“Troppi processi e carcere: è abuso del diritto penale” di Filippo Tosatto Il Mattino di Padova, 24 ottobre 2021 La ministra Cartabia: “Puntare su sanzioni sostitutive per le pene brevi”. Lamorgese: “Prefetture allertate contro il disagio e infiltrazioni mafiose”. Nel Governo Draghi, la politica versione Law and Order ha i volti di Marta Cartabia e Luciana Lamorgese, di scena entrambe nella città del Santo (l’una in presenza, l’altra in streaming) al convegno promosso dall’associazione PadovaLegge, il think tank del diritto presieduto dall’avvocato Fabio Pinelli. Parole come pietre quelle pronunciate dalla ministra della Giustizia convinta che nel nostro Paese il potere di punire, “tanto terribile quanto necessario”, abbia assunto i contorni inquietanti di “un panpenalismo scandito dall’abuso e dall’invasività del diritto penale” dove “creare aggravanti o innalzare le pene è diventata la scorciatoia preferita”. “Troppe leggi, troppe norme”, incalza Cartabia “troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere e troppo carcere”. Al riguardo, permane “l’eccesso di custodia cautelare in cella per pene brevi, con le persone esposte alla pressione criminale per cui si rischia di ottenere effetti contrari a quello della rieducazione”. L’anomalia è stata “oggetto di riflessione molto attenta nell’ultimo Consiglio dei ministri d’Europa” e la Guardasigilli propone di sanarla attraverso “sanzioni sostitutive che evitino inutili e dirompenti passaggi in carcere”. Propositi salutati dall’applauso della platea: “Ci auguriamo che lei resti a lungo al timone del ministero così da portare a termine le riforme avviate, salvo che non acceda ad incarico ancor più elevato...”, il viatico di Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, con trasparente allusione alle chance di scalare il Quirinale accreditate alla giurista. Tant’è: l’allarme per la debordanza del processo penale, divenuto rovinosamente “strumento per dirimere i conflitti sociali” e “veicolo improprio di etica pubblica”, costella un po’ tutti gli interventi della prima sessione. Se il citato Pinelli denuncia “marasma legislativo e delirio regolatorio”, il presidente emerito della Camera Luciano Violante stigmatizza “la quantità enorme delle norme incriminatorie” dettate da “un’ideologia del punizionismo che alimenta gli spiriti animali dell’antipolitica” e trasforma la giustizia in “un populismo penale che offende la dignità della persona”. Un j’accuse condiviso, pur con sfumature e distinguo, dagli stessi rappresentanti della pubblica accusa, quali Giovanni Salvi procuratore generale della Corte di Cassazione - “Indagare interi cda oppure équipe mediche al gran completo è sbagliato, il carattere liberale del processo penale va salvaguardato” - e il procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo, implacabile nel denunciare “l’orribile situazione delle carceri dominate da organizzazioni criminali”. Pungente il giurista Massimo Donini: “È crollata l’immagine del pm supereroe, tutti si scoprono indagati e indagabili”; e così l’accademica Cristina De Maglie (“La pena intesa come fattore di coesione sociale è un’aberrazione”) mentre il governatore del Veneto, Luca Zaia, apre la seconda sessione - dedicata al diritto amministrativo e alla “fuga dalle responsabilità” dei funzionari pubblici - auspicando “la fine dell’impunità per chi lede la reputazione altrui con insulti e calunnie sui social”. È un capitolo animato dagli interventi sull’autonomia differenziata che Luca Antonini, giudice della Corte Costituzionale, definisce un “valore condizionato alla sua capacità effettiva di allocare al meglio le risorse nell’interesse della comunità” mentre il deputato e docente di diritto Andrea Giorgis invita a scorgere nella pubblica amministrazione “non un male necessario ma un bene particolarmente prezioso”. E poi l’economista Luigi Guiso; lo studioso Vittorio Domenichelli (“La semplificazione burocratica più volte tentata è rimasta sulla carta”); Alessandro Pajno presidente emerito del Consiglio di Stato e il figlio del Capo dello Stato, Bernardo Giorgio Mattarella, che sottolinea i ritardi nel processo di digitalizzazione statale e la scarsità di personale pubblico formato. Il sipario lo cala la donna a capo del Viminale, che evoca i recenti tafferugli a Trieste: “Da una parte c’erano i portuali, che volevano lavorare e dall’altra alcuni antagonisti, frange che erano arrivate da varie parti d’Italia e anche dall’estero, decisi a trasformare questa guerra del