude solo le proposte stilistiche del Maestro Sebastiano Di Rienzo, già Presidente e Maestro storico dell’Accademia Nazionale dei Sartori e dell’atelier Ilario Alta Sartoria, ma ricuce ferite e rammenda gli strappi con la società. Manuel è il primo degli allievi ad aver conseguito il diploma. Esce regolarmente dal penitenziario, senza nessun tipo di scorta, per fare tirocinio e lavorare presso la Sartoria Ilario. Dopo più di un anno di lavoro, sarà assunto dalla per aver dimostrato attitudine a svolgere questo lavoro e scommettere nuovamente sul suo futuro. Sfila anche lui con una sua giacca patchwork. Mille punti, piccole frecce di filo blu che tengono insieme tessuti nobili e trame povere. Dinanzi alla Ministra Cartabia, che insieme al Presidente dell’Accademia Gaetano Aloisio, ha consegnato i diplomi, Manuel legge una lettera che rende omaggio alla memoria di Ilario ed alla sua nuova libertà. L’aver compreso che il senso costituzionale della funzione rieducativa della pena è nel riannodare i fili della vita del reo con i valori sociali e facilitare il suo reinserimento nel “tessuto sociale”. Alla sfilata partecipano anche le famiglie dei detenuti allievi, entusiasti di applaudire all’estro dei novelli sartori, al coraggio di sfilare in mezzo ai compagni di cella, agli ospiti ed alle polizia penitenziaria. Scrosci di applausi e mani di bambini che tentano di sfiorare i padri che sorridono felici. Chi non sa cucire sa cucinare e delizia gli ospiti con manicaretti, caffè e tisane galeotte. La serata condotta dai giornalisti Maria Soave e Paolo Cecinelli è ricca di interventi emozionanti. Il ricordo del rumore delle macchine da cucire, anche durante il lockdown, rompe la voce della Direttrice Santoro: “il laboratorio non si è mai fermato. Tra le poche persone esterne ammesse a Rebibbia, arrivava ogni mattina Daniele Piscioneri, Coordinatore del Progetto, con gli occhi incoraggianti. In un momento drammatico in cui in tutta Italia, mancavano i dispositivi di sicurezza, gli allievi hanno cucito più di tremila mascherine per tutti i detenuti e le guardie del penitenziario. Anche l’amministratore delegato di BmW Roma Gianluca Durante si emoziona nel riaffermare la scelta aziendale di impegno socio-giuridico. Lo stupore per la creazione di una linea di Alta Moda Sartoriale a Rebibbia è molta. Per me la risposta più emozionante resta quella che dava il mio caro amico Ilario: il fascino di un uomo emerge dalle sue scelte. Io ho scelto di rivestire di eleganza e cachemire le asperità della vita. Made in Rebibbia è una scelta di lusso etico per consentire ad ognuno di attraversare la vita con un abito a misura dei sui difetti e dei suoi pregi. Pena di morte, solo nel 2007 l’Italia scrive la parola fine di Pasquale Hamel Il Riformista, 2 ottobre 2021 Già immediatamente dopo la liquidazione del duce e l’ascesa del generale Pietro Badoglio al vertice del governo del Paese il dibattito sul mantenimento o meno della pena di morte tornò, prepotentemente, all’ordine del giorno. La decisione in merito, tuttavia, tardò a essere assunta per le notevoli resistenze che erano subito emerse all’interno della compagine governativa. Per superare l’impasse, visto che il governo non decideva, la magistratura adottò motu proprio una sorta di moratoria in attesa che venisse emanata la norma abrogativa. Le resistenze in sede di governo erano motivate dalle preoccupazioni per le conseguenze che la cancellazione della pena capitale potevano avere sulla già precaria condizione dell’ordine pubblico. C’era, tuttavia, da tenere conto dell’idea che l’Italia del dopoguerra dovesse necessariamente voltare pagina rispetto alle scelte del precedente regime e se dunque il fascismo aveva reintrodotto la pena di morte il ritorno della democrazia non poteva sfuggire all’imperativo categorico dell’abolizione. Nonostante fosse convinzione generale che la pena capitale dovesse essere cancellata, il governo Bonomi approvava però una normativa che contraddiceva quest’indirizzo. Si trattava della cosiddetta legge fondamentale n.159 del 27 luglio del 1944 che prevedeva la fucilazione per i gerarchi fascisti e per i collaborazionisti dei nazi-fascisti. Un fatto eccezionale dettato dalla congiuntura che il