Pena “giusta” per un giusto processo di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 25 ottobre 2021 Un obiettivo arduo da raggiungere: al di là dei criteri teorici, nella realtà la commisurazione della pena risulta spesso oscura e poco comprensibile, condizionata da fattori emotivi. Il caso Lucano e il paradosso di Sciascia. In un messaggio inviato a un convegno dell’Anm di metà ottobre, il presidente della Repubblica ha affermato che occorrono un profondo processo riformatore e, nel contempo, una rigenerazione etica e culturale della magistratura. Aggiungendo: “L’indipendenza della magistratura è un elemento cardine della nostra società democratica e si fonda sull’alto livello di preparazione professionale, che va accompagnata dalla trasparenza delle condotte personali e dalla comprensibilità dell’azione giudiziaria”. Ritengo che queste parole siano meritevoli di attenzione in particolare per il riferimento, meno consueto, all’esigenza che l’azione giudiziaria risulti “comprensibile” da parte dei cittadini. Mattarella la ha esplicitata alludendo, verosimilmente, a casi più o meno recenti di sentenze percepite come ingiuste o poco convincenti da parte del pubblico e anche di alcuni settori del mondo politico-giornalistico. Pensiamo ad esempio alla vicenda processuale dell’ex sindaco Mimmo Lucano, commentata anche su queste colonne (cfr. l’articolo di Adriano Sofri del 1° ottobre scorso). È sperabile che la futura conoscenza delle motivazioni della sentenza di primo grado consenta di ben comprendete le ragioni poste a fondamento della condanna. Ma, a prescindere da questa aspettativa di chiarimento, l’aspetto più sconcertante riguarda - come da più parti si è rilevato - il sorprendente divario tra la pena richiesta dalla pubblica accusa (7 anni e 11 mesi) e quella applicata dal tribunale (13 anni e due mesi): praticamente una pena detentiva raddoppiata. Come mai? Questo interrogativo solleva una questione tecnicamente complessa, che ben trascende il caso Lucano e che rinvia appunto ai criteri in base ai quali i giudici di volta in vota determinano la pena concreta da applicare agli autori di reato. La questione è tale che qui, anche per limiti di spazio, non può essere affrontata in tutta la sua complessità. In estrema sintesi, do per scontata una premessa: è impossibile individuare con certezza e, dunque, calcolare con precisione la pena davvero “giusta” in rapporto a ogni singolo caso. Viceversa, è di solito più facile fare - sia pure con una certa approssimazione - esperienza del contrario, cioè percepire i possibili casi (tanto più se macroscopici) di pena “ingiusta”, di pena cioè sproporzionata per eccesso o per difetto rispetto alla gravità del reato commesso. Ciò premesso, è pur vero che non mancano criteri “teorici” di commisurazione della sanzione penale, elaborati in sede dottrinale con pretese di scientificità e con ritenuto ancoraggio costituzionale. Ma purtroppo, anche su questo terreno, tra professori di diritto e giudici esiste nel nostro paese più divorzio che concordanza, per cui la prassi giudiziaria tende ad adottare orientamenti suoi propri, ma con una aggravante: cioè pubblici ministeri e giudici sono soliti dedicare alla pena e alla sua concreta determinazione un livello di attenzione e uno spazio argomentativo assai ridotti, e non di rado essi si limitano a pochi accenni riproponendo pigre formulette di stile che fanno sintetico richiamo dei criteri indicati nell’art. 133 del codice penale. Così stando le cose, la commisurazione giudiziale della pena finisce, nella prassi concreta, non solo col risultare oscura o poco trasparente, ma pure col risentire di fattori anche emotivi di condizionamento - connessi alla sensibilità personale del singolo giudicante - che sfuggono a un controllo razionale e che prescindono, altresì, dal fare riferimento alla finalità rieducativa che la Costituzione espressamente assegna alle sanzioni penali. Ora, a maggior ragione perché sembra in ogni caso ineliminabile dal punire una qualche componente di irrazionalità, è mia opinione che i gestori della Scuola della magistratura di Scandicci dovrebbero tentare di promuovere un mutamento di atteggiamento culturale nei giudici riservando in maniera stabile, nell’ambito delle principali attività formative, un adeguato spazio al tema della pena e della sua commisurazione giudiziale tra teoria e prassi. Un altro caso controverso, caratterizzato anch’esso da un (quasi) raddoppio della sanzione detentiva inflitta dal tribunale (cinque anni) rispetto a quella richiesta dall’accusa (due anni e qualche mese), è quello relativo al rimpatrio nel 2013 della moglie e della figlia del dissidente politico kazako, e al tempo stesso banchiere ricercato per reati finanziari, Mukhtar Ablyazov: rimpatrio qualificato dal tribunale di Perugia, con enfasi drammatizzante, “sequestro di persona di eccezionale gravità”, addirittura un “rapimento di Stato”, di cui sono stati dichiarati responsabili - in concorso con altri - due valorosi e apprezzatissimi dirigenti di polizia come Renato Cortese e Maurizio Improta (l’inizio della fase di appello è previsto per il prossimo gennaio). Ma, al di là del rigore sanzionatorio, in questa vicenda appaiono a monte più che dubbi i presupposti, sia in fatto sia in diritto, che hanno indotto a emettere una condanna a titolo appunto di sequestro di persona (per di più, con aggiunta di ipotesi di falsità ideologica). La relativa motivazione scritta, disponibile dal gennaio di quest’anno e articolata in 283 pagine, mostra infatti una quantità sorprendente di punti deboli, già puntualmente evidenziati in sede tecnica (cfr. i rilievi critici di F. Galluzzo in Penale. Diritto e procedura, 7/9/2021) e, altresì, a livello giornalistico persino in qualche quotidiano di tendenziale vocazione manettara (cfr. l’articolo di A. Massari nel Fatto quotidiano del 13 aprile 2021). Come spiegare questa netta divergenza tra enfasi criminalizzatrice e debolezza motivazionale? A voler essere un poco maliziosi, si potrebbe anche supporre che l’estremismo retorico nell’etichettare la gravità dei fatti contestati serva a coprire la mancanza o insufficienza di valide argomentazioni giuridiche a sostegno della condanna. Comunque sia, il tribunale ipotizza scenari e impiega un lessico che alludono a disegni criminosi di portata internazionale, con conseguente (presunto) generico asservimento del governo italiano a quello del Kazakistan e connessa complicità dei due rinomati dirigenti di polizia di cui sopra: tutto questo senza, però, minimamente riuscire ad ancorare le suggestive ipotesi complottistiche a concreti riscontri dotati di precisa e univoca valenza probatoria. Insomma, sembrerebbe questo un altro caso emblematico di poco controllato utilizzo giudiziale del paradigma del complotto, per qualche verso analogo - mutatis mutandis - a quello ben più celebre del processo palermitano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, tornato di attualità grazie alla recente sentenza di appello che ha quasi del tutto ribaltato la condanna in primo grado. Sui possibili motivi che spingono innanzitutto i pubblici ministeri a sospettare complotti come chiavi di lettura di vicende giudiziarie complicate che fuoriescono dalla fisiologia giudiziaria, mi sono soffermato in un precedente articolo cui rinvio (cfr. il Foglio del 7 aprile 2021). Mi limito qui a rilevare che, per quanto si sia anche sostenuto che è la forma mentis dell’inquisitore a inclinare da sempre verso la paranoia, altra cosa è che una eventuale inclinazione simil-paranoide della pubblica accusa venga assecondata da un organo giudicante eccessivamente condiscendente e compiacente, e perciò assai poco “terzo” rispetto all’impostazione accusatoria. È per questo che mi chiedo - tra l’altro - se non sarebbe opportuno che sempre la Scuola della magistratura includa nei piani di formazione professionale anche corsi, da affidare a esperti di psicologia scientifica e di scienze cognitive, destinati a spiegare i meccanismi mentali (anche inconsci o subconsci) che stanno alla base delle “precomprensioni”, dei pregiudizi e delle trappole cognitive, che - come nel caso di un poco meditato o affrettato uso del paradigma del complotto, ma il discorso ha una portata più generale - rischiano di inficiare l’interpretazione e l’accertamento probatorio dei fatti oggetto di giudizio. Tutto ciò premesso, è forse superfluo esplicitare che l’esigenza di “comprensibilità” dell’azione giudiziaria, mentre di certo comporta interpretazioni giudiziali per quanto possibile vicine al senso comune, non può invece equivalere alla pretesa che i giudici decidano soltanto in base alle aspettative della pubblica opinione. Come ha lucidamente rilevato Leonardo Sciascia in anni ormai lontani, in proposito il tormentoso punto nodale è costituito dal “paradosso - doloroso per quanto sia - che non si può giudicare tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”. Cercare di conciliare la duplice e contraddittoria esigenza di controllare razionalmente le pulsioni punitive (o i pregiudizi innocentisti) del pubblico e l’esigenza di emettere sentenze non troppo lontane dalle aspettative popolari (o delle stesse vittime), è pertanto un problema che può essere affrontato, non senza dilemmi e incertezze, da caso a caso. Sapendo, però, in anticipo che non sempre risulterà possibile rinvenire accettabili e, soprattutto, condivisi punti di equilibrio. Presunzione d’innocenza, qualcosa (forse) è cambiato di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2021 Stavolta i pm non hanno la forza di sfidare l’altolà alle indagini-spettacolo. Le nuove norme impongono ai magistrati, di non presentare gli indagati, e persino gli imputati già rinviati a giudizio, come colpevoli. Ecco le novità. Conta il clima. Il contesto. Non che le regole vengano dopo. Ma sperare che cambi qualcosa, con l’arrivo della presunzione d’innocenza “codificata”, sarebbe da ingenui, se non si confidasse anche un mutamento storico. A breve, l’8 novembre, il governo dovrà emanare in via definitiva il decreto legislativo che dà “compiuta attuazione” alla direttiva “garantista” dell’Ue - atto di indirizzo comunitario divenuto ormai celebre quasi quanto la Bolkestein, al punto che deputati e dirigenti di partito ne mandano a memoria le coordinate: direttiva (UE) 2016/343. Ma cosa cambierà? Anzi: cambierà qualcosa? Sì, se si considera il quadro completamente nuovo in cui agisce il provvedimento. Altrimenti ci sarebbe ben poco da sperare. Nei giorni scorsi, in particolare con il voto “stereofonico” del 20 ottobre nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, il Parlamento ha espresso il proprio parere sul testo con cui il Consiglio dei ministri e la guardasigilli Marta Cartabia intendono attuare la direttiva. Una valutazione favorevole ma con alcune condizioni, alcune più formali (come l’obbligo di motivazione per il procuratore capo che convoca o autorizza conferenze stampa), altre più sostanziali (come l’esclusione di conseguenze nefaste, in termini di pena o di diritto all’ingiusta detenzione, per l’indagato che si avvale