Il rischio di un grave passo indietro. E non è un film di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 27 ottobre 2021 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria elabora una Circolare per ridisegnare il trattamento penitenziario nel circuito di media sicurezza, il quale è il più grande contenitore dei 54 mila detenuti presenti nelle carceri italiane. In questi giorni sono accaduti tre fatti che hanno a che vedere con la questione carceraria. Non vanno tutti nella stessa direzione. Primo fatto: la Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha nominato una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, affidandone la presidenza al prof. Marco Ruotolo, che molti anni e impegno ha speso sul tema della dignità umana e dei diritti fondamentali dei detenuti. Si esplicita nel decreto di nomina che la Commissione avrà il compito di individuare “possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”. Dunque l’innovazione richiesta è funzionale ad aumentare la qualità della vita negli istituti di pena. È questo un fatto indubbiamente positivo. Secondo fatto: arriva nelle sale il film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, meravigliosamente interpretato da Toni Servillo, Silvio Orlando e Salvatore Striano. Il film, presentato in anteprima nel carcere romano di Rebibbia, con equilibrio e delicatezza non comuni, ridefinisce in termini antropologici la questione carceraria. Il regista ci porta in una galera come tante e pian piano ne decostruisce tutti gli stereotipi a partire da quel muro, apparentemente invalicabile, che dividerebbe custodi e custoditi. Senza scandalo e senza pietismo il film spiega che detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria sono parti di una stessa umanità. Anche questo secondo fatto è positivo, segno di un movimento culturale che non si accontenta di ricette interpretative banali per raccontare un mondo complesso e innaturale quale è il carcere. Terzo fatto: il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria elabora una circolare per ridisegnare il trattamento penitenziario nel circuito di media sicurezza, il quale è il più grande contenitore dei 54 mila detenuti presenti nelle carceri italiane. Se si escludono le poche centinaia di persone recluse in sezioni a custodia attenuata (sottoposte a regime aperto) e le svariate migliaia ristrette nelle sezioni di alta sicurezza (sottoposte a regime chiuso), possiamo a spanne calcolare in circa 35 mila i detenuti interessati ai contenuti della circolare. Essa introduce la distinzione tra sezioni ordinarie e sezioni a trattamento avanzato. Le prime sono rivolte a coloro i quali sono ritenuti inidonei a programmi di trattamento avanzato. Per costoro non si applicherebbe più la sorveglianza dinamica, introdotta all’indomani della sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo sui diritti umani che nel 2013 condannava l’Italia per trattamenti inumani e degradanti. Viene riproposta una modalità chiusa di reclusione. Aldilà delle otto ore di permanenza fuori dalla cella per le consuete ore d’aria o per frequentare le attività organizzate, il detenuto deve restare chiuso nella sua camera di pernottamento, altrimenti detta cella. È questo un passo indietro rispetto al modello attuale. A ciò si accompagna una richiesta di dar vita capillarmente a sezioni (cosiddette ex art. 32) destinate a detenuti che hanno un comportamento problematico e che quindi hanno un regime ancora più chiuso. La permanenza in queste sezioni può durare fino a sei mesi, finanche prorogabili. La circolare, pur richiamando la necessità di incrementare la presenza di figure multidisciplinari, non fa alcun riferimento all’assunzione di educatori, assistenti sociali, psicologi, medici, mediatori. Agli educatori non viene data una primazia nelle scelte pedagogiche, come sarebbe giusto fare. Per un detenuto finire in una sezione o in un’altra non è irrilevante. La collocazione in una di queste due sezioni è una decisione che incide notevolmente sui suoi diritti, sulla sua qualità della vita e sulle sue prospettive di reinserimento sociale, senza che egli abbia possibilità di rivolgersi a un magistrato di sorveglianza. Meglio sarebbe stato affidare una decisione del genere a parametri più certi di tipo legislativo. Il rischio grosso che si corre è duplice: da un lato il declino di queste sezioni ordinarie verso un modello di tipo prevalentemente disciplinare, dall’altro la creazione di ghetti reclusivi per i cosiddetti detenuti difficili, alimentando conflitti e violenza. Dunque il terzo fatto va in direzione contraria ai primi due e meriterebbe una riconsiderazione. *Presidente Associazione Antigone L’ennesima fallacia logica di Davigo sul sistema penitenziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2021 L’ex pm continua a sostenere che il sovraffollamento è “virtuale”. Abbiamo finalmente un ministro della Giustizia che ha competenza in materia penitenziaria, tanto da fotografare perfettamente la disastrata realtà carceraria, ma arriva di nuovo l’ex pm Piercamillo Davigo che sulle pagine de Il Fatto ripete le sue fallacie logiche di sempre. D’altronde, tanto più vengono ripetute, tanto più diventano vere. Riportiamo i suoi passaggi. Davigo scrive: “Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (consultabili da chiunque in Internet) al 30 settembre 2021 in Italia vi erano 53.930 detenuti in carcere a fronte di 50.857 posti dichiarati. Però lo stesso sito del Dap ricorda che quei posti sono calcolati sulla base di una superficie per detenuti così calcolata: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri quadrati per ogni occupante ulteriore (cioè la superficie per l’abitabilità delle case di civile abitazione), mentre la media europea è di 4 metri quadrati a detenuto”. Ci risiamo. Primo ragionamento fallace. Come la mette Davigo, sembrerebbe che effettivamente il sovraffollamento sia “virtuale”: c’è tanto di quello spazio, visto che si calcola i 9 mq, che addirittura i detenuti sono larghi in cella. Ovviamente basterebbe entrare in qualsiasi penitenziario e ci si accorgerebbe che di virtuale c’è solo il discorso geometrico. Astrattamente, infatti, potremmo mettere diversi detenuti in una unica cella e ciò non è possibile farlo concretamente, a meno che non si abbattano le mura per fare un enorme camerone. Che sia, in astratto, utilizzato lo standard di 9mq è vero, ma non lo si rispetta. C’è una complessità che Davigo non conosce. Accade che dentro uno stesso carcere convivono tipologie di sezioni che presentano punte maggiori di sovraffollamento tra di loro. Quindi sì, il sovraffollamento è reale. Davigo dovrebbe sapere che bisogna scendere fino al 98% della capienza ufficiale regolamentare, considerata in alcuni paesi la percentuale fisiologica di un sistema che deve sempre prevedere la disponibilità di un certo numero di posti liberi per eventuali improvvisi arresti o, come abbiamo visto, situazioni tipo la pandemia per poter non essere colti alla sprovvista. Poteva andare peggio se tutti avessero dato retta a Davigo e quindi evitare quelle minime misure deflattive che sono state applicate durante la pandemia. C’è da dare atto che più avanti, l’ex pm si augura un alleggerimento della popolazione penitenziaria. Ma lo pone in questo modo: “Certo si può auspicare una diminuzione della popolazione detenuta, sempre che vi sia una diminuzione dei delitti commessi, non potendosi pensare a depenalizzare omicidi e lesioni, furti e rapine e altre simili condotte”. In realtà è l’ennesima fallacia logica. Nei fatti, i reati, compresi quelli “gravi”, sono costantemente diminuiti in questi ultimi anni (fonte Istat), addirittura sono “crollati” con la pandemia (fonte ministero dell’Interno). E come mai, nonostante ciò non c’è stata una diminuzione dei detenuti? Ce lo spiega Antigone nel suo ultimo rapporto. In generale negli ultimi 15 anni vi è stata una crescita della durata delle pene inflitte segno di maggiore severità dei giudici di cognizione. Sono circa 19mila invece i detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni e potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione, salvo quella quota che è sottoposta a divieti normativi in ragione del reato commesso. Se solo metà di loro ne fruisse, avremmo risolto parte dei problemi dell’affollamento carcerario italiano. Forse è opportuno che l’ex magistrato Davigo legga bene le fonti e numeri, considerando le complessità. Potrebbe confrontarsi con gli addetti ai lavori, tipo il garante nazionale delle persone private della libertà e le associazioni che lavorano sul campo. La verità sul sovraffollamento carcerario di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 ottobre 2021 Piercamillo Davigo bacchetta Marta Cartabia: “Non è vero che ci sia sovraffollamento nelle carceri”, ha scritto sul Fatto quotidiano, criticando un intervento del ministro della Giustizia sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare. “Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - scrive Davigo - al 30 settembre 2021 in Italia vi erano 53.930 detenuti in carcere a fronte di 50.857 posti dichiarati”. Per giunta, “quei posti sono calcolati sulla base di una superficie per detenuti così calcolata: 9 mq per il primo occupante e 5 mq per ogni occupante ulteriore (cioè la superficie per l’abitabilità delle case di civile abitazione)”. Altro che affollamento, i detenuti stanno belli larghi. Come a casa. “Poiché il Dap dipende dal ministro della Giustizia (e si deve escludere che menta al ministro) - dice sempre l’ex magistrato - sarebbe interessante sapere chi racconta al ministro che in Italia vi è sovraffollamento in carcere”. Ecco chi lo dice. L’Anm, per esempio, di cui Davigo è stato presidente: “Tra le tante cose che la drammatica emergenza di queste settimane ha fatto emergere, vi è la gravissima condizione di sovraffollamento delle carceri italiane”, scriveva la Giunta esecutiva dell’Anm l’anno scorso. È vero che da allora il numero di detenuti è calato a causa del Covid, ma per Davigo il sovraffollamento non esisteva neppure all’epoca. Nello stesso periodo il Csm, di cui Davigo faceva parte, in un parere al governo parlava di una condizione per i detenuti che rendeva “indifferibile l’adozione di soluzioni atte a ridurre le condizioni di sovraffollamento carcerario”. Ma Davigo sbaglia anche sui numeri, perché sui circa 51 mila “posti dichiarati” gli effettivi, a giugno, erano 47 mila (4 mila in meno). Quindi i detenuti in eccesso sono circa 8 mila, con un tasso di sovraffollamento del 115 per cento. A dirlo sono i dati del Garante dei detenuti, che evidenziano anche come questa sia una media, perché in molte carceri il dato supera il 150 per cento. In sintesi, la Cartabia ha detto una cosa vera e nota a tutti gli operatori. Quasi tutti. Ma che bello il carcere! Gusti e sogni di Davigo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 ottobre 2021 Ma quanti magistrati la pensano come lui? Pare proprio il dialogo impossibile, quello tra Marta Cartabia e Piercamillo Davigo. Lei è quella che, da giudice della Corte Costituzionale, fece il “viaggio nelle carceri” auspicandone il minor possibile ricorso. Lui quello che da pubblico ministero contribuì a riempirle soprattutto di “non colpevoli” in attesa di giudizio. Dialogo impossibile, pure a distanza, pure lui ci prova e ci riprova. Non per discutere, ma per rimproverare. Chieda al Dap i numeri giusti sulla custodia in carcere, scrive sgarbatamente alla ministra, al termine del suo solito scritto sul quotidiano di famiglia. La famiglia delle toghe, ovvio. La ministra Marta Cartabia è impegnata su molti progetti, la cui realizzazione è in itinere, non ultima la riforma del Csm. Che è fondamentale anche perché coinvolge la cultura dei magistrati. I quali - come lei stessa ha ricordato di recente, e insieme a lei un po’ tutti, spesso per dovere più che per convincimento - nella maggior parte dei casi sono “laboriosi, coscienziosi e dediti al loro compito”. Manca un “amen” e le toghe sono seppellite. Perché a questo tipo di giaculatoria segue sempre un “però”. E il “però” della ministra, per come lo ha pronunciato nei giorni scorsi, intervenendo a due diversi appuntamenti, è grande e impegnativo: “Ci vogliono le necessarie riforme, ma soprattutto la rigenerazione che attinge a un sostrato culturale”. Vasto programma, vien da dire. Ma è un pilastro, se supponiamo che in Italia i Davigo siano tanti e che il problema culturale non sia solo un fatto generazionale in via di superamento con i pensionamenti. Vien da chiedersi: ma questi due illustri personaggi hanno fatto le stesse scuole, lo stesso percorso di laurea, il medesimo concorso? La stessa domanda che molti giuristi si posero agli inizi degli anni novanta, mentre, dopo la riforma del codice, iniziavano i processi penali con il sistema accusatorio. E si videro le differenze. C’erano quelli come Giovanni Falcone che, pur avendo costruito il maxiprocesso (che però era iniziato prima), era molto favorevole al nuovo rito e auspicava la separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa. E poi c’erano tutti gli altri a fare resistenza. Il legislatore non fu da meno. Per questo la ministra Cartabia ha messo un punto fermo: “Il potere di punire è tanto terribile quanto necessario. Ma è un potere che ha preso dimensioni esorbitanti”. Non ha detto “arrestare” o “punire con il carcere”. E nel suo definire “esorbitante” la misura assunta dalla sanzione, è proprio di privazione della libertà, di galera che sta parlando. Poi, la sua sintesi: “troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere”. C’è troppo di tutto, dice. E lo precisa, lo ha ben definito nel suo programma di misure alternative, di messa alla prova, di svuotamento delle carceri senza che si rinunci all’applicazione della pena. Si preoccupa soprattutto di quelle porte girevoli che portano soprattutto ragazzi giovani e magari incensurati a cadere in qualche girone per periodi troppo brevi per la rieducazione ma sufficienti per la contaminazione. Per non parlare dell’eccesso di carcerazione preventiva. Il dottor Davigo pare non capire. Si mette in cattedra, forse perché la guardasigilli è una donna, forse perché ha vent’anni meno di lui. O forse perché, dai tempi in cui era considerato il più preparato del pool Mani Pulite, gli viene spontaneo considerarsi “oltre”, per non dire “sopra”. Del resto, non era lui uno dei quattro che sfidarono in tv il governo Berlusconi dopo l’emanazione del “decreto Biondi”? Vinse allora e molte altre volte. Forse per questo suo passato ai vertici del mondo, oggi il dottor Davigo si permette di dire che il rimedio contro un eccesso di proliferazione legislativa è semplice: basta farne di meno. Certo, per i reazionari ogni riforma comporta un pericolo per la propria tranquillità. O per il proprio potere? E altrettanto sbrigativo è rispetto all’eccessivo numero di processi: si è depenalizzato già tanto, di più non si può fare. E mai lo sfiora la constatazione del fatto che c’è un imbroglio che si chiama obbligatorietà dell’azione penale e che non ci sono incentivi sufficienti all’applicazione dei riti alternativi, che invece sono la stragrande maggioranza delle soluzioni nei Paesi anglosassoni. Così finisce solo per concentrarsi sul numero dei carcerati, snocciolando cifre su cifre per dimostrare che in Italia tutto sommato ci sono meno detenuti che altrove in Europa. Proprio non pare capire che la ministra Cartabia, anche nel raccontare che ha incontrato associazioni di volontariato disposte ad accogliere fino a novemila persone per dare un’alternativa alla galera, non sta dicendo che i nostri istituti di pena sono sovraffollati. Sta indicando alternative al carcere, sta dicendo che la pena non deve necessariamente consistere nelle manette. Cosa inconcepibile per le toghe come Davigo. Il problema è: quante sono? Vitto e sopravvitto in carcere. La Raccomandazione del Garante nazionale al Dap Ristretti Orizzonti, 27 ottobre 2021 “Cambiare le procedure di assegnazione degli appalti per assicurare una alimentazione sana e adeguata ai bisogni nutritivi”. Lo scorso 15 ottobre il Garante nazionale delle persone private della libertà ha inviato una Raccomandazione urgente al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria volta a fissare negli istituti penitenziari un livello qualitativo del vitto che garantisca il diritto alla salute e a una sana alimentazione delle persone ristrette. La Raccomandazione, condivisa con i Garanti regionali interessati e con la Garante dei detenuti della Città metropolitana di Roma, è stata formulata a partire dalla recente pronuncia della Corte dei Conti, che ha negato l’approvazione dei contratti che prevedevano un unico fornitore per il vitto e il sopravvitto in Istituti del Lazio, Abruzzo e Molise. Da tempo il Garante nazionale aveva assunto la stessa posizione. Il rifiuto è per una tipologia mista di gara in cui lo stesso fornitore si aggiudica il servizio del vitto (cioè gli alimenti che lo Stato è tenuto a fornire quotidianamente a chi è recluso) e quello del sopravvitto (cioè il servizio a pagamento da parte dei detenuti che intendono acquistare generi alimentari aggiuntivi e altro). Tale sistema ha permesso, infatti, l’aggiudicazione a ditte che, sicure dei consistenti guadagni relativi al sopravvitto in regime di monopolio, offrono ribassi anche del 58% sulla base d’asta, fino a prevedere una spesa di 2,39 euro per una diaria alimentare completa (colazione, pranzo e cena) di un adulto. Rilevando che la questione dei bandi del vitto e del sopravvitto ha dimensione nazionale, il Garante ha richiesto da subito, per le regioni interessate dalla pronuncia della Corte dei conti, e in prospettiva, per tutto il territorio italiano, la predisposizione di procedure di aggiudicazione distinte tra vitto e sopravvitto e tali da garantire la somministrazione di una diaria credibilmente adeguata ai bisogni nutritivi di persone adulte, all’occorrenza prevedendo il parere obbligatorio e vincolante di un tecnologo alimentare indipendente. Inoltre il Garante ha indicato la necessità di configurare il bando per il