Paese stava vivendo. E tuttavia, poche settimane dopo, su proposta del democristiano Umberto Tupini - uno dei fautori del ritorno al codice Zanardelli - il 10 agosto 1944 veniva emanato il decreto luogotenenziale n.244 che prevedeva, per tutti i reati per i quali era prevista nel codice penale vigente, la sostituzione della pena capitale con l’ergastolo con l’eccezione dei codici militari e della sopracitata legge 159. Ed arriviamo alla Costituente. Seppure il riferimento alla nobile tradizione giuridico-filosofica abolizionista, che risaliva al Beccaria, fosse argomento prevalente del dibattito alla Costituente, la decisione di dare un taglio netto col passato non fu così semplice. Si temeva, infatti, che una decisione non adeguatamente ponderata accrescesse le difficoltà nell’azione di repressione del crimine. Animarono quella discussione grandi giuristi come Giovanni Leone, Giuseppe Bettiol, Girolamo Bellavista, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Amerigo Crispo, alcuni dei quali, pur affermando in linea di principio la tesi abolizionista, concentrarono la loro attenzione sulla possibilità, in casi eccezionali, di consentirne il ripristino. Ma l’avere accettato il principio che la pena non dovesse rispondere all’idea di vendetta quanto piuttosto tendere alla rieducazione tagliava ogni possibilità di concionare ulteriormente sull’argomento, almeno per quanto riguardava i delitti comuni, tanto da far apparire perfino pleonastico lo stesso quarto comma dell’art. 27 della Costituzione il quale, appunto, disponeva che nel nostro ordinamento “non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari e di guerra”. Con l’entrata in vigore della Costituzione la lunga storia del processo abolizionista non si fermò. Il 4° comma dello stesso articolo 27 continuava infatti a prevedere quell’eccezione che mal si conciliava con il disegno complessivo offerto dall’architettura costituzionale. In forza proprio di quell’inciso i codici militari continuarono legittimamente a prevedere la pena capitale. Si dovette così aspettare fino al 1994 perché con la legge 13 ottobre n. 589 si disponesse anche per i codici militari la commutazione della pena di morte con l’ergastolo. Ma detta norma di abolizione, in assenza della modifica costituzionale, prestava il fianco alla possibilità di reintroduzione della pena capitale. E non era un pericolo peregrino visto che un democratico come Ugo La Malfa, in occasione del rapimento Moro, aveva apertamente parlato di ripristino della pena di morte e che il Movimento sociale aveva addirittura promosso nel 1982 una petizione popolare - firmata perfino dal figlio di Giacomo Matteotti - per la sua reintroduzione nei casi di terrorismo. Per sanare l’aporia si dovette procedere a modificare il dettato del 4° comma dell’art.27 della Costituzione. Infatti la legge costituzionale n°1 del 2007 cancellò dall’art.27 l’inciso che ne consentiva l’applicazione relativamente alle leggi militari e di guerra. In questo lungo e accidentato cammino, conclusosi appunto nel 2007, restava tuttavia la soddisfazione nel sottolineare che, proprio la legislazione italiana con le sue scelte abolizioniste, ancora una volta si poneva all’avanguardia anche in considerazione del fatto che gli ordinamenti delle grandi democrazie europee, Inghilterra e Francia in testa, continuarono ancora per molti decenni, a contemplare nei loro ordinamenti la pena capitale. Il Regno Unito abolì infatti la pena di morte solo il 18 dicembre 1969, mentre in Francia si dovette attendere addirittura il 9 ottobre del 1981. Leggi razziste, ricordiamo cosa furono di Paolo Fallai Corriere della Sera, 2 ottobre 2021 Qualcuno vorrebbe cancellare la parola “razza” dalla Costituzione. Ma il razzismo che andrebbe eliminato dal linguaggio politico e dalle aggressioni sui social. Non l’ha detto per caso. Nel suo intervento al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha scelto cura ogni parola: “Le “leggi razziali” - che dovremmo chiamare “leggi razziste” - hanno aperto una nuova stagione di discriminazioni e violenze. La sospensione e soppressione dei diritti politici e civili”. Razziste, non razziali, come ricordò anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione di una Giornata della Memoria. Razziste perché è l’unico aggettivo che definisce con proprietà la vergogna delle leggi fasciste del 1938. Eppure, dopo aver insanguinato la nostra civiltà, la parola “razza” continua ad essere usata con sconcertante superficialità. Da decenni gli antropologi ripetono che il concetto stesso di “razza” non ha più alcun valore scientifico: gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico. Gianfranco Biondi e Olga Rickards ci hanno scritto un libro fondamentale (L’errore della razza, Carocci, 2011). Nel 2014 l’Assemblea nazionale francese approvò l’eliminazione della parola “razza” dalla Costituzione. Anche Biondi e Rickards scrissero una lettera aperta alle alte cariche dello Stato chiedendo di eliminare il termine dalla Carta e dai documenti amministrativi. La cita l’articolo 3 della Costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Alcuni costituzionalisti hanno espresso perplessità perché nella Carta fondamentale non ci sono equivoci sul tema ed è citata solo per ragioni antidiscriminatorie. Piuttosto il razzismo andrebbe eliminato dal linguaggio politico, dalle aggressioni sui social, dalla violenza con cui si banalizza in modo pericoloso la complessità della nostra società. Ma per ottenere questo, tutta la buona volontà degli antropologi non basta. Milano for future, la ricarica dei “50 mila” per il clima di Roberto Maggioni Il Manifesto, 2 ottobre 2021 I Riemersi dal lungo lockdown di piazza del Covid i giovani di Fridays For Future hanno dimostrato di essere ancora numerosi, determinati e più arrabbiati di prima. Quello di ieri a Milano è stato il corteo più partecipato dall’inizio della pandemia, 30 mila persone, “50 mila” diranno gli attivisti di Fridays dal palco. Davanti, protetta da un cerchio di ragazzi e ragazze che si tengono per mano, Greta Thunberg, l’attivista svedese che ha dato origine al movimento. È lei la più ricercata da fotografi e cameramen, lei così riservata e tranquilla, percorrerà tutto il lungo corteo cantando e ballando insieme alle sue amiche, nessuna concessione ai giornalisti. Another world is necessary è scritto sullo striscione d’apertura, aggiornamento dell’altro mondo possibile che campeggiava 20 anni fa al G8 di Genova. In piazza, partiti da largo Cairoli, c’erano gli studenti delle scuole superiori, la stragrande maggioranza, con qualche fratello maggiore dell’Università. “Quando la smetteranno i governi di investire nelle energie fossili?” chiede Jacopo, 23 anni, universitario milanese. “L’Italia è ancora impegnata nell’estrazione del fossile, non stiamo vedendo cambiamenti” dice. “L’onda verde è più viva che mai, non possiamo fermarci se non ci ascoltano” dice Miriam, quinta liceo. Vicino a lei un cartello con la sagoma del pianeta Terra febbricitante. “Non moriremo in silenzio” è scritto sul cartello a fianco. Sono migliaia i cartelli autoprodotti, molti scritti in inglese. Quello sollevato dalla delegata irlandese alla Youth4Climate, Saoi Ó Chonchobhair, dice che il re è nudo: “The emperor has no clothes”. Un altro dice “Cop 26 one last chance”. E ancora “system change not climate change”. Il percorso è lungo, Greta arriva alla fine del percorso nei pressi del centro congressi MiCo dove si sta svolgendo la Pre Cop26 stremata. A metà percorso, vicino alla stazione Cadorna, gli italiani in testa al corteo iniziano a cantare Bella Ciao, Greta li segue ballando e battendo le mani. Tanto timida giù dal palco, quanto forte e decisa nel discorso che dà la cifra politica della giornata. “I ministri che sono arrivati in questi giorni stanno fingendo di avere soluzioni concrete per la crisi climatica” dice forte dopo aver salutato e ringraziato Milano. “Più aspettiamo e più danni irreversibili creiamo. Ogni giorno senza un’azione per il clima avrà conseguenze gravi”. È sulle azioni concrete che gli attivisti vogliono misurare la credibilità dei governi. Convinti che, è il passaggio più applaudito del discorso a braccio di Greta Thunberg: “Il cambiamento arriverà dalle strade, non dal bla bla bla dei politici”. E ancora: “La speranza siamo noi”. Greta chiede a tutti di continuare la lotta “fino a quando non otterremo quello che chiediamo”. Con lei sul palco altri