della facoltà di non rispondere). Dietro il pronunciamento di Montecitorio e Palazzo Madama vanno ricordati due attori protagonisti: il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, deputato che già un anno fa provò a sollecitare il recepimento della direttiva, e il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, senza il quale le perplessità dei 5 Stelle avrebbero dato luogo a uno psicodramma di maggioranza: è di Sisto la mediazione che ha consentito il via libera concorde dall’intera maggioranza al parere preparato da Costa (in qualità di relatore) e da lui condiviso con il relatore al Senato, Andrea Ostellari della Lega. Ecco, la geografia è chiara, i meriti vanno ascritti e lo si è appena fatto. Non basta però a chiarire l’impatto del decreto prossimo venturo. Non basta soprattutto perché le norme appena discusse alle Camera si inseriscono in un tessuto normativo preesistente di cui è emersa, in 15 anni di vigenza, tutta la disarmante inefficacia. Si tratta del decreto legislativo 106 del 2006 e, per una piccola parte, di un altro provvedimento di attuazione, collegato, come il primo, alla cosiddetta riforma Castelli dell’Ordinamento giudiziario, il decreto legislativo 109 sempre del 2006. Ebbene, in quelle disposizioni già erano previsti limiti piuttosto chiari alla “mediaticità” dei pm. Fossero stati osservati alla lettera, quei limiti, negli ultimi tre lustri i cronisti di giudiziaria avrebbero affollato le liste di disoccupazione. Ma non è che le norme in questione abbiano avuto un’attuazione modesta, controversa, limitata, no: è come se non fossero mai esistite. Acqua fresca scivolata via dalla fonte del legislatore alla foce del processo mediatico, come un “placido Don” dell’ordinamento. Tanto per essere chiari, le norme tuttora vigenti (e che il decreto sulla presunzione d’innocenza discusso in Parlamento semplicemente integra) impongono, nell’ordine, le seguenti incredibili limitazioni ai rapporti fra pm e giornalisti. - La “impersonalità” della comunicazione giudiziaria, nel senso che, per citare testualmente la norma (che ha forza di legge primaria, forse è il caso di ricordarlo), “ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento” (decreto legislativo 106 del 2006, articolo 5 comma - A trattare con i cronisti deve essere il procuratore capo o un altro pm dietro delega del dirigente (dlgs. 106 del 2006, articolo 5 comma 1; e qui un po’ di maglie larghe erano forse state lasciate dall’estensore, perché non è chiarissimo se la delega debba essere conferita in modo stabile e per un tempo minimo o se la si possa rinnovare di volta in volta, anche ogni giorno, a seconda delle indagini da comunicare all’esterno). - Il divieto per tutti gli altri pm che non fossero stati delegati, appunto, dal loro capo a dare notizie ai giornalisti (dlgs. 106 del 2006, articolo 5 comma 3). Non ci credete? Vi riportiamo la lettera della legge: “È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio”. - Il potere-obbligo di vigilanza del procuratore sui propri sostituti che pur non delegati da lui si rivelassero indebitamente generosi nel ragguagliare la stampa (dlgs. 106 del 2006, articolo 5 comma 4). Il che vuol dire che il pm responsabile di aver violato il riserbo con qualche cronista può rischiare sia conseguenze sulle valutazioni di professionalità, di cui è competente il Consiglio giudiziario, sia sanzioni disciplinari (recita infatti quel comma che “il procuratore della Repubblica ha l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”). - E visto che le norme, sulla carta, erano fin troppo puntuali - almeno a fronte della inosservanza di cui sono state oggetto -, nell’altro decreto legislativo emanato nel2006 in attuazione della riforma Castelli, il ricordato 109 recante il codice disciplinare delle toghe, è sancito che costituiscano illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni del magistrato “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui”. Il che praticamente vuol dire che, seppur in termini assai generici, il nuovo decreto sulla presunzione d’innocenza era già stato anticipato 15 anni fa: nella disposizione appena citata sembra infatti potersi ricomprendere l’abuso del magistrato che dà del colpevole all’indagato, e ne “lede” così il diritto alla presunzione di non colpevolezza stabilito addirittura dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Non è un caso che l’onorevole Costa, a supporto delle proprie giustissime tesi, abbia voluto inserire il richiamo al decreto legislativo 109 nel parere approvato mercoledì scorso in Parlamento. - Tanto per completare il divertente quadro, sempre secondo l’articolo 2, comma 1, lettera v) del dlgs. 109/2006, scatta l’illecito disciplinare anche per la “violazione del divieto di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”, cioè appunto per i pm che infrangono il ricordato divieto di parlare coi media se non delegati dal procuratore capo. Perché stavolta è diverso - Ecco, la retrospettiva è lunga. Ma è anche necessaria. Dalla smaccata inosservanza delle regole già in vigore da 15 anni si può dedurre il resto del discorso. E rispondere al quesito iniziale: come sarà possibile che, se non sono state di fatto rispettate le regole più generali in cui le nuove dovranno incastrarsi, il decreto in via di emanazione venga invece rispettato? La risposta è semplice e poco tecnica. È una risposta politica. Le nuove norme impongono alle autorità pubbliche, dunque innanzitutto ai magistrati, di non presentare gli indagati, e persino gli imputati già rinviati a giudizio, come colpevoli, fino a che non sopraggiungesse una condanna definitiva. Solo i pm possono parlare di “colpevolezza” (articolo 4, comma 1, lettera a, punto 2 del nuovo decreto sulla presunzione d’innocenza) nei provvedimenti volti appunto ad argomentarla, in modo da ottenere dal gip la concessione di misure cautelari o dal gup il rinvio a giudizio. Ma devono farlo con sobrietà. Testualmente, con le sole “indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Insomma, si tratta di mettere fine allo svillaneggiamento sistematico operato da inquirenti e investigatori (i limiti del provvedimento appena esaminato dalle Camere valgono pari pari anche per la polizia giudiziaria) nei confronti delle persone accusate. E tali limiti, attenzione, sono imposti, per legge, non dal nemico Silvio Berlusconi come nel 2006 (per il tramite di un ministro a lui vicino, l’allora guardasigilli leghista Roberto Castelli), ma da un governo in cui titolare della Giustizia è un’irreprensibile presidente emerita della Consulta, Marta Cartabia, e da una coalizione che comprende pure gli ex nemici del Cav, il Pd, e i nemici della casta, il M5S.E, ancora, tale richiesta di sobrietà è avanzata e imposta, con forza di legge, in capo a una magistratura colpita dal clamore di casi che vanno da Palamara ad Amara; e che perciò ha perso parte della propria autorevolezza, come ricorda il Capo dello Stato Sergio Mattarella; e che ha perciò meno possibilità di opporsi. In altre parole, adesso la politica è nelle condizioni di esigere il rispetto delle norme, e di reagire alla loro eventuale mancata osservanza. Mentre la magistratura non è più così forte presso l’opinione pubblica da potersi permettere di sfidare la controparte, e soprattutto le leggi dello Stato. Ecco i segreti di un possibile successo del decreto sulla presunzione d’innocenza. Che introduce semplicemente, nel decreto legislativo 106 del 2006 e in un paio di articoli del codice di procedura penale, il richiamo al rispetto della presunzione d’innocenza. Uno dei pochi contenuti totalmente inediti del provvedimento di questi giorni è il nuovo articolo 3-ter da inserirsi sempre nel vecchio articolo 5 del decreto legislativo 106/2006: “Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 2-bis e 3-bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Non a caso l’onorevole Costa avrebbe voluto introdurre la norma già nella riforma del processo penale. E non a caso in questa edizione del Dubbio troverete un ampio amarcord sui vecchi e suggestivi titoli appioppati alle inchieste negli anni addietro. Ecco, già veder scomparire quelle apodittiche e sfrontate presunzioni di colpevolezza proclamate, nei nomignoli dati alle indagini, da pm e polizia potrebbe autorizzarci a dire che sì, in effetti, qualcosa è cambiato. Da Mafia Capitale a Geenna, così lavorano i titolisti delle procure di Simona Musco Il Dubbio, 25 ottobre 2021 I nomi delle indagini non solo evocano i reati ipotizzati ma, a volte, hanno più successo e più effetti dell’intera inchiesta. Ora potrebbero sparire per sempre. Super evocativi. In alcuni casi “sentenze anticipate”, dice chi, come Marco Scarpati, è uscito pulito da un’inchiesta che ancora lo perseguita, con tanto di minacce di morte online e sguardi storti dei passanti. Sono i nomi delle indagini, spesso frutto di fantasia, giochi di parole che evocano i reati ipotizzati ma che, a volte, hanno più successo e più effetti più dell’intera inchiesta. E ora, con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, potrebbero sparire per sempre. Per Enrico Costa, deputato di Azione e viceministro della Giustizia durante il governo Renzi, l’ansia di trovare un nome in grado di rimanere impresso nella memoria, capace di riassumere in sé le accuse e anche i giudizi su chi capita nelle maglie della giustizia, si tratterebbe di una vera e propria forma di “marketing giudiziario”. “Il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali - ha scritto recentemente in un intervento sul Foglio -. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico”. Di esempi ce ne sono a centinaia. Il più famoso di tutti è, senz’altro, “Mani Pulite”, inchiesta che cambiò le sorti politiche dell’Italia e che contribuì a creare quell’immagine della toga moralizzatrice e giustiziera alla quale molti giovani laureati in giurisprudenza si ispirarono pensando ad un futuro in magistratura. Quell’inchiesta deve il suo nome ad una risposta data dal deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata al Mondo nel 1975: “Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non le abbiamo mai messe in pasta”. E come se non bastasse il nome scritto sul fascicolo in mano al famoso pool milanese, anche la stampa ci mise del suo, coniando un nuovo termine con il quale identificare l’inchiesta: Tangentopoli. Ma il ruolo dei media non si limitò a questioni di etichetta: quell’indagine si trasformò in un vero e proprio evento mediatico e la stampa contribuì ad affossare i partiti della Prima Repubblica. Le notizie sulle indagini riguardanti politici e manager arrivavano nelle redazioni a ritmo incessante. In quel periodo verificare le notizie, oltre a non essere mai stato definito esplicitamente come un obbligo dei giornalisti, era particolarmente difficile proprio per i ritmi serrati. Fu un’epoca di grandi eccessi, ammessi dalla stessa categoria giornalistica, e di grandi dibattiti nelle redazioni sull’opportunità di pubblicare o meno, in un regime di concorrenza spietata, notizie non accuratamente verificate. Il caso esplose quando il deputato socialista Sergio Moroni e il manager dell’Eni Gabriele Cagliari si suicidarono. In una lettera indirizzata al presidente della Repubblica e scritta poco prima del suicidio, Moroni etichettò come un’ingiustizia il fatto che “una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie”. A Roma l’inchiesta col nome più evocativo è forse quella relativa al “Mondo di Mezzo”, al quale veniva contestata una mafiosità alla fine smentita dai tribunali. La sentenza di Cassazione, nel 2019, ha infatti certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura, cioè quell’associazione di stampo mafioso che, con violenza, si è occupata di usura, riciclaggio, corruzione mettendo le mani su attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. Una “mafia costruita” secondo Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati assieme all’ex Nar Massimo Carminati, cui si deve il nome dell’inchiesta: “È la teoria del mondo di mezzo, compà - si sente dire durante un’intercettazione. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo”. Ma per i giudici, la teoria investigativa che ha di fatto cambiato le sorti della politica capitolina, spianando la strada all’ascesa del M5S al grido “onestà”, non ha trovato riscontri. “I risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa”, si legge nelle motivazioni della sentenza. A svelare l’esistenza della ‘ndrangheta in Val d’Aosta è l’inchiesta “Geenna”. Un nome di una potenza incredibile, se si pensa che tale termine significa letteralmente inferno. Si tratta della valletta scavata dal torrente Hinnom sul lato meridionale del monte Sion, maledetta dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di sacrificare i bambini dopo averli sgozzati. La valle divenne quindi una discarica e “cimitero” per le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti, che venivano bruciati. Insomma: in quella valle, laddove la ‘ndrangheta aveva preso piede, tutto era da considerare maledetto, stando al nome dell’inchiesta. Ma lì in mezzo, tra gli arrestati e i processati, c’è anche gente come Marco Sorbara, ex consigliere regionale, assolto a luglio scorso dall’accusa di essere un concorrente esterno alle cosche. Per lui “il fatto non sussiste”, ma prima che ciò venisse provato ha dovuto trascorrere 909 giorni in custodia cautelare. Insomma, un inferno il suo, quello per davvero. Una sofferenza tale da pensare anche al suicidio: “Dopo due settimane ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo - ha raccontato al Dubbio -. Perché non aveva più senso la mia vita”. Per un innocente, ha sottolineato, “anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso”. L’indagine sugli affidi in Emilia Romagna ha rappresentato un altro buco nero per la politica e l’informazione italiane. Una vicenda iniziata nel 2018 - a giorni il gup si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio - che ha fatto irruzione sulla campagna elettorale per le regionali in Emilia provocando un vero e proprio dispiegamento di forze contro il Pd, reo, in quell’occasione, di avere tra i propri tesserati un sindaco indagato, anche se per fatti non legati agli affidi dei minori. Era il sindaco di Bibbiano, paese che all’improvviso si ritrovò sconvolto e sulla bocca di tutti, complice anche la stampa, che ribattezzò l’indagine dandole il nome del piccolo centro emiliano. M5S e Lega, ai tempi insieme al governo, piombarono lì, scatenando una vera e propria tempesta mediatica contro il Partito democratico e dando il là ad una campagna discriminatoria contro gli assistenti sociali, da quel momento in poi minacciati, inseguiti e screditati. Tra gli indagati anche Scarpati, tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, docente universitario, consulente per diversi governi e autore di libri sul tema, finito nell’inchiesta con l’accusa di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza e per singoli incarichi per la difesa di minori. Fu la stessa procura a chiedere e ottenere la sua uscita di scena dall’inchiesta più mediatizzata degli ultimi anni, ma nonostante ciò gli effetti della macchina dell’odio continuano. “Qualche giorno fa, davanti al tribunale, un uomo, passandomi vicino, ha sputato per terra insultandomi - raccontò al Dubbio a gennaio dello scorso anno. E tutto questo è spaventoso”. Fu lui a chiarire quanto il nome di quell’inchiesta incidesse sulla percezione della vicenda nell’opinione pubblica: “Quel nome è una follia - spiegò ancora. Chi chiama un’inchiesta con quel nome sta già emettendo una sentenza. Io sono figlio di un poliziotto, orgoglioso di esserlo. E mio padre mia ha sempre detto una cosa: ricordati che quando arresti una persona gli hai tolto la libertà, il bene supremo. E non devi togliergli altro, come la dignità, perché quell’uomo è un tuo prigioniero. Mio padre è stato prigioniero per anni durante la guerra e ricordava perfettamente cosa volesse dire. Ora non ti tengono più prigioniero, cercano di toglierti la libertà. Io faccio l’avvocato e l’idea che qualcuno pensi a togliere la dignità ad una persona sottoposta ad indagini è inaccettabile”. Il nome “Spes contra spem”, dato ad un’indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria, non è soltanto evocativo. La locuzione latina di San Paolo, che significa “la speranza contro la speranza”, è “la storia di Caino sul quale il Signore pose un segno perché nessuno lo toccasse che, nella stessa vita, divenne finanche costruttore di città”, spiegò in una nota l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Che accusò l’antimafia dello Stretto di aver usurpato le parole di San Paolo, violentandole. L’inchiesta racconta di come il boss Pasquale Zagari di Taurianova, tornato in libertà dopo trent’anni di reclusione, avrebbe tentato di riprendere il controllo del territorio. Ma per l’associazione, l’utilizzo di quel termine rappresenta quasi uno smacco all’attività di chi si impegna a garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, veniva evidenziato come Zagari, dopo esser ritornato in libertà, “aveva avviato un apparente percorso di riabilitazione sociale, partecipando a dibattiti, convegni e incontri, come testimone di redenzione, pentendosi del suo passato criminale, e contro l’ergastolo ostativo, in ultimo a Taurianova, nel settembre 2020”. Ovvero quando Nessuno tocchi Caino si trovava in Calabria per la presentazione del libro “Il viaggio della speranza”: il racconto del Congresso di Opera che ha celebrato la sentenza Viola contro Italia della Corte Edu. “Spes contra spem” è l’archetipo antropologico della nostra civiltà - scriveva l’associazione in una nota. Ridurlo a un’operazione repressiva è un sacrilegio nel senso etimologico: si porta via qualcosa di sacro, per credenti e non, di inviolabile. Si chiudono porte e finestre, nel nome della diffidenza e della paura. Non è ironia, che per Calvino è sempre “annuncio di un’armonia possibile”. È maltolto che, presto o tardi, va sempre restituito”. Intercettazioni, contratti secretati. Il Copasir ora chiede chiarezza di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 ottobre 2021 L’ordinamento italiano è tra i maggiori utilizzatori di tali strumenti, ma risultano registrati alla Corte dei Conti solo quattro accordi di noleggio per i sistemi “spia”. Le Procure della Repubblica “sfuggono” al controllo preventivo di legittimità dei contratti. Nel 2020, ad esempio, risultano registrati alla Corte dei Conti solo quattro contratti di noleggio per sistemi di intercettazioni. E tutti, per altro, relativi ad un’unica sede di tribunale. Un dato che stride con la “ponderosa attività delle Procure (140, ndr) in merito all’impiego di sistemi di intercettazione che vede l’ordinamento italiano tra i maggiori utilizzatori di tali strumenti”. A rilevarlo è stato il Copasir, presieduto dal senatore Adolfo Urso (Fd’I), che ha analizzato la relazione della Sezione centrale per il controllo sui contratti secretati della Corte dei conti. “Si evidenzia una zona grigia di atti che le Amministrazioni o gli Enti non inviano alla Sezione in nessuna fase del controllo o ritirano se oggetto di osservazioni. I contratti senza visto e registrazione della Sezione non sono efficaci ma la Sezione stessa non dispone di poteri che possano far emergere ciò che non viene a sua conoscenza”, affermano i relatori del documento, il senatore Francesco Castiello (M5S) e l’onorevole Elio Vito (FI), depositato questa settimana. Il codice dei contratti pubblici ha demandato alla Corte dei conti le attività di controllo preventivo sulla legittimità e sulla regolarità dei contratti secretati e un controllo successivo sulla regolarità, correttezza ed efficacia della gestione. Sulla questione dei contratti secretati, in particolare, il Copasir nelle scorse settimane ha svolto le audizioni della ministra della Giustizia, Marta Cartabia e del presidente della Sezione centrale della Corte dei conti, Luciano Calamaro. La Guardasigilli ha ricordato che le modifiche introdotte sul punto dalla Riforma Orlando della giustizia del 2017 con la previsione che le tariffe per i servizi erogati dai fornitori privati siano determinate con decreti ministeriali. Con un decreto legislativo del 2018, poi, le spese di intercettazione sono state inserite tra le spese di giustizia disciplinate dal testo unico del 2002. Le attività di intercettazione, dunque, sono ora affidate a un soggetto privato con un conferimento d’incarico da parte del pm nell’ambito di uno specifico procedimento e il relativo costo è considerato come una spesa di giustizia. La ministra ha evidenziato come da tale impostazione deriverebbe la conseguenza che il provvedimento di affidamento dell’incarico non debba più sottostare all’obbligo di controllo della Corte dei conti. Una impostazione, però, in contrasto con le norme europee: la Commissione europea, infatti, ha messo in mora l’Italia perché non ha ottemperato “agli obblighi basati sull’assimilazione dei contratti per le intercettazioni a transazioni commerciali”. Non si esclude la richiesta di un’interpretazione ufficiale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. La ministra, comunque, ha assicurato che sta svolgendo un’opera di monitoraggio e di interlocuzione con le Procure per giungere ad una armonizzazione delle tariffe. Il tariffario proposto è considerato troppo rigido e pone problemi nei casi in cui fissa tariffe inferiori alla media. La finalità dell’approfondimento da parte del Copasir su tale tematica era finalizzata ad “individuare gli strumenti normativi più idonei alla tutela informatica del Paese”. Nel 2018 l’occasione fu offerta dal caso Hacking Team, azienda italiana che nel luglio del 2015 subì l’esfiltrazione di un’ingente quantità di dati resi pubblici tra cui mail, fatture e il codice sorgente del software. Per il Copasir serve “una valorizzazione di apposite linee guida tra le aziende coinvolte e gli uffici giudiziari competenti, sull’esempio di alcune Procure italiane, per il corretto impiego delle strumentazioni volte ad attività di intercettazione e captazione”. In questa legislatura il Copasir ha reputato opportuno avviare un approfondimento della