Green pass in una guerra di carattere nazionale. A quel punto noi siamo intervenuti con la massima attenzione alle persone, usando solo idranti”. La tensione provocata dalla pandemia e l’arrivo delle ingenti risorse europee impongono in ogni caso di elevare la vigilanza: “Ho allertato l’intera rete delle prefetture perché siano intercettati anche i minimi segnali di turbativa dell’ordine e della sicurezza capaci di agevolare le mafie nell’azione di infiltrazione nell’economia legale”, conclude Lamorgese, annunciando un traguardo digitale atteso e non trascurabile: “Nell’arco di pochi giorni i cittadini potranno accedere direttamente al portale del Comune e stampare i documenti occorrenti direttamente da casa”. Il ministro Cartabia boccia il carcere facile. “Sanzioni per sostituire le pene brevi” di Stefano Zurlo Il Giornale, 24 ottobre 2021 Troppe leggi. Troppi processi. E troppo carcere. Troppo di tutto. Marta Cartabia interviene a Padova ad un convegno e spiega il malfunzionamento della giustizia italiana. Lei ci ha provato, ma le riforme in rampa di lancio sciolgono solo qualche nodo. Gli ostacoli, i macigni sul cammino dei procedimenti, sono ancora lì. Il Guardasigilli lo sa perfettamente e lo comunica al pubblico chiamato dall’Associazione Padova Legge: “Ci sono ancora molti problemi, come l’uso della custodia cautelare in carcere già oggetto di una riflessione attenta nell’ultimo Consiglio dei ministri d’Europa. Quante detenzioni in carcere - spiega il Guardasigilli - ci sono per pene brevi in cui di fatto le persone vengono esposte ad una criminalità per cui si rischia di ottenere effetti contrari a quello della rieducazione?”. È un aspetto noto e sconcertante del nostro circuito penitenziario: detenzioni rapide e frammentate, si entra, si prende il peggio del sistema, si esce, si ricomincia spesso come e più di prima, le prigioni sembrano avere porte girevoli come gli hotel. In questo contesto è fra l’altro impossibile avviare seri progetti educativi. Per questo Cartabia rilancia la sua idea: “Sanzioni sostituite alle pene brevi per evitare inutili passaggi in carcere che sono dirompenti per il carcere e per la persona”. C’è molto da fare, anche perché il capitolo penitenziario ha almeno un altro lato, tutto da esplorare: non solo le condanne a una manciata di anni che, fra bonus e sconti, finiscono solo con l’ingarbugliare l’apparato, ma la piaga delle carcerazione preventiva che troppe volte anticipa una clamorosa assoluzione. Secondo Enrico Costa di Azione dal 1991 al 2020 ci sono stati trentamila fra assoluzioni e proscioglimenti. Più o meno mille l’anno, due o tre al giorno. Uno sproposito. Il ministro offre un altro dato, complementare: “Il 35 per cento dei processi si chiude con l’assoluzione”. Un numero a suo modo inquietante, perché il malcapitato spesso è finito dietro le sbarre ed è stato colpito dallo stigma della riprovazione sociale. C’è poi la nebbia della prescrizione e anche qui le cifre fanno piazza pulita della retorica giustizialista: “La prescrizione dei reati colpisce il 37 per cento dei procedimenti in fase di indagini preliminari, in totale il 65 per cento entro il primo grado”. Dunque, per quanto possa sembrare incredibile, il collo di bottiglia è già nell’azione a rilento delle procure: se i processi durano tanto, le indagini vanno avanti ancora di più. E molti fascicoli muoiono prima ancora che si arrivi a sentenza. Ricapitolando e completando: troppe notizie di reato e troppe leggi, troppe indagini e troppi verdetti, troppo carcere e troppa prescrizione. Poi c’è la crisi della magistratura e qui il ministro della giustizia invita a non generalizzare: “Non è giusto travolgere l’intero mondo della magistratura negli scandali Palamara e simili. La maggior parte dei giudici sono laboriosi, coscienziosi e dediti al loro compito”. Certo, occorre cambiare e per questo Cartabia impegna due concetti, intervenendo a Parma alla festa del quotidiano Domani: “Ci vogliono le necessarie riforme - risponde al direttore Stefano Feltri - ma soprattutto la rigenerazione che attinge a un sostrato culturale”. Il cantiere legislativo riapre martedì con i capigruppo della maggioranza. In agenda, il nuovo Csm. Contro la violenza in carcere le body-cam per gli agenti di Maria Tornielli Il Domani, 24 ottobre 2021 Alla festa del giornale Cartabia ringrazia Domani per le inchieste sui pestaggi a Santa Maria Capua Vetere Si schiera contro le querele temerarie ai giornalisti e annuncia l’intenzione di insistere