sopravvitto contemplando la partecipazione della grande distribuzione che, più delle imprese locali, può assicurare varietà dell’offerta e contenimento dei prezzi. Ingiuste detenzioni, chi sbaglia non paga di Enrico Costa* Il Foglio, 27 ottobre 2021 L’odissea di chi chiede giustizia. Immaginate uno stadio di media capienza come il Bentegodi di Verona, gremito in ogni ordine di posti. Trentamila persone, tutte con una grande cicatrice sul corpo. Ognuno di questi spettatori è stato svegliato nel cuore della notte, prelevato e privato della libertà. I più fortunati liberati dopo pochi giorni, altri anche dopo anni. Tutti quanti, chi prima, chi dopo, assolti. Innocenti. Trentamila persone, come gli spettatori di quello stadio, dal 1992 al 2020 hanno ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione. Circa mille all’anno, per una spesa complessiva di 870 milioni di euro. Guai però a pensare che le mille persone all’anno che ottengono l’indennizzo siano i soli innocenti a essere finiti dietro alle sbarre o ai domiciliari. Sono tanti, tantissimi di più. Molti, scottati dal sistema giustizia, preferiscono rinunciare a quei quattro soldi piuttosto che tornare davanti a un giudice per domandarli. La gigantesca, clamorosa, ingiustizia sta nel numero di coloro che davanti al giudice ci tornano, ma vedono rigettata la loro richiesta. Il 77 per cento di chi - arrestato ingiustamente - chiede l’indennizzo e non lo ottiene perché, secondo le corti d’Appello, avrebbe “concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato”. Chi è così autolesionista da prendersi gioco di un pubblico ministero per farsi mettere in galera? Nessuno sano di mente. Ma se leggiamo le ordinanze di rigetto scopriamo che le corti respingono le richieste quando l’arrestato si è avvalso della facoltà di non rispondere: così facendo, secondo loro, concorrono all’errore del magistrato. Quindi, Tizio, arrestato magari nel cuore della notte, dopo un paio di giorni di carcere - quando non ha neanche letto le carte - finisce davanti al giudice: è abbastanza normale che si avvalga della facoltà di non rispondere. È un suo diritto. Ebbene, se Tizio dopo anni viene assolto e chiede l’indennizzo per ingiusta detenzione, si sente rispondere che non ne ha diritto perché quel giorno era rimasto in silenzio, senza respingere le accuse, mandando così fuori strada il magistrato, che peraltro lo aveva già da giorni messo in carcere. Come se di fronte a un arrestato che si proclama innocente il giudice scatti ad ammettere il suo errore, ad annullare l’ordinanza e a dischiudere la porta della cella. Questa è una distorsione giurisprudenziale a cui porre rimedio. Sto insistendo perché il governo intervenga con chiarezza e dica in modo chiaro che l’esercizio di un diritto non può ritorcersi contro chi lo ha fatto valere, e non può essere letto come una “colpa grave”: ma trovo un muro eretto dall’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia (composto perlopiù da magistrati, ne parleremo diffusamente in un prossimo articolo). Per loro la norma va bene così. E non è una sorpresa. La difesa corporativa non si ferma neanche di fronte all’evidenza di un arresto ingiusto. Il livello di civiltà giuridica di un paese si misura dal tipo di rimedi che mette in campo quando accadono gli errori giudiziari. Uno stato di diritto, di fronte a un cittadino innocente, umiliato, marchiato a vita, di fronte a un quasi-sequestro di persona, reagisce. Accerta e sanziona. Dedica energie, tempo e risorse perché non si ripeta più. Riavvolge il nastro, approfondisce, entra nel dettaglio di ogni istante che ha scandito quei momenti per fare luce su cosa non ha funzionato. Accende tanti riflettori quanti sono le vite rovinate, chiede conto ai magistrati, ricostruisce minuziosamente ogni passaggio. E, infine, trae le conclusioni. Qualcuno ha sbagliato? Dove ha sbagliato? L’errore era inevitabile? Le norme sono adeguate? In Italia accade esattamente l’opposto. Qualche tempo fa domandai a un autorevole magistrato il suo giudizio su questi numeri drammatici. Mi aspettavo un’analisi giuridica, magari una difesa corporativa, ma la risposta, disarmante per sincerità, mi gelò: “Sono numeri fisiologici”. Fisiologici, cioè inevitabili. Quindi è inutile perdere tempo a indagarne le cause, le dinamiche, gli effetti. Si può solo prenderne atto. Questa è la posizione del nostro stato rispetto agli innocenti in carcere. Passivo, inerte, gelido. Paga un indennizzo (neanche sempre, come abbiamo visto) e si volta dall’altra parte. Comprendere le ragioni degli errori? Manco per sogno. Sanzionare i responsabili? Figuriamoci. Nel lontano 2017 ottenni - con un emendamento - che il governo, fosse tenuto per legge, entro il 31 gennaio di ogni anno, a presentare una relazione al Parlamento in cui si dicesse quanti arresti sono stati effettuati nei 12 mesi precedenti, come siano finiti i relativi processi, quante riparazioni per ingiusta detenzione, quante azioni disciplinari nei confronti di chi ha sbagliato. La relazione del 2021, tanto per mostrare l’interesse al tema, è stata presentata solo il 19 maggio, con quasi 4 mesi di ritardo, e con il 24 per cento dei tribunali che non si è degnato di fornire i dati, che risultano così parziali. Ricapitolando, accade questo: un arrestato-assolto presenta alla corte d’Appello domanda di riparazione per ingiusta detenzione. Se questa viene accolta, la corte emette un’ordinanza stabilendo la cifra del risarcimento, che deve essere pagata dal ministero dell’Economia. Lo stato ammette l’errore e paga, ma paga solo lo stato, perché chi ha sbagliato non viene mai chiamato in causa e continua indisturbato la sua carriera. Mai una tacca sulle valutazioni di professionalità, mai l’avvio di un’azione disciplinare. Il ministero della Giustizia negli ultimi anni è stato inerte: nel periodo 2016-2018 ha istruito 3 (tre) fascicoli disciplinari, che ha poi archiviato. Nel 2019 ne ha istruiti 0 (zero). Allora abbiamo provato noi ad andare a caccia delle ordinanze delle corti d’Appello, che riconoscono l’ingiusta detenzione. Perché sono documenti preziosissimi che chiariscono le ragioni degli errori: omonimia? Superficialità? Ritrattazione? Travisamento dei fatti? Nessuno che si scomodi per leggerle, analizzarle, eventualmente sanzionare, ma soprattutto evitare che si ripetano gli sbagli. Queste sono tutte detenute dal Mef, a cui mi sono rivolto. Vi chiederete, cosa c’entra il Mef? C’entra eccome, perché è il soggetto che paga gli indennizzi, quindi detiene gli atti. Ma da via XX settembre hanno fatto orecchie da mercante. Allora ho interessato la commissione Giustizia della Camera che ha chiesto al Mef copia delle ordinanze di ingiusta detenzione. E il ministero dell’Economia, che al contribuente dovrebbe rendere conto, si è avvitato in un’incomprensibile manovra dilatoria. Di fronte a una richiesta inviata ad aprile 2021 la commissione è ancora in attesa di avere le carte. Carte sui “sequestri di stato” che non vengono rese pubbliche, negate anche al Parlamento. Il 7 maggio il ministro Daniele Franco aveva manifestato per iscritto alla commissione Giustizia la preoccupazione per “uno sforzo organizzativo e operativo che potrebbe impegnare l’Ufficio competente per diverse settimane, in considerazione dell’elevato numero di ordinanze (circa 5.900)”, sottolineando che “ciò condurrebbe a convogliare le risorse umane impegnate nelle istruttorie e nel pagamento degli indennizzi e, più in generale, per il normale funzionamento dell’ufficio, verso un’attività straordinaria rilevante e non programmata, che potrebbe determinare ritardi nell’erogazione degli indennizzi”. In sintesi, se noi pretendiamo gli atti per studiarli ed evitare in futuro innocenti in galera, faremmo un danno - ritardando i risarcimenti - a quei poveracci che da innocenti in galera ci sono finiti. Quando avremo queste ordinanze troveremo delle sorprese interessanti, che si aggiungono ai dati già in nostro possesso che dimostrano come gli errori si concentrino, come era immaginabile, in certi circondari e in certi distretti, noti per dare cittadinanza a inchieste ridondanti che finiscono nel nulla. Quello che ho cercato di descrivere è un labirinto senza fine che dimostra innanzitutto come il nostro paese abbia ancora tanta strada da fare per diventare uno stato in cui la libertà del cittadino sia sacra: perché, quando viene ingiustamente violata, nessuno muove un dito, nessuno si scandalizza, nessuno interviene. E dove, soprattutto, chi ha commesso questa ingiustizia viene promosso a più alti incarichi. Ps: ogni anno vengono arrestate circa 50 mila persone e, secondo le norme vigenti, il 20 per cento di queste non avrebbe dovuto essere privato della libertà. Ma anche di questo parleremo in un prossimo articolo. *Deputato di Azione “Sottrarre al Csm il controllo disciplinare sulle magistrature e trasferirlo a un’Alta corte” di Liana Milella La Repubblica, 27 ottobre 2021 Per Cartabia “sarebbe un bel segnale”. L’idea del dem Verini nel primo vertice in via Arenula sul riordino del Consiglio e sulla futura legge elettorale per cui chiede il rispetto della parità di genere. Saitta (M5S), no all’aumento dei consiglieri se il Parlamento taglia i parlamentari. “Sarebbe un bel segnale” dice Marta Cartabia quando il dem Walter Verini rilancia la proposta di trasferire a un’Alta corte tutto il capitolo del controllo disciplinare sulle magistrature. Anche se poi aggiunge che si tratta ovviamente di “una materia parlamentare”. È questa la notizia più sfiziosa del primo vertice in via Arenula sulla riforma del Csm, l’ultima delle tre leggi strategiche per ottenere i fondi del Pnrr dopo quelle del processo penale e civile. La ministra della Giustizia convoca in via Arenula i partiti della sua maggioranza. E subito, sul tavolo, ecco la duplice proposta di Verini che con il grillino Eugenio Saitta è relatore della riforma. Verini chiede garanzie su un’effettiva parità di genere per le elezioni del Consiglio, e rilancia la proposta di Luciano Violante, togliere dal Csm la sezione disciplinare e affidare il compito a un’Alta corte che si occupi di tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa, contabile. Una riforma costituzionale che però, secondo Verini, potrebbe costituire “la sfida di questo ultimo scorcio di legislatura, anche se non dovesse giungere a una conclusione”. Una proposta che evidentemente piace a Cartabia che la chiosa con una battuta - “sarebbe un bel segnale” - ma subito dopo ricorda che si tratta di una riforma costituzionale, quindi di una materia prettamente parlamentare. Ma Verini è convinto che, anche se non si dovesse giungere, visti i tempi, ad approvarla definitivamente, comunque si tratterebbe di un passaggio importante, da affidare poi alla legislatura successiva. Saitta invece chiede a Cartabia di riflettere sull’aumento del numero dei consiglieri del Csm - da 16 a 20 i togati, da 8 a 10 i laici peraltro già previsto dal testo dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede - perché proprio il taglio dei parlamentari dovrebbe suggerire invece una maggiore cautela nell’aumento dei componenti del Consiglio. La scommessa della nuova legge elettorale - È dal 2019, quando è esploso il caso Palamara, che tutti pressano per cambiare le regole del Csm, dalla legge elettorale alla sua vita interna, a partire dalla valutazione professionale e dalle promozioni dei magistrati, nonché sul destino delle toghe che scendono o tentano di scendere in politica. L’attuale Csm è rimasto in piedi proprio perché non sarebbe stato utile votare con le stesse regole che nel 2018 evidentemente avevano favorito la spartizione delle correnti (per esempio ci furono solo quattro candidati per quattro posti da pubblici ministeri). Ma adesso, a nove mesi dalla scadenza dell’attuale Consiglio, la questione è diventata urgente. Tant’è che a sollecitare la nuova legge elettorale, una settimana fa, è stato proprio il vice presidente del Csm David Ermini. Ma adesso ci siamo. A maggio il gruppo di lavoro presieduto dal costituzionalista Massimo Luciani ha fatto le sue proposte. Ora tocca al Parlamento decidere. E Cartabia parte subito con un primo giro di consultazioni con chi si occupa di giustizia nei partiti della sua maggioranza a partire dalla legge elettorale. Con la consapevolezza, dice introducendo la riunione, che di certo il sistema elettorale serve, può avere la funzione di correttivo rispetto alle degenerazioni che ci sono state, ma non si può credere in un effetto taumaturgico della riforma, sulla quale dunque non si possono concentrare troppe aspettative. Cartabia dice anche dell’altro ai partiti. Per esempio ricorda che bisogna riflettere sulla possibilità di un futuro rinnovo biennale di una parte del Consiglio. E ancora che, nell’attuale Csm, ci sono consiglieri eletti in seconda e terza battuta rispetto alla prima elezione, per via delle dimissioni dopo il caso Palamara e i fatti dell’hotel Champagne. Consiglieri che dovrebbero completare i 4 anni di permanenza al Csm previsti dalla Costituzione. Ma su questo, dai partiti, arriva un primo “niet”, l’idea è quella di mandare tutti a casa dopo i quattro anni effettivi del Consiglio che scadono tra luglio e settembre dell’anno prossimo. È tutto da scrivere il futuro meccanismo elettorale. E il confronto in via Arenula - che volutamente la ministra ha voluto prima di procedere a qualsiasi soluzione - dimostra che la stessa maggioranza è divisa. Il Pd con Verini e Alfredo Bazoli rilancia la soluzione Ceccanti, piccoli collegi con un ballottaggio, e ritiene del tutto impercorribile la strada del sorteggio. Mentre la Lega con Roberto Turri e Forza Italia con Pierantonio Zanettin insistono proprio sul sorteggio degli eleggibili, seguito poi da un voto. Lucia Annibali per Italia viva è “favorevole al sorteggio con eventuali correttivi e approfondimenti”, ma ritiene “non più procrastinabile una reale valutazione di professionalità delle toghe”. Federico Conte di Leu è per un proporzionale secco. Saitta rilancia il sistema alla fine scelto da Bonafede che aveva messo da parte l’iniziale sorteggio per i rischi di costituzionalità che comportava e aveva ipotizzato un maggioritario con collegi molto piccoli, e per essere eletti almeno il 65% dei voti. Enrico Costa di Azione vuole il voto singolo trasferibile (la proposta Luciani), e in subordine accetta il sorteggio. Ma sul Csm il suo giudizio è drastico perché bisogna “colpire sette vizi capitali del sistema: il correntismo, i passaggi dalle funzioni di pm a giudice, il disciplinare che fa acqua, il fenomeno dei magistrati tutti promossi, la responsabilità civile senza responsabili, le porte girevoli con la politica e una miriade di fuori ruolo”. Un’analisi che lascia intendere come neppure la riforma del Csm potrà essere politicamente indolore. Per una coincidenza, subito dopo il vertice con i partiti, ecco che Marta Cartabia è al Csm per parlare dell’ufficio del processo, l’assunzione per tre anni di 16.500 ausiliari del giudice. Un fatto “strategico”, “un cambio di paradigma nell’esercizio della giurisdizione, perché introduce negli uffici giudiziari la dimensione dell’équipe”. Spiega la ministra: “È come in una sala operatoria: il chirurgo resta sempre uno e sarà sempre lui a dover incidere e operare. Ma a supportarlo ci sarà una squadra di validi e diversi collaboratori, che potranno contribuire all’efficacia e all’efficienza del suo intervento”. Ed ecco i numeri. “Siamo a un passaggio essenziale” dice Cartabia. A novembre si svolgeranno le prove per il primo contingente di 8.171 addetti, per il quale sono arrivate più di 66mila candidature. Entro dicembre i capi degli uffici dovranno provvedere a elaborare i piani organizzativi. Partirà poi un nuovo bando per altre 5.410 unità, tra statistici, personale informatico, tecnici. “Tutte figure - dice Cartabia - necessarie al riammodernamento profondo del sistema giustizia”. Il vicepresidente del Csm David Ermini è convinto che “la magistratura italiana farà quello che si deve fare” perché le toghe “hanno compreso fino in fondo l’enorme potenzialità di questo progetto, e sono pronti a mettersi in gioco abbandonando un approccio alla giurisdizione solitario e individuale per metabolizzare un nuovo metodo di esercizio della propria professione, di tipo collaborativo e di staff”. Ermini però ricorda che “per troppi anni si è investito troppo poco e male nella giustizia”, tant’è che oggi “il numero dei posti scoperti nella pianta organica dei magistrati ordinari raggiunge le 1.300 unità”. Quindi “è necessario, con urgenza, procedere alla copertura, avviando le procedure concorsuali”. È la stessa questione che affronta Ciccio Zaccaro, il presidente di Area della settima commissione. Che chiede di “colmare, con politiche di reclutamento le più celeri possibile, i drammatici vuoti nell’organico dei magistrati, circostanza che apprezziamo quotidianamente perché ogni trasferimento, disposto con l’ottima intenzione di prestare aiuto a un ufficio, determina difficoltà nell’ufficio di provenienza”. Zaccaro conclude così: “La coperta è veramente troppo corta, anzi è quasi finita”. È già frattura tra i partiti sulla riforma del Csm di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2021 Ieri il vertice con Cartabia: FI e Lega vogliono il “sorteggio temperato”, che non piace a Pd e 5S. Consensi per l’Alta Corte disciplinare: “Bel segnale”, dice la ministra. Il tempo stringe. Ma l’obiettivo comune di tutti i partiti di maggioranza è quello di arrivare alle elezioni del prossimo Csm, previste a luglio 2022, con una riforma in grado di spazzare via i fantasmi del caso Palamara, e capace dunque di evitare le degenerazioni del correntismo. Anche perché a chiederlo è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come ribadito la scorsa settimana dalla ministra Marta Cartabia durante il vertice - poi rinviato - con i capigruppo di maggioranza. E la riunione è stata aggiornata a ieri, quando a via Arenula i partiti hanno toccato solo alcuni degli aspetti della riforma, primo fra tutti quello relativo al sistema elettorale. Le posizioni appaiono diverse: da un lato Pd, M5S e Leu