materia, anche tenuto conto dell’impatto del caso Exodus, un software di captazione utilizzato da varie Procure per condurre investigazioni informatiche e che nel 2019 era stato oggetto di indagine da parte della Procura di Napoli. L’indagine aveva appurato che non vi erano garanzie di sicurezza circa la conservazione e la gestione dei dati sulla piattaforma Exodus e che le misure di sicurezza non erano idonee a mantenerne la segretezza e l’integrità. Castiello e Vito, in conclusione, hanno proposto alcune misure per ridurre le criticità, come il potenziamento dell’apparato sanzionatorio della Sezione centrale della Corte dei conti; la previsione che il Copasir possa fornire un parere sulla relazione della Sezione centrale della Corte dei conti; l’introduzione dell’obbligo di motivare adeguatamente la secretazione. Il Copasir, infine, preso atto di quanto rappresentato dalla Guardasigilli, ha segnalato l’esigenza di interventi normativi per migliorare la disciplina dell’affidamento del servizio di intercettazione rafforzando la protezione dei diritti fondamentali, con particolare riguardo alla privacy, garantendo un controllo effettivo sui contratti stipulati, ed armonizzando le tariffe con le quali sono remunerati i fornitori del servizio. “Il mondo della giustizia piange miseria - commenta il consigliere del Cnf Stefano Bertollini -. Si potrebbero fare assunzioni di personale amministrativo e di magistrati. Queste spese senza controllo fanno spavento”. Ma con i giovani l’Ufficio del processo marcerà? Saranno i cancellieri a dircelo di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 25 ottobre 2021 Nel precedente tentativo del 2014 i magistrati non si sono avvalsi granché del supporto fornito dai tirocinanti: hanno dovuto controllare minutamente i loro atti e il lavoro si è appesantito. Come noto, il leitmotiv della nuova riforma del processo penale e civile è la razionalizzazione e velocizzazione dei tempi della Giustizia: 50% per il procedimento civile e 25% per quello penale è l’ambizioso obiettivo che si rende necessario raggiungere per ottenere lo sblocco dei fondi europei stanziati per affrontare la crisi economica, e non solo, provocata dall’emergenza pandemica. Accanto a quelle che sono le modifiche più prettamente “tecniche” ai due codici di rito, si inserisce saggiamente anche un piano per migliorare l’organizzazione stessa degli Uffici di Giustizia, integrando un numero crescente di collaboratori e tecnici, sì da smaltire l’arretrato che da anni pesa sul Sistema Giudiziario. Con l’Ufficio del Processo, introdotto nel Sistema con d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, si è inteso affiancare al Magistrato un team di collaboratori, giovani tirocinanti. L’esperimento, partito nel 2014 appunto, non ha fornito i risultati sperati, non contribuendo a modificare la mentalità dei Giudici nella redazione delle sentenze. I Magistrati, infatti, non si sono pienamente avvalsi del supporto fornito, dovendo controllare minutamente i lavori svolti dai tirocinanti che lo affiancavano, mantenendo pressoché invariata la capacità del proprio Ufficio di smaltire il carico di lavoro, anzi, forse addirittura appesantendolo dovendo il Giudice farsi anche parte attiva per la formazione del proprio staff. La ratio, allora come adesso, è quella di trasformare l’atto di redazione di una sentenza da un’opera di un unico soggetto - il Magistrato in qualità di singolo “artigiano” - in un atto corale, di gruppo. Evidente che, volendo perseguire un simile cambiamento “culturale” in capo agli Uffici di Giustizia, è necessario operare su un doppio fronte: da un lato si avrà bisogno di modificare il metodo operativo dei Magistrati e dunque il loro modo di approcciarsi alla redazione di una sentenza, dall’altra sarà parimenti necessario affiancare al Giudice del personale già di una certa competenza, al fine di evitare, come nel 2014, che il Giudice si debba trasformare in una sorta di dominus per i nuovi collaboratori. È quanto ha evidenziato anche il parlamentare Alberto Balboni in un’intervista su queste pagine. L’On. Balboni, facente sì parte dell’opposizione e quindi evidentemente critico sul tema, afferma però una verità manifestatasi, come già detto, nel 2014: “io, da professionista, ho spesso sacrificato tempo per lasciare ai miei giovani praticanti il compito di scrivere atti, in modo da favorire la loro crescita, sebbene sapessi di dover quasi sempre rifare il lavoro daccapo”. Il rischio, dunque, è che nuovamente i Giudici decidano di non avvalersi del supporto fornito con l’Ufficio del Processo, anche in considerazione della natura “a tempo” dello stesso. Consci delle criticità già emerse in passato, il Ministero ha ora l’intenzione di fornire agli Uffici di Giustizia non già dei tirocinanti, bensì dei giovani motivati e preparati che possano affiancare sin da subito i Magistrati, senza necessità di impiegare ulteriore tempo nella loro formazione. Un nuovo organico preparato e stipendiato, dunque. A tal fine si chiede aiuto alle Università affinché queste possano preparare, tramite percorsi specifici, nuovo organico, preparato nell’attività di ricerca e soprattutto di scrittura, tutte attività che al momento trovano poco spazio nell’ambiente accademico, essendo la formazione dei neo giuristi totalmente teorica ed orale. L’altra esigenza che si innesta sul presente discorso è quella, altresì, di ammodernare e migliorare la figura del Cancelliere, da professione di mero impiegato a professione di giurisperito in grado di affiancare con efficacia la figura del Magistrato, coadiuvandolo anche nella redazione delle sentenze. Le criticità, come visto, sono molteplici e pur essendo la ratio del piano predisposto assolutamente auspicabile, ci si scontra inevitabilmente con l’attuale realtà. A parere dello scrivente un tale e radicale cambiamento degli Uffici Giudiziari, Cancellerie e loro collaboratori appare di difficile e lenta attuazione. Con ciò non si vuole bocciare la riforma in atto che, se trovasse concreta e corretta applicazione, apporterebbe indubbiamente un enorme beneficio, ma si intende semplicemente manifestare tutte quelle che sono le criticità in ordine ad una sua realizzazione, criticità che vanno evidenziate perché possano essere progressivamente levigate. Si dovrà, quindi, operare su più fronti: quello universitario, al fine di formare giovani Giuristi preparati ad affiancare i Magistrati, modificando l’attuale offerta formativa, quello della Magistratura, affinché i Giudici in primis siano consapevoli di potersi avvalere di un team valido che lo aiuti nella formazione delle proprie decisioni, in un’opera non più singola, ma corale. Insomma, il cambiamento oltre che tecnico dovrà imporsi anche culturalmente, richiedendo inevitabilmente un grosso dispendio, prima di tempo e poi di risorse: il primo appare quanto mai limitato, attesi i tempi concessi Bruxelles in ordine alla drastica riduzione dei tempi della Giustizia. Le prime assunzioni del nuovo staff così pensato dalla riforma inizieranno a gennaio 2022. Sarà pertanto interessante tornare successivamente sul tema per raccogliere le testimonianze di chi, nelle Cancellerie, opera quotidianamente, per conoscere se e come l’Ufficio del processo avrà impattato sull’organizzazione generale. Riforma del Csm urgente, ma è bloccata dai veti incrociati di Paolo Comi Il Riformista, 25 ottobre 2021 La riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, la “terza gamba” delle riforme della giustizia, sta diventando il classico tormentone: dopo mesi e mesi di discussioni si è sempre al punto di partenza. La riunione in programma questa settimana a via Arenula fra i capigruppo di maggioranza in Commissione giustizia alla Camera e la ministra della Giustizia per fare il punto sul testo, relatori Walter Verini (Pd) ed Eugenio Saitta (M5s), è saltata per impegni sopravvenuti di alcuni parlamentari. La “terza gamba” delle riforme della giustizia avrebbe dovuto essere approvata da tempo. “La riforma del Csm è urgente. A sollecitarla è stato il presidente della Repubblica”, non perde infatti occasione per ricordarlo la Guardasigilli. Dopo lo scoppio del “Palamaragate”, a maggio del 2019, l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede presentò alle Camere un progetto di riforma che avrebbe messo fine allo strapotere dei gruppi della magistratura associata all’interno del Csm e alla lottizzazione delle nomine. La riforma, disse il Guardasigilli grillino, “non sarà punitiva” e dovrà “rilanciare il prestigio” del Csm, “depurandolo dal rischio di degenerazioni del correntismo e da possibili condizionamenti della politica”. Il sistema elettorale dei togati del Csm, affermò Bonafede, sarà affidato ad una norma specifica, essendo questo un tema su cui “il Parlamento deve avere totale centralità”. Complice anche la pandemia, il progetto di Bonafede rimase nel cassetto per tutto il 2020. Con l’arrivo di Marta Cartabia il dossier è tornato d’attualità. “Un intervento sul sistema elettorale del Csm” non potrà “di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana”, aveva però precisato subito la ministra. Fra i primi provvedimenti della Guardasigilli vi fu allora l’istituzione di una Commissione, presieduta dal decano dei costituzionalisti, il professore Massimo Luciani, per elaborare un progetto complessivo di riforma del Csm. La commissione ha consegnato la relazione il 31 maggio scorso e la ministra si è riservata di depositare gli emendamenti. Il nuovo sistema elettorale, a pena di nullità del voto, è di tipo proporzionale e prevede la candidatura di singoli e non più di liste. Viene caratterizzato dal voto singolo “trasferibile” perché crea più collegi plurinominali in cui gli elettori indicano almeno tre candidati in ordine di preferenza. “Un sistema che si presta alla elaborazione di “cordate” e dunque a condizionamenti di voto, frutto di accordi correntizi”, scrivono le toghe di destra di Magistratura indipendente che temono l’alleanza fra i gruppi di sinistra e i centristi di Unicost orfani di Luca Palamara. Di diverso avviso, invece, i togati di Magistratura democratica che esprimono “apprezzamento per la proposta elaborata dalla Commissione Luciani”, auspicando comunque che “si sviluppi un dibattito parlamentare che coinvolga nella riflessione anche la magistratura”. Per Md vanno escluse soluzioni “fondate sul sorteggio e sulla base di modelli elettorali di stampo maggioritario”. “Se questa è la riforma che dovrebbe togliere potere alle correnti, meglio non cambiare nulla per evitare di avere effetti assolutamente controproducenti: è una proposta irricevibile”, il commento del capogruppo in Commissione giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin (FI), grande fautore del sorteggio. “C’è da fare le corse adesso - prosegue Zanettin - e si rischia di arrivare fuori tempo massimo, visto che le elezioni per il nuovo Csm sono previste per il prossimo luglio”. La riforma dell’organo di autogoverno delle toghe è una legge delega. Quindi dopo la sua approvazione serviranno i decreti attuativi. “So per certo che sono stati già scelti in larga misura i componenti togati del futuro Csm”, aggiunge poi sibillino il parlamentare azzurro. Per Palamara “la riforma più temuta in assoluto dall’Associazione nazionale magistrati era quella del sorteggio”. E chissà se non aveva ragione. Trani. Carcere, interrogazione della senatrice Piarulli: “Ecco tutte le criticità” tranilive.it, 25 ottobre 2021 “Il Ministro della Giustizia è a conoscenza delle gravi criticità delle carceri di Trani? E quali iniziative intende intraprendere per evitare il protrarsi di tale incresciosa situazione?”