Detenuti, la strada riaperta da Palermo di Antonio Maria Mira Avvenire, 28 ottobre 2021 Il reinserimento sociale? Possibile grazie a due articoli (inapplicati) di una legge del 1975. Da 46 anni esiste una norma per favorire il reinserimento dei detenuti e per sostenere le vittime di gravi reati. Prevede un apposito organismo, il Consiglio di aiuto sociale, istituito in ogni Tribunale, e costituito da rappresentanti di istituzioni, Chiesa e volontariato. Sono gli articoli 74-77 della legge 254, l’Ordinamento penitenziario del lontanissimo 26 luglio 1975. Ma dopo i primi anni di applicazione particolarmente intensa, è stata completamente abbandonata. Lo ha scoperto il nuovo presidente del Tribunale di Palermo. Antonio Balsamo. “Anche io non sapevo della sua esistenza. Fino a quando questa estate, dopo la nomina, mi è arrivata una comunicazione bancaria che faceva riferimento al Consiglio. Esisteva solo sulla carta. Non si riuniva da almeno venti anni. Poteva avere il ruolo di costruire una rete tra istituzioni, società civile e mondo religioso. Questo auspicio però non è stato quasi mai tradotto in realtà. C’è un vuoto da colmare. Un vuoto di solidarietà”, dice ancora il presidente. Che in poche settimane ha ricostituito l’organismo, caso unico in Italia. Eppure, insiste il magistrato, “risponde a bisogni concreti. Per sostenere chi ha sbagliato e concretizzando il concetto di sicurezza che non vuol dire costruire più carceri o riempirle di detenuti. Lo sperimentiamo ogni giorno. La sicurezza non può essere mai assicurata tenendo in carcere delle persone per un periodo più o meno lungo, e poi lasciandole in mezzo alla strada senza pensare a delle alternative rispetto alle forme di occupazione illecita che a Palermo sono facilissime da trovare”. Detto e fatto, il presidente è riuscito a insediare il Consiglio il 4 ottobre. “Il giorno di San Francesco e per me ha un forte significato”. Ne fanno parte magistrati, direttori delle carceri, il sindaco Orlando, rappresentanti di Regione, Provincia e Prefettura, il dirigente dell’ufficio provinciale del lavoro, un delegato dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, e rappresentanti di associazioni impegnate nel carcere e nel sociale. Tra loro Tina Montinaro, moglie del capo scorta di Giovanni Falcone, morto a Capaci, e presidente dell’associazione “Quarto Savona Quindici”. “Competenze che noi non abbiamo, una finestra sulla realtà. Abbiamo bisogno di gente che ha voglia di fare”. Il Consiglio non utilizza finanziamenti per creare posti di lavoro, ma svolge opera diretta ad assicurare un’occupazione ai liberati, e organizza corsi di formazione. Cura poi il mantenimento delle relazioni dei detenuti con le loro famiglie. “Una cosa molto bella perché il bisogno affettivo c’è in tante persone”, sottolinea Balsamo. Inoltre segnala i bisogni delle famiglie dei detenuti. “Per costruire una rete alternativa alle forme di welfare mafioso che sono pericolosissime. Ne abbiamo avuto testimonianze inquietanti durante la pandemia”. C’è infine l’assistenza alle vittime dei delitti. In particolare ai minorenni orfani a causa di un delitto. “È pensare a come queste persone possono costruire il loro futuro”. Tutto questo, riflette il presidente, “farà bene anche ai magistrati perché li porterà a farsi carico non semplicemente di un’ottica sanzionatoria, ma a costruire attraverso la giustizia penale una società più aperta, più inclusiva, in cui la pena come istituto rieducativo può essere presa sul serio”. Inoltre le due funzioni, di assistenza ai detenuti e alle vittime “potrebbero incontrarsi. Una delle forme di forte riscatto sociale per i liberandi potrebbero essere attività in favore della comunità nella quale ci sono tante persone che vedono cambiati i propri destini personali e familiari a causa dei sistemi criminali. Sarebbe bello. Ci sono persone che hanno sofferto tantissimo a causa di alcuni reati più gravi commessi a Palermo che però credono tantissimo nel recupero dei detenuti. Penso alla signora Montinaro. Questo orientamento in favore della giustizia riparativa è molto importante perché restituisce dignità a tutti i soggetti del processo, agli imputati e alle vittime, trasformando il processo in un fattore di promozione umana, cambiando il clima al suo interno, che negli ultimi anni è stato un po’ improprio, da parte di tutti. Dobbiamo lanciare il messaggio del diritto alla speranza come possibilità per tutte le persone, anche gli autori dei fatti più terribili, di un autentico riscatto”. Vitto e sopravvitto: finalmente gli appalti saranno separati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2021 Dopo la pronuncia della Corte dei Conti e le tante sollecitazioni del Garante di Roma e di quello nazionale è stato indetto un nuovo bando che riguarda i penitenziari del distretto del Provveditorato di Lazio, Abruzzo e Molise. Dopo la pronuncia della Corte dei Conti e, ancora prima, dalle tante sollecitazioni a partire da quella della Garante del comune di Roma Gabriella Stramaccioni e del Garante nazionale, è stato indetto un nuovo bando per il vitto (colazione, pranzo e cena per i detenuti), ma questa volta separato dal sopravvitto. Si parte dal prezzo di 5,70 euro per pasto completo e il fatto che sia separata dal sopravvitto (la possibilità, per i detenuti, di compare generi alimentari e di conforto), le imprese vincitrici non potranno guadagnarci, scongiurando la conseguenza nefasta del vertiginoso ribasso sul prezzo del vitto. La gara finalizzata alla conclusione di un Contratto per l’affidamento del Servizio per il vitto dei detenuti e internati ristretti negli Istituti penitenziari, da svolgersi mediante l’approvvigionamento e fornitura di derrate alimentari necessarie al confezionamento di pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena), riguarda i penitenziari del distretto del Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise. L’ appalto, infatti, è suddiviso in sei lotti funzionali che comprendono le carceri di Rebibbia, Regina Coeli, Rieti, Paliano, Velletri, Civitavecchia, Viterbo, Frosinone, Cassino, Latina, Chieti, Lanciano, Pescara, Vasto, Teramo, Campobasso, Isernia, Larino, Avezzano, L’Aquila e Sulmona. ll periodo contrattuale dell’appalto è di 24 mesi. È prevista altresì la possibilità di ripetizione del servizio per un ulteriore anno e la possibilità di proroga tecnica per massimo sei mesi. Il prezzo della diaria giornaliera fissato a 5,70 euro - Il valore stimato dell’appalto ammonta al netto dell’Iva è di 54.123.187,20 euro, quale prodotto ottenuto dal prezzo a base d’asta per il numero di presenze presunte: 7.424 presenze giornaliere x 1279 giorni (24 mesi + 12 mesi di opzione + 6 mesi di eventuale proroga tecnica) x 5,70 euro prezzo diaria giornaliera. Parliamo di un primo importante passo per affrontare l’eterno problema del vitto e sopravvitto nelle carceri. Un passo che, appunto, dovrebbero percorrere tutti gli altri provveditorati: quello di assicurare una alimentazione sana e adeguata ai bisogni nutritivi. Infatti, lo scorso 15 ottobre, il Garante nazionale delle persone private della libertà ha inviato una Raccomandazione urgente al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria volta a fissare negli istituti penitenziari un livello qualitativo del vitto che garantisca il diritto alla salute e a una sana alimentazione delle persone ristrette. La Raccomandazione, condivisa con i Garanti regionali interessati e con la Garante dei detenuti della Città metropolitana di Roma, è stata formulata a partire dalla recente pronuncia della Corte dei Conti, che ha negato l’approvazione dei contratti che prevedevano un unico fornitore per il vitto e il sopravvitto in Istituti del Lazio, Abruzzo e Molise. Il sistema misto aveva permesso ribassi anche del 58% sulla base d’asta - Da tempo il Garante nazionale aveva assunto la stessa posizione. Il rifiuto è per una tipologia mista di gara in cui lo stesso fornitore si aggiudica il servizio del vitto (cioè gli alimenti che lo Stato è tenuto a fornire quotidianamente a chi è recluso) e quello del sopravvitto (cioè il servizio a pagamento da parte dei detenuti che intendono acquistare generi alimentari aggiuntivi e altro). Tale sistema ha permesso, infatti, l’aggiudicazione a ditte che, sicure dei consistenti guadagni relativi al sopravvitto in regime di monopolio, offrono ribassi anche del 58% sulla base d’asta, fino a prevedere una spesa di 2,39 euro per una diaria alimentare completa (colazione, pranzo e cena) di un adulto. Rilevando che la questione dei bandi del vitto e del sopravvitto ha dimensione nazionale, il Garante ha richiesto da subito, per le regioni interessate dalla pronuncia della Corte dei conti, e in prospettiva, per tutto il territorio italiano, la predisposizione di procedure di aggiudicazione distinte tra vitto e sopravvitto e tali da garantire la somministrazione di una diaria credibilmente adeguata ai bisogni nutritivi di persone adulte, all’occorrenza prevedendo il parere obbligatorio e vincolante di un tecnologo alimentare indipendente. Inoltre il Garante ha indicato la necessità di configurare il bando per il sopravvitto contemplando la partecipazione della grande distribuzione che, più delle imprese locali, può assicurare varietà dell’offerta e contenimento dei prezzi. Pool del Dap sui pestaggi, Cartabia: “Infondati i timori di parzialità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2021 Per Giuditta Pini del Pd è deludente la risposta della ministra su Marco Bonfiglioli che dispose i trasferimenti da Modena dopo i pestaggi. “Sono infondati i timori di parzialità all’interno della commissione ispettiva istituita per far luce sulle rivolte nelle carceri”. Così ha risposto la ministra della giustizia Marta Cartabia all’interpellanza parlamentare che ha visto come prima firmataria la deputata del Pd Giuditta Pini. Si chiedeva conto della commissione, facendo riferimento anche a quanto pubblicato da Il Dubbio, sulla presenza di Marco Bonfiglioli, dirigente in servizio al carcere di Modena nel periodo della rivolta, in seguito alla quale morirono nove detenuti e su cui sono in corso inchieste. Ricordiamo che ad agosto scorso, la deputata Pini aveva chiesto chiarimenti alla guardasigilli, partendo dalla questa domanda: “Perché, come riportato da Il Dubbio, nel pool del ministero che dovrà far luce sui pestaggi ed eventuali carenze nei soccorsi di quelle ore sono presenti anche dirigenti che hanno gestito quelle stesse ore a Modena? Quali criteri di selezione sono stati individuati per la selezione dei componenti della commissione ispettiva istituita dal ministero della Giustizia? Non è inopportuno che ci sia fra chi ha il compito di verificare gli abusi anche chi in quei giorni ha avuto compiti dirigenziali? E per quale motivo sono stati esclusi dalla composizione della commissione figure come i garanti dei detenuti?”. La deputata del Pd ha anche ritenuto che occorra integrare la composizione della commissione con le figure dei garanti dei detenuti e con altre figure, “senza subordinare il loro ruolo a sottocommissioni, per evitare strumentalizzazioni e polemiche sull’importante operato di indagine della commissione stessa”. La ministra Cartabia, dopo aver spiegato la funzione della commissione e la sua composizione, ha così risposto sul punto: “Le eventuali incompatibilità, anche territoriali, indicate dagli interpellanti con riferimento al dott. Marco Bonfiglioli, siccome dirigente in servizio presso il carcere di Modena proprio durante i fatti dell’8.3.2020, quindi colà presente nei momenti successivi ove si sarebbero verificate gravi condotte poste in essere da operatori penitenziari, pur oggetto di denunzie di irregolarità, oltre che da indagini giudiziarie, ben potranno e saranno vagliate dalla Commissione stessa sotto la supervisione del suo Presidente, sì da risultare infondati timori di eventuali parzialità o minor trasparenza dei lavori”. Per la deputata Pini, la risposta della guardasigilli è “burocratica e deludente, perché non sembra si sia voluto capire la questione, né la sensibilità che c’è a livello cittadino sul tema e quale fosse il problema, che non era personale, ma di volere una commissione il più terza possibile, i cui risultati che ci saranno nei prossimi mesi, possano costituire una risposta accettabile alla richiesta di chiarimenti sulle violenze di quei giorni”. Anche Il Dubbio prende atto della risposta, rimarcando che non c’è alcuna questione personale con il dottor Bonfiglioli. Il tema riguarda la terzietà: anche al livello puramente formale, sarebbe stato più opportuno scegliere addetti ai lavori - i quali non mancano - privi di potenziali “conflitti di interesse”. Diritto allo studio universitario in carcere: le linee guida Dap-Cnupp di Marco Belli gnewsonline.it, 28 ottobre 2021 Responsabili didattici e amministrativi presso le Università per curare i rapporti con le