hanno escluso categoricamente la possibilità di optare per il sorteggio, mentre Forza Italia e Lega hanno ribadito la volontà di puntare sul sorteggio temperato, che non dispiace nemmeno a Italia Viva. La proposta prevede di pescare a sorte i nomi di 100 magistrati tra quelli che abbiano raggiunto la quinta valutazione di professionalità ed eleggere tra questi i membri del Consiglio. Ma Cartabia ha anche guardato con favore la proposta del Pd - ribadita da Walter Verini, apprezzata da Forza Italia e vista con scetticismo dai pentastellati - di istituire un’Alta Corte per i giudizi disciplinari, che richiederebbe però una riforma costituzionale. Impossibile, dunque, portare a casa il risultato in questo scorcio di legislatura, mancando i tempi politici e formali. Ma l’assist di Cartabia rappresenta di certo una spinta ad affrontare la questione in Parlamento, con lo scopo di “dare un bel segnale”, come evidenziato ieri dalla guardasigilli. Che, dal canto suo, proverà ora a formulare un’ipotesi di “sintesi” sul sistema elettorale da portare al prossimo vertice con i capigruppo. Quello di ieri è stato un incontro interlocutorio, che ha lasciato fuori molti altri argomenti caldi, come quello relativo alle porte girevoli tra politica e magistratura. Il Pd ha ribadito di ritenere non percorribile, in linea preliminare, la via del sorteggio. “Riteniamo che sia una cosa non opportuna e preferiamo stare nell’ambito dei sistemi elettorali tradizionali - ha spiegato il dem Alfredo Bazoli -. La nostra proposta è quella di un sistema maggioritario, ma siamo disponibili a valutare qualunque idea che abbia come obiettivo e finalità quello di limitare il potere delle correnti nella scelta dei togati Csm. Non ci sentiamo vincolati a un sistema anziché l’altro”. E l’opzione proposta dalla Commissione Luciani, ovvero il voto singolo trasferibile, ha, secondo il Pd, “una sua persuasività”, in quanto ammorbidirebbe il sistema maggioritario secco, introducendo variabili controllabili per evitare i rischi del correntismo. “Ma va studiato approfonditamente - ha aggiunto Bazoli - per evitare che il risultato finale sia opposto a quello auspicato. In ogni caso, è una buona base di partenza su cui lavorare”. Nessuna pregiudiziale da parte del Pd dunque, consapevole che per frenare le correnti non basta agire sul sistema di voto. Al maggioritario si è opposta lunedì la corrente centrista Unicost, che in un comunicato ha espresso il proprio favore per un sistema elettorale di tipo proporzionale, che tenga conto della “fisiologica e peraltro ineliminabile pluralità delle culture in magistratura, rifuggendo dalla semplificazione che confonde il valore del pluralismo con le degenerazioni del correntismo”, ha sottolineato la direzione nazionale, citando le linee programmatiche della guardasigilli. Secondo Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, è però il sorteggio temperato “l’unico sistema in grado di attenuare il peso delle correnti, soluzione che appare compatibile con l’attuale assetto costituzionale”. Cartabia ha interrogato i partiti anche sulla possibilità di un rinnovo parziale del Csm, sul modello della Corte costituzionale, opzione pure esclusa dalla Commissione Luciani e sulla quale FI ha espresso contrarietà: “Questa ipotesi presupporrebbe una prorogatio, quantomeno parziale, dell’attuale Consiglio - ha aggiunto Zanettin - e io credo che per tanti motivi non si possa pensare che, in particolare questo Csm, possa andare oltre la scadenza”. Favorevole al voto singolo trasferibile, invece, Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, che però non ha escluso categoricamente la possibilità di convergere sulla proposta di Forza Italia. “Piuttosto di una norma che alimenti le correnti allora meglio il sorteggio - ha spiegato -. La riforma del Csm e della magistratura è fondamentale per colpire i sette vizi capitali del sistema: il correntismo, i passaggi dalle funzioni di pm a giudice, il disciplinare che fa acqua, il fenomeno dei magistrati tutti promossi, la responsabilità civile senza responsabili, le porte girevoli con la politica e una miriade di fuori ruolo. Oggi (ieri, ndr) nell’incontro con la ministra Cartabia abbiamo esposto le nostre posizioni, con l’auspicio che si punti a una riforma efficace e coraggiosa”. Azione si è anche espressa favorevolmente sull’ipotesi di inserire una quota di pm e giudici per evitare che a “governare” siano solo i requirenti, punto sul quale i partiti si sono detti d’accordo. La sensazione è che la riforma non possa arrivare in Aula prima di gennaio. Si continuerà dunque a lavorare in commissione Giustizia, ma i tempi sono stringati e sui lavori incide anche la sessione di Bilancio, che impedisce di fare leggi che prevedono impegni di spesa. E la riforma del Csm ne prevede uno sicuro per l’aumento del numero dei membri da 16 a 20, punto sul quale i partiti sembrano non porre obiezioni, nonostante l’iniziale malumore del M5S. Una contraddizione, dal momento che è stata quella presentata dall’ex guardasigilli grillino Alfonso Bonafede la prima proposta a ipotizzare un allargamento del numero dei componenti, anche per favorire la possibilità di formare collegi più piccoli e contrastare il potere delle correnti. Una finestra per la riforma del Csm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 ottobre 2021 Vertice al ministero per provare a cambiare la legge elettorale del Consiglio superiore in tempo per le elezioni dell’estate 2022. L’idea di preparare il terreno entro la fine dell’anno e correre da gennaio. Ma le soluzioni dei partiti di maggioranza restano diverse. Incontro interlocutorio anche con l’Anm. Affrettarsi, ma con calma. C’è l’urgenza della riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. Ma c’è anche l’incrocio con la sessione di bilancio in parlamento. E così la ministra della giustizia e la maggioranza non possono che di ricorrere alla saggezza dell’imperatore Augusto. Più che correre, prepararsi a correre. Bisogna fare in modo che il nuovo sistema di voto per la componente togata del Csm sia pronto per le elezioni di luglio 2022, perché troppo grave sarebbe rinnovare il Consiglio con la vecchia legge che ha favorito il “sistema Palamara”. D’altra parte non si può discutere una legge, sia pure una legge delega come quella di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, che comporta nuove spese, durante l’approvazione del bilancio. Dunque c’è solo una finestra, a dicembre, alla camera, per approvare in commissione i necessari emendamenti al disegno di legge Bonafede. La ministra ha un mese di tempo per presentarli. Poi, da gennaio 2022, bisognerà correre sul serio: le nuove regole dovranno essere approvate e pubblicate in Gazzetta ufficiale per l’inizio della primavera prossima. Il Csm ha bisogno di qualche settimana di tempo per adeguare i suoi regolamenti alle novità. Ieri i rappresentanti della maggioranza chiamati a un primo giro di tavolo dalla ministra si sono trovati d’accordo su questa tempistica. E su poco altro. C’è stato chi, come il rappresentante di Forza Italia Zanettin e il leghista Turri, è tornato a riproporre la soluzione del sorteggio - più o meno temperato - che però appare ormai una strada senza uscita. Ma anche a togliere dal tavolo quella che resta una soluzione a rischio di incostituzionalità, le preferenze dei partiti non convergono. Il Pd ha messo agli atti, da tempo, una proposta di legge di impronta maggioritaria. Che però è assai diversa da quella suggerita dalla commissione di studio insediata prima dell’estate dalla ministra Cartabia e presieduta dal costituzionalista Luciani. Commissione che nel suo documento conclusivo ha indicato la preferenza per un sistema proporzionale con il voto singolo trasferibile che potrebbe servire a limitare il peso delle correnti della magistratura nella scelta dei consiglieri togati. Vero è che quella proposta di riforma complessiva del Csm prevede anche una modifica costituzionale, dunque con tempi diversi e più lunghi, per arrivare alla novità del rinnovo parziale del Csm (votazioni ogni due anni per metà Consiglio) e di un vice presidente non eletto ma nominato dal capo dello Stato (che è anche presidente dell’organo). Ma la scadenza elettorale di luglio 2022 costringe a procedere con un passo doppio: nei prossimi mesi si farà quel che si può, poi si proverà a fare quel che si deve. Certamente si deve, hanno ricordato ieri mattina alla ministra i rappresentanti del Pd, sottrarre all’autogoverno della magistratura la funzione disciplinare, così da chiudere per sempre le polemiche su una giustizia interna delle toghe troppo morbida. L’idea è quella antica - rilanciata di recente da Violante - di una “alta corte” fuori dal Csm. Serve però anche in questo caso una riforma costituzionale che, spiega il relatore del disegno di legge di riforma Walter Verini, Pd, “può essere completata negli ultimi mesi della legislatura o almeno avviata lasciando il testimone alla prossima”. La ministra ieri avrebbe dato segnali di interesse per la proposta. Nel frattempo una soluzione intermedia può essere quella di aumentare il numero dei componenti del Csm: quattro togati in più (da 16 a 20) e due laici in più (da 8 a 10) così da facilitare, tra le altre cose, la separazione tra i componenti la sezione disciplinare e i componenti delle altre commissioni consiliari, prima fra tutti quella che propone gli incarichi direttivi. Ma siamo appunto solo alle prime battute. Cartabia ha un mese di tempo per arrivare agli emendamenti governativi. Intanto ieri ha visto fino a tarda sera anche l’Associazione nazionale magistrati, arrivata in via Arenula con il segretario Casciaro e la vice presidente Maddalena. Incontro, anche in questo caso, interlocutorio. Anche nell’Anm, del resto, le idee sulla legge elettorale migliore divergono. C’è chi tifa per il maggioritario (Magistratura indipendente), chi per il proporzionale (Area e Unicost) e persino chi insiste con il sorteggio (articolo 101) “Io magistrato dico: sui processi-show siamo a una rivoluzione” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 ottobre 2021 Intervista a Nello Rossi. “La possibilità per chi è accusato di ottenere la rettifica di dichiarazioni rese, da autorità pubbliche, in contrasto con la presunzione d’innocenza, abbasserà anche la soglia della diffamazione a mezzo stampa”. Il dottor Nello Rossi, direttore del periodico di Magistratura democratica, Questione Giustizia, sul recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza ci dice: “Siamo di fronte a una rivoluzione che non mancherà di produrre effetti su più versanti”. Su questo giornale Violante ha detto: “Il testo europeo si riferisce alla presunzione d’innocenza, l’articolo 27 della nostra Carta parla di presunzione di non colpevolezza. Sono cose un po’ diverse”... Nella riflessione degli studiosi e nell’elaborazione delle Corti le due presunzioni si sono progressivamente identificate. La distinzione originaria disegnava due cerchi concentrici. Nel cerchio interno la presunzione di non colpevolezza, che attiene essenzialmente al momento del giudizio e deve essere “vinta” e superata al di là di ogni ragionevole dubbio per giungere ad una condanna. Nel cerchio esterno, più ampio ed inclusivo, la presunzione di innocenza che ora opera a favore dell’indagato e dell’imputato dal momento iniziale del procedimento sino ad una pronuncia definitiva ma esplica i suoi effetti anche all’esterno del processo, nella sfera mediatica e nel rapporto tra l’imputato e tutte le “autorità pubbliche” che si pronunciano sul suo caso giudiziario. La norma modifica in parte il dl n. 106/2006: eppure previsioni per frenare il protagonismo di certi sostituti sono state disattese forse anche perché i Procuratori non hanno fatto le dovute segnalazioni ai Consigli giudiziari... È giusto responsabilizzare maggiormente i procuratori, chiamandoli ad intensificare il controllo su eventuali rapporti impropri dei sostituti con la stampa. Sarebbe bene però rinunciare a battere strade rivelatesi impraticabili. Penso al divieto di menzionare i sostituiti titolari dei procedimenti. È rapidamente caduto in desuetudine non per una deliberata e prava volontà di disapplicarlo ma perché si è rivelato irrealistico. È velleitario impegnarsi a non “nominare” magistrati che sottoscrivono un gran numero di atti e richieste e il cui ruolo nel procedimento è ben noto negli uffici giudiziari, ai difensori ed ai giornalisti, ai quali non può certo essere imposto di “non fare nomi”. A mio avviso quel divieto si pone anche in controtendenza rispetto all’esigenza che tutti i pm assumano piena responsabilità professionale, sociale, culturale per i provvedimenti che adottano o per le richieste che formulano al giudice. Il recepimento incide solo sulla magistratura. E la stampa? Attenzione alle sottovalutazioni. Siamo di fronte a una rivoluzione che non mancherà di produrre effetti su più versanti. Il decreto legislativo si rivolge in prima battuta ai magistrati e ai dirigenti delle forze di polizia ma vieta un anticipato stigma di colpevolezza anche a tutte le altre “autorità pubbliche” come ministri, funzionari, dirigenti di enti e di agenzie pubbliche. A tutti questi soggetti l’imputato potrà indirizzare una richiesta di rettifica e, ove questa manchi, potrà ricorrere al giudice per ottenere un ordine giudiziale di rettifica. Si dà vita ad un rapporto nuovo e paritario tra l’imputato e i pubblici poteri e si afferma il principio che c’è un “onore” dell’imputato presunto innocente che non può essere violato impunemente. La novità inciderà perciò anche sui media, abbassando sensibilmente la soglia oltre la quale vi è diffamazione e spostando la frontiera della tutela della reputazione. Qual è il suo giudizio sull’atto motivato con cui dovranno essere giustificate le conferenza stampa? Se il governo raccoglierà l’indicazione delle Camere, la motivazione degli uffici dovrà essere estremamente sintetica: un paio di righe, sufficienti a rappresentare gli specifici motivi della scelta di rendere conto di un procedimento. Inoltre bisognerà mettersi d’accordo su che cos’è una conferenza stampa. Non necessariamente un evento affollato e clamoroso ma più semplicemente un incontro con più giornalisti, preceduto da un avviso rivolto, senza ricorrere a canali privilegiati, all’intera platea dei media potenzialmente interessati. Condivide la preoccupazione delle Camere penali per cui tutto è concentrato nello stesso soggetto, ossia le Procure: fare le indagini, stabilire la rilevanza pubblica, indagare per eventuale diffamazione? Una elencazione suggestiva; ma se stiamo aderenti alla realtà vediamo solo un ufficio giudiziario - la Procura della Repubblica - che, per legge, ha il compito di coordinare le indagini e di decidere se e come darne informazione. I procedimenti per diffamazione hanno un’altra storia e un altro percorso: in essi contano solo le notizie, vere o false, e i commenti, critici o ingiustificatamente offensivi, riguardanti una parte del procedimento e non il livello di pubblicità per cui ha optato la Procura. Non si può essere indicati come colpevoli in determinati atti che riguardano l’indagine e il processo. Che ne pensa? Fino alla sentenza definitiva tutti gli atti di un processo, unilaterali o in contraddittorio, contengono conoscenze e convincimenti solo relativi, che potranno essere superati e corretti. Perciò la soluzione migliore per rispettare la presunzione d’innocenza sarebbe quella di sottolineare, in premessa degli atti nei quali ci si esprime sui profili di colpevolezza, che le argomentazioni del giudice sono svolte in una specifica fase del procedimento e che i suoi convincimenti sono espressi “allo stato degli atti”. Così si lascerebbe il giudice libero di motivare, sollevandolo da acrobazie e da ipocrisie che, tra l’altro, se non ben maneggiate potrebbero incidere negativamente sulla tenuta logica e sulla coerenza della sua motivazione. L’onorevole Costa si è battuto per introdurre la questione del diritto al silenzio... Nel nostro ordinamento processuale il diritto dell’imputato al silenzio è rispettato, né l’Unione ha mai avanzato dubbi o rilievi su questo aspetto. L’onorevole Costa si concentra su un aspetto successivo al processo penale: il rilievo attribuito da alcuni giudici al silenzio dell’imputato al fine di negare il suo diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. È una giurisprudenza che si riferisce al caso limite del silenzio che deliberatamente svia e depista, e coglie in questo atteggiamento una sorta di concorso di colpa. Non mi sembra irragionevole tener conto di queste ipotesi limite quando è in gioco un risarcimento del danno. L’essenziale è che il silenzio dell’imputato non abbia alcuno spazio nel giudizio sulla colpevolezza. Per quanto riguarda i ricorsi/ rettifiche che l’indagato/ imputato può fare, non si corre il rischio che solo quelli più attrezzati possano avviare procedimenti contro i magistrati? Lei tocca un punto dolente che si ripresenta in molti passaggi del nostro processo penale. Chi ha mezzi economici e cultura fruisce di garanzie che restano di fatto inattingibili dagli imputati economicamente e culturalmente più deboli. Nel processo si può sperare che il giudice e lo stesso pm operino per temperare gli effetti di tale diseguaglianza ma ciò non vale per il procedimento di rettifica e di ricorso al giudice a tutela della presunzione d’innocenza. Se nella prassi questo problema si rivelerà grave occorrerà provvedere. Alla ricerca di una rinnovata fiducia nella Giustizia da parte dei cittadini di Leonardo Arnau* Il Dubbio, 27 ottobre 2021 La riforma non può prescindere dalle aspettative nei confronti del sistema giurisdizionale. La Giornata europea della Giustizia, celebrata il 25 ottobre, è l’occasione per operare alcune riflessioni sul funzionamento della Giustizia nel nostro Paese. Giustizia è parola dalla pluralità di accezioni. Evoca il sogno di libertà e uguaglianza per tutti che attraversa la storia dell’umanità. Ma indica anche gli strumenti messi a disposizione per raggiungere tale obiettivo, per dirimere le controversie tra i cittadini e