. A chiederlo formalmente in una interrogazione, insieme con altri colleghi, è la senatrice Angela Anna Bruna Piarulli, del Movimento cinque stelle. La parlamentare lo scorso 7 ottobre, dopo l’evasione di due detenuti e la morte di un altro affetto da problemi psichiatrici, insieme con la collega Cinzia Leone, si era recata al carcere maschile di Trani per un sopralluogo. A seguito della visita, e delle informazioni assunte dalla direzione dell’istituto penale, è emerso uno scenario fatto di non poche criticità. Per prima cosa, nel reparto di Polizia penitenziaria degli istituti penali di Trani, a fronte di una dotazione organica prevista di 211 unità, ve ne sono 206, “ma di questi 206 poliziotti circa 50 sono assenti, o non impiegabili a vario titolo - fa sapere la senatrice Piarulli -, e la situazione è resa ancora più problematica dall’apertura del nuovo plesso da 200 posti letto, avvenuta ad ottobre 2020. Eppure è tuttora attivo uno spaccio bar presso cui è impiegato personale di Polizia penitenziaria, nonostante ci siano distributori automatici di bevande e snack, distogliendo così gli agenti dai servizi propri della Polizia penitenziaria”. Un altro grave problema è nell’organico dei funzionari della professionalità giuridico-pedagogica: “La situazione risulta drammatica - spiega Piarulli - in quanto al momento l’unica presenza garantita è quella della capo area trattamentale con il supporto, per due giorni la settimana, di un funzionario giuridico-pedagogico. Altri due funzionari del settore sono assenti e tale situazione comporta, quindi, un grave pregiudizio al trattamento rieducativo dei condannati, in chiaro contrasto con i principi costituzionali”. Quanto all’edilizia carceraria, l’attivazione del nuovo padiglione pare non abbia risolto per nulla i problemi: “Contestualmente a quell’apertura - ricorda Piarulli - il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva disposto la chiusura completa della sezione “blu”, inagibile poiché necessita di lavori di ristrutturazione per l’eliminazione dei bagni a vista e delle zone doccia separate dalle camere di pernottamento. Ebbene, dal sopralluogo effettuato e dalla relazione fornita dalla direzione, emerge che una parte di tale sezione, nonostante l’ordine completo di chiusura, sia stata invece riaperta: di fatto, dunque, non solo alcuni detenuti sono ristretti in ambienti non idonei, ma vengono impiegate ulteriori unità di Polizia penitenziaria per la vigilanza di tale reparto. All’atto dell’ispezione parte di quella sezione era ancora aperta, nell’attesa di un provvedimento di trasferimento dei soggetti ivi allocati”. Non da ultimo, “molti dei ristretti hanno gravi patologie psichiatriche - denuncia Piarulli - e non possono avere a Trani adeguata assistenza a causa della mancanza di un’articolazione dell’Asl Bt per la salute mentale, nonché per l’insufficienza numerica sul territorio delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, anche cogliendo gli stanziamenti previsti dalla legge di bilancio per l’implementazione delle Rems”. Da non dimenticare infine il sovraffollamento della casa di reclusione femminile, che attualmente conta 40 detenute a fronte di una capienza tollerabile di 30. “Tale situazione - fa sapere Piarulli - è dovuta al fatto che, poiché la sezione femminile presso la casa circondariale di Bari è chiusa da anni per motivi di ristrutturazione, il carcere di Trani è costretto a farsi carico dell’intero distretto della Corte d’appello di Bari”. Volterra (Pi). Consegna dei diplomi ai detenuti La Nazione, 25 ottobre 2021 Nella splendida cornice della Fortezza medicea di Volterra, domani a partire dalle 12 si i terrà la consegna dei diplomi degli esami di Stato agli studenti della sezione ‘Graziani’ presso la Casa di Reclusione. Si tratta di un evento che è stato a lungo rimandato a causa della pandemia e che finalmente verrà celebrato alla presenza della direttrice Maria Grazia Giampiccolo, della nuova Dirigente scolastica dell’Itcg ‘Niccolini’ Federica Casprini e del professor Alessandro Togoli, da poco in pensione, vera memoria storica della scuola in carcere, che per anni ha lavorato alacremente sul campo, per la nascita, lo sviluppo e il miglioramento di un progetto educativo di grande valenza umana e culturale. La scuola superiore all’interno della Casa di Reclusione di Volterra, fiore all’occhiello per la città e il territorio, nasce come esperienza di volontariato quasi trent’anni fa, un’esperienza attivata grazie al parere favorevole dell’allora direttore Renzo Graziani che ne seguì l’iter burocratico presso il ministero di grazia e giustizia e la magistratura di sorveglianza di Pisa, ottenendo nel 1993 l’autorizzazione ad attivare corsi volontari commerciale e geometri fino all’istituzionalizzazione da parte del ministero della pubblica istruzione di un corso per geometri nel 1995. Negli anni l’offerta formativa della scuola si è arricchita di altri indirizzi, tra cui quello alberghiero e l’agrario che contribuiscono a incrementare il lustro di un progetto sociale della Direzione dell’istituto carcerario, che negli anni ha saputo accrescerne il prestigio e la qualità, creando un circuito di educazione e riabilitazione di esemplare levatura civile. “Antonio e la lucertola”. Una voce dal carcere per riflettere sulla giustizia e la pena di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 ottobre 2021 Il magistrato Silvia Cecchi è l’autrice del libro “Antonio e la lucertola. Dal paradigma imputato-centrico al paradigma offeso-centrico” (Liberilibri, pagg. 122, postfazione di Rosario Salamone, euro 13). Cecchi, sostituto procuratore presso la Procura di Pesaro, riflette sulla necessità di superare la logica su cui si basano sia l’impianto sanzionatorio che l’interpretazione e l’applicazione delle norme penali. “Un sistema penale - evidenzia nella premessa - che vacilla sotto l’attacco di critiche e perplessità, dal suo interno come dal suo esterno, e di cui nessuno è contento, ci interroga sui fondamenti primi su cui esso si regge”. Quali, dunque, le soluzioni suggerite? Quali strade si possono percorrere? Sono queste alcune domande che Cecchi, da magistrato e da cittadina, si pone, e le presenta ai suoi lettori. Cerca di trovare una risposta adeguata, partendo dalla sua esperienza di sostituto procuratore. Il primo passo da fare è sostituire il paradigma imputato-centrico, un diritto penale che verte sul fatto e sull’offesa come quello previsto dalla Costituzione, con il paradigma offeso-centrico. È un’operazione non banale e nient’affatto semplice. Si tratta di una rotazione prospettica che apporterebbe importanti benefici, utili a chiarire le ragioni della penalità, a interpretare e applicare in concreto le norme penali e a individuare le sanzioni più appropriate. Le argomentazioni di Silvia Cecchi partono dall’incontro con un detenuto di lungo corso, Antonio, dopo un permesso premio di tre giorni concesso all’ergastolano (sta scontando il ventiquattresimo anno di carcere e ha 48 anni). Antonio, con una lunga carriera nella criminalità organizzata pugliese, può prendere confidenza con la libertà in quanto ospite del cappellano del carcere di sicurezza, don Guido, in cui è recluso. Durante il colloquio, ascoltando la sua storia e i suoi trascorsi delittuosi, il magistrato suggerisce al detenuto di leggere un libro-memoriale, scritto da un altro detenuto, con la promessa al successivo incontro di parlare del mito di Narciso ed Eco. Una scelta non casuale, dato che solo quando Antonio riconoscerà sé stesso in entrambi - l’io-narciso crudele e il dolore di Eco che diventa il suo dolore potrà riflettere sulla propria carriera criminale, sulle proprie origini e conoscersi meglio, magari pentendosi. Il libro, come anticipato, si sofferma “sui limiti di un sistema imputato-centrico come tuttora è il sistema penale-sostanziale, penale-processuale e penale- sanzionatorio”. Dall’altro lato, invece, si pone all’attenzione la vantaggiosità “dell’adozione della prospettiva del bene offeso” che l’autrice definisce “offeso-centrico o bene-centrico”. Nel momento in cui si procederà alla scelta e applicazione/ esecuzione della sanzione non si potrà fare a meno di valutare la complessità della persona, la sua storia e la sua indole, andando oltre il momento dell’accertamento della responsabilità. “Occorre allora - dice Cecchi - almeno un carcere diverso, che preveda l’esperienza di questi momenti fondamentali per la ricostruzione del sé. Occorre una diversificazione delle sanzioni penali rendendole responsoriali, se vogliamo che la sanzione sia “rieducativa”. Occorre che ogni tipologia di sanzione preveda contenuti relazionali”. Occorre quindi, al momento della scelta e dell’applicazione ed esecuzione della sanzione, valutare la complessità della persona, la sua storia, la sua indole. Le pagine di “Antonio e la lucertola” si collocano in un momento importante e delicato per la giustizia, scandito da riforme che potrebbero essere epocali per tutti noi. Lo sa bene l’autrice che nella sua carriera ha incontrato persone molte volte poco attente al bene più prezioso: la vita (loro e degli altri). “Partire dai beni - riflette Cecchi -, va detto senza mezzi termini, significa anche riconoscere una matrice assiologica al diritto penale, la cui ragion d’essere è in quella ponderazione valoriale entro la quale la Carta costituzionale colloca i beni a cui va accordata tutela penale. Significa riproporre in altre parole una “eticità” del diritto, pur dopo averne bandita ogni tentazione soggettivistica e ideologica, trasferendone il centro focale sulla (etica della) relazione. Significa auspicare una riforma, preceduta da una rilettura critica dell’esistente, del diritto penale sostanziale e processuale che tenga conto di queste direzioni di pensiero”. Serve, a detta dell’autrice, recuperare la “logica del bene giuridico” per uscire dalla crisi di valori, che da tempo ci ha investito, e per ridare credibilità al sistema giudiziario. Silvia Cecchi offre con questo testo un’ottica interpretativa differente per la trattazione dei problemi più delicati della penalità contemporanea. Intende richiamare l’attenzione su temi che sono entrati nella coscienza di tutti i cittadini e che è opportuno far uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori (avvocati, studiosi e magistrati). Due lettere di un altro Antonio, Antonio Gramsci, chiudono il libro. Il fondatore del Partito Comunista dal carcere di Turi nel 1929 si rivolgeva così al figlio Delio: “Ed io ti darò notizie di una rosa che ho piantato e di una lucertola