Vitto e sopravvitto irregolari in carcere: arriva l’interrogazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2021 Arriva in Parlamento l’interrogazione sulla questione della colazione, pranzo e cena con un costo di euro 2,39 mentre contemporaneamente il sopravvitto (i cui costi sono a carico dei detenuti) è appannaggio della stessa ditta che fornisce il vitto con qualità e quantità scarse. La Corte dei Conti, come riportato da Il Dubbio, ha bloccato il contratto siglato a giugno che prevedeva condizioni a dir poco allarmanti per la somministrazione del vitto a Rebibbia. La Corte dei Conti dà ragione alla garante di Roma - A settembre scorso, la Corte dei Conti della sezione di controllo del Lazio, ha assunto una importante pronuncia: con le delibere 101-104/2021, relatore Ottavio Cale - dando ragione, fra gli altri, al Garante per i diritti dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che aveva lamentato le speculazioni sul cibo dei reclusi -, ha negato il visto e la registrazione di alcuni decreti del Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Si tratta dei 4 decreti di approvazione di altrettanti contratti di fornitura del vitto, nel triennio 2021-2023, rispettivamente negli istituti penitenziari di Rebibbia a Roma per quasi 4,5 mln di euro, di Civitavecchia e Viterbo per 2,2 mln, di Campobasso, Isernia, Larino, Avezzano, L’Aquila, Sulmona per 2,5 milioni, e di Frosinone, Cassino e Latina per 1,7 milioni. Per la Corte dei Conti c’è “evidente detrimento del principio di qualità delle prestazioni” La senatrice Margherita Corrado, della commissione Antimafia, ha elencato i nomi delle imprese aggiudicatarie degli appalti. Nell’ordine, per i primi due contratti la Ditta Domanico Ventura srl, con sede a Napoli, di proprietà dei fratelli Achille e Umberto Ventura, che nella città partenopea gestiscono anche il Circolo Canottieri, per il terzo la Rag. Pietro Guarnieri-figli srl, di Putignano (Ba), per il quarto la Sirio srl di Cercola (Na). Le offerte, in base alla lex specialis di gara, contestata essa stessa dalla Corte, sono riferite solo al servizio principale e obbligatorio di vitto, mentre l’attivazione del sopravvitto è opzionale e può essere gestito internamente o esternalizzato. Quanto ai prezzi, benché nel 2020 la base d’asta sia stata incrementata da 3,90 a 5,70 euro, e la media nazionale si aggiri intorno a 3,92 euro, la Ditta Domanico Ventura srl ha offerto un ribasso del 58%: 2,39 euro giornalieri pro capite, la Rag. Pietro Guarnieri-figli S.r.l. è andata oltre, con un ribasso del 60,52%, offrendo dunque 2,25 euro, mentre la Sirio si è accontentata del 47%, con 3,00 euro. “Di qui - osserva la Corte - l’apparente insostenibilità economica del servizio di vitto ove svincolato dai ricavi del sopravvitto e l’evidente detrimento del principio di qualità delle prestazioni”. Presentata un’interrogazione dopo il nostro articolo del 21 settembre - I membri del gruppo misto composto dai senatori Margherita Corrado, Luisa Angrisani, Laura Granato ed Elio Lannutti, hanno presentato l’ interrogazione parlamentare esordendo con le motivazioni della pronuncia della Corte dei Conti, evidenziando che ha risvegliato parte della stampa, “tanto che un articolo su Il Dubbio del 21 settembre 2021, “Corte dei Conti: vitto e sopravvitto a Rebibbia irregolare e diritti lesi” - si legge nell’interrogazione - precisa che da tempo i detenuti di Rebibbia hanno denunciato l’insufficienza del vitto e i costi esorbitanti del sopravvitto. Denunce raccolte dalla garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che segue questa vicenda sin da quando ha assunto la suddetta funzione”. Quello che chiedono è “di sapere di quali informazioni siano in possesso i Ministri in indirizzo sulla questione e quali iniziative intendano assumere per garantire ai detenuti negli istituti di pena i basilari principi umanitari desumibili dagli articoli 27 e 32 della Costituzione, nonché il rispetto di quanto disciplinato dalla legge 26 luglio 1975, n. 354”. Poche risorse, tanta incertezza: rafforziamo Garanti comunali di Stefano Anastasia* Il Riformista, 26 ottobre 2021 Essenziali per i detenuti e per chi lavora in carcere. Ha suscitato un comprensibile sconcerto il post con cui Paola Perinetto, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Ivrea, ha paragonato il Presidente del Consiglio Mario Draghi a Cesare Battisti, condannato in esecuzione penale per reati gravi contro la persona. Anzi, a onor del vero, il paragone serviva alla collega addirittura per additare nel Presidente del Consiglio - tra i due - il vero criminale. Parole evidentemente offensive nei confronti del Presidente del Consiglio, della persona e della carica, che trascendono la libertà di manifestazione del pensiero e che chi riveste un incarico istituzionale non può e non deve pronunciare. Il tutto nasce dalle convinte posizioni no-vax e no-green pass di Perinetto, che recentemente aveva sospeso i suoi ingressi in carcere in ragione del proprio rifiuto di produrre il green pass (ma, assicura il Garante regionale Bruno Mellano, con l’impegno a continuare a distanza i contatti con i detenuti del carcere eporediese). Il Garante nazionale, venuto a sapere della cosa (del post su Facebook, non delle legittime quanto discutibili posizioni di Perinetto, che erano note e risolte come si è detto), ha sollecitato il Sindaco alla rimozione dalla carica della Garante che - evidentemente, con il suo comportamento - aveva contravvenuto alla prescrizione secondo cui “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.). Il Sindaco, dal canto suo, ha messo all’ordine del giorno del primo Consiglio comunale utile la revoca dell’incarico a Paola Perinetto. Il caso potrebbe chiudersi qui, peraltro con una rara prova di concordia e di efficienza istituzionale che, grazie al regolamento comunale istitutivo del Garante, ne consente la revoca per “gravi inosservanze dei doveri discendenti dal proprio ufficio”. Ma l’incidente, della cui gravità non si discute, è diventata l’occasione per nuove prese di posizione sui garanti comunali delle persone private della libertà e il loro incerto statuto normativo. Prese di posizione che già in passato hanno causato la esclusione della facoltà di colloquio dei garanti comunali con i detenuti sottoposti in regime di 41-bis e che, di fatto, hanno contribuito a impedire la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, che rappresenta tutti i garanti nominati dalle Regioni, dalle Province, dalle Aree metropolitane e dai Comuni, e le articolazioni del Ministero della giustizia che si occupano di esecuzione penale detentiva, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Dipartimento dell’Esecuzione penale esterna e della giustizia minorile. Dietro queste prese di posizione ci sono, come spesso accade, buone e cattive intenzioni: le buone intenzioni di chi ritiene che i garanti comunali vadano rafforzati nel loro status, nella loro autonomia e nelle loro funzioni, e quelle cattive di chi non gradisce l’attività dei garantì delle persone private della libertà, a partire proprio dai garanti comunali, così prossimi, così presenti e, forse, in qualche caso, così fastidiosi a una gestione burocratica e chiusa degli istituti penitenziari, fatta e coperta al riparo delle mura di cinta. Alle cattive intenzioni si può rispondere non solo formalmente, richiamando l’articolo 27 della Costituzione e le sue prescrizioni, ma anche raccontando le innumerevoli occasioni - frequenti anche durante la pandemia e i suoi momenti più duri - in cui i garanti, e quelli comunali innanzitutto, sono stati essenziali al buon funzionamento degli istituti penitenziari, non solo nell’interesse dei detenuti e delle detenute, ma anche in quello del personale che si sacrifica oltre il dovuto per fare bene il proprio mestiere. Le buone intenzioni, invece, meritano di essere condivise e specificate, se non altro per distinguerle dalla pelosa solidarietà delle cattive. Nonostante una prestigiosa storia (sono stati garanti comunali personalità come Luigi Manconi e Gianfranco Spadaccia, lo sono attualmente l’ex-presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna Franco Maisto e l’ex-sottosegretario alla giustizia Franco Corleone), effettivamente i garanti comunali vivono di un incerto statuto normativo e soprattutto di uno status inadeguato alle funzioni che esercitano. Requisiti e modalità di nomina, durata e strumenti per l’esercizio delle proprie funzioni sono non solo molto diversi tra loro, ma spesso anche inadeguati. Non è il caso di Ivrea, dove il Garante è nominato dal Consiglio comunale, a seguito di un bando pubblico, “fra persone di indiscusso prestigio e di comprovata esperienza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di responsabilità e di rilievo nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli istituiti di prevenzione e pena e negli uffici di esecuzione penale esterna, o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale” (art. 2 del regolamento, approvato con delibera n. 88/2012 dal Consiglio comunale). Il mandato è quinquennale e indipendente da quello del Consiglio che lo elegge. Non sempre è così, ma il caso di Ivrea dimostra che i requisiti di indipendenza e di professionalità richiesti dal Garante nazionale a margine della sua censura del comportamento di Paola Perinetto non solo possono essere disciplinati dalla normativa locale, ma in qualche caso effettivamente lo sono. Del resto la stessa revoca dimostra che il sistema ha i suoi anticorpi, anche nei casi più gravi. Se proprio si vuole trovare una mancanza nel regolamento comunale con cui è stata istituita la figura del garante a Ivrea, bisognerà piuttosto guardare alle risorse umane, finanziarie e strumentali con cui esercita le sue funzioni (una sede, un generico supporto e 300 euro l’anno di rimborso spese). Come Conferenza dei Garanti territoriali, su iniziativa di un gruppo di Garanti comunali coordinato dalla collega di Torino, Monica Gallo, abbiamo promosso un’indagine sugli atti istitutivi e le prassi dei Garanti comunali e abbiamo avanzato all’Anci delle proposte per qualificarne e rafforzarne lo status. Così, forse, un grave incidente può essere rovesciato in un’ottima occasione per rafforzare il sistema di garanzie delle persone private della libertà a partire da quel terminale sensibile costituito dalla rete dei Garanti comunali. *Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Portavoce della Conferenza dei Garantì territoriali delle persone private della libertà Dopo l’Opg e oltre le Rems: un sistema giudiziario e di cura di comunità di Pietro Pellegrini* sossanita.org, 26 ottobre 2021 È possibile un sistema di cura e giudiziario di comunità? Sì è possibile. Lo è sul piano teorico se con comunità intendiamo tutte le persone che si trovano su un territorio. In questa accezione nessuna persona o luogo, compresi il carcere, i centri per migranti, le Case residenze anziani, le Rems sono “extracomunitari”. Non lo sono in relazione alla loro esistenza nel reale, ma anche per la loro rilevanza nei vissuti, nell’immaginario, nel mondo interno delle persone e nelle rappresentazioni delle famiglie e dei gruppi sociali. La comunità reale, immaginaria, vissuta, ideale ha una rilevanza fondamentale per la salute (che è un diritto ma anche un bene comune, individuale e relazionale al contempo) e il benessere sociale così le istituzioni o le modalità con cui si rappresenta la follia, la devianza, il male, la morte. Ciascuno e tutti insieme abbiamo un’idea su cosa sia la violazione ed abbiamo interiorizzato prima ancora di ogni legge come si regola la relazione con l’altro. Ogni gruppo ha le sue dinamiche e culture molto potenti. Anche il tentativo di rendere extracomunitari determinate persone, eventi (la morte, il dolore) e luoghi non solo si scontra con la realtà della loro (ineliminabile) presenza ma finisce anche con il potenziare la contraddizione, i vissuti di insicurezza, di preoccupazione e persecutori. Un discorso che va ripreso e richiede ascolto e dialogo per ridare senso, connettere e ricucire tessuti lesi. Non vado oltre. Si può fare nella pratica: gli Opg sono stati chiusi tramite il sistema di welfare di comunità in particolare tramite i Dsm non le Rems. Si stima perché non vi sono dati ufficiali e in fondo non pare di grande interesse per nessuno averne, che vi siano circa 6.000 persone con disturbi mentali e provvedimenti giudiziari seguiti sul territorio dai Dipartimenti di Salute Mentale. Il 70% di questi pazienti è ospite di Residenze occupando circa il 15% dei posti disponibili e comportando una spesa annua intorno ai 300milioni di euro. Il sistema di salute mentale di comunità, sostanzialmente senza alcun incremento di risorse, si è fatto carico del problema. Tra l’altro positivamente sia in termini di salute che di sicurezza, visto il limitato tasso (inferiore al 5%) di recidiva nei reati. Poi vi sono le Rems che nel complesso assicurano circa 652 posti con un buon turnover ma con una tendenza all’allungamento della degenza per un effetto accumulo dei pazienti con reati gravi e durata delle misure prolungato (5-10 anni) che ovviamente non devono essere trascorsi in Rems ma su questo occorre una maturazione delle pratiche. Il tema lista di attesa, la cui entità è difficile da quantificare non avendo alcun sistema nazionale attendibile. Dopo l’intervento della ministra della Giustizia Cartabia alla Conferenza nazionale sulla Salute Mentale anche risalire al numero esatto dei detenuti “sine titulo” non è stato semplice. Dopo lunghe verifiche al 5 luglio erano 64 ridotti a 21 al 15 ottobre con la prospettiva di arrivare a zero entro fine anno. Nel frattempo se ne sono aggiunti altri 18. Siamo di fronte a piccoli numeri, ampiamente affrontabili ed anche la lista di attesa complessiva di circa 700 persone secondo i dati del garante nazionale, è risolvibile con una cooperazione interistituzionale che faccia passi avanti nelle prassi e superi analisi nelle quali la sanità sempre inadempiente. Certamente vi sono forti differenze a livello regionale e ciò non dipende solo dalla psichiatria ma anche dalle prassi di magistratura, avvocatura, periti e dalla qualità dei contesti. Nessuno deve restare detenuto “sine titulo” e soprattutto in attesa di un programma di cura adeguato, conseguente ad un’accurata valutazione condivisa con periti e magistrati. Se il nuovo modello nel complesso funziona, non c’è da meravigliarsi che sia oggetto di attenzione. Va detto con chiarezza che il sistema delle Rems deve restare sanitario ed è del tutto fuori luogo ogni tentativo di riportarlo nell’ottica giudiziaria, di comandarlo e disporne facendolo gestire ad una sanità sottomessa. Una deriva di questo tipo aprirebbe, almeno per me, un’obiezione etica e tecnica perché, una Rems staccata dal territorio e magari forzata nel numero chiuso, diventerebbe con buona pace delle migliori intenzioni, inevitabilmente un nuovo pericoloso miniOPG. Abbiamo