sul caso Regeni. “Voglio ringraziarvi per il lavoro giornalistico che ha innescato un dibattito nel paese e fuori dai confini nazionali”: ha esordito così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nel rispondere al direttore di Domani, Stefano Feltri, sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, rivelate dalle inchieste del quotidiano. Intervistata ieri durante la festa del giornale a Parma, Cartabia ha annunciato che il ministero sta vagliando l’introduzione delle body-cam che rendano riconoscibili e controllabili gli agenti di polizia penitenziaria. Per loro già nei mesi scorsi Domani aveva chiesto l’introduzione di numeri identificativi. La guardasigilli ha anche parlato della riforma del processo penale e toccato il tema dell’abuso di querele intimidatorie nei confronti dei giornalisti. Identificare gli agenti - Nell’annunciare il possibile arrivo delle body-cam, Cartabia ha specificato che “servono normative, ma non ci sono ostacoli”, dal punto di vista della privacy. “Per ora stiamo facendo dei passi preliminari, ho chiesto uno stanziamento di bilancio, perché questi strumenti costano, ma non ci sono particolari difficoltà”, ha aggiunto la ministra. L’Italia è uno di soli cinque paesi Ue che non prevedono l’identificabilità delle forze dell’ordine, nonostante esista una raccomandazione europea del 2011 sull’obbligatorietà del numero identificativo per gli agenti. Proposte di legge sull’introduzione di questa forma di identificazione per la polizia sono state introdotte nella scorsa legislatura, ma non sono mai uscite dalla discussione in commissione. E restano ancora bloccate quelle avanzate dal radicale Riccardo Magi e da Giuditta Pini del Pd: quest’ultima chiedeva anche l’introduzione delle body-cam, come quelle di cui ha parlato Cartabia. La riforma delle carceri - Quella di una strumentazione di controllo più completa, ha spiegato Cartabia, è una richiesta che è stata avanzata sia dai detenuti sia dal personale carcerario. Un’altra richiesta della polizia penitenziaria è quella di “una maggiore formazione per intervenire in modo adeguato” in situazioni di tensione: “Stiamo aumentando l’offerta”, ha affermato la ministra. Cartabia ha anche detto che i fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno sollecitato il governo “a verificare cosa stava succedendo in altri carceri, soprattutto in quelli dove ci sono state rivolte”. L’abuso delle querele - Di fronte alla domanda di Feltri sull’abuso delle richieste di danni ai giornali in sede civile da parte di politici e giornalisti e sull’effetto che possono avere sulla libertà di stampa, la ministra ha sottolineato che è un problema sentito non solo in Italia. Il tema, ha detto Cartabia, è emerso anche durante la seduta di ottobre del Consiglio dei ministri dell’Unione europea, sollevato dalla vicepresidente della Commissione, V?ra Jourová: “Ha voluto parlare delle Slapp, Strategic lawsuit against public participation, che colpiscono giornalisti e non solo allo scopo di raffreddare il dibattito pubblico”. “Si sta ragionando su uno strumento per risolvere il problema”, ha spiegato Cartabia: “Da una parte c’è la preoccupazione per l’ampiezza del dibattito pubblico, dall’altra non si può sacrificare il diritto di ogni persona ad accedere a un giudice per tutelare i propri interessi personali, ma è un punto di lavoro interessante”. Il caso Regeni - La ministra ha anche parlato degli sviluppi recenti del processo per l’omicidio di Giulio Regeni, che in assenza di conferma dell’avvenuta notifica ai quattro imputati - membri dell’intelligence egiziana - dovrà tornare di fronte al Giudice per l’udienza preliminare, per una nuova rogatoria. “Gli uffici giudiziari italiani si sono appoggiati alle ambasciate egiziane che non hanno dato riscontro dell’avvenuta notificazione”, ha detto Cartabia. “La ripeteremo, anche con investimento maggiore da parte del ministero stesso, nell’ambito di ciò che è consentito dal diritto attuale”. “Il caso Regeni è clamoroso, ma è un problema che riguarda molti processi penali”, ha poi continuato Cartabia, sottolineando che è un tema affrontato anche dalla riforma del processo penale: “Nella riforma si rende più incisiva la ricerca dell’imputato, ma quando c’è contezza del fatto che l’imputato si sta sottraendo si consente di procedere”. Sempre parlando della riforma, la ministra ha affermato che il discusso meccanismo dell’improcedibilità dovrà funzionare come un’extrema ratio e che per risolvere il nodo dei tempi