che voglio educare”. La postfazione è affidata a Rosario Salamone, giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Roma e direttore dell’Ufficio Scuola della Diocesi di Roma. L’occasione del riformismo di Ezio Mauro La Repubblica, 25 ottobre 2021 Forse la formula è esattamente qui, nella sinistra che cerca se stessa, dunque nella tensione di portare finalmente a compimento l’imperfezione, che è la fatica quotidiana della democrazia. E se lo avessimo sotto gli occhi? Se il riformismo di cui tutti parliamo come unica interpretazione possibile della sinistra di governo in Occidente, dopo le esperienze del Novecento, fosse proprio questa cosa che incontriamo ogni giorno, senza fanfare e quasi senza bandiere, ma alla resa dei conti capace di vincere sottovoce le elezioni nelle grandi città italiane, in piena epoca di sovranismo e in mezzo al fragore del populismo? Una delle caratteristiche della moderna sinistra è di essere sempre in cammino in un viaggio che non finisce, cercando di realizzarsi in un processo di trasformazione della società che è costantemente in divenire, perché intanto - e per fortuna - il sociale muta autonomamente, mentre le riforme che vorrebbero indirizzarlo devono inseguirlo, in un disegno per forza di cose imperfetto con un risultato spesso sorprendente. Quindi la sinistra sposta ogni volta il traguardo, rinvia l’esito, aggiorna programmi e parole d’ordine e rimanda se stessa al domani, al momento in cui si potrà fare un bilancio, giunti finalmente vicini a ciò che resta del sol dell’avvenire. E invece troppi soli si sono spenti nel secolo scorso, la fabbrica della modellistica sociale ha chiuso i battenti e lo stesso avvenire è uscito di scena con la sua mitologia garantita e inarrivabile, lasciando il posto al laico, incerto, prosaico ma contendibile futuro. Dunque dal domani si può passare all’oggi. Il momento è questo, e forse la formula del riformismo è esattamente qui, nella sinistra che cerca se stessa, dunque nella tensione di portare finalmente a compimento l’imperfezione, che è la fatica quotidiana della democrazia. Non si tratta di recuperare Bernstein e la sua convinzione che per il socialismo “il movimento è tutto, il fine è nulla”. Ma di accettare l’idea che il profilo del riformismo, nella coerenza dei valori e degli ideali, è dettato dall’epoca, e il suo segno di vitalità sta nella capacità di interpretare i bisogni del tempo, i pericoli del momento e le opportunità della fase, indirizzando i progetti di cambiamento negli spazi che si aprono, diversi ogni volta. Il socialismo, si diceva con qualche licenza grammaticale nel 1921, “è quello che il suo tempo lo fa”. Qui c’è il passaggio dalla formula ideologica alla pratica politica. Il modello generale da calare sulla società non esiste più. C’è al suo posto un’idea di progresso e di emancipazione, di giustizia e di uguaglianza che può influenzare le scelte politiche e determinarle: riconoscendo la piena agibilità democratica del sistema che non si punta più a rovesciare ma a correggere, rettificando le sue inerzie automatiche quando accentuano le disparità sociali o peggio quando producono esclusione. Si potrebbe obiettare che per questa via il riformismo diventa più un custode della democrazia che un agente del cambiamento: ma in un’epoca in cui il carattere liberal-democratico del sistema viene attaccato dai leader sovranisti e neoautoritari, la linea che divide destra e sinistra oggi passa anche e forse soprattutto da qui, e dunque il posizionamento del riformismo è cruciale per esercitare un presidio attivo del meccanismo democratico occidentale. Così come è utile al Paese la scelta europeista, contro le derive neo-nazionaliste del populismo sovrano. O la decisione della sinistra di esprimere una cultura di governo anche quando non guida l’esecutivo, sostenendo le politiche di emergenza per contrastare la pandemia e rilanciare l’economia dopo la stagione dell’assedio virale e dei lockdown: tutelando la libertà concreta e materiale dei cittadini dalla libertà ideologica che la destra populista propone ai No Vax, nell’evasione dalle regole. Naturalmente la presenza del riformismo si deve sentire nella ricerca di un equilibrio nel conflitto tra salute e lavoro, nella sorveglianza sull’uso politico dell’emergenza perché non diventi un abuso di potere, nel controllo della fase di ripresa per evitare che la spinta al recupero delle quote di mercato perdute non travolga i diritti nati dal lavoro che troppo spesso vengono considerati variabili dipendenti della crisi, come le misure di sicurezza, sacrificabili. In una fase di confusione politica e di smarrimento identitario, il riformismo non può esprimersi però soltanto in una sommatoria di correzioni, restauri e miglioramenti, ma deve trovare il suo albero maestro, che può essere solo il lavoro, come obbligazione volontaria alla necessità ma anche come strumento di realizzazione, di partecipazione sociale, di autocoscienza di una condizione, di riconoscimento, dunque di esercizio della cittadinanza. L’esplosione del lavoro nello spazio e nel tempo, la sua frammentazione, possono essere ricomposte da un lato nel moderno sapere dell’innovazione, dall’altro in una teoria del welfare e dei diritti capace di evitare le esclusioni, tenendo insieme politicamente ciò che la crisi separa spontaneamente. Purché, appunto, i diritti sociali trovino il loro posto nell’alfabeto riformista insieme con i diritti civili, anche se costano, in quanto non sono richieste post-materialistiche che reclamano soddisfazione soprattutto nelle fasi di benessere, ma vere e proprie spettanze, più acute nel momento del bisogno. C’è dunque uno spazio (e persino uno spazio di tradizione, che attende di essere rinnovata) per il moderno riformismo. Forse, adesso che non può più essere lo scopo finale, il socialismo è un mezzo, o un metodo, una politica: finita l’epoca della rivoluzione, infatti, è per questa strada che può emergere il “mutamento”, quel processo graduale che con interventi successivi opera una trasformazione, o almeno un miglioramento nella società, riequilibrando il rapporto tra la democrazia e il potere politico, economico e finanziario. E magari arrivando addirittura a concepire una teoria di correzione - o almeno un’obiezione culturale - al liberismo che ci ha condotti dentro la crisi economico-finanziaria più lunga del secolo, per riemergerne come l’unica ideologia intatta e superstite. Rivedendo le misure del rapporto tra capitale, lavoro e democrazia in una sorta di Bad Godesberg degli anni Duemila, per riscrivere il patto sociale che tenga insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione. Naturalmente per una parte della sinistra, la più ideologica, è faticoso dirsi riformista, ancora oggi: una parola troppo pallida, che non suscita passioni, rifiuta la declamazione populista, ripropone il cuore freddo della socialdemocrazia, disarma la classe, riduce la sinistra a coefficiente di riequilibrio del sistema come temeva già Bordiga, disperdendo la capacità d’urto della sua critica radicale e del suo antagonismo. E se fosse invece l’unica strada di sinistra per il cambiamento? Lo diceva la profezia di Turati, cent’anni fa: “Ciò che rimane di tutte le nostre lotte è l’azione, che non è il prodigio di un giorno ma è la crescita progressiva, faticosa, misera nelle cose e nelle teste, che non fa miracoli, non si culla nelle illusioni, ma tesse la sua tela ogni giorno e salva il popolo con la sua la forza operante”. La rivoluzione ha cambiato campo, riducendosi alla demagogia della rottamazione, alla promessa della sostituzione, al populismo della semplificazione. Portando da un lato a un esaurimento dell’autonomia della politica, con la supplenza della tecnica, e dall’altro a un’ipotesi di superamento della democrazia liberale, in una scorciatoia neo-autoritaria. Il riformismo può essere l’ultima difesa, e la prima risorsa: purché faccia le riforme, creda nel mutamento, e si ricordi la sua origine nella battaglia per la giustizia e l’uguaglianza, che Bobbio traduce in una regola che può diventare il manifesto riformista: “Trattare in modo eguale gli uguali, e in modo diseguale i disuguali”. L’illusione del sapere (facile) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 ottobre 2021 L’unico vaccino efficace contro la pandemia dell’ignoranza camuffata da conoscenza sarebbe la scuola. La linea di faglia che ha segnato il Novecento, tra chi ha e chi non ha, s’è approfondita nel secolo della rivoluzione digitale d’una ulteriore frattura, tra chi sa e chi non sa, solo in parte complementare alla prima. Le più recenti vicissitudini generate dai movimenti ostili ai vaccini e ai passaporti vaccinali ce lo raccontano plasticamente dalla piazza di Trieste, percepita per giorni come la capitale italiana dei no pass e, diciamo per contaminazione, di tutti i generi e le manifestazioni di malessere e disagio nei confronti dello status quo. Dapprima con il (parziale) blocco dello scalo portuale, poi con varie proteste tracimate in città, il capoluogo giuliano è diventato simbolo e catalizzatore di quel grumo eterogeneo che il sociologo Colin Campbell chiamava già negli anni Settanta “cultic milieu”, un underground intellettuale della società dove tutte le idee balzane e/o mirabolanti si mescolano e rifioriscono. Questo crogiolo di stravaganze è sempre esistito, secondo Campbell: a ogni “saggia” ortodossia dominante corrisponde un’eterodossia che fluisce carsica (e, aggiungeremmo, non sempre con effetti negativi, come dimostrato da molte nobili e preziose eresie che hanno illuminato la Storia). Nel caso di Trieste, però, un dato balza agli occhi e si incrocia al potente sgorgare di ribellioni e rancori: questo, raccontano le cronache, è anche il territorio con il più alto tasso di contagi da Covid, e per distacco, 139 ogni centomila residenti, più del doppio della media nazionale. Inoltre Trieste, maglia nera nei vaccini, è stata evocata da Roma a Torino e Milano, nei cortei di sabato, quattordicesimo di proteste e di tensione con la polizia, come una bandiera di guerra: “Trieste è in ogni piazza!”