dimostrato che è possibile fare senza l’OP e l’OPG e questo come ogni legge che riguarda la psichiatria riguarda la salute mentale di tutti, il patto sociale. Nello specifico dei reati, l’applicazione della legge 81/2014 interroga sul senso della misura giudiziaria, pena o misura di sicurezza, non solo per i malati di mente ma per tutti. È su questo che occorrerebbe riflettere e anziché tentare di riportare le Rems sotto il controllo dell’Amministrazione penitenziaria, si dovrebbe lavorare per cambiare l’esecuzione penale, vedere come si possono potenziare le misure alternative alla detenzione in carcere. È essenziale un forte spostamento di risorse dagli Istituti di Pena all’esecuzione penale esterna e darsi l’obiettivo ambizioso ma realistico di dimezzare il numero delle persone detenute, tornando ai livelli degli anni 70. È del tutto inaccettabile la richiesta della giustizia di poter utilizzare alle sue condizioni le strutture del DSM, a partire dagli SPDC. Ancora molto alto è l’utilizzo delle misure di sicurezza detentive provvisorie con funzioni cautelari che andrebbero totalmente abolite. In fase esecutiva, nonostante siano giuridicamente diverse, vi è una forte è la sovrapposizione tra misura di sicurezza detentiva e detenzione, con l’aggravante che le prime non possono usufruire di quella flessibilità prevista ad esempio dalla legge 67/2014 (detenzione domiciliare, messa alla prova o i lavori socialmente utili). La misura di sicurezza detentiva è rigida da effettuarsi solo in REMS: un’eredità dell’OPG che va abolita. Va poi ricordato che la libertà vigilata non vede termini prefissati e può essere prorogata sine die come se la persona con disturbi mentali autrice di reati non potesse più essere un libero cittadino. Nonostante la legge 180 vi sono ancora forti discriminazioni a danno del malato mentale e credo che non possiamo solo stare sulla difensiva ma rilanciare. A breve chiuderemo la Rems di Casale di Mezzani. Permettetemi di ringraziare vivamente tutti i pazienti, gli operatori e le operatrici (un’equipe in larga parte femminile) e complimentarmi con tutti loro tramite la Dr.ssa Giuseppina Paulillo, che ha dimostrato come sia possibile una gestione in grado di coniugare mandato di cura e sicurezza relazionale. Un insegnamento per tutti. Se da un lato dispiace pensiamo sia una grande occasione per dimostrare come le Rems siano state funzionali a chiudere l’OPG e che ora si tratti di andare molto più avanti e sviluppare un altro sistema. Infatti, se vi sono richieste ci sono custodiali in parte ciò dipende da come sono stati chiusi gli OPG. La maggior parte dei pazienti anche con misure giudiziarie è nel territorio ma l’attenzione è sulle Rems. Queste ultime pur nelle differenze regionali, hanno in larga parte ereditato dagli OPG modelli operativi molto custodiali, porte chiuse, telecamere, vigilanti armati. Tutto oltre a quanto previsto dai requisiti del DM 1 ottobre 2012 del Ministero della Salute. In altre parole si è sviluppato un modello fortemente diverso dalle Comunità Terapeutiche e dalle Residenze. La psichiatria ha fatto proprio un mandato custodiale e gli elementi limitativi della libertà sono molto importanti e rassicuranti per la giustizia. L’equilibrio raggiunto, nonostante punte avanzate, rimane dal mio punto di vista ancora insoddisfacente e bisogna andare oltre le Rems. Non basta difendere territorialità, numero chiuso, assenza di contenzioni e un approccio fondato sulla recovery. È venuto il momento per dire che non vi devono più essere strutture psichiatriche dedicate all’esecuzione penale in sé, la persona potrà avere anche una misura giudiziaria, ma non un luogo di cura gestito da sanitari, dove necessariamente deve restare, anche a prescindere dai suoi bisogni di salute. Ammissioni e dimissioni devono essere decise dallo psichiatra e non da giudici (o altre autorità). Era così nei manicomi civili, ai sensi della legge 36 /1904, poi abrogata dalla legge 180. Deve avvenire anche per il post REMS. Le strutture per la salute mentale (e tutte le sedi sanitarie) devono essere assolutamente prive di armi. Su questo occorre una campagna di prevenzione e sensibilizzazione prima che vi sia un grave incidente. Andare in questa direzione significa aumentare le competenze forensi dei Dsm. Con adeguate risorse di personale ed economiche vanno poi sviluppati programmi territoriali, progetti sostenuti da Budget di Salute in grado di agire in termini abilitativi negli assi dell’abitare, formazione lavoro, interessi e attività sociali che sono essenziali per il recupero della persona e la fruizione dei diritti di cittadinanza. Questo rende effettivo un punto negletto della legge 81/2014 e cioè che, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza detentiva, non rileva il punto 4 comma 2 dell’art. 133 c.p. le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Ne dovrebbe conseguire un impegno fattivo dell’intero sistema di welfare per assicurare i diritti (lavoro, reddito, casa) rimuovendo le condizioni favorenti la commissione dei reati. Il nuovo sistema richiede un lavoro nelle comunità locali (Sindaci ecc.) per ricreare microcomunità sicure e solidali attraverso microzone, portinerie, uso di nuove tecnologie, una corretta informazione dell’opinione pubblica. Tutto ciò è indispensabile per favorire le pratiche di giustizia riparativa. Quindi un modello innovato, di comunità può prevedere ambiti dedicati, anche sperimentali per affrontare con maggiore efficacia ed adeguate tecniche la psicopatia, sex offender, autori di femminicidi rispetto ai quali va assolutamente sviluppata la prevenzione. Questo vale anche per i disturbi da uso di sostanze ed andrebbe profondamente rivista la legge 309/1990 in modo da evitare la detenzione (il 32% dei detenuti in Italia ha problemi di sostanze, contro una media del 18% in Europa) e al contempo vanno implementati modelli incentrati sulla riduzione del danno e la recovery e non sulla costrizione e la privazione della libertà (inadatto ad affrontare disturbi con andamento cronico recidivante). Nonostante le preoccupazioni credo che non si possa tornare indietro, non accadrà, troppo alto il patrimonio di esperienze, di collaborazioni interistituzionali, numerose le buone pratiche che si sono sviluppate in questi anni. È importante la ricostituzione dell’Osservatorio Nazionale, e sarebbe molto utile la convocazione di una Consensus conference nazionale che individui, condivida, avvalori e diffonda le buone pratiche. Questo può portare alla crescita di tutti (magistrati, psichiatri, periti, avvocati, uepe, garanti, sindaci e prefetti). Sono da innovare gli strumenti della magistratura che ancora utilizza quelli in vigore in OPG (licenze ad horas, licenze finali esperimento) quando invece dovrebbe stabilire un suo patto con la persona dove stabilire impegni e limiti. La psichiatria deve basarsi su consenso, partecipazione e responsabilità, per una programmazione condivisa delle cure nella libertà secondo le migliori conoscenze scientifiche. La persona è parte della comunità che ha un preciso ruolo nella creazione del benessere. Per questo il ruolo dei garanti nazionale, regionale e di Parma che ci hanno fatto ripetutamente visita alla Rems e che ringrazio vivamente, dovrebbe essere esteso alle persone con libertà vigilata o in esecuzione penale esterna. La tutela dei loro diritti è fondamentale è per questo bisogna riconoscere la piena imputabilità della persona con disturbi mentali superando per sempre il doppio binario. *Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma La paura di irritare il potere giudiziario di Iuri Maria Prado Il Riformista, 26 ottobre 2021 Seguire i lavori parlamentari sulla riforma della giustizia significa guardare in faccia il micidiale pregiudizio che fa di quell’amministrazione un caso incomparabile: e cioè che non si tratti di un servizio pubblico, con addetti che vi si dedicano nell’interesse comune, ma di un ordinamento di potere retto da un mandarinato irresponsabile che spaccia l’interesse proprio per quello di tutti. C’è quella realtà persistente sotto la superficie dei proclami che annunciano la svolta epocale rappresentata dalla riforma di cui si discute in questi giorni: l’ossificata convinzione che l’inefficienza della giustizia si debba curare con la manipolazione in senso riduttivo dei diritti di chi vi accede o la subisce, senza che sia neppure vagamente ipotizzato che quel mal funzionamento possa dipendere anche (e figurarsi soprattutto) da difetti riguardanti in proprio i poteri e i comportamenti dei funzionari di giustizia. Che sia esplicita nelle requisitorie di certi magistrati televisivi, o invece implicita nell’opinione diffusa, l’idea resta che il cittadino deve smetterla di dar fastidio ai giudici con tutti quei ricorsi, con tutti quegli appelli, con tutti quegli avvocati che inondano di scartoffie i tribunali. E che, se c’è un modo per restituire efficienza al sistema, è quello: intervenire sui diritti di chi chiede e aspetta giustizia anziché sui doveri di chi è chiamato a renderla. Ci si faccia caso: quando mai capita che nel dibattito pubblico si ponga a causa di questo o quel problema dell’amministrazione della giustizia una mancanza, una negligenza, una inettitudine del sistema corporato che governa quell’amministrazione? Non capita mai. E sempre, piuttosto, si rinvia alle responsabilità altrui, a cominciare da quella dei cittadini che hanno la pretesa di impugnare il provvedimento che li incarcera o il malvezzo di credere che la tutela dei propri diritti di proprietà, di lavoro, di famiglia non costituisca un’ipotesi rimessa al capriccio del togato in giornata buona, ma un dovere dello Stato. La dice lunga il fatto che i due pilastri su cui si reggono i propositi di riforma della giustizia civile (è quella che meno va in prima pagina, ma è quella che più frequentemente coinvolge l’interesse concreto dei cittadini) siano costituiti dall’appalto del lavoro a una fungaia di organismi di mediazione e dal giro di vite sui termini processuali delle parti, col giudice lasciato libero di fare - o non fare - esattamente come prima. Quei due punti forti della riforma denunciano la debolezza di un legislatore che delega al governo di intervenire nel solco magari ben intenzionato, ma aberrante, di una giustizia che pretende di rimettersi in carreggiata mettendo in riga chi vi è soggetto piuttosto che le strutture che la amministrano, opportunamente supportate dall’esercito di magistrati distratto dal lavoro ordinario e accampato nei ministeri per la tutela degli interessi di categoria. C’è molto contributo del potere giudiziario, e molta cautela nell’irritarlo, in questa riforma. Cartabia, i numeri la smentiscono di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2021 Vero che ci sono troppe leggi e troppi processi, ma siamo sotto la media Ue per custodia cautelare e sovraffollamento carcerario. E a dirlo sono i dati del Dap, che dipende dal ministero della Giustizia. Intervenendo a Padova a un convegno, il ministro della Giustizia Marta Cartabia avrebbe dichiarato: “Ci sono troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere e troppo carcere”; nonché: “è auspicabile una fase parlamentare in cui prima di fare un intervento si vada a vedere che effetto ciò può produrre sull’intero ordinamento sul carcere o sul suo sovraffollamento e sulla possibilità stessa di dare applicazione effettiva della legge”. Aggiungendo infine: “Il potere di punire, tanto terribile quanto necessario, ha assunto dimensioni esorbitanti e non solo in Italia: un ‘panpenalismo’ fatto di abuso e invasività del diritto penale per cui creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia”. (fonte Corriere della Sera del 24 ottobre 2021 pag. 18). Secondo un’altra fonte (Il Giornale della stessa data, pag. 4) il ministro avrebbe anche dichiarato: “Ci sono ancora molti problemi, come l’uso della custodia cautelare in carcere già oggetto di una riflessione attenta nell’ultimo Consiglio dei ministri d’Europa. Quante detenzioni in carcere - spiega il Guardasigilli - ci sono per pene brevi in cui di fatto le persone vengono esposte a una criminalità per cui si rischia di ottenere effetti contrari a quello della rieducazione?”. Nelle frasi riportate ci sono affermazioni certamente vere, altre che non lo sono e alcune incomprensibili. È certamente vero che in Italia “sono troppe leggi, troppe norme, troppi processi”. Non è vero invece che ci sia un sovraffollamento carcerario e non è dato comprendere cosa significa “troppe indagini lasciate cadere”, visto che si sostiene che ci sono troppe assoluzioni, deducendone un non meditato esercizio dell’azione penale. Cominciamo dalle troppe leggi: la situazione è risaputa, tanto che l’ex ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, aveva proposto e ottenuto l’abrogazione di numerose leggi dando a ciò molta pubblicità e dando simbolicamente fuoco a 375.000 leggi abrogate in 22 mesi di legislatura (salvo poi ripristinarne alcune perché, nella fretta, erano state abrogate, ad esempio, leggi che istituivano una città, che così cessava di esistere). Il rimedio però è molto semplice: fare meno leggi. È altresì vero che ci sono troppi processi in Italia. In un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano del 1° settembre 2021, ricordavo che ogni anno nel nostro Paese vengono avviati circa 2.700.000 processi, ma anche che quasi tutto ciò che si poteva depenalizzare lo è già stato, mentre quello che si può ancora fare non ha rilievo statistico apprezzabile. Non è vero invece che ci sia sovraffollamento nelle carceri. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (consultabili da chiunque in Internet) al 30 settembre 2021 in Italia vi erano 53.930 detenuti in carcere a fronte di 50.857 posti dichiarati. Però lo stesso sito del Dap: ricorda che quei posti sono calcolati sulla base di una superficie per detenuti così calcolata: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri quadrati per ogni occupante ulteriore (cioè la superficie per l’abitabilità delle case di civile abitazione), mentre la media europea è di 4 metri quadrati a detenuto. Dal sito del Consiglio d’Europa risulta: “Al 31 gennaio 2020, c’erano 1.528.343 detenuti in 51 amministrazioni penitenziarie… degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il che corrisponde a un tasso di incarcerazione europeo di 103,2 detenuti per 100.000 di abitanti. Nelle 50 giurisdizioni penitenziarie per le quali sono disponibili dati per il 2019 e il 2020, questo tasso è diminuito da 106,1 a 104,3 detenuti per 100.000 abitanti (-1,7%). Dal 2013, quando ha raggiunto il massimo storico di 131 detenuti per 100.000 abitanti, il tasso di incarcerazione è diminuito ogni anno; la diminuzione complessiva è del 20% tra il 2013 e il 2020. I reati legati alla droga hanno continuato a essere il motivo principale di incarcerazione nelle 42 amministrazioni penitenziarie che hanno fornito questi dati (quasi 260.000 detenuti stanno scontando condanne per reati di droga, che rappresentano il 17,7% della popolazione carceraria totale). Gli altri reati più comuni sono il furto (199.000 detenuti, il 13%) e l’omicidio o tentato omicidio (169.000 detenuti, il 12%). Quattro detenuti su 10 stanno scontando pene per reati violenti (omicidio, aggressione e percosse, stupro e altri reati sessuali, rapina)”. In Italia il valore registrato è stato di 101,2 detenuti ogni 100.000 abitanti (fonte: sito “Osservatorio pena e opinione pubblica”) e quindi più bassa della media europea, dovendosi peraltro tenere conto che dei 53.930 detenuti in Italia 17.209 (cioè quasi un terzo) sono stranieri, di cui molti senza fissa dimora e quindi difficilmente destinabili a misure alternative. Ora, poiché il Dap dipende dal ministro della Giustizia (e si deve escludere che menta al ministro) sarebbe interessante sapere chi racconta al ministro che in Italia vi è sovraffollamento in carcere. Certo si può auspicare una diminuzione della popolazione detenuta, sempre che vi sia una diminuzione dei delitti commessi, non potendosi pensare a depenalizzare omicidi e lesioni, furti e rapine e altre simili condotte. In un mondo in cui si circola molto più che in passato il tasso di repressione concreto esistente in uno Stato non può essere troppo diverso da quello applicato in altri Stati: se è più alto si esporta criminalità, se è più basso si importa criminalità. Quanto alla custodia cautelare in carcere i detenuti in tale regime al 30 settembre 2021 (fonte Dap) sono 16.536 (di cui 8.272 in attesa del giudizio di primo grado, 3.885 in attesa del giudizio di appello, 2.942 in attesa del giudizio di cassazione e 937 che misti, cioè con più titoli di detenzione non definitivi). La percentuale europea di detenuti in custodia cautelare è del 22%, quella italiana è del 30% circa, ma all’estero sono considerati in custodia cautelare solo i detenuti in attesa della sentenza di primo grado e se usiamo questo dato la percentuale in Italia scende al 15%. Forse è opportuno che il ministro della Giustizia verifichi fonti e numeri. Riforma del reato di abuso d’ufficio: anche il M5S dice basta alla “paura della firma” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 ottobre 2021 La proposta del leghista Ostellari è più drastica, ma un’intesa allargata a tutta la maggioranza è possibile. Ieri le richieste di audizione dei partiti. Torna centrale il tema dell’abuso d’ufficio: la partenza dell’iter abbinato di tre disegni di legge - firmati da Andrea Ostellari (Lega), Vincenzo Santangelo (M5S) e Dario Parrini (Pd) - nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato, destinati a limitare di fatto i confini delle responsabilità amministrative e penali sul reato d’abuso d’ufficio, ha suscitato diverse reazioni, in primis quella dei sindaci. “Non cerchiamo alcuna impunità ha detto all’Adnkronos Antonio Decaro, presidente Anci e primo cittadino di Bari - all’opposto vogliamo che il ruolo dell’amministratore locale torni a essere una missione attraente per tante persone oneste e competenti che oggi purtroppo la temono. Non è un interesse nostro ma della collettività, come dimostra la apprezzabile trasversalità politica delle proposte in discussione in Parlamento”. Questa è una battaglia, ha proseguito Decaro, “che l’Anci conduce da tempo, e saremo sicuramente felici quando il Parlamento approverà una legge più giusta sul tema delle responsabilità penali e su altri che riguardano la dignità della figura del sindaco e dell’amministratore locale. È in discussione - ha concluso il presidente Anci - la praticabilità stessa delle nostre funzioni: fare il sindaco ormai è diventato un mestiere pericoloso anche nei suoi atti quotidiani più banali, per la quantità abnorme di rischi giudiziari penali e civili che si corrono”. Favorevole a una riforma anche Mario Sanino, presidente dell’Unaa (Unione avvocati amministrativisti) per il quale l’iter parlamentare è “molto importante” oltre che per le conseguenze sul fronte penale anche per i vantaggi sul lato amministrativo, “in particolare legati alla responsabilità erariale”, cioè al possibile danno sofferto dallo Stato o da un altro ente pubblico a causa dell’azione o dell’omissione di un soggetto che agisce per conto della pubblica amministrazione. Si spinge oltre l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, auspicando la soppressione stessa del reato: “Noi siamo per una eliminazione delle ipotesi di abuso d’ufficio, che per noi è già sanzionato quando è parte di reati più gravi. Le condotte giustamente punibili sono già implicite e comprese in quelle di corruzione, concussione, peculato, malversazione, per cui non c’è alcun bisogno di prevedere una norma residuale. L’abuso di ufficio e l’assurdo reato di traffico di influenze illecite sono norme indeterminate che hanno l’unico risultato di sottoporre il potere politico e amministrativo all’indebito controllo preventivo dell’autorità giudiziaria penale”. Intanto ieri pomeriggio è scaduto alle 18 il termine per la segnalazione da parte dei gruppi dei nominativi dei soggetti da audire. Fonti parlamentari ci riferiscono che ad essere sentiti saranno, tra gli altri, Carlo Nordio, Alfonso Celotto, Sabino Cassese, alcuno sindaci tra cui Appendino e Decaro. Al termine delle audizioni si provvederà a convergere su un testo base. I tre ddl sono stati presentati tutti tra marzo e luglio di quest’anno. Quello del dem Parrini “interviene sul regime della responsabilità penale, amministrativa e contabile dei sindaci” : si verifica il reato quando la violazione si intende riferita a specifiche regole di condotta espressamente attribuite al sindaco; inoltre la responsabilità per omissione non si applica ai sindaci “per eventi che si siano verificati nel territorio comunale, salvo il caso in cui sia provato il dolo o la colpa grave”. Proprio il senatore dem ci dice: “Credo che la direzione trasversale sul tema dell’abuso d’ufficio intrapresa dalle commissioni troverà l’appoggio del governo. Esiste infatti uno schema di legge delega che impegna l’esecutivo alla revisione del Tuoel (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, ndr) che va nella nostra stessa direzione. Condivido quanto detto dal presidente Sanino in merito alla responsabilità erariale: la mia proposta è l’unica tra le tre a modificare la normativa vigente e a prevedere un danno erariale imputabile al sindaco solo se c’è dolo”. Il testo del leghista Ostellari, invece, punta a eliminare il vaglio del giudice penale sui provvedimenti amministrativi, passando il controllo dell’attività dal Tar al Consiglio di Stato. Il presidio penale si riserva soltanto a manifestazioni di tipo comportamentale oggettivamente riscontrabili, quali appunto lo svolgimento di funzioni pubbliche in situazioni di conflitto d’interesse che imporrebbero l’obbligo di astensione. Infine la proposta del cinque stelle Santangelo intende modificare l’articolo 54 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali aggiungendo un comma 1bis per cui “il sindaco, quale ufficiale del Governo, nell’esercizio delle funzioni di cui al comma 1, risponde esclusivamente per dolo o colpa grave per violazione dei doveri d’ufficio”. Il senatore Santangelo così commenta al Dubbio: “Anche se il ddl del collega Ostellari andrebbe a incidere in maniera più ampia sul reato di abuso di ufficio, tuttavia credo si possa trovare una convergenza per il testo base, soprattutto tra il nostro testo e quello del Partito democratico. Una modifica del genere la richiede il momento storico che stiamo vivendo, penso ad esempio a quanto successo alla sindaca di Crema ma anche all’ex sindaco Appendino. È chiaro che quando amministri una città, ti rendi conto in prima persona di come sia difficile portare avanti il lavoro. Quindi ritengo che le nostre siano modifiche di buon senso che possono consentire di poter amministrare al meglio”. Da Vendola alla sindaca di Crema, la scia dei politici fulminati dall’abuso d’ufficio di Errico Novi Il Dubbio, 26 ottobre 2021 Siamo a ridosso delle Europee 2019. Matteo Salvini propone di limitare l’abuso d’ufficio. L’alleato Luigi Di Maio gli replica con un post Facebook terribile: “È un reato in cui cade spesso chi amministra, è vero, ma se un sindaco agisce onestamente non ha nulla da temere. Più lavoro meno stronzate”. Arriviamo al 20 ottobre 2021. Al Senato, nella congiunta Affari costituzionali-Giustizia, Andrea Ostellari annuncia l’incardinamento di una proposta che quasi abolirebbe la fattispecie incubo dei sindaci. Al testo leghista sono abbinati uno del Pd, firmato da Andrea Parrini, e un altro, udite udite, del Movimento 5 Stelle, ad opera del parlamentare siciliano Vincenzo Santangelo. Cosa è successo, tra lo “stop bullshit” di Luigi Di Maio e la svolta di Palazzo Madama? Che tante altre piccole gocce hanno fatto traboccare un vaso già al limite. L’abuso d’ufficio continua a spaventare gli amministratori locali, i sindaci innanzitutto, nonostante la sforbiciata inflitta alla norma dal decreto Semplificazioni del 2020, quando a Palazzo Chigi c’era ancora Giuseppe Conte. Nel frattempo, tra le tante assoluzioni tardive maturate anche grazie alla modifica, una ha riguardato per esempio Mario Puddu, sindaco cinquestelle di un comune sardo, Assemini. Era accusato per aver conferito nel 2015 un incarico dirigenziale. La Procura di Cagliari si muove innescata da tre consigliere comunali fuoriuscite dal Movimento, e inevitabilmente agguerritissime. Puddu, come altri, esce indenne dal travaglio processuale a troppi anni di distanza dal fatto, e solo in Corte d’appello: la sentenza liberatoria arriva lo scorso 25 marzo. Una vicenda che ha segnato in modo pesante la politica pentastellata dell’Isola: il sindaco di Assemini era candidato governatore in pectore del Movimento. L’indagine fulminò persino la benedizione di Beppe Grillo.La storia dell’abuso d’ufficio e delle ferite lasciate sulla politica è lunga. Come i tentativi di modifica che la norma ha conosciuto dopo il 1930, quando fu prevista per la prima volta nel Codice Rocco. Si provò a cambiarla nel 1990, nel 1997, poi nel 2012, con inasprimenti, all’interno della legge Severino. Fino all’estate dell’anno scorso e del Conte 2. Che però non ha scongiurato vicende incredibili, come l’indagine sulla sindaca di Crema Stefania Bonaldi, accusata nel giugno scorso di abuso d’ufficio perché tre mesi prima un bambino si era chiuso due dita in una porta tagliafuoco dell’asilo comunale. Ecco, il caso Bonaldi è forse un primo innesco della “rivolta” che ora sembra animare Palazzo Madama. Pochi giorni dopo la notizia diffusa dalla prima cittadina lombarda, un migliaio di sindaci manifestarono davanti a Palazzo Chigi per chiedere di intervenire ancora sul reato-incubo. A venerdì scorso risale l’appello di Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale Anci, che chiede di liberare gli amministratori locali dalla morsa delle Procure. Forse il colpo di reni si spiega anche con il mutato rapporto fra politica e magistratura, che trent’anni dopo Mani pulite è destinato a incidere anche sulla imminente riforma del Csm. A breve conosceremo la decisione della Consulta relativa a una nuova questione di legittimità sollevata da alcuni Tribunali sulla sospensione prevista per i politici locali in virtù di condanne non definitive: mercoledì scorso si è riunita la Camera di consiglio dei giudici costituzionali, in perfetta coincidenza con la seduta al Senato che ha avviato l’iter della nuova legge. La paura della firma è trasversale da tutti i punti di vista. Le condanne per abuso d’ufficio hanno colpito protagonisti assoluti della scena politica e amministratori di piccoli centri. Nel febbraio 2016 il presidente della Campania Enzo De Luca ottenne in Corte d’appello l’assoluzione dalle accuse di abuso d’ufficio nel processo per la realizzazione di un termovalorizzatore a Salerno. La Procura generale aveva chiesto 11 anni di carcere. Altri governatori sono usciti più o meno faticosamente indenni da processi simili: il pugliese Nichi Vendola se la cavò con un proscioglimento del gip in abbreviato, ottobre 2012, ma l’ex presidente del Molise Michele Iorio venne assolto nel 2018 solo in Cassazione. Si potrebbero cogliere tanti altri esempi, fra le migliaia di inchieste per abuso d’ufficio che ogni anno finiscono al macero tra proscioglimenti, archiviazioni e prescrizioni: secondo dati Istat del 2018, la montagna di oltre 7.000 indagini partorì solo quell’anno il topolino di sole 57 condanne. In un altro piccolo comune, stavolta siciliano, Rosolini, il 12 ottobre sorso la ex presidente dell’Assemblea cittadina Maria Concetta Iemmolo è stata assolta dalle accuse nate da una presunta forzatura su un ordine del giorno del 2013. Otto anni dopo. Magari non avrebbe avuto la carriera di De Luca o di Vendola. Ma ha dovuto comunque penare per veder riconosciuta la propria innocenza. E nemmeno per la sanatoria nel frattempo assicurata dal Dl Semplificazioni. “Il fatto non sussiste”, ha sancito il Tribunale di Siracusa. Si può fare l’amministratore pubblico con una prospettiva del genere? Le cause sono troppo lunghe? Allora puniamo i cittadini di Iuri Maria Prado Libero, 26 ottobre 2021 Visto che ci sono magistrati (non pochi) che lavorano molto e bene, ma la giustizia funziona poco e male, la prima cura quale dovrebbe essere? Uno direbbe: semplice, far sì che anche gli altri lavorino di più e meglio. Invece sembra che all’inefficienza costituzionale della giustizia sia impossibile porre rimedio ottenendo, innanzitutto, che in quell’amministrazione cominci a essere vigente anziché episodico un costume di ordinario buon servizio. Perché di questo, dopotutto, dovrebbe trattarsi, di un servizio: possibilmente buono, considerato che i cittadini lo pagano. Quel che invece si insinua, anche con la riforma di cui si sta discutendo in questi giorni, è che se i processi sono troppi e troppo lunghi occorre intervenire non già su quelli che amministrano il servizio, bensì su quelli che ne fruiscono: i cittadini, appunto, sotto sotto trattati come questuanti disturbatori che con le loro rogne affaticano le giornate del funzionariato in toga. E dunque che cosa si fa se ci sono troppi processi? Li vietiamo, obbligando la gente a risolvere le controversie davanti al mediatore, cioè un sotto-burocrate che si interpone tra il diritto del cittadino di avere giustizia e l’incapacità dello Stato di assicurarla. Oppure: processi troppo lunghi? Bene: mettiamo termini strettissimi, giusto? Giusto se non fosse che ancora una volta li mettiamo tutti a carico di chi tenta di far valere un diritto, cioè il cittadino rompiscatole e il suo complice, cioè l’avvocato, e non a carico di chi quel diritto dovrebbe tutelare: vale a dire il magistrato con il cronometro in mano quando si tratta di misurare i tempi degli altri e invece soggetto a un fuso orario tutto suo quando si discute di studiare e decidere la causa. Ma se la cifra generale della riforma, purtroppo, rischia di essere questa, è perché a ispirarla è ancora tutta intera l’idea che la giustizia non sia un servizio da assicurare ma una corsa a ostacoli arbitrata da un funzionario che se inciampi ti frega in nome di regole scritte per il suo comodo. 