Missive tra legali e detenuti. L’ingiusta censura del 41 bis di Guido Camera* Il Riformista, 29 ottobre 2021 Il primo dicembre la Corte costituzionale è chiamata a decidere se è illegittima la parte della legge che vieta la corrispondenza tra difensore e prigioniero e lede lo Stato di diritto. Il 1° dicembre la Corte costituzionale è chiamata a decidere se una parte dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario - cioè la norma che disciplina il regime di detenzione speciale del c.d. “carcere duro” - è compatibile con i principi costituzionali che tutelano il diritto di difesa e il diritto ad avere un giusto processo. ItaliaStatoDiDiritto, come già aveva fatto in relazione alle questioni di costituzionalità sollevate sulla disciplina emergenziale della sospensione della prescrizione, ha deciso di produrre a sostegno della fondatezza della questione una propria opinione scritta alla Consulta (integralmente scaricabile su www. italiastatodidiritto.it), che è stata ammessa nel giudizio costituzionale con decreto del Presidente della Corte dello scorso 21 ottobre. Come noto, il regime del “carcere duro” colpisce i detenuti il cui legame con le associazioni criminali di appartenenza sia ritenuto tale da non poter essere spezzato senza il ricorso a misure speciali che riducano drasticamente le occasioni di contatto con l’esterno. Tra le numerose limitazioni vi è anche la censura della corrispondenza tra il detenuto e il proprio difensore. Questa è la parte dell’articolo 41 bis della cui costituzionalità è chiamata a decidere la Consulta il 1° dicembre. La questione di legittimità è stata sollevata dalla 1 sezione penale della Corte di Cassazione lo scorso 19 marzo: l’ordinanza di rimessione ha efficacemente sviluppato il proprio ragionamento muovendo dai principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 143/2013, che ha riconosciuto “il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata, connaturato alla difesa tecnica che rientra nella garanzia ex art. 24 Cost. ed appartiene al novero dei requisiti basilari dell’equo processo”. In passato, la Corte costituzionale ha ricordato che detto diritto è inviolabile e deve potersi esplicare non solo in un procedimento già instaurato, ma altresì in relazione a qualsiasi possibile procedimento suscettibile di essere instaurato per la tutela delle posizioni garantite, e dunque anche in relazione alla necessità di preventiva conoscenza e valutazione - tecnicamente assistita - degli istituti e rimedi apprestati allo scopo dall’ordinamento (sent. n. 212/1997). Il passaggio è cruciale, visto che il carcere duro può essere applicato sia a detenuti in attesa di giudizio, sia a quelli che hanno riportato condanne definitive. ItaliaStatoDiDiritto, nella propria opinione scritta, ha chiesto che venga dichiarata illegittima la norma censurata perché la grave compressione dei diritti costituzionali che essa determina è fondata sulla presunzione che il difensore sia un soggetto potenzialmente pericoloso. Si tratta di una presunzione inaccettabile, visto che l’esercizio della professione forense è l’unica garanzia per l’effettiva tutela del diritto costituzionale di difesa; una professione regolata da precise norme deontologiche, nonché esposta a gravi e specifiche sanzioni penali, come il favoreggiamento. La censura della corrispondenza con il difensore, peraltro, non riguarda altre figure non dotate delle stringenti prescrizioni deontologiche e requisiti di professionalità della categoria forense: il riferimento, in particolare, va ai “membri del Parlamento”, per i quali il visto di censura non opera. Pur riconoscendo l’alto ruolo di controllo rispetto al trattamento dei diritti umani in ambito penitenziario che possono avere i parlamentari, va osservato che non si può aprioristicamente escludere che ci possa essere un uso distorto, nel singolo caso, della deroga al visto di censura. Inoltre, la corrispondenza tra il detenuto e il parlamentare non è preordinata all’esercizio della difesa tecnica, nel cui contesto, come visto, la confidenzialità delle informazioni scambiate tra avvocato e parte assistita in ordine alle strategie processuali è condizione essenziale perché si possa compiutamente dire garantito il diritto di difesa all’interno del giusto processo previsto dalla legge. In definitiva, la presunzione assoluta di pericolosità dell’esercizio della funzione difensiva forense che caratterizza il visto di censura previsto dall’articolo 41 bis è una manifestazione distonica rispetto allo statuto delle garanzie costituzionali, che non può essere in alcun modo giustificata, in una prospettiva di ragionevole bilanciamento tra il diritto di difesa e altri interessi contrapposti di pari rilevanza costituzionale, anche se legati alla protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità organizzata. Manifestazione distonica che - tra le altre cose - mortifica la valenza solenne del giuramento forense, in forza del quale tutti i nuovi avvocati si impegnano “ad osservare con lealtà, onore, e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”. *Presidente di ItaliaStatoDiDiritto Carceri, durante pandemia 29 detenuti laureati, 1.034 iscritti ansa.it, 29 ottobre 2021 Ventuno degli studenti universitari sono detenuti al 41 bis, 355 in alta sicurezza. Tasse agevolate e libri on line per favorire gli studi. La pandemia non ha fermato gli studi universitari nelle carceri. Più di mille gli iscritti nell’anno accademico 2020-2021, anche detenuti in regime di alta sicurezza o al 41 bis. E una trentina di loro ha tagliato il traguardo della laurea. Secondo i dati di un monitoraggio della Conferenza Nazionale Universitaria Poli Penitenziari (Cnupp) sono esattamente 1.034 gli studenti universitari iscritti (970 uomini e 64 donne) ai corsi organizzati da 32 Università e che coinvolgono 146 Dipartimenti: 925 sono detenuti in 82 istituti penitenziari e 109 sono invece impegnati nel lavoro esterno o in esecuzione penale esterna. Fra gli studenti detenuti, 355 sono in regime di alta sicurezza e 21 sottoposti al 41 bis, il “carcere duro” per i reati più gravi, a partire da mafia e terrorismo. Per quanto riguarda i laureati sono in tutto 29: 23 hanno concluso un corso triennale, 6 un corso magistrale o a ciclo unico. Sono i corsi triennali i più gettonati: li ha scelti l’87% degli iscritti (897 studenti detenuti), mentre il 13% (137) ha preferito invece i corsi più lunghi. “Fra tutte le aree del trattamento dei detenuti, il settore della formazione universitaria è quello che ha resistito meglio all’impatto della pandemia” sottolinea con soddisfazione Gianfranco De Gesu, direttore generale dei detenuti al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E i numeri sono destinati a salire, sottolinea l’articolo, sia per la ripresa dei corsi in presenza all’interno degli istituti sia soprattutto per effetto delle linee guida, elaborate da Dap e Cnupp e inviate agli istituti penitenziari, per migliorare la collaborazione fra carcere e Università e garantire ai detenuti in maniera più efficace il diritto allo studio. Tasse agevolate per favorire l’iscrizione universitaria dei detenuti; attività didattiche, di tutoraggio e di sostegno anche a distanza nelle carceri; e la fornitura di libri e materiali didattici, in stampa e in formato digitale. Si parla anche di questo nelle linee guida elaborate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari e a cui dovranno uniformarsi le convenzioni o i protocolli d’intesa che saranno sottoscritti fra atenei e direzioni degli istituti. Come riferisce un articolo pubblicato da Gnewsonline, il quotidiano telematico del ministero della Giustizia, sono previsti anche una serie di impegni a carico delle singole università aderenti alla Cnupp e del Dap. Per agevolare gli studi, il Dipartimento favorirà il trasferimento di studenti detenuti oppure prolungherà sino alla fine del corso la permanenza nell’istituto dove il percorso formativo ha avuto inizio, salve improrogabili esigenze di sicurezza. Nei penitenziari con numerosi studenti iscritti a corsi universitari a condizione che la situazione logistico-strutturale lo consenta, saranno inoltre costituite una o più sezioni destinate a ospitarli, dove possibile, anche in stanze di pernottamento individuali o da condividere con altri studenti detenuti. Sarà inoltre implementata la connessione all’interno delle carceri, per agevolare i contatti fra studenti e docenti o tutor, ma anche lo svolgimento in modalità digitale di lezioni, esami, colloqui di orientamento, incontri di preparazione e pratiche amministrative. Tasse universitarie agevolate e libri on line per aiutare gli studenti detenuti di Claudio Tucci Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2021 Le agevolazioni previste dalle nuove linee guida elaborate dal Dap e dalla Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari. Tasse agevolate per favorire l’iscrizione universitaria dei detenuti; attività didattiche, di tutoraggio e di sostegno anche a distanza nelle carceri; e la fornitura di libri e materiali didattici, in stampa e in formato digitale. Si parla anche di questo nelle linee guida elaborate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e della Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp) e a cui dovranno uniformarsi le convenzioni o i protocolli d’intesa che saranno sottoscritti fra atenei e direzioni degli istituti. Come riferisce un articolo pubblicato da Gnewsonline, il quotidiano telematico del ministero della Giustizia, sono previsti anche una serie di impegni a carico delle singole università aderenti alla Cnupp e del Dap. Le agevolazioni - Per agevolare gli studi, il Dipartimento favorirà il trasferimento di studenti detenuti oppure prolungherà sino alla fine del corso la permanenza nell’istituto dove il percorso formativo ha avuto inizio, salve improrogabili esigenze di sicurezza. Nei penitenziari con numerosi studenti iscritti a corsi universitari a condizione che la situazione logistico-strutturale lo consenta, saranno inoltre costituite una o più sezioni destinate a ospitarli, dove possibile, anche in stanze di pernottamento individuali o da condividere con altri studenti detenuti. La digitalizzazione - Sarà inoltre implementata la connessione all’interno delle carceri, per agevolare i contatti fra studenti e docenti o tutor, ma anche lo svolgimento in modalità digitale di lezioni, esami, colloqui di orientamento, incontri di preparazione e pratiche amministrative. La Cartabia è troppo brava, e Davigo si arrabbia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 29 ottobre 2021 Pare proprio il dialogo impossibile, quello tra Marta Cartabia e Piercamillo Davigo. Lei è quella che, da giudice della Corte Costituzionale, fece il “viaggio nelle carceri” auspicandone il minor possibile ricorso. Lui quello che da pubblico ministero contribuì a riempirle soprattutto di “non colpevoli” in attesa di giudizio. Dialogo impossibile, pure a distanza, pure lui ci prova e ci riprova. Non per discutere, ma per rimproverare. Chieda al Dap i numeri giusti sulla custodia in carcere, scrive sgarbatamente alla ministra, al termine del suo solito scritto sul quotidiano di famiglia. La famiglia delle toghe, ovvio. La ministra Marta Cartabia è impegnata su molti progetti, la cui realizzazione è in itinere, non ultima la riforma del Csm. Che è fondamentale anche perché coinvolge la cultura dei magistrati. I quali - come lei stessa ha ricordato di recente, e insieme a lei un po’ tutti, spesso per dovere più che per convincimento - nella maggior parte dei casi sono “laboriosi, coscienziosi e dediti al loro compito”. Manca un “amen” e le toghe sono seppellite. Perché a questo tipo di giaculatoria segue sempre un “però”. E il “però” della ministra, per come lo ha pronunciato nei giorni scorsi, intervenendo a due diversi appuntamenti, è grande e impegnativo: “Ci vogliono le necessarie riforme, ma soprattutto la rigenerazione che attinge a un sostrato culturale”. Vasto programma, vien da dire. Ma è un pilastro, se supponiamo che in Italia i Davigo siano tanti e che il problema culturale non sia solo un fatto generazionale in via di superamento con i pensionamenti. Vien da chiedersi: ma questi due illustri personaggi hanno fatto le stesse scuole, lo stesso percorso di laurea, il medesimo concorso? La stessa domanda che molti giuristi si posero agli inizi degli anni novanta, mentre, dopo la riforma del codice, iniziavano i processi penali con il sistema accusatorio. E si videro le differenze. C’erano quelli come Giovanni Falcone che, pur avendo costruito il maxiprocesso (che però era iniziato prima), era molto favorevole al nuovo rito e auspicava la separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa. E poi c’erano tutti gli altri a fare resistenza. Il legislatore non fu da meno. Per questo la ministra Cartabia ha messo un punto fermo: “Il potere di punire è tanto terribile quanto necessario. Ma è un potere che ha preso dimensioni esorbitanti”. Non ha detto “arrestare” o “punire con il carcere”. E nel suo definire “esorbitante” la misura assunta dalla sanzione, è proprio di privazione della libertà, di galera che sta parlando. Poi, la sua sintesi: “troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere”. C’è troppo di tutto, dice. E lo precisa, lo ha ben definito nel suo programma di misure alternative, di messa alla prova, di svuotamento delle carceri senza che si rinunci all’applicazione della pena. Si preoccupa soprattutto di quelle porte girevoli che portano soprattutto ragazzi giovani e magari incensurati a cadere in qualche girone per periodi troppo brevi per la rieducazione ma sufficienti per la contaminazione. Per non parlare dell’eccesso di carcerazione preventiva. Il dottor Davigo pare non capire. Si mette in cattedra, forse perché la guardasigilli è una donna, forse perché ha vent’anni meno di lui. O forse perché, dai tempi in cui era considerato il più preparato del pool Mani Pulite, gli viene spontaneo considerarsi “oltre”, per non dire “sopra”. Del resto, non era lui uno dei quattro che sfidarono in tv il governo Berlusconi dopo l’emanazione del “decreto Biondi”? Vinse allora e molte altre volte. Forse per questo suo passato ai vertici del mondo, oggi il dottor Davigo si permette di dire che il rimedio contro un eccesso di proliferazione legislativa è semplice: basta farne di meno. Certo, per i reazionari ogni riforma comporta un pericolo per la propria tranquillità. O per il proprio potere? E altrettanto sbrigativo è rispetto all’eccessivo numero di processi: si è depenalizzato già tanto, di più non si può fare. E mai lo sfiora la constatazione del fatto che c’è un imbroglio che si chiama obbligatorietà dell’azione penale e che non ci sono incentivi sufficienti all’applicazione dei riti alternativi, che invece sono la stragrande maggioranza delle soluzioni nei Paesi anglosassoni. Così finisce solo per concentrarsi sul numero dei carcerati, snocciolando cifre su cifre per dimostrare che in Italia tutto sommato ci sono meno detenuti che altrove in Europa. Proprio non pare capire che la ministra Cartabia, anche nel raccontare che ha incontrato associazioni di volontariato disposte ad accogliere fino a novemila persone per dare un’alternativa alla galera, non sta dicendo che i nostri istituti di pena sono sovraffollati. Sta indicando alternative al carcere, sta dicendo che la pena non deve necessariamente consistere nelle manette. Cosa inconcepibile per le toghe come Davigo. Il problema è: quante sono? Magistratura. La Cartabia ignora l’”autogoverno” di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2021 Il ministro ritiene “una bella idea” che i magistrati non siano giudicati dal proprio consiglio superiore come dice la Costituzione, ma da un tribunale esterno creato ad hoc. Secondo il quotidiano Repubblica del 26 ottobre, a fronte della proposta del deputato del Partito democratico Walter Verini di introdurre una Corte disciplinare competente a giudicare gli illeciti di tutte le magistrature, il ministro della Giustizia Marta Cartabia avrebbe commentato: “Sarebbe un bel segnale”. Proviamo a capire di che si tratta. Anzitutto quante sono le magistrature in Italia? Sono cinque: la magistratura ordinaria, quella amministrativa (T.A.R. e Consiglio di Stato), quella contabile (Corte dei conti), quella militare e quella tributaria (quest’ultima composta da giudici part time). La Costituzione della Repubblica tratta solo dell’assetto disciplinare dei magistrati ordinari, mentre per le altre magistrature questo è previsto da leggi ordinarie. La Costituzione, nell’art. 105, stabilisce che spettano al Consiglio superiore della magistratura (C.S.M), tra l’altro, “i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati”. Per le altre magistrature leggi ordinarie prevedono analoga competenza per i Consigli di presidenza istituiti per ciascuna di esse. Solo per la magistratura ordinaria e per quella militare il procedimento disciplinare è giurisdizionale, cioè comporta la pronunzia di sentenze (in taluni casi ordinanze) ricorribili innanzi alle Sezioni Unite della Corte suprema di Cassazione. Per le altre magistrature il procedimento disciplinare è amministrativo e si conclude con un atto amministrativo impugnabile davanti al giudice amministrativo. Quindi introdurre una Corte disciplinare unica per i procedimenti disciplinari relativi a tutte le magistrature implica da un lato la modifica della Costituzione della Repubblica (per la magistratura ordinaria), dall’altro la trasformazione del procedimento disciplinare amministrativo previsto per le altre magistrature (tranne che per quella militare che ha un disciplinare simile a quello della magistratura ordinaria) in uno giurisdizionale. La prima domanda da farsi è quale scopo