direzioni degli Istituti penitenziari e con gli studenti detenuti; regimi di tassazione particolari per favorire l’iscrizione universitaria di studenti detenuti o in esecuzione penale esterna; organizzazione di attività didattiche, di tutoraggio e di sostegno anche a distanza; forniture di libri e materiali didattici anche in formato digitale; svolgimento di esami di profitto e di laurea. Sono alcuni dei punti sui quali si è concentrata l’attenzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari nella redazione delle linee guida per migliorare la collaborazione fra il mondo penitenziario e quello universitario e garantire ai detenuti un migliore diritto agli studi accademici. Il documento, inviato dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento del DAP ai Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria per l’inoltro a tutti gli istituti penitenziari, vede la luce esattamente a due anni dalla firma del Protocollo d’intesa tra DAP e CNUPP. Le linee guida individuate, riguardano i percorsi di studio universitario delle persone in esecuzione pena e le modalità di collaborazione tra le università coinvolte, il Dipartimento, i provveditorati e gli istituti penitenziari, e dovranno essere recepite nelle convenzioni o nei protocolli d’intesa che saranno sottoscritti fra atenei e direzioni degli istituti. Sono previsti una serie di impegni a carico delle singole università aderenti alla CNUPP e del DAP. Fra questi ultimi, il Dipartimento ha anche assunto quello di favorire, in assenza di ragioni ostative, il trasferimento di studenti detenuti, motivati dall’interesse a seguire percorsi universitari offerti da atenei vicini all’istituto penitenziario di destinazione, e quello di permettere la loro permanenza nell’istituto dove sia iniziato il percorso formativo, fino al termine del corso, salvo improrogabili esigenze di sicurezza e gestione penitenziaria. Negli istituti in cui numerosi detenuti risultino iscritti a corsi universitari e la situazione logistico-strutturale lo consenta, saranno inoltre costituite una o più sezioni destinate a ospitarli, dove possibile, anche in stanze di pernottamento individuali o da condividere con altri studenti detenuti. Saranno inoltre implementata la connessione all’interno delle carceri, per agevolare i contatti fra studenti e docenti o tutor, ma anche lo svolgimento in modalità digitale di lezioni, esami, colloqui di orientamento, incontri di preparazione e pratiche amministrative. “D’altronde, fra tutte le aree del trattamento dei detenuti, proprio il settore della formazione universitaria è quello che ha resistito meglio all’impatto della pandemia” ha sottolineato con soddisfazione Gianfranco De Gesu, direttore generale dei detenuti e del trattamento del DAP, nell’incontro conclusivo con i referenti della Conferenza e i Provveditori regionali dell’Amministrazione Penitenziaria che ha sancito il via libera alle linee guida. E il concetto è suffragato dai numeri. l bilancio del monitoraggio svolto dal CNUPP sull’anno accademico 2020-2021 parla chiaro: 1.034 studenti universitari iscritti (970 uomini e 64 donne), di cui 925 detenuti in 82 istituti penitenziari e 109 impegnati in lavoro esterno o in esecuzione penale esterna; 32 università e 146 dipartimenti coinvolti nelle attività dei Poli universitari. Fra gli studenti detenuti non mancano quelli in regime di alta sicurezza (355) e quelli sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario (21). L’87% degli iscritti (897 studenti detenuti) ha optato per un corso di laurea triennale e fra questi in 23 si sono laureati nell’anno solare 2020. Il rimanente 13% (137 studenti detenuti) ha preferito invece un corso di laurea magistrale o a ciclo unico e nel 2020 in 6 hanno conseguito il diploma di laurea. Numeri che sono inevitabilmente destinati a salire, in parte grazie anche alla ripresa dei corsi in presenza all’interno degli istituti e soprattutto grazie, appunto, alle linee guida delineate da DAP e CNUPP, con le quali si punta a migliorare le prassi in essere e a rendere più omogeneo l’accesso e la fruizione del diritto allo studio universitario per i detenuti. Riforma dell’abuso d’ufficio per i sindaci: la battaglia di Lega, Pd e M5s di Giulia Merlo Il Domani, 28 ottobre 2021 Si tratta di tre progetti di legge al Senato che vanno nella stessa direzione: sgravare i sindaci dalla paura della firma sugli atti, temendo di incorrere in conseguenze penali ed erariali. Tutte le proposte vanno nella direzione di smontare la cosiddetta responsabilità oggettiva dei sindaci, ovvero il fatto che il sindaco risponda penalmente per fatti che siano fuori dal suo diretto controllo. L’iniziativa legislativa ha anche dei risvolti politici più ampi: sul fronte del Pd, infatti, si sta rafforzando il cosiddetto partito dei sindaci, che si considera la spina dorsale del partito sui territori e chiede maggiore considerazione. I progetti di legge al Senato sono tre. A proporli altrettanti partiti: Partito democratico, Lega e Movimento 5 stelle. Ma tutti vanno nella stessa direzione: sgravare i sindaci dalla paura della firma sugli atti, che temono inchieste giudiziarie o rilievi erariali della Corte dei conti. Si tratta, perciò, di un’intesa bipartisan inedita, che fa incontrare sulla stessa strada al Senato il democratico Dario Parrini, il leghista Andrea Ostellari e il grillino Vincenzo Santangelo e anche il gruppo di Forza Italia, che per bocca della capogruppo Anna Maria Bernini ha definito “urgente” la riforma. Una convergenza che dovrebbe permettere un iter parlamentare veloce. “Ci sono le condizioni per una intesa su un testo unificato condiviso”, spiega Parrini, anche se contatti formali non ci sono ancora stati: “Prima si devono svolgere le audizioni, poi si discuterà in un comitato ristretto e infine si arriverà a una definizione del testo”. I progetti di legge si somigliano. La Lega punta a modificare l’articolo 323 del codice penale, prevedendo che il pubblico ufficiale incorre nel reato solo nel caso in cui “ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un congiunto” e in cui “intenzionalmente procura a sé o ad altri ingiusto vantaggio, oppure arreca ad altri danno ingiusto”. Il Movimento 5 Stelle, invece, prende in considerazione il testo unico sull’ordinamento degli enti locali, specificando che il sindaco nell’esercizio delle sue funzioni “risponde esclusivamente per dolo o colpa grave per violazione dei doveri d’ufficio”. Più articolata, infine, è la proposta del Pd, che tocca più testi normativi. Modifica l’articolo 323 inserendo che la violazione del sindaco “si intende riferita a specifiche regole di condotta” che siano “espressamente attribuite al sindaco e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Incide sul testo unico sull’ordinamento degli enti locali, specificando che - salvi il caso di violazione di specifiche regole di condotta - la responsabilità penale del sindaco sia prevista solo per “dolo o colpa grave”. Infine, limita la responsabilità erariale del sindaco al solo caso di dolo. Tutte le proposte vanno quindi nella direzione di smontare la cosiddetta responsabilità oggettiva dei sindaci, ovvero il fatto che il sindaco risponda di fatti che siano fuori dal suo diretto controllo. In questo modo si dovrebbe limitare il rischio per gli amministratori locali di incorrere in guai giudiziari solo a causa del ruolo ricoperto. In sostanza, l’obiettivo è quello di evitare in futuro casi come quelli della sindaca di Crema, indagata per l’infortunio di un bimbo, che si era chiuso due dita in una porta tagliafuoco dell’asilo nido comunale. Il progetto, inoltre, trova anche l’accordo indiretto del governo Draghi, che ha pronte le bozze di riforma del testo unico sugli enti locali in cui è previsto un intervento che riduca i rischi giudiziari per i sindaci. L’iniziativa legislativa ha anche dei risvolti politici più ampi: sul fronte del Pd, infatti, si sta rafforzando il cosiddetto partito dei sindaci che si considera la spina dorsale del partito sui territori e chiede maggiore considerazione. Per questo il disegno di legge che riguarda la responsabilità penale ed erariale è incluso in quello che viene chiamato il pacchetto “dignità per i sindaci”, che comprende altri tre ddl tra i quali anche la riforma delle indennità per i primi cittadini, nell’ottica di aumentarne lo stipendio medio (dagli attuali 3 mila euro delle città medie e 5mila per le grandi, fino a 6 e 7 mila). Più peculiare, sotto il profilo politico, è l’iniziativa dei Cinque stelle: il partito delle origini guardava con diffidenza le ipotesi di depenalizzazione, soprattutto per i politici. Già in questa legislatura con Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia, però, c’era stata una iniziativa per incidere sulle responsabilità degli amministratori locali. Oggi ad aver pesato, probabilmente, sono i cinque anni di esperienza alla guida delle città: sia Chiara Appendino che Virginia Raggi sono state indagate e assolte per abuso d’ufficio, la prima sui bilanci del comune, la seconda per il nuovo stadio della Roma. “L’abuso d’ufficio è inutile e dannoso e andrebbe abrogato” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 ottobre 2021 Il professor Bartolomeo Romano, Ordinario di Diritto penale dell’Università di Palermo, è uno dei massimi esperti in Italia del reato di abuso di ufficio. Quest’anno per Pacini Editore ha curato il volume ‘Il “nuovo” abuso di ufficio’ e tra pochi giorni sarà in libreria per la stessa casa editrice con ‘La riforma Cartabia - La prescrizione, l’improcedibilità e le altre norme immediatamente precettive’ curato con la professoressa Antonella Marandola. Con lui commentiamo i disegni di legge ora in discussione al Senato. Professore quali sono le attuali criticità della normativa sull’abuso d’ufficio? Storicamente il problema più evidente dell’abuso di ufficio è la sua indeterminatezza e la sua mancanza di precisione nel definire le condotte punibili. È un problema che si porta dietro dal 1930 ad oggi. Com’è noto la norma ha subìto una serie di modifiche (1990, 1997, 2012, 2020) segnate dal tentativo ciclico di precisare i connotati della condotta punibile. Tutte queste riforme hanno fallito nel loro intento. Il vero problema è il seguente: stiamo arrivando - ma ciò non riguarda solo l’abuso di ufficio ma anche altre ipotesi, come, ad esempio, il traffico di influenze - a un diritto penale dell’atipicità e della indeterminatezza. Ciò contrasta con i canoni dell’articolo 25 della Costituzione e finisce per scaricare il compito di definire il contorno delle condotte punibili sulla magistratura, soprattutto requirente. Si tratta di una tendenza purtroppo ripetuta: persino nella recente riforma Cartabia il tema della improcedibilità è segnato negativamente da una eccessiva discrezionalità data ai giudici che possono avallare proroghe su proroghe in base ad una loro valutazione sostanzialmente incontrollabile. In questo contesto si colloca la cosiddetta “paura della firma”... Esatto. A causa di questa indeterminatezza e con questa elasticità della norma penale incriminatrice si è ingenerato com’è noto il fenomeno della “paura della firma” da parte degli appartenenti alla Pubblica Amministrazione (Pa), che si inquadra nel meccanismo perverso della burocrazia difensiva: pur di non firmare, i burocrati si fanno legare le mani dietro la schiena. Questo comporta un immobilismo della Pa che si riflette in un immobilismo del Paese. Tanto più in tempi di crisi economica e di ripartenza, che la Pa freni le proprie attività e quelle dei cittadini per paura di prendere qualsiasi iniziativa non è una cosa positiva. Si trasforma la responsabilità penale in una vera e propria responsabilità di posizione, per cui si risponde di un reato semplicemente perché si ricopre una determinata funzione, quasi a titolo di responsabilità oggettiva. Questo è inaccettabile. Vorrei chiarire un punto. Prego... A partire almeno dal 1992 sembra quasi che il vero problema, prevalente se non esclusivo, sia quello del contrasto alla corruzione e al malaffare. Si tratta chiaramente di una preoccupazione seria che merita di essere considerata. Tuttavia, probabilmente, facendo ciò, ossia spostando tutto solo sul versante della repressione penale, si è trascurato l’altro aspetto della questione, non meno importante, anzi: l’efficienza della Pa. Una buona amministrazione richiede un minimo intervento penale, una pessima amministrazione finisce per richiedere un invasivo intervento penale, che però si rivela sterile perché non rende più efficiente il sistema. In questo senso, allora sarà d’accordo con la proposta del leghista Ostellari che vuole eliminare quasi del tutto il vaglio del Giudice penale sui provvedimenti amministrativi... Parzialmente d’accordo. La mia opinione è che l’abuso d’ufficio finisca per essere una norma inutile se non dannosa. Questo tecnicamente emerge dal fatto che