della giustizia italiana sono stati previsti investimenti di risorse e personale. E quando Feltri le ha chiesto quale fosse stata la questione più difficile affrontata in questi otto mesi da guardasigilli, Cartabia ha menzionato proprio quello: “L’improcedibilità stato il capitolo più difficile, perché lì tutte le argomentazioni di merito e di contenuto si scontravano con posizioni pregresse, c’erano condizionamenti politici che hanno reso impercorribili alcune proposte”. La crisi della magistratura - La guardasigilli ha anche commentato lo stato della credibilità della magistratura, dopo i vari scandali tra il caso Palamara e quello dei verbali di Piero Amara. “Non è giusto addebitare all’intero corpo della magistratura negli scandali Palamara e simili. La maggior parte dei giudici sono coscienziosi e dediti al loro lavoro”, ha detto la ministra. “La riforma dell’elezione del Csm”, ha poi continuato Cartabia, “è sentita come necessaria. Ma c’è questa aspettativa che è simile a quella di rinnovare la politica cambiando il sistema elettorale, quando poi sempre è difficile prevedere l’effetto che avrà”. Per Cartabia la magistratura ha soprattutto bisogno di quella “rigenerazione” profonda auspicata di recente anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Papa Francesco ai detenuti: “Tutti sbagliamo ma l’importante è non rimanere sbagliati” Avvenire, 24 ottobre 2021 Incontro a Santa Marta con carcerati ed ex carcerati che stanno scontando o hanno scontato la loro pena all’interno di strutture della Comunità di don Benzi a Vasto. “Tutti sbagliamo nella vita ma l’importante è non rimanere sbagliati”. Lo ha detto papa Francesco incontrando ieri a Santa Marta un gruppo di detenuti ed ex detenuti che stanno scontando o hanno scontato la loro pena all’interno di strutture della Comunità di don Benzi a Vasto, in provincia di Chieti, e a Termoli vicino Campobasso. Occorre “sempre camminare” da soli o chiedendo la mano di qualcuno, bussando alla porta anche se si vive lo smarrimento e non si sa dove andare, ha continuato il Pontefice. “È il Signore che ti dà l’opportunità e ti fa fare un passo”. Ad accompagnare il gruppo, don Benito Giorgetta, parroco della chiesa di San Timoteo a Termoli. Dell’incontro riferisce Vatican News. Francesco ha scelto di sentire la loro voce e ha ringraziato i presenti per le testimonianze offerte, spesso dure e faticose. Poi ha auspicato che la loro rinascita sia “contagiosa” e anche “liberatrice” e soprattutto che aiuti altre persone a fare lo stesso cammino. Quindi “l’importante, nella vita, è camminare, essere in strada”. C’è chi non vede la direzione e nemmeno la via, c’è “gente parcheggiata” da aiutare, con il “cuore parcheggiato” nel quale non entra l’inquietudine che ti fa muovere. “Ci muoviamo ma come in un labirinto, non troviamo la porta di uscita, la strada e andiamo lì, girando e girando dentro le cose senza uscirne”. Il Papa ha citato un canto degli Alpini che invita a non restare per terra, una volta che si è caduti. Rialzarsi anche grazie a chi aiuta a risollevarsi, senza mai guardare dall’alto in basso chi è caduto, perché “è indegno”. “Tante volte noi nella vita troviamo una mano che ci aiuta a sollevarci: anche noi dobbiamo farlo con gli altri: con l’esperienza che noi abbiamo, farlo con gli altri”. Prima di salutare ha invitato a mettere a frutto quanto vissuto per generare il bene vero: “Io mi auguro che la vostra esperienza sia feconda, che sia come il seme, che si semina e poi cresce, cresce... Che sia come una malattia buona: si contagia. Un’esperienza contagiosa. E che sia liberatrice, che apra delle porte a tanta gente che ha bisogno di vivere l’esperienza che voi avete vissuto”. Giustizia, da martedì al Salone si discute di riforme: ospiti 3 ministri e 4 leader di partito adnkronos.com, 24 ottobre 2021 Tre ministri, quattro leader di partito, tutti i comandanti delle forze dell’ordine, alti magistrati, avvocati, giuristi e dieci direttori di testate giornalistiche. Dibattiti, convegni e “Faccia a faccia”: tre giorni di eventi, tutti in diretta, in un format sempre più istituzionale. Il salone della Giustizia torna dal 26 al 28 ottobre. I leader di quattro partiti italiani si confronteranno sul tema scottante della riforma del processo penale, civile e fallimentare. La cui approvazione entro l’anno è tra le condizioni per ottenere i benefici del Recovery Fund. Letta, Meloni, Salvini e Calenda dovranno spiegare le rispettive posizioni ai direttori di testate giornalistiche