perseguire i reati. Strumenti costituiti da leggi, tribunali, magistrati, avvocati. I due significati si intrecciano. Gli strumenti servono il sistema dei valori cui inerisco e sono accettati o contestati a seconda del livello di condivisione di quel sistema. Se per secoli ha trionfato la disuguaglianza è naturale che la giustizia non sia amata dai meno uguali. Il primo dei significati della giustizia, quello che fa riferimento al valore, si affaccia, come speranza e prospettiva di riscatto, anche sul versante istituzionale. Ciò anche se, nel nostro Paese, una storia di divisioni abbia ostacolato il formarsi sulla giurisdizione di un comune sentire. Il quadro muta con la Costituzione, elemento di propulsione in difesa dei diritti e dell’uguaglianza delle persone. È oggi opinione condivisa che la ripresa del Paese passi attraverso la riforma della giustizia, che Governo e Parlamento hanno da pochi giorni parzialmente approvato, chiamati ad attivarsi dall’Ue nella messa a punto del Recovery Plan e del Pnrr, finanziata con due miliardi di euro. La riforma non può, tuttavia, prescindere dalla fiducia dei cittadini nei confronti dei protagonisti della giurisdizione. A partire dai magistrati. Per il recente Rapporto Italia 2021 dell’Eurispes, il consenso che i cittadini ripongono nella magistratura è stato negli ultimi tre anni stabile. Il calo più preoccupante si è registrato nell’ultimo anno (dal 49,3% del 2020 al 47,7% del 2021). Troppo semplice imputare questo andamento solo agli ultimi recenti scandali. Qualcosa nell’immaginario dei cittadini sta mutando. La fiducia degli italiani verso la giustizia è condizionata dalla lentezza dei procedimenti. Sul fronte civile, la possibilità di ottenere giustizia in tempi ragionevoli è ormai quasi una chimera, ma anche nel penale la lentezza della nostra macchina giudiziaria è scoraggiante. Il 62,3% degli italiani individuano nella durata irragionevole dei processi la principale causa del malfunzionamento della giustizia italiana e di uno sviluppo economico rallentato. Una convinzione che si è rafforzata nel tempo. La riforma del sistema, in direzione di una maggiore efficienza, rappresenta uno dei punti chiave della riforma. Obiettivi la riduzione della durata dei processi, l’innovazione dei modelli organizzativi e del personale, l’implementazione delle tecnologie e della digitalizzazione. Il ragionamento è analogo nel penale ove la ragionevole durata del processo come diritto dell’imputato, ma anche delle vittime, rappresenta un principio costituzionale, purtroppo, costantemente violato nel nostro Paese. È necessario ricordare che in un sistema democratico, la fiducia dei cittadini nella giustizia, lungi dall’essere un optional, è un elemento strutturale: se viene meno, si incrina il principio per cui le sentenze sono pronunciate “in nome del popolo” e si affaccia il rischio di derive disgreganti ed anticostituzionali. Fiducia vuol dire anche accettazione della giurisdizione come garanzia per i diritti dei cittadini e delle regole di convivenza, nonché come fattore di equilibrio del sistema istituzionale. Si tratta di un’accettazione che, lungi da rifiutare le critiche, se ne nutre, nella consapevolezza che aiutano a sbagliare di meno. Una fiducia che il sistema giustizia deve, oggi, guadagnarsi nuovamente. *Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Padova “Così un incubo kafkiano si è riprodotto all’infinito nel processo Poggiali” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 27 ottobre 2021 L’ex infermiera di Lugo di Romagna è stata dipinta per anni dai media come “l’angelo della morte”. E ora, dopo la doppia assoluzione di mercoledì, i suoi difensori parlano di “via crucis giudiziaria”. Per anni la stampa l’ha dipinta come “l’infermiera killer”. Peggio, come un “angelo della morte”. Ma per la Corte d’Assise di Appello di Bologna, Daniela Poggiali non ha mai commesso gli omicidi che le sono imputati. E anzi, non c’è stato alcun omicidio, perché per i giudici “il fatto non sussiste”. L’ultimo atto di una battaglia giudiziaria durata sette anni - sei gradi di giudizio e in tutto quasi quattro anni di carcere - è stato scritto mercoledì scorso con una doppia sentenza che assolve l’ex infermiera per la morte di Rosa Calderoni, 78 anni, e di Massimo Montanari, 94 anni, deceduti entrambi all’ospedale di Lugo, nel Ravennate, nella primavera del 2014. Da allora per Poggiali è iniziato l’incubo, una “via crucis giudiziaria”, come la definiscono gli avvocati Gaetano Insolera e Lorenzo Valgimigli del collegio di difesa. Ma ora, nelle stesse ore in cui Poggiali ritrova la libertà dopo quasi un anno di custodia cautelare disposta la vigilia di Natale del 2020 per il Caso Montanari, di “questa vicenda occorre parlare ancora”. Ne è convinto l’avvocato Insolera, per il quale un tale “moltiplicarsi dei giudizi” - nel caso Calderoni parliamo di una condanna all’ergastolo in primo grado, due assoluzioni in appello, annullate dalla Cassazione per vizio di motivazione, fino all’ultima sentenza assolutoria di appello ter - rappresenta “un’anomalia”. Un’anomalia certamente giustificata dalla difficoltà tecnica che ha contraddistinto i processi, quasi interamente basati sulla prova scientifica. Ma a un cittadino che finisca nelle maglie della giustizia non può prospettarsi un prolungamento infinito e indefinito del processo. Soprattutto se, come nel caso Poggiali, una certa quantità di giudici - 18 tra popolari e togati - decidendo nel merito, e quindi sui fatti, hanno assolto l’imputata “perché il fatto non sussiste”. E cioè adoperando la più netta tra le formule assolutorie. Ben oltre quella che è ancora impropriamente chiamiamo “insufficienza di prove”. “Un incubo kafkiano si è riprodotto in questo processo. Siamo puntualmente tornati da capo. Ma quante volte bisogna essere assolti per essere liberati da un’accusa?”, si chiede oggi l’avvocato Valgimigli. “Se la regola di giudizio è che sia sufficiente un dubbio ragionevole, due assoluzioni potranno ben concretare almeno un dubbio”, prosegue il legale. Siamo di fronte a una “giustizia che può essere intesa in termini persecutori nei confronti del cittadino che ci piomba nel mezzo”, gli fa eco Insolera. La ragione? “Credo che abbiamo vissuto un periodo storico, del quale speriamo di liberarci presto, in cui le regole di civiltà giuridica sono risultati soccombenti, cedevoli”, risponde Valgimigli. E di quali principi parliamo è presto detto: presunzione di non colpevolezza e ragionevole durata del processo, entrambi scolpiti nella Costituzione. “Avere la Costituzione sulle labbra e poi non praticarla nel concreto, non averla nel cuore, a cosa serve?”, si domanda ancora Valgimigli. Per il quale l’intera vicenda risulta quasi “irragionevole”. Roba da far “tremare le vene e i polsi”, chiosa Insolera. E a ben vedere, quando proviamo a ricostruire la vicenda processuale, ci troviamo di fronte a un vero e proprio rompicapo. Tutto inizia nell’ottobre del 2014, quando Poggiali viene arrestata per l’omicidio di Calderoni, secondo l’accusa uccisa con un’iniezione di potassio a poche ore dal ricovero, l’8 aprile dello stesso anno. Solo in seguito è scaturito il secondo filone processuale, il caso Montanari: un processo “gemello”. Meglio, un processo “stampella”, all’esito del quale Poggiali è stata condannata a 30 anni di carcere in primo grado, e infine assolta mercoledì scorso con il doppio dispositivo che ha ricondotto allo stesso epilogo i due processi proseguiti parallelamente. Con una differenza sostanziale. In questo secondo caso, per la morte dell’uomo, l’accusa ha ipotizzato un movente preciso: Montanari era l’ex datore di lavoro dell’allora compagno di Poggiali. Un “gossip”, come lo definisce l’avvocato, vuole infatti che l’ex infermiera si trovasse nella stanza di Montanari al momento della morte. Una circostanza però mai avvalorata con testimonianze a processo. E da cui scaturisce una prima sentenza di condanna basata, secondo i legali, sulla colpevolezza accertata in primo grado nel caso Calderoni. A nulla era valsa “la prova alibi”, così come i giudici avevano definito il risultato dell’emogas eseguito sulla paziente in prossimità della morte, che restituiva un valore di potassio nel sangue nella norma. Circostanza messa in dubbio dall’accusa attraverso una nuova prova scientifica avvalorata da una tecnica - adoperata dal consulente tecnico della procura - che nell’appello ter è risultata essere però sperimentale e poco attendibile. Nel mezzo - lungo i sei processi - si susseguono nuovi sospetti, testimonianze, e accuse di depistaggio a carico di Poggiali. Ma soprattutto, nel mezzo, compare una foto - quella che ritrae l’ex infermiera vicino a un paziente deceduto mentre mostra le dita in segno di vittoria - che contribuirà più di ogni perizia scientifica all’immagine del “mostro”, della colpevolezza incontrovertibile. Per quello scatto Poggiali è stata in seguito radiata dall’ordine. Una foto choc che oggi l’ex infermiera definisce il “suo unico errore”, un errore pagato “fin troppo”. Che si somma a quella suggestione di trovarsi di fronte a un “angelo della morte” che ha indirizzato l’intera vicenda e probabilmente il primo processo conclusosi con la condanna all’ergastolo decisa dalla Corte d’Assise di Ravenna. All’epoca “vi fu una grande forzatura mediatica, soprattutto a livello locale”, spiegano ancora i legali. Una campagna mediatica orientata dagli organi inquirenti “sull’onda della fisionomia personologica dell’imputata” che poté condizionare il giudizio. Il vero giudizio che seguì al verdetto della stampa, la stessa che ancora oggi riporta in pagina quello scatto che ad ogni udienza veniva riproposto sullo schermo gigante dell’aula del Tribunale di Ravenna. Maltrattamenti in famiglia in presenza di infra quattordicenne, no alla sospensione della pena di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2021 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 38359 depositata oggi. Le condotte di maltrattamenti in famiglia in presenza di persona infraquattordicenne protratte anche all’indomani della reintroduzione della circostanza aggravante da parte del “Codice rosso” (art. 572, comma 2, cod. pen. trasformata da aggravante comune in aggravante ad effetto speciale) ostacolano la sospensione dell’esecuzione della pena senza che l’inasprimento punitivo, conseguente appunto al Codice rosso, giochi un qualche rilievo sulla decisione. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 38359 depositata oggi, rigettando il ricorso di un uomo contro l’ordine di esecuzione della pena di due anni di reclusione. Secondo l’indirizzo accolto dalla giurisprudenza di Cassazione, in tema di sospensione dell’ordine di esecuzione di pene detentive, la condanna per il reato previsto dall’art. 572, comma 2, cod. pen. costituisce causa ostativa alla suddetta sospensione, nonostante l’abrogazione di tale norma, operata dall’art. 1, comma 1 -bis, del Dl 14 agosto 2013, n. 93 (convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119), attese la natura “mobile” del rinvio contenuto nell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen., all’art. 572, comma 2, cod. pen. e la continuità normativa tra l’ipotesi formalmente abrogata e l’analoga previsione di cui agli artt. 572, comma 1, e 61, comma 1, n. 11-quinquies, cod. pen. La Suprema corte precisa che “la continuità normativa tra l’originaria forma aggravata del reato di maltrattamenti ex art. 572, comma 2, cod. pen. e quella introdotta con l’art. 61, n. 11-quinquies, cod. pen. deve intendersi limitata alle condotte commesse “in danno” dei minori di anni 14, unico terreno comune ad entrambe le aggravanti non rientrano, viceversa, nell’originaria previsione né possono ritenersi richiamate in forma “mobile” o formale, ai fini di cui all’art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen., le ulteriori forme di aggravamento della condotta introdotte con l’art. 61, n. 11-quinquies citato, trattandosi di nuove ipotesi di responsabilità aggravata, come tali soggette ai principi di tassatività e di irretroattività della legge penale”. Sardegna. Attivate le prime aule informatizzate per detenuti studenti universitari di Marco Belli gnewsonline.it, 27 ottobre 2021 Parte dalla Sardegna la sperimentazione del modello unico nazionale per l’informatizzazione delle aule didattiche penitenziarie. E in particolare dagli Istituti di Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio Pausania dove sono state allestite e attivate le prime cinque aule (due nel carcere di Tempio), frutto dell’impegno congiunto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Provveditorato regionale per la Sardegna con la Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp) e del Polo universitario penitenziario di Sassari. Il modello informatico unico, approvato dalla Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (Dgsia) del Ministero della Giustizia, è stato definito e proposto dal DAP, che ha anche finanziato il cablaggio delle aule didattiche universitarie nell’ambito di un progetto più ampio di carattere nazionale. Una volta approntata l’architettura informatica da parte del DAP, il Provveditorato sardo ha proceduto ad acquistare gli arredi delle aule, mentre l’Università ha acquistato hardware e software grazie ad un finanziamento del MIUR. Ogni studente detenuto avrà un’identità telematica riconosciuta dal sistema che gli consentirà di accedere mediante username e password. Una volta all’interno, potrà accedere direttamente alla propria carriera universitaria e a una serie di servizi, come rinnovare le iscrizioni e prenotare esami; potrà consultare e archiviare i materiali di studio, tramite la creazione di una cartella personalizzata che sarà archiviata nel server del DAP; potrà infine comunicare con i propri docenti attraverso messaggistica canalizzata. Il sistema così realizzato è già pronto per essere modulato a livello nazionale: una volta che la sperimentazione in corso in Sardegna avrà dato esito positivo, sarà esteso a tutta la rete dei Poli Universitari Penitenziari afferenti alla Cnupp, per la quale il DAP ha già acquistato e predisposto un server capace di supportare un migliaio di utenze. Nella Casa di reclusione di Alghero si è svolta oggi la presentazione del sistema e la cerimonia inaugurale dell’aula, alla presenza del Direttore generale del personale e delle risorse del DAP, Massimo Parisi, del Direttore Generale per i sistemi informativi automatizzati, Vincenzo De Lisi, del Provveditore regionale per la Sardegna, Maurizio Veneziano, del Presidente nazionale del Cnupp, Franco Prina, del Rettore dell’Università di Sassari, Gavino Mariotti e del Delegato per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari, Emmanuele Farris. “Siamo molto orgogliosi di poter presentare un progetto tanto importante quanto ambizioso, che trova il suo valore aggiunto nell’interazione tra diverse istituzioni: l’Amministrazione penitenziaria in tutte le sue componenti, con i Provveditorati regionali, il Sistema Informatico Penitenziario, la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento; la Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati (Dgsia) del Ministero della Giustizia e il mondo accademico e universitario”, ha affermato il Direttore generale del Personale e delle risorse del DAP Massimo Parisi, sottolineando “l’importanza della sperimentazione partita in Sardegna che, se si dimostrerà vincente, verrà estesa a tutto il territorio nazionale. In questa direzione, altresì, DAP e Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari (Cnupp) hanno messo a punto le linee guida che attuano l’intesa sottoscritta prima della pandemia e che puntano a garantire ai detenuti un migliore diritto agli studi accademici”. Per il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Maurizio Veneziano: “Si tratta di un progetto di avanguardia che pone la Sardegna come capofila nazionale dell’innovazione tecnologica finalizzata a favorire la formazione delle persone detenute negli istituti penitenziari italiani”. Il Rettore dell’Università di Sassari, Gavino Mariotti ha sottolineato come “l’attenzione che il nostro ateneo dedica a tutte le categorie di studenti con esigenze speciali, per le quali è fondamentale dotarsi di tecnologie avanzate, capaci di far fare alle istituzioni di alta formazione un salto culturale e infrastrutturale molto importante, volto alla massima inclusività e capillarità nei territori”. Per il delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari, Emmanuele Farris, infine, “il confronto sempre sincero e leale, seppur con ruoli diversi, tra Università e Amministrazione Penitenziaria per il raggiungimento di un obiettivo comune è un esempio virtuoso che dovrebbe diventare la norma e del quale i cittadini del territorio devono essere orgogliosi”. Pisa. Detenuto di 29 anni trovato senza vita nel letto di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 27 ottobre 2021 Era nel reparto per degenti sotto osservazione, ipotesi di un attacco cardiaco improvviso. Disposta l’autopsia. Lo hanno scoperto ieri mattina nel letto del reparto che da anni è il fiore all’occhiello della sanità carceraria italiana. Era ricoverato da qualche giorno nell’area allestita per tenere sotto osservazione chi ha problemi di salute, il detenuto di 29 anni, originario di Vada, trovato senza vita ieri mattina dal medico di guardia della casa circondariale. Una morte all’apparenza per cause naturali, ma sulla quale gli inquirenti vogliono svolgere ogni accertamento per fugare qualsiasi parvenza di dubbio. La Procura ha disposto l’autopsia che è in programma oggi pomeriggio. Sarà il professor Luigi Papi a rispondere ai quesiti posti dal magistrato di turno Giovanni Porpora sulle cause del decesso del giovane recluso. Domande che mirano a capire la causa della morte e ad accertare eventuali profili di responsabilità penale. Il medico legale, al di là dell’esame autoptico, può fare affidamento come base di partenza sulla cartella clinica della vittima di quello che appare come un malore. Il 29enne si trovava ricoverato per alcuni disturbi legati alla sua cardiopatia. Il punto