attivisti internazionali. “Continueremo a scioperare, non staremo zitti ma continueremo a scioperare dando voce a chi non ha voce. Più parliamo più diventiamo forti” dice Vanessa Nakate, ugandese. “Se continuiamo a colpire il pianeta, la situazione in Africa sarà sempre peggiore”. C’è un attivista brasiliano che parla della lotta a difesa dell’Amazzonia, contro il presidente brasiliano Bolsonaro. Dal Messico Ivan dice che non puoi risolvere la crisi climatica se non rompi tutti i meccanismi di oppressione a partire dal capitalismo. La lotta per il clima è lotta alle ingiustizie sociali. Martin, argentino, denuncia che oltre il 50% dei bambini argentini vive nella povertà”. Non chiedono mezze misure i ragazzi e le ragazze del clima, non credono a compromessi possibili. Chiedono alla politica un cambio radicale e la politica dovrà fare i conti con loro ancora per un bel po’. La dimensione internazionale delle giornate milanesi racconta di un movimento davvero globale e in espansione. Oggi molti di loro saranno ancora in piazza qui a Milano per la Global March For Climate Justice che partirà alle 15 da largo Cairoli. Arriveranno manifestanti anche da altre regioni, in particolare dal Veneto con la piattaforma Rise Up 4 Climate Justice. E poi in serata un primo bilancio di chiusura dei lavori della Pre Cop26: quanto i potenti della Terra avranno ascoltato i giovani per il clima? Quante delle loro richieste, come la chiusura delle industrie basate sulle fonti fossili entro il 2030, saranno recepite? Francia. Il “muro della vergona” per allontanare i drogati di crack Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2021 L’uso del derivato della cocaina ormai è dilagante, si contano 40 mila assuntori a Parigi. Il centro di spaccio (e consumo) era nel quartiere periferico di Stalingrad. Ora il governo ha spostato il problema a Pantin, città vicina, dove sono scoppiate le proteste. Per l’Osservatorio sugli stupefacenti “le politiche pubbliche portate avanti finora sono state un fallimento” e la barriera “sposta solo il problema”. Un muro contro la droga è stato alzato tra Parigi e Pantin, alla periferia nord-est. La capitale ha un problema serio con il crack, e da molti anni, ma è tornato sulle pagine dei giornali in questi giorni perché la situazione sembra sfuggire di mano alle autorità. Il centro nevralgico di questi traffici è Stalingrad, quartiere popolare e multi etnico, ormai noto come “Stalincrack”. Fino a qualche settimana fa, trafficanti e consumatori si incontravano nei Jardins d’Eole, un giardinetto pubblico affacciato sui binari del treno che corrono fino alla Gare de l’Est, con un’area giochi per i bambini del quartiere, dove i bimbi ovviamente non giocano più. Centinaia di fumatori ogni giorno vi si ritrovavano per fumarsi un “caillou” (“sassolino”), in riferimento ai cristalli di crack che si fanno sciogliere al calore e di cui si inala il fumo. A giugno, la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha deciso di allontanare i consumatori di crack dal giardino per “restituirlo” ai residenti. Ma è stato peggio, perché i tossicomani, un centinaio o più, si ammucchiavano davanti al parco e nelle strade vicine e i residenti del quartiere, esasperati, non ne potevano più di camminare tra le pipe gettate a terra e di imbattersi in “zombies” a ogni angolo. Lo ha ammesso anche la sindaca: “Stalingrad è un mercato a cielo aperto del crack”. Venerdì scorso, la prefettura di Parigi, su ordine del ministro dell’Interno, Gérard Darmanin, e su richiesta del Comune, ha dunque evacuato la zona, trasferendo i tossicomani di un paio di chilometri, alla periferia nord-est, nella place Auguste-Baronin, uno slargo della Porte de la Villette, lungo il périphérique, la caotica circonvallazione di Parigi, e proprio all’ingresso di Pantin, Comune del dipartimento della Seine-Saint-Denis, già afflitto da povertà e altri guai. In questo punto Parigi e Pantin sono collegate da un sottopasso. Per impedire ai tossicomani di raggiungere la banlieue, un muro di mattoni è stato dunque alzato in poche ore per tappare il tunnel. Ed è diventato subito il “muro della vergogna”, da alcuni paragonato, esagerando, al muro di Berlino. La piazza si è trasformata in un accampamento, con