41-bis, il difensore non può telefonare al detenuto dal proprio ufficio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2021 La Corte di cassazione, sentenza n. 38031 depositata oggi, ha così definitivamente respinto il ricorso di un uomo ristretto nel carcere di Tolmezzo in regime penitenziario differenziato. No alla telefonata del difensore al detenuto in 41bis dal proprio studio professionale. Il professionista dovrà recarsi nel carcere più vicino e da lì comporre il numero telefonico. La Corte di cassazione, sentenza n. 38031 depositata oggi, ha così definitivamente respinto il ricorso di un uomo ristretto nel carcere di Tolmezzo in regime penitenziario differenziato, motivando la procedura con la necessità di indentificare con certezza il difensore, senza correre il rischio di sostituzioni di persona. Secondo la I Sezione penale, dunque, la prescrizione (art. 16.3 della circolare dipartimentale di organizzazione del circuito detentivo speciale) - secondo cui il difensore, che intenda ricevere la telefonata dal proprio assistito, assoggettato al regime ex art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., si debba recare in un istituto penitenziario prossimo al domicilio, o al luogo ove esercita l’attività forense - appare ragionevole, in quanto risponde all’esigenza di garantire l’esatta identità dell’interlocutore, scongiurando il rischio, anche riconducibile all’intervento di terzi, di sostituzione di persona o di deviazione di chiamata. “Il maggiore disagio, all’osservanza della prescrizione connesso - argomenta la decisione -, è compensato dalla salvaguardia così assicurata ai valori fondamentali della sicurezza pubblica e della prevenzione dei reati, in una ottica di equilibrato contemperamento”. “Resta fermo - aggiunge la Corte - che la prescrizione in discussione, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto al colloquio con il difensore, che si avrebbe ove esso fosse esageratamente dilazionato nel tempo, o in altro modo ostacolato”. Un simile comportamento, tuttavia, “potrebbe essere sempre denunciato all’Autorità giudiziaria per gli interventi del caso”. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 143 del 2013, ricorda la Cassazione, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ultimo periodo, Ord. pen., nella parte poneva limitazioni, di frequenza e durata, al diritto dei detenuti ad intrattenere colloqui con il loro difensore. La pronunzia aveva dunque ritenuto illegittimo il regime di “limitazione automatica dei colloqui, ma non le limitazioni che dovessero essere individualmente imposte in ragione di particolari esigenze, e tanto meno ogni forma di regolamentazione dei colloqui medesimi, che risulti armonica con le caratteristiche del regime detentivo speciale e con le finalità preventive che, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 94 del 2009, ad esso sono assegnate dall’ordinamento”. Per la Suprema corte, dunque, “nel rispetto delle esigenze funzionali del regime detentivo speciale, ed entro la cornice delineata dalla normativa di rango primario, le modalità di esercizio del diritto di colloquio con il difensore possono essere disciplinate anche da fonte secondaria, di carattere regolamentare”. I paletti della Corte Ue su sequestro e confisca dei beni di terzi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2021 Con le sentenze C-845/19 e C-863/19 depositate oggi i giudici di Lussemburgo chiariscono che la direttiva 2014/42 osta ad una normativa nazionale che permetta la confisca di un bene di cui si sostenga che appartiene ad una persona diversa dall’autore del reato, senza che tale persona abbia la facoltà di intervenire nel procedimento La Corte Ue precisa alcune disposizioni della direttiva relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea. Con le sentenze C-845/19 e C-863/19 i giudici di Lussemburgo chiariscono che la direttiva 2014/42 osta ad una normativa nazionale la quale permetta la confisca di un bene di cui si sostenga che appartiene ad una persona diversa dall’autore del reato, senza che tale persona abbia la facoltà di intervenire quale parte nel procedimento di confisca. Due cittadini bulgari sono stati condannati in sede penale per aver detenuto, nel febbraio 2019, senza autorizzazione, a fini di spaccio, sostanze stupefacenti altamente pericolose. A seguito della condanna l’Ufficio regionale della Procura di Varna ha chiesto al Tribunale regionale, la confisca delle somme di denaro rinvenute nei rispettivi alloggi degli interessati nel corso di perquisizioni. All’udienza dinanzi a detto giudice, gli interessati hanno dichiarato che le somme di denaro sequestrate appartenevano a membri delle loro rispettive famiglie. In primo luogo, la Corte constata che la detenzione di stupefacenti a fini di spaccio rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/42, anche quando tutti gli elementi inerenti alla commissione di questo reato si collocano all’interno di un unico Stato membro. In secondo luogo, la Corte considera che la direttiva non prevede unicamente la confisca dei beni che costituiscono un vantaggio economico derivante dal reato per il quale l’autore di quest’ultimo è stato condannato, ma contempla altresì la confisca dei beni appartenenti all’autore del reato relativamente ai quali il giudice nazionale investito della causa sia convinto che derivano da altre condotte criminose. Per quanto riguarda il primo tipo di confisca, è necessario che il provento alla cui confisca si intende procedere derivi dal reato per il quale è intervenuta la condanna definitiva del suo autore. Per quanto riguarda la seconda fattispecie astratta, che corrisponde alla confisca estesa, la Corte precisa, da un lato, che, al fine di stabilire se un reato sia suscettibile di produrre un vantaggio economico, gli Stati membri possono prendere in considerazione le modalità operative, ad esempio il fatto che il reato sia stato commesso nell’ambito della criminalità organizzata o con l’intento di ricavare profitti regolari da reati. Dall’altro lato, il convincimento del giudice nazionale che i beni derivano da condotte criminose deve basarsi sulle circostanze del caso, ivi compresi gli elementi di fatto concreti e gli elementi di prova disponibili. A tal fine, detto giudice può in particolare prendere in considerazione la sproporzione tra il valore dei beni in questione e i redditi legittimi della persona condannata. Per quanto riguarda infine la confisca nei confronti di terzi, essa presuppone che siano dimostrate l’esistenza di un trasferimento, da parte di una persona indagata o imputata, di proventi ad un terzo, ovvero l’esistenza di un’acquisizione di siffatti proventi da parte di un terzo, nonché la conoscenza, da parte di tale terzo, del fatto che detto trasferimento o detta acquisizione avevano lo scopo di evitare la confisca. In terzo luogo, la Corte statuisce che la direttiva 2014/42, letta in combinato disposto con l’articolo 47 della Cedu, osta ad una normativa nazionale la quale permetta la confisca, a favore dello Stato, di un bene del quale si sostenga che appartiene a una persona diversa dall’autore del reato, senza che tale persona abbia la facoltà di intervenire quale parte nel procedimento di confisca. Infatti, detta direttiva impone agli Stati membri di prendere le misure necessarie affinché le persone colpite dalle misure da essa previste, ivi compresi i terzi che sostengano, o di cui altri sostenga, che sono i proprietari dei beni alla cui confisca si intende procedere, abbiano diritto ad un ricorso effettivo e ad un processo equo al fine di salvaguardare i propri diritti. Inoltre, la direttiva summenzionata prevede varie garanzie specifiche al fine di assicurare la salvaguardia dei diritti fondamentali di tali terzi. Tra queste garanzie figura il diritto di avvalersi di un avvocato durante tutto il procedimento di confisca, il quale comporta con tutta evidenza il diritto per tali terzi di essere ascoltati nell’ambito di detto procedimento, ivi incluso il diritto di far valere il loro titolo di proprietà sui beni colpiti dalla confisca. Viterbo. Detenuto suicida nel 2018, il Gip fissa l’udienza nel 2024 di Angela Stella Il Riformista, 26 ottobre 2021 La procura aveva chiesto l’archiviazione per la morte di Hassan Sharaf, la famiglia si è opposta. A luglio 2020 il giudice si è riservato di decidere dopo 4 anni. Il Garante: “Giustizia in bancarotta”. Quattro anni per decidere se archiviare o no un procedimento penale relativo al suicidio di un detenuto: è questa la decisione presa da un gip il 30 luglio 2020 - ma resa nota solo adesso - che ha fissato al 7 marzo 2024 l’udienza che dovrebbe valutare se riaprire l’inchiesta scaturita dall’opposizione dei familiari alla richiesta di archiviazione della Procura. “C’è solo una motivazione pronunciabile” alla base di questo per il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa: “la bancarotta, se non dell’intero sistema della giustizia, quanto meno del Tribunale di Viterbo”. È proprio lui a raccontarci la storia: “Hassan Sharaf - questo il nome del giovane detenuto morto - un giovane egiziano di 21 anni, tentò il suicidio nel carcere di Viterbo, tramite impiccagione alle sbarre della finestra il 23 luglio 2018, il giorno stesso in cu fu portato in isolamento. Morì dopo una settimana in ospedale. Qualche mese prima, a marzo, operatori del mio ufficio erano stati in carcere per fare dei colloqui con i detenuti. Tra gli altri avevano parlato proprio con Hassan e il suo compagno di cella che avevano riferito, con timore e profonda angoscia, di essere stati vittime di maltrattamenti da parte della polizia penitenziaria nel corso di una perquisizione in cella. Allora chiesi al Provveditore dell’epoca di mettere in sicurezza questi detenuti, prevedendo un trasferimento. Hassan non solo non venne trasferito ma a luglio fu messo in isolamento a seguito della sanzione disciplinare emessa nei suoi confronti dopo la perquisizione di marzo perché accusato di traffico di psicofarmaci all’interno del carcere. Nel frattempo, però, a giugno avevo fatto un esposto alla Procura di Viterbo segnalando questo ed altri casi di presunte violenze da parte della penitenziaria. Non ho mai avuto riscontro dagli inquirenti; poi quando è morto Hassan ho scritto al Procuratore capo di Viterbo facendogli presente che una delle persone che avevo segnalato nell’esposto si era suicidata. Solo al momento della morte abbiamo scoperto che Hassan era ‘abusivamente’ in carcere a Viterbo: lì aveva terminato di scontare una pena da adulto, ma era tuttavia in esecuzione di un residuo di 4 mesi da minore che avrebbe dovuto scontare al minorile dal mese di maggio. L’altro aspetto tragico che solleva molti interrogativi è che il suicidio è avvenuto a due mesi dalla scarcerazione definitiva”. Per Alessandro Capriccioli, capogruppo di “+Europa Radicali” al Consiglio regionale del Lazio, la notizia del rinvio dell’udienza al 2024 è “sconcertante. La morte di Hassan è avvenuta a seguito di un tenzione tativo di suicidio del quale ancora non sono chiare le dinamiche. Accertare oltre ogni ragionevole dubbio gli accadimenti di quella notte dovrebbe rappresentare una priorità. Condividendo la preoccupazione espressa dal Garante Anastasia sulle condizioni della nostra giustizia, mi auguro che il Ministro della giustizia si interessi al caso e intervenga”. Sul carcere di Viterbo aveva presentato nel 2019 anche una interpellanza il deputato di +Europa Riccardo Magi “per verificare il rispetto della legge e dei diritti dei detenuti”. Busto Arsizio. “La pena deve essere cura, non vendetta” di Christian Sormani Il Giorno, 26 ottobre 2021 La ministra Cartabia in visita alla coop dei detenuti. Ha ascoltato la testimonianza del primo dipendente: “La Valle di Ezechiele è un nome che evoca la rinascita. Soltanto con la sinergia di tutte le istituzioni e il contributo di ognuno si può cambiare la vita delle persone”. C’era anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in visita alla cooperativa “La valle di Ezechiele” a Fagnano Olona. La ministra aveva prima effettuato una visita al carcere di Busto Arsizio incontrando una rappresentanza dei detenuti e della polizia penitenziaria. “La pena non come vendetta ma come cura” ha sottolineato la Cartabia durante il tour della cooperativa che offre lavoro a persone ristrette o sottoposte alle misure alternative al carcere. “La Valle di Ezechiele è un nome che evoca la rinascita” ha spiegato la ministra dopo aver ascoltato la testimonianza di Bayoussef Bouizgar, il primo dipendente della coop. “Il lavoro dentro al carcere e fuori dal carcere - continua la ministra - ha una funzione decisiva. È la prima strada attraverso la quale ogni persona trova una possibilità, oltre che di sostentamento, di espressione di sé. Di essere utili, oltre che a sé stessi, anche alla vita sociale. Il lavoro dentro il carcere è un elemento fondamentale che già oggi è curato con particolare attenzione ma i dati dicono che le persone che lavorano dentro al carcere a giugno erano circa 18mila su 54 mila detenuti: un numero non piccolo date le difficoltà ma un numero ampiamente insufficiente. Il carcere ha bisogno di reti, di rapporti, di realtà locali, di legami con il territorio come quelle che si sono create intorno al carcere di Busto Arsizio e intorno a questa cooperativa. Perché soltanto nella sinergia di tutte le istituzioni, del fuori che va dentro e del dentro che va fuori, ma soprattutto con il contributo di ognuno, anche con cose semplici, si può cambiare la vita delle persone”. Un impegno concreto quello della guardasigilli sangiorgese: “Come ministro della Giustizia mi sono trovata di fronte a un mare di bisogni quando mi sono affacciata sulla realtà del carcere. Sono bisogni aumentati dalle asprezze degli anni della pandemia, ma anche adesso che grazie alle vaccinazioni, a cui è stata data giustamente una priorità nel carcere, stiamo cominciando a vedere la luce in fondo al tunnel, c’è ancora un mare di bisogni davanti a noi sotto ogni profilo: dalle condizioni materiali alla tutela della salute, dall’istruzione alla cultura. Ma se c’è un particolare bisogno a cui prestare attenzione è proprio quello del lavoro per dare una concreta speranza di vita diversa a chi sta scontando il suo debito con la società. La coop bustocca nasce formalmente nel giugno 2019, grazie a don David, cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio. Il nome fa riferimento al capitolo 37 di Ezechiele che si trova a camminare in una valle piena di “ossa inaridite”: pezzi di vita, umanità sconnesse, relazioni frantumate, passati difficili e un futuro incerto. Nel luglio seguente avvia in carcere un corso di fotografia, guidato dal