è se quei malanni erano compatibili con il ricovero nel centro clinico del carcere o se avessero richiesto diagnosi e cure di un ospedale più strutturato. Al momento non ci sarebbero misteri sull’origine della morte del giovane che dopo l’ingresso in carcere aveva manifestato una serie di disagi fisici, anche seri, tali da indurre la direzione a trasferirlo nel centro clinico. Qui i medici avevano avviato un’attività di diagnosi e terapia in attesa di un recupero che alla fine non c’è stato. La situazione si è aggravata con il passare delle ore fino al decesso di ieri mattina contro il quale i tentativi di tenere in vita il detenuto si sono scontrati con un cuore sempre più debole e compromesso. Ora l’autopsia servirà a dare una risposta su ha ucciso il giovane. Un atto necessario per chiudere l’indagine e consegnare già da domani la salma ai familiari per la celebrazione del funerale. Uno strazio improvviso, neanche immaginabile per la famiglia del 29enne che già aveva dovuto affrontare il dolore per l’arresto del giovane. Napoli. Poggioreale scoppia, adesso si rischia una Santa Maria Capua Vetere bis di Viviana Lanza Il Riformista, 27 ottobre 2021 Il carcere di Poggioreale “è come una pentola a pressione”, pronto a scoppiare. Questa volta l’allarme arriva dal Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria. Una delegazione ha visitato il grande carcere cittadino osservando con i propri occhi le difficoltà in cui si vive e si lavora all’interno di una struttura affollata e strutturalmente vecchia come quella di Poggioreale. Di qui il grido di allarme rivolto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, affinché siano adottati provvedimenti urgenti per garantire vivibilità e sicurezza nei penitenziari, a partire proprio da Poggioreale. Che il grande carcere di Napoli fosse una polveriera soprattutto a causa del sovraffollamento non è una novità: lo denunciano da anni il garante dei detenuti campani Samuele Ciambriello, quello di Napoli Pietro Ioia, gli avvocati penalisti, le associazioni come Antigone. Non è una novità, infatti, che a Poggioreale vi sia un numero di detenuti di gran lunga superiore a quello regolamentare, che vi siano carenze di personale con cui fare i conti e che da circa due anni, con la pandemia in atto, garantire percorsi di rieducazione e attività trattamentali è sempre più difficile, quasi impossibile. La direzione del carcere fa quello che può ma non basta. Urge una riforma, un intervento del Governo. “A Poggioreale ci sono 2.200 detenuti, parliamo di 100 ingressi a settimana - commenta il segretario generale del Sappe, Donato Capece - Così si mette a serio rischio la sicurezza stessa del penitenziario e ogni ipotesi di attività trattamentale finalizzata al recupero dei detenuti”. Tutto questo genera tensioni che sfociano il più delle volte in aggressioni, atti di autolesionismo, suicidi. Le statistiche non possono essere lette come un crudo elenco di nomi e fatti, denunciano una strage che si sta consumando tra il silenzio e l’indifferenza dei più. Accanto ai dati sui suicidi dei detenuti (8 dall’inizio dell’anno soltanto in Campania) e a quelli sull’autolesionismo (centinaia ogni anno) bisogna considerare, infatti, le criticità vissute dagli agenti della polizia penitenziaria, costretti a lavorare in condizioni sempre più difficili. “Nei primi sei mesi del 2021 si sono contati 152 atti di autolesionismo - spiega Capece segnalando la polveriera Poggioreale - oltre a un decesso per cause naturali, un suicidio, 13 tentativi di suicidio sventati in tempo dalla polizia penitenziaria e 119 colluttazione. Cifre allarmanti - aggiunge - ma comunque contenute con grandissimi sacrifici e grazie alla professionalità degli agenti, all’abnegazione e al senso del dovere della polizia penitenziaria, e tutto nonostante la carenza di risorse. Ci sarebbe bisogno, infatti, di più uomini per fronteggiare l’emergenza in atto”. Tuttavia, se Poggioreale è una bomba pronta a esplodere non va tanto meglio nelle altre strutture. È per questo che la denuncia del Sappe parte dal caso Poggioreale ma si estende a tutto il sistema penitenziario ormai al collasso: 5.290 atti di autolesionismo, 50 decessi tra suicidi e cause naturali, 738 tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria, 3.823 colluttazioni, 503 ferimenti sono i numeri che descrivono la situazione. “In pratica, ogni giorno nelle carceri italiane succede qualcosa”. E il rischio a cui si va incontro è quello di duplicare i fatti di Santa Maria Capua Vetere, cioè i brutali pestaggi attuati da squadre di agenti (ora indagati) ai danni dei detenuti di un intero reparto che avevano “osato” chiedere mascherine e tamponi quando, ad aprile 2020, si piombò nel pieno di una pandemia che continua a far paura a tutti. “Se gli attuali vertici non sono in grado di garantire l’incolumità fisica ai poliziotti penitenziari, devono dimettersi tutti”, conclude Capece puntando l’accento sulla necessità di non rimandare soluzioni ai problemi del pianeta carcere. Ed è un’urgenza che inevitabilmente si somma a quella che riguarda la popolazione detenuta, reclusa in celle affollate, spesso in condizioni di scarsa igiene e, da quando c’è la pandemia, con possibilità di attività ridotte al minimo. Cassino (Fr). Un detenuto nel carcere sovraffollato ottiene di essere liberato di Luigi Mastrodonato Il Domani, 27 ottobre 2021 Una sentenza ha accolto il ricorso di un carcerato tenuto per oltre 200 giorni in condizioni degradanti, tragicamente comuni in molti istituti. Quello di Cassino “è un istituto problematico”, ha detto il garante dei detenuti del Lazio. Nella foto, le rivolte al a san Vittore a Milano nel 2020. Per almeno 203 giorni un detenuto del carcere di Cassino ha vissuto in condizioni disumane e degradanti, contrarie alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per questo motivo il magistrato di sorveglianza di Frosinone ha deciso di scarcerarlo, accogliendo il suo ricorso. È una pronuncia innovativa quella che arriva dal Lazio, non la prima del suo genere ma forse la più rumorosa per le conseguenze che si porta dietro, anche perché accende i riflettori su un carcere da tempo definito problematico sotto molti punti di vista. Il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, ha denunciato più volte la situazione critica nella casa circondariale di Cassino. Da una parte la struttura vecchia e fatiscente, dall’altra un problema di sovraffollamento che nel 2020 raggiungeva picchi del 156 per cento. “È un istituto problematico, dove un intero padiglione è diventato inagibile per un cedimento del suolo nel 2019. Alcuni detenuti sono stati trasferiti altrove, altri si trovano stipati nel padiglione che rimane disponibile”, spiega Anastasia. “C’è un problema di spazi e manutenzione, ma non solo. Per esempio il padiglione pericolante ha impedito ai detenuti di svolgere certe attività, come accedere al campo da calcio”. Quando Anastasia ha girato tra le celle ha riscontrato una situazione non consona con la legge, in particolare nell’obbligo di garantire a ciascun detenuto uno spazio uguale o superiore a tre metri quadrati. “Nelle stanze c’erano fino a sei persone e il conteggio dello spazio non era quello che sosteneva l’amministrazione penitenziaria, che calcolava anche l’ambiente del bagno per la definizione della superficie pro capite”, sottolinea il garante. Una situazione di sovraffollamento non solo nei numeri ma anche nei fatti, un elemento in grado di complicare non poco la già difficile sopravvivenza dei detenuti tra le mura del carcere. Un indicatore delle problematicità del carcere di Cassino emerge anche leggendo l’ultimo rapporto sulle prigioni italiane di Associazione Antigone, pubblicato a luglio. Nel capitolo dedicato agli atti di autolesionismo spicca proprio l’istituto laziale, al secondo posto in Italia in questa triste voce con 60 episodi riscontrati ogni 100 detenuti nei primi sei mesi del 2021. Di fronte a questa situazione, un detenuto 35enne che stava scontando a Cassino una condanna a quattro anni di reclusione per rapina e reati contro il patrimonio ha deciso di far valere i propri diritti. Nel giugno scorso ha presentato istanza al tribunale di sorveglianza ai sensi dell’articolo 35bis dell’ordinamento penitenziario, che dal 2013, a seguito della sentenza Torreggiani con cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per sovraffollamento delle carceri, consente a “persone detenute o internate che abbiano subito una lesione di un diritto fondamentale in seguito a un provvedimento o a una condotta illegittima dell’amministrazione penitenziaria” di fare reclamo per ottenere un rimedio o compenso. Nel caso specifico, il detenuto lamentava una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, nel momento in cui lo spazio in cella a sua disposizione è stato inferiore a quello definito per legge. E il magistrato di sorveglianza di Frosinone gli ha dato ragione, in una pronuncia simbolicamente molto importante in un paese dove il sovraffollamento carcerario continua a essere un problema, con un tasso nazionale al 113,1 per cento e alcuni istituti che fanno segnare numeri spaventosi come quello di Brescia (200 per cento), Grosseto (180 per cento) e Brindisi (170,2 per cento). “Il reclamante dal 16 maggio 2020 al 28 giugno 2021 ha avuto a disposizione uno spazio individuale inferiore a 3 metri quadri per giorni 203”, scrive il magistrato di sorveglianza di Frosinone, che “accoglie il reclamo del detenuto con riguardo alla detenzione inumana e degradante eseguita nella casa circondariale di Cassino”. Come riparazione del danno, al detenuto è stato riconosciuto un risarcimento simbolico di 24 euro ma soprattutto la scarcerazione, effetto di una riduzione di 20 giorni della sua pena che già era in esaurimento. “È una pronuncia importante anche se non è la prima di questo tipo. Negli ultimi tempi sta andando formandosi una giurisprudenza a proposito delle condizioni detentive che devono soddisfare i requisiti di umanità, anche perché altrimenti la Corte europea ci bastona ogni volta”, spiega Vincenzo Macari, l’avvocato del detenuto. “Nel caso di Cassino la situazione è stata critica per il mio detenuto, ma anche per altri suoi compagni”. Non è un caso che proprio nel maggio scorso, sempre in riferimento al carcere di Cassino, ci sia stata un’altra pronuncia di questo tipo, sebbene meno incisiva. Il tribunale di sorveglianza ha stabilito che per 58 giorni tra marzo e aprile 2020 le condizioni di prigionia di un detenuto sono state lesive dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con una superficie a sua disposizione di 2,39 metri quadrati. In quel caso la riparazione è consistita nella riduzione simbolica della pena detentiva di cinque giorni. Benevento. Suicidi nel carcere, la preoccupazione dalla Camera penale ottopagine.it, 27 ottobre 2021 “L’assistenza e cura per il disagio psicologico e psichico dei detenuti è gravemente carente”. Forte preoccupazione per i due suicidi verificatisi negli ultimi mesi presso il Carcere di Benevento viene espressa dalla Giunta della Camera penale di Benevento, presieduta dall’avvocato Simona Barbone. “Il progressivo scemare dell’emergenza pandemica rischia - rimarca la presidente - di distrarre da quelli che restano gli allarmi cogenti che provengono dal sistema carcerario. Quanto accaduto presso l’Istituto penitenziario sannita in pochi mesi è solo lo specchio di quanto avviene a livello nazionale ed impone una seria riflessione. Le morti per suicidio di due giovani detenuti e quelle che si verificano ogni anno, in crescita (nel 2020, 61 persone si sono tolte la vita negli istituti di pena italiani, numero senza precedenti, 11 suicidi ogni 10.000 persone, con un’età media di 39,6 anni) secondo il XVII Rapporto annuale dell’Associazione Antigone, ‘Oltre il virus’, nonostante lo spopolamento conseguente alla pandemia e all’incremento di misure alternative concesse, devono smuovere le coscienze e destare le menti di esecutivo, legislatore, addetti ai lavori e società civile”. L’avvocato Simona Barbone poi analizza il problema: “La carenza di assistenza sanitaria psichiatrica nelle carceri affonda le sue radici anche nella scelta legislativa (L. 419/1998 e successivo DPCM del l° aprile 2008) di ‘esternalizzare’ la sanità penitenziaria (attualmente in carico al Servizio sanitario nazionale e alle Regioni per effetto dei richiamati interventi legislativi) rispetto alle autorità penitenziarie poste alle dirette dipendenze del Ministero della Giustizia. Oggi, nella nostra regione, emerge in modo netto la carenza di personale sanitario pronto a mettere a disposizione la propria professionalità all’interno degli istituti di pena. L’assistenza e la cura del disagio psicologico e delle patologie psichiatriche è gravemente carente per i detenuti in espiazione pena definitiva e in regime cautelare, anche in ragione di condizioni detentive precarie (spazi ristretti e inadeguati, ancora poche e troppo limitate opportunità di istruzione e formazione) che aggravano il malessere psichico del singolo detenuto, il quale nella maggioranza dei casi è costretto ad un transito nelle articolazioni psichiatriche che diventa permanente, quasi a “ripetere la triste situazione di un ergastolo bianco” (fonte: Relazione annuale 2020 del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla detenzione)”. “In Campania - spiega ancora il numero uno della Camera Penale di Benevento -, le strutture dotate di personale qualificato e settori specializzati concretamente attivi in materia psichiatrica sono limitate e spesso carenti di personale e mezzi. Solo due le REMS per i soggetti in misura di sicurezza, già allo stato colme, quelle definitive di San Nicola Baronia, in provincia di Avellino e Calvi Risorta, in provincia di Caserta (le strutture temporanee di Mondragone e Vairano Patenora sono in dismissione). Le Camere penali campane - con i propri delegati dell’Osservatorio carcere - hanno istituito insieme al Garante regionale dei detenuti un tavolo tecnico per il monitoraggio e la denuncia, altresì, di tali problematiche, con l’intento di segnalare criticità e proporre soluzioni in concreto. Occorre in ogni caso uno sforzo economico per dotare gli Istituti di personale (non solo medico, ma anche di sorveglianza e controllo) e di mezzi. È necessario - sottolinea ancora Barbone - che la magistratura di sorveglianza sia più efficiente e pronta in materia di concessione di misure alternative alla detenzione (che oltretutto inibiscono la “recidiva”) soprattutto in favore di quei soggetti per i quali effettivamente il carcere è misura inadeguata. Ed occorre che gli Istituti di pena siano dotati di personale di polizia penitenziaria in numero adeguato (è atavica la questione della carenza sotto questo profilo, aggravata, nello specifico della nostra Regione, dai noti accadimenti che hanno riguardato la struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere e che hanno richiesto l’invio di personale esterno) per la concreta realizzazione della cosiddetta “sorveglianza dinamica”. Poi l’annuncio: “La Camera penale di Benevento, con il sicuro sostegno delle altre Camere penali regionali, in attesa e nel rispetto dell’espletamento delle dovute indagini da parte dell’A.G. sui due richiamati eventi suicidari, proseguirà imperterrita nella propria azione instancabile di vigilanza, denuncia e proposta, confidando che, in un Paese che voglia dirsi, nei fatti, civile e democratico, la coscienza (di chi sa e può) finalmente si desti”. Busto Arsizio. Cartabia: “Serve fermata bus per il carcere”. E scatta il Flash Mob malpensa24.it, 27 ottobre 2021 Una fermata del bus per il carcere di Busto Arsizio. Le parole del ministro della Giustizia Marta Cartabia a sostegno della proposta rinvigoriscono le intenzioni di trasformare la richiesta in realtà. Sabato 30 ottobre alle 11.30, quindi, sarà organizzato un Flash Mob per rilanciare la proposta. Una camminata dalla fermata del bus di via Collodi a Sant’Anna (la più vicina alla casa circondariale) sino al carcere. Un percorso che prevede, gioco forza, anche l’attraversamento di una rotonda priva di strisce con evidente rischio per chi è costretto ad affrontarlo. La lettera ad Antonelli - La richiesta era arrivata a fine settembre con una lettera indirizzata all’allora uscente sindaco di Busto Arsizio Emanuele Antonelli (riconfermato al primo turno nella tornata elettorale del 3-4 ottobre scorsi) firmata dal garante per i detenuti Matteo Tosi e il cappellano della Casa Circondariale Don David Riboldi, sostenuti da quattro tra associazioni e cooperative (Coop Intrecci, Associazione volontari assistenti ai carcerati e loro famiglie Busto Arsizio, Olbò e Valle di Ezechiele). Carcere scollegato dalla città - Le ragioni della richiesta sono semplici quanto fondamentali: la casa circondariale di via per Cassano è lontanissima, ad esempio, dalle stazioni ferroviarie cittadine. Un detenuto appena scarcerato, magari con difficoltà di deambulazione, avrebbe enormi difficoltà nel raggiungere lo snodo ferroviario per il ritorno a casa. Lo stesso don David aveva spiegato di aver dovuto accompagnare un detenuto con problemi deambulatori in stazione perché gli autobus in via per Cassano non fermano. Il carcere di Busto era stato definito, al momento della richiesta, un “Non luogo scollegato dalla città” questo nonostante gli oltre 400 detenuti ospitati e i 300 dipendenti che vi lavorano. Anche per loro, o per i volontari che in carcere prestano servizio, e per i famigliari dei detenuti in visita avere la possibilità di un collegamento con la casa circondariale con trasporto pubblico sarebbe fondamentale. Le parole del ministro - La proposta è stata rilanciata dal ministro della Giustizia Marta Cartabia che, lunedì 25 ottobre, dopo aver visitato il carcere bustocco ha inaugurato, a Fagnano Olona, la Cooperativa la Valle di Ezechiele che dà lavoro agli ex detenuti. “Mi dicono - aveva sottolineato il Guardasigilli nel suo appassionato intervento - Di una difficoltà con i trasporti pubblici che possano arrivare sino all’ingresso del carcere”. Con il sindaco e presidente della Provincia