lo stesso legislatore si rende conto che molto probabilmente l’abuso d’ufficio si sovrappone ad altre fattispecie di reato più gravi. La clausola di riserva che c’è nell’articolo 323 c.p. (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) è una chiara presa di coscienza che questo articolo nella gran parte dei casi non si può applicare perché esiste una fattispecie incriminatrice più grave. Forse sarebbe stato meglio prendere fino in fondo coscienza di questa situazione per arrivare ad abrogare l’articolo 323 c.p.. Ciò non significa che le condotte più gravi diverrebbero penalmente irrilevanti, anzi sarebbero più facilmente incanalate in norme penali già esistenti, quali la corruzione, la concussione o il peculato. Qual è invece il suo parere sulla proposta del dem Parrini? Fare una riforma esclusivamente a favore dei sindaci rischia di essere letta come una azione della politica che difende soltanto i politici. E poi, perché pensare solo ai sindaci e non, ad esempio, ai presidenti di Regione? E i responsabili di organismi pubblici, come Asl e Università, dobbiamo abbandonarli al loro destino? E in generale, perché non fare una norma che riguardi tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio? Non vorrei che si salvi il sindaco e si abbandonino i funzionari del Comune. Così la riforma sarebbe inutile, perché la ‘paura della firma’ si trasferirebbe dal primo cittadino ai dirigenti comunali. E se questi ultimi non firmano, siamo al punto di partenza. Quindi la criticità della proposta di Parrini è proprio nel fatto che guarda soltanto i sindaci. E cosa mi dice del ddl del grillino Santangelo? Anche questo ha il difetto di fondo di riferirsi solo al sindaco. Ma l’aspetto più critico di questa proposta è che non si occupa per nulla dell’art. 323 c.p., ma solo di responsabilità omissive relative ad altre fattispecie. Ultima domanda: Lega e Partito Radicale hanno raccolto le firme per 6 referendum, uno dei quali cancella la Severino. Qual è il suo giudizio? Noi abbiamo vissuto un lungo periodo, che ha una sua data di nascita probabilmente nella vicenda di Mani Pulite, in cui a poco a poco abbiamo visto rincorrersi una schiera di soggetti che volevano autoqualificarsi come puri, più puri dei puri. C’è stata una cascata di leggi illiberali e liberticide, tra cui buona parte della Legge Severino. Essa contrasta con i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza e in qualche modo interferisce con la libera scelta dei cittadini verso i loro candidati, investiti da vicende penali ancora non concluse. Giuseppe Gulotta e la strage di Alcamo: “I miei 22 anni in carcere per un delitto mai compiuto” di Walter Veltroni Corriere della Sera, 28 ottobre 2021 L’uomo accusato della morte di due carabinieri: “Confessai dopo ore di tortura. Ora penso a quei ragazzi uccisi”. La caserma: “Mi legarono mani e piedi a una sedia, iniziarono a bastonarmi: avevo 18 anni, ero terrorizzato. Volevo solo che finisse presto”. Voleva essere reclutato nella Guardia di Finanza, Giuseppe Gulotta, ragazzo di Alcamo. Aveva diciotto anni, compiuti il 7 agosto 1975. Era andato a Roma, aveva riempito un mucchio di scartoffie e firmato un sacco di documenti. Gli avevano detto che era andato bene e che un giorno sarebbe stato assunto e forse la sua prima destinazione sarebbe stata l’Isola d’Elba. Fin da ragazzo aveva lavorato, da barbiere o da manovale. Ma lo Stato che voleva servire lo ha sbattuto in galera per 22 anni, innocente. Parlo con lui, sopravvissuto all’ingiustizia. “Quando, la sera del 12 febbraio del 1976, sono venuti a prendermi, i carabinieri mi hanno detto che avevano bisogno di me per informazioni. Mi è sembrato normale: ho pensato che, giustamente, la Guardia di Finanza voleva sapere tutto di me, prima di farmi indossare la divisa grigioverde. Ma quando sono uscito fuori, erano le dieci di sera, c’erano troppe macchine ad attendermi. A fine gennaio erano stati uccisi due ragazzi dell’Arma, nella caserma di Alcamo Marina. Trucidati. Si chiamavano Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, uno aveva 35 anni, l’altro solo 18. La mia stessa età. Un assassinio che sconvolse la mia città, la Sicilia e l’Italia intera. Mi portano in caserma e lì mi tengono in una stanza un paio d’ore. Io chiedevo perché mi trattenessero, ma loro mi intimavano di stare zitto e che prima o poi mi avrebbero detto le ragioni. All’improvviso, verso la mezzanotte, si apre la porta ed entra un bel numero di carabinieri. Mi afferrano con forza, mi mettono su una sedia. Mi legano mani e piedi alla sedia e iniziano a bastonarmi e a tirarmi pugni e schiaffi. “Dai confessa, sappiamo tutto”. Sembrava uno di quei film in cui c’è il poliziotto buono e quello cattivo: uno cerca di convincerti con le parole, l’altro con le mazzate. È stata una notte tremenda, uscivano e rientravano, quando ritornavano mi dicevano che gli altri avevano confessato, ma non mi dicevano chi erano questi “altri”. Io non capivo di cosa parlassero, mi sembrava tutto assurdo, un incubo inspiegabile. Io ripetevo solo che non sapevo nulla, non mi rendevo conto di quello che improvvisamente mi stava succedendo, del gorgo in cui ero precipitato. A un certo punto mi dissero che ero accusato dell’assassinio dei due carabinieri di Alcamo Marina. Io continuavo a gridare, in quella notte infame, c he non sapevo nulla, non c’entravo nulla. Ero un ragazzo di diciotto anni e volevo solo tornare a casa mia. Ma la parola “nulla” era una miccia che li accendeva, appena la pronunciavo partivano i pugni. Così tutta la notte. C’era un uomo in divisa, sembrava un ufficiale. Io non sapevo chi fosse, non conoscevo la natura dei gradi. La mattina sono svenuto, il mio fisico non ce l’ha fatta più; me la sono anche fatta addosso. Quando sono rinvenuto gli ho detto che avrei confessato quello che volevano, tutto quello che volevano, purché la facessero finita. È così che mi sono autoaccusato. Mi hanno dato pugni, schiaffi, tirate di capelli, calci nelle gambe... Mi hanno puntato la pistola sulla faccia, facendomi sentire il rumore, mi hanno afferrato e strizzato i testicoli. Mi urlavano di farmela pure addosso, dopo una notte intera, che tanto non mi avrebbero mai fatto andare in bagno. Avevo diciotto anni, ero terrorizzato. Volevo solo che finisse, che finisse presto. Mi dicevano che se non confessavo non sarei mai più uscito. Avevo dolore e paura. Qualsiasi ragazzo della mia età, che non aveva mai avuto nulla a che fare con quelle cose, avrebbe confessato di tutto... E così ho fatto io, Giuseppe Gulotta. Con questo nome e cognome mi hanno fatto firmare un verbale in cui mi autoaccusavo di aver ucciso due ragazzi. Funzionava in questo modo: loro ricostruivano come volevano gli eventi di quella notte del 27 gennaio, e io dovevo rispondere ad ogni frase da loro pronunciata. Loro dicevano: “È andata così, vero?”. E io dovevo rispondere solo “sì”. Così fu redatto il verbale. Al momento della firma non volevo più sottoscrivere quella follia. Fui strattonato e uno mi sibilò: “È meglio che firmi, altrimenti ricominciamo come e peggio di prima”. Il mio nome lo aveva fatto un ragazzo che conoscevo, al quale i carabinieri avevano inflitto la stessa pena”. Questo ragazzo si chiama Giuseppe Vesco, è un giovane fragile, con idee e comportamenti confusi. Gli manca un braccio, perduto nel maneggiare da bambino una bomba della guerra. Fin dalle prime ore successive alla strage di Alcamo, esattamente come sarà per la morte di Giuseppe Impastato, viene fatta circolare la “pista rossa”. Vesco non ha alcun precedente politico, ma improvvisamente si dichiara membro di sconosciute formazioni armate siciliane. La verità sulla notte dell’arresto la racconterà alla Commissione Antimafia Nicola Biondo, un giornalista che ha seguito da sempre questa vicenda. A Vesco hanno fatto bere, legato, acqua e sale, un metodo di tortura ben conosciuto. E poi: “Viene recuperato in questa caserma un telefono da campo, vengono scoperchiati i fili, Vesco viene denudato quasi completamente e vengono attaccati gli elettrodi ai suoi testicoli. Per chi non lo avesse mai visto, neanche nei film, un telefono da campo è una scatoletta con i fili e la rotella. Ogni rotella è una scarica. Vesco fa così il nome del capobanda, dell’uomo adulto, che magari poteva avere qualche “pregiudizio di polizia” - si diceva un tempo - o qualche parentela. È Giovanni Mandalà, fa il bottaio, viene da una famiglia molto umile e vive a Partinico, a pochissimi chilometri da Alcamo, in provincia di Palermo... Dunque il cerchio si stringe. Vesco ha fatto, in quelle condizioni, il nome di Gulotta e di due suoi amici. Tutti insieme, per capirsi, avevano festeggiato il diciottesimo compleanno di Gulotta, solo qualche mese prima. Vesco, per essere credibile, ha aggiunto, o gli hanno fatto aggiungere, l’indicazione di un adulto, Mandalà. Una persona che Gulotta neanche conosceva. Il caso è chiuso. Tutti hanno confessato. Seguirà una interminabile sequenza di processi, appelli, sentenze della Cassazione. “Una sera uno dei miei figli ha trovato sul sito di un programma Rai il messaggio di un tal Seddik74 che diceva di sapere e di voler dire la verità sugli interrogatori per la strage di Alcamo Marina. Seddik era uno dei carabinieri che aveva partecipato alle indagini. Decise di raccontare la verità. Venimmo interrogati dalla Procura di Trapani. Riscontrarono che raccontavamo le stesse cose. Anche se i luoghi delle violenze erano stati prudentemente trasformati, nuovi arredamenti e nuove tinte alle pareti. Il processo di revisione inizia finalmente nel 2010, dura due anni. Grazie alle testimonianze e alle intercettazioni dei sospettati si arriva alla verità. Nel 2012 viene decretata l’assoluzione per tutti. “Per non aver commesso il fatto”. La sentenza è arrivata, è assurdo, esattamente lo stesso giorno del mio arresto. Ma trentasei anni dopo. Ventidue dei quali trascorsi in carcere. Anni che ho regalato allo Stato. Ho perduto il mio tempo migliore. Avevo diciotto anni, ero un ragazzo. Quando sono stato assolto ne avevo cinquantacinque. Una vita spezzata a metà”. Chiedo a Gulotta quale rapporto abbia ora con l’Arma. “Ho grande rispetto e grande considerazione. Se non ci fossero i carabinieri sarebbe il Far West. Io ce l’ho solo con quelli che hanno sporcato la divisa e non onorato la memoria di quei ragazzi morti che non hanno avuto giustizia. Le loro famiglie fanno bene a dire: “Per quarant’anni lo stato mi ha indicato dei colpevoli, ora non ci sono più. Ma chi ha ucciso i nostri figli e fratelli?”“. Già, la domanda resta quella che gli investigatori dovevano porsi quella sera. Invece di perquisire, come fecero, la casa di Giuseppe Impastato o di fare del male a dei ragazzini innocenti. Si è parlato di tutto, per questo caso. Anche di Gladio, sostenendo, da parte di un ispettore di polizia, che i due carabinieri avrebbero fermato un camion sospetto, sul quale c’erano armi appartenenti alla struttura clandestina già operante in zona da tempo. Possiamo però concludere questo allucinante racconto con le parole di un autorevole magistrato siciliano: “La strage di Alcamo Marina, insieme ai mandanti degli omicidi politici Reina, Mattarella e La Torre e ad altri importanti fatti di sangue, sono buchi neri su cui nessuno ha saputo fare luce. Neanche i collaboratori di giustizia che la procura di Palermo ha messo insieme nel corso degli anni, hanno saputo dire nulla di utile, ad esempio, proprio sulla strage della casermetta. Questo porta a pensare che Cosa Nostra non abbia avuto nulla a che vedere con quell’eccidio”. Marche. Provveditore e Presidente del Consiglio regionale a confronto sulle carceri viveremarche.it, 28 ottobre 2021 Il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, Gloria Manzelli, avrà prossimamente un confronto con il Presidente del Consiglio regionale sulla situazione delle strutture carcerarie. Ha accolto, infatti, l’invito che le ha rivolto il Presidente del Consiglio regionale, Dino Latini, nel corso di un nuovo incontro sulle problematiche legate all’attività degli agenti di Polizia penitenziaria nelle sei istituti marchigiani. Ad approfondire la situazione generale, oltre al Presidente, il Garante Giancarlo Giulianelli; la Presidente della Commissione sanità, Elena Leonardi; il Vicecapogruppo della Lega, Mirko Bilo, e le rappresentanze sindacali degli stessi agenti. Fatta salva la ormai nota questione della carenza di organici, il dibattito si è soffermato sullo stato dell’assistenza sanitaria, alla luce degli ormai periodici episodi di aggressione e autolesionismo da parte dei detenuti, riconducibili a fattori di tipo psichiatrico; sul sovraffollamento; sulla formazione degli agenti; sulle attività trattamentali; sulle difficoltà determinate da un unico Provveditorato a cui fanno capo Emilia Romagna e Marche. Argomenti ripresi dalla Manzelli che, intervenendo in videoconferenza, ha fornito un quadro