tende e teloni stesi. Il Comune ci ha fatto installare degli orinatoi. Ad andare su tutte le furie sono stati innanzi tutto i responsabili politici e gli abitanti di Pantin, ma anche della vicina Aubervilliers, che non erano stati avvisati, che già si battono contro i traffici nelle loro cité e ora temono pure scontri per il controllo delle zone. Il ministro della Giustizia, Éric Dupont-Moretti, ha assicurato che il muro “è provvisorio” e che sta lavorando a una soluzione “perenne”. Ma intanto gli abitanti di Pantin e Aubervilliers si sono mobilitati sin da mercoledì sera e, insieme a altri collettivi anti-crack di Stalingrad, hanno annunciato una manifestazione comune per domani, 2 ottobre, a Parigi. Il problema del crack a Parigi non è nuovo. Stando ad un rapporto del 2012-2017 dell’OFDT, l’Osservatorio francese delle droghe e delle tossicodipendenze, il crack, un derivato della cocaina, è arrivato in Francia tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90, radicandosi subito nel nord-est di Parigi. Nel 2010 si contavano tra 11.000 e 20.000 consumatori, concentrati in gran parte in Île-de-France. I dealer, i cosiddetti “modous”, che vendono dosi di crack a basso costo all’uscita del metrò, sono per lo più originari di paesi dell’Africa occidentale. Nel 2019 la città di Parigi ha adottato un “plan crack” per il periodo 2019-2021, impegnando più di 3 milioni di euro all’anno, per l’assistenza medico-sociale-psicologica dei consumatori, il sostegno alle associazioni che aiutano i tossicodipendenti e la creazione di alloggi per chi di loro è senza dimora. Ma un altro rapporto del gennaio 2021 dell’OFDT e dell’Inserm, l’istituto nazionale per la salute e la ricerca medica, ha concluso senza appello: “Le politiche pubbliche portate avanti finora, troppo spesso fondate su reazioni puntuali, sono state un fallimento”. Da trent’anni i tossicomani si spostano da un quartiere all’altro della città, passando per Barbès e la Gare du Nord. Si sono stabiliti a Stalingrad nel 2019 dopo lo smantellamento della “collina del crack” di La Chapelle. Limitarsi agli sgomberi dei luoghi dove si consumano i traffici, sulla scia delle allerte sociali o mediatiche, secondo l’OFDT e l’Inserm, “serve solo a spostare il fenomeno”, non a risolverlo. Il risultato è che la situazione non solo persiste, ma peggiora: nel 2019 il numero di consumatori di crack era stimato a più di 40.000. Nel frattempo le varie amministrazioni si scaricano tra loro le responsabilità. A sette mesi dalle presidenziali, Valérie Pecresse, presidente della regione d’Ile-de-France, e candidata della destra Les Républicains all’Eliseo, ha attaccato il governo e accusato la Hidalgo, candidata anche lei, di voler respingere la povertà dal centro verso le banlieue: “La Seine-Saint-Denis non è un cassonetto. Non ci sono possono gettare addosso tutti i problemi della Francia e di Parigi”, ha detto Pécresse, proponendo l’apertura di un centro di disintossicazione nella regione. Secondo il presidente del Consiglio dipartimentale della Seine-Saint-Denis, Stéphane Troussel, sta allo Stato “trovare delle soluzioni”. Intanto il 15 settembre, Anne Hidalgo ha ottenuto dal governo il via libera per aprire delle “salles de shoot”, dei luoghi per accogliere giorno e notte i consumatori e aiutarli a uscire dalla dipendenza. Soluzioni controverse che dividono responsabili politici locali e associazioni e che non sono sempre ben accolte dagli abitanti dei quartieri interessati. È stato così a Pelleport, quartiere nell’est di Parigi, dove i residenti si sono mobilitati e sono riusciti a ottenere la sospensione dell’apertura di una “stanza del fumo” che era prevista vicino a scuole e asili. “Frontiera dura” contro i migranti, la Polonia prolunga l’emergenza al confine con la Bielorussia di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 2 ottobre 2021 Il governo vuole prendere tempo per completare l’installazione alla frontiera di circa 250 chilometri di “concertina”, un tipo di filo spinato con lame a spirale doppia. Giornalisti e operatori umanitari devono rimanere fuori. La Polonia mantiene la “frontiera dura” con il vicino bielorusso prolungando lo stato di emergenza per arginare i migranti provenienti