di Varese Antonelli in prima fila il ministro Cartabia aveva nell’occasione sottolineato come avere “Una fermata d’autobus dedicata al carcere sia importantissimo per i detenuti e per i loro famigliari”. Parole, quelle del Guardasigilli, che non possono cadere nel vuoto. Il Flash Mob di sabato 30 ottobre arriva sulla scia di queste autorevoli affermazioni. Palermo. Il polo penitenziario universitario diventa realtà palermotoday.it, 27 ottobre 2021 Il carcere Pagliarelli e l’Ucciardone hanno firmato l’accordo attuativo. Unipa garantirà l’esonero dal pagamento delle tasse e dei contributi, la fornitura gratuita dei libri di testo, i materiali didattici e le attrezzature informatiche necessarie. Diventano realtà anche in Sicilia i poli penitenziari universitari. Il carcere Pagliarelli e l’Ucciardone hanno firmato l’accordo attuativo. Si avviano alla firma anche gli istituti di Trapani, Agrigento e Enna. In particolare, un ex studente di Unipa, detenuto a Enna, ha chiesto espressamente di riprendere gli studi all’Università di Palermo. Sulla richiesta si è giunti a un sostanziale accordo fra i delegati di Enna e Palermo. I poli penitenziari universitari in Sicilia sono stati istituiti a partire dall’inizio del 2021 con un accordo quadro con firmatari il rettore di Palermo, Fabrizio Micari, insieme ai colleghi di Messina, Catania ed Enna, al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sicilia Prap., rappresentato da Cinzia Calandrino, al Garante regionale dei diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, all’assessorato regionale dell’istruzione e della formazione professionale. L’Università di Palermo ha assunto l’impegno di garantire agli studenti ricompresi nel progetto di sostegno agli studi l’esonero dal pagamento delle tasse e dei contributi, nonché la fornitura gratuita dei libri di testo, dei materiali didattici ed eventualmente delle attrezzature informatiche utili all’espletamento del percorso, attraverso risorse dedicate ai sensi dell’accordo quadro. “Ad oggi hanno completato l’iscrizione due detenuti e almeno altri otto hanno attivato la procedura di iscrizione o hanno manifestato interesse ad attivarla - sottolinea Micari - La previsione è di almeno dieci iscritti al nostro Ateneo entro la fine dell’anno. Si tratta di un traguardo prezioso per il primo anno di sperimentazione di questa iniziativa che abbiamo fortemente voluto nel segno di un’università inclusiva, principio cardine di questo mandato rettorale”. “L’esecutività dell’Accordo Quadro 2 ha visto coinvolto attivamente anche le strutture amministrative dell’università di Palermo nel progetto Poli UP-Unipa - spiega la delegata del rettore Paola Maggio - Una nota del Presidente dell’Ersu ha esentato, per l’anno accademico in corso, il pagamento della tassa regionale consentendo di superare le difficoltà materiali di iscrizione e l’accesso alla procedura informatizzata, vista la sostanziale indisponibilità di accesso per i soggetti ristretti alle piattaforme telematiche. L’assessorato regionale ha stanziato una somma di complessive 150.000 euro da ripartire fra i vari atenei in base a progetti presentati”. Catanzaro. Il clan, il carcere, la riabilitazione: oggi a Siano la laurea di Sergio Ferraro lanuovacalabria.it, 27 ottobre 2021 È da oltre 20 anni dietro le sbarre. “Dal clan al carcere. Percorsi estremi e paralleli”: è il titolo della tesi di laurea che Sergio Ferraro, quarantatré anni, già affiliato al clan dei Casalesi, discuterà oggi alle ore 15.00 nella sala teatro del carcere di Catanzaro. Ferraro, condannato sulla base di oltre centocinquanta capi di imputazione e detenuto ininterrottamente da ventuno anni, ha raccontato se stesso accendendo i riflettori sul proprio percorso di vita criminale e detentivo, con una consapevolezza facilitata dalla scrittura autobiografica. Relatore della tesi il professor Charlie Barnao, docente di Sociologia all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e delegato del Rettore per il “Polo universitario per studenti detenuti”. Barnao spiega il metodo dell’autoetnografia al centro di questo lavoro, partito dalla descrizione e dall’analisi dei processi di socializzazione primaria e secondaria: “Il metodo dell’autoetnografia - afferma il professore - rientra nell’ambito più generale dell’etnografia. Ma mentre con l’etnografia il ricercatore studia le ‘culture altre’ per comprendere i soggetti al centro della sua ricerca, con l’autoetnografia il ricercatore è nel contempo osservatore e osservato, l’autore e il focus della storia. Lavori autoetnografici come questo - sottolinea ancora Barnao - possono servire a valorizzare fondamentali aspetti della personalità che hanno permesso la sopravvivenza in condizioni di vita estrema; ciò può assumere anche una significativa valenza dal punto di vista educativo e rieducativo”. “In particolare - prosegue il docente dell’ateneo catanzarese - nella tesi di Ferraroemergono i principali aspetti della sua personalità che gli hanno permesso di sopravvivere in condizioni di vita estreme. Per quest’uomo, così come per Salvatore Curatolo (altro detenuto, studente in sociologia, che si è laureato nel mese di luglio scorso a Catanzaro), studiare in carcere e arrivare alla laurea in sociologia è stato uno strumento di emancipazione dalla cultura criminale, e di trasformazione personale verso mondi, culture, modi di pensare, prima sconosciuti. “La tesi di Ferraro - dichiara ancora Barnao - è frutto di un lungo e difficile processo introspettivo di cambiamento”. “Si è trattato di un lavoro - ha aggiunto il docente - che è stato possibile realizzare anche grazie alla grande disponibilità e collaborazione dell’Amministrazione penitenziaria di Catanzaro, diretta dalla dottoressa Angela Paravati, e dell’Università ‘Magna Graecia’ di Catanzaro con il suo Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia (Diges) diretto dal professor Geremia Romano. Il professor Romano, che è anche presidente del Senato accademico, presiederà la commissione di laurea”. Cosenza. Undici detenuti di alta sicurezza alla prova di scrittura creativa gazzettadelsud.it, 27 ottobre 2021 Laboratorio all’interno del carcere promosso dall’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente e sostenuto nell’ambito del bando di progettazione sociale “Idee in movimento” del Mlac. Undici detenuti di alta sicurezza con carta e penna. Sono i protagonisti di “Liberare le storie”, laboratorio di scrittura creativa in carcere promosso a Cosenza dall’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente e sostenuto nell’ambito del bando di progettazione sociale “Idee in movimento” del Mlac (Movimento Lavoratori di Azione Cattolica). Il progetto propone ai detenuti della casa circondariale di Cosenza un’azione di formazione non formale con l’obiettivo di arricchirli e migliorare le loro condizioni individuali, facilitando il superamento del senso di isolamento dovuto alla detenzione. Il laboratorio è curato dalla giornalista e scrittrice, Rosalba Baldino. Chieti. Volont’Art, in carcere a l’evento finale del progetto per studenti e detenuti chietitoday.it, 27 ottobre 2021 Facilitare i canali comunicativi, riannodare il filo dei rapporti sociali, acquisire fiducia negli altri: sono alcuni degli obiettivi del progetto di inclusione sociale finanziato dalla Regione Abruzzo. Nella casa circondariale di Chieti l’happening conclusivo legato al progetto Volont’art, finanziato dalla Regione Abruzzo e dal ministero delle Politiche sociali e realizzato in particolare con l’associazione Didattica teatrale. Questa mattina in Regione sono stati presentati i risultati del progetto che prevede circa 600 ore di laboratori di teatro, cinema e clownerie con le scolaresche del territorio e 60 ore di laboratorio teatrale con i detenuti della casa circondariale di Chieti, effettuate tutte in presenza e senza alcuna proroga, nonostante i lockdown e la chiusura delle scuole. “Si è trattato di un progetto di inclusione sociale di grande respiro - ha sottolineato l’assessore regionale alle Politiche sociali, Quaresimale - che la Regione Abruzzo ha voluto scegliere proprio per la particolarità del tema trattato e per il coinvolgimento del mondo scolastico e carcerario. Sono queste iniziative che rispondono a pieno alle strategie di inclusione e di coesione sociale che vuole portare avanti questo assessorato e in questo senso voglio sperare che il progetto abbia un suo seguito perché riesce a conciliare il linguaggio sociale di due mondi che sono contrapposti”. La risposta dell’Abruzzo è stata positiva. Oggi pomeriggio alle 16 nel carcere di Madonna del Freddo a Chieti l’evento conclusivo nel quale i detenuti, nella zona aperta del carcere solitamente destinata ai “passeggi”, lanceranno in aria dei palloncini con un messaggio scritto legato ad ognuno di essi, che esprime un desiderio ed un proposito di “reintegro” nella società, sulla base di valori in cambiamento e congruenti. Ci saranno musiche di sottofondo con gli operatori dell’associazione e i detenuti - attori disposti in un grande cerchio, dopo aver lanciato i palloncini, troveranno gli stessi messaggi che sono stati fatti volare dentro una cesta e li leggeranno ad alta voce. Cassino (Fr). Unicas, i progetti per i detenuti sulla Rai con Sarah Grieco ciociariaoggi.it, 27 ottobre 2021 L’Università di Cassino, ha spiegato l’avvocato Grieco, proprio durante la pandemia è entrata nelle carceri per capire cosa stesse accadendo. Si chiama Mama il “miniappartamento degli affetti” dove le madri detenute riceveranno i loro bambini che dai 4 anni non possono più restare in cella con loro. Proprio a ridosso dell’inaugurazione della struttura che Renzo Piano ha regalato alle ospiti di Rebibbia, l’avvocato Sarah Grieco, coordinatore scientifico e delegata rettore Cnupp, ha portato all’attenzione nazionale l’importante lavoro svolto dall’Unicas in tale direzione, ospite di “Parliamone” su Rainews24. “Un ordinamento penitenziario senza luoghi, tempi e spazi adeguati a garantire il mantenimento di relazioni affettive significative, oltre a produrre i suoi effetti nei confronti dei familiari, spesso “vittime dimenticate”, rischia di compromettere la salute psico-fisica dei detenuti” aveva di recente affermato Sarah Grieco: questo il punto di partenza del lavoro svolto dall’Unicas con il Garante del Lazio per i detenuti. L’Università di Cassino, ha spiegato l’avvocato Grieco, proprio durante la pandemia è entrata nelle carceri per capire cosa stesse accadendo: “Abbiamo sottoposto un questionario a oltre 200 detenute i risultati verranno presentati ufficialmente ed è emerso che proprio i detenuti durante la pandemia hanno fatto un passo indietro nella genitorialità. La casina è un grande esempio di come anche in Italia, dove i moduli di affettività sono pochissimi, sia possibile non rinunciare ad avere una famiglia se si è detenuti”. “L’incorreggibile”, non c’è fiction dietro le sbarre di Pietro Caccavo La Voce e il Tempo, 27 ottobre 2021 Un documentario per raccontare la vita di un detenuto che, dopo 50 anni trascorsi in carcere, sta per uscire. E dopo aver scontato la sua pena deve “reinventarsi” là fuori, riscoprire la libertà riconquistata. È lo spunto del film “L’incorreggibile”, di Manuel Coser, dal 15 ottobre in visione nei cinema italiani, distribuito da OpenDdb. Il lavoro, vincitore del Premio Solinas per la sceneggiatura, è prodotto da Roberto Cavallini per Altrove Films con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund. Chi è “L’incorreggibile” del titolo? È Alberto Maron, una vita passata, dal 1970, tra le mura delle carceri che sono ormai il suo unico orizzonte conosciuto. Ma l’imminente libertà lo spinge a misurarsi di nuovo con se stesso, i propri limiti e quelli della realtà esterna, dove non ha nulla e nessuno che lo attenda. Rapine ed evasioni sono il suo lontanissimo passato, seguiti poi dal carcere e, negli anni il suo graduale impegno a conquistarsi sempre maggiore autonomia, lavorando nella Biblioteca e nel Museo della Memoria Carceraria di Saluzzo, dove troverà il proprio posto come guida ai visitatori. E dove, nell’ambito di un laboratorio teatrale, ha conosciuto il regista Manuel Coser. “L’incorreggibile” è un lavoro in bianco e nero. Astrazione, voluta, ricercata; il taglio del fotogramma quadrato, la tavolozza dei bianchi, grigi e neri con gli squilli e le penombre “elettriche” a cui molto cinema girato in digitale ci ha ormai abituato. Le voci, prevalentemente due: quelle di Alberto, su cui la camera è spesso incollata “addosso”, e quella, fuori campo, del regista. Anelli, tessere di un puzzle che vanno a comporre, in ordine sparso, il ritratto di un uomo. Perché, dopo il Premio Solinas alla sceneggiatura di Coser - mentre il documentario era in lavorazione - è arrivata la notizia ufficiale del “fine pena” di Alberto Maron: un cambio in corsa nella realizzazione del lavoro. Un ulteriore spiazzamento del punto di vista su questa vita dietro/davanti le sbarre. Un tocco ulteriore a questi “frammenti”, a queste tessere che, invece di penalizzare il risultato finale, l’arricchiscono, sono il suo fascino ulteriore della sua “unità” comunque indiscutibile. Alberto, il suo fisico ancora scattante, il suo essere ancora “tutto d’un pezzo”, il suo sguardo ancora orgoglioso, racconta la sua “etica” di rapinatore, che non ha mai sparato per uccidere, che non ha mai tradito i complici… Stacco. Torna dal concerto sinfonico, ma è tardi e al cancello del carcere non gli aprono subito: si sente perso… Stacco. La camera vuota della sua nuova casa e ricoperta di documenti che raccontano la sua “carriera” passata. Stacco. Il regista, fuori campo gli chiede cosa farà, d’ora in poi, e Alberto sembra pensare ancora alle rapine che furono… per la prima volta, tra i due c’è un accenno di contrasto. Davanti ad una storia così non si può che essere partecipi, per le umane sofferenze di Alberto e, come alla presentazione al cinema Baretti di Torino a cui abbiamo assistito, siamo d’accordo con il regista Manuel Coser: chi è il vero “incorreggibile”, il detenuto che è stato (e non è più) o il sistema (cioè noi) che, tramite l’istituto carcerario, doveva aiutarlo a redimersi e forse ha fallito? La domanda resta sospesa nell’aria. Nell’attesa che il bel lavoro di Manuel Coser abbia più ampia distribuzione in sala, la sua prossima pubblica presentazione è prevista l’8 novembre alle 20.30, al cinema Magda Olivero, in via Palazzo di Città 15 a Saluzzo, la città dove Alberto ha trovato un lavoro. Dopo il periodo di chiusura causa pandemia tornano le mostre dei pittori torinesi al Chiostro dell’Annunziata in via Po 45 a Torino. Venerdì 22 ottobre dalle 13 alle 19 si inaugura l’esposizione personale dei due pittori paesaggisti, vincitori di numerosi premi ed estemporanee, Enrico Prelato e Gabriele Sandrone - le cui tele sono già state apprezzate in passate edizioni al Chiostro. Ecco gli orari di apertura al pubblico: sabato 23 e domenica 24 dalle 10.30 alle 19; lunedì 25, martedì 26 e mercoledì 27 dalle 13 alle 19, giovedì 28 dalle 13 alle 18. L’ingresso è gratuito ma c’è l’obbligo di mascherina e presentazione del Green Pass. Intelligenza artificiale, tre trappole da evitare di Gustavo Ghidini e Daniele Manca Corriere della Sera, 27 ottobre 2021 L’Unione Europea si appresta a varare regole che saranno efficaci in tutti gli Stati membri. Ma in Italia non se ne parla. Il mese scorso nel Regno Unito un autista nero di Uber si è visto disattivare il proprio account perché il software di scansione dei volti della società non è riuscito a riconoscerlo ripetutamente. La questione è finita in tribunale. Ma ci dovremmo chiedere in quante e quali occasioni ormai è l’intelligenza artificiale (AI) a prendere decisioni sulla nostra vita. Programmi di machine learning guidano procedure sanitarie e mediche. Molte banche usano software di AI per decidere il merito di credito, se prestare soldi o no a persone e aziende. Persino nei tribunali e negli uffici giudiziari per sentenze giuridiche utilizzano programmi che autoimparano. Il problema come sappiamo è che quei programmi risentono di tutti i pregiudizi di chi li ha scritti all’origine. Non è un caso che i consiglieri scientifici di Joe Biden stiano mettendo a punto una sorta di “Carta dei diritti” analoga a quella che accompagnò la Costituzione americana dei padri fondatori. La novità è che l’Europa, più pronta a regolare che investire nelle nuove tecnologie, ha già prodotto una nuova importante proposta in materia di intelligenza artificiale ora in discussione. Il primato dell’Unione sulle regole è stato già dimostrato in passato dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). La Commissione ha voluto iniziare a tracciare il confine tra lecito e illecito negli “usi” della AI. Appena le regole riceveranno il sì del Parlamento europeo saranno immediatamente efficaci in tutti gli Stati membri. È tempo che anche in Italia se ne cominci a discutere. Nella proposta della Commissione, il Regolamento distingue tre livelli di rischio determinato da possibili applicazioni (“usi”) della AI, i quali richiedono un intervento giuridico. Fuor di battuta, vien fatto di evocare la partizione della Divina Commedia, anche per la implicita ma chiarissima ispirazione etica che quella tripartizione guida. Il primo livello è quello del rischio “assoluto”, che rende la applicazione illecita e quindi vietata. In questo inferno stanno usi che violano sia la dignità sia la sicurezza e la salute fisica e psichica. E così vengono sostanzialmente proibiti, ad esempio, sistemi basati su AI che impieghino tecniche subliminali capaci di falsare inconsciamente il comportamento di una persona, provocando danni fisici o psicologici a quella o altra persona. E sono altresì, e ovviamente, vietate applicazioni come killer robot, nuove sostanze venefiche, impianti sottocutanei per influire sulla psiche umana, e simili “meraviglie”. Non sembrino esagerate queste preoccupazioni che animano il proposto Regolamento: tecnici e scienziati sono tipicamente “fissati”, come innamorati, nella ricerca del successo, e non hanno spesso la mente pre-occupata da problemi