generale della situazione, dicendosi disponibile ad una collaborazione fattiva con la Regione in relazione ad alcuni settori ed ha accettato di effettuare un sopralluogo con la partecipazione delle rappresentanze presenti all’incontro. Il Presidente Latini ha rinnovato l’intenzione di proporre un atto, il piu’ possibile condiviso, che abbia l’obiettivo di sensibilizzare l’Assemblea legislativa sulla situazione oggettiva del sistema carcerario nelle Marche. Numerose le questioni poste sul piatto della bilancia dal Garante Giulianelli, dagli organici alle attività trattamentali, dallo stato strutturale di alcuni istituti alla sanità. Quest’ultimo, comunque, argomento ritenuto centrale, come pure la necessità di incrementare il personale e il monte ore a disposizione per fornire il necessario supporto ai detenuti che presentano patologie di tipo psichiatrico, emerse con maggior forza negli ultimi anni, anche a causa dei mutamenti che si sono palesati nell’ambito della popolazione carceraria. All’incontro hanno preso parte il consulente della Presidenza del Consiglio, Vittoriano Solazzi; il responsabile provinciale sicurezza dell’Udc, Stefano Pelligioni, e per le rappresentanze sindacali della Polizia penitenziaria Francesco Patruno (Fp - Cgil), Maurizio Gabucci (Fns - Cisl), Gianluca Scarano (Uilpa), Alfredo Bruni (Sinappe), Valerio Conza e Mauro Nichilo (Osapp), Sabino Cannone (Sappe). Previsti ulteriori momenti di confronto per un esame esaustivo di tutte le criticità e delle possibili soluzioni ritenute ormai non più rinviabili. Busto Arsizio. Nessun autobus per il carcere: il cappellano organizza un flash mob di Andrea Camurani Corriere della Sera, 28 ottobre 2021 Don David Maria Riboldi ha organizzato per sabato un’iniziativa a cui ha invitato società civile e associazioni. La prima fermata utile è a oltre un chilometro di distanza dalla casa circondariale. Il carcere non è raggiungibile dai mezzi pubblici e per chiedere l’attivazione della fermata dell’autobus il cappellano del penitenziario organizza un flash mob. Succede a Busto Arsizio dove si trova una delle due carceri presenti in provincia di Varese (l’altra, “i Miogni”, è a ridosso del centro storico del capoluogo), struttura sorta in una zona periferica, molto vicina all’autostrada e dove risulta abbastanza comodo arrivarci in auto. Ma per chi è sprovvisto di un mezzo autonomo raggiungere la casa circondariale è faticoso: la prima fermata utile, infatti, è a oltre un chilometro di distanza dalla casa circondariale, al quartiere Sant’Anna. Per arrivare è necessario anche attraversare una strada trafficata dove non c’è, neppure sbiadito, il segno di un attraversamento pedonale. Un problema di cui ha parlato di recente anche il ministro della Giustizia Marta Cartabia, in visita lunedì scorso: “Con la sinergia di tutte le istituzioni è possibile migliorare le cose, ma soprattutto col contributo di ognuno. Mi dicono della difficoltà, anche qui a Busto Arsizio, nell’arrivare coi trasporti pubblici fino all’ingresso del carcere. Si tratta di piccole grandi decisioni che possono cambiare la vita delle persone”. E così, forte delle parole della ministra, la guida spirituale dei detenuti don David Maria Riboldi non ci ha pensato due volte e ha organizzato per sabato un’iniziativa a cui ha invitato società civile e associazioni che gravitano attorno al carcere (390 detenuti e circa 250 operatori) per chiedere l’attivazione del servizio di trasporto pubblico. “Ci troveremo il 30 ottobre alle 11.30 in via Collodi, nei pressi della prima fermata utile arrivare alla casa circondariale che raggiungeremo a piedi dimostrando le mille difficoltà da affrontare non solo per i detenuti, ma anche per famiglie e lavoratori sprovvisti di un mezzo proprio - spiega il cappellano -. Mi è capitato persino il giovedì Santo di dover sospendere le confessioni e lasciare i fedeli in fila per accompagnare alla stazione un detenuto in uscita che fatica a deambulare”. A dire il vero la fermata del bus all’altezza di via per Cassano Magnago 102 (indirizzo del carcere) è un cavallo di battaglia del don, tanto che già lo scorso settembre era stata indirizzata alle istituzioni locali una lettera firmata dal garante dei detenuti e da quattro associazioni e cooperative (“Intrecci”, “Associazione volontari assistenti ai carcerati e loro famiglie”, “Oblò” e “Valle di Ezechiele”) per sollevare il problema. Ma eravamo in campagna elettorale. Ora, con la riconferma del sindaco Emanuele Antonelli (FdI, anche presidente della Provincia), cosa succederà? “Stiamo lavorando sia come Provincia, sia come Comune per far avere la fermata del bus”, spiega il primo cittadino. “Non è semplice far interagire i diversi enti interessati e anche per allungare la corsa di un pullman di linea vi sono parecchi passaggi. Mi prendo l’impegno di soddisfare la richiesta al più presto”. Ma al flash mob ci sarà anche il sindaco? “Passerò per un saluto così da garantire di persona che la fermata al carcere si farà”. Perugia. Reinserimento detenuti, la conclusione del progetto “Argo” provincia.perugia.it, 28 ottobre 2021 Regione Umbria, Frontiera Lavoro, Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia insieme nel sostenere percorsi formativi centrati sul valore sociale del lavoro. In questo caso cinque percorsi formativi per addetto alla cucina, elettricista, addetto ai servizi di pulizia e operaio agricolo a favore di 72 detenuti, di cui 15 donne, del carcere di Capanne partecipanti al progetto “Argo: percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti” finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Cinque percorsi della durata di 120 ore ciascuno che hanno visto la partecipazione di 15 detenuti per ciascuna edizione con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di competenze in previsione di un potenziale avvicinamento dei detenuti al mondo del lavoro, e di dare un senso alla pena attraverso la rieducazione e il successivo reinserimento nella società. “Il lavoro - dichiara il coordinatore Luca Verdolini - rappresenta un mezzo di risocializzazione e una fonte di sostegno di grande importanza, oltre che uno strumento di riabilitazione per coloro che sono sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che si dimostra fondamentale per scongiurare la recidiva. La cultura al lavoro è una leva fondamentale per il percorso di riabilitazione e va sostenuta con interventi progettuali come questo che, in più, affermano e consolidano un modello di intervento integrato e multidisciplinare per l’inclusione sociale e lavorativa in cui diversi soggetti territoriali concorrono nel proporre un’offerta di servizi sinergici”. In Italia circa il 70% delle persone che escono dal carcere a pena espiata recidivano contro il 19% delle persone che espiano la pena in misura alternativa al carcere. L’istituto di pena perugino ha garantito le procedure necessarie per l’allestimento dei diversi laboratori formativi ed ha curato l’individuazione dei detenuti e delle detenute partecipanti al percorso formativo attraverso l’équipe multidisciplinare interna e la collaborazione con gli operatori di Frontiera Lavoro. “Per supportare in modo efficace - afferma Luca Coletto assessore regionale al welfare - la ri-acquisizione e il mantenimento di abilità e risorse individuali utilizzabili nel mercato del lavoro, e più in generale nel percorso di inclusione sociale, diventa infatti indispensabile promuovere e realizzare una prospettiva di piena integrazione di politiche e risorse che faccia superare quella frammentazione degli interventi, spesso causa di inefficacia delle politiche a sostegno delle fasce più fragili”. Tra gli allievi del progetto, Giuseppe, siciliano, 60 anni, è uno dei più entusiasti: “Devo ringraziare chi mi ha offerto questa opportunità. Si ricomincia solo se c’è qualcuno che crede in te e che ti fa prima comprendere la gravità dell’errore commesso. Non puoi iniziare di nuovo - aggiunge - se sei ancora convinto che quanto hai commesso era giusto. Io non ho fatto una cosa giusta.” L’istituto penitenziario di Perugia da sempre si contraddistingue per iniziative finalizzate a favorire il pieno reinserimento nella società dei detenuti una volta terminato di scontare la pena. “Il lavoro è veicolo di risocializzazione, di salvaguardia della propria dignità ed è un elemento che consente realmente all’autore di reato di poter scegliere la strada della legalità - afferma la direttrice Bernardina Di Mario -. Il principio espresso dall’art. 27, comma 3, della Costituzione fa emergere l’esigenza di concentrare gli sforzi su un’azione di rete tra l’istituzione penitenziaria, il territorio e la magistratura di sorveglianza per il reinserimento della persona privata della libertà personale nella società. Per questo è indispensabile la mobilitazione congiunta e, ancor prima, destare l’interesse dell’opinione pubblica”. I risultati concreti raggiunti dal progetto “Argo” saranno presentati in occasione dell’incontro pubblico “Liberi dentro. Cambiare è possibile” che si svolgerà presso l’istituto di pena perugino giovedì 4 novembre alle ore 9.30 alla presenza delle autorità regionali e dell’Amministrazione Penitenziaria. “Grazie a un’azione corale - sottolinea Roberta Veltrini, Presidente di Frontiera Lavoro - è stato possibile mettere a punto una proposta di grande serietà, fortemente condivisa da tutti i soggetti in campo, che ha messo al centro il lavoro e il suo significato sociale. L’obiettivo è ora dare sempre più corpo a questa esperienza, favorendo concrete opportunità di reinserimento”. Roma. Chi entra e chi esce dal carcere: tutti senza rete di Lucio Boldrin* Avvenire, 28 ottobre 2021 Non c’è giorno a Rebibbia, ma penso in tutte le carceri, che non si vedano nuovi arrivi e detenuti che escono, chi in permesso, chi agli arresti domiciliari, chi trasferito in altre carceri, chi per fine pena. Nei nuovi giunti si nota lo smarrimento di chi entra per la prima volta, dovuto anche all’isolamento sanitario per 10/15 giorni, durante il quale non possono telefonare per avvisare la famiglia o l’avvocato (anche se la legge lo permette, comunque sopperiamo noi cappellani); ci sono poi le difficoltà di capire come funziona la vita “dentro”, come soddisfare le prime necessità (prodotti per l’igiene, biancheria, indumenti: anche qui, per quello che si può interveniamo noi, i volontari della Caritas e di Sant’Egidio). Quelli che invece non entrano in carcere per la prima volta, sanno già come muoversi e ritrovano subito “vecchie conoscenze”. Purtroppo. Ma la mia attenzione è soprattutto su chi esce, con i sacchi neri della spazzatura contenenti poche cose. Sole o pioggia, caldo o freddo, giorno feriale o festivo, quando hai superato quella sbarra ti devi arrangiare. I più fortunati hanno dei parenti che li vengono a prendere e una casa dove andare. Molto peggio va agli stranieri, ai senza tetto, ai molti che durante gli anni di detenzione hanno perso familiari, casa e lavoro. Sono smarriti. Non sanno nemmeno da dove iniziare il cammino verso la libertà. Così, cerchi di dare una mano: qualcuno lo indirizzi verso una struttura, che raramente si trova; ad altri dai un paio di biglietti per la metro; ad altri ancora li accompagni alla stazione, acquistando loro il biglietto del treno per iniziare il viaggio lontano da Roma e sperando che qualcuno li accoglierà. Ma il problema più urgente di chi esce dal carcere è quello del lavoro, come sottolineo sempre. Da lì si deve partire, perché il lavoro permette di procurarsi onestamente il necessario per vivere, di cercare una casa, di essere autonomi. E allontana la tentazione di riavvicinarsi ad ambienti criminosi. È indispensabile, dunque, che i centri servizi delle carceri si attivino per favorire il più possibile la sensibilizzazione del mondo produttivo delle città per facilitare l’incontro tra gli ex detenuti e il mondo del lavoro. Molti che escono dal carcere si aspettano in qualche modo un appoggio, o quanto meno un accompagnamento da parte delle istituzioni. Invece si sentono abbandonati, presi in giro. E io mi sento sempre più in difficoltà e rattristato nel poter fare poco o nulla per questi amici che cercano di riprendere in mano la propria vita. Un ragazzo, fuori dal carcere da qualche tempo, mi ha detto: “Sono tutte favolette, quelle che si sentono “dentro”. L’assistente, gli educatori, ti promettono aiuto: “Non ti preoccupare, non fare questo, non fare quell’altro e ti aiuteremo”. Io sono uscito, mi sono trovato senza aiuto e sono andato avanti con il piccolo fondo che mi sono fatto lavorando in carcere. L’unico posto l’ho trovato al dormitorio della Caritas”. *Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Sulmona. Cani e gatti ammessi ai colloqui in carcere di Antonio Lamorte Il Riformista, 28 ottobre 2021 La misura apripista dopo la richiesta di un detenuto. Cani e gatti potrebbero a breve “entrare in carcere seppur per