di vorrebbe perseguire con una riforma costituzionale. Forse si vogliono tutelare di più le altre magistrature? Non credo. Può essere che ci si immagini di potere ottenere una maggiore severità verso le magistrature ordinaria e militare? Se è questo il fine, è opportuno verificare se e quanto è severo il procedimento disciplinare per i magistrati ordinari (per quelli militari il loro ridotto numero non consente valutazioni statistiche apprezzabili). Nel dicembre 2011 partecipai a un incontro organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura compendiato in uno dei Quaderni del C.S.M. (anno 2012 n. 158) dal titolo “Riformare il giudice disciplinare dei magistrati”. In quell’occasione indicai i dati dei procedimenti che avevo ottenuto dalla Procura generale della Corte suprema di Cassazione per l’anno 2010 e per i primi 11 mesi dell’anno 2011. Devo premettere che l’attività disciplinare della Procura generale si articola in due fasi; una predisciplinare e una disciplinare. Per quanto riguarda la fase predisciplinare i dati, impressionanti, vanno considerati alla luce del numero di magistrati ordinari realmente il servizio, che erano circa 9000. La Procura generale presso la Corte suprema di Cassazione aveva aperto nell’anno 2010 1382 procedimenti (su 9000 magistrati!); nei primi 11 mesi del 2011 ne erano stati aperti 1622. Di questi ultimi ne erano stati archiviati 763, 47 erano stati riuniti e ne risultavano pendenti 774. Questo significa che in media ogni magistrato ordinario può essere, una volta ogni cinque anni, sottoposto quantomeno a un procedimento predisciplinare, ricevere una richiesta di informazioni o di chiarimenti e quindi ricercare atti di processi trattati, scrivere relazione e soprattutto preoccuparsi. Se da questi numeri passiamo a quelli (per fortuna non così impressionanti) delle azioni disciplinari promosse, nell’anno 2010 erano state esercitate 157 azioni disciplinari di cui 101 dal procuratore generale, 54 dal ministro, 2 da entrambi, con quindi una lieve sovrapposizione. Nei primi 11 mesi dell’anno 2011 erano state promosse 127 azioni di cui 88 da parte del procuratore generale e 39 da parte del ministro. Le sanzioni inflitte ai magistrati italiani erano decisamente più numerose di quelle inflitte a magistrati di altri Stati. Secondo i dati elaborati dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (che mette a confronto 47 Stati membri), l’Italia sia nel rapporto del 2008 sia nel rapporto del 2010 era al secondo posto dopo la Russia. Il rapporto Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia) 2008 segnalava 7,5 sanzioni inflitte per anno ogni 1000 magistrati in Italia, contro 0,5 della Francia: 15 volte di più! Il dato è equivoco perché si potrebbe dire: “Certo, siete i magistrati più cattivi d’Europa, vi puniscono di più”. Tutto può essere. Però quando mi confronto con colleghi stranieri non ho affatto la sensazione che i magistrati italiani siano i più cattivi d’Europa né dal punto di vista della correttezza e della professionalità né, meno che mai, dal punto di vista del carico di lavoro smaltito. Ma il dato che più colpisce è che un terzo delle sentenze di non luogo a procedere sono pronunziate per cessata appartenenza all’ordine disciplinare. Ciò vuol dire che molti magistrati sottoposti a procedimento disciplinare si dimettono, il che significa che il giudice disciplinare è un giudice temuto. Questo cancella la favola che viene raccontata di una giustizia domestica, comprensiva, morbida. Quasi sempre sanzioni superiori all’ammonimento hanno conseguenze sulle valutazioni di professionalità e quindi sulla progressione economica. In nessuna altra magistratura italiana vi è lo stesso rigore e neppure un tale rigore è riscontrabile in altre pubbliche amministrazioni. Rigore doveroso, data la delicatezza delle funzioni svolte dai magistrati. Allora, con la proposta di introdurre la Corte disciplinare, si persegue lo scopo di incrementare il rigore disciplinare verso le altre magistrature? Anche questo mi pare improbabile. La spiegazione che rimane è quella di tentare, attraverso uno strumento disciplinare esterno al C.S.M., di limitare l’indipendenza della magistratura ordinaria. Infatti in una siffatta Corte dovrebbero esservi rappresentanze di altre magistrature, le quali non solo non hanno le stesse garanzie, ma hanno anche una parte dei componenti nominati dal governo. Allora, ricordando che l’art. 104 comma 1 della Costituzione (che riguarda la sola magistratura ordinaria) afferma: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, a me non sembra affatto un bel segnale, checché ne dica il ministro della Giustizia. Toghe, valutazioni scandalo. Ma Cartabia non tocca nulla di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 29 ottobre 2021 Rispondendo all’interrogazione di Costa, la ministra ha indicato che i giudizi positivi del Csm sono il 92%. Ma se si guardano anche altri dati la situazione peggiora. Nessuna riforma è prevista. Giorni fa alcuni giornali, tra cui questo, hanno dato notizia che la Ministra Cartabia, in risposta ad una interrogazione dell’On. Costa, ha fornito i dati relativi alle valutazioni di professionalità dei nostri magistrati. La ministra ha indicato che le valutazioni positive negli ultimi anni sono state 7394 su 7453, cioè il 92% del totale. Sono dati in linea con quelli da me ripetutamente pubblicati sulle valutazioni professionalità dei magistrati a partire dal 1966 (in certi periodi le valutazioni positive sono state anche più elevate: oltre il 95%). Per quanto i dati forniti dalla Ministra Cartabia all’On Costa siano già di per sé rilevanti nell’indicare la drammatica assenza di garanzie offerte al cittadino sulla preparazione e diligenza di chi, giudice e pubblico ministero, è chiamato a tutelare le sue libertà ed i suoi beni, tuttavia non sono i soli dati rilevanti a riguardo. Mi limito ad indicare solo tre aspetti delle valutazioni di professionalità che sono utili a comprendere come il Csm abbia con pervicace costanza voluto abolire sostantive valutazioni di professionalità dei magistrati nei 40-45 anni della loro permanenza in servizio. Potrebbero costituire oggetto di successive, nuove interrogazioni dell’On Costa. Il primo. I numeri e le percentuali fornite dalla Ministra non sono completi. Non tengono, infatti, conto delle numerose valutazioni di professionalità che vengono fatte allorquando, al termine del tirocinio iniziale di 18 mesi, il Csm valuta l’adeguatezza dei neo reclutati all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni negative sono rarissime. Si contano sulle dita di una mano. Che la Ministra Cartabia non abbia tenuto conto di queste valutazioni non solo indica che la percentuale delle valutazioni di professionalità positive effettuate dal Csm è superiore a quella già molto elevata da lei fornita, ma anche che l’aver trascurato di considerare questa valutazione le ha impedito di vedere un problema che queste particolari valutazioni generalizzate pongono per la qualità del servizio giustizia: gli esami di ammissione in magistratura sono di natura teorica e, come mostrano le mie ricerche, non solo sono scarsamente attendibili nel valutare le conoscenze dei candidati, ma anche che la stragrande maggiorana dei i nuovi magistrati riceve votazioni molto basse negli esami scritti da moltissimi anni: ad esempio, per i 680 magistrati nominati con D.M. 2 febbraio 2018 e D.M. 8 febbraio 2019: la percentuale delle votazione minime negli esami scritti (cioè 36 su 60) è stata superiore al 45% e quella delle 5 votazioni più basse (cioè da 36 a 40 su 60) è stata di oltre l’85%. A me sembra che in una prospettiva riformatrice delle valutazioni di professionalità anche questi dati dovrebbero essere presi inconsiderazione. Il secondo aspetto. Per effettuare promozioni generalizzate il Csm ha deciso che persino l’esperienza giudiziaria è irrilevante ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati. Basti ricordare che il Csm ha promosso con elevate valutazioni molti magistrati che da moltissimi anni, a volte anche vari decenni, non avevano svolto funzioni giudiziarie ma attività amministrative in vari apparati dello Stato o attività di natura politica. Gli esempi sono moltissimi. Ne faccio solo uno di facile comprensione anche per i non addetti ai lavori. Un personaggio molto noto, Anna Finocchiaro, entrò in magistratura nel 1982 e dopo 5 anni, quando era ancora al livello più basso della carriera, venne eletta in Parlamento ove venne rieletta ripetutamente, e ove rimase fino al 2018. Nel corso dei 31 anni in cui svolse attività politica, parlamentare e di governo venne al contempo ripetutamente valutata professionalmente come magistrato e promossa dal Csm dal livello più basso a quello più elevato della carriera giudiziaria, senza aver svolto per un solo giorno attività giudiziarie, giungendo così ad una promozione che la qualificava a svolgere funzioni giudiziarie di grande responsabilità come, ad esempio, quelle di presidente di sezione della corte di Cassazione, o Procuratore generale di corte d’appello. Ho scelto di ricordare il caso di Anna Finocchiaro e non quello di altri magistrati che come lei hanno percorso la carriera giudiziaria mentre svolgevano a tempo pieno attività amministrative o politiche perché lei, a differenza di altri, ha preferito dimettersi dalla magistratura piuttosto che tornare ad esercitare funzioni di grande responsabilità come quelle giudiziarie senza avere maturato la necessaria esperienza operativa e professionale. Una decisione certo commendevole ma che al contempo evidenza l’assurdità delle decisioni del Csm di valutare la professionalità dei magistrati e promuoverli in base all’anzianità, a prescindere persino dalla effettiva esperienza giudiziaria. È cosa non prevista da alcuna legge ma solo frutto di decisioni discrezionali del Csm. Il terzo aspetto. La Ministra Cartabia non ha fornito indicazioni su quali siano le ragioni per cui solo in pochi casi il Csm non valuta positivamente i magistrati nel corso dei 40 anni della loro permanenza in servizio. In altre parole non ha indicato quali siano i comportamenti dei magistrati che costringono il Csm ad abbandonare, seppur solo raramente, un impegno che si è assunto da oltre 50 anni e cioè quello di promuovere tutti i magistrati sulla base dell’anzianità. Conoscere questi dati è certamente importante per valutare il grado di efficacia di un sistema di valutazione della professionalità. Avendo letto i verbali del Csm dal 1959 al 2017 conosco la risposta che è sommariamente questa: la grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali. La relazione disfunzionale che esiste tra valutazioni di professionalità e giudizi disciplinari è stata, peraltro, efficacemente illustrata dal Procuratore Generale della Cassazione Pasquale Ciccolo che, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, dopo aver ricordato che solo lo 0,58% dei magistrati non aveva ricevuto valutazioni positive, affermava che un maggior rigore nelle valutazioni di professionalità “potrebbe evitare che il sistema disciplinare costituisca la sede sulla quale riversare, quasi a modo di funzione suppletiva a posteriori, la soluzione ultima di tutti i momenti critici della giustizia”. Ho letto con attenzione le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario formulate dalla commissione ministeriale nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal Prof. Luciani. Delle disfunzioni sin qui indicate, che certamente non sono le sole, quella Commissione non tiene alcun conto, così come non ne tengono conto le proposte di riforma della stessa Ministra. Quali le ragioni? Forse non conoscono questi fenomeni e alcune delle loro più rilevanti implicazioni? Oppure ritengono che si tratti di disfunzioni di scarsa rilevanza? Oppure, al pari delle altre commissioni di riforma e di altri ministri del passato, ritengono che sia inutile proporre riforme che siano sgradite alla potente corporazione dei magistrati? Forse anche i nostri lettori vorrebbero risposte a queste domande? Dubito che le avranno. Due postille. La prima per ricordare ai lettori che in nessuno dei paesi democratici ove i magistrati rimangono in servizio per una quarantina di anni (Germania, Francia, Spagna e così via) le promozioni avvengono per anzianità. Vengono invece effettuate valutazioni selettive con graduatorie di merito. Di conseguenza mentre negli altri Paesi solo un numero molto ristretto di magistrati raggiunge l’apice della carriera, in Italia la raggiungono tutti i magistrati con i vantaggi anche economici che questo comporta. Forse la minore efficienza del nostro sistema giudiziario rispetto a quelli gli altri paesi dipende anche da questo. Seconda postilla. L’assenza di reali valutazioni di professionalità genera una pluralità di disfunzioni ben più numerose di quelle dianzi indicate, tra cui il rilevante ruolo che le correnti della magistratura esercitano sulle decisioni del Csm, come ho già scritto anche su questo giornale il 29 gennaio scorso. Basta giustizia show, troppe carriere sono state distrutte da indagini e titoloni di Catello Vitiello Il Riformista, 29 ottobre 2021 Un servizio al telegiornale, un titolo in prima pagina, una conferenza stampa e la vita cambia. Forse per sempre, forse finisce. Sarebbe semplice, quasi banale, snocciolare nomi e cognomi di tutti coloro che hanno subito una gogna mediatica per poi risultare innocenti. Ricordo bene, per ragioni territoriali, il caso di Stefano Graziano, accusato di voto di scambio e di essere fiancheggiatore dei Casalesi e poi prosciolto. Ne abbiamo letto in qualche trafiletto. Voglio, invece, affermare un principio che si spinge un po’ più oltre. Basta gogna mediatica anche per coloro che poi risulteranno essere colpevoli del reato imputatogli. Il recepimento della direttiva 343/2016, infatti, ci riporta a principi già tutti contenuti nella nostra Costituzione che, però, col passare del tempo e l’evolversi dei nuovi mezzi di informazione, sono stati svuotati di significato. Direi elusi, diventati lettera morta. Ed ecco allora il processo mediatico, la notizia sparata in prima pagina, le veline che dalle scrivanie dei pm passano alle scrivanie dei giornalisti, le conferenze stampa delle Procure che narrano di un imputato già colpevole. La vita che cambia. Forse per sempre, forse finisce. Perché, come bene ha detto Luciano Violante nei giorni scorsi, il problema della presunzione d’innocenza è legato a doppio filo a quello di un’informazione spesso lesiva della dignità umana e della privacy. Consapevole del fatto che non abbiamo bisogno di generalizzazioni, sento di rivolgere un interrogativo (molto probabilmente retorico) a chi ci legge: quante carriere sono state costruite sull’onda della rilevanza mediatica? Quante narrazioni di vicende che involgevano amministratori pubblici hanno caratterizzato il dibattito politico degli ultimi anni? Quanto è stata stimolata l’emotività rispetto a fatti che andavano letti solo con la chiave della logica e del diritto? Quante intercettazioni abbiamo letto o ascoltato indebitamente, quanto materiale probatorio sottoposto a segreto investigativo abbiamo visionato? Ve lo dico io: tante volte. Ricorderete i video dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere o, ancora più di recente, le intercettazioni nell’ambito delle indagini sul “sistema De Luca”, in onda a Non è l’Arena di Massimo Giletti. I verbali dell’interrogatorio reso dall’imprenditore Fiorenzo Zoccola, da ieri ai domiciliari, sono di dominio pubblico e girano in tutte le redazioni, coinvolgendo anche persone non indagate. Il giudizio politico può anche restare sospeso, ma perché la giustizia deve diventare uno show? E la cronaca giudiziaria si è trasformata da cane da guardia della democrazia a cane da compagnia (o “da salotto”, come direbbe un cronista di lungo corso). E allora, finalmente, proviamo a ritornare allo Stato di diritto. L’imputato avrà diritto a essere rappresentato come innocente fino a quando non interverrà una sentenza definitiva di condanna; niente utilizzo in pubblico di strumenti di coercizione se non strettamente necessari; nessuna conferenza stampa se non per specifiche (non più solo rilevanti, come pure qualcuno aveva proposto) ragioni di pubblico interesse. Ritorniamo alla civiltà giuridica e alla civiltà di cronaca. Perché una vita non può e non deve finire per una notizia in prima pagina. Può essere, questo, sufficiente? Può, da sola, la direttiva europea rendere questo Paese più civile? Credo proprio di no: non si può risolvere l’intero problema affrontandone solo una parte. Bisognerebbe avere il coraggio di mettere mano a una nuova disciplina, ampia, strutturata, che riequilibri il rapporto tra vicende giudiziarie e media. Giace, incardinata in Commissione Giustizia, una proposta di legge a mia prima firma sul tema, condivisa da esponenti di tutti i partiti rappresentati in Parlamento: senza pretese, può rappresentare un punto di partenza per una discussione che involge aspetti non contemplati dal decreto attuativo della direttiva 343. Solo quando avremo stabilito un punto di equilibrio, infatti, potremmo dire di vivere in un Paese che tutela tutte le libertà in gioco. In galera per un volantino: idea anti-jihad del Copasir di Errico Novi Il Dubbio, 29 ottobre 2021 La proposta del Copasir: è reato il semplice possesso di materiale fondamentalista, anche se non lo si diffonde. “Come per chi ha foto pedopornografiche”. È la minaccia terroristica del nostro secolo, d’accordo. Seppur d’intensità calante. Certo è che la proposta avanzata due giorni fa dal Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, è destinata a far discutere: assimilare i simpatizzanti, o anche i presunti tali, della jihad ai