dal Medio Oriente. Il Sejm, la camera bassa del parlamento, ha votato giovedì per l’estensione dello stato di emergenza di altri 60 giorni nei voivodati di Lublino e della Podlachia. Nessuna sorpresa nelle dichiarazioni del ministro dell’Interno polacco, Mariusz Kaminski il giorno prima del voto: “La frontiera deve essere “dura”. Non possiamo cedere. Non lasceremo che le nostre frontiere siano violate”. Il partito della destra populista Diritto e giustizia (Pis) e i suoi alleati hanno deciso di fare tutto da sé: niente corridoio umanitario come richiesto dalla chiesa polacca, nessun coinvolgimento dell’agenzia europea Frontex nella gestione di una situazione che il governo vuole far passare come un’”emergenza”, e neanche i giornalisti. A nulla è valso, almeno fino ad ora, l’appello lanciato dalla “banda dei trenta” un gruppo di media polacchi, coinvolti nella campagna Dziennikarze na granicy (Giornalisti alla frontiera) ai quali non è consentito avvicinarsi a meno di tre chilometri di distanza dalle zone colpite dal provvedimento. Il governo polacco sta operando su due fronti in contemporanea; da una parte impedire ai media di documentare la campagna di push back dei migranti in Bielorussia; dall’altra, puntare tutto su una narrazione tesa a sottolineare la necessità di tutelare la Polonia dalle “provocazioni” del paese vicino: “Le persone che provano a forzare le nostre frontiere sono invitate dal regime di Lukashenko e vengono sfruttate come arma a scopi politici”, ha aggiunto Kaminski. Questa settimana sono circolate alcune immagini di minorenni in condizioni disperate nei dintorni del villaggio di Micha?ów, dal lato polacco, trattati poi dagli agenti di frontiera “in linea con le disposizioni in vigore”, ovvero oggetto di respingimento. L’opposizione ha provato a giocarsi la carta dei “bambini di Micha?ów” durante il dibattito in aula ma non è servito a nulla: “Queste foto sono il vostro attimo di vergogna. Dovete dimostrare che il potere non sia venuto a conoscenza di nessun abuso”, ha dichiarato Krzysztof Gawkowski, esponente del club parlamentare Lewica (Sinistra). Con il prolungamento dello stato di emergenza il governo vuole prendere tempo per completare l’installazione alla frontiera di circa 250 chilometri di “concertina”, un tipo di filo spinato con lame a spirale doppia. In verità, a medio termine, il governo punta a costruire una barriera di separazione lungo tutto il confine con la Bielorussia. Stati Uniti. Rikers Island, la prigione-lager di New York che i dem tentano di chiudere Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2021 C’è un angolo di inferno sulla Terra che si chiama Rikers Island. Si tratta di una prigione su una piccola isola a una manciata di chilometri in linea d’aria da Manhattan, sull’East River, tra il Queens e il Bronx. Ospita circa 6000 detenuti e pur potendone accettare fino a 7300, il continuo assenteismo di chi ci lavora rende molto dura la gestione di questi prigionieri. Per lo più si tratta di sospettati che non possono permettersi la cauzione e sono in attesa di giudizio, mentre in piccola parte ci sono anche persone che devono scontare condanne brevi. Tutti reclusi in una prigione dove da anni vengono denunciate violenze e trattamenti disumani, e dove la situazione negli ultimi mesi pare essere ulteriormente degenerata. I detenuti, che lamentano la mancanza di accesso a cibo, acqua e cure, sia mentali che fisiche, vivono tra la sporcizia e le loro feci. Inquietante anche il numero dei decessi collegabili alle condizioni di vita della prigione: solo quest’anno sono già dodici, metà dei quali suicidi. Lunedì il sindaco Bill De Blasio si è recato per la prima volta durante il suo secondo mandato a visitare la struttura. È tra coloro che ne promuovono la chiusura, già prevista per il 2027, dopo 95 anni dalla sua apertura. Ma a quattro mesi dalla fine del suo termine, per De Blasio quella di Rikers Island forse non è una priorità. La visita di due ore del sindaco, senza incontrare i detenuti, è stata motivata più che altro dal grido di allarme lanciato da tre deputati democratici, tra cui Alexandria Ocasio-Cortez, che dopo un tour all’interno del complesso hanno chiesto l’intervento delle forze federali per