un’ora al mese e far compagnia quel detenuto che a causa della pena inflitta e che sta scontando l’ha dovuto lasciare all’esterno delle alte mura”, a farlo sapere è Mauro Nardella, segretario generale della UIL PA Polizia Penitenziaria e componente della segreteria confederale CST UIL Adriatica Gran Sasso con delega Pubblica alla Pubblica amministrazione. La notizia arriva dal supercarcere di Sulmona, provincia dell’Aquila, dove la richiesta di un detenuto che aveva nostalgia del suo cane potrebbe portare a una politica apripista. “Non si hanno notizie di pari accorgimenti adottati in altri Istituti di pena italiani”, aggiunge infatti Nardella. Sulmona, secondo i dati dell’osservatorio Antigone, al 30 settembre ha una capienza di 329 posti per 386 detenuti. Era diventato drammaticamente noto negli anni dieci del duemila come il “carcere dei suicidi”. “Nell’eventualità dovesse accadere una cosa del genere - spiega Nardella - resta ovvio che, fermo restante la sacralità del gesto che si andrebbe a fare, si renderanno utili ulteriori accorgimenti volti a salvaguardare sicurezza e salubrità all’interno dei locali. Accorgimenti che ci auguriamo non vadano a gravare ancor più sul già pesante carico di lavoro al quale viene assoggettato l’intero comparto dell’unità operativa preposta ai colloqui visivi. Un comparto, quest’ultimo, tra i più sovraccaricati di lavoro nel periodo della pandemia e che ha stremato tutti coloro i quali hanno saputo garantire e tuttora lo fanno piena efficienza”. E fu infatti a partire dall’interruzione dei colloqui di persona con i familiari che nel marzo del 2020, dopo l’esplosione dell’emergenza covid, si scatenarono proteste e rivolte anche violente nelle carceri. Episodi che portarono a casi di rappresaglia - quello più noto al carcere di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta - e alla morte di 13 detenuti. Quello dei colloqui - concessi sei volte al mese, quattro per i detenuti per reati di particolare gravità, e anche più di sei a soggetti gravemente infermi e in particolari circostanze, per un massimo di tre visitanti (salvo deroghe), della durata di un’ora ciascuno - è un sostegno fondamentale a chi viene privato della libertà. “Saranno certamente richieste garanzie quali la dimostrazione da parte del richiedente di aver avuto una relazione affettiva con l’animale; che i cani e i gatti ammessi siano di piccola taglia; che ci sia l’esigenza affettiva preventivamente vagliata dal Gruppo per l’Osservazione Trattamentale e che l’incontro avvenga in una sala separata dalle altre al fine di scongiurare pericoli per le altre persone presenti in aula. Ovviamente la UIL PA, che non contesta l’utilità e lo scopo perseguibili da questa nuova forma di trattamento intramurario, le sue garanzie le chiede per il personale che sarà chiamato ad assecondare questa nuova forma di colloquio visivo”. Palermo. L’arte contemporanea entra in carcere: all’Ucciardone un’installazione permanente palermotoday.it, 28 ottobre 2021 L’installazione luminosa dal titolo “Volare per una farfalla non è una scelta” è stata realizzata da Loredana Longo e dal gruppo di lavoro del progetto “L’Arte della Libertà”. Sabato 30 alle ore 11, l’installazione luminosa Volare per una farfalla non è una scelta - realizzata dall’artista Loredana Longo in collaborazione con un gruppo di trenta persone, tra detenuti, operatori socio sanitari, operatori museali e polizia penitenziaria, durante il progetto “L’arte della libertà”, sviluppato tra il 2019 e il 2020 all’interno della Casa di Reclusione Calogero Bona - Ucciardone di Palermo - sarà ufficialmente donata e resterà in permanenza nella Sala dei colloqui del carcere. L’allestimento dell’opera sarà preceduto dalla giornata di studio “L’Arte della Libertà. Tra esecuzione penale esterna e giustizia riparativa, quali modelli?”, in programma presso Villa Zito venerdì 29 ottobre dalle ore 16 alle 19. L’incontro, nel corso del quale si parlerà di esecuzione penale esterna, messa alla prova, giustizia riparativa e di nuovi modelli di art care per ripensare le politiche penitenziarie, coincide con la presentazione del catalogo “L’Arte della Libertà. Diario di un modello inclusivo”, a cura di Elisa Fulco e Antonio Leone. Il doppio appuntamento vuole rimarcare il valore dell’arte contemporanea che genera inclusione, e favorire lo scambio tra il carcere e le istituzioni culturali cittadine. “L’Arte della Libertà” è un progetto a cura di Elisa Fulco e Antonio Leone nato nel 2019 con l’obiettivo di introdurre la pratica artistica e l’arte contemporanea in ambito carcerario, per generare nuove relazioni e creare un racconto inedito di questo luogo, per collegare il dentro al fuori. Svoltosi sotto la guida dell’artista Loredana Longo e la supervisione scientifica dello psichiatra Sergio Paderi dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo (Asp), il progetto è stato accompagnato da lezioni di arte contemporanea e visite guidate nei musei cittadini, e nel 2020 ha dato vita alla mostra corale “Quello che rimane”, negli spazi di Palazzo Branciforte. L’Arte della Libertà è un progetto a cura di Elisa Fulco (Associazione Acrobazie) e Antonio Leone, ed è sostenuto da Fondazione Con il Sud e Fondazione Sicilia, con la partnership della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone di Palermo, della Galleria d’Arte Moderna di Palermo e dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo. I detenuti non sono numeri ma persone, Ariaferma ce lo ricorda di Riccardo Polidoro Il Dubbio, 28 ottobre 2021 È stato definito un “film necessario” (Goffredo Fofi) ed è un giudizio da condividere. Ariaferma di Leonardo Di Costanzo descrive la vita di 12 detenuti e di alcuni agenti di polizia penitenziaria in una casa circondariale che sta per essere chiusa. Dall’istituto sono andati via tutti e loro sono costretti a restare, in attesa che la nuova destinazione dei reclusi sia pronta a riceverli. Il ritardo nel trasferimento rende il rapporto tra detenuti e agenti del tutto diverso. I primi non sono più numeri da tenere rinchiusi, ma persone con le quali - in un contesto dove è palese il disinteresse dello Stato - si è costretti a convivere. La situazione di emergenza li rende uguali, pur nei loro rispettivi ruoli. Tant’è che il detenuto Carmine Lagioia (interpretato da Silvio Orlando), rivolto all’ispettore Gaetano Gargiulo (alias Toni Servillo), gli dice “È tosto stare in galera, eh!”, e alla risposta “Tu stai in galera, io no”, replica “Ah si! Non me ero accorto”. Un film sulla condizione umana, che indaga sul labile confine tra il bene e il male e sui rapporti interpersonali, dove non esistono buoni e cattivi e l’imprevisto innesca nuove e forse insospettabili emozioni. Dopo la proiezione, il pensiero va inevitabilmente alla realtà, alle nostre carceri. Ieri il Riformista ha ripreso l’ennesima denuncia sulle drammatiche condizioni della casa circondariale di Poggioreale lanciata, questa volta, da parte di un sindacato della polizia penitenziaria. Il numero di detenuti sta aumentando di giorno in giorno, con circa 100 nuovi ingressi a settimana. Le attuali, già ingestibili, presenze di quasi 2.200 ristretti sono dunque destinate a lievitare. “Una pentola a pressione pronta a scoppiare”, ecco l’allarme del segretario del Sappe Donato Capece. Il pericolo è che la situazione invivibile esasperi gli animi spianando la strada a manifestazioni di insofferenza da parte dei detenuti e a reazioni non proprio ortodosse da parte del personale. Una situazione, dunque, disperata che vede come vittime detenuti e agenti e che, a volte, degenera in atti d’inqualificabile violenza da parte di questi ultimi. Sono ancora - incancellabili - dinanzi ai nostri occhi le drammatiche sequenze dei video della mattanza di Santa Maria Capua Vetere. E la possibilità che oggi, o in un vicinissimo futuro, ciò possa di nuovo avvenire, o che comunque sia già avvenuto in altri istituti, senza che all’esterno di quelle mura ve ne sia notizia, non è affatto remota. Il pensiero, allora, ritorna al film. In quel carcere fatiscente che sta per essere chiuso, i detenuti protestano prima con la battitura, percuotendo le sbarre con oggetti di metallo, poi con lo sciopero della fame. La contestazione è dovuta alla sospensione dei colloqui con i familiari, all’interruzione di qualsiasi attività rieducativa, alla qualità scadente del cibo, all’assenza di notizie sulla data del trasferimento in altro istituto. Stanno vivendo un’emergenza burocratica - l’assenza di un luogo dove andare - che è molto simile a quell’emergenza sanitaria vissuta, nella realtà, dai detenuti con l’arrivo del Covid. Sullo schermo tutto lascia pensare a una protesta destinata a crescere di scena in scena e si attende la reazione violenta degli agenti. Ma l’illuminato ispettore Gargiulo prende - inaspettatamente anche per lui - delle decisioni non condivise dai suoi uomini e risolve la situazione dialogando con i detenuti. Accoglie la loro richiesta di rinunciare al fetido cibo offerto dalla ditta esterna e di riaprire la cucina dell’istituto per consentire a un detenuto di cucinare per tutti. E così Lagioia si mette ai fornelli ed è genovese e ragù per tutti, detenuti e agenti. I dialoghi tra i due attori, tra pentole, cipolle, carote e altro sono minimi ma significativi, come allusivi sono i loro sguardi che lasciano comprendere la medesima estrazione sociale, ma con un percorso di vita del tutto diverso. Un film che lascia un segnale importante: il detenuto non è un numero, ma una persona. È ora che qualcuno “lassù” lo comprenda. In carcere da innocenti: “ordinaria” ingiustizia di Massimo Malpica Il Giornale, 28 ottobre 2021 Nel libro di Zurlo nove storie simbolo di un sistema malato. Che non paga per i suoi errori. Innocenti dietro le sbarre. Nel ‘71 Nanni Loy e Alberto Sordi avevano provato a raccontare, sul grande schermo, le ingiuste detenzioni con Detenuto in attesa di giudizio. Ma l’odissea del geometra interpretato da Sordi non è fiction: la stessa sorte, tra 1991 e 2020, è toccata ad almeno 30mila persone, come ricorda Stefano Zurlo nell’introduzione alla sua ultima fatica letteraria, “Il libro nero delle ingiuste detenzioni”, edito da Baldini+Castoldi e con una prefazione dell’ex magistrato Carlo Nordio. Zurlo nel libro snocciola nove storie, alcune note e altre inedite, di vip o persone qualunque travolte da un destino inatteso e finite in galera per reati mai commessi, tentando di dimostrare un’innocenza che il sistema giudiziario dimostra, in queste storie, di non presumere affatto. C’è Jonella Ligresti, figlia di Salvatore, che si ritrova in manette a luglio 2013 per un errore di calcolo del consulente della procura e che esce dall’incubo, con l’archiviazione, solo a maggio di quest’anno, dopo otto anni. Il primo dei quali passato in carcere, lontana dai figli e dai familiari. E c’è Edgardo Mauricio Affè, ragazzo colombiano adottato da una famiglia siciliana che, per due schiaffi a un amico con cui aveva litigato, si è fatto due giorni in cella e sei mesi ai domiciliari con l’accusa di rapina (del cellulare) e lesioni. Eppure l’alterco era stato filmato da una telecamera: nessuna rapina (a raccogliere il telefono era stato un altro soggetto) e nessun pestaggio, solo due schiaffi, per i quali la “vittima” non ha nemmeno voluto sporgere denuncia. C’è la storia, incredibile, di un ex imprenditore della “Milano da bere” degli anni 80: quattro anni in galera per le dichiarazioni di due pentiti rilasciate nel corso di una rogatoria irregolare salvo poi scoprire di essere stato assolto, quindici anni più tardi, senza che nessuno si preoccupasse di notificargli la sentenza. L’imprenditore veneto Diego Olivieri, invece, si è fatto “solo” un anno di carcere per una storia inverosimile di traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio e associazione mafiosa, tutto per aver consegnato un orologio a un amico di un amico che l’aveva scordato in Canada, dove l’uomo operava con la sua azienda, col corollario di una “finta” liberazione seguita da un contestuale secondo arresto, odioso tranello per carpire una confessione che, da un innocente, non poteva arrivare. E poi ecco il perito assicurativo che denuncia le minacce fatte all’amante, ex prostituta, dal suo vecchio protettore e si ritrova sette mesi in cella con l’accusa di essere lui un protettore che estorceva e rapinava. E infine i casi più paradossali. Pietro Paolo Melis, arrestato per sequestro di persona per una intercettazione a lui erroneamente attribuita a 37 anni e tornato libero a 56 anni, quasi 19 anni dopo, e che a un lustro dalla ritrovata libertà aspetta ancora il risarcimento per l’ingiusta detenzione. E Giuseppe Gulotta. Arrestato per aver confessato di essere l’esecutore della strage di Alcamo, nel 1976, dopo essere stato selvaggiamente pestato in caserma per estorcere quell’ammissione. Che si è rivelata falsa solo 38 anni