giovane e talentuoso fotografo Hermes Mereghetti. Dagli scatti degli iscritti al corso viene alla luce il calendario artistico “La Valle di Ezechiele” 2020. Durante il lockdown, avvia la produzione e la vendita di un particolare crocifisso. Viterbo. Due euro al giorno per i pasti dei detenuti. Stop della Corte dei conti Corriere di Viterbo, 26 ottobre 2021 L’appalto per il cibo ai detenuti di Mammagialla finisce nel mirino della Corte dei conti. L’affidamento del servizio per il triennio 2021-2023 non ha ottenuto il visto della sezione regionale di controllo del Lazio presieduta dal giudice contabile Ottavio Caleo. Tra le motivazioni che hanno portato allo stop dei contratti di fornitura per diversi penitenziari del centro Italia ci sono i ribassi eccessivi. Poco più di due euro per colazione, pranzo e cena. Sul caso ha presentato un’interrogazione al ministro della giustizia Marta Cartabia la senatrice Margherita Corrado (Gruppo Misto). A settembre, la Corte dei Conti - Sezione regionale di controllo per il Lazio, ha assunto un’iniziativa del tutto inedita: con le delibere 101-104/2021, relatore Ottavio Caleo, dando ragione, fra gli altri, al Garante per i diritti dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che aveva lamentato le speculazioni sul cibo dei reclusi, ha negato il visto e la registrazione di alcuni decreti del Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap). Si tratta dei 4 decreti di approvazione di altrettanti contratti di fornitura del vitto, nel triennio 2021-2023, rispettivamente negli istituti penitenziari di Rebibbia a Roma per quasi 4,5 milioni, di Civitavecchia e Viterbo per 2,2 milioni, di Campobasso, Isernia, Larino, Avezzano, L’Aquila, Sulmona per 2,5 milioni, e di Frosinone, Cassino e Latina per 1,7 milioni. Lo si legge in una nota della senatrice Margherita Corrado (Gruppo Misto) che ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia Marta Cartabia. Inoltre evidenzia che il Collegio di controllo preventivo ha segnalato l’anomalia “dovuta al generalizzato, straordinario ribasso con cui vengono affidati tali contratti di fornitura di vitto giornaliero completo per i detenuti (colazione, pranzo, cena) per un importo sempre di poco superiore ai 2 euro, circostanza difficilmente compatibile con una dignitosa alimentazione della popolazione carceraria” e ha “stigmatizzato che per un appalto (vitto) e una concessione di servizi (sopravvitto) sia bandita un’unica procedura, obbligando la stessa impresa ad assumere entrambi gli oneri, benché abbiano caratteristiche tecniche molto diverse”. Palermo. Al via il progetto “GAP-Graffiti art in prison” di Antonella Barone gnewsonline.it, 26 ottobre 2021 È Palazzo Chiaromonte (Steri), uno dei luoghi simbolo di Palermo, a ospitare da oggi i lavori della prima settimana internazionale di studi intensivi “GAP - graffiti art in prison”, progetto triennale Erasmus sul tema dei graffiti nella storia. Coordinato dal team di esperte siciliane Gabriella Cianciolo, Laura Barreca e Gemma La Sita e dal Sistema Museale dell’Università degli Studi di Palermo, il percorso triennale si caratterizza per coinvolgere in azioni innovative 30 persone detenute degli istituti Pagliarelli, Ucciardone e Malaspina insieme a dottorandi europei e studiosi di tutto il mondo. Le ragioni della scelta del complesso monumentale, uno dei più importanti siti culturali della Sicilia, sono contenute già nel tema del progetto centrato sullo studio dei graffiti nell’Inquisizione europea. Durante il XVII e XVIII secolo lo Steri, oggi sede del Rettorato dell’Università degli Studi, ospitò infatti il Tribunale del Santo Uffizio e le sue carceri. Le scritte e i disegni sulle pareti delle celle, lasciati dalle innumerevoli vittime delle persecuzioni, restituiscono frammenti di un mondo grondante violenza e oppressione e costituiscono un corpus d’inestimabile valore storico, artistico e antropologico. Il GAP metterà in relazione il patrimonio di graffiti presenti all’interno delle prigioni seicentesche (oltre alle palermitane, saranno oggetto di studio anche le segrete di Narni e di Saragozza in Spagna) con altre espressioni grafiche e pittoriche carcerarie, storiche e contemporanee. Un programma vasto e articolato che sarà attuato tramite laboratori artistici, percorsi creativi e di socializzazione, con il contributo di artisti oltre che di esperti nel settore. Una parte rilevante del progetto consiste, infatti, nel portare i graffiti come pratica artistica direttamente nelle carceri coinvolte. Per l’inedita combinazione di storia, arte, scienza, per la collaborazione con gli istituti penitenziari e per la sua valenza riabilitativa e inclusiva, il progetto ha ottenuto il patrocinio del Ministero della Giustizia, oltre a quello dell’Università degli studi di Palermo. “Si tratta di un programma culturale che coinvolge, in via diretta, soggetti a cui offrire un’esperienza di segno diverso rispetto a quella passata e volta a far maturare una nuova visione di sé e del mondo” ha spiegato il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) Bernardo Petralia, intervenuto oggi all’apertura dei lavori, insieme al direttore della casa circondariale di Palermo Ucciardone, Fabio Prestopino. “Altro profilo di particolare interesse - ha aggiunto il Capo DAP - è integrato dalla partecipazione della comunità esterna, nel caso specifico, appartenente al mondo scientifico, nel processo di socializzazione dei soggetti che hanno violato il patto sociale”. Il percorso e i risultati del progetto saranno documentati in una pubblicazione a cura di Gabriella Cianciolo e Laura Barreca, nel video “Traces on the wall” e da un’esposizione conclusiva all’interno dello Steri. Milano. CorriBicocca per i ragazzi del Beccaria, Buccoliero: “Sport è inclusione” Adnkronos, 26 ottobre 2021 Oltre 2200 tra studenti, docenti, dipendenti dell’università Bicocca ma anche tanti cittadini, hanno partecipato alla tradizionale “CorriBicocca”. Arrivata alla quarta edizione, la corsa per le vie nella zona dove sorge il campus è ormai una tradizione dell’ateneo. “È il nostro modo per aprirci alla città e al quartiere mettendo in mostra il nostro bellissimo Stadium” ha dichiarato Giovanna Iannantuoni, rettrice dell’Università di Milano-Bicocca. Una gara podistica fatta in totale sicurezza grazie alla vaccinazione e al green pass. “È un momento di condivisione sportiva - ha aggiunto la rettrice, - ma soprattutto corriamo per aiutare, la Fondazione Rava. Lo sport e la solidarietà racchiudono l’inclusione e l’apertura, alcuni dei principali valori della nostra università e che sono stati supportati dai nostri ragazzi gareggiando in questa corsa. Abbiamo bisogno di tornare a stare insieme e di condividere emozioni e luoghi. C’era molta voglia di riconquistare tutto questo e a dimostrarlo è stato il grandissimo successo delle iscrizioni”, ha concluso Giovanna Iannantuoni. L’assegno da 5.000 euro è stato devoluto al sostegno del progetto Palla al Centro della Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlus, dedicato ai minori e giovani adulti dell’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria e volto a prevedere percorsi per il reinserimento sociale e lavorativo dei ragazzi. “Lo sport è inclusione, e può dare anche una seconda chance nella vita”, ha affermato Cosima Buccoliero, direttrice dell’Istituto Penale per i Minorenni Cesare Beccaria. “Ci teniamo molto a organizzare iniziative che possano in qualche modo mettere i ragazzi a contatto con l’esterno e lo sport sicuramente costituisce uno di questi elementi. Nelle carceri minorili le attività sportive sono quelle più frequentate dai ragazzi. Agganciare questi giovani non è facile, così come trovare in loro delle passioni. Lo sport invece riesce a fare miracoli. Consente ai detenuti di stare bene sia fisicamente che mentalmente e magari anche di sognare grandi traguardi sportivi”, ha proseguito. “Con il ricavato messo a disposizione dall’università Bicocca-Milano, ci occuperemo di 10 progetti, alcuni dei quali già avviati, che portano i ragazzi ad acquisire delle competenze professionali o a fare in modo che vivano meglio all’interno del carcere. Per questo ringrazio molto l’Università Bicocca e la Fondazione Rava per questa opportunità”, ha concluso la direttrice del carcere Cosima Buccoliero a cui hanno fatto eco le parole di Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano. “La maratona universitaria rappresenta pienamente i valori di condivisione, forza, solidarietà e lealtà. Tutte le migliori qualità per aiutare i ragazzi in difficoltà del Beccaria. Abbattere i pregiudizi, contrastare l’isolamento e la stigmatizzazione dei giovani entrati nel circuito penale, per la loro futura inclusione sociale e lavorativa è proprio l’obiettivo del progetto “Palla al Centro” della Fondazione Francesca Rava. “La giustizia dà una seconda possibilità a chi ha sbagliato e pertanto dobbiamo essere pronti a farlo anche noi”, ha detto Mariavittoria Rava, Presidente Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus. “Sono ragazzi che non sempre hanno ricevuto una pacca sulla spalla o un incoraggiamento nella vita. Per questo ci affidiamo agli studenti che saranno i genitori del futuro per una maggiore sensibilizzazione - ha continuato. Lo sport per i ragazzi reclusi vuol dire esercitare la propria capacità di impegnarsi e focalizzarsi su un obiettivo, ma significa soprattutto farlo in squadra. Noi abbiamo provato a fare sport insieme a loro. La fatica iniziale e anche il credere in se stessi, volersi mettere alla prova e poi magari raggiungere il risultato, sono come dei percorsi della vita che possono aiutarli ad avere maggiore fiducia e con uno sguardo positivo verso il futuro”, ha concluso Mariavittoria Rava. Roma. Il “Salone della Giustizia” per parlare di diritti e sviluppo di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 ottobre 2021 Dal 26 al 28 ottobre prossimi il Tecnopolo di Roma ospiterà il “Salone della Giustizia”. Avvocati, docenti universitari, ministri, giornalisti, manager e leader politici si confronteranno sul futuro della giustizia italiana. Punto di partenza le riforme del processo civile e del processo penale avviate da qualche mese e verso le quali si nutrono grandi aspettative. Da queste dipendono pure le risorse del Recovery fund. “Bisogna far capire alle persone - dice al Dubbio Francesco Arcieri, giornalista e presidente del Salone della Giustizia - che con una serie di interventi mirati la giustizia italiana potrà finalmente avere tempi certi e rapidi tali da garantire la tutela dei diritti e lo sviluppo. In questo contesto la figura dell’avvocato svolge un ruolo importante, dato che ha ancora una percezione molto positiva tra i cittadini”. Presidente Arcieri, come nasce il “Salone della Giustizia”? L’idea nasce nel giugno del 2008, quando ero portavoce dell’allora presidente della Commissione Giustizia al Senato. Il progetto prevedeva un innovativo e originale incontro pubblico tra magistratura, avvocatura, politica e professioni per affrontare il tema della giustizia a trecentosessanta gradi. Noi non ci occupiamo solo ed esclusivamente della giustizia amministrata nei tribunali, ma approfondiamo le tematiche legate all’economia, alla salute, al lavoro, alla sicurezza e all’ambiente. Vogliamo illustrare ai cittadini le istanze, le problematiche e le soluzioni di un settore che è sempre percepito oscuro e di difficile comprensione. Sin dal primo momento, sono stati coinvolti i vertici dell’avvocatura, della magistratura, le più alte cariche dello Stato e i ministri di riferimento, che per noi sono quelli della Giustizia, dell’Interno e della Difesa. Nelle ultime edizioni abbiamo voluto pure affrontare temi internazionali, legati alla giustizia, con la partecipazione di diversi ambasciatori. Il nostro primo obiettivo, da sempre, è promuovere la cultura della legalità e la giustizia sociale. Nel 2009, quando venne organizzata la prima edizione, a Rimini, chi comprese subito il senso della manifestazione fu Giorgio Napolitano. L’allora Presidente della Repubblica, nel suo messaggio inviato in occasione dell’apertura dei lavori, definì il Salone “una nuova forma di comunicazione istituzionale”. Quanto è difficile comunicare i temi legati alla giustizia? Il nome scelto, quando è stata fondata l’iniziativa, è evocativo. Parliamo, infatti, di Salone della Giustizia. Il salone è una rappresentazione di un settore nei confronti del pubblico e dei cittadini. Il linguaggio utilizzato da noi è sempre stato attento al cittadino. Non è mai stato un linguaggio tecnico. Poniamo delle domande a esperti e le risposte che chiediamo devono essere comprensibili da parte di tutti. Il nostro non è summit tecnico o giuridico. L’importanza del Salone è relativa al fatto che non si occupa esclusivamente della giustizia amministrata nei tribunali. Al centro dell’evento troviamo il concetto di giustizia non il comparto. Grande attenzione, proprio per questo motivo, viene attribuita al linguaggio. Vogliamo far conoscere il mondo della giustizia in maniera semplice e diretta. Ce lo insegnano i social, che chiedono chiarezza e sintesi. Gli avvocati, che hanno nell’eloquio la loro forza e alcuni di essi sono definiti non a caso “Principi del Foro”, è utile che tengano conto di questi elementi”. Nel particolare momento che stiamo vivendo parlare di giustizia, in una iniziativa come il Salone, assume ancora più rilevanza? È praticamente determinante. Aspettiamo da tantissimi anni la riforma della giustizia. Quello che in passato era un dovere, mi riferisco al fare una riforma, oggi diventa un obbligo. È il momento di prenderci le nostre responsabilità. La giustizia è un pilastro della nostra democrazia e la riforma che la riguarda è un obiettivo legato all’attuazione del Recovery fund. Entro il prossimo dicembre bisogna portare a compimento le riforme pianificate. La giustizia è strettamente correlata all’economia di un Paese. Non si difendono solo i diritti dei cittadini. Una giustizia lenta e non adeguata non attira gli investimenti. Dobbiamo credere ad una giustizia rapida. La lentezza della nostra giustizia ha creato un alibi tipicamente italiano. Per qualsiasi questione, piccola o grande che sia, quando c’è un contrasto tra le parti, una delle due è indotta a dire “fammi causa”. Quest’alibi deve scomparire, perché blocca non solo le grandi aziende, ma può bloccare anche un condominio. Bisogna far capire alle persone che la giustizia, con una serie di interventi mirati, deve avere tempi certi e rapidi. In questo contesto la figura dell’avvocato deve migliorare la propria reputazione, dato che ha ancora una percezione molto positiva tra i cittadini. Gli avvocati hanno un ruolo di primo piano nella giurisdizione. Che collocazione avranno nel Salone della Giustizia? Hanno sempre avuto una collocazione primaria e sono presenti numerosi. A partire dal primo giorno, quando in occasione della prima tavola rotonda, dedicata a lavoro, investimenti e