fare fronte a quella che definiscono una crisi umanitaria e sanitaria (qui le infezioni da covid-19 sono il doppio rispetto alla media della città) che New York City non sarebbe in grado di gestire. Uno dei deputati che ha visitato la prigione, Ritchie Torres, è il primo firmatario della lettera di denuncia, poi sottoscritta da tutta la delegazione democratica, in cui si chiede al presidente Joe Biden, al procuratore generale Merrick Garland e ai direttori dell’Ufficio federale per le prigioni e della Divisione diritti civili al Dipartimento di Giustizia di aprire subito un’inchiesta sulle condizioni di detenzione dei prigionieri nell’istituto. Una mossa che ha costretto De Blasio sulla difensiva. Il primo cittadino si è affrettato infatti a dichiarare in una conferenza stampa tenutasi poco prima della sua visita, che la città ha da poco messo in atto una serie di misure che hanno già avuto un impatto positivo sulla qualità della vita nella prigione. Tra queste, la creazione di nuove strutture per far fronte all’arrivo di nuovi detenuti e l’eliminazione del triplo turno per il personale chiamato a coprire i vuoti degli agenti penitenziari ormai tristemente noti per il loro assenteismo a Rikers Island. Il candidato democratico che probabilmente sostituirà De Blasio dopo le elezioni del 2 novembre, Eric Adams, ha visitato Rikers Island a inizio settembre e si è già detto a favore della sua chiusura, oltre a chiarire che non approva il piano per la costruzione di nuove strutture di detenzione in altre località, proponendo un proprio progetto per la costruzione di unità dedicate unicamente a prigionieri con problemi mentali e abuso di sostanze stupefacenti. Sul versante opposto si è subito schierato invece il suo avversario, il repubblicano, Curtis Sliwa, che si oppone alla chiusura della prigione e vuole anzi moltiplicare le strutture detentive all’interno dell’isola. Comunque sia, chiunque si troverà a governare la città, non potrà fare a meno di fare i conti con questo vergognoso angolo d’inferno a due passi da uno dei centri urbani più famosi e ammirati nel mondo. Chi invece è finalmente libera dalla sua invisibile gabbia dorata è la cantante Britney Spears. Qualche settimana fa aveva fatto notizia l’annuncio del padre Jamie che diceva di essere pronto ad abbandonare il ruolo di suo tutore legale, quando però “fosse stata l’ora”. Precisazione non da poco e che di fatto non cambiava nulla nella vita della 39enne pop-star. Mercoledì invece un giudice di Los Angeles ha deciso che il momento di farsi da parte per Jamie Spears è proprio ora. Britney sarà ancora, anche se temporaneamente, sotto la custodia di qualcuno, in questo caso un ufficiale statale della California, ma pare che proprio questi, insieme all’avvocato ingaggiato dalla cantante la scorsa estate, sia deciso a fare luce sulle presunte illegalità commesse dal padre e dal suo team legale durante i 13 anni di custodia e controllo totale sulla vita e carriera della figlia. Iraq. La disperazione degli sfollati afghani: “Qui rischiamo di morire di fame” di Barbara Schiavulli La Repubblica, 2 ottobre 2021 L’Onu: entro un anno il 97% della popolazione rischia di essere sotto la soglia della povertà. “Non c’è più tempo, servono aiuti subito”. Maryam si sistema il velo, aspetta diligentemente il suo turno in una lunga fila divisa tra maschi e femmine dentro a un capannone cocente. Mostra i documenti agli operatori del World Food Program al Centro di distribuzione di Herat, intinge il dito nell’inchiostro indelebile che indica che ha preso la sua razione e poi si affretta verso il pacco che darà un po’ di sollievo alla sua famiglia. 50 kg di farina, 8,5 di lenticchie, quattro bottiglie di olio e un kg di sale. Le durerà un mese e mezzo se sarà abbastanza brava a razionare. Ha sei figli, un marito e una nipote. “Ormai tutto è caro, 80 euro di affitto, il prezzo del gas per cucinare è raddoppiato, abbiamo venduto i mobili, tappeti, guardami, ho dovuto prendere le scarpe in prestito per venire qui”, ci dice con il viso rigato da lacrime che non riesce a controllare. “Non ho più niente, mi restano solo le lacrime per piangere”. Suo marito ha perso il lavoro con l’arrivo dei talebani, come decine di migliaia di persone in Afghanistan. Ha anche perso un figlio e il genero. Secondo le Nazioni Unite il 97 per cento della popolazione rischia di essere sotto la soglia della povertà entro il 2022. La mancanza di circolazione di denaro per la chiusura delle banche, la sospensione dei fondi internazionali, l’aumento dei prezzi, il cambio di regime e quello climatico stanno facendo nascere una nuova classe di affamati. Due milioni di minori soffrono di malnutrizione, il 95% delle famiglie non ha abbastanza da mangiare. 