dopo, quando Gulotta aveva scontato 22 anni di carcere, ed era già in libertà condizionale da due anni. Non ha riavuto il tempo rubato dalla malagiustizia, ma 6,5 milioni di euro, risarcimento record, e l’onore. Quello che la giustizia in azione dietro queste storie non avrà mai. La rabbia giovane si chiama 33 di Simonetta Sciandivasci La Repubblica, 28 ottobre 2021 Ha scelto come pseudonimo gli anni di Cristo, è di origine uruguayana. Vive a Milano, ha ventisei anni e ne ha trascorsi in carcere sei: “Spero che i miei testi possano aiutare chi si sente solo, chi ha sbagliato e crede di non poter rimediare”. Dei 26 anni che ha, 33 ne ha trascorsi in carcere sei. È entrato nel 2012, sedicenne, ed è uscito nel 2018, ventiduenne. Un suo verso dice: “Ho perso del tempo come un carcerato”. Fuori, perdere tempo è una grande libertà, un lusso, una sfida da vincere. Una canzone d’amore dei Phish, Waste, dice proprio questo: Came, waste your time with me, vieni a perdere il tuo tempo con me. È la parte migliore dello spreco: l’idea che non tutto quello che facciamo o consumiamo debba gemmare, produrre. Per un recluso, non quarantenato ma prigioniero, è diverso e unico e non si può descrivere, si può soltanto dire come lo dice 33: un carcerato perde tempo come un carcerato, che pure ha le giornate vuote, anzi svuotate e può occuparle, ma non riempirle, e non c’è invenzione virtuosa che possa sanare questa differenza. È il punto che interroga più profondamente chiunque rifletta sulla detenzione e sui diritti che lo Stato esercita sui detenuti: può una collettività privare un uomo del suo tempo? Cosa si toglie a un ragazzo quando gli si sottrae il tempo? “Nei miei occhi vedi fame. Sto tornando, fallo sapere a tutti”. È la didascalia del nono post Instagram (nove in due anni e più) di William, 33 - e se gli chiedi il cognome ti dice che basta William, soltanto William, grazie: conta l’altro nome, la cifra che usa per firmare la sua musica. Non è un’inezia e non è così frequente che un artista molto giovane, ora che personaggio e persona combaciano, ribadisca: di me conta il personaggio, vi do quello e basta - quando è morta Raffaella Carrà abbiamo pensato tutti che, con lei, fosse finito il tempo dello spettacolo distinto dalla spettacolarizzazione di sé. Il post di 33 annuncia una canzone, più precisamente un featuring, quindi una collaborazione con altri artisti: featuring è scritto in alto, dove di solito, sui post di Instagram, si indica dove ci si trova, in altre parole dove ci si geolocalizza. È un bel dettaglio, certamente non casuale. Può voler dire: sto in quello che faccio. Se c’è una cosa che non interessa a chi ha vent’anni in questo tempo è evadere, vaneggiare: stare, per loro, è davvero un perfetto sinonimo di essere. Per questo osservarli è così importante per conoscere e capire dove mette i piedi il presente, su cosa cammina. Dice 33 a Repubblica: “Trentatré sono gli anni di Cristo; è il numero della prima cella che mi hanno assegnato quando sono finito in carcere, e avevo con me la Bibbia che mi aveva dato mio padre e che fece di me un credente; è il numero maestro delle persone che toccano il fondo e poi risalgono, da sole”. Risalire, non rinascere: risalire è fai da te, e nel rap il fai da te è cruciale - ci sono alcuni rapper che a volte ricordano quegli orridi discorsi da self made man che andavano molto nella golden age del berlusconismo, ma non è questo il caso. 33 non è pieno di sé, né usa il suo passato per gonfiare il suo personaggio: il suo personaggio è l’artista. A lui fare l’artista interessa, molto più che esserlo. E non si dà meriti: quando canta il mio flow è un mistero di Fatima, lo fa da fedele. La fame che ha 33 gli viene da quel tempo che ha perso come un carcerato: non è smania di successo, o riscatto, o prestazione. È la forma più pura di desiderio, quella che nasce da una mancanza. Dice a Repubblica: “Il mio sogno più grande è poter diventare qualcuno. Non per comprare orologi ma perché i miei testi possano aiutare chi si sente solo, chi ha sbagliato e crede di non poter rimediare. Io sono stato aiutato”. A lungo, soprattutto nei primi anni dentro, 33 non scriveva più come faceva da libero. Faticava. “Parlavo con il muro, scrivevo lettere ma non canzoni. Poi ho sentito di un corso di rap, mi sono iscritto subito”. Lì ha conosciuto Kento, scrittore, rapper e da molti anni operatore presso le carceri minorili: è stato amore a prima vista. “Lui non sapeva niente dei miei errori, del perché fossi lì: gli ho portato le mie canzoni, mi ha detto che avevo talento, ha parlato con il giudice e mi ha fatto uscire in articolo 21 per farmi registrare un pezzo. Non lo dimenticherò mai”. Il mese scorso, questo giornale ha pubblicato un’indagine sulla delinquenza minorile in Italia, Ragazzi dentro, che conteneva molti dati sulle carceri per ragazzi dai quali emergeva che non sbaglia Gemma Tucilio, responsabile del dipartimento nazionale della giustizia minorile, quando afferma che “quello minorile è il sistema di carcerazione e di pena meglio funzionante in Italia”. Il lavoro di molti artisti come Kento, in parte, lo dimostra. Dice lui stesso a Repubblica: “A dicembre del 2019, nel penitenziario di Casal del Marmo, a Roma, abbiamo organizzato il primo poetry slam in un carcere minorile, e con la scusa del rap abbiamo creato un clash tra poesia e rap”. È importante, grande quello che con il rap si riesce a fare con gli adolescenti reclusi: dà loro un linguaggio, una spinta, una chance. Kento dice spesso che in molti anni di lavoro nelle carceri minorili ha visto di tutto e incontrato chiunque, tranne ragazzi ricchi: finisce dentro chi non può pagarsi un buon avvocato, chi non ha una buona famiglia alle spalle e chi non parla bene l’italiano. Diversamente da Massimo Pericolo, che nel suo disco d’esordio ha raccontato il carcere perché in carcere ha scritto buona parte delle canzoni che lo compongono, 33 non racconta la cella. E anche se si chiede “possibile che ce l’hanno con me?”, quando rima con trentatré, dice anche “la colpa è mia” e come molti rapper e trapper vuole essere un buon figlio - “Ho detto a mamma: ce la farò”. D’amore non parla mai perché “è troppo difficile scrivere una canzone d’amore, ci provo e non ci riesco anche se sono molto innamorato, ed è la mia più grande fortuna”. L’estate scorsa, con ODE, ha cantato: “Mi sento molto triste se non sono felice, il primo amore della vita prima o poi sparisce. E chi ti dice che è felice, mente. Chi ti dice che è triste, lo sente”. Il primo pezzo che ha scritto, da uomo libero, si chiama Ho ucciso io la trap, ma non ne va molto fiero - forse perché non ha ucciso la trap. È uruguayano, vive in Italia con la sua famiglia da quando aveva due anni e ama Milano moltissimo. Dice che è “la città delle opportunità: come mi ha tolto, così mi ha dato”. Non ha ancora registrato un disco, ha scritto pochi pezzi, ha detto poche cose: si farà, e ha già le spalle larghe. Ha una storia che non lo ha reso rancoroso, però arrabbiato sì. Dalla rabbia senza rancore nascono le società nuove: approfittiamone, se siamo capaci. Ddl Zan, una ferita che resta aperta di Concita De Gregorio La Repubblica, 28 ottobre 2021 Si vede che non hanno figli né nipoti adolescenti, i senatori che applaudono come se fossero in tribuna vip alla partita. Si vede che non camminano per strada, non escono la sera, non hanno youtube, non vedono video musicali, nemmeno una volta un X Factor per sbaglio, niente. Non un collaboratore magari quarantenne che una volta abbia sussurrato loro all’orecchio “senatore, guardi però che nella realtà, ecco, ehm”. Anche una confidenza intima, un fatto personale. Niente. Si vede che vivono in un permanente derby immaginario con l’avversario dall’altra parte dell’emiciclo ma non è la Champions, questa. È un campionato dilettanti e la partita in corso - purtroppo per loro, per noi tutti - è fra il mondo fuori e il mondo dentro. Fra quei trecento scarsi dentro l’aula e la moltitudine fuori. La stessa moltitudine che quando si deve andare a votare resta a casa, la metà non esce proprio ma pazienza. Conta chi vince, anche se si è rimasti in quattro all’osteria, no? E poi i delusi dalla politica non saranno mica disillusi per la legge sull’omotransfobia, certo, figurarsi. I mestieri sono sottopagati ti ricattano ti licenziano con un sms, la pensione chi ha trent’anni se la sogna, i vecchi campano sul lavoro che i giovani non hanno e i giovani devono essere mantenuti dai vecchi, sono altri i problemi. C’è la pandemia. C’è da difendere la libertà dei No Green Pass, vuoi mettere. Mica il Ddl Zan, questa roba di princìpi, la legge manifesto sui diritti delle minoranze, l’orientamento sessuale l’identità di genere, facciamola facile, facciamola semplice: i sessi sono due il resto è baloccarsi di società opulente, problemi da ricchi annoiati, no?, che vuoi che sia. Poi certo fra i ragazzini c’è qualcuno che soffre, lo prendono a botte qualche volta lo ammazzano ma va così da che mondo è mondo, ti fanno l’agguato per strada e ti difendi, così ti rafforzi. Oppure ti nascondi, come fanno tutti. Fai finta. Che problema c’è. E questo è il punto dove la politica, e in specie la sinistra, perde l’ennesimo colpo. Perché forse il ddl Zan non sarà stata la migliore delle leggi. Anzi: certamente no. Certamente era da perfezionare, correggere. Da discutere, e allora bisognava farlo. E se c’è chi pensa che era proprio la cosa giusta, perfetta così: fare la cosa giusta nel modo sbagliato è peggio che non farla. Resta la ferita, hai perso, resta il coro senza sciarpe al collo. Era questo il momento di fare il passo, specialmente se l’avevi annunciato come la tua bandiera. Non tratteremo, o così o niente: o questa legge o nessuna legge. Per mesi, l’abbiamo sentito. Avanti diritto, fieramente. Perfetto. Allora bisogna saper fare i conti e non dire: speriamo bene. Speriamo cosa? Perché poi col voto segreto e con l’astrusa, non ci mettiamo nemmeno qui a spiegarla, regoletta della “tagliola” (roba da ostruzionismo codificato, giochi di regolamento) ecco che zac, tagliato via tutto. Non basta dire riproveremo, perché lo sanno tutti che passeranno mesi e mesi, forse anni. C’è la legge di bilancio, ora, poi l’elezione del presidente della Repubblica, poi chi lo sa quale sarà il governo, quale l’orizzonte. Il peggio dello spettacolo, dopo i cori, è che una parte di voti sono mancati da chi diceva di volerla, la legge. Sono mancati voti a sinistra, dal Pd, forse dai Cinquestelle, forse da Italia Viva. Tanti, e fra i tanti Matteo Renzi, non erano in aula. Avevano da fare. Priorità. Ma si è fatto tardi, oggi è già un altro giorno. Sarà bello gustarsi i titoli dei giornali un quarto d’ora, stamattina: disfatta, trionfo, débâcle. Il doping perpetuo della curva immaginaria mentre nel mondo reale chi non trova posto si arrangi. E poi stasera c’è il talent, tutti a fare il tifo in tv per quell’adolescente che non si sa se sia maschio o femmina, guarda, ma che stranezza, che stravaganza i tempi moderni, signora mia. Retroguardie culturali del paese di Norma Rangeri Il Manifesto, 28 ottobre 2021 La maggioranza dei senatori della Repubblica ha bocciato il proseguimento dell’iter parlamentare rinviando, per chissà quanti anni, l’approvazione di una legge giusta e soprattutto importante per l’incolumità, ancora prima che per il benessere, di tutte le persone che ogni giorno anziché goderne devono soffrire per la loro identità sessuale. Ormai la storia patria ci ha insegnato che per affermare i diritti della persona non è dal Parlamento che dobbiamo aspettarci le risposte già mature nella società. Così è stato per la storica battaglia sul divorzio e per quella altrettanto importante sull’aborto, così potrebbe essere domani sull’eutanasia e sulla cannabis. Ogni volta che si ponevano in discussione domande di senso sulla vita, il paese reale testimoniava di essere più moderno e civile della politica che presumeva di rappresentarlo. Facendo emergere nelle battaglie di libertà e di autodeterminazione, l’arretratezza, l’ipocrisia, la lontananza del Parlamento dal Paese. Se anziché i deputati e i senatori, fossimo stati chiamati noi cittadini a votare sulla legge del senatore Alessandro Zan, contro la barbarie di aizzare l’odio verso le persone omosessuali o transessuali, è sicuro che avremmo avuto una risposta di condanna senza se e senza ma. Invece, dopo anni di dibattiti, dopo l’approvazione in un ramo del parlamento, giunti all’ultimo miglio, nell’aula del senato, è stata affossata grazie a un incomprensibile voto segreto (perché concesso su questioni procedurali). La maggioranza dei senatori della Repubblica ha bocciato il proseguimento dell’iter parlamentare rinviando, per chissà quanti anni, l’approvazione di una legge giusta e soprattutto importante per l’incolumità, ancora prima che per il benessere, di tutte le persone che ogni giorno anziché goderne devono