giustizia civile, parteciperanno Gabriella Palmieri Sandulli, avvocato Generale dello Stato, Carlo Malinconico, ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università Tor Vergata e Romano Vaccarella, ordinario di Diritto processuale presso l’Università La Sapienza di Roma. Sarà presente, inoltre, la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi. In ogni convegno il sistema giustizia verrà esplicato da opinion leader dell’avvocatura. A questi si aggiungono importanti esponenti politici che saranno impegnati nei nostri “face to face”, moderati da direttori di testate giornalistiche. Parteciperanno Enrico Letta, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Carlo Calenda. La giustizia deve essere terreno di discussione costruttiva nella politica, perché non è né di destra né di sinistra. Suicidarsi a 19 anni per un rimprovero, quel vuoto che inghiotte le giovani vite di Viola Ardone La Stampa, 26 ottobre 2021 La verità è che di fronte alla morte di un ragazzo cadono tutte le parole. E dove prima c’era una vita, giovane, in corsa accelerata sulla rampa di lancio del futuro, al suo posto si apre una voragine, fatta di rimpianto e di silenzio. La desolazione di un buco nero che non avrà risposte. Soprattutto se all’origine di quella mancanza, di quella crepa nel tessuto connettivo dell’esistenza, c’è un gesto volontario, come sembra sia accaduto in questo caso. Nella notte tra domenica e lunedì, un ragazzo di diciannove anni di San Salvatore Telesino, paese in provincia di Benevento, torna a casa tardi, forse troppo tardi rispetto a quanto concordato con i genitori. Il ragazzo viene rimproverato, pare, ne nasce una discussione, poi si chiude in camera e con la pistola del padre - regolarmente detenuta - si spara alla testa. Inutile la corsa all’Ospedale di Benevento, dove le sue condizioni sono subito apparse gravissime, e il successivo trasferimento in elicottero all’Ospedale del mare di Napoli. Per il ragazzo non c’è stato niente da fare, il baratro se lo è preso. “Muore giovane chi è caro agli dei”, recitava quel famoso frammento di Menandro, ma è una bugia, e lo sappiamo bene. O quegli dei non esistono nel nostro cielo, o ci hanno mentito crudelmente. Nessuno saprà mai che cosa è successo in quei momenti: quali parole, quali pensieri, quali fantasmi abbiano mosso la mano del giovane sull’arma, in quale zona buia della coscienza è stato trascinato via, verso il territorio della disperazione. La fascinazione dei più giovani per il gesto estremo, la ricerca del senso del limite, la sfida ad affacciarsi sull’orlo dell’abisso sono sempre stati in qualche modo parte di quel lavoro durissimo che è crescere, diventare grandi e dimostrare al mondo di avere tra le mani la chiave di avviamento del proprio destino. Probabilmente lo è ancora di più oggi, in una società che ha perso i suoi riti di passaggio e in ciascuno deve tatuarsi da solo la propria linea d’ombra sui margini del cuore. Eppure quello che dal punto di vista simbolico mi colpisce di più in questa storia di enorme dolore su cui, ripeto, nessuno può sentirsi in diritto di dire parole, se non di condoglianze, è il disagio profondo, l’inquietudine perturbante che provano spesso i ragazzi di fronte a un rimprovero, di fronte a un “no”. La difficoltà a misurarsi con l’errore, con la sconfitta, con la perdita. In una società che li vuole tutti vincenti, non c’è più posto per i Franti, ma solo per i Derossi e, al limite, per qualche buon Garrone. Nel libro Cuore dei nostri giorni, abbiamo posto solo per storie di piccoli campioni, giovani promesse, belle speranze. Ma nessuno gli rivela che quelle promesse e quelle speranze si realizzano anche attraverso le sconfitte. Che la perdita fa parte in maniera consustanziale della vittoria e che la vittoria, in definitiva, non è necessariamente l’approdo di ciascuno. Lo vedo quotidianamente negli occhi dei miei alunni quindicenni, di mio figlio che ha dieci anni: essere contrariati, contraddetti, smentiti, rimproverati - a torto o a ragione - li mette a disagio, come un colpo vigliacco e inaspettato che li fa vacillare dalle fondamenta. Ogni punto di inciampo diventa un fosso, una sgridata si trasforma in una disfatta, un cattivo voto in un’offesa privata, una bocciatura in una tragedia, personale e familiare. La strada dell’amore è spesso lastricata di controindicazioni. E così, il nostro desiderio di genitori o di educatori o di insegnanti di preservarli dal dolore rende loro difficile confrontarsi con un “no”, con un divieto, con la disapprovazione. Forse, quello che oggi varrebbe la pena di insegnare ai più giovani allora non è a “fare le cose per bene”. Forse dovremmo insegnare a sbagliare, a sedere nella polvere dopo una rovinosa caduta e a rimettersi in piedi, seppure laceri e sporchi di fango. Ad ammettere con serenità di aver sbagliato, di essere stati insufficienti, egoisti, ingenui, sciocchi, perché la vita è fatta anche - e per lo più - di insufficienze, egoismi, ingenuità, sciocchezze, da cui nessuno è immune. La retorica della vittoria non serve né a noi né ai nostri ragazzi. E forse l’antidoto al buio della paura di sbagliare può essere proprio nella contemplazione della bellezza dello sbaglio, nell’elogio dell’imperfezione, nella consapevolezza che il conflitto non ci azzera come essere umani, ma ci valorizza. Certamente non ci uccide. È un problema di narrazione, anche. Una narrazione della giovinezza e dell’umanità in generale sempre più virtuosa, in cui sono da stigmatizzare e da “cancellare” le voci stonate perché dobbiamo essere tutti buoni, tutti lisci e levigati, tutti bravi, ecologici e sostenibili. L’epopea dei “cattivi maestri” si è esaurita, stemperata in un profluvio di buone intenzioni che rendono intollerabile il pensiero dell’imperfezione. Forse dovremmo ricominciare a raccontare storie di cattivi ragazzi, di uomini e donne liminari, di marginali e di confusi. Di giovani che non sempre piacciono ai loro insegnanti o ai loro genitori. E che, nonostante questo, continuano a tenere accesa la luce che li anima come una fiammella nella notte. Il caso del ragazzo di Benevento fa ritornare di attualità il dibattito sul disagio degli adolescenti Letta non riesce più a difendere la legge Zan: o cambia o muore di Daniela Preziosi Il Domani, 26 ottobre 2021 Martedì il padre del provvedimento contro l’omofobia e la senatrice dem Malpezzi incontrano M5s, Iv e Leu Poi FI, Lega e FdI. Si cerca una mediazione per evitare che il testo venga bloccato mercoledì al Senato. Letta ha scelto Zan, ex Arcigay e popolarissimo, per fare da “garante”, se non da scudo umano, di fronte al mondo Lgbt che già manda segnali di ostilità alla scelta della “trattativa” con la Lega. Il rischio è che al voto segreto Iv impallini la legge. Il Pd prova ad allargare i numeri convincendo Forza Italia. Interlocutrice principale, la presidente dei senatori forzisti Anna Maria Bernini, che a suo tempo ha detto sì alle unioni civili. Contrordine compagni Lgbt, contrordine a tutti i colori dell’arcobaleno: sul testo della legge sull’omotransfobia si tratta. Dopo aver sostenuto per sette mesi l’esatto contrario - e dopo aver raccolto una vittoria alle amministrative che sembrava rafforzare la determinazione del Pd - il segretario Enrico Letta si è arreso all’amara necessità dei numeri. E i numeri della vecchia maggioranza giallorossa al Senato sono dimagriti. Della nuova versione dell’alleanza fra Pd e Cinque stelle ieri Letta ha parlato a pranzo con Giuseppe Conte, il leader M5s. Ma questa sarebbe un’altra storia. Quanto alla legge Zan, senza un segno di apertura alle modifiche, e cioè senza un cedimento alle velate minacce di Italia viva, il testo rischia di morire domani, trafitto dalle richieste di “non passaggio all’esame degli articoli” firmate da Lega e Fratelli d’Italia. Una trappola congegnata da Roberto Calderoli, un voto procedurale probabilmente segreto (anche se il Pd ricorda alla presidente dell’aula Maria Elisabetta Casellati che ci sono precedenti di voto palese, e proprio sulle unioni civili). Con la protezione dall’anonimato, il rischio di franchi tiratori diventa certezza: ne potrebbero spuntare a mazzi da Italia viva (da cui ora arrivano cori di giubilo e di “ve l’avevo detto io”). Ma anche nel Pd c’è chi non ha mai digerito alcuni passaggi della legge. Gli ottimisti contano almeno tre voti contrari. Il rischio è che i numeri svelino anche le magagne interne del partito di Letta. “Il gruppo del Senato non è compatto come quello della Camera”, sospira un senatore. Ma sul punto le smentite ufficiali sono severe. “Il problema è nel gruppo misto”, giura Franco Mirabelli, “lì ci sono almeno cinque o sei senatori che non votano più con la maggioranza”. Fatto sta che se il Pd non vuole far finire in un burrone la legge, e soprattutto non vuole essere accusato di averla spinta giù per insipienza e intransigenza, deve rassegnarsi alle modifiche fin qui negate. Letta ha incaricato di trattare il deputato Alessandro Zan, primo firmatario del testo, e la presidente dei senatori dem Barbara Malpezzi. C’è chi descrive Malpezzi irritata per l’affiancamento di un deputato, quasi un commissariamento: in realtà la senatrice sa che Zan, ex Arcigay e popolarissimo, serve a fare da “garante”, se non da scudo umano, di fronte al mondo Lgbt che già manda segnali di ostilità alla scelta della “trattativa” con la Lega. Oggi alle 14 Zan e Malpezzi incontreranno i capigruppo della vecchia maggioranza giallorossa. Poi alle 16 vedranno i presidenti di FI, Lega e Fratelli d’Italia. Ma è a Forza Italia che il Pd guarda per allargare i numeri, a partire dai voti di domani pomeriggio. E infatti Zan ha scritto una lettera alla presidente dei senatori forzisti Anna Maria Bernini, che a suo tempo ha detto sì alle unioni civili. “Chi voterà a favore del non passaggio agli articoli vuole affossare la legge. Chi vuole approvarla, magari con modifiche, voterà contro la richiesta della destra”, mette in chiaro Mirabelli. In concreto: dare voti, vedere cammello, cioè cambiamenti. Ora però il Pd deve subire gli sfottò di Iv e di Lega per l’inversione di linea. Tutto il gruppo renziano rivendica di aver detto da mesi che l’unica soluzione per portare a casa il testo era trovare un accordo con la Lega; il leghista Andrea Ostellari, il presidente della commissione Giustizia che, a sua volta, per mesi aveva trattenuto il testo nelle pastoie della commissione, ora fa la parte del grande mediatore: “Anche Letta si è arreso all’evidenza. Serve una mediazione di buonsenso per fare una legge giusta ed efficace. Senza limitare le libertà e lasciando fuori i bambini. Il percorso di collaborazione era già stato avviato e aveva dato frutti, apprezzati anche dal gruppo autonomie e Italia viva. Ripartiamo da lì”. Il Pd giura che non si riparte dal testo Iv-Lega. Ma la verità è che primum vivere: solo se domani il testo resterà in campo si procederà a qualche ormai inevitabile cambiamento. Il cuore dell’accordo Iv-Lega è la cancellazione della definizione “identità di genere”. Per Zan, però, “siamo pronti a dare un segnale di distensione, ma all’identità di genere non possiamo rinunciare”. È la posizione di un appello di quaranta femministe. Ma allora quali sono le modifiche che “non snaturano” il testo? “La garanzia sta nel fatto che la guida politica di questa ipotetica trattativa la fa Zan, titolato a dire che l’identità di genere non si tocca e l’educazione scolastica non si tocca. Meglio nessuna legge piuttosto che una cattiva legge” avverte Monica Cirinnà. Ma per gli sherpa dem basterebbe tornare al primo testo della Camera, quello uscito dalla prima “bicameralina”. “Si può persino cancellare l’articolo 1 - dice uno di loro -, quello con le definizioni; tanto “identità di genere” ha ormai una giurisprudenza solida. Del resto alla Camera quell’articolo era stato introdotto da Lucia Annibali, di Iv; si può cancellare l’articolo 4, in cui si ribadisce la liceità della “libera espressione di convincimenti od opinioni”“. E ci mancherebbe, sono libertà già costituzionalmente garantite, inserite in questa legge per volontà dell’allora forzista Enrico Costa (oggi nella componente Azione-+Europa-Radicali italiani del Gruppo misto). Infine l’articolo 7, quello che istituisce la giornata contro l’omofobia per il 17 maggio: la celebrazione nelle scuole potrebbe diventare una possibilità, non più un obbligo. Omotransfobia, le leggi in Europa di Martina Castigliani Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2021 Nella maggior parte dei Paesi i crimini d’odio sono estesi a orientamento sessuale e identità di genere. La discriminazione basata sull’identità di genere, concetto che tutela le persone trans e fortemente osteggiata dalle destre, è già prevista in almeno 11 Paesi Ue, che diventano 20 se consideriamo anche gli altri stati europei: ecco cosa stabiliscono gli ordinamenti di Spagna, Francia (dove la prima legge arrivò, nel 2003, con il presidente di centrodestra Chirac), Germania, Regno Unito, Svezia. L’Italia, dove si discute il ddl Zan, è rimasta tra i pochissimi sistemi a non avere una legislazione ad hoc insieme a Bulgaria e Repubblica Ceca. La maggior parte dei Paesi Ue ha una legislazione che estende i crimini d’odio all’omotransfobia. E in undici ordinamenti degli Stati membri, che diventano 20 se si considerano tutti i paesi del Consiglio d’Europa, non solo si puniscono le discriminazioni sull’orientamento sessuale, ma anche sull’identità di genere. Ovvero proprio quel concetto contro cui, in Italia, si battono le destre, i cattolici e una piccola parte delle femministe. Ad averlo inserito nei loro ordinamenti già da tempo sono invece Paesi come Svezia, Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e Croazia. E mentre il disegno di legge Zan è bloccato in Senato, a mostrare il ritardo del nostro Paese è il confronto con quello che avviene oltre confine da almeno dieci anni. Del resto se l’Unione europea ha iniziato a parlarne già dagli anni 2000, è stato nel 2010 che il comitato dei ministri ha espresso la prima raccomandazione che chiedeva di adottare misure legislative per il contrasto ai crimini d’odio a causa sia “dell’orientamento sessuale” che “dell’identità di genere”. Un vero e proprio spartiacque per la comunità Lgbtqi che però in Italia sta ancora aspettando. Attualmente, come osservato a ottobre scorso dalla commissione Ue, il nostro Paese è tra i sette che non hanno legiferato in materia. E con noi figurano solo Stati come Bulgaria e Repubblica Ceca. Perché serve anche la tutela dell’identità di genere e quali Stati la prevedono - Prima di tutto è importante specificare che, quando parliamo di orientamento sessuale ci riferiamo alla “attrazione sessuale o affettiva di una persona” che può essere rivolta a persone dello stesso sesso, del sesso opposto o di entrambi i sessi. Mentre l’identità di genere è il concetto che permette di tutelare le persone trans, dove la definizione, usata anche dal ddl Zan, è: “L’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Contro l’introduzione dell’identità di genere nel nostro ordinamento si schierano sia le destre che una parte minoritaria delle femministe (le cosiddette trans escludenti). Attualmente in Europa sono 11 gli Stati che prevedono tutele per le discriminazioni anche per identità di genere: Belgio, Francia, Svezia, Spagna, Portogallo, Grecia, Finlandia, Croazia, Malta, Irlanda e perfino in Ungheria. Da segnalare che la Scozia è stata la prima a citare espressamente le “persone transgender”. Se guardiamo invece al perimetro del consiglio d’Europa (quindi fuori dall’Unione europea), gli Stati diventano 20: c’è il Regno Unito, ma anche la Norvegia che ha avuto una prima legge addirittura nel 1981 e dal 2020 ha incluso per i reati d’odio anche le persone transgender e i bisessuali. Poi altri come Islanda, Albania e Montenegro. Ma anche Bosnia, Macedonia, Kosovo. e addirittura la Georgia. Inoltre non bisogna dimenticare che il concetto di identità di genere, non solo era già nella raccomandazione Ue del 2010, ma è anche nella Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne ratificata dal Parlamento italiano nel 2013: in quel trattato, che ha ricevuto il via libera di Camera e Senato, si parlava esplicitamente di tutela delle vittime dalle discriminazioni sulla base, tra le altre cose, di sesso e identità di genere. Una delle argomentazioni più frequenti degli oppositori del ddl Zan è che all’introduzione del concetto di identità di genere ne consegue il via libera all’utero in affitto o gestazione per altri: le due cose non hanno alcun collegamento, oltre a non essere previste dalla legge Zan in discussione in Italia. Cosa succede in Europa - Sono principalmente due le strade scelte dai vari Stati per punire l’omotransfobia: la previsione di una aggravante o la previsione di specifici reati di discriminazione. In generale (così come propone il ddl Zan) gli interventi non riguardano le opinioni, ma ci si limita a colpire la violenza, l’istigazione a commettere atti violenti e la lesione della dignità delle vittime. A fare un quadro della situazione è Gaynet, associazione che in Italia si occupa di formazione sui temi Lgbt e presieduta dal fondatore di Arcigay Franco Grillini: “Nell’Unione europea i crimini d’odio sono puniti in 22 paesi per orientamento sessuale”, scrivono in uno degli ultimi report, “mentre nell’ambito del Consiglio d’Europa in 28 Paesi”. In Italia, ha spiegato l’avvocata Maria Grazia Sangalli per Gaynet, “il dibattito è arretrato perché altrove si sta discutendo non tanto del se, ma del come offrire una migliore tutela per le persone lgbt”. In generale, in Ue, il “trend è positivo”: “La maggioranza dei Paesi si è attrezzata per garantire una tutela rafforzata delle minoranze sessuali in assenza di normative cogenti sovranazionali” sia con prevenzione, che “con interventi nel diritto penale”. Tanto per avere un’idea, tra i primi ad aver previsto un’aggravante per le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale ci sono stati (entro il 2008): Belgio, Danimarca, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Finlandia, Svezia, Regno Unito, Lituania e Irlanda. Poi dal 2012 si sono adeguate: Croazia, Grecia, Ungheria, Malta, Lituania, Slovacchia. Francia - In Francia la prima legge in materia risale al 2003, quando in carica c’era il presidente di centrodestra Jacques Chirac che sui diritti per la comunità Lgtb si era impegnato davanti alle associazioni: il reato di discriminazione venne così esteso all’omofobia con l’aggravante per i reati o delitti commessi in ragione dell’orientamento sessuale. La pena va da un anno di reclusione a 45mila euro di multa. Già nel 2004 fu fatto un tagliando alla legge e venne aggiunta la circostanza aggravante a carattere omofobo anche alle minacce, al furto e all’estorsione. Ma la Francia non si è fermata lì: nel 2012 è stato inserito accanto all’orientamento sessuale, anche il concetto di identità sessuale. Espressione che poi, nel 2016 è stata corretta con la più idonea “identità di genere”. E questo sia nei relativi articoli dei Codici penali, ma anche nei Codici del lavoro e dello sport e nelle leggi “riguardanti reati o comportamenti motivati da discriminazione”. Inoltre, anche la legge sulla libertà di stampa francese del 1881 è stata estesa ai “reati di provocazione pubblica alla discriminazione, all’odio e alla violenza, di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di una persona o un gruppo di persone in ragione del loro orientamento sessuale, vero o presunto e di ingiuria a mezzo stampa o altro strumento di comunicazione rivolta ad una persona o un gruppo di persone per motivi omofobi”. Uno degli esempi più significativi è quello di Jean-Marie Le Pen, come ha ricordato un’inchiesta di Gaynews: nel 2019 il fondatore del partito di estrema destra del Front National è stato condannato in appello a 2400 euro di multa per aver paragonato in pubblico “omosessualità e pedofilia”. E per aver definito “esaltazione pubblica del matrimonio gay” la presenza del marito di un poliziotto morto in un attacco terroristico alla cerimonia di commemorazione. Però, al tempo stesso, per aver detto che “gli omosessuali sono come il sale nella zuppa, se non ce n’è abbastanza è insipida, se ce n’è troppo è imbevibile”, è stato assolto: in quel caso, ha stabilito il giudice, non c’era incitamento alla violenza. La Cassazione francese inoltre, nel 2018 si è espressa due volte per annullare condanne nei confronti di due politici le cui dichiarazioni, “sebbene oltraggiose”, non hanno superato “il limite della libertà d’espressione”. Svezia - Tra i più severi in materia c’è la Svezia, considerato uno degli Stati più gay friendly del mondo: qui chi è colpevole di minaccia o disprezzo verso gli omosessuali rischia fino a 4 anni di carcere. Inoltre la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale è stata criminalizzata dal 1987 e quella sull’identità di genere dal 2009. Quest’anno inoltre è stata introdotta, segnala l’associazione Ilga-Europe, anche un’aggravante per la lesione dell’onore. Riguarda la Svezia un’importante decisione della Corte europea per i diritti dell’uomo sulla tutela della libertà d’opinione: nella sentenza Vejdeland ed altri c. Svezia del 9 febbraio 2012, la CEDU ha infatti affermato che “non costituisce ingerenza illegittima nell’esercizio della libertà di espressione condannare chi renda dichiarazioni di incitamento all’odio nei confronti degli omosessuali”. E si specifica: “Il diritto di cui all’articolo 10 incontra un limite invalicabile nel rispetto dei valori fondamentali di una società democratica, quali la tolleranza e il rispetto della reputazione e dei diritti altrui. Pertanto, a condizione che le pene siano proporzionate, è legittimo che gli Stati membri si dotino di una legislazione penale che sanzioni l’omofobia”. Germania - Il caso tedesco va analizzato su due piani: quello federale e quello statale. Nel primo caso, anche se la legislazione non parla esplicitamente di reato di discriminazione per orientamento sessuale, i report di associazioni e istituzioni riferiscono che le sentenze dei tribunali in caso di omotransfobia infliggono pene più severe. E quindi, a livello giurisprudenziale, si considera un buon livello di protezione. A segnalarlo è anche un’analisi del Servizio studi della Camera: l’articolo 130 del Codice penale tedesco infatti, punisce con la detenzione “colui che, in maniera tale da disturbare la pace pubblica, incita all’odio o alla violenza contro elementi della popolazione o lede la dignità di altre persone attraverso insulti o offese” e “prevede una pena detentiva o una pena pecuniaria anche per chi commette gli stessi illeciti attraverso la diffusione di opere scritte”. E “sebbene il Codice penale non faccia un esplicito riferimento al background omofobico di colui che perpetra il reato, nella definizione data all’articolo 130 rientra anche la discriminazione effettuata in ragione dell’orientamento sessuale”. Per quanto riguarda le aggravanti, “non vi è una esplicita previsione rispetto all’omofobia”, ma un generico richiamo alle” motivazioni e finalità dell’atto oltre che alle convinzioni e agli intenti del reo”. Inoltre molto spesso si fa riferimento a una legge generale “sulla parità di trattamento” che all’articolo 1 prevede come scopo “prevenire o eliminare la discriminazione basata” anche su “identità sessuale”. Infine, se si considerano i singoli lander tedeschi, sono numerosi quelli che puniscono le discriminazioni per orientamento sessuale: ad esempio Berlino (dove si tutela anche l’identità di genere), Brandeburgo, Turingia. Il piccolo Stato di Saarland quest’anno è stato l’ultimo ad adottare un piano contro omofobia e transfobia lasciando la Bavaria ultimo e unico lander a non essersi adeguato. Di Germania ha parlato nei giorni scorsi Anna Paola Concia, ex parlamentare Pd e tra le femministe che hanno criticato il disegno di legge Zan. Ad Avvenire ha ricordato una aggressione che lei stessa ha subito con la compagna: “Ci hanno gridato ‘per quelle come voi devono riaprire i forni crematori’“, ha dichiarato. “Allora non denunciai. Quell’uomo era un insegnante. Se fosse capitato in Germania, dove oggi risiedo, non sarebbe mai più entrato in un’aula”. Spagna - Dal 1995 in Spagna i crimini di odio sono stati estesi all’orientamento sessuale o l’identità di genere. Nel codice penale il movente omofobico è considerato un aggravante in vari casi. Ad esempio lo è per i reati di incitazione all’odio e alla violenza contro gruppi e associazioni e di diffusione consapevole di informazioni false e ingiuriose su gruppi e associazioni, commessi anche in ragione delle tendenze sessuali dei loro membri. Si prevede inoltre l’aggravante anche per un funzionario pubblico che discrimina sulla base di orientamento sessuale o identità di genere. Numerose comunità autonome, ad esempio la Catalogna, si sono distinte per aver previsto nella loro legislazione politiche di prevenzione dell’odio su orientamento sessuale e identità di genere. Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA), però solo il 16% delle vittime di crimini d’odio in Spagna denuncia e le ong stanno spingendo perché sia fatto un intervento legislativo più coerente e corposo. In questo momento il Parlamento spagnolo sta discutendo una proposta di legge che permette il cambio di sesso solo con l’autorizzazione della persona interessata. Nell’ultimo anno questa legge è stata fortemente osteggiata dalle femministe anti-trans che in parte sono state appoggiate dal partito socialista: la loro tesi è che “l’autodeterminazione del genere” sarebbe una minaccia per le donne. Questa legge nulla ha a che vedere con le disposizioni previste dal ddl Zan in Italia. Regno Unito - È uno dei Paesi dove gli ultimi report delle associazioni parlano di un aumento molto significativo delle denunce per omotransfobia. Seppur nei testi legislativi non sia prevista una definizione chiara di omofobia, il fenomeno ha rilevanza penale nell’ambito dei cosiddetti hate crime (crimini d’odio). Qui il primo intervento legislativo risale al 1998 con il Crime and Disorder Act quando il governo ha introdotto reati d’odio aventi come bersaglio determinate caratteristiche della vittima, come le opinioni o le inclinazioni personali. Ed è stato con il Criminal Justice Act del 2003 che sono state introdotte le aggravanti se la violenza è commessa sulla base dell’orientamento sessuale. L’atto più significativo risale al 2008 quando si è modificato il Public Order Act che “ha ammesso l’aggravante dell’odio fondato sull’orientamento sessuale ed ha equiparato i relativi reati a quelli ispirati dall’odio religioso o razziale”, fatto salve però, “la nozione di hatred on the ground of sexual orientation”, ovvero la formulazione di “opinioni critiche riferite a determinate condotte o pratiche sessuali, oppure le esortazioni a modificare o a non porre in essere tali condotte o pratiche”. La definizione di discriminazioni - Il dibattito in Europa è aperto e solo a marzo scorso la presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen ha dichiarato l’Ue una “free Lgbt zone”. “Una delle tendenze che accomuna gli ordinamenti Ue”, è una delle riflessioni finali dell’avvocata Sangalli nell’analisi comparata fatta per Gaynet, “è quella di non utilizzare termini come omofobia e transfobia che motivano la condotta e che vengono attribuiti all’autore del reato, con tutti i problemi che può comportare sotto l’aspetto della prova, ma piuttosto di enunciare le condizioni personali protette”. E appunto sia l’orientamento sessuale che l’identità di genere”. Alcuni Paesi, inoltre, specificano addirittura che la condizione della vittima può essere “vera o presunta”. E infine, “in tutti la definizione di discriminazione è molto puntuale e le condotte estremamente circoscritte”. Una tecnica, ha concluso Sangalli, che “sui crimini di odio ha il merito di superare la frammentarietà della definizione di discriminazione e che sembra rispondere meglio alla domanda del come rendere realmente efficace la sanzione penale”. In Europa insomma ci si interroga su come migliorare la protezione, l’Italia è ancora bloccata alla domanda se sia necessario farlo. La Cei scrive alla Ue: “Si faccia carico dei bisogni dei migranti” di Francesco Damato Il Dubbio, 26 ottobre 2021 La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, incontrerà presto a Roma il suo omologo turco, Suleyman Soylu, con cui ha parlato ieri al telefono per definire una strategia comune di contrasto alle organizzazioni criminali che sfruttano e alimentano i flussi dell’immigrazione irregolare nel Mediterraneo orientale. Ma se la rotta orientale sarà quella maggiormente sotto pressione nei prossimi mesi, a causa del gran numero di rifugiati che a breve arriveranno dall’Afganistan dopo il ritorno dei Talebani, è la rotta Sud a tenere banco nel dibattito politico, dopo la ripresa degli sbarchi a Lampedusa e l’avvistamento di alcune imbarcazioni in difficoltà nel Canale di Sicilia. Nelle ultime ventiquattro ore a Lampedusa sono sbarcate 116 persone, tra cui 16 donne e 12 minori e tra loro c’erano anche i circa 70 migranti che viaggiavano a bordo di una delle due imbarcazioni in difficoltà segnalata da Alarm Phone. Per tutti, dopo un primo triage sanitario è stato disposto il trasferimento nell’hotspot di contrada Imbriacola, dove si trovano al momento 329 ospiti a fronte di una capienza di 250 posti.Altri migranti sono stati tratti in salvo dalla Geo Barents, nave di Medici senza frontiere che ha a bordo 367 persone in attesa di un porto sicuro. Nella scorsa notte l’ultimo soccorso, con 71 persone trasbordate in mezzo a onde alte tre metri e venti di 25 nodi. Sul tema è tornato anche Papa Francesco, che con un tweet ha acceso i riflettori sulla situazioni libica. “Esprimo la mia vicinanza alle migliaia di migranti e rifugiati in Libia: non vi dimentico mai - ha scritto il Pontefice - sento le