pedopornografia, e punire, dunque, chi semplicemente detenga materiale propagandistico di matrice fondamentalista. Volantini, libercoli, o forse anche file conservati nel pc, potrebbero costare il carcere anche se sulla persona che ne venisse trovata in possesso non ci fossero prove di avere a propria volta diffuso il verbo del terrore. A parlarne è il documento depositato martedì scorso dal Copasir: la “Relazione su una più efficace azione di contrasto al fenomeno della radicalizzazione di matrice jihadista”. Con il presidente Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), hanno lavorato in particolare due deputati: il piemontese Enrico Borghi, del Pd, e la giovane avvocata calabrese del Movimento 5 Stelle Federica Dieni. Due parlamentari non certo noti per posizioni estreme nel campo della giustizia penale. A maggior ragione colpisce il passaggio della relazione in cui si avanza la stretta. Cosa propone il Copasir - Secondo il Copasir, intanto, “gli strumenti repressivi introdotti sono variegati ed efficaci”, e il riferimento è in particolare all’ultimo decreto Antiterrorismo, il numero 7 del 2015. Seppure si tratti di un passo avanti, per i parlamentari del Comitato è necessario un “adeguato affinamento” di quelle norme. In particolare, “in relazione al materiale di propaganda o di tipo manualistico, il Copasir condivide alcune osservazioni emerse durante le audizioni”, a cominciare appunto dal fatto che “la sola detenzione di tale materiale non è sufficiente a far scattare nessuna sanzione, richiedendosi invece la sua diffusione”. È perciò auspicabile che “si introduca, ad esempio, tale fattispecie di reato sul modello dell’articolo 600- quater del Codice penale sulla detenzione di materiale pedopornografico”. La norma in questione punisce col carcere fino a 3 anni chi “consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni 18”. Pena che può arrivare a 5 anni quando il materiale posseduto è “ingente”. Al di là dei limiti edittali, che il legislatore modula ormai con sempre maggiore ampiezza, sarebbe in ogni caso impegnativo paragonare la responsabilità di chi si porta a casa un volantino jihadista con quella di chi cerca e trova del materiale pornografico la cui produzione implichi lo sfruttamento di un minore. Intervenire con tempestività - Il Copasir spiega così la proposta: “Da una parte, appare evidente che le modalità di approccio alla deradicalizzazione sono fortemente diversificate, dall’altra, è fondamentale intervenire tempestivamente sui soggetti radicalizzati, pur trattandosi di soggetti di diritto che non hanno (ancora) commesso un reato, ma che, in qualsiasi momento, possono decidere di partire per uno scenario di guerra o, peggio, attivarsi in loco”. Così, “l’anticipazione della soglia di punibilità allo scopo di perseguire le condotte preparatorie ai reati di terrorismo internazionale si inquadra all’interno di un contrasto di carattere proattivo, in modo da erigere una barriera di sicurezza idonea a proteggere l’interesse alla tutela dei cittadini e delle istituzioni”. È una linea molto dura. Potrebbe trovare spazio nel veicolo normativo più avanzato, in materia, oggi all’esame del Parlamento: la proposta di legge su “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista” all’esame della commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Sarebbe un passo verso quel “panpenalismo” che pure la guardasigilli Marta Cartabia ha chiesto di superare in un intervento della scorsa settimana. Ma che è tuttora considerato, in Parlamento, un “rimedio necessario”. Violenza domestica, presentato in Senato il ddl Valente per la sicurezza dei minori in affido di Maria Novella De Luca La Repubblica, 29 ottobre 2021 “Iniziativa in ricordo del piccolo Federico”. La presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio è la prima firmataria del disegno di legge, che prende spunto dall’uccisione del bambino da parte del padre durante un colloquio protetto e che prevede l’immediata sospensione del diritto di visita del genitore violento Una modifica del Codice civile finalizzata a introdurre i principi della Convenzione Istanbul nell’ordinamento, disponendo che l’affido dei figli a un padre violento sia immediatamente sospeso dal gudice. È quanto dispone il disegno di legge dal titolo “Introduzione dell’articolo 317-ter del codice civile, in materia di provvedimenti riguardo ai figli nei casi di violenza di genere o domestica”, di cui è prima firmataria la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, che è stato illustrato oggi in una conferenza stampa nella Sala Nassirya del Senato alla quale hanno partecipato Antonella Penati, mamma di Federico e presidente dell’associazione “Federico nel cuore”, l’avvocato Federico Sinicato; l’avvocata Giulia Potenza, responsabile nazionale Unione donne italiane (Udi). Il ddl dispone che “nei casi di allegazioni di violenza, il giudice, anche d’ufficio, dispone l’immediata sospensione del diritto di visita del genitore violento e, previo e immediato coordinamento con le altre autorità giudiziarie anche inquirenti, assume misure di protezione e dispone l’affidamento temporaneo all’altro genitore o, nel caso d’impossibilità, ai parenti entro il quarto grado”. “Questa proposta - ha spiegato Valente - è nata per rendere giustizia a Federico, della cui uccisione nessuno è stato responsabile. Il principio fondamentale è che un bambino o una bambina tolti alla mamma in una causa per violenza domestica e di genere devono essere tutelati prima di tutto nel diritto alla vita. Un padre violento può essere un buon padre? Noi pensiamo di no. Per questo gli incontri con il padre vanno sospesi, almeno finché non avrà seguito corsi per uomini maltrattanti e abbia dimostrato di essersi ravveduto e di essere affidabile. Se tolti alla mamma, prima di essere affidati ad un ente si deve verificare la possibilità di affidare i bimbi a un parente fino al quarto grado e in ogni caso i soggetti terzi devono assumere la responsabilità della loro sicurezza. Questo ddl si inserisce in una serie di provvedimenti che stiamo portando avanti anche come Commissione Femminicidio, come le modifiche al codice civile sui prelievi forzosi dei minori”. “Dedico questo disegno di legge che vede la luce dopo infinite battaglie - ha detto Antonella Penati, mamma di Federico - a mio figlio e a tutti i bambini e le bambine che ne potranno beneficiare”. “Mille in giorni in cella da innocente. Ora vi racconto l’inferno” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 29 ottobre 2021 “Quante volte bisogna essere assolti in Italia per liberarsi di un’accusa?”. È un fiume in piena Daniela Poggiali. Sbattuta in prima pagina come “l’infermiera killer”. Protagonista di un teorema basato “sul nulla”. Che ora grida la sua rabbia da donna libera, dopo che lunedì scorso la Corte di Assise di Appello di Bologna l’ha assolta due volte perché il “fatto non sussiste”. Parliamo di sei processi, oltre mille giorni di carcere, tre assoluzioni per il caso Calderoni con l’appello ter, dopo una prima condanna all’ergastolo. Per raggiungerla al telefono bisogna inventarsi una diavoleria. È una delle cose che le hanno tolto negli ultimi sette anni. Insieme a un pezzo di vita. Ma non c’è solo la rabbia, Daniela ha con sé la speranza che non l’ha “mai abbandonata”. Ha retto con forza e lucidità al carcere, racconta, ma “lì si può perdere la testa”. Ma ora è libera. Da dove inizia? Adesso sto riassaporando un po’ il piacere della libertà, delle piccole cose. Come prendermi un caffè, passare del tempo con i miei affetti. Le cose più semplici. Però il carcere non è stato una passeggiata. Dieci mesi di carcere l’ultima volta. Più 33 mesi la prima volta. Nel 2014 ho dovuto fare anche un anno di carcerazione preventiva in attesa del processo Calderoni, con addosso l’accusa mediatica che mi portavo dietro. Di cosa la accusavano i media? Accuse terribili. Mi attribuivano un numero di morti impressionante. Ricordo ancora che un giornale inglese parlò di cento casi di morte sospette, dipingendomi come l’angelo della morte. Ma erano accuse che si basavano sul nulla: non c’erano prove, solo indizi, supposizioni, chiacchiericci. Le indagini si concentrarono su 38 cartelle cliniche, ma a processo ne arrivò solo una. Il suo avvocato ha parlato delle modalità con cui i dipendenti Ausl repertarono il deflussore, il “corpo del reato”, nel quale furono rinvenute tracce di potassio. E ha definito quelle indagini amministrative “inaffidabili”, “abusive”. Cioè non autorizzate dall’autorità giudiziaria... Esattamente, a scapito delle mie garanzie difensive. Hanno raccolto degli elementi, che non stavano in piedi, e hanno fatto in modo che questi elementi portassero alla accusa di omicidio per la somministrazione colposa di potassio. A volte mi sembra ancora tutto così surreale. Ricorda come venne a sapere delle indagini? Inizialmente fui allontanata dal reparto, mi misero in ferie sulla base di una statistica interna dalla quale emergevano alcuni decessi sospetti ricollegabili ai miei turni di lavoro. Ero certa che le cose si sarebbero risolte nel giro di qualche giorno. Ma lì è cominciato tutto. Dopo qualche giorno, era l’aprile del 2014, mi sono ritrovata i carabinieri sotto casa per una perquisizione. Con tanto di avviso di garanzia per la vicenda di Rosa Calderoni. Mi cadde il mondo addosso, mi chiedevo se stesse succedendo davvero o se si trattasse di un film. Poi cosa accadde? Mi ricordo che quella fu una giornata lunghissima, tesissima. Scandagliarono casa mia, e l’armadietto del lavoro. Non trovarono nulla, perché non c’era nulla da trovare. Cominciai a sperare che qualcuno si sarebbe reso conto che fosse un abbaglio. Ma le cose sono andate sempre peggio. Uscirono gli scatti fotografici, partì la costruzione dell’angelo della morte, l’attenzione mediatica, con i giornalisti attaccati al citofono. Tutti i giorni, sempre così. Un clima di tensione non indifferente da reggere, insieme alla mia famiglia costretta a tenere il peso di tutto questo. Fu un’escalation, fino all’arresto nell’ottobre del 2014. E la custodia cautelare. Come ha vissuto i primi giorni di carcere? All’inizio devi accettare di stare lì per un tempo indefinito, senza sapere se ne verrai fuori. Poi i giorni passano, noiosamente infiniti, lunghi, tutti uguali. A meno che tu non abbia voglia di leggere un libro o di fare qualche attività, che però sono poche. È un tempo di attesa. Aspetti il processo. Aspetti il colloquio con un familiare, delle buone notizie dall’avvocato. Che rapporto aveva con le altre detenute? Lì dentro non si guarda al reato commesso o a quello per cui si è incolpati, siamo tutti sulla stessa barca. I giorni sono tutti dolorosi per tutti, si piange a giorni alterni e ci si sostiene come si può. Mi sono sempre chiesta in carcere che fine avrei fatto se non avessi avuto il sostegno della mia famiglia, o la fortuna di avere un buon avvocato, come Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera, che hanno messo in campo la loro competenza professionale ma anche il cuore. A loro sono infinitamente grata. Lunedì scorso la Corte di Assise di Appello di Bologna l’ha assolta due volte, per due distinti processi: il caso Rosa Calderoni, 78 anni, e Massimo Montanari, 94 anni, deceduti entrambi all’ospedale di Lugo, nel Ravennate, nella primavera del 2014. Si aspettava questo esito? Sono felicissima di questa doppia assoluzione, che non capita di avere in un solo giorno. Certo è che fino all’ultimo momento, finché non suona la campanella in aula, e il giudice non si pronuncia in tuo favore, hai paura. I segnali erano positivi, come ho detto avevo fiducia nel lavoro dei miei avvocati. Ma la parola ultima la mette sempre il giudice. Ora resta la possibilità, per l’accusa, di ricorrere in Cassazione... Mi auguro e mi aspetto delle motivazioni blindate affinché la Cassazione o la procura metta davvero la parola fine. Altrimenti si tratterebbe di una storia infinita. Per quanto ancora devo difendermi in un’aula di tribunale? Quel serial killer che si aggirava nei reparti con il potassio in mano è frutto di una costruzione, non è mai esistito. E credo che a un certo punto bisognerebbe arrendersi all’idea di aver sbagliato e magari chiedere scusa. Si aspetta delle scuse? Credo che sarebbe il minimo, alla luce di quattro assoluzioni. Normalmente sul lavoro si ammette quando si sbaglia. E ricevere delle scuse sarebbe la cosa più bella, da cui ripartire. Chiederà un risarcimento per ingiusta detenzione? Per ora è prematuro, vedremo. Adesso mi godo la libertà. Sarebbe già tanto se riuscissi a tornare a fare il mio lavoro. Vorrebbe tornare a lavorare come infermiera? Perché no, ho sempre fatto bene il mio lavoro e so che potrei continuare a farlo bene. Bisogna che la gente venga lasciata vivere in pace dopo che è stata assolta. Teme di non riuscire a ricostruire la sua reputazione? Ci vorrà tempo. La mia vita è stata quasi interamente distrutta, bisognerà lavorarci. Sono stata radiata dall’ordine degli infermieri per quei due scatti fotografici, ho perso il lavoro. Mi hanno condannato prima ancora del processo, e nessuno si è ancora esposto a mio favore. Gli stessi giornalisti a distanza di anni, e dopo quattro assoluzioni, ancora oggi mi chiedono di quegli scatti. Ma di tutto il resto, della sofferenza che ho dovuto vivere sulle mie spalle, a nessuno interessa. Nessuno si indigna per come va certe volte la giustizia in Italia. Veniamo alle foto, che la ritraevano “sorridente” accanto ad alcuni pazienti deceduti... Mi dispiace molto per quello che ho fatto. Si è trattato di un errore deplorevole, una leggerezza commessa in un momento di lavoro. So che si fa fatica comprenderlo, ma noi sanitari lavoriamo con ritmi molto intensi, orari stressanti, a cui si aggiunge il carico emotivo pesante di lavorare con pazienti oncologici e geriatrici. Mi prendo pienamente la responsabilità di quello che ho fatto, tanto è vero che ho pagato, forse anche più del dovuto. Ma da qui a dipingermi come una persona malvagia, che deride la morte, capace di qualunque cosa, ce ne passa. A nessuno interessava capire di cosa era morta Rosa Calderoni. Ancora oggi il mio nome è associato solo a quell’immagine. E allora tutti gli anni che ho dovuto passare in galera per un’accusa infondata? Non dobbiamo indignarci perché una persona viva viene condannata ingiustamente? In questi anni l’hanno descritta in molti modi, le hanno cucito addosso l’abito di “mostro”. Ha mai perso la speranza di affermare la sua innocenza? La speranza l’ho persa quando ho visto come è iniziato il processo di primo grado a Ravenna, incentrato su quelle foto che mi avevano condannato prima di mettere piede in un’aula di Tribunale. Quando ho capito di subire un’ingiustizia ho trovato la forza di reagire, grazie al sostegno della famiglia e delle altre detenute, e di andare avanti per dimostrare la mia innocenza. Poi la condanna all’ergastolo nel 2016, e la scarcerazione nel 2017 dopo la prima assoluzione in appello per il caso Calderoni... Con formula piena perché “il fatto non sussiste”. Fu una grande gioia, che pensavo avrebbe messo fine per sempre a tutta questa vicenda. Salvo poi ritrovarmi in un’aula di tribunale due anni dopo. E nuovamente in custodia cautelare nel 2020 per il caso Montanari, per il quale fu condannata a 30 anni in primo grado... Quella fu l’ennesima cattiveria, un momento molto doloroso. Come lo ricorda? Era la vigilia di Natale, ero in casa con mia mamma quando suonò il campanello: di nuovo i carabinieri con un avviso di custodia cautelare. Sono sempre finita in carcere prima del giudizio definitivo sulla base della mia “pericolosità”. Nonostante avessi vissuto tre anni e mezzo da donna libera. Lì si ruppe di nuovo l’equilibrio che mi ero ricreata a fatica. Di nuovo rifiutarono la richiesta di scarcerazione, niente misure alternative, niente braccialetto. Come se fossi un cittadino di “serie b”, priva di diritti inviolabili. Di nuovo giorni infiniti in attesa del processo che speri ti possa ridare la libertà. Cosa le fa più rabbia? Aver perso giorni della mia vita che non torneranno più. E per fortuna non mi sono ammalata. Come capita a molti altri detenuti, che soffrono di problemi di salute non da poco, a cominciare dalla depressione. C’è anche chi si suicida. Per mia fortuna ho retto a livello della salute e a livello mentale. E cosa l’ha ferita di più, in tutti questi anni? Mi hanno ferito in maniera indelebile le motivazioni con cui il presidente del Tribunale della libertà rifiutò all’epoca la prima richiesta di scarcerazione, nel gennaio del 2015. Mi dipinse come una efferata assassina. E arrivò ad accostarmi ad Hitler. Crede ancora nella giustizia, dopo averla conosciuta così da vicino? Credo nella buona giustizia, nei buoni giudici che sanno riconoscere la verità senza farsi condizionare dall’opinione pubblica. Equa riparazione, nel penale i termini decorrono dalla costituzione di parte civile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2021 La Corte costituzionale ha dichiarato la questione infondata sentenza n. 203/2021. Con riferimento all’equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, è infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Napoli con riferimento all’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato per la persona offesa soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, sentenza n. 203/2021 depositata oggi, bocciando l’ordinanza del luglio 2020 della Corte d’appello di Napoli. Per la Corte esiste tuttavia la necessità di intervenire per la tutela dei diritti anche di natura civile della vittima del reato e ciò potrà essere fatto nell’ambito della legge delega di riforma del processo penale. Il caso - Il ricorrente aveva esposto di aver presentato querela