. Occorre cautela nel trarre conseguenze. Il Friuli Venezia-Giulia ha una popolazione anziana e annovera numerose Rsa: dunque, sono comprensibili sacche di maggiore fragilità; la Regione è inoltre governata da un leghista di buonsenso come Massimiliano Fedriga, certo distante da estremismi contro le misure anti Covid: quindi dobbiamo escludere intralci istituzionali all’opera del generale Figliuolo. Tuttavia, qualcosa si può dedurre dalla sovrapposizione fra l’area del rifiuto (e della protesta) e l’area del contagio (e delle nuove ospedalizzazioni). Uno spiraglio che, mostrandoci le difficoltà di tanti non attrezzati nell’orientarsi dentro flussi informativi caotici e contraddittori, ci riporta quasi d’istinto alla straordinaria preveggenza di Umberto Eco il quale, già negli anni Ottanta, aveva immaginato il diffondersi dell’analfabetismo funzionale contestualmente all’ascesa del populismo. Nel nuovo secolo, le platee di chi non ha e quella di chi non sa tendono a sovrapporsi, perché la buona formazione è tornata a farsi in prevalenza privata e censitaria, e il digital divide somiglia molto al ponte levatoio del castello dal quale si lanciano avanzi di sapere alla plebe sotto le mura. Si tratta naturalmente di andare oltre la famosa invettiva del 2015 sulle legioni di imbecilli “da bar” dotati di colpo, via Internet, della facoltà di parola pubblica “dei premi Nobel”. Lungi dall’essere un inno aristocratico contro il Web (preziosa arma di libertà anche contro le dittature), l’assai abusata sortita di Eco poteva leggersi proprio quale sprone a... riscattare gli imbecilli da bar, dotandoli di strumenti di lettura consapevole: infatti era integrata da un invito ai giornali (dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti) e alla scuola (insegnare ai ragazzi come utilizzare i siti, paragonandone le informazioni per capire se siano vere o no). Siamo in tempi di straordinario cortocircuito se il più famoso e ricco diffusore di menzogne del mondo, l’ex presidente americano che ha cercato di dirottare un’elezione regolare a colpi di fake news e per questo è stato silenziato dai principali social, lancia un social a sua volta, chiamandolo Truth, verità, da cui riproporre le medesime bugie fino alle presidenziali del 2024. E che abbiamo un problema di verità anche dalle nostre parti, ben oltre i confini comunali di Trieste, ce lo dicono i lavoratori fantasma che a centinaia di migliaia in tutta Italia continuano a rifiutare il green pass considerandolo uno strumento di “dittatura sanitaria”; o più ancora i loro accalorati portabandiera che, ospitati improvvidamente in qualche talk, s’avventurano a spiegare al pubblico che “anche il nazismo è nato così, stigmatizzando una minoranza”. Nel bel saggio “Menti sospettose”, lo psicologo Rob Brotherton mette in guardia dalla presunzione di sapere diffusa dal Web: “L’università di Google è ben frequentata”, dice ironico, e dopo aver visto su Youtube qualche video sulle demolizioni controllate, possiamo sentirci così dotati in ingegneria strutturale dal ritenere, contrariamente al parere concorde degli esperti, “che il crollo delle Torri Gemelle fu appunto una demolizione controllata”: l’illusione della conoscenza ci rende tutti superperiti ma, trattasi, per l’appunto, di illusione. L’unico vaccino efficace e di lungo periodo, contro la pandemia dell’ignoranza camuffata da sapere un tanto al clic, sarebbe la scuola. Possibilmente pubblica e gratuita. Ma per noi è una parete di sesto grado: sui disastri nazionali in materia Ernesto Galli della Loggia scrive da anni, su queste colonne, tutto ciò che occorre leggere. Qui basti rammentare che buona parte dei liceali maturati la scorsa estate mostra il bagaglio culturale utile un tempo per una licenza media (e naturalmente non parliamo di medie italiane, a loro volta discese a livello delle elementari). Il divario Nord-Sud s’è allargato e la metà degli studenti meridionali non raggiunge la soglia minima in italiano e matematica. Colpa del Covid e della Dad? Certo, ma non solo. Il tradimento della nostra scuola è scandalo antico se gli adolescenti utilizzano, nel loro linguaggio abituale, non più di trecento parole e sette adulti su dieci hanno difficoltà a comprendere un testo appena complesso. Ed è tradimento della nostra Carta se, come sosteneva Piero Calamandrei, la scuola è da considerarsi “organo costituzionale”: di una democrazia, diremmo oggi, affrancata dai creduloni. Migranti, gli sbarchi sulle coste: la doppia partita di Lamorgese. Il test decisivo sarà sul G20 di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 ottobre 2021 La settimana decisiva per la ministra dell’Interno già nel mirino degli attacchi di Lega e FdI: dovrà gestire l’emergenza sbarchi e l’ordine pubblico durante il vertice internazionale. Otto sbarchi in Calabria e due in Sicilia nelle ultime 48 ore, mentre diverse navi delle Ong sono ancora in mare con centinaia di persone a bordo, pronte a fare rotta verso l’Italia. Nella settimana di preparazione al G20 che si svolgerà a Roma il 30 e il 31 ottobre, il Viminale si trova a fronteggiare l’arrivo di migliaia di migranti. E per la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, già sotto l’attacco della Lega e di Fratelli d’Italia per la gestione dell’ordine pubblico, si apre un nuovo fronte di emergenza. Una partita doppia che dovrà giocare per garantire la sicurezza durante il vertice internazionale che porterà nella Capitale venti delegazioni di capi di Stato e di governo, ma anche l’accoglienza di migliaia di stranieri che dovranno essere messi in quarantena e poi trasferiti nel resto d’Italia. Le bordate di Matteo Salvini e Giorgia Meloni vengono stoppate da esponenti di governo, compreso il leghista Giancarlo Giorgetti, ma appare ormai chiaro che questa continua fibrillazione indebolisce l’intero esecutivo. E per questo si guarda con apprensione a quello che accadrà in piazza nel prossimo fine settimana, con la consapevolezza che di fronte a nuovi scontri e incidenti con i manifestanti la titolare del Viminale potrebbe anche essere costretta al passo indietro. In queste ore la questione primaria riguarda gli sbarchi. Navi, pescherecci, velieri, barchini hanno preso d’assalto le coste siciliane e soprattutto calabresi percorrendo una nuova rotta che parte dalla Turchia. In tutto oltre 1.500 persone approdate in appena 48 ore, molte altre in arrivo e un piano che deve essere approntato nel minor tempo possibile. Per questo si è deciso di inviare a Reggio Calabria una nave quaranten a e installare una tensostruttura con decine di tende per la prima accoglienza, prevedendo l’invio di uomini e mezzi anche in Sicilia dove ci sono già 4 navi in mare per l’isolamento e l’identificazione degli stranieri, ma i centri sono di fatto al collasso. Una situazione di grave emergenza che difficilmente potrà migliorare visto che anche durante l’ultima riunione del Consiglio europeo a Bruxelles l’Italia non ha ottenuto alcuna apertura sulla possibilità di redistribuzione dei migranti e anzi il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dovuto ribadire la linea contraria a qualsiasi tipo di muro per fermare i flussi. Il nostro Paese si trova così a fare i conti con un numero di nuovi ingressi raddoppiato rispetto allo scorso anno, con oltre 52mila persone giunte nei primi dieci mesi del 2021 mentre nel 2020 le restrizioni imposte dal Covid 19 fermarono il numero di arrivi a 26mila e 600. Nelle prossime ore le condizioni meteo potrebbero peggiorare e questo potrebbe rallentare le partenze dalla Libia e dalla Turchia, ma almeno due navi delle Ong sono nelle acque antistanti Tripoli per soccorrere chi è già salpato e punta verso l’Italia. Una situazione di emergenza che Lamorgese deve affrontare nella settimana più calda del suo mandato. L’appuntamento di sabato prossimo, con le possibili proteste di piazza in occasione del G20, continua ad essere pieno di insidie. Ma dopo quanto accaduto a Roma l’8 ottobre scorso - con gli incidenti tra manifestanti no green pass e polizia, e soprattutto con l’assalto alla sede della Cgil organizzato dagli esponenti di Forza Nuova poi arrestati - la tenuta dell’ordine pubblico sarà il vero banco di prova per lei e l’interno governo. Una scommessa che, come avrebbe ribadito lo stesso Draghi nelle riunioni riservate, non si può perdere. Tutta la zona dell’Eur sarà “zona rossa”, blindati percorsi ed eventi, sedi istituzionali e possibili obiettivi. È possibile che entro giovedì sia convocato il comitato per l’ordine e la sicurezza per decidere gli ultimi dettagli del piano di prevenzione, in modo particolare per avere la situazione aggiornata sull’arrivo dei contestatori dall’Italia e dall’estero. Tutte le manifestazioni di protesta dovranno essere bloccate o comunque confinate in aree lontane dai luoghi del summit internazionale. Consapevoli che tutto questo potrebbe non bastare a fermare i violenti. Cannabis terapeutica, il sottosegretario Costa: “Raggiungere l’autosufficienza produttiva” La Stampa, 25 ottobre 2021 “Presto bandi per aziende pubbliche e private”. Dal 2014 solo l’Esercito italiano può coltivare le infiorescenze usate per il trattamento di patologie croniche e degenerative. Nuovi bandi per la coltivazione di cannabis terapeutica rivolti ad aziende pubbliche e private. L’obiettivo: ridurre la dipendenza dalle importazioni estere. È l’annuncio del sottosegretario alla Salute Stefano Costa, che ai microfoni di Mi manda Rai 3 ha detto: “Stiamo varando dei bandi che diano la possibilità di coltivare cannabis ad uso medico anche ad aziende private e pubbliche, per essere in grado di raggiungere l’obiettivo dell’autosufficienza produttiva. È un tema che stiamo affrontando insieme al ministero dell’Agricoltura e al ministero dell’Interno, siamo a buon punto del percorso”. In Italia l’uso terapeutico della cannabis è legale dal 2006. Viene prescritta a carico del Sistema sanitario nazionale per alcune patologie croniche e malattie degenerative. La sclerosi multipla è una di queste. Se esiste un minimo di letteratura scientifica sull’argomento, può essere prescritta dal medico di base anche per altre malattie, modulando quantità e posologia. In questo caso, i costi di acquisto ricadono sul paziente in “ricetta bianca”, cioè quella non rimborsabile. A partire dal 2014, l’unico ente autorizzato alla produzione è l’Esercito italiano, nello Stabilimento farmaceutico militare di Firenze. Tuttavia la produzione è esigua rispetto al fabbisogno dei pazienti in cura, cui si sopperisce con l’importazione di infiorescenze e preparati farmaceutici da Paesi quali Olanda e Danimarca. Una pratica legale dal 2007. Da cui adesso Costa vorrebbe affrancarsi. Gli architetti della tragedia di Eugenia Tognotti La Stampa, 25 ottobre 2021 “Architetto della tragedia”, “mercante di morte”: sono solo alcune delle espressioni usate dall’opposizione per definire il presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Non che, intendiamoci, non sia in buona compagnia il leader di estrema destra, negazionista della prima ora, che un gruppo di studiosi ha collocato nella “galleria canaglia’” dei cinque primi ministri e presidenti, in carica o ex, accusati di aver gestito disastrosamente la pandemia di Covid 19 e di aver contribuito ad un’ecatombe di morti nelle loro popolazioni. Ad accomunare i peggiori leader mondiali nel far fronte alla crisi sanitaria - Donald Trump, Andrés Manuel López Obrador (Messico), Narendra Modi (India), Alexander Lukashenko (Bielorussia) - i ritardi, gli errori e i fallimenti che hanno aggravato la catastrofe: dal negazionismo alla minimizzazione della gravità della pandemia (è una “piccola influenza”), al mancato ascolto della scienza circa le misure di salute pubblica da mettere in campo come il distanziamento sociale e le mascherine. Ma le responsabilità che gravano su Bolsonaro vanno al di là, come spiega l’impressionante rapporto (1200 pagine), redatto da una commissione d’inchiesta del senato brasiliano che accusa il presidente di “crimini contro l’umanità” e ‘prevaricazione’. E a leggerne alcuni stralci si comprende anche perché abbiamo ispirato