vostre grida e prego per voi: sentiamoci tutti responsabili di questi nostri fratelli e sorelle che da troppi anni sono vittime di questa gravissima situazione”. Parole riprese da Giorgia Linardi, portavoce della Sea Watch, secondo la quale “le sue parole sono mosse da empatia, quella che da anni manca alla politica nella gestione dei flussi migratori, se per politica si intende ancora protezione delle persone e non di altri interessi”. Già domenica, nel corso dell’Angelus, Francesco aveva parlato di “violenza disumana” e di “veri lager” in Libia, richiamando l’attenzione della politica e delle istituzioni. Attenzione richiamata anche dalla Cei, in una lettera scritta all’Unione europea. “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare, verbi indicati dal Papa, restano la bussola da seguire per affrontare la questione migratoria e trovare soluzioni adeguate a un dramma che continua a mietere vittime e infliggere sofferenze - sottolinea la Cei - Si tratta di una situazione che non può essere più ignorata”. Nella missiva, i vescovi “auspicano che anche la Comunità internazionale si faccia carico dei bisogni dei migranti e dei profughi, perché nessuno sia più costretto a fuggire dalla propria terra e a morire nei viaggi verso un futuro migliore”. Questo perché “solo ascoltando il grido degli ultimi si potrà costruire un mondo più solidale e giusto per tutti”. Migranti. La nuova emergenza lungo la vecchia rotta dei curdi di Carlo Lania Il Manifesto, 26 ottobre 2021 Migliaia di arrivi in Calabria nelle ultime settimane. In 367 a bordo della nave di Msf. Il maltempo che si è abbattuto implacabile per tutto il giorno non ha fermato i volontari della Croce rossa, che hanno lavorato senza sosta per montare al porto delle Grazie di Roccella Jonica una tensostruttura in grado di ospitare 130 migranti. A decidere l’intervento è stato il prefetto di Reggio Calabria venendo così incontro alle richieste del sindaco della cittadina calabrese investita da una serie i sbarchi senza precedenti con più di settemila migranti arrivati in poche settimane lungo le coste della Regione. E nei prossimi giorni - il tempo necessario a trovare un porto sufficientemente grande e attrezzato - arriverà una nave dove far trascorrere la quarantena a uomini, donne e bambini prima di smistarli nei centri di accoglienza. “Nell’ultima settimana ne sono arrivati 650”, spiega Concetta Gioffrè, la presidente della Croce rossa della Riviera dei Gelsomini. “Gli arrivi dalla Turchia alla Calabria e su Roccella Jonica sono raddoppiati. Negli ultimi giorni ne ospitavamo 300 al giorno, anche nelle nostre tende - prosegue la presidente. C’è una nuova rotta di migrazioni ma se affrontata così non c’è alcuna dignità nell’accoglienza”. La “nuova rotta” tanto nuova in realtà non è, anzi. Negli anni 90 già la percorrevano i curdi in fuga mettendosi nelle mani delle organizzazioni criminali turche. Poi, nel 2010, in seguito agli accordi siglati due anni prima dall’Italia con la Libia del colonnello Gheddafi che portarono alla chiusura per i barconi del Mediterraneo centrale, riprese vita facendo viaggiare soprattutto afghani, iraniani e iracheni. Stesse organizzazioni criminali turche, ma mezzi diversi: lussuose barche a vela e perfino qualche yacht usati per non dare troppo nell’occhio e facendo pagare ai migranti anche 4-5 mila euro per il viaggio. Durò poco. Fino a quando la Guardia costiera non scoprì il trucco osservando la linea di galleggiamento delle imbarcazioni: troppo bassa per avere a bordo solo i quattro o cinque trafficanti che in coperta si fingevano turisti. E infatti le stive erano strapiene di persone. I viaggi sulle barche a vela comunque non sono mai finiti del tutto, ma oggi la vecchia rotta dei curdi sembra aver ripreso un’altra volta vita. A cambiare, di nuovo, sono stati invece i mezzi di trasporto: “Oggi i trafficanti utilizzano pescherecci dove possono imbarcare centinaia di persone, magari facendole pagare di meno rispetto al passato”, spiegano al Viminale. Difficile, almeno per ora, capire invece quali sono i porti di partenza. “Potrebbe essere in Turchia, ma non è escluso che i migranti possano essere imbarcati in Egitto o perfino in Libano”, spiegano sempre al ministero. Proseguono intanto gli attraversamenti del Mediterraneo centrale. I 105 migranti tratti in salvo alcuni giorni fa dalla nave Aita Mari sono stati fatti sbarcare ieri mattina a Trapani, mentre dopo i 100 migranti arrivati domenica al momento nell’hotspot di Lampedusa si trovano 329 persone. Restano invece ancora in attesa di un porto dove attraccare 367 migrati che si trovano a bordo della Geo Barents di Medici senza frontiere. Tra di loro anche 172 minori e molte donne. “Non possiamo aspettare oltre”, hanno avverti ieri i volontari di Msf. “Nelle prossime 48 ore il Mediterraneo centrale e le isole ioniche saranno interessate da perturbazioni cicloniche molto forti con condizioni proibitive per la navigazione”. Polonia, bomba a orologeria. Dietro gli attacchi di Varsavia a Bruxelles di Lucio Caracciolo La Repubblica, 26 ottobre 2021 La Polonia resterà nell’Unione Europea. Ma per riaffermarvi la propria sovranità. Ed ergervisi campione degli Stati membri che escludono il principio della progressiva integrazione continentale. Pattuglia già influente, con tendenza a rafforzarsi. Al netto delle cannonate verbali del premier Mateusz Morawiecki - secondo cui la Commissione europea vorrebbe scatenare “la terza guerra mondiale” per costringerlo a rispettare la superiorità del diritto comunitario su quello nazionale - questo è il senso profondo della partita fra Varsavia e Bruxelles. Il leader polacco ricorre a tanta iperbole contro la minaccia di sanzioni ventilata da Ursula von der Leyen dopo la sentenza del tribunale costituzionale di Varsavia che ha stabilito come alcune disposizioni fissate in sede europea per preservare essenziali princìpi dello Stato di diritto siano incompatibili con la Carta nazionale. Sicché Bruxelles potrebbe vincolare il versamento dei 36 miliardi di euro previsti dal piano di emergenza anti-Covid e di altri consistenti fondi annuali alla disponibilità di Varsavia ad adeguarsi al canone comunitario. In gioco è il senso stesso dell’Unione Europea come sigillato dall’europeismo classico. L’allargamento dell’Ue ai Paesi dell’ex impero sovietico si svela bomba a orologeria installata nel cuore della macchina comunitaria. Destinata a incepparla. Come immaginare che Stati appena tornati alla sovranità nazionale s’industrino a ricederla serenamente a un’entità sovranazionale concepita e diretta dai suoi soci fondatori, Germania e Francia in testa? I quali, com’è naturale, l’utilizzano per proteggere i propri interessi, vestendoli dei colori europei. Sempre rifiutando di esplicitarne l’obiettivo finale, in modo che non emerga la divergenza che li oppone al riguardo. In questa divaricazione strategica risiedono i deficit di democrazia che affliggono legittimità ed efficacia dell’Unione Europea. Risultato: l’obiettivo finale è di non averlo. Il caso polacco è rivelatore. Una volta emancipata dalla morsa di Mosca, Varsavia si è autocertificata geopoliticamente occidentale. In due tappe: adesione alla Nato prima (1999) e all’Ue poi (2004). Tempistica non casuale. La Polonia è entità storicamente reversibile, compressa fra Germania e Russia. Dunque insicura. Ha quindi bisogno della protezione americana. Washington ne è consapevole e approva. Tanto da farne la punta di lancia dello schieramento atlantico in funzione anti-russa. Allontanandola dalla “Vecchia Europa” neogollista o sottilmente neutralista. Ma Varsavia necessita dei finanziamenti assicurati dai fondi di coesione Ue per completare la ristrutturazione dell’economia. Operazione finora gestita con notevole successo, dimostrando che i soldi europei, se spesi bene, funzionano eccome. Paradosso vuole che noi italiani, non proprio esemplari nell’impiego dei fondi comunitari, siamo stati fra i primi a spiegarne le virtù e svelarne i meccanismi ai polacchi. Quasi nove polacchi su dieci, “sovranisti” compresi, non vogliono lasciare l’Unione Europea. Non per amore ma per denaro. E siccome nessuno può né vuole davvero cacciarli, ci resteranno. A modo loro. Certo la Polonia sconta, come altri Paesi dell’ex universo comunista, lunghi decenni di esperienza autoritaria. Sommiamo a questa eredità l’insicurezza geopolitica, il declinante fascino del modello democratico occidentale, le pulsioni autarchiche e securitarie scatenate dal virus, ed ecco illustrata la rinnovata vocazione “sovranista” a Varsavia. Come nell’ex blocco dell’Est, e non solo. Prepariamoci a vivere pericolosamente il futuro prossimo. Con i diversi soggetti europei arroccati sul proprio interesse immediato. E raggruppati in variabili allineamenti disegnati da tale percepito interesse. Così è anche se non ci pare. Iran. Sesta data di esecuzione per un minorenne al momento del reato di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2021 L’appuntamento col boia era previsto il 20 ottobre, ma è stato annullato all’ultimo minuto. Era già successo il 16 e il 13 ottobre e, prima, nel giugno di quest’anno e nel luglio 2020. Dalla cella condivisa all’isolamento, poi di nuovo in cella, ancora in isolamento e così via. L’esecuzione di Arman Abdolali, condannato a morte in Iran per un omicidio che avrebbe commesso a 17 anni d’età, è ora prevista dopodomani, mercoledì 26 ottobre. Abdolali è stato condannato a morte nel dicembre 2015 al termine di un processo irregolare basato su confessioni estorte sotto tortura. Secondo il verdetto del tribunale, nel 2014 l’imputato avrebbe ucciso la fidanzata facendone sparire il corpo, dimostrando in questo modo di avere la “maturità mentale” per comprendere la natura e le conseguenze del reato commesso. La sentenza è stata confermata dalla Corte suprema nel luglio 2016 non tenendo conto del fatto, pur emerso nei processi di primo e secondo grado, che Abdolali era stato tenuto in isolamento per 76 giorni e ripetutamente picchiato affinché firmasse una “confessione”. Poi, nel febbraio 2020, la Corte suprema è tornata sui suoi passi ordinando un nuovo processo, conclusosi con una seconda condanna a morte. Il tribunale ha ammesso che, essendo trascorsi tanti anni, non era possibile stabilire la “maturità mentale” di Abdolali ma che, in assenza di prove del contrario, questa doveva essere data per assodata. L’Iran è uno dei pochi paesi al mondo che continua ad applicare la pena di morte nei confronti dei rei minorenni. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione sui diritti dell’infanzia, di cui la Repubblica islamica iraniana è firmataria, vietano l’uso della pena di morte per reati commessi da una persona di età inferiore ai 18 anni. Ma oltre ad Abdolali, nei bracci della morte dell’Iran ci sono altre 80 persone nella sua situazione. *Portavoce di Amnesty International Italia Golpe in Sudan, i militari si riprendono tutto il potere di Marco Boccitto Il Manifesto, 26 ottobre 2021 Azzerata la componente civile del governo di transizione, agli arresti il premier Hamdok. Il generale al Burhan impone lo stato d’emergenza e tira dritto. Proteste, scontri e morti nelle strade La protesta nelle strade di Khartoum ieri, dopo l’annuncio del generale al Burhan. Un nuovo colpo di mano dei militari scuote il Sudan e agita le cancellerie mondiali, con particolari preoccupazioni per quel che ora potrà accadere nelle strade, oltre che nei palazzi del potere, con l’azzeramento della componente civile del governo di transizione nato due anni fa, dopo la destituzione di Omar al Bashir. Ieri mattina sono finiti agli arresti il primo ministro Abdalla Hamdok, trasferito con la moglie in una località ancora misteriosa, il ministro dell’Industria Ibrahim al Sheikh, quello dell’Informazione Hamza Balou, il consigliere per i Media del premier, Faisal Mohammed Saleh e altri. Nell’elenco figura anche il portavoce del Consiglio sovrano, Mohammed al Fiky Suliman, membro civile di questo organo collettivo con funzione di capo di Stato, formato da 5 civili, 5 militari e un presidente “alternato”, che in base agli accordi a breve avrebbe dovuto cambiare di segno, con il passaggio della poltrona di presidente dal generale Abdel Fattah al Burhan a un civile. E invece. È stato proprio al Burhan ad annunciare ieri in tv lo scioglimento di governo e Consiglio, insieme alle misure classiche di un golpe militare: stato d’emergenza, Costituzione sospesa, aeroporti chiusi, capitale sigillata, telefoni silenziati e web oscurato. Con la risibile assicurazione che un nuovo governo, composto da persone “competenti”, arriverà presto per portare il Paese alle elezioni e ripristinare l’ordine democratico. Abbastanza perché le Forze per la libertà e il cambiamento (Fcl), la coalizione eterogenea della società civile e dell’ex opposizione che da due anni tiene testa ai militari nella guida del Paese, chiamassero la gente in strada a difesa di quel che rimane dello loro rivoluzione. In prima fila i medici e le altre associazioni professionali che furono già anima del movimento a cui si devono sia la fine del trentennale potere di al Bashir, con una lunga serie di manifestazioni sfociate spesso nel sangue, sia i risultati del difficile negoziato condotto all’indomani con i militari. Le forze di sicurezza hanno represso le proteste con gas lacrimogeni e proiettili. Nella capitale Khartoum e nella città gemella di Omdurman fonti mediche parlano di almeno 3 morti e 80 feriti. Ma resta difficile verificare, con il black out delle comunicazioni in atto. Senza contare che un mese fa si era parlato di un tentativo fallito di colpo di stato da parte degli apparati dell’esercito ancora legati ad al Bashir, preoccupati forse dalle pressioni crescenti per la consegna dell’ex presidente alla Corte penale internazionale, i segnali che qualcosa stava per accadere erano già evidenti da almeno una settimana, con manifestazioni di segno opposto nelle strade e crescenti tensioni all’interno del governo. Anche sotto l’ombrello comune delle Flc si è consumata la frattura tra chi continuava a difendere l’esecutivo così com’era e chi era tornato in strada ancora venerdì scorso, al termine della preghiera, per invocare una soluzione come quella adottata ieri dai militari. Prendendo a pretesto una crisi economica che malgrado gli sforzi e le mosse anche spregiudicate per riportare gli investimenti internazionali nel Paese non ha mai smesso di mordere. Cala così il sipario sull’esperienza travagliata del governo Hamdok, che all’epoca, di fronte alla prospettiva di una transizione gestita esclusivamente dai generali era sembrata una vittoria della società civile, che non voleva farsi scippare l’esito di una mobilitazione costata sacrifici e vite umane. Ieri sono piovute unanimi le condanne sul golpe, in testa Usa, Cina, Unione europea, Lega araba e Unione africana. Con l’invito rituale quanto surreale, per come si sono messe le cose a Khartoum, a riprendere il dialogo.