il 10 novembre 2010 a seguito di un’aggressione subita e di aver sollecitato più volte l’autorità giudiziaria. Tuttavia, soltanto il 9 gennaio 2015 il Pm aveva emesso il decreto di citazione a giudizio. A seguito di vari rinvii, all’udienza del 2 luglio 2019 il ricorrente si era costituito parte civile ed il giudice aveva pronunciato sentenza di non doversi procedere, essendosi i reati estinti per prescrizione. A questo punto il ricorrente ha dedotto che la durata del procedimento penale doveva calcolarsi a far tempo dal giorno della presentazione della querela, in ragione dell’interpretazione dell’articolo 6, paragrafo 1, CEDU (sentenza Cedu 7 dicembre 2017, Arnoldi contro Italia) e su tali premesse ha addotto l’illegittimità costituzionale della norma. La motivazione - Per la Consulta, il censurato articolo 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 ha individuato una soluzione di carattere generale, nel senso che, ai fini del computo del termine ragionevole, il processo penale si considera iniziato soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile, e cioè al momento della formale instaurazione del rapporto processuale secondo le modalità dettate dall’articolo 78 cod. proc. pen. (e non già solo per il tramite della presentazione di denunce o istanze al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria), momento che segna, peraltro, anche il criterio necessario di coordinamento con l’azione per le restituzioni e per il risarcimento proposta in sede civile ai sensi dell’articolo 75 cod. proc. pen. Non può ravvisarsi nella scelta legislativa, prosegue la Corte, un contrasto immediato con il parametro convenzionale costituito dall’articolo 6 paragrafo 1, CEDU, in riferimento all’articolo 117, primo comma, Cost. Né, prosegue, è di per sé imputabile all’articolo 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, “nella parte in cui tale norma determina la durata considerata ragionevole del processo penale per la parte civile, una lesione sistemica degli interessi di questa, allorché le peculiarità del caso concreto rivelino un malfunzionamento (consistente nell’eccessiva durata delle indagini che porti alla prescrizione del reato), valutato ex post, di una delle due vie giudiziarie autonome che l’ordinamento interno offre al danneggiato per far valere il suo “diritto di carattere civile” al risarcimento”. Del resto, prosegue il ragionamento, nella sentenza n. 249 del 2020 della Corte costituzionale si è conclusivamente ritenuto che “esulano dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del diritto al rispetto del termine ragionevole del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU - trovando appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi - i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti”. Ed è proprio in tale prospettiva, conclude la Consulta, che la Delega al Governo per l’efficienza del processo penale (art. 1, comma 18, lettera b), della legge 27 settembre 2021, n. 134), “detta principi e criteri direttivi per l’adozione di una disciplina organica della giustizia riparativa, prevedendo l’introduzione nell’ordinamento della definizione di vittima del reato, valorizzandone il ruolo e delineandone nuovi meccanismi di tutela. È, quindi, in tale ambito e in questa prospettiva, che i diritti, anche di natura civile, della vittima del reato potranno trovare migliore protezione, attraverso l’introduzione di meccanismi idonei a prevenirne la violazione”. Il divieto di avvicinamento alla vittima impone la fissazione della distanza ma non dei luoghi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2021 L’indeterminatezza spaziale non viola la libertà di locomozione dell’imputato. L’alternativa sarebbe il carcere o i domiciliari. Le sezioni Unite penali hanno chiarito se il giudice che prescrive la misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa dal reato debba anche prefissare gli specifici luoghi non avvicinabili dall’imputato. Il massimo consesso della Cassazione penale precisa che se il divieto di avvicinamento è miratamente riferito alla persona offesa al giudice è sufficiente stabilire la distanza che l’imputato deve mantenere da essa. E che in tal caso può anche non indicare luoghi precisi preclusi all’imputato. Tale prescrizione può dipendere dalla personalità dell’imputato e dall’indole del reato contestato. Con la sentenza n. 39005/2021 è stato, infatti, escluso il contrasto tra il diritto costituzionale alla libertà di locomozione e un siffatto divieto “indefinito spazialmente” imposto al soggetto colpito dalla misura cautelare coercitiva. In particolare, la Cassazione fa rilevare che la gravosità di un divieto indefinito offre comunque all’imputato un’alternativa di favore rispetto all’applicazione di misure cutelari personali maggiormente restrittive, carcere o arresti domiciliari. Il divieto di avvicinamento - La norma dell’articolo 282 ter del Codice di procedura penale che prevede tra le misure personali coercitive lo specifico divieto di avvicinamento alla persona offesa ha la precipua finalità di contrastare comportamenti persecutori o di abituale maltrattamento contro specifici soggetti. Spiega la sentenza che la norma del Codice reca diverse soluzioni finalizzate all’unico obiettivo di preservare la serenità e l’incolumità della vittima nel mirino dell’imputato. In realtà vengono messe a disposizione del giudice diverse soluzioni che sono tanto alternative quanto cumulabili, al fine di prevenire la commissione di ulteriori reati in base alle peculiarità del caso concreto. L’articolo 282 ter prevede, infatti: - sia il divieto di avvicinamento a determinati luoghi frequentati dalla persona offesa - sia l’obbligo di mantenere una data distanza da tali luoghi o dalla persona offesa. È ovvio che nel primo caso il giudice debba individuare i luoghi ritenuti sensibili rispetto al reato contestato altrimenti si tratterebbe di prescrizione indeterminata. Ma il giudice può anche imporre il divieto di avvicinamento attraverso la fissazione della distanza che l’imputato deve mantenere o da tali luoghi determinati e/o dalla persona offesa. La declinazione di diverse forme del divieto di avvicinamento è utile sia per optare per una di esse sia per cumularle perché ciò consente di dettare prescrizioni il più strettamente adeguate al caso concreto per raggiungere l’obiettivo di evitare il rischio di contatto con la vittima. Il contrasto giurisprudenziale - La norma era stata oggetto di un’interpretazione giurisprudenziale che sosteneva comunque necessaria l’indicazione da parte del giudice anche degli specifici luoghi da non avvicinare anche quando la prescrizione si limita all’obbligo di mantenere una certa distanza dalla vittima. Si contestava appunto una compressione illegittima della libertà di circolazione dell’imputato. Critica smentita dai ragionamenti precedenti. Viterbo. Interrogazione di Magi per lo strano suicidio in carcere e l’udienza fissata fra tre anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 ottobre 2021 Il deputato di +Europa chiede alla ministra della Giustizia chiarimenti sulla morte di Sharaf Hassan e una verifica delle ragioni di un rinvio così lungo dell’udienza sull’archiviazione sul caso. Ha creato inevitabili polemiche il fatto che il giudice valuterà tra tre anni se accogliere o meno la richiesta di archiviazione sullo strano suicidio del 21enne Hassan Sharaf avvenuto nell’oramai famigerato carcere Mammagialla di Viterbo. Il caso è arrivato in Parlamento grazie all’interrogazione appena depositata dal deputato Riccardo Magi di +Europa. Hassan Sharaf, il 23 luglio 2018, viene ritrovato impiccato nella cella - Rivolgendosi alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ripercorre la vicenda del ragazzo. Hassan Sharaf, il 23 luglio 2018, viene ritrovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Il 30 luglio 2018, dopo sette giorni di agonia, Hassan muore nell’ospedale di Belcolle. Si legge ancora che il ragazzo, già durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti Anastasia, aveva mostrato alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante, al quale il ragazzo aveva riferito di avere “molta paura di morire”, ha presentato due esposti sulla vicenda di Hassan, uno precedente e uno successivo alla sua morte. In risposta all’interpellanza del deputato Magi del 1° febbraio 2019, dove tra l’altro fa riferimento agli articoli de Il Dubbio, il governo riferiva che “era stato aperto un procedimento penale a carico di ignoti, ipotizzando il reato di cui all’articolo 580 del codice penale: istigazione o aiuto al suicidio” e che “nel corso delle indagini veniva acquisita tutta la documentazione sanitaria, e nell’interesse si procedeva a perizia necroscopica sul cadavere. Venivano, altresì, acquisite le immagini di sorveglianza interna della casa circondariale, le telefonate intercorse tra il detenuto e la madre - unica persona con la quale egli aveva contatti durante il periodo di detenzione - e le lettere ricevute. Inoltre, la polizia giudiziaria, delegata alle indagini, provvedeva all’escussione di numerose persone informate sui fatti”. Dopo l’apertura del fascicolo, la Procura ha chiesto l’archiviazione - Riccardo Magi, nell’interrogazione appena depositata, sottolinea che sarebbe agli atti un video in cui Hassan si avvicina alle sbarre, protendendo le braccia verso le guardie, e si taglia ripetutamente le vene. Pochi minuti dopo, alle 14,02 del 23 luglio 2018, un agente di custodia entra in cella e lo colpisce al volto, con violenza; 40 minuti dopo, gli agenti di custodia tornano davanti alla cella del giovane egiziano, dove lo trovano impiccato. Magi evidenzia che dopo l’apertura del fascicolo, la Procura ha chiesto l’archiviazione del caso. L’unico procedimento che è stato aperto è quello per percosse che due agenti avrebbero dato al giovane prima di spostarlo in isolamento. Il 15 dicembre i due agenti compariranno davanti al giudice Elisabetta Massini con l’accusa di abuso dei mezzi di correzione. Ed ecco il fatto davvero singolare che ha scatenato polemiche: “È stata fissata addirittura al 2024 - scrive Magi nell’interrogazione -, ovvero a sei anni dalla morte di Hassan, l’udienza per esaminare l’opposizione contro la richiesta di archiviazione, presentata dai familiari, dall’ambasciata egiziana e da una Ong per i diritti umani”. Magi chiede quali siano gli esiti dell’indagine ispettiva del provveditorato regionale del Lazio - Il deputato di + Europa ritorna di nuovo alla sua interpellanza, dove il governo riferiva che “il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per il tramite della direzione generale dei detenuti e del trattamento, in data 31-7-2018, subito dopo il decesso del detenuto egiziano Sharaf Hassan, dava disposizione al provveditorato regionale del Lazio di eseguire un’indagine ispettiva volta a ricostruire le cause e le modalità dell’evento”, dei cui esiti si era in quel momento in attesa. Magi chiede che sia fatta luce sull’accaduto, perché avere certezza sulle reali condizioni e sul rispetto dei diritti degli istituti penitenziari “è una priorità che non riguarda solo i detenuti ma tutti i cittadini”. Quindi pone alla ministra della Giustizia Cartabia i seguenti quesiti: “Quali siano gli esiti dell’indagine ispettiva del provveditorato regionale del Lazio sulla morte di Sharaf Hassan; se non ritenga necessario disporre un’ispezione presso il Tribunale al fine di verificare le ragioni di un rinvio dell’udienza di opposizione all’archiviazione sul caso illustrato in premessa, che appare così lontano nel tempo da pregiudicare le esigenze di tempestività dell’azione penale e da suscitare dubbi sul corretto esercizio della funzione giudiziaria”. I legali del ragazzo pronti a chiedere l’intervento della Procura generale “La notizia che sia stata fissata addirittura al 2024 l’udienza per l’opposizione contro la richiesta di archiviazione del processo per la morte di Hassan Sharaf è sconcertante”. Così in una nota Alessandro Capriccioli, capogruppo di + Europa Radicali al Consiglio regionale del Lazio. “La morte di Hassan è avvenuta nel 2018 - spiega nella nota il capogruppo - nel carcere di Viterbo, a seguito di un tentativo di suicidio del quale ancora non sono chiare le dinamiche. Accertare oltre ogni ragionevole dubbio gli accadimenti di quella notte dovrebbe rappresentare una priorità, cui come consigliere regionale ho cercato di rispondere già all’epoca dei fatti attraverso una serie di visite ispettive”. Prosegue Capriccioli: “Chi viene ospitato nelle nostre carceri si trova nelle mani dello Stato, e per questo è ancora più importante che su vicende come questa venga fatta luce il più rapidamente possibile, senza rinvii che possano ulteriormente differire nel tempo ogni chiarimento necessario. Condividendo la preoccupazione espressa dal Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia sulle condizioni della nostra giustizia, mi auguro che il Ministro della giustizia si interessi al caso e intervenga”. Il Garante regionale Anastasìa, infatti, appena giunta la notizia del rinvio al 2024, è giunto a una conclusione. “C’è solo una motivazione pronunciabile al decreto del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Viterbo che il 30 luglio del 2020 ha fissato al 7 marzo del 2024 (quattro anni dopo!): la bancarotta, se non dell’intero sistema della giustizia, quanto meno del Tribunale di Viterbo”. Per questo - si augura Anastasìa - “spero che il giudice competente abbia segnalato il caso al Presidente del se non al ministro e al Consiglio superiore della magistratura. Non è ammissibile che un procedimento penale su un caso di morte avvenuto in carcere sia sospeso per quattro anni in attesa della decisione del giudice sulla richiesta di archiviazione della Procura”. Nel frattempo, i legali sono pronti a chiedere l’intervento della Procura generale. Dopo lo slittamento di 3 anni per l’udienza di opposizione all’archiviazione, fissata al 2024, la difesa dei familiari e dell’Ambasciata egiziana sarebbe intenzionata a chiedere alla procura generale di avocare il caso. Ricordiamo ancora una volta che Hassan Sharaf è morto a luglio del 2018 nell’ospedale di Belcolle, dopo essersi impiccato con le lenzuola nel carcere di Viterbo. Un gesto estremo arrivato dopo settimane di totale disperazione. Si ipotizza pestaggio, ma con la certezza che ha subito l’isolamento. Situazione, si ipotizza, che fa pensare che il suicidio di Hassan fosse stato indotto. Per quanto riguarda le percosse, c’è un rinvio a giudizio per due agenti della penitenziaria per abuso dei mezzi di correzione. Quella portante, istigazione al suicidio, per i magistrati di Viterbo, non sarebbe provata. Per questo chiedono l’archiviazione. Su questo se ne discuterà nel 2024. Tra tre anni, e ciò ha creato sconcerto. Napoli. Poggioreale, Ciambriello: “Polveriera a miccia corta, occorre l’indulto” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 29 ottobre 2021 Sovraffollamento nelle carceri in Campania. “Occorre che il Governo e il Parlamento facciano di più, un provvedimento serio e di portata nazionale, un piccolo indulto”. “Nei giorni scorsi il sindacato di polizia penitenziaria (Sappe), ha denunciato il sovraffollamento del carcere di Poggioreale dichiarando che il carcere di Poggioreale è diventato una pentola a pressione che mette a serio rischio la sicurezza stessa del penitenziario ed ogni ipotesi di attività trattamentale finalizzata al recupero dei detenuti stessi. Ed è vero, Poggioreale è una polveriera a miccia corta, anche perché, purtroppo, il populismo penale si coniuga con il populismo politico che non ha sosta nemmeno nel corso della pandemia. Nel carcere di Poggioreale e più in generale in Campania ci sono 625 detenuti di fuori regione di cui 62 stranieri su un totale di 6429 detenuti. Questa prassi non solo, contribuisce al sovraffollamento delle celle, ma viola il principio di territorialità della pena. Il sovraffollamento è, anche, sinonimo di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere che dovrebbe costituire una scelta di extrema ratio. Le leggi non sono una macchina che una volta messa in moto va da sé, le leggi sono pezzi di carta che se lasciamo cadere non si muovono. Talvolta ritardi nelle decisioni, anche della magistratura di sorveglianza che risulta essere sottodimensionata a Napoli, Caserta, Salerno; sono la causa di ansia, angoscia, sofferenza fisica, atti di autolesionismo e sovraffollamento. Occorrono più misure alternative al carcere”. Così Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, all’uscita dal carcere di Poggioreale, dopo aver effettuato colloqui nell’istituto penitenziario, che attualmente “ospita” 2.240 detenuti. Secondo i dati della relazione annuale del 2020 del Garante regionale nella casa circondariale di Poggioreale, si sono registrati 323 atti di autolesionismo, 250 scioperi della fame e/o sete, 467 infrazioni disciplinari, 33 tentativi di suicidio, 2 suicidi e 8 decessi di morte naturale. Per quanto riguarda il primo semestre del 2021 si contano 152 atti di autolesionismo, 1 decesso per cause naturali ed 1 suicidio, 13 tentativi di suicidio sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria e 119 colluttazioni. Il Garante campano Ciambriello così conclude: “Non sono bastati i timidissimi provvedimenti deflattivi con i decreti legge durante la pandemia, che hanno prodotto numeri esigui di persone uscite dalle carceri. Occorre che il Governo e il Parlamento facciano di più, un provvedimento serio e di portata nazionale, un piccolo indulto. Credo che il sovraffollamento sia solo una delle mille sfaccettature relative alla qualità della vita e della pena. Penso che Poggioreale abbia bisogno di più educatori, Psicologi, Psichiatri, attività