l’immagine travisata con le sembianze di Adolf Hitler che compare nella copertina del settimanale Istoé: un accostamento che sembra richiamare i crimini perpetrati nella Germania nazista. Oltre a promuovere in modo aggressivo farmaci come il proxalutamide, consigliato come una possibile “cura miracolosa” per Covid-19, nonostante l’assenza di prove scientifiche sulla sua efficacia, Bolsonaro è accusato di aver trascurato di dare risposte ad una pandemia di cui sottovalutava la gravità, attribuendo la responsabilità ai media di aver ingannato la gente parlando del virus. Ma il catalogo è lungo e comprende il suo contributo attivo nell’ aggravare la crisi, ponendo il veto all’uso di mascherine nei siti religiosi e usando i suoi poteri costituzionali per interferire sulle strategie del Ministero della Salute, come i protocolli clinici e l’approvvigionamento dei vaccini. A proposito dei quali ha dichiarato, motteggiando - in un discorso pubblico - che lui non l’avrebbe assunto a causa degli effetti collaterali: “Se ti trasformi in un coccodrillo, è un problema tuo”, aveva detto, con quali effetti sugli esitanti e i dubbiosi è facile immaginare. Intanto, ostacolava gli sforzi del governo statale per promuovere il distanziamento sociale e faceva ricorso ai suoi poteri per permettere a molte attività di restare aperte a cominciare dalle terme e dalle palestre. Naturalmente, il presidente respinge gli attacchi, si guarda bene dall’assumersi le sue responsabilità e chiama in causa la Cina e l’Organizzazione mondiale della sanità. Resta l’evidenza del fatto che il clamoroso fallimento delle sue politiche ha permesso al virus di galoppare nel suo paese e di provocare una strage: 600 mila morti, più del doppio delle vittime causate dalla terrificante pandemia di Spagnola (180.000 -300.000 secondo le stime) che si portò via il presidente appena eletto presidente incluso quel presidente Francisco de Paola Rodriguez Alves, lo stesso, per una bizzarra coincidenza storica, che nel 1904 aveva introdotto in Brasile la vaccinazione obbligatoria contro il vaiolo. Padre e figlio in una Siria da ricostruire di Caterina Soffici La Stampa, 25 ottobre 2021 C’è una storia che circola tra i fotografi di guerra e racconta di un peluche che i più scaltri portano dentro lo zaino. La storia, che potrebbe anche essere una di quelle leggende metropolitane create dall’invidia e dalle male lingue, racconta che il fotografo scaltro trovandosi sulla scena di un massacro, di un bombardamento o di un campo minato, prima di scattare posiziona il peluche in modo da rendere la sua immagine ancora più toccante e strappalacrime, perché dove c’è un peluche c’è un bambino e dove c’è un bambino ogni dolore, ogni strazio, ogni devastazione, ogni bruttura del mondo diventa ancora più dolorosa, brutta e straziante. Nel mio sordido cinismo, la prima impressione che ho avuto di fronte a questa foto premiata dal Sipa 2021 è che non sia uno scatto rubato, perché non si può ridere ed essere felici quando sono più le parti del corpo che la guerra ti ha portato via di quelle rimaste. Quello che uno si aspetterebbe è la foto di un padre che si appoggia alla stampella e stringe in un abbraccio pietoso il bambino mutilato, anche lui in lacrime. Ma di fronte a un dolore del genere, il nostro sordido cinismo - il nostro di tutti noi che viviamo ben pasciuti e al sicuro nelle nostre case non bombardate - ci fa voltare dall’altra parte. Siamo abituati a ignorare, a rimuovere. Quando ci capitano sotto gli occhi queste immagini di dolore, che sia una foto o un servizio di telegiornale dalla Siria, distogliamo lo sguardo, siamo troppo abituati a pensare che sono fatti lontani, è la guerra che ci vuoi fare, e la guerra è sempre stata brutta e sporca, ma non è cosa nostra. La potenza di questa foto, anche se non fosse quell’immagine che coglie l’attimo fuggente, sta proprio nel fatto che i due ridono. E il fotografo che l’ha scattata - il turco Mehmet Aslan - è un genio proprio per questo. Perché attira la nostra attenzione, sa che per colpire il nostro immaginario è necessario raccontare una storia bella, nella quale ciascuno di noi, anche il cinico più sordido, si possa riconoscere e possa pensare che sì, la guerra è brutta e sporca, ma in fondo c’è sempre una speranza. Allora anche noi ci possiamo sentire un po’ più buoni, possiamo pensare che quel bambino nato malformato perché mentre era ancora nella pancia la sua mamma è stata colpita dal gas nervino, potrà avere un futuro grazie al nostro minuto di attenzione. E che quel padre che ha perso la gamba per colpa di una bomba, lo potrà accompagnare in un viaggio salvifico nel nostro occidente ben pasciuto. “Abbiamo cercato per anni di farci sentire per aiutare mio giglio con i trattamenti, faremmo di tutto per dargli una vita migliore”, ha detto al Washington Post la mamma del piccolo Mustafà, 5 anni. Bene, ora che abbiamo visto e ci siamo emozionati per il piccolo Mustafà, potremmo anche fermarci un attimo a pensare che per un bambino che ride in una foto ce ne sono migliaia che muoiono nei viaggi della speranza, di freddo sulla rotta balcanica, affogati in mare. Ma quelli non hanno neppure la forza di piangere, meglio non guardarli troppo. L’ambasciatore italiano resta in Turchia grazie ai nostri silenzi di Futura D’Aprile Il Domani, 25 ottobre 2021 Gli interessi economici del nostro paese ci impediscono di avere una posizione forte contro Erdogan. Anche sul tema dei diritti umani. La Turchia ha dichiarato persona non grata dieci ambasciatori occidentali che avevano firmato un appello per la liberazione del filantropo Osman Kavala, detenuto da quattro anni senza una sentenza di condanna. Kavala è accusato di aver preso parte al tentato golpe del 2016, di aver partecipato alle manifestazioni antigovernative del 2013 di Gezi Park e di essere vicino al magnate George Soros, figura particolarmente invisa al presidente Recep Tayyip Erdogan. Nel 2020 la Corte europea dei diritti dell’uomo era intervenuta sulla vicenda chiedendo la scarcerazione di Kavala, ma ad oggi gli appelli per la sua liberazione sono sempre caduti nel vuoto. A dover lasciare il paese anatolico dopo l’annuncio del ministero degli Esteri sono i rappresentanti diplomatici di Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti. Nell’elenco degli espulsi manca però l’Italia. Un’assenza che fa riflettere sullo stato delle relazioni tra Roma e Ankara e sulle priorità del nostro paese in politica estera. L’Italia continua a chiudere gli occhi sulle continue violazioni dei diritti umani in Turchia e sul crescente numero di oppositori rinchiusi in carcere senza una sentenza di condanna, come nel caso di Kavala. Fin dal fallito golpe del 2016, Erdogan ha usato i poteri conferitigli dallo stato di emergenza per incarcerare o licenziare attivisti per diritti umani, insegnanti, accademici, scrittori, avvocati, giudici, funzionari pubblici, sindacalisti, ex militari e parlamentari curdi. Il tutto con l’obiettivo ultimo di mettere a tacere ogni forma di opposizione e di dissuadere la popolazione civile dal ribellarsi al suo presidente. Interessi violati - Eppure neanche la politica neo-ottomana messa in campo da Erdogan nel Mediterraneo è riuscita a far cambiare posizione all’Italia, che vede i suoi stessi interessi costantemente lesi dall’espansione turca in quello che continua ad essere descritto come il mare nostrum. Nel 2019, solo per fare un esempio, la Turchia ha stipulato un accordo con il governo di Tripoli per la definizione dei confini marittimi e per la gestione delle risorse minerarie presenti al largo delle coste libiche, a discapito degli interessi energetici e geopolitici italiani. Ma Ankara ha anche cercato di mettere le mani sulla controversa Guardia costiera libica, addestrata ed equipaggiata da un’Italia ben poco attenta all’uso che veniva fatto delle sue motovedette. La Turchia è stata abile nello sfruttare a suo vantaggio l’ambiguità di Roma nei confronti del dossier libico, arginando l’influenza italiana nel paese africano e giocando sulla debolezza dell’allora premier Fayez al Serraj per mettere definitivamente piede in Libia. Ankara inoltre continua a sfruttare la presenza di 5 milioni di profughi sul suo territorio per ricattare l’Italia e l’Unione europea, dicendosi costantemente pronta ad aprire i propri confini e a scatenare una nuova crisi umanitaria. A partire da questa posizione di forza, Ankara ha anche potuto minacciare gli interessi greci ed europei nel Mediterraneo senza incorrere in alcuna sanzione, grazie anche alla posizione conciliante assunta dall’Italia in sede comunitaria. I rapporti economici - Per Roma, quindi, la tutela dei rapporti economici con la Turchia continua ad essere la vera priorità. D’altronde secondo i dati Istat l’interscambio commerciale con il paese anatolico nel 2020 ha fruttato 15 milioni all’Italia, nonostante i danni causati dalla pandemia. Il nostro paese è il quinto partner commerciale della Turchia a livello mondiale e il secondo tra gli Stati Ue dopo la Germania. Nel mercato turco inoltre sono attive oltre 1.500 imprese italiane e gli investimenti diretti nel 2018 hanno raggiunto i 523 milioni di euro. Non vanno poi dimenticati gli interessi del settore militare e della difesa: nel 2020 le autorizzazioni per le esportazioni di materiale di armamento hanno raggiunto un valore di 34,6 milioni, dopo i 63,7 del 2019 e i 362,3 del 2018. Alla luce di questi dati è facile farsi un’idea di quanto profondi siano i legami economici tra Italia e Turchia, ma tutto ciò è abbastanza perché il governo italiano continui ad avere un atteggiamento così tanto accondiscendente nei confronti di Ankara? La Turchia non ha riguardi verso gli interessi geopolitici di Roma o dell’Unione europea, né tantomeno per quei diritti umani che la stessa Italia si è impegnata a promuovere anche al di fuori dei propri confini. Eppure neanche il governo guidato da Mario Draghi sembra intenzionato a modificare la posizione dell’Italia nei confronti della Turchia. Ad aprile il premier ha definito il presidente Erdogan un “dittatore”, ma non ha mai messo in discussione i rapporti con la Turchia, specificando che con il leader turco bisogna continuare “a cooperare per gli interessi del paese”. Anche se questi non vengono in realtà rispettati. Amnesty International chiude i suoi uffici a Hong Kong: “Impossibile lavorare in libertà” La Stampa, 25 ottobre 2021 “Questa decisione, presa a malincuore, è stata guidata dalla legge sulla sicurezza nazionale”. Amnesty International getta la spugna e annuncia che chiuderà i suoi uffici a Hong Kong a causa della minaccia posta al personale dalla legge sulla sicurezza nazionale che Pechino ha imposto sull’ex colonia britannica alla fine di giugno del 2020. “Questa decisione, presa a malincuore, è stata guidata dalla legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, che ha reso impossibile alle organizzazioni per i diritti umani nella città di lavorare liberamente e senza timore di gravi rappresaglie da parte del governo”, ha affermato in una nota Anjhula Mya Singh Bais, presidente del board di Amnesty.