etici. Uno dei padri della bomba atomica, il fisico Hans Bethe, testimoniò nel 1954, negli Oppenheimer Hearings, che i problemi morali sorsero in loro dopo le stragi di Hiroshima e Nagasaki. E il professore Fritz Haber, premio Nobel per la chimica nel 1918, non si pose problemi etici, né mai rinnegò una sua celebre creatura: quel cosiddetto “gas mostarda” a base di cloro che sterminò migliaia di francesi sulle trincee di Ypres (donde il più noto e sinistro nome “iprite”). Ancora, verranno banditi sistemi adottati da autorità pubbliche per valutare e classificare, con un “punteggio sociale” (social scoring), la affidabilità delle persone sulla base del loro comportamento sociale in contesti sociali estranei a quelli in cui i dati sono stati originariamente generati o raccolti. E ciò qualora detti sistemi portino a trattamenti discriminatori di determinate persone o interi gruppi di persone non giustificati o sproporzionati rispetto al comportamento sociale “controllato”. Saranno altresì banditi sistemi di identificazione biometrica a distanza “in tempo reale” in spazi accessibili al pubblico da parte delle forze dell’ordine. A meno che tale uso sia strettamente necessario per prevenire una minaccia imminente alla vita o alla sicurezza fisica delle persone fisiche, o un attacco terroristico, ecc. In più alto loco, a riveder le stelle, stanno applicazioni foriere di un rischio alto ma “accettabile”, descritte nell’Allegato III della proposta. Accettabile nel senso che potranno essere messe sul mercato solo a seguito di una preventiva e rigorosa valutazione di conformità a stringenti requisiti, che coprono l’intero ciclo di vita dell’applicazione algoritmica, dalla progettazione alla realizzazione. In particolare, e principalmente, si dovrà creare e mantenere attivo un sistema di risk management; si dovrà assicurare la supervisione da parte di persone fisiche (human oversight) del funzionamento del sistema; si dovrà documentare il processo di sviluppo di un determinato sistema di AI e il funzionamento dello stesso; si dovranno infine osservare obblighi di trasparenza verso gli utenti sul funzionamento del sistema. In questa categoria rientrano anche ipotesi di rischio pur sempre sensibile ma ancora minore - un “cerchio” più vicino al paradiso. Le corrispondenti applicazioni saranno lecite purché solo il rischio sia dichiarato, e quindi (implicitamente) “gestibile” con accorti comportamenti umani. A questa categoria appartengono, ad esempio, applicazioni di AI nella chirurgia assistita da robot; sistemi di valutazione dell’affidabilità delle informazioni fornite da persone fisiche per prevenire, investigare o prevenire reati; sistemi per il trattamento e l’esame delle domande di asilo e visto; sistemi per assistere i giudici (qui torneremo fra breve). Ancora, nel caso di uso di chatbot o di assistenti vocali, l’utente dovrà essere informato che non sta interagendo con un essere umano, così come dovrà sapere se stia guardando un video generato con deepfake. Pienamente liberi saranno infine altri sistemi di AI sostanzialmente “innocui” rispetto alla sicurezza alle libertà dei cittadini. Essi potranno quindi essere sviluppati e utilizzati senza specifici, particolari obblighi giuridici (la Commissione tuttavia raccomanda l’adesione volontaria a codici di condotta per migliorare la trasparenza e l’informazione). Si tratta, ad esempio, di sistemi di manutenzione predittiva, i filtri anti-spam e contro le telefonate indesiderate, i videogiochi sviluppati sfruttando sistemi di AI. Secondo la Commissione, la stragrande maggioranza dei sistemi di AI attualmente utilizzati all’interno della Ue rientrerebbe in quest’ultima fascia. La strada è appena iniziata. Ma non intervenire rapidamente sarebbe già una scelta. Ddl Zan, è il giorno della verità in Senato di Andrea Carugati Il Manifesto, 27 ottobre 2021 Omofobia. Oggi la conta sulla “tagliola” della Lega. Renzi di sponda con Salvini ha tentato un altro rinvio. I giallorossi hanno fatto muro. Mattinata decisiva quella di oggi a palazzo Madama per capire le sorti del ddl Zan contro l’omotransfobia. Alla fine, nonostante il tentativo del centrodestra con il supporto dei renziani di rinviare il voto di un’altra settimana, oggi l’Aula voterà sulla richiesta di Lega e Fratelli d’Italia di non passare all’esame degli articoli. Tradotto significa che il Senato, se passasse la proposta, non si occuperebbe più per almeno sei mesi della legge. Che dunque morirebbe. La giornata di ieri si era aperta con l’appello del leader Pd Enrico Letta al centrodestra. “Se passasse la tagliola di Lega e Fdi sarebbe una pietra tombale sulla legge”, ha detto alla direzione dem. “Faccio un appello a tutte le forze politiche per evitare questo. Sarebbe uno schiaffo alla maggioranza della società italiana che vuole una risposta sui temi del ddl Zan, soprattutto i giovani”. La richiesta di Letta è caduta nel vuoto. Nel pomeriggio Zan ha incontrato solo i gruppi del centrosinistra più Italia Viva, gli altri (compresa Forza Italia che era stata possibilista) non hanno voluto sedersi al tavolo. I renziani hanno proposto di ripartire da una vecchia proposta di Ivan Scalfarotto del 2013, un modo per perdere tempo. Nel frattempo al tavolo convocato dal presidente leghista della commissione Giustizia del Senato Ostellari (cui non hanno partecipato sinistra e M5S) Lega e Pd si sono scontrati frontalmente: i leghisti hanno chiesto di rinviare tutto di una settimana, i dem hanno detto no. Lo steso copione si è ripetuto poco dopo alla conferenza dei capigruppo: qui anche Italia Viva si è unita formalmente al centrodestra nella richiesta di evitare il voto previsto per oggi. “Si rinvia e si lavora per trovare un accordo tra tutte le forze di maggioranza”, ha detto Teresa Bellanova, renzianissima viceministra alle Infrastrutture. PD, M5S e sinistra hanno fatto muro: basta con i rinvii. “In aula si capirà chi vuole questa legge e chi no”, spiega Monica Cirinnà. In realtà, se il voto dovesse essere segreto come chiesto dalla Lega (e la presidente Casellati pare orientata a concederlo), i responsabili dell’affossamento potrebbero restare irreperibili come i famosi 101 di Prodi. “Noi ci saremo tutti, anche chi era in missione è stato richiamato”, spiega ancora Cirinnà. Tra i dem sono ore difficili: si fa di calcolo col pallottoliere per capire se i numeri ci saranno, al netto dei possibili franchi tiratori. Si confida che, col voto segreto, non tutti i senatori di Italia Viva siano disponibili ad affossare la legge. E pure qualcuno di Forza Italia potrebbe votare per salvare il ddl Zan. Insomma, il voto segreto non viene considerato per forza un vantaggio per le destre. Preoccupa i dem invece il fatto che i renziani per la prima volta si siano schierati con la Lega nella richiesta di rinvio: il segnale che l’asse tra i due Mattei è più vivo che mai. “Il centrodestra non ha mai avuto nessuna intenzione di mediare o trovare un accordo altrimenti avrebbe rinunciato alla tagliola”, si sfoga la capogruppo Pd Simona Malpezzi. “Noi abbiamo dimostrato buona volontà e ci aspettavamo che le altre forze dimostrassero coerenza rispetto a quello che hanno ripetuto per mesi”. “Noi chiederemo il voto palese, perché è importante che tutti si assumano le proprie responsabilità”, conclude Malpezzi. Ieri del merito praticamente non si è parlato. Tutta la giornata è stata occupata da schermaglie procedurali. Il più sincero è stato Ignazio La Russa: “Noi siamo contrari al disegno di legge Zan, non capisco perché dovremmo ritirare la richiesta di non passaggio all’esame degli articoli che abbiamo presentato con Calderoli. Per noi, se il ddl viene bocciato è un aiuto che si fa alla cultura italiana”. Una opinione condivisa di fatto da tutta la Lega e da un ampio pezzo di Forza Italia. Non da Italia Viva, che si trova in difficoltà, desiderosa di dare un calcio ai dem ma preoccupata di schierarsi apertamente coli sovranisti sui diritti civili. Così prova a scaricare le colpe su altri. “È da irresponsabili andare subito in aula senza trovare prima un accordo”, tuona il capogruppo Davide Faraone. Gli risponde Loredana de Petris di Leu: “La tagliola è come una pistola sul tavolo. Nessuno si siede a un tavolo se l’altro ha ancora un’arma”. In tarda serata in casa Pd si respira un filo di ottimismo sul voto di oggi. Se la tagliola saltasse, spiegano, “a quel punto potremmo sederci al tavolo e trovare una mediazione”. Anche perché ci sono ben 700 emendamenti da affrontare in aula. Tra i dem viene ribadito che c’è una disponibilità a rivedere l’articolo che regola le campagne anti-omofobia nelle scuole. Ddl Zan, il vade retro dei senatori sull’identità di genere di Antonella Rampino Il Dubbio, 27 ottobre 2021 Adesso il punto critico della legge sull’omotransfobia è il riferimento alla varianza di genere, che le destre (e non solo) vogliono assolutamente eliminare. Come se la questione non esistesse ormai nella realtà, con scuole e università che ormai dal lontano 2003 accettano gli alias al posto dei nomi anagrafici, per rispettare l’individuo. E adesso che la legge Zan prova a riprendere il suo travagliato percorso parlamentare, si riaccende lo scontro politico perché le destre -ma non solo- chiedono di soprassedere sul concetto di genere, e di identità di genere. Gridano allo scandalo, come non avessero mai visto l’ellenistico Ermafrodito dormiente del Louvre, e neanche quello della Galleria Borghese a Roma o quello dell’Hermitage di Pietroburgo, o una delle mille e più di mille raffigurazioni delle varianze di genere esistenti sin dai tempi dei Sumeri. Sembrano temere il loro personale turbamento nel dover ragionare, discutere e normare (il che sarebbe come dire il lavoro loro) quel che esiste per l’appunto da tempo immemore: l’intersessualità. Che sin dal secolo scorso, almeno, non è più semplice cosa dì riconoscibilità a livello dei genitali, ma legata all’identità sessuale: a quel che l’individuo sceglie di essere, all’autodeterminazione. E sembrano dunque moralisti o inadeguati perché mentre discutono, molti arrabbattandosi a negare o peggio a sottovalutare l’identità di genere, si allontanano non solo dall’intero mondo occidentale (l’Italia è uno dei pochissimi Paesi a non avere il genere in nessuna sua legge), ma anche dalla italica società civile. “Non sconvolgiamo i bambini”, protestano infatti gli avversari dell’identità di genere in giurisprudenza quando da anni -e precisamente dal 2003- in regime di vacatio legis e grazie all’autonomia di cui gode l’istruzione, in nome della serenità dell’ambiente scolastico dalle elementari all’università è stato creato il principio dell’alias: ogni alunno o studente può comunicare all’istituto scolastico come intende farsi chiamare, e la scuola deve proteggere la segretezza dell’identità sessuale iscritta nei documenti di identificazione ufficiale. Accade dal 2003 - prime Torino, Bologna e la Federico II di Napoli, ultime La Sapienza di Roma, Ca’ Foscari a Venezia, e Palermo- in metà dei 68 atenei italiani. Ma tutto è cominciato sui banchi delle elementari, perché è spesso in età precoce che si manifesta l’intersessualità. Un fenomeno così vasto -anche a stare ai racconti che comunemente si ascoltano - che la Regione Lazio ha anche varato delle linee-guida per i presidi che volessero instaurare l’alias nella loro scuola. Pare poi, per stare al dibattito che ha avvolto la legge Zan che si propone di perseguire i reati d’odio a sfondo sessuale non certo di cristallizzare l’intersessualità, che gli onorevoli non abbiano mai acceso un televisore: la labilità del genere sessuale è stata sdoganata nell’immaginario collettivo anzitutto dalla centrale della cultura nazionalpopolare italiana. Dal Festival di Sanremo, buoni ultimi i Maneskine, ma indietro nel tempo anche Achille Lauro, Conchita Wurst, Madame… E tutto cominciò negli anni Ottanta, con l’irrompere della tendenza androgina alle sfilate di Milano e nella scelta delle modelle -che sono, evidentemente, modelli di vita. Oggi, la contaminazione di stili che propone una star della moda come Stefano Di Michele che disegna le linee Gucci è proprio anzitutto una commistione di generi sessuali. Lungo, lunghissimo sarebbe l’esempio nelle serie televisive di culto con personaggi intersessuali, ma su tutti Billions e il/la primo genderqueer televisivo: Asia Kate Dillon, nel ruolo del genietto della finanza Taylor Mason, è di identità non binaria anche nella vita reale. Ed è realmente difficile, osservandola, stabilire se è maschio o femmina: la plastica rappresentazione della varianza di genere che oggi è la genetica a definire, perché alla varianza di genere corrisponde una (vasta) varianza cromosomica. Insomma, anche in questo caso sembra che il Parlamento italiano, o quantomeno una porzione di esso, viva come in un castello feudale, col ponte levatoio alzato, molto più indietro e comunque incapace di comprendere la società che dovrebbe rappresentare. È già successo con il divorzio, l’aborto, la fecondazione eterologa. Su leggi non fatte, o malfatte, son poi dovuti intervenire i cittadini via referendum, o con ricorsi alla Corte costituzionale. Ma alcuni onorevoli sembrano fermi a decenni fa, a quando la forzista ex vedette televisiva Elisabetta Gardini andò alla toilette di Montecitorio e ne uscì urlando in lacrime “c’è un uomo nel bagno delle donne!”. Era Vladimir Luxuria, una delle signore più cortesi di tutto il Parlamento dell’epoca. Migranti, è emergenza, subito risposte straordinarie di Mussie Zerai* Il Manifesto, 27 ottobre 2021 Papa Francesco ha rilanciato l’appello dei profughi che protestano a Tripoli davanti alla sede Unhcr. Sia possibile per la Libia quello che si è fatto per il disastro afghano. È stato molto importante l’appello che Papa Francesco ha lanciato domenica 24 ottobre durante l’Angelus. Parole puntuali e precise che hanno toccato il dramma umanitario in corso in Libia in tutti i suoi aspetti. Il Papa ha fatto proprie le denunce che arrivano dai 3mila rifugiati che da oltre 20 giorni presidiano gli uffici Unhcr a Tripoli e da tutti gli altri che si trovano in detenzione. Rifugiati che gli hanno scritto una lettera e che lui ha invitato a partecipare all’incontro dei movimenti popolari. Ha dunque ribadito che il paese nordafricano non è un luogo sicuro, perché non esistono garanzie del rispetto dei diritti umani. Al contrario ci sono quotidianamente violenze, torture, stupri. Fino a quando tutto questo non terminerà non si devono stringere accordi con le autorità di Tripoli. Come hanno fatto invece l’Italia e l’Europa che in questo momento sono latitanti rispetto alle loro responsabilità. Il Papa ha anche parlato dei soccorsi in mare. Chi riporta indietro le persone in fuga dalla Libia non salva nessuno, ma compie dei respingimenti illegali. In quel tratto di mare serve un dispositivo di ricerca e soccorso istituzionale con un mandato chiaro, come fu Mare Nostrum. Servono poi canali legali di ingresso, attraverso accordi con i paesi di transito. Quelli che vengono fatti adesso sono soltanto per ostacolare i movimenti di persone. Al contrario con Sudan, Etiopia, Niger, Ciad, e tutti gli altri stati in cui sia possibile farlo, occorre stabilire intese che permettano partenze legali e sicure di migranti e rifugiati. Soltanto così si possono sconfiggere gli interessi economici dei trafficanti e impedire che migliaia di vite umane si perdano lungo le rotte migratorie di terra e di mare. Nel frattempo, però, in Libia c’è un’emergenza che come tale va affrontata. La situazione disastrosa si trascina da anni nell’indifferenza e anzi assai spesso con la complicità sostanziale delle politiche europee. Ma negli ultimi mesi ha registrato una ulteriore escalation di violenza, orrore, violazione sistematica dei diritti umani. Tra il primo e il 4 ottobre, partendo dal sobborgo di Gargaresh ed estendendo poi l’operazione a tutta Tripoli, le forze di polizia libiche hanno arrestato oltre 5 mila persone, donne e uomini, in quanto “immigrati clandestini”. Un’accusa che per lo Stato libico (che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati) non è una semplice violazione amministrativa ma un grave reato penale, che comporta mesi e anni di carcere, in condizioni di detenzione che definire invivibili è un eufemismo. Il Papa stesso ha chiamato quei luoghi di prigionia con il loro nome: “lager”. Di fronte a un’emergenza servono risposte straordinarie. Abbiamo visto quello che è accaduto in Afghanistan con il ponte aereo che in poche settimane ha condotto fuori dal paese decine di migliaia di persone in pericolo. Perché in Afghanistan sì e in Libia no? Anche in Libia non esistono le condizioni di sicurezza per migranti e rifugiati. Anche in Libia le donne subiscono violenze indicibili. Anche in Libia l’Occidente ha delle responsabilità enormi a cui deve fare fronte. Il primo ministro Mario Draghi ha detto che l’Europa non deve costruire muri, ma i muri non sono solo quelli che separano i confini terrestri. Un altro muro è stato costruito nel Mediterraneo centrale finanziando la cosiddetta “guardia costiera” libica che nel 2021 ha catturato, non salvato, oltre 27mila persone. Un numero record ben più alto di quelli fatti registrare ai tempi in cui ministri dell’Interno erano Marco Minniti (Pd) o Matteo Salvini (Lega). Le persone intercettate in mare finiscono puntualmente nell’orrore dei centri di detenzione. Tutto questo non si può più tollerare. Italia ed Europa devono accogliere il grido che arriva dalla potente e inedita lotta dei rifugiati di Tripoli: evacuazione immediata dalla Libia. *Sacerdote eritreo fondatore dell’agenzia Habeshia, impegnato nell’assistere i migranti nel Mediterraneo Cannabis, abbiamo un referendum, finalmente di Marco Perduca e Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 27 ottobre 2021 Domani 28 saranno consegnate alla Corte di Cassazione oltre 630.000 firme per un referendum che depenalizza le coltivazioni proibite dal Testo Unico sulle droghe del 1990, cancella le sanzioni penali detentive per le condotte direttamente legate alla cannabis ed elimina la sospensione della patente per chi usa droghe, mantenendo quanto