scolastiche-trattamentali. Su diciannove educatori previsti ne sono presenti in struttura solo nove, e solo due psichiatri a fronte di cinque come dovrebbe essere. Vale la pena sottolineare che molti dei tentativi di protesta, sciopero, atti di autolesionismo accadono dopo le ore 16:00. Per questo credo che in carcere a Poggioreale, di pomeriggio, sia necessaria la presenza di almeno un commissario, un educatore, uno psicologo. Ci sono spazi giornalieri vuoti, nei quali, gli agenti di polizia penitenziaria, tra l’altro sottodimensionati, sono lasciati soli, in compagnia di generosi volontari della Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli e di alcune associazioni di volontariato” Castelfranco (Mo). In vendita i tortellini realizzati con la collaborazione dei detenuti di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 29 ottobre 2021 Domani e domenica i banchi in piazza Garibaldi. I prodotti preparati alla Casa di reclusione. I tortellini tradizionali di Castelfranco Emilia, già eccellenti, ora diventano ancora più buoni, acquistando un valore etico. Domani e domenica infatti, in piazza Garibaldi dalle 9 alle 13, si potranno acquistare i veri tortellini tradizionali di Castelfranco Emilia prodotti dall’Associazione Maestre Sfogline nella sede dell’associazione, presso la Casa di reclusione del Forte Urbano, e realizzati con la collaborazione di due detenuti. Questo progetto (cioè l’arte del tortellino tradizionale insegnata ai detenuti, per permettere loro di rifarsi una vita dopo avere scontato la pena), fortemente voluto dall’amministrazione del sindaco Giovanni Gargano, in stretta collaborazione col Ministero di Grazia e Giustizia, la Regione Emilia Romagna e, dal punto di vista operativo, l’associazione La San Nicola e l’associazione Maestre Sfogline, si è classificato al secondo posto in Italia nei progetti del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana, ed è stato premiato davanti a tutta Europa nei giorni scorsi a Nizza, durante il Forum Europeo sulla Sicurezza Urbana. Dopo l’uscita pubblica di domani e domenica, un’altra giornata di vendita in piazza sarà organizzata prima di Natale (data da destinarsi). Chi volesse però mettersi avanti con le prenotazioni, può già farlo tramite il sito https:maestresfogline.it o attraverso la pagina Facebook “Tortellino Tradizionale di Castelfranco Emilia”. Presentando l’iniziativa, il sindaco Giovanni Gargano ha commentato: “Il nostro è un tortellino che crea anche futuro e solidarietà. Ed è anche un prodotto tutelato da sempre dalla comunità locale; non ha bisogno di certificazioni particolari. E mette pace tra Modena e Bologna” (poiché si utilizzano prodotti tipici di entrambe le città, ndr). Fa eco al sindaco il presidente de La San Nicola, Gianni Degli Angeli: “Non tradiamo il tortellino, che per noi è solo quello tradizionale. Altre varianti sono paste ripiene a forma di tortellino”. Busto Arsizio. “Comprate le ceste di Natale fatte dai detenuti” varesenews.it, 29 ottobre 2021 L’appello per dare una mano ai detenuti arriva dal cappellano del carcere di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi. Cesto speciale già pronto per il ministro Marta Cartabia che ha di recente visitato la sede della Cooperativa sociale La Valle di Ezechiele di Fagnano Olona. Il primo cesto natalizio è già prenotato: sul bigliettino d’auguri c’è il nome della Guardasigilli Marta Cartabia che è rimasta colpita dall’attività della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele” che lunedì scorso ha inaugurato il suo quartier generale nel centro operativo di Fagnano Olona attorno al quale gravita il lavoro di una decina di detenuti che si impegnano per trovare un lavoro e costruirsi un futuro. Sono giornate frenetiche perché il lavoro è intenso dal momento che c’è tempo fino a sabato per completare gli ordini che consentiranno di acquistare i cesti natalizi composti con tradotto alimentari realizzati in diverse realtà carcerarie italiane: dall’Ucciardone a Bollate, da Verbania a Cremona, passando per Vasto, Sondrio, Trani. Attività che danno una seconda possibilità ai detenuti, che col lavoro abbattono la recidiva, vale a dire la propensione a reiterare il reato per il quale hanno scontato la pena, così però da tornare dietro le sbarre. I cesti di Natale della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele” si possono ordinare qui: https://www.lavallediezechiele.org/ Parma. Nel carcere un giardino per ricominciare, tra genitore e figli di Marco Vasini La Repubblica, 29 ottobre 2021 Inaugurato all’interno della Casa circondariale di via Burla il giardino “Per Ricominciare” dove i detenuti possono incontrare le famiglie e giocare con i figli all’area aperta. Il progetto è nato da un percorso iniziato nel 2018 da Parma Facciamo Squadra. Il taglio del nastro è stato effettuato da Valerio Pappalardo direttore dell’istituto penitenziario e Emilia Zaccomer dell’associazione Per Ricominciare. E se ogni bambino che ha un papà o un nonno detenuto potesse incontrarlo senza sentirsi davvero dentro un carcere? Senza vedere le sbarre, senza dover stare fermo intorno a un tavolo con le sedie fissate al pavimento? A Parma c’è chi ha provato a sognare tutto questo e ha coinvolto la città perché potesse fare la sua parte. Il sogno oggi è realtà: l’Istituto penitenziario di via Burla ora ha un’area verde diventata accogliente e fruibile. Uno spazio attrezzato con otto gazebo e tavoli, permetterà ai detenuti di incontrare le famiglie e giocare all’aria aperta con i loro bambini. È uno scampolo di normalità che rappresenta un’opportunità speciale in una realtà così difficile da capire per un familiare, soprattutto se bambino; per ciascuno, poterne usufruire, sarà una grande gioia. L’area per i colloqui all’aperto è frutto di un percorso nato nel 2018 con Parma facciamo Squadra, un’edizione dedicata ai più piccoli e al loro benessere. “Affinché l’essere bambini non sia mai un peso” era il claim della campagna che ha permesso di realizzare diverse iniziative per i più piccoli, soprattutto i più fragili. È una storia a lieto fine, realizzata grazie all’impegno delle associazioni, alla generosità dei cittadini e di Barilla, Chiesi, Conad Centro Nord e Fondazione Cariparma che hanno sostenuto con forza la Campagna e al coordinamento di Csv Emilia. L’idea di questa squadra ha incontrato la progettualità dell’Istituto penitenziario di Parma e la sua disponibilità. Ma nulla sarebbe stato possibile senza la tenacia dei volontari dell’associazione Per Ricominciare che da più di vent’anni anni collabora col carcere offendo un supporto affettivo e materiale ai nuclei familiari di chi sta affrontando la detenzione. Per i bambini, all’interno del carcere l’Associazione gestisce anche il Laboratorio Il Gioco, in convenzione con il Comune di Parma. I numeri sono alti e sono più di 1.200 ogni anno i piccoli in visita. Bambini e ragazzi che vengono a trovare i familiari detenuti trovano un luogo dove giocare, uno spazio “morbido” che vuole attenuare l’impatto traumatico del carcere, una stanza colorata dove operatori e volontari accolgono le storie, le difficoltà e i bisogni. Il Giardino Per ricominciare riprende esattamente questo spirito per rimettere al centro i bambini e il loro benessere. Presto sarà completato dall’Istituto Penitenziario grazie anche alla Cassa delle ammende. Perugia. Corto teatrale coi detenuti conquista il MedFestival di Roma umbria24.it, 29 ottobre 2021 “Voliera” è nato con l’aiuto della Fondazione Cr di Perugia e dello Stabile sarà proiettato a Roma. “Voliera” il corto artistico firmato da Vittoria Corallo e realizzato coi detenuti del carcere di Capanne a conclusione del progetto Per aspera ad astra é stato selezionato nella sezione Voci dal Carcere dal MedFilm Festival di Roma, Festival della Capitale dedicato alle cinematografie del Mediterraneo. “Voliera” selezionato dal Medfestival. Un grande riconoscimento per il progetto nazionale promosso da Acri, l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria, che in Umbria è stato attivato grazie alla collaborazione tra la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, la Casa circondariale di Capanne e il Teatro Stabile dell’Umbria. Nell’ambito della dieci-giorni del Festival che si tiene dal 5 al 14 novembre, Voliera sarà proiettato lunedì 8 novembre, alle 17,30 al Cinema Savoy di Roma, e sarà visualizzabile anche online per 72 ore sulla piattaforma Mymovies. Coi detenuti del carcere di Perugia. Il cortometraggio è prima di tutto uno spettacolo teatrale, ma è anche la testimonianza che pur tra le difficoltà causate dall’emergenza sanitaria “Per Aspera ad Astra” non si è fermato ed ha continuato a portare il teatro in carcere per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti e, parallelamente, al loro reinserimento nel mondo esterno e nel contesto lavorativo attraverso percorsi professionalizzanti nel campo delle arti e dei mestieri teatrali. Colaiacovo e Corallo. “Siamo particolarmente orgogliosi di questo riconoscimento da parte del MedFilm Festival - afferma la Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Cristina Colaiacovo - un premio innanzitutto all’impegno dei detenuti che, accompagnati da Vittoria Corallo, hanno saputo mettersi alla prova in un lavoro profondamente personale e introspettivo di cui le immagini di Voliera, che ora potranno essere visibili da un pubblico ancora più ampio e qualificato, sono il risultato tangibile”. Per Corallo, invece, Voliera “? un’opera visuale che nata nel carcere di Perugia durante la pandemia, per continuare un percorso artistico e formativo che altrimenti rischiava di fermarsi. Uno degli obbiettivi del progetto è riconfigurare il carcere attraverso Cultura e bellezza e con questo in mente ho cercato di attraversare i contenuti esplorati nei mesi precedenti insieme agli attori detenuti con un linguaggio simbolico e poetico: per trasfigurare il carcere fisico, il carcere estetico e contenutistico, per trasfigurare il tempo del carcere e il tempo della pandemia. Volevamo prendere quel poco concesso e portarlo fino a dove si poteva estendere, anche questo per noi è stato un tentativo di volo”. I più penalizzati dalla pandemia sono i meno tutelati dal governo di Laura Pennacchi Il Manifesto, 29 ottobre 2021 La disoccupazione e il precariato, per donne e giovani, preparano pensioni da fame. Il Piano del lavoro, e una pensione “di garanzia”, possono invertire la tendenza. Le dichiarazioni in favore delle donne e dei giovani - i più penalizzati dalla pandemia: disoccupazione, precarietà, inattività -, nella riflessione che accompagna il varo del Documento Programmatico di Bilancio per il 2022, si sprecano. Ma poi per quanto riguarda una maggiore tutela pensionistica ci si dedica piuttosto a costosi interventi “a pioggia” (le Quote) e invece ben poco a misure di cui appunto possano beneficiare le donne e i giovani. Eppure, poiché la situazione pensionistica è lo specchio dei passati percorsi occupazionali assai accidentati e tormentati per giovani e donne, se il governo ha inserito a monte del Pnrr le famose “condizionalità” (che prevedono che almeno il 30% delle nuove assunzioni li coinvolga), vuol dire che ha la consapevolezza della gravità della situazione. Pertanto non se la può cavare invitando i giovani ad avere “il coraggio di rischiare”, piuttosto dovrebbe essere conseguente. Sotto due profili. Il primo riguarda la necessità di darsi un vero e proprio Piano per la creazione diretta di occupazione. Se è vero ciò che gli economisti ci insegnano, e cioè che la crescita è il frutto della somma dell’azione di due fattori: tasso di occupazione e tasso di produttività, poiché in Italia il basso tasso medio di occupazione complessiva, femminile e maschile, è interamente dovuto all’incredibilmente bassa occupazione femminile (perché il tasso medio di occupazione maschile risulta abbastanza in linea con gli standard europei), è la mancata occupazione femminile il vero handicap per la crescita. La prospettiva va dunque rovesciata: non “alimentare la crescita sperando che ne scaturisca lavoro”, ma “creare lavoro per attivare la crescita, cambiandone al tempo stesso qualità e natura”. Non ci si può limitare a ricorrere prevalentemente a misure incentivanti volte a stimolare indirettamente la generazione di lavoro (incentivi fiscali, decontribuzioni, bonus, trasferimenti monetari, riduzioni del cuneo fiscale, ecc.), ma occorre adottare “piani diretti di creazione di occupazione” facendo di “programmazione” e “capacità progettuale” le vere parole chiave. Si potrebbe cominciare “condizionando” alla finalità della generazione di occupazione addizionale la mole di risorse che il Documento Programmatico prevede di erogare alle imprese in modo “incondizionato”: 4,1 miliardi di euro per il rifinanziamento del pacchetto 4.0, 2 miliardi per il caro bollette, almeno 3 miliardi per la riduzione dell’Irap, 1,9 miliardi di cancellazione del contributo unico per l’assegno al nucleo famigliare, ecc., e tutto ciò dopo che nei due anni pandemici 2020-2021, dei 180 miliardi di euro erogati per far fronte all’emergenza, 100 miliardi sono stati destinati alle imprese e alle famiglie e solo 40-50 al lavoro. Il secondo profilo è strettamente connesso al precedente: data la relazione di “specchio” tra percorsi lavorativi e situazione pensionistica accentuata dal sistema di calcolo contributivo, se si è lavorato per periodi limitati (magari per non respingere il desiderio di maternità/paternità che dovrebbe essere considerato una funzione sociale), con retribuzioni più basse, con ripetute intervalli tra lavoro e non-lavoro, in condizioni di precarietà, al momento del ritiro la pensione che ne risulta non può che essere esigua, con il rischio per i più giovani che non raggiungano mai la soglia contributiva minima necessaria ad andare in pensione. Per questo, nell’attesa che un Piano per la creazione di occupazione faccia maturare le condizioni per cambiamenti radicali, nell’immediato va istituita una “pensione di garanzia” per i giovani, una nuova forma di integrazione al minimo con un importo garantito variabile con la durata dell’attività e l’età del ritiro, che non costerebbe nulla nei prossimi anni e manifesterebbe un (limitato) aggravio sui conti pubblici solo a partire dal 2040 (quando la “gobba” della spesa pensionistica sarà stata quasi azzerata per l’entrata a pieno regime del sistema contributivo). Peraltro, tutto ciò avrebbe il pregio di ripristinare lo “spirito” originario della 335 (la legge che istituì nel 1995 il sistema contributivo) che saggiamente parla non di equità “attuariale” (in base alla quale la pensione dipende unicamente da quanto si è versato e dall’età in cui ci si ritira), ma di equità “semiattuariale” e di conseguenza prevede il mantenimento di principi redistributivi al proprio interno, a cui corrisponderebbe la “pensione di garanzia” per i giovani. Lo “spirito” originario della 335 è stato alterato dalla legge Fornero che ha immaginato una stretta applicazione del principio di equità “attuariale”, dimenticando che uno schema puramente attuariale (uno schema in cui ricevi di pensione esattamente il frutto di quanto hai risparmiato in contributi) risulta anche equo sul piano “sostanziale” solo se è tale il luogo in cui si formano le prestazioni pensionistiche future, ovvero il mercato del lavoro. In realtà, chi ritiene che la previdenza debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo di contro-prestazione (senza nessuna forma, neppure minima, di redistribuzione o di tutele in qualche modo garantite) sta implicitamente accettando come “giusta” ed immodificabile qualsiasi situazione critica o diseguaglianza che si crea nel mercato del lavoro. Legge Zan, la società è già cambiata e questa politica vecchia non lo capisce di Jonathan Bazzi Il Domani, 29 ottobre 2021 Vorrei potermi unire al coro di delusione e risentimento per la morte del ddl Zan, ma mi manca lo stupore necessario: questa era l’unica fine possibile per un disegno di legge scivolato progressivamente in un terreno intossicato da manipolazioni e banchetti cannibalici. Comprendo bene lo sconforto, ma vorrei questo fosse anche il tempo della lungimiranza: lasciamogli la strumentalizzazione del senso delle parole, lasciamogli pure i loro sciocchi boati da stadio ovvero l’illusione della vittoria: ogni processo di cambiamento profondo ha battute d’arresto, scatti e pause. Ma il futuro non si ferma. Lo spazio pubblico è cambiato e continua a cambiare: le persone, le comunità fino a ieri invisibili e silenziate adesso hanno canali e strumenti per manifestarsi, il dibattito si anima sempre più di centri diversi e ulteriori. Di fronte a tutto ciò la politica italiana, ora possiamo dirlo a gran voce, non tiene il passo. Siamo in balia di una classe dirigente vecchia (non solo anagraficamente) e pavida, imbevuta di stereotipi e sfavillante ignoranza, di retorica bigotta e cecità assoluta verso le questioni dell’identità e delle differenze: questo è lo stato delle cose, questo ha reso lampante il dibattito sulla legge contro l’omotransfobia. Perciò viene da pensare che sia quasi un bene che questo fallimento ci sia stato, un fallimento annunciato e profondamente coerente con lo spirito di un paese in cui ancora certe forze sono prevalenti e capillari, trasversali agli schieramenti. La morte del ddl Zan è la cartina al tornasole di un Paese in cui anche gli opinionisti di sinistra continuano ad alimentare l’allarmismo contro la “dittatura del politicamente corretto”, di fatto alleandosi con le forze reazionarie - quelle che ritengono si stia esagerando coi diritti, la tutela e l’ascolto dell’altro da sé -, di una società in cui, in questi mesi, abbiamo dovuto subire il paternalismo di quelli che ci volevano insegnare come combattere le nostre battaglie, invitandoci ad accettare fantomatici “mediazioni” e “compromessi” (ovvero, nei fatti, lasciando indietro gli ultimi tra gli ultimi: le persone trans e non binarie). È la schermografia di un paese in cui le redazioni dei giornali progressisti hanno offerto ripetutamente supporto a chi vive con la mente in un passato fatto di partizioni e recinti che oggi sappiamo essere culturali e non naturali, nonché a un femminismo della differenza biologica che, ignorando bellamente i dati offerti dalla comunità scientifica internazionale, va a nozze con l’odio del fondamentalismo religioso. Ci siamo sempre difesi, uniti, supportati, e continueremo a farlo: l’esultanza della destra in Senato in questo senso, più che oltraggiosa, risulta ridicola. È troppo tardi per ricacciarci nei nascondigli di sempre, l’incantesimo nero è ormai spezzato: la fine del ddl Zan va intesa come una minima, piccolissima pausa in un movimento di liberazione, alleanza e promozione del nuovo, un movimento che giorno dopo giorno prende forma sotto gli occhi sgomenti di chi vorrebbe ricondurre le anomalie nel sottoterra culturale e giuridico della tradizione. Ora non sprechiamo troppe energie nel rammarico: da qui, ancora più lucidi e consapevoli del lavoro da fare, si riparte. La vecchia diga del potere ha provato a ribadire sé stessa, non deve stupire che ci sia riuscita. È solo questione di un po’ più di pazienza del previsto: la corrente del rispetto prossimamente non sarà più arginabile, i rami secchi si guadagneranno la riva. Ddl Zan, la rivolta della società civile di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 29 ottobre 2021 Manifestazioni di protesta dopo la bocciatura: 5 mila in piazza a Milano. La spinta per una legge popolare e le critiche a destra per l’esultanza nell’aula del Senato. Il day after della bocciatura del ddl Zan è una lunga sequela di accuse e controaccuse nella politica di palazzo ma pure di proteste e nuove iniziative, fuori. A Milano ieri in 5 mila sono scesi in piazza contro lo stop del Senato. All’orizzonte, una raccolta firme per una legge popolare, che per bocca del segretario Enrico Letta vedrebbe il Pd in prima linea. La linea di frattura tra i dem e Italia Viva è comunque quella politicamente più netta: “Iv ha immediatamente cominciato a prendersela con noi - le parole di Letta alla radio del partito, Immagina - Chi reagisce così ha qualcosa da nascondere. Una reazione così vocale la dice lunga. Quello che è accaduto ieri (mercoledì, ndr) ci farà riflettere sul nostro futuro, non c’è alcun dubbio”. Di sfondo c’è la partita del Quirinale ed è apparso chiaro che sul disegno di legge contro l’omofobia si è giocato un assaggio di quel che potrà accadere, con nuove convergenze tra destra e renziani. “È nata una nuova maggioranza attraverso il voto segreto”, il ragionamento di Luigi Di Maio. Dopodiché come detto dal mondo dell’associazionismo sono state numerose le prese di posizione contro lo stop al ddl. Per i magistrati progressisti di Area democratica per la giustizia si tratta di una “dolorosa e colpevole battuta d’arresto della politica legislativa sull’ampio tema dei diritti civili”. Cgil e Anpi hanno annunciato la propria partecipazione a presìdi in varie città italiane per il weekend, ieri a Roma c’è stata un’altra manifestazione a Gay street, lo stesso all’Arco della Pace a Milano, mentre a Firenze domani è previsto un sit-in davanti alla sede di Italia Viva, evidentemente considerata la maggior colpevole della battuta d’arresto. Al di là delle dinamiche parlamentari e della caccia ai franchi tiratori, le immagini di un pezzo di Senato in festa subito dopo l’esito del voto per aver fatto saltare un provvedimento contro le discriminazioni ha colpito non solo a sinistra. Dice Filippo Rossi, promotore della Buona destra, che “era nell’interesse del Paese arrivare ad una buona legge su un argomento così delicato. Ho visto una destra antiestetica, non garbata. Si poteva arrivare a un compromesso, certamente, ma anche se non è accaduto non si festeggia in quella maniera sguaiata su queste cose. Non ci si può ridurre al tifo da stadio, alla sempiterna guerra civile, non è così che modernizziamo l’Italia”. È netto anche il giornalista Alessandro Cecchi Paone, oggi consigliere della commissione Istruzione e vicino a FI: “Siamo finiti allineati con paesi omofobi come Russia e Polonia, il problema oggi è il posizionamento geopolitico: di fatto ci siamo posti fuori dal blocco europeo e americano, in Parlamento rimane uno zoccolo duro clerico-fascista, come diceva Marco Pannella, che ogni volta prova ad allontanarci dall’Occidente”. Mentre Elio Vito, ex ministro dei rapporti con il Parlamento, forzista liberal che si è schierato in questi mesi con le piazze arcobaleno, ha lasciato gli incarichi di partito: “I partiti che aderiscono al Ppe e la stessa Ursula von der Leyen guidano le critiche a Ungheria e Polonia per le loro leggi discriminatorie verso la comunità Lgbt. Come possiamo dirci popolari ed europeisti se affossiamo il ddl Zan?”. Le sensibilità anche all’interno dell’attivismo sono comunque diverse, un esempio è la riflessione di Angelo Pezzana, 81 anni, che a inizio anni ‘70 fu tra i fondatori del Fuori, il Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano. A quell’epoca, ricorda, “per la destra eravamo degli sporcaccioni, per il centro e per il Vaticano dei peccatori, per i comunisti un surplus della borghesia, si contava sulla rivoluzione e sul Sol dell’avvenire per farci sparire con tutte le diseguaglianze...”. Poi alcune cose sono cambiate, anche la sinistra ha promosso in pieno i diritti civili, - continua - “ma l’approccio è rimasto ideologizzato e non libertario, compreso su alcuni passaggi del ddl Zan, per questo non ne sono stato un sostenitore”. Qualcosa però è rimasto intatto: “Il festeggiamento della destra è comprensibile. Sono rimasti fondamentalmente omofobi, non sono liberali”. Se l’Italia dei diritti canta coi Maneskin di Maria Corbi La Stampa, 29 ottobre 2021 “Siamo fuori di testa ma diversi da loro”, cantano i Maneskin a New York davanti a un pubblico in delirio, una folla che nemmeno immagina quanto quelle parole assumano un significato preciso in Italia adesso che il ddl Zan è stato affossato da una politica che forse dovrebbe farsi un giro sotto a quel palco, tra quei ragazzi, nel mondo quello “vero” dove il riconoscimento dei diritti, della libertà di essere come si è, e non come si dovrebbe essere, non è nemmeno un tema. È la vita. Invece le sterili e antiche questioni sulle differenze di genere, ma non solo, si aggirano come fantasmi per le stanze della politica. Quando dovrebbero trovare posto in un capitolo di un libro di storia, come memoria. Che allegria vedere Damiano che canta con un collare con la scritta “Sex” e un perizoma con su la lingua dei Rolling Stones indossato sopra i pantaloni. Che tristezza vedere Simone Pillon che al Senato incontra Gaetano Quagliarello e si congratula: “Ci hai regalato un sogno”. Quel che è certo è che il sogno lui, come gli altri impallinatori, lo hanno tolto alle persone invisibili, discriminate, bersaglio dei comportamenti d’odio che speravano in una protezione della legge, della politica. E invece Quagliarello (citarne uno per citarli tutti) spiega soddisfatto che affossarla la legge, perché “ci sono diversi libertini tra i miei”. Già la parola, “libertini” definisce quel che è accaduto. Una parola antica. Se solo i signori deputati e senatori uscissero qualche ora dalle stanze del potere, sempre più simili a una playstation dove si gioca con la vita degli altri, in una continua e sterile contrapposizione, capirebbero qualcosa. “Libertini de che?”. Come potrebbero dire i romanissimi Maneskin che da quel palco del Bowery hanno mostrato al mondo quanta distanza ci sia tra il reale e l’irreale dei palazzi della politica. Quanta energia positiva nelle loro canzoni, nei loro abiti colorati, nella loro libertà da stereotipi, classificazioni, gabbie. Quanta energia negativa in chi continua a giocare con le parole e a minimizzare un problema oltre che un tema visto che l’Italia è al primo posto in Europa per numero di vittime di transfobia: 36 uccisioni dal 2008 al 2016, considerando solo i casi riportati dai quotidiani. La fluidità, il genere non sono più dibattito tra le giovani generazioni. Basterebbe agli onorevoli farsi un giro su Youtube, recuperando magari le immagini del concerto dei Maneskin, per capire in che mondo si trovano, in che epoca. Magari basterebbe anche solo parlare con i figli, veramente, per avere un aggiornamento, per capire, ad esempio, come mai i ragazzi non vanno più a votare. Per capire che in quel ritornello dei Maneskin - “siamo fuori di testa ma diversi da loro” - c’è tutto il loro fallimento. Cannabis, depositate in Cassazione 630mila firme a favore della depenalizzazione La Repubblica, 29 ottobre 2021 I promotori: “Risposta straordinaria, oltre il 70% dei firmatari è under 35”. In tutto sono 630mila le sottoscrizioni a favore della depenalizzazione, salvo imprevisti il referendum avrà luogo tra aprile e giugno 2022. Magi: “È l’unico strumento per difendere i diritti dei cittadini”. Si tratta dell’ultimo step prima della decisione della Consulta, la quale dovrà pronunciarsi sulla legittimità del quesito referendario. Se non ci saranno intoppi - annunciano i promotori - gli elettori saranno chiamati alle urne tra aprile e giugno 2022. La raccolta firme, partita l’undici settembre scorso, era riuscita a raggiungere il mezzo milione di adesioni nel giro di pochi giorni. Merito della possibilità di firmare digitalmente o tramite Spid, l’identità digitale per accedere ai servizi della pubblica amministrazione. Delle 630 mila firme, infatti, “solo circa 5mila sono le firme cartacee”, spiegano i promotori del referendum. Si tratta della prima raccolta firme nata e portata avanti attraverso la possibilità di sottoscrivere digitalmente i referendum “La risposta è stata straordinaria, hanno preso parte molti giovani, oltre il 70% delle persone che hanno firmato ha meno di 35 anni. Le sottoscrizioni sono arrivate dalle grandi città ma anche dai piccoli comuni”, ha detto Marco Perduca, presidente del Comitato per il referendum e membro dell’Associazione Luca Coscioni. Con il referendum propone di modificare il testo unico sulle droghe, in vigore dal 1990, al fine di depenalizzare la condotta di coltivazione per uso personale eliminando tutte le pene detentive, ad eccezione dei casi riferibili ad associazioni finalizzate al traffico illecito. La consultazione punta anche ad eliminare il ritiro della patente per uso personale di sostanze stupefacenti. Rimarrebbe in ogni caso la sanzione per chi guida in stato alterato. “Questa battaglia è frutto di una lunghissima semina”, dice la senatrice Emma Bonino. “Credo di essere una di quelle rarissime persone che si batte per la legalizzazione ma fuma solo le Muratti, la cannabis non mi è mai piaciuta: è molliccia e umida”, ironizza. “Quello che accade su ddl Zan testimonia che il Parlamento è bloccato sui diritti civili. La stessa cosa è avvenuta sull’eutanasia e sulla proposta, di cui sono primo firmatario, sull’autocoltivazione, in stallo in Commissione Giustizia”, dice Riccardo Magi, presidente di +Europa, oggi in Cassazione per il deposito delle firme raccolte per il referendum. “Ciò dimostra, di fronte alle accuse di molti sul referendum con firme digitali come strumento contro il Parlamento, che è invece questo è l’unico modo che i cittadini hanno per fare un passo avanti per i loro diritti”, ha aggiunto. Cannabis terapeutica, nessuna resistenza politica: c’è semmai indifferenza di Michele Giordano Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2021 Dopo troppe chiacchiere alle spalle dei malati, è ormai chiaro quale sia il vulnus nella distribuzione della cannabis medica ai pazienti terminali, ai sofferenti di Parkinson, Alzheimer, fibromialgia, epilessia e tante altre gravi patologie. Ed è proprio la confusione fra la proibizione della marijuana ad uso ludico e quella destinata a chi soffre ad aver creato numerosi equivoci, alimentati anche da secolari pregiudizi anche se, dal 1840 ad oggi, sono ben 26.626 i lavori scientifici pubblicati che confermano gli effetti terapeutici della cannabis. Atteggiamenti ostili hanno pesato, illo tempore, sulla marijuana: anche per precisi interessi economici. Pensiamo al magnate dei giornali Usa William Randolph Hearst che, già negli anni Trenta, per utilizzare solo lui la cannabis (o canapa) a basso prezzo, per stampare i propri giornali in alternativa alla cellulosa attivò, in linea con il cosiddetto yellow jounalism (le odierne fake news) una potente campagna che portò alla proibizione della pianta da parte del presidente Roosevelt. Persistono però, a tutt’oggi, ombre ideologiche su questa controversa pianta. “Mettiamo anche che, nel mondo più liberale che ci sia, la cannabis venga liberalizzata”, spiega il dottor Marco Bertolotto, primario di Terapia del dolore e Cure palliative al Santa Corona di Pietra Ligure (del resto una legge in questo senso, se mai verrà approvata, è oggi al vaglio della Camera e il risultato di un referendum staziona alla Corte Costituzionale). “Per noi medici il problema è un altro. La cannabis terapeutica va utilizzata con continuità, nella stessa quantità come si fa per un farmaco, e per un risultato sicuro abbiamo bisogno di un prodotto perfettamente standardizzato, coltivato da un’azienda farmaceutica o agricola ad altissima tecnologia: il terreno in cui la cannabis viene coltivata dev’essere privo di sostanze nocive come i metalli pesanti: la cannabis, infatti, è un fitoaccumulatore che assorbe tutto ciò che sta nella terra, ma anche nell’aria, sennò può essere nociva. Inoltre la cannabis che si vende oggi al mercato nero, rispetto a quella degli anni sessantottini - e ci sono degli studi su questo - spesso viaggia con un THC, un suo principio attivo, che può arrivare al 30-40% contro il 3-4% di allora. E spesso ci spruzzano sopra la chetamina per creare particolari effetti”. Ma veniamo al nodo gordiano della vicenda: “Al Ministero della Salute c’è un ufficio apposito per la cannabis terapeutica in base a una risoluzione dell’Onu del ‘64” prosegue Bertolotto. “In realtà la quantità ordinata è sottostimata di almeno due terzi. E la cannabis manca. Adesso, per esempio, io ho attivi quasi duemila pazienti che restano, per ora, senza terapia. Il Ministero olandese che fornisce mensilmente la cannabis all’Italia manda quella che chiediamo. Inizialmente gli italiani hanno detto: ce la produciamo noi con l’Istituto farmaceutico militare di Firenze che, però, senza una specifica preparazione, non può farcela. Oggi producono cinquanta, massimo cento chili all’anno. In Germania, che è partita cinque anni dopo di noi, se ne producono dalle sei alle otto tonnellate. Ne ho parlato spesso con i politici: non serve una nuova legge, quella che abbiamo è una delle migliori al mondo. Tanto che vennero da noi molte aziende, israeliane, canadesi e altre ancora che si offrivano di produrre cannabis in Italia, ma le hanno stancate tutte a forza di cavilli e rinvii. In realtà, non c’è resistenza politica, semmai indifferenza trasversale: la resistenza sta, invece, all’interno dell’amministrazione sanitaria. Noi medici che ci occupiamo di questo tema dicevamo ai politici: guardate che la cannabis prodotta non ci basta. Loro chiamavano i funzionari del Ministero della Sanità e loro obiettavano: non è vero, non serve, negando persino i dati. Vorrei vedere se mancassero i farmaci antitumorali o per il diabete… a pensar male direi: manca il business? Spero, a questo punto, che comincino a produrla le industrie farmaceutiche, oggi impotenti per via del brevetto mancante, brevetto che esiste invece per la somministrazione”. Qual è la trafila? “Il paziente con la mia ricetta deve andare in una farmacia galenica o in quelle degli ospedali”. E qui ogni regione ha legiferato a modo suo. In Lombardia, ad esempio, le farmacie non fanno pagare la cannabis, basta presentare la ricetta del medico di base su richiesta di un centro antidolore (a Milano c’è, ad esempio, la Clinn, un organismo che utilizza il sistema ennacannabinoide e che fornisce ai pazienti anche un sistema di monitoraggio). In altre regioni non è così: in Liguria la si può avere gratis solo in ospedale, a Savona, pensate ai disagi di un malato, ad esempio di una malattia degenerativa che abita a Genova o a La Spezia. Uno spiraglio proprio nei giorni scorsi si è aperto: il sottosegretario Andrea Costa ha ammesso i disagi attuali (“Oggi il fabbisogno è di 1400 chili l’anno, ma l’Istituto farmaceutico militare di Firenze è in grado di produrne 300”) e ha promesso che “nelle prossime settimane saranno pronti i bandi per la coltivazione di cannabis terapeutica da parte di aziende pubbliche e private”. Ne sarebbero felici anche i farmacisti che ribattono come “nelle regioni in cui le preparazioni galeniche della cannabis non sono rimborsate, il costo per i pazienti può arrivare anche a 500 euro al mese”. I malati, speranzosi, ringraziano. Unione Europea. Migranti e nemici inesistenti di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 29 ottobre 2021 Mario Draghi, che sarà il padrone di casa del G20, ha detto: “La Ue deve tenere fede agli impegni. Si faccia di più: servono piani d’azione chiari e una gestione davvero comune dei flussi, per le molte circostanze in cui la solidarietà sarà necessaria. In Europa ci si sta non solo per bisogno ma anche per realismo e idealismo” Il lato oggi più esposto di una democrazia è il dovere di umanità. Passata una certa soglia, si entra in una terra incognita dove la difesa dell’interesse nazionale diventa offesa al principio fondante di una civiltà appunto democratica, cioè la pari dignità non solo tra gli abitanti di un Paese ma tra i viventi del mondo. La dolorosa questione dei migranti sta portando l’Europa al di là di quel confine, così stabilmente e ferocemente da legittimare il dubbio se si possa ancora considerare liberale un continente incapace di onorare, e anzi sempre più disposto a disconoscere, le ragioni ideali di cui è stato laboratorio e culla. A metà ottobre, sono arrivate nell’Unione, via terra e via mare, 87.500 persone, di cui 49 mila in Italia (l’anno scorso, la metà, 26 mila). Numeri importanti, di certo non destabilizzanti. Eppure, da dovunque provengano, quali pene soffrano e esibiscano sulla pelle, quante migliaia di morti possano documentare come passaporto per accedere a una vita degna in Paesi non indegni, i profughi sono diventati il virus da cui proteggersi. L’unico vaccino finora brevettato per scongiurare il male che i nuovi miserabili rappresentano sono i muri, i fili spinati, i respingimenti, i finanziamenti sciagurati ai ras che presidiano gli inferni da cui cercano di scappare: pagare perché se li tengano e ne facciamo l’abuso che vogliono. Questa è oggi, e non da oggi, l’Europa che si riunirà a Roma sabato e domenica, insieme ad altri partner internazionali, per un G20 con un vasto programma (dal Covid alla crisi ambientale a quella economica), al quale è stato aggiunto in coda il caso Afghanistan, ultimo fronte da cui aspettarsi esodi di massa. Già tanto che compaia nell’elenco la tragedia universale di questo inizio secolo, anche se mimetizzata a fine lista. A Kabul si muore perché non si trova più cibo, per una vendetta talebana o perché ci si ostina a suonare uno strumento musicale. Erano stati promessi corridoi umanitari per quel popolo riprecipitato nel terrore. Ma non pare una priorità, come non lo è l’interminabile incubo libico o la vergogna delle file esauste di richiedenti asilo lasciati congelare sulla rotta balcanica. Di tutti gli “ismi” che si oppongono ad affrontare questa piaga della nostra civiltà, preferendo negarla o annegarla, non è il sovranismo quello che meglio li riassume, e nemmeno il razzismo. È l’egoismo elevato a sistema di comando e di controllo delle paure, con il fine di tutelare non la quieta vita degli elettori ma il potere di chi si offre loro come paladino contro i più disarmati degli invasori. Il paradosso è che a parole, almeno a parole, alcune delle autorità più rappresentative hanno molto chiaro il pericolo del medioevo prossimo venturo a cui andiamo incontro. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha rigettato la richiesta di finanziamenti per costruire muri anti migranti avanzata da 12 Paesi dell’Unione, particolarmente dimentichi dei valori propri dell’Unione a cui aderiscono. Papa Francesco, dall’altissimo del suo magistero, è appena tornato a inginocchiarsi davanti a chi ha in mano i destini del mondo: “Chiedo ancora una volta che la comunità internazionale mantenga le promesse e cerchi soluzioni comuni, concrete e durevoli per la gestione dei flussi dalla Libia e del Mediterraneo”. E poi, rivolgendosi direttamente alle vittime di soluzioni mai neanche cercate: “Sento le vostre grida e prego per voi. So quanto soffrono coloro che sono rimandati indietro, ci sono dei veri lager lì, in Libia. Siamo tutti responsabili”. Dal fronte laico, altrettanto forte si è alzata la voce del Presidente Mattarella: “Non si può mettere il cartello col divieto d’ingresso dall’Africa o dai Balcani. Le persone in fuga non sono nemici”. Non lo sono, anche se la mistificazione di tanti leader politici, da Salvini a Orbán, da Meloni a Le Pen, spende ogni energia per farli apparire tali. E su questa linea incandescente, che attraversa coscienze e appartenenze non necessariamente di sinistra, si sparano fantasmi come le pistole giocattolo le bolle di sapone: ci rubano il lavoro, portano malattie, stuprano le donne, spacciano droga, diffondono il dio dell’Islam contro il nostro. Generalizzazioni spicce che hanno avuto l’effetto di attecchire rapidamente in terreni non coltivati dalla buona politica, e insieme di rendere flebili le argomentazioni e le azioni di contrasto. Basti pensare alla fine che ha fatto la proposta di Enrico Letta, appena diventato segretario del Pd, per introdurre lo Ius Soli in questa legislatura: riguarderebbe un milione di minorenni nati in Italia, che parlano italiano, che non toglierebbero niente a nessuno. Sparita dai radar, causa persa in partenza, non è il momento (neanche per chi l’aveva sostenuta). E quando arriverà, o più precisamente tornerà, il momento di smettere di considerare lo straniero un nemico? Il nostro premier, Mario Draghi, la cui influenza è notevole e nota anche al di fuori dei confini nazionali, sarà il padrone di casa dell’imminente G20. Di recente ha provato a dare una scossa all’Europa, di cui è stato banchiere centrale, proprio sulla vicenda migrazioni: “La Ue deve tenere fede agli impegni. Si faccia di più: servono piani d’azione chiari e una gestione davvero comune dei flussi, per le molte circostanze in cui la solidarietà sarà necessaria. In Europa ci si sta non solo per bisogno ma anche per realismo e idealismo”. Quanto all’Italia, “l’approccio del nostro governo non può che essere equilibrato, efficace e umano: nel proteggere i confini dall’immigrazione illegale e dai traffici di profughi ma anche nell’accoglienza”. Ha usato proprio queste parole, Mario Draghi: approccio umano e accoglienza. Il che significa, “continuare a salvare vite sulla rotta mediterranea e trasformare i migranti in fratelli, invece che trattarli da nemici”. Sintonia anche lessicale, “nemici”, con il monito di Mattarella. Riuscirà questo principio, e i testimoni eccellenti che lo rivendicano, a fare breccia nel fin troppo esteso G20 di Roma, che ospiterà Paesi a zero ospitalità e massima ostilità ai diritti civili e banalmente umani come Turchia, Brasile, Arabia Saudita? Il senso di comunità e le risorse economiche e scientifiche a disposizione stanno salvando l’Europa e gli Stati Uniti dal flagello del coronavirus. L’Africa, che ha il 17 per cento della popolazione mondiale, ha finora ricevuto il 2 per cento dei vaccini contro il 70 per cento dei Paesi variamente ricchi. Al di là delle motivazioni umanitarie, la pretesa di salvarsi da soli è un’illusione archiviata dalla storia e non prevista nel perimetro pur largo di una democrazia. Lo stesso vale per il virus, diffusamente percepito come tale, di quella parte di umanità che non si rassegna a una fine grama e nota. È fatta di esseri di ogni età, laureati e studenti, lavoratori e giovani in cerca di un futuro, madri che sperano di dare un domani ai propri figli, e bambini, una marea di bambini nati senza colpa alcuna. Scriveva il poeta Gianni Rodari: “La lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra”. Prima o poi verrà il momento, quale sia la fede che ci ispira o la parte politica che ci rappresenta, di affrontare quel peso insopportabile, invece di scacciarne la sagoma come fosse un tabù. Gran Bretagna. Caso Assange, Amnesty: “No all’estradizione, sì alla scarcerazione” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 ottobre 2021 La segretaria generale di Amnesty International Agnès Callamard ha chiesto alle autorità statunitensi di annullare le accuse nei confronti dell’imputato e alle autorità britanniche di non estradarlo e scarcerarlo immediatamente. Callamard ha reiterato queste richieste dopo che un’indagine di Yahoo News ha rivelato che i servizi statunitensi avevano valutato di rapire o uccidere Assange mentre si trovava all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Queste rivelazioni indeboliscono ancora di più le già inaffidabili assicurazioni diplomatiche fornite dagli Usa che, se estradato, Assange non sarebbe posto in condizioni equivalenti a maltrattamento. Anche perché gli Usa hanno espressamente dichiarato che queste garanzie potrebbero essere ritirate. Paradossalmente, a quasi 20 anni di distanza nessuna delle persone sospettate di crimini di guerra commessi dagli Usa nelle guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq è stata incriminata e tantomeno condannata, mentre colui che ha rivelato tali crimini rischia di trascorrere il resto della sua vita in carcere. L’udienza dovrà esaminare le cinque motivazioni su cui si basa l’appello presentato dagli Usa contro la decisione presa a gennaio da una corte di grado inferiore di non estradare Assange. Soprattutto, dovrà giudicare la credibilità delle assicurazioni fornite dagli Usa circa il trattamento di Assange, che Amnesty International giudica inaffidabili. Gli Usa accusano Assange di aver cospirato, insieme all’analista delle forze armate Chelsea Manning, per ottenere illegalmente informazioni riservate. Ai sensi dell’Atto sullo spionaggio e dell’Atto sulle frodi informatiche, rischia fino a 175 anni di carcere. L’incriminazione di Assange costituisce una grave minaccia per la libertà di stampa, tanto negli Usa quanto altrove. Assange ha svolto attività professionali proprie dell’esperienza quotidiana del giornalismo investigativo. L’eventuale estradizione di Assange criminalizzerebbe comuni prassi giornalistiche e permetterebbe a quello degli Usa e ad altri governi di prendere di mira giornalisti e scrittori al di fuori delle loro giurisdizioni per aver denunciato le loro malefatte. L’allarme del Garante: “Stop ai rimpatri in Egitto, si rischiano trattamenti inumani” di Liana Milella La Repubblica, 29 ottobre 2021 In aula per il processo Regeni, Mauro Palma (Garante delle persone private di libertà) riflette sui mille egiziani allontanati dal 2018 a oggi dall’Italia e ritiene che i loro diritti fondamentali siano a rischio. Mauro Palma è molto preoccupato. Era in aula quando è cominciato, ed è subito finito, il processo Regeni. Il suo pensiero, di continuo, va a Patrick Zaki e alla sua prigionia. E mentre il suo staff, a campione, sale sui charter che effettuano i rimpatri forzati di persone migranti anche in Egitto, Palma decide di lanciare un’allerta, un “no” proprio a quei rimpatri nei Paesi d’origine che potrebbero tradursi in conseguenti trattamenti inumani. Perché i fatti parlano chiaro e Palma, parlando con Repubblica, li elenca in un allarme che diventa progressivo. C’è un dato numerico tondo, mille persone, tanti sono gli egiziani rimandati in patria dal 2018 al 15 settembre 2021. E poiché, come spiega il ‘Garante delle persone private della libertà’, “molti rapporti internazionali parlano di casi di detenzione in Egitto basati su motivi ideologici e, alla luce dei fatti, non ci sono garanzie sul futuro delle persone che vengono espulse, una volta rientrate in quel Paese, allora bisogna ripensare i rimpatri forzati in Egitto, perché si rischiano trattamenti inumani”. Partiamo dal caso Regeni. Perché ha deciso di essere in aula durante l’avvio del processo per il suo assassinio? “Era importante verificare, in questa terribile circostanza, la volontà cooperativa delle autorità egiziane. Così com’era importante far percepire a tutti coloro che si sono occupati di questa vicenda, perché colpiti negli affetti o per impegno professionale, che l’occhio di un’istituzione di garanzia dei diritti delle persone più vulnerabili esiste ed è vigile”. In che senso lei, come Garante, può vigilare in una vicenda come questa? “Il Garante nazionale è un organismo di prevenzione nel quadro di uno specifico trattato dell’Onu, noto con la sigla Opcat. Deve prevenire maltrattamenti e tortura, e proprio per questo affermare una cultura di accountability: le autorità dello Stato devono rispondere di come trattano i propri cittadini e saper individuare situazioni in cui i primi fondamentali diritti - la dignità e l’integrità fisica e psichica - non sono rispettati. Deve saper sconfiggere ogni ipotesi di implicita impunità. Questo è un tema che non ha confini; che chiama in causa la responsabilità di ogni Stato, anche dell’Egitto, soprattutto quando la questione coinvolge un nostro concittadino illegalmente privato della libertà, e torturato fino alla morte”. Mi scusi, ma proprio sull’Egitto i vostri dati parlano chiaro. I rimpatri sono stati 748 dal 2018 al 2020. Nel 2021 l’Egitto figura come terza destinazione per ordine di grandezza dopo Tunisia e Albania. E sono 252 i cittadini egiziani rimpatriati al 15 settembre di quest’anno. Stiamo parlando di mille persone, in meno di quattro anni... “Già nel 2018, nella nostra Relazione al Parlamento, avevamo espresso forti perplessità sull’opportunità di organizzare voli di rimpatrio forzato verso Paesi come l’Egitto che non hanno istituito un organismo nazionale di prevenzione della tortura o di altri trattamenti o pene inumane o degradanti. Un Paese che non ha firmato e tantomeno ratificato proprio quel trattato Opcat di cui ho parlato prima”. I rapporti di varie organizzazioni non governative parlano di carceri egiziane dove non vengono rispettati i più basilari diritti umani e documentano che si può essere incarcerati per un’opinione o per un tweet, come dimostra proprio la vicenda di Patrick Zaki, in cella da un anno a dieci mesi. Chi può davvero pensare che ai rimpatriati vengano garantiti dei diritti? “Proprio questo apre un problema nel considerare la possibilità di rimpatrio di persone egiziane senza specifiche garanzie. Il Rapporteur dell’Onu sulla tortura ha più volte ricordato che gli Stati che intendono allontanare stranieri dal proprio territorio devono scrupolosamente valutare se la persona non corra il rischio di maltrattamenti una volta rientrato in patria, anche considerando la ‘generale situazione di violenza’ nel Paese destinatario. Non basta controllare che lì sia in vigore una serie di leggi di tutela; occorre considerare anche i report di affidabili Organizzazioni internazionali sulla reale situazione”. Ma alla luce dei casi Regeni e Zaki è evidente che l’Egitto non fornisce affatto queste garanzie... “Se lei mi chiede quale sia la fisionomia che emerge dell’Egitto di oggi, io le rispondo che non è certo quella di quando accordi di cooperazione con l’Italia vennero stabiliti molti anni fa, perché questi accordi devono essere sempre sottoposti all’esame della variabilità della situazione interna. E anche le vicende di Regeni o quella, che speriamo abbia presto un esito positivo, di Zaki, sono indicatori del clima attuale o di quello di anni recentissimi”. E quindi lei come conclude il suo ragionamento alla luce dei fatti che abbiamo di fronte? “In modo molto semplice. A oggi non si può escludere a priori che i cittadini in posizione di irregolarità forzatamente rimpatriati vengano percepiti, una volta rientrati in Egitto, in qualche modo come ostili al regime e che in ragione di queste percezioni possano subire particolari vessazioni, da noi oggi non prevedibili. Per questo credo che l’Europa, nel suo complesso, dovrebbe riflettere sul tema dei rimpatri forzati quando Paesi di dubbia situazione democratica sono coinvolti”. Professor Palma, sta dicendo che non solo l’Italia, ma i Paesi europei democratici, devono pensare di sospendere i rimpatri forzati verso l’Egitto? “Alla luce di quanto appena detto credo sia doverosa quantomeno una riflessione sull’opportunità di rimpatriare le persone in Egitto. Non è la prima volta che il Garante nazionale chiede riflessioni approfondite su determinate destinazioni: lo abbiamo fatto di recente, ovviamente, per i rimpatri in Afghanistan”. In Italia c’è il caso di un giovane egiziano, Hassan Sharaf, morto in carcere in circostanze non chiare. È di ieri la notizia che un processo si farà, ma che la data dell’udienza è fissata per il 2024. Cosa pensa di questo caso? “L’unica parte positiva di questa terribile vicenda è che sia in corso un procedimento giudiziario per far luce sulla morte di Hassan Sharaf. Il dovere dello Stato italiano però è quello di dare conto di quanto è avvenuto in tempi brevi. Ma tutto ciò rinvia da un lato ad alcune lentezze che si registrano per molti motivi in ambito giudiziario, dall’altro alla complessità di indagini di questo tipo. Certo, anche i familiari di Hassan Sharaf hanno diritto a che la verità giunga in tempi brevi”. Stati Uniti. Oklahoma, condannato a morte scosso da convulsioni e vomito di Anna Lombardi La Repubblica, 29 ottobre 2021 Usato un cocktail letale sul quale c’era il sospetto che potesse causare un dolore atroce. John Grant, un afroamericano di 60 anni, è stato condannato a morte nel 2000 per l’omicidio di un dipendente della prigione. Dopo aver ricevuto il via libera dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, le autorità carcerarie dello stato del sud gli hanno iniettato le tre sostanze ed è stato dichiarato morto alle 16:21 (23:21 in Italia). Questo protocollo era già stato applicato nel 2014 e nel 2015, ma l’evidente sofferenza dei detenuti ha portato lo stato a dichiarare una moratoria sulle esecuzioni. John Grant “ha iniziato a tremare poco dopo la prima iniezione”, ha detto il reporter dell’AP Sean Murphy, che ha assistito alla scena. Ha avuto circa 20 convulsioni e ha vomitato diverse volte prima di svenire. “Ho visto 14 esecuzioni, non ho mai visto niente del genere”, ha detto. Il suo calvario ha immediatamente scatenato forti critiche. “L’Oklahoma aveva bloccato i suoi ultimi tre tentativi di esecuzione prima della sua pausa di sei anni, ma apparentemente non ha imparato nulla da quell’esperienza”, ha commentato Robert Dunham, che gestisce il Death Penalty Information Center (DPIC). Qualche giorno fa, i servizi penitenziari dell’Oklahoma avevano tuttavia affermato in un comunicato stampa che il loro protocollo era “umano ed efficace” e che le esecuzioni potevano riprendere. L’avvocato di alcuni detenuti, Dale Baich, ha detto che ci sono ancora “serie domande” sul dolore causato dal cocktail letale e la sua conformità con la Costituzione degli Stati Uniti, che vieta “punizioni crudeli e insolite”. “Un processo su questa particolare questione dovrebbe iniziare a febbraio e le esecuzioni non dovrebbero riprendere prima di allora”, ha detto. Mercoledì una corte d’appello gli ha dato ragione e ha sospeso l’esecuzione. Ma le autorità dell’Oklahoma si sono immediatamente appellate alla Corte Suprema degli Stati Uniti per ribaltare la decisione. Senza spiegare le sue ragioni, l’Alta corte ha infine dato il via libera all’esecuzione in extremis. I tre giudici progressisti, tuttavia, hanno chiarito che non erano d’accordo con la maggioranza conservatrice. Il protocollo contestato combina un sedativo, il midazolam, e un anestetico, destinato a prevenire il dolore prima dell’iniezione di cloruro di potassio a dose letale. È stato usato nel 2014 per giustiziare Clayton Lockett, ma il condannato è morto in apparente agonia per 43 minuti. Nel 2015, un altro condannato, Charles Warner, si lamentò che il suo “corpo stava bruciando” prima di morire, poiché i boia avevano usato il prodotto sbagliato. Lo stesso errore si è quasi ripetuto nel settembre 2015 e un’esecuzione è stata rinviata all’ultimo minuto. In seguito a questi fallimenti, un gran giurì ha avviato un’indagine e le autorità hanno accettato di sospendere l’applicazione della pena di morte. Nel 2020, è stato messo a punto un nuovo protocollo e sono state fissate diverse date di esecuzione nel 2021, a cominciare da quella di John Grant. L’Oklahoma prevede anche di giustiziare Julius Jones, un uomo afroamericano di 41 anni che è stato condannato a morte nel 2002 per l’omicidio di un uomo d’affari bianco, che ha sempre negato. Il suo caso è stato oggetto di una serie di documentari e di un podcast, ed è sostenuto da numerose associazioni e personalità come Kim Kardashian, che sono convinte della sua innocenza. Ha perso tutti i suoi appelli legali, ma il Board of Pardons dell’Oklahoma ha raccomandato che la sua sentenza sia commutata in ergastolo. Il governatore non ha ancora preso una decisione. Stati Uniti. Nell’anno della pandemia boom di omicidi: +5mila di Valerio Fioravanti e Michele Vaira Il Riformista, 29 ottobre 2021 Il 29% in più nel 2020 e nel 2021 aumentano ancora. Lo rivela lo Uniform Crime Report dell’Fbi: la prova che più carcere e pena di morte non servono. Le cause dell’impennata? Il lockdown e a anche un “ridimensionamento della polizia proattiva”. Negli Stati Uniti è successo qualcosa di particolare: nell’anno del Covid, il 2020, ci sono stati 5.000 omicidi in più rispetto all’anno precedente. E nei primi sei mesi del 2021 si è registrato un ulteriore aumento del 10%. In Italia invece gli omicidi sono diminuiti. C’entra il lock down. Ma forse c’entra anche Black Lives Matter. Da quando Nessuno tocchi Caino è stata fondata 28 anni fa, ha sempre tenuto un occhio particolare sugli Stati Uniti. Non per un pregiudizio ideologico antiamericano, ma perché studiare gli errori di una democrazia è più interessante che studiare gli errori di una dittatura. E illudersi che il crimine si possa contrastare solo inasprendo le pene e costruendo più carceri, o bracci della morte, è sicuramente un errore. Anche qui, non per motivi ideologici, ma perché non funziona. Che non funzioni gli americani lo sanno, visto che glielo dice ogni anno l’FBI, che compila un dettagliatissimo rapporto, Uniform Crime Report, sui crimini compiuti nella nazione. Verrebbe da dire che è un rapporto “bellissimo”, ma sarebbe equivoco. L’argomento non è bello per niente: omicidi, stupri, rapine, ferimenti, aggressioni. Ma la mole di dati fornita al pubblico, la completa trasparenza e accessibilità, l’analisi imparziale, la meticolosità con cui vengono raccolti i dati da tutte le stazioni di polizia della sterminata nazione, quella sì è “bellissima”. In Italia e in Europa non abbiamo niente del genere. Noi abbiamo solo rapporti stringati, di poche pagine. Per qualche motivo noi consideriamo l’argomento disturbante, e i dati sono di pertinenza dei “professionisti”, al massimo di qualche sociologo, non certo da diffondere tra i normali cittadini. Uniform Crime Report invece è costituito da centinaia di pagine dove dentro c’è tutto ciò che in qualche misura costituisce “crimine”, dalle violazioni del codice della strada fino agli omicidi involontari, preterintenzionali, per legittima difesa, “giustificati” (sotto questa definizione vanno gli omicidi commessi dalla polizia) fino agli “aggravati”. Ci sono dati sulle vittime e sui perpetratori, divisi per età, sesso, etnia, livello di istruzione, eccetera. Per motivi di spazio ora parliamo solo di omicidi. Nel 2019 erano stati 16.500, nel 2020 sono aumentati del 29% e sono arrivati a 21.500. Nei primi sei mesi del 2021 stanno ancora aumentando del 10% rispetto al record del 2020. In Italia il totale di omicidi, secondo la Polizia, è sceso dai 315 nel 2019 ai 271 del 2020, e nei primi sei mesi di quest’anno il trend è ulteriormente in calo. Ricordiamoci che gli Usa hanno 330 milioni di abitanti, l’Italia ne ha 60. Noi siamo 5,5 volte di meno. I nostri omicidi nel 2020 sono stati 80 volte di meno. I dati dell’FBI affermano che il picco di omicidi Usa è emerso per la prima volta la scorsa estate, apparentemente senza una chiara correlazione con le politiche o le condizioni locali. Contemporaneamente è diminuita la frequenza di molti altri tipi di reati “minori”, complicando ulteriormente l’analisi. In generale nelle città con più di 100.000 abitanti si è registrato un aumento degli omicidi del 35%. Alcune città stanno battendo tutti i record negativi, con dozzine di persone uccise ogni fine settimana a Chicago, o Milwaukee e Austin. Oakland, in California, la settimana scorsa ha superato i 100 omicidi dall’inizio dell’anno. L’FBI ha segnalato una doppia coincidenza: gli omicidi sono aumentati quando le comunità hanno iniziato ad allentare le chiusure dovute al Covid, e in tutto il Paese si sono intensificate le proteste contro la polizia per l’uccisione di George Floyd, e le richieste del movimento Black Lives Matter di ridurre i finanziamenti alla polizia, o di trasformarla in una specie di protezione civile. Gli analisti suppongono che gran parte dell’aumento sia correlato alla tensione economica, sociale ed emotiva della pandemia, e le chiusure di imprese e scuole sembrano aver avuto un impatto significativo, così come le interruzioni dei servizi comunitari che assistono coloro che sono a rischio di commettere reati. Tra le concause gli esperti hanno anche indicato un ridimensionamento della polizia proattiva e una delegittimazione delle forze dell’ordine in alcune comunità. Ecco… Nessuno tocchi Caino di solito si fa un vanto di elaborare analisi serie… ma stavolta deve far notare la definizione “ridimensionamento della polizia proattiva” Sembra vogliano dire che la polizia è permalosa, e dopo le critiche ricevute da Black Lives Matter, non interviene e lascia correre... e, viceversa, quando ti spara (perché negli Usa la polizia uccide in media 1.500 cittadini l’anno) è per la sua “proattività”. Libia. I rifugiati di Tripoli: “Vivere è nostro diritto, lotteremo fino alla fine” di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 ottobre 2021 Dal presidio permanente davanti all’Unhcr nella capitale libica una conferenza stampa per rompere il silenzio sulle persecuzioni. Quello che sta succedendo a Tripoli è un fatto storico senza precedenti. Di torture, stupri, omicidi, detenzioni arbitrarie, commistione tra autorità e trafficanti avevamo visto e sentito. Ma da 28 giorni sul piatto c’è qualcosa di inedito: migliaia di rifugiati, stanchi di subire ogni genere di soprusi, si sono auto-organizzati e stanno lottando. Dopo i rastrellamenti in diversi quartieri di Tripoli che l’1 ottobre hanno portato alla detenzione di 4/5 mila persone, si sono accampati davanti all’Unhcr in cerca di riparo. Hanno creato un’assemblea per prendere decisioni e un gruppo di coordinamento con i media per far sentire la loro voce. Vogliono una cosa soltanto: l’evacuazione verso un paese sicuro. Ieri dal presidio permanente, con l’aiuto di Amnesty e Mediterranea, hanno tenuto una conferenza stampa online per “rompere il muro di silenzio”. Di fronte a giornalisti italiani, attivisti europei e un vescovo hanno detto: “Continueremo questa battaglia fino all’ultimo respiro, finché non ci uccideranno tutti. Non abbiamo nessun altro posto dove andare. Abbiamo il diritto di vivere, sentirci sicuri, essere liberi”. Durante l’intervento di David, originario del Sud Sudan, sui telefonini scorrono in diretta le immagini del mega-accampamento: persone ammassate sotto tende di fortuna, stese su giacigli ricavati sopra i marciapiedi o appoggiate ai muri delle case circostanti. “Siamo stati dimenticati da tutti”, esordisce. Denuncia che dall’inizio della protesta i rifugiati non ricevono assistenza medica, né beni di prima necessità. Ieri erano 2.700, tra cui 300 donne e altrettanti bambini. Non ci sono bagni e le condizioni igieniche stanno peggiorando. Questo crea tensioni con gli abitanti della zona. Tra i libici solo qualcuno li comprende e sostiene. Mercoledì sera una macchina di miliziani è passata sopra un ragazzo eritreo di appena 17 anni, schiacciandolo. Il ferito è stato portato privo di sensi in una clinica e poi all’ospedale centrale di Tripoli. Dove è morto. È la seconda vittima dall’inizio delle proteste. Il 12 ottobre un 25enne sudanese era stato ammazzato in mezzo alla folla da uomini a volto coperto. Il 23 del mese, invece, il fotoreporter libico Saddam Alsaket è sparito dopo un servizio sulla protesta. I rifugiati che protestano sono sopravvissuti al cerchio infernale che circonda le loro vite in Libia: detenzione, torture, fughe, tentativi di attraversare il mare, intercettazioni della cosiddetta “guardia costiera”, di nuovo detenzione. Dopo i rastrellamenti di inizio ottobre la paura di finire in prigione o essere uccisi per strada si è moltiplicata. Al cerchio delle sofferenze si sovrappone quello delle responsabilità. Le autorità libiche eseguono: catturano i migranti e li rinchiudono nei centri. Le responsabilità, però, stanno dall’altro lato del Mediterraneo. “Gli abusi che abbiamo ascoltato sono conseguenza degli accordi Italia-Libia del 2017”, dice Ilaria Masinara, di Amnesty International. Mercoledì l’inviato speciale Unhcr per il Mediterraneo centrale e occidentale, Vincent Cochetel, ha ripreso in un tweet le richieste di protezione e sicurezza dei manifestanti scrivendo però che l’agenzia Onu non può evacuare i 45mila rifugiati bloccati nel paese nordafricano. “Tocca alle autorità libiche proteggerli in conformità ai loro obblighi internazionali”, ha detto. Sono proprio quelle autorità, però, a metterli in pericolo. E non solo perché Tripoli non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ma perché i finanziamenti che riceve dai paesi dell’Unione Europea servono a bloccare, a qualsiasi costo, i disperati che tentano di fuggire. “L’Italia e l’Europa hanno la responsabilità di questa situazione e adesso devono risponderne portando al sicuro chi rischia ogni giorno la vita. L’unica soluzione è un’evacuazione di massa dalla Libia”, ha concluso Luca Casarini di Mediterranea. Le torture dei golpisti nelle prigioni del Myanmar di Natasha Caragnano La Repubblica, 29 ottobre 2021 Dalla presa del potere a febbraio i militari birmani hanno sottoposto i detenuti politici a violenze di ogni tipo in modo sistematico in tutto il Paese. Le interviste raccolte dalla Associated Press. L’inferno di Kyaw è iniziato quando i militari birmani hanno circondato la sua casa e lo hanno arrestato, per la seconda volta, a causa del suo attivismo pro-democrazia. Mentre i soldati lo picchiavano e lo portavano via con cinque dei suoi amici, sua madre svenne. Suo padre, invece cominciò a piangere. Il ragazzo sapeva bene a che cosa stesse pensando: “Ecco mio figlio. Sta per morire”. È stato torturato per giorni nel centro interrogatorio di Yangon ed è stato liberato solo dopo aver firmato una dichiarazione in cui affermava che le notti di percosse, le mani legate, il sangue e le precarie condizioni in cui era detenuto insieme a centinaia di persone non erano erano mai esistiti. Quella di Kyaw è solo una delle terribili testimonianze raccolte dai giornalisti dell’agenzia di stampa Associated Press per denunciare un sistema di torture metodico e sistematico da parte dell’esercito del Myanmar. Secondo l’inchiesta, da quando a febbraio il generale Min Aung Hlaing ha preso il controllo del Paese con un colpo di stato - arrestando esponenti di spicco del movimento per la democrazia tra cui la ex presidente di fatto Aung San Suu Kyi - sono state arrestate più di 9mila persone. I militari, noti con il nome di Tatmadaw, hanno ucciso più di 1.200 detenuti, tra questi almeno sono stati 130 torturati a morte. L’Ap ha intervistato 28 persone arrestate e rilasciate da febbraio a oggi. Prigionieri che provenivano da ogni angolo del Paese, ognuno con la sua storia: alcuni sono stati arrestati per aver partecipato alle manifestazioni pro-democrazia, in cui migliaia chiedevano la liberazione dei detenuti politici e il rispetto dei risultati elettorali che hanno visto la vittoria del partito di Suu Kyi, altri per nessun motivo apparente. Le foto delle loro cicatrici e lividi, i disegni basati su angoscianti ricordi e la testimonianza di tre disertori militari forniscono le prove di un sistema di detenzione fatto di abusi e torture che ricorda quello usato prima del 2010, quando il Paese ha iniziato la sua transizione verso la democrazia. La maggior parte delle torture si è verificata all’interno di complessi militari, ma sono state anche trasformate vecchie strutture pubbliche, identificate dall’agenzia di stampa grazie alle testimonianze. A Kyaw, i soldati hanno ordinato di tenere il capo chino, dopo averlo incappucciato e picchiato, mentre veniva trasportato al centro di Yangon. Il suo interrogatorio è durato più di 12 ore, quando hanno scoperto che non sapeva nuotare lo hanno preso a calci in un lago. “Chi sei e cosa stai facendo?”, gli hanno chiesto urlando. Lin Htet Aung, ex capitano dell’esercito, ha detto all’Ap che queste tattiche di interrogatorio fanno parte dell’addestramento militare. Le linee guida dei superiori sono semplici: non ci interessa come si ottengono le informazioni, purché le si ottenga. E questo vale anche se sono false, come spesso accade per porre fine alle violenze. Dopo aver chiesto un commento ai funzionari militari i giornalisti dell’agenzia di stampa hanno ricevuto una email di una sola riga che diceva: “Non abbiamo intenzione di rispondere a queste domande senza senso”. La scorsa settimana, in un apparente tentativo di migliorare la propria immagine, l’esercito ha annunciato che più di 1.300 detenuti sarebbero stati liberati dalle carceri e che le accuse contro altri 4.320 in attesa di giudizio sarebbero state sospese. Ma non è chiaro quanti siano stati effettivamente rilasciati e quanti di questi siano già stati nuovamente arrestati e costretti a queste terribili violenze. Tutti tranne sei dei prigionieri intervistati dall’Ap sono stati oggetto di abusi, comprese donne e bambini. Mentre gli uomini denunciano torture fisiche più gravi, le ragazze raccontano di violenze psicologiche, come la minaccia di stupro. “Sapete bene dove siete, no? Possiamo violentarvi e uccidervi qui”, hanno detto una notte dei soldati ubriachi vicino la cella di una delle testimoni. Non tutte sono state risparmiate dalla violenza. La compagna di cella di una delle ragazze intervistate è stata picchiata così forte che non è riuscita a sedersi o dormire sulla schiena per giorni. La maggior parte di coloro che non ne hanno subiti raccontano, però, che è successo ai loro compagni di cella. Stanze piccole e sovraffollate in cui spesso è impossibile persino piegare le ginocchia, raccontano i testimoni. Alcuni si sono ammalti bevendo acqua sporca di un bagno in comune, l’unica disponibile per loro. Soffrire la sete, la fame e il sonno sono tra le torture maggiormente utilizzate e che tutti gli intervistati affermano di aver patito. A maggio, l’ex sergente Hin Lian Piang ha visto due soldati torturare a morte due prigionieri. “Hanno costretto il medico militare del centro a dichiarare che il decesso era avvenuto per motivi di salute, poi hanno cremato i cadaveri”, il disertore racconta che l’ordine di coprire le vere cause della morte arriva dai superiori e che spesso vengono utilizzate sacche di glucosio per fare sembrare i detenuti ancora vivi. Le strategie utilizzate dall’esercito per nascondere gli abusi sono diverse, di solito colpiscono zone nascoste del corpo dove i lividi non sono visibili o fanno firmare dichiarazioni ai detenuti, come nel caso di Kyaw. “Tecniche che le dittature hanno usato per molto tempo per insinuare dubbi nelle possibili accuse del sopravvissuto, gruppi per i diritti umani o giornalisti”, spiega all’Ap Matthew Smith, cofondatore del gruppo per i diritti umani Fortify Rights. Molti dei testimoni raccontano di essere stati rilasciati solo dopo aver pagato gli ufficiali militari. Il prezzo per la libertà di Kyaw, per esempio, è stato mille dollari. È stato liberato dopo aver firmato una dichiarazione in cui affermava che l’esercito non aveva mai chiesto soldi né torturato nessuno, prima di raggiungere la sua famiglia l’hanno avvertito che se avesse protestato di nuovo avrebbe passato in carcere altri 40 anni. Il ragazzo non sa se i suoi amici sono ancora vivi, ma contro le suppliche di sua madre ha promesso di continuare con il suo attivismo. “Ho detto a mia madre che la democrazia è qualcosa per cui dobbiamo lottare. Non arriverà alle nostre porte da sola”.