14 milioni di persone vivono delle razioni del WFP che continua a lavorare nel Paese avendo deciso di non andarsene, ma ogni giorno affronta una serrata negoziazione con i talebani per poter aiutare la popolazione. “Abbiamo bisogno di 200 milioni di dollari e ne abbiamo bisogno oggi”, dice Mary Ellen Mc Groarty, direttrice del WFP in Afghanistan in una visita congiunta con l’Unicef ad Herat. “Dobbiamo far arrivare il cibo alla gente per prima che arrivi la neve”. I Paesi donatori due settimane fa, hanno promesso in un summit a Ginevra, più di un miliardo di dollari, ma “servono fatti, gli afghani rischiano letteralmente di morire di fame. Non c’è più tempo”. Zamina ha 22 anni e 5 figli. La dottoressa in una clinica mobile alla periferia della città le spiega che deve subito portare il figlio di 10 mesi all’ospedale. Pesa 4 chili in meno di quello che dovrebbe, si tratta di malnutrizione acuta, rischia danni fisici e mentali se non si interverrà subito. Anche lei verrà assistita perché se le madri non mangiano abbastanza, non possono nutrire i figli. “Come posso andare in ospedale? Non ho i soldi per mangiare, figuriamoci per le medicine”, mormora rivestendo uno scricciolo troppo magro e silenzioso per la sua età. Sembra un girone dell’inferno, la zona intorno alla clinica, dove famiglie che vengono da tutta la provincia scappate dalla guerra e dalla siccità hanno trovato rifugio nei campi sfollati. Costruiti su terra gialla, vivono in cubi di mattoni e fango che si snodano in un labirinto di casupole senza finestre. In ogni ambiente buio vivono tra le 5 e le dieci persone, senza pavimento, acqua, elettricità, senza bagni. Sono 550 mila gli sfollati interni in Afghanistan. “Non basta avere i soldi per aiutare, dobbiamo anche capire come contrastare il cambiamento climatico. Il collasso economico ha fatto precipitare la situazione, sta costringendo la gente a muoversi. Mi appello alla comunità internazionale per queste persone che a causa della lotteria della vita, si ritrovano a lottare per sopravvivere”, incalza Mc Groarty. Abdul Rafur, 60 anni, ha tre figli, e gli restano due pezzi di pane, ci dice mostrando il suo cubo di fango incredibilmente ordinato, i piccoli giocano fuori nello spiazzo. “I bambini mi aiutano a raccogliere la plastica - sospira raccontando che viveva a circa 160 km da Herat, ma la siccità ha distrutto il suo raccolto. Mia moglie, aveva 31 anni, è morta di parto. E ora sono solo, circondato da persone che anche non hanno niente, speravo che i miei figli studiassero per non essere come me”. Il divieto dei talebani all’istruzione per le ragazze oltre le medie li sgomenta. Fatima, 30 anni, è rimasta ferita durante i combattimenti nella città di Baghdis, le è caduto un muro addosso, si è rotta una gamba che non è mai tornata a posto non avendo i soldi per andare in ospedale. Le 4 figlie giocano tra i mattoni delle casupole in quel campo che ospita più di 10 mila famiglie. “Tra dieci giorni saremo tutte morte, non abbiamo niente, neanche la speranza che una delle mie figlie possa studiare e lavorare”. Dall’altra parte della città in un’azienda che sembra uscita da una navicella spaziale, sacchi di grano che poi diventeranno farina, vengono sfornati a ripetizione per poi essere caricati sui camion del WFP e distribuiti alla gente, 29mila ad Herat nel solo mese di settembre. Si punta a fare di più, ma il direttore avverte che con le banche chiuse non riesce a pagare gli stipendi e che nel giro di due mesi dovrà fermare la produzione. “L’Italia è stata qui tanti anni, con i vostri soldati avete rischiato la vita per noi - dice Daud, uno sfollato che ha 10 figli, due dei quali mostrano gravi sintomi di dimagrimento - non abbandonateci”.