previsto per la guida in stato alterato. Quando dopo ferragosto abbiamo iniziato a ragionare sul quesito con Fabio Valcanover, Sofia Ciuffoletti, Franco Corleone, Giulia Crivellini, Antonella Soldo, Grazia Zuffa, Mariapia Scarciglia, Riccardo Magi, Letizia Valentina Lo Giudice e Nicolò Scibelli abbiamo deciso di circoscrivere il più possibile il quesito alla cannabis. Occorreva “sdoganare” la pianta proibita. La richiesta di incidere sulla legge proibizionista di trenta anni fa si aggiunge a quella sull’eutanasia, già depositata in Cassazione. Il successo è stato possibile grazie all’investimento dell’Associazione Luca Coscioni. È storico per almeno tre motivi: le firme sono state raccolte in una settimana grazie alla firma digitale, in un momento di apatia civica ha mobilitato giovanissimi (la metà tra 18 e 25 anni, al 70% maschi) e rappresenta una strada di riforma significativa della 309/90 dal 1993. Dal referendum radicale che 28 anni fa depenalizzò il possesso e l’uso personale di tutte le sostanze, il Testo Unico sulle droghe ha subito aggravamenti di pene, equiparazioni tra “leggere” e “pesanti”, depotenziamenti dei servizio socio-sanitari e di accoglienza per ridurre rischi e danni connessi all’uso problematico delle sostanze psicoattive illecite, complicando la vita a milioni di persone. Si sono distribuiti soldi agli amici e lanciate inutili campagne di prevenzione per trovarci oggi con circa otto milioni di consumatori abituali - di cui sei di cannabis -, il 35% di detenuti per reati connessi alle droghe (la media europea è del 18%), circa 1.300.000 persone segnalate ai prefetti, Tribunali intasati da quasi 250.000 fascicoli e forze dell’ordine impiegate a rincorrere chi fuma e a controllare balconi alla ricerca di qualche piantina coltivata per affrancarsi dalle narcomafie. Senza l’intervento della Corte Costituzionale, che nel 2014 ha cancellato la legge “Fini-Giovanardi”, l’Italia avrebbe una legge ancora peggiore di quella che rimane una delle leggi più proibizioniste in Europa. Chi legge il manifesto sa come e quando quest’ondata di firme è nata e arrivata, sa che sono almeno 30 anni che c’è chi non demorde nel denunciare la violenza del proibizionismo e si adopera per presentare alternative. Chi legge il manifesto però forse non sa, ma non per colpa di questo giornale, quale siano le intenzioni che hanno portato il Governo Draghi a convocare la Conferenza Nazionale sulle Droghe a Genova. Dopo 12 anni di assenza, il 27 e 28 novembre si terrà l’evento istituzionale che la Ministra Dadone ha intitolato “Oltre le fragilità”. Il sito del Dipartimento per le politiche antidroga informa che “l’incontro si tiene per offrire al Parlamento tutti gli strumenti e le informazioni necessarie per cambiare la legislazione antidroga e adottare il nuovo piano d’azione sulle dipendenze”. A questa citazione della 309/90 manca una parte fondamentale del perché una Conferenza nazionale sia necessaria: raccogliere valutazioni e avanzare proposte “dettate dall’esperienza applicativa”. Da nessuna parte si accenna alla devastante e criminogena cornice penale che circonda il fenomeno degli stupefacenti. Questo approccio astratto non farà emergere probabilmente proposte per “cambiare la legislazione” sulle droghe. Un motivo in più per ringraziare le oltre 630.000 persone che, firmando il referendum, hanno elaborato un testo di riforma della 309/90 di impatto non solo simbolico e che nella prossima primavera costituirà un banco di prova per tutti: partiti, cittadini e media. Gran Bretagna. Oggi a processo il “nemico pubblico numero uno” di Vincenzo Vita Il Manifesto, 27 ottobre 2021 Julian Assange. Il via al processo. Gli Stati Uniti non demordono, ancorché la stessa giudice inglese avesse tenuto in conto le perizie mediche piuttosto pessimiste sullo stato di salute del nuovo Dreyfus. Oggi, a Londra, prende il via il processo di appello presso l’High Court di Londra nei confronti del giornalista fondatore di WikiLeaks Julian Assange. Gli Stati Uniti non demordono, ancorché la stessa giudice inglese avesse tenuto in conto le perizie mediche piuttosto pessimiste sullo stato di salute del nuovo Dreyfus. Assange, infatti, sembra la vittima designata di un sistema di potere che attraversa stati e servizi segreti del vecchio occidente imperialista, quello delle guerre atroci in Iraq e in Afghanistan. Conflitti particolarmente orribili, condotti con armamentari sofisticati, cinica voluttà di distruzione senza pietà neppure per i civili. Torture e ammazzamenti, conversazioni tra capi di governo coinvolti direttamente o alleati dovevano rimanere nell’oscurità. Il prezioso e tenacissimo lavoro di documentazione della prestigiosa testata online, del resto condotto in collaborazione con famose testate internazionali ora timide e omissive, ha svelato la verità. L’informazione embedded ha nascosto gli accadimenti reali e l’opinione pubblica - senza altre fonti- si sarebbe accontentata della vulgate dominante. I grandi colpevoli sono andati in giro per il mondo a tenere conferenze ben remunerate e l’eroe civile che ha strappato i veli omertosi rischia - se gli Usa riusciranno ad ottenere l’estradizione- una pena di 175 anni di carcere. Di tutto questo si è parlato in una iniziativa tenutasi qualche giorno fa nella Church House nel cuore di Westminster dove si riuniva il parlamento durante la seconda guerra mondiale. Il confronto (una sorta di contro processo) ha messo sotto accusa gli stati interessati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia, Australia, Ecuador dell’attuale presidente) e le rispettive strutture investigative, a partire dalla National Security Agency (NSA). Coordinati dal filosofo croato Srecko Horvat, sono intervenuti Tarik Ali (presente al primo tribunale Russel), Jeremy Corbyn, Ejal Weizman di Forensic Architecture. Parlamentari e giornalisti. Inoltre, hanno portato le loro testimonianze Yanis Varoufakis, Deepa Govin, Darajan Driveer, Daniel Ellsberg (Pentagon Papers), la compagna di Assange Stella Morris che ha raccontato i piani della Central Intelligence Agency (CIA) per assassinare il marito, Edward Snowdon con un intervento dall’esilio cui è costretto, nonché Stefania Maurizi autrice del recente volume Il potere segreto fondamentale per ricostruire l’intera vicenda. E ieri, presso la camera dei deputati, si è svolta una conferenza stampa promossa dal parlamentare Pino Cabras in collaborazione con Italiani per Assange, DiEM25, Pacelink e US Citizens for Peace and Justice. L’iniziativa aveva l’obiettivo di risollevare una questione dimenticata o scarsamente trattata dalle forze politiche italiane. Con l’eccezione della federazione della stampa, di Roberto Saviano, de Il Fatto e de il manifesto o della efficacissima recente puntata del programma della terza rete televisiva Presa diretta, lo stesso universo mediatico ha rimosso un tema considerato contraddittorio rispetto alla geopolitica prevalente. Proprio il conduttore della bella trasmissione del servizio pubblico ha coordinato la discussione, arricchita da preziosi collegamenti: da Noam Chomsky a Rebecca Vincent, direttrice di Reporters Without Borders UK, a Paul Jay, a Deepa Driver, ad Antonio Ingroia,a Davide Dormino, a Stefania Maurizi, a Varoufakis. Amnesty International, con la sua acquisita autorevolezza, ha lanciato un urlo secco: no all’estradizione, scarcerazione subito. Così ha dichiarato la segretaria generale dell’associazione umanitaria Agnés Callamard, con toni e accenti condivisibili. Se non vi è un ripensamento da parte egli accusatori, con il riconoscimento dell’applicazione del primo emendamento della Costituzione statunitense che tutela con nettezza la libertà di informazione e il diritto di cronaca, si condanna un innocente e si introduce un precedente giurisprudenziale gravissimo. Per questo, oltre che per la solidarietà verso una persona che versa in preoccupanti condizioni di salute, è decisivo fermare la barbarie del procedimento. Dove, tra l’altro, diversi giornalisti non sanno ancora se potranno entrare nell’aula per sentire e vedere. Il governo italiano non può e non deve rimanere inerte. Si terrà il celebrato G20 a Roma nel prossimo fine settimana. Che il caso Assange trovi cittadinanza almeno in una delle varie ed eventuali della riunione. Qualcosa comincia a muoversi, ancora troppo timidamente, e il tempo è poco. Birmania, processo a San Suu Kyi: ecco cosa le contestano i giudici militari di Raimondo Bultrini La Repubblica, 27 ottobre 2021 La accusano di 11 reati. In caso di colpevolezza piena potrebbe essere condannata a un centinaio di anni di carcere. L’ex leader birmana oggi ha parlato per la prima volta al processo in corso contro di lei nella capitale Naypyidaw. Aung San Suu Kyi rischia diversi anni di carcere. Dal suo rovesciamento da parte dei militari il 1° febbraio, la Nobel per la Pace non ha mai affrontato direttamente i suoi accusatori. Agli arresti domiciliari, in totale isolamento, l’ex leader ha potuto comunicare con il mondo esterno solo attraverso i suoi avvocati a cui è stato vietato di parlare con i giornalisti del processo. Dalla violazione delle restrizioni alle importazioni (importando illegalmente dei walkie-talkie), della legge sulle telecomunicazioni e delle misure sul coronavirus durante la campagna elettorale alla sedizione, al pagamento illecito di 600mila dollari e più di 11 chilogrammi d’oro, e infine è accusata di aver violato una legge sui segreti di Stato risalente all’epoca coloniale e di aver costruito una casa su un terreno di proprietà della Daw Khin Kyi Foundation, l’ente benefico da lei fondato in nome di sua madre. Se fosse condannata per tutto con il massimo della pena rischierebbe cento anni di carcere. Fonda nel 1988 la Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), contraria alla dittatura militare al potere, dopo anni passati all’estero. Due anni dopo, il suo partito vince le elezioni annullate dall’esercito che la pone agli arresti domiciliari. Ci resterà per vent’anni, diventando un’icona mondiale della democrazia. Viene liberata nel 2010. Nel 2012, nonostante le elezioni truccate, diventa membro del Parlamento e tre anni dopo porta la Lega alla vittoria in un voto ritenuto più libero. A causa di una clausola costituzionale che impedisce l’ascesa al potere di un leader sposato o con figli con uno straniero, non può diventare Presidente. Viene nominata ministro degli Esteri e Consigliere speciale di Stato. Il ruolo dell’esercito è però ancora importante. Aung San Suu Kyi valuta una riforma costituzionale e il cambio dei vertici militari in vista delle elezioni di novembre 2020 che vince con la conquista dell’82% dei seggi. La giunta militare la destituisce il 1° febbraio 2021 e reprime ferocemente le manifestazioni di sostegno a suo favore, mettendo fine a una parentesi di appena 9 anni dei quali 5 di governo Lnd. Detenuta in una prigione di Naypydaw insieme al presidente Win Myint, rimane segregata agli arresti nella capitale con le accuse di corruzione, con la prima accusa di aver manipolato le elezioni seguita da altri 10 diversi reati. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, più di 200mila civili sono stati sfollati in seguito alla repressione del dissenso. L’ong birmana, Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici, ha contato più di 1.100 civili uccisi e la detenzione di altri settemila. Un esperto di diritti umani delle Nazioni Unite parla di “crimini contro l’umanità” e le Nazioni Unite sono preoccupate della guerra civile in corso, con i gruppi di Difesa popolare ispirati a lei ma a differenza del passato armati e in azione in molte città e province con decine di morti tra i militari. Nonostante le sanzioni di Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito, la giunta annulla i risultati delle elezioni legislative del 2020 vinte dalla Lega, promettendo lo svolgimento di “elezioni multipartitiche e democratiche entro agosto 2023”. L’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) ha nominato un inviato speciale come intermediario, il viceministro degli Esteri del Brunei Erywan Yusof. Il leader della giunta birmana è stato espulso dal prossimo vertice dell’Asean, in programma dal 26 al 28 ottobre. In segno di buona volontà, il 18 ottobre sono stati liberati più di 5mila prigionieri. Venerdì scorso il relatore speciale dell’Onu sulla situazione birmana ha allerato sulle possibili conseguenze degli spostamenti, da parte del regime, “di decine di migliaia di soldati e armi pesanti” nel Nord del Paese. Intanto lungo i confini con la Cina, principale partner commerciale del Myanmar anche sotto il governo di Suu Kyi, Pechino è accusata di condurre una guerra per procura usando gruppi etnici di origine cinese in accordo coi generali. Golpe in Sudan, perché si è arrivati a questo punto: tutto quello che c’è da sapere di Antonella Napoli La Repubblica, 27 ottobre 2021 Il colpo di stato militare di lunedì in Sudan minaccia di distruggere la fragile transizione del Paese verso la democrazia oltre due anni dopo che una rivolta popolare ha portato alla destituzione dell’autocrate di lunga data Omar al-Bashir. Il golpe arriva dopo mesi di crescenti tensioni tra le autorità militari e civili. I manifestanti sono scesi in piazza per denunciare il colpo di mano e i soldati hanno aperto il fuoco, uccidendo alcuni dei manifestanti e spianando la strada a ulteriori disordini nel Paese di 40 milioni. Ecco come il Sudan è arrivato a questo punto. Che cosa sta accadendo in Sudan? All’alba del 25 ottobre si è compiuto, dopo una notte di arresti, il colpo di Stato da parte dei militari che hanno decretato lo scioglimento del governo guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok e del Consiglio sovrano, l’organo politico e decisionale della transizione composto da generali ed esponenti della società civile. Perché il golpe non è stata una sorpresa? Le tensioni nel Paese erano crescenti. Nel 2020 il premier aveva subito un attentato, da cui era uscito incolume. Un mese fa, un tentativo di golpe di presunti “lealisti” dell’ex presidente Omar Hassan al Bashir, era stato sventato dall’esercito. Il fronte delle “Forze della libertà e del cambiamento”, coalizione dei promotori delle rivolte che avevano portato alla caduta di Bashir, si era spaccato. Il generale Abdel Fattah al Burhan, presidente del Consiglio Sovrano, aveva dichiarato che così il governo non poteva andare avanti e aveva chiesto le dimissioni di Hamdok, il quale si era rifiutato di lasciare l’incarico. Che cosa c’è dietro a queste tensioni? Ufficialmente i leader militari del Consiglio sovrano affermano che le riforme in Sudan procedevano troppo a rilento e che l’impasse della controparte civile spaccata impediva di proseguire la transizione, pertanto hanno chiesto la sostituzione del governo. Ma, a fronte dell’approssimarsi del cambio di guida del processo di transizione il 16 novembre, che secondo l’accordo costituzionale del 2019, confermato nel 2020 con un’intesa a Juba, doveva avvenire a metà dei 39 mesi previsti del percorso di democratizzazione in Sudan, il golpe appare più una presa di potere per non cederlo ai civili. Ci sono pulsioni islamiste dietro a questo colpo di stato? Secondo il primo ministro Abdallah Hamdok lo sventato golpe di settembre era animato da esponenti del precedente governo, dichiaratamente “Repubblica islamica”, rimasti fedeli a Bashir, molti dei quali annidati nelle forze armate, nei servizi di sicurezza e in altre istituzioni governative. Nelle ultime settimane sono scesi in piazza centinaia di manifestanti pro-esercito portati appositamente nella capitale Khartoum dalle realtà rurali dove perdura una visione islamista. Che cosa chiedono i manifestanti? I manifestanti filo-militari accusano il governo di non essere riuscito a risollevare le sorti del Sudan. Le mosse di Hamdok per riformare l’economia che hanno portato ad aggravare le condizioni economiche della popolazione, a causa della riduzione dei sussidi per il carburante e l’aumento del prezzo di beni e generi alimentari primari come il pane, sono state impopolari e una larga fascia di popolazione ne ha pesantemente risentito. La fragilità del Sudan è dovuta alla frammentazione politica? In Sudan ci sono almeno 80 partiti politici, la Sudan professional association (anima e guida della società civile promotrice delle rivolte del 2019) è composta da 17 importanti sindacati. Oggi, come negli anni precedenti la frammentazione delle organizzazioni e dei partiti politici limita la capacità di creare consenso, elemento che ha più volte spianato la strada all’intervento dei militari che prendono il potere attraverso colpi di stato con il pretesto di ristabilire l’ordine. Che cosa sta succedendo adesso? Il capo del Consiglio sovrano Burhan dopo aver annunciato lo sciogliendo sia del governo che del consiglio ha dichiarato lo stato di emergenza e in un discorso pubblico alla tv di stato ha garantito a breve la formazione di un nuovo esecutivo ed elezioni nel luglio 2023. Basteranno queste rassicurazioni a sedare le proteste contro il golpe? No, “Le forze del cambiamento e delle libertà” che hanno una grande capacità di mobilitazione civile ha già annunciato presidi permanenti fino al ristabilimento delle condizioni dell’accordo costituzionale sottoscritto con i militari che oggi lo hanno di fatto rinnegato. Ogni volta che i militari hanno oltrepassato il limite costituzionale, la piazza si è mobilitata e continuerà a farlo. Dov’è l’ex dittatore Bashir? Ha avuto un ruolo in questo golpe? Il presidente Omar Hassan Al Bashir è in carcere e sotto processo a Khartoum in varie inchieste, sia per il colpo di Stato del 1989 che lo aveva portato al potere, che per atti di corruzione. Nelle ultime uscite pubbliche in tribunale è apparso debole e ammalato, ma questo non implica che la sua influenza diminuita. Il governo guidato da Hamdok aveva autorizzato la sua estradizione alla Corte penale internazionale, questa mossa non è stata gradita da alcuni componenti del Consiglio sovrano. Non è da escludere che questo elemento abbia pesato nella scelta dei militari di intervenire con un colpo di stato.