soffrire per la loro identità sessuale. Il Vaticano, le nostre destre, tra le più retrive del panorama europeo, che, se solo potessero, cancellerebbero la legge sull’aborto, e chi nel voto segreto si è unito a loro per ragioni di piccolo cabotaggio, hanno dimostrato di rappresentare lo zoccolo duro della retroguardia culturale. La scena da stadio con cui le destre hanno accolto il responso della votazione ne restituiva la più genuina rappresentazione. Per un momento sembrava di essere in uno di quei talk-show da combattimento dove importante non è informare ma coltivare ignoranza e pregiudizio. Ddl Zan, l’ira delle associazioni Lgbtq: “Traditi dai politici combattiamo in piazza” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 28 ottobre 2021 Amarezza, delusione, rabbia. Per una battaglia che dura da trent’anni e da trent’anni come in un perenne gioco dell’oca torna al punto di partenza. Il siluramento del ddl Zan è stato un “colpo durissimo” per il mondo Lgbt che non nasconde il proprio sconforto. Però annuncia, subito, che la battaglia uscirà dalle commissioni parlamentari per tornare a riempire le piazze. “Non arretreremo nemmeno di un millimetro, indietro non si torna”, dicono le sigle dell’universo omosessuale, da Famiglie Arcobaleno al Circolo Mario Mieli, da Agedo ad Arcigay, dalla Rete Lenford a Gaynet, e sono soltanto alcune tra le tante realtà del movimento che ha indetto fin da ieri sera una “mobilitazione permanente”. La sconfitta brucia, il razzismo omofobo e transfobico è una realtà in aumento, (così come il razzismo verso i neri, gli immigrati, i poveri) ma l’Italia, si gira dall’altra parte. È amara la riflessione di Alessia Crocini, neo presidente di Famiglie Arcobaleno, che riunisce le coppie omosessuali con figli. “Prendiamo atto che in questo paese le leggi di civiltà non piacciono a una parte della politica. In Italia si potrà continuare ad aggredire e discriminare le persone gay, lesbiche e trans e per questo dobbiamo ringraziare chi interpreta il proprio ruolo politico non al servizio della cittadinanza, ma come semplice esercizio di potere personale. Noi di Famiglie Arcobaleno sappiamo bene cosa voglia dire essere ignorati dalla politica: da vent’anni i nostri figli e figlie aspettano una legge che riconosca i loro diritti”. Gravi le parole di Fiorenzo Gimelli, presidente di Agedo, voce di quei tanti ragazzi e ragazze, gay, lesbiche e transgender che ogni giorno vivono sulla propria pelle la discriminazione se non l’odio.”Abbiamo assistito a un dibattito surreale, dove l’offesa e il non riconoscimento delle persone per quello che sono è stata considerata legittima espressione della libertà di pensiero. Le questioni politiche sono andate oltre il contenuto della legge per finire in uno scontro generale. Non faremo un passo indietro. Ora si tratta di serrare le fila e continuare, perché questa è solo una battaglia, la guerra é ancora davanti a noi. Lo dobbiamo a noi, alle nostre figlie e figli”. Di destra omofoba ma anche di smottamento del centrosinistra, parla Franco Grillini, fondatore di Arcigay e “padre” delle battaglie per i diritti degli omosex. “Già nel ‘93, quando ero presidente di Arcigay, provammo a modificare la legge Mancino. L’Italia è l’unico tra i paesi fondatori della Ue a non avere una legge contro la omotransfobia, a causa di una classe politica asservita al Vaticano. La storia della ricerca di una mediazione è stata un bluff, la destra voleva solo affossare la legge, con questa destra non si può discutere, come si fa a discutere con ti vuole uccidere?”. Per Grillini il Parlamento è profondamente distante dal sentire del Paese, anche se, lungo la strada dell’approvazione della legge, questa è soltanto una battuta d’arresto. “Il sostegno del Paese lo percepiamo con la partecipazione ai pride: nel 2019 ne abbiamo organizzati 41 con un milione di persone presenti, non tutte omosessuali”. Ormai in prima linea nella difesa dei diritti della comunità Lgbt, Francesca Pascale, ex bionda fidanzata di Silvio Berlusconi, afferma di provare “profonda tristezza”. “La sinistra che fallisce, la destra omofoba e violenta che, purtroppo, continua a dettare la linea politica. In aula alcuni senatori sghignazzavano e applaudivano il proprio trionfo, quasi fosse una testimonianza di virilità. Li ho trovati imbarazzanti e beffardi sulla pelle delle vittime dell’omofobia”. Fedez su Twitter lancia una scanzonata provocazione indicando, a suo parere, il responsabile del naufragio della legge. “Ma il Renzi che si proclamava paladino dei diritti civili è lo stesso che oggi pare sia volato in Arabia Saudita mentre si affossava il ddl Zan? Per celebrare la libertà di parola organizziamo una partitella a scarabeo con Kim Jong un? Gran tempismo... Comunque bravi tutti”, sottolinea ironico. Al di là dell’ironia, la battaglia, dunque, torna nelle piazze e si annuncia dura e tempestiva. Il movimento Lgbt, “mai così unito” serra le file rivendicando la scelta “di non aver voluto fare alcun compromesso togliendo la parola identità di genere dal testo”. Il monito però è grave: “Con questa votazione l’Italia - ricordano le associazioni - si è allineata, nella vergogna, ai paesi più omofobi dell’unione europea”. “Parlamento italiano bloccato sui diritti civili e individuali” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 ottobre 2021 Intervista. Parla il presidente di +Europa Riccardo Magi: “L’impostazione della Conferenza nazionale di Genova rischia di essere incentrata sulle dipendenze e non sugli effetti (disastrosi) dell’attuale norma”. Nello stesso giorno in cui al Senato viene affossata definitivamente la legge Zan, anche il testo base per la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito subisce l’ennesimo arresto nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. Il deputato Riccardo Magi, presidente di +Europa, esce dalla riunione contrariato. Ma non meno determinato. “Il parlamento è bloccato, impallato”, dice. Ed anche per questo, stamattina, insieme agli altri rappresentanti del Comitato promotore, si recherà in Cassazione per consegnare le 630 mila firme raccolte a sostengo del referendum per la cannabis legale. In commissione doveva cominciare l’esame dei 300 emendamenti al testo sull’eutanasia, cosa è accaduto? Abbiamo avuto interventi ostruzionistici da parte di Lega, Fd’I e Forza Italia, alcuni anche di tre quarti d’ora. Dopo tre anni, dopo un pronunciamento della Corte costituzionale, l’appello al parlamento e la successiva ordinanza della Consulta sull’incostituzionalità dell’attuale norma, siamo ancora a questo punto. E siamo solo al primo passaggio parlamentare. Un po’ quello che è accaduto anche con la cannabis legale, attorno alla quale si era perfino costituito un intergruppo... Sulla cannabis ci sono alcune proposte di iniziativa parlamentare che operano modifiche minimali, seppur importanti, al testo unico degli stupefacenti: riduzione delle pene per i fatti di lieve entità, che in Italia 7 volte su 10 portano in carcere; legalizzazione dell’autocoltivazione domestica fino a 4 piante, come è stato fatto qualche giorno fa in Lussemburgo, ecc. Anche qui non è ancora cominciato l’esame degli emendamenti. Questi tre casi - cannabis, eutanasia e omotransfobia - mostrano l’immobilità del parlamento su questi temi, ed evidenziano l’importanza dello strumento referendario per andare avanti sul piano dei diritti. E la sinistra che fa? La sinistra paga le conseguenze dello scarso coraggio dimostrato. Della timidezza, dell’incertezza, della remissività. Così rischia di non essere neanche individuata come il fronte politico progressista e riformatore su questi temi. Per quanto riguarda il Pd, poi, Letta non è riuscito neppure a prendere una posizione sulla cannabis. Ha detto che ci devono pensare. Ecco, credo sia preoccupante che una grande forza che si definisce riformatrice e progressista non abbia un’idea forte su un enorme tema sociale come questo, che tocca tutti gli ambiti di azione del governo: giustizia, carceri, salute, politiche giovanili, lotta alla criminalità, e pure la possibilità di creare un nuovo settore produttivo con risvolti economici importanti. In molti Paesi del mondo è già accaduto. Siamo in ritardo? Sì, molto. Dal Canada agli Usa, dalla Spagna alla Germania, dal Lussemburgo a Malta: sono tante le democrazie che si sono accorte del fallimento della strategia utilizzata finora ed hanno capito che è venuto il momento di cambiarla. Il caso della Germania è significativo, perché questa riflessione avviene con un’elaborazione tutta interna ai partiti. Da noi la via referendaria intrapresa ha trovato una risposta quasi commuovente da parte dei cittadini ed ha mostrato tutta la distanza tra i partiti e il sentire della popolazione. A proposito di “attenzione alle periferie”, diventato ormai il luogo comune della politica: che impatto ha l’attuale legislazione delle droghe sulla vita in periferia? Interi territori sono sotto il controllo delle organizzazioni criminali che, grazie al mercato degli stupefacenti, producono anche welfare. Il mercato illegale di sostanze ha un indotto calcolato dal governo italiano in circa 16 miliardi di euro l’anno, di cui il 40% è della cannabis, che è la più diffusa in Italia, con più di 7 milioni di consumatori abituali stimati. Tra un mese ci sarà finalmente a Genova, dopo 12 anni anziché tre, la Conferenza nazionale sulle droghe. È soddisfatto? È un fatto positivo. Però dalla ministra Dadone esigiamo che al centro di questa conferenza si mettano i fatti: le carceri riempite di detenuti per reati di droga, con il conseguente sovraffollamento, è un fatto. Ed è un fatto che nonostante questo, l’uso delle droghe non sia diminuito. Invece l’impostazione della conferenza rischia di essere incentrata sulle dipendenze, sull’aspetto terapeutico e repressivo. E non sugli effetti delle norme, come richiesto dalla stessa legge affinché il parlamento abbia appropriati strumenti conoscitivi. Pino Arlacchi nel 1998 prometteva di eliminare la droga nel giro di 10 anni. Ora il mercato delle droghe è cresciuto il doppio di quanto sia aumentata la popolazione mondiale. Vogliamo ragionare su questi dati? E vogliamo ammettere finalmente che non esiste solo l’abuso e la dipendenza? Vorremmo evitare che la conferenza sembri ferma a trent’anni fa. I genitori di Regeni parlano al Parlamento Ue di Giuliano Foschini La Repubblica, 28 ottobre 2021 “Fatti concreti per avere giustizia, chiedete all’Egitto i domicili dei quattro agenti”. Paola e Claudio Regeni parlano alla sottocommissione Diritti umani esortando all’Europa di assumersi le proprie responsabilità: “Se davvero tenete a Giulio permettete all’Italia di celebrare un giusto processo”. “Molte parole. Poche azioni concrete: se davvero tenete a Giulio, come Giulio teneva a voi, chiedete all’Egitto i domicili dei quattro agenti: permettete all’Italia di celebrare un giusto processo”. Con la limpidezza delle parole che li contraddistingue, Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, hanno chiesto al Parlamento europeo, intervenendo alla sottocommissione dei Diritti umani, di assumersi le proprie responsabilità. Lo hanno fatto parlando in pubblico per la prima volta dopo la decisione della Corte di Assise di Roma di mettere in stand by il processo ai quattro agenti della National security, il servizio segreto civile egiziano, accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni nel febbraio del 2016. “In questi anni ci avete spesso espresso solidarietà, votato risoluzioni - ha detto la signora Paola ai parlamentari- Ma ora vi chiediamo la vostra vicinanza e il vostro aiuto con fatti concreti”. “Fino a questo momento abbiamo ascoltato molte parole, ma ci sembra che nessun gesto sia stato compiuto” le ha fatto eco il marito, Claudio. “Noi stessi abbiamo fatto un esposto contro il governo italiano per violazione alla legge 185/90 che vieta la vendita di armi ai Paesi che non violano i diritti umani. Questo non viene rispettato praticamente da nessuna nazione europea e anche extra-europea. Nonostante esista, in questo senso, anche una risoluzione di questo Parlamento”. Cosa servirebbe, subito, per poter permettere all’Italia di processare i quattro imputati del sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio lo ha spiegato il legale della famiglia, l’avvocato Alessandra Ballerini. “Quello che noi chiediamo agli ambasciatori, alle istituzioni e al Parlamento è di fare tutte le pressioni che possono fare, in ogni singolo incontro con le autorità egiziane per avere le elezioni di domicilio. Il processo ha avuto una battuta d’arresto ma non può essere definitiva. Servono quegli indirizzi ed è necessario subordinare alla richiesta qualunque altro affare. Non c’è affare che possa tenere di fronte all’impunità per chi sequestra, tortura, e uccide un cittadino europeo”. “Giulio - ha spiegato Claudio, il papà - era un cittadino europeo, che amava l’Europa e credeva nell’Europa. Era al Cairo per una ricerca, lavorava come ricercatore dell’Università di Cambridge. Ci sono 260 pagine di autopsia che raccontano cosa ha subito: è la testimonianza più grande che possiamo offrire del non rispetto dei diritti umani”. Assange, ultimo atto: anche Joe Biden chiede la sua testa di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 28 ottobre 2021 Al via il processo che stabilirà sull’estradizione negli Stati Uniti del fondatore di Wikileaks. Oltreoceano lo aspettano 18 capi di imputazione. Al via oggi, con la presentazione delle parti, l’ennesimo atto della vicenda processuale che riguarda Julian Assange, il fondatore di Wikileaks è infatti sotto l’esame della Suprema Corte d’Appello inglese che deve giudicare in merito alla richiesta di estradizione avanzata dal Dipartimento di Giustizia statunitense. Una volontà di punire il giornalista che non è cambiata affatto con l’arrivo alla Casa Bianca del democratico Joe Biden.Già nel gennaio scorso il giudice della Corte distrettuale, Vanessa Baraitser, aveva considerato troppo alto il rischio che Assange potesse suicidarsi in un carcere americano rifiutando dunque il trasferimento. La salute mentale del più controverso giornalista del mondo venne ritenuta troppo instabile. Fu una vittoria insperata anche per il collegio dei difensori che ora però devono affrontare una nuova, complicatissima, battaglia. Assange dopo il lungo esilio nel consolato ecuadoriano a Londra, è finito nel carcere di Belmarsh nel 2018. Nel caso la richiesta degli Usa venisse accolta ad aspettarlo ci sono 18 capi di imputazione per aver rivelato documentazione segreta riferita alle attività statunitensi più o meno coperte in tutto il mondo, specialmente nelle zone di guerra in Medio Oriente e Asia centrale. Con le sue rivelazioni, secondo l’accusa, avrebbe messo in pericolo la vita di oltre 50 informatori e uomini sul campo che agivano per conto americano sotto copertura. Potrebbe essere giudicato dunque secondo l’Espionage Act che prevede pene pesantissime, e neanche il cambio di amministrazione alla Casa Bianca sembra aver mutato la volontà di portare Assange in carcere. Il processo di appello potrebbe dare luogo a scenari differenti tra loro. In primo luogo ci sarebbero le rassicurazioni degli Stati Uniti che Assange non verrebbe trattenuto in condizioni di massima sicurezza negli Usa ma potrebbe scontare il carcere nella sua nativa Australia. Una sfida difficile per il team legale di difesa che, secondo alcuni esperti come gli avvocati dello studio Peters & Peters di Londra, cercherà di smascherare queste promesse mettendo in evidenza “qualche incongruenza nelle dichiarazioni” rilasciate al giudice Baraitser, probabilmente per ammorbidirne la posizione in vista dell’appello. In ogni caso la salute mentale di Assange resterà al centro del dibattimento, da una parte vigono le preoccupazioni della fidanzata Stella Moris la quale ha ribadito alla vigilia del processo, riflettendo la strategia difensiva, che se ci sono nuove prove mediche che suggeriscano un peggioramento delle sue condizioni, gli avvocati potrebbero sostenere che le assicurazioni degli Stati Uniti, anche se accettate alla lettera, non soddisfano le sue esigenze. Per contro i pubblici mninisteri contesteranno la perizia psichiatrica eseguita dal professor Michael Kopelman che tanto peso ha avuto sulla decisione del giudice Baraitser. Un altro aspetto che avrà rilevanza del processo è quello relativo alla ritrattazione di alcune dichiarazioni rilasciate da un testimone dell’accusa il quale ora afferma di essersi “sbagliato” quando parlò con l’FBI. Si tratta di Sigurdur Thordarson, un ex collaboratore di Wikileaks, oggi 28enne ma giovanissimo all’epoca dei fatti, 10 anni fa, che questa estate rivelò al sito web islandese di notizie, Stundin, di aver “fabbricato” le prove di colpevolezza che vengono citate dagli Stati Uniti. Il ragazzo afferma infatti di aver ricevuto una promessa di piena immunità in cambio della collaborazione con il Federal Buerau of Investigation. La sua testimonianza dunque sarebbe stata dettata solo dalla paura che anche contro di lui potessero essere presentate delle accuse di hacking. Processo Assange, parte l’appello. Gli Usa vogliono fine pena mai di Leonardo Clausi Il Manifesto, 28 ottobre 2021 Wikileaks. I legali americani tornano a chiedere l’estradizione dell’hacker e attivista, negata in primo grado dalla corte suprema britannica. Le tribolazioni penitenziarie di Julian Assange sono all’ennesimo crocevia. Ieri si è aperto il processo di appello degli Usa alla sentenza in primo grado della corte suprema britannica, che lo scorso gennaio si era pronunciata contro l’estradizione del fondatore di Wikileaks in un carcere americano, ove avrebbe finito presumibilmente per scontare un paio di secoli scarsi, al netto degli undici anni già trascorsi tra il carcere di massima sicurezza di Belmarsh e la surreale cattività nei pochi metri quadrati dell’ambasciata ecuadoregna. Il ricorso dei legali Usa era stato annunciato in agosto. Vogliono Assange dietro le sbarre per le famigerate rivelazioni di Wikileaks non solo sui bombardamenti libertari in Iraq così inspiegabilmente contestati, ma anche molto altro. Ieri hanno mosso un’offensiva volta a demolire le tesi della difesa dell’ex hacker attivista, che volevano Assange “inestradabile” nelle galere Usa, e che la giudice Vanessa Baraitser aveva sostanzialmente accolto. Hanno cercato di smantellarne le basi nella testimonianza di Michael Kopelman, illustre - ed emerito - neuropsichiatra del King’s College sul cui parere si basava il pronunciamento in primo grado della corte, e che aveva diagnosticato Assange come depresso e troppo vulnerabile per sopportare l’estradizione senza rischiare il suicidio. Nessun rischio simile, hanno assicurato gli americani, ribadendo che, qualora estradato, Assange non sarebbe detenuto in carceri di massima sicurezza, potrebbe perfino scontare la pena in Australia e poi chi si suiciderebbe - continua la loro fin troppo empatica analisi - quando ha una compagna e dei figli (per tacere del fatto che il non poterli vedere perché si scontano centinaia di anni di carcere oltreoceano, il suicidio non possa invece incentivarlo). La seduta si è conclusa alle diciassette di ieri ora locale. Assange è comparso brevemente, consunto e a sorpresa - inizialmente aveva detto di non sentirsi bene - via video link. Oggi toccherà ai suoi legali controbattere. L’obiettivo è la conferma della sentenza di primo grado, che argomenteranno denunciando la fallacia di uno dei principali argomenti della parte avversa, ovvero la testimonianza contro Assange di un hacker islandese, Sigurdur Ingi Thordarson, già collaboratore dell’Fbi che aveva accusato l’attivista australiano di avergli chiesto di sorvegliare bersagli politici e istituzionali islandesi, testimonianza rivelatasi poi del tutto falsa per ammissione dello stesso Thordarson. La sentenza di primo grado contro l’estradizione unicamente su basi medico/umanitarie era soprattutto dovuta al fatto che la giudice Baraitser ignorava che l’accusa contro Assange fosse falsa, ragionerà oggi la difesa. Usando anche altre rivelazioni, alcune decisamente incendiarie: come la notizia recente che la Cia avesse preso seriamente in considerazione l’ipotesi di uccidere Assange nel 2017, quando era ancora barricato nella minuscola ambasciata latinoamericana a Londra. Alla luce delle quali dimostrare come del tutto politiche le motivazioni degli statunitensi. Perché, per Julian Assange, tra prosecution (accusa) a persecution il passo è non solo lessicalmente breve. Ieri e oggi un nutrito drappello di sostenitori suoi, di Wikileaks e della libertà di stampa ha sostato in presidio davanti all’alta corte. Musica dal vivo, slogan come there’s only one decision/no extradition. È stata poi la volta degli interventi dell’attuale direttore di Wikileaks, Kristinn Hrafnsson, di Stella Morris, la compagna di Assange e di Richard, suo padre. L’esito del processo sarà annunciato nelle prossime settimane. Nella crisi turca la Farnesina non tocca palla di Lisa Di Giuseppe Il Domani, 28 ottobre 2021 L’ambasciata italiana non era stata informata del documento firmato da altri dieci paesi, dice il ministro Di Maio si è lamentato di non essere stato coinvolto dagli altri partner europei. L’ambasciatore italiano in Turchia sul filantropo Osman Kavala, imprigionato da Recep Tayyip Erdogan dal 2017, non è potuto intervenire perché non sapeva dell’appello per la sua liberazione proposto da altre dieci ambasciate occidentali. È questa la risposta che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha dato a Gennaro Migliore, il deputato di Italia viva che ha presentato un’interrogazione sulla mancata adesione dell’Italia all’appello presentato la scorsa settimana, che faceva leva su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ordinava la scarcerazione di Kavala. I rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Germania, Canada, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia erano poi stati dichiarati “persona non grata” e minacciati di espulsione da parte del governo turco, che però ha alla fine deciso di non procedere. Il filantropo che si oppone a Erdogan è in carcere da quattro anni senza una sentenza di condanna. Dopo l’8 ottobre, quando era stata confermata la detenzione per ulteriori indagini legate al tentato golpe del 2016 e alle manifestazioni antigovernative del 2013 di Gezi Park, le ambasciate dei dieci paesi occidentali hanno ritenuto fosse arrivato il momento di esprimersi pubblicamente. Di Maio ha spiegato che la situazione di Kavala è sotto osservazione da parte del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dal 2020. All’ultima riunione del comitato non si sono registrati cambiamenti della situazione del filantropo: se per fine novembre la sua condizione non dovesse cambiare, il comitato ha intenzione di chiedere l’avvio di una procedura d’infrazione nei confronti di Ankara. La prossima udienza del caso è prevista il 26 novembre. Ma aderire all’appello per l’Italia sarebbe stato impossibile, secondo il ministro. “La nostra ambasciata, così come quella spagnola e quelle della gran parte degli stati membri dell’Unione, non è stata ad alcun titolo informata dell’iniziativa promossa dall’ambasciata danese ad Ankara. L’appello non è stato oggetto di consultazione nei diversi formati gestiti dalla delegazione dell’Unione europea ad Ankara”, ha detto Di Maio. Anzi, il capo della Farnesina si rammarica per non esser stato incluso nel piano: “Vorrei, infatti, esprimere il mio rammarico per il mancato coordinamento a livello di Unione europea su questa iniziativa”. Se ne deduce insomma che l’Italia avrebbe aderito, se soltanto fosse stata avvertita dagli alleati. Un’altra interrogazione, a prima firma di Lia Quartapelle del Pd, chiedeva aggiornamenti sul trasferimento dei rifugiati dall’Afghanistan in Italia. Di Maio ha detto di essere al lavoro nell’ambito del G20 per la realizzazione di corridoi umanitari dai paesi limitrofi, visto che Kabul è ormai inaccessibile ai voli occidentali. I trasferimenti devono dunque avvenire con la collaborazione di paesi terzi che hanno ancora contatti con l’Afghanistan. Intanto si sta cercando di evacuare chi è già riuscito a spostarsi nei paesi confinanti ed è nelle liste del ministero. Restano infatti ancora in balia delle vendette dei Talebani parecchi collaboratori del contingente italiano. “Il ministero della Difesa si sta adoperando per portarli in Italia, attraverso voli commerciali”. “Si stimano circa 500 persone, cui sarà assicurato il supporto logistico per la loro quarantena presso strutture militari già individuate”. In ?Russia sale il numero di detenuti politici rainews.it, 28 ottobre 2021 È paragonabile a quello dell’Urss, prima dell’arrivo di Gorbaciov. Secondo le stime del Centro per i diritti dell’uomo “Memorial”, nell’ultimo anno il numero di detenuti politici in Russia è salito da 362 a 420 persone, ed è paragonabile a quello ai tempi dell’Unione Sovietica, prima del rilascio dei detenuti politici per ordine di Mikhail Gorba?ëv. Tra i detenuti, 360 sono imprigionati per motivi religiosi ed altri 80 per motivi puramente politici. I dati sono stati diffusi alla vigilia della Giornata della memoria delle vittime della repressione politica che dal 1990 in Russia si commemora il 30 ottobre. Tuttavia, sottolinea “Memorial”, il numero reale di prigionieri politici e altre persone imprigionate per motivi politici è senza dubbio significativamente più alto. L’aumento maggiore è dovuto alle condanne dei seguaci di Hizb ut-Tahrir, un’organizzazione politica internazionale pan-islamica e fondamentalista, il cui obiettivo è quello di ristabilire un califfato islamico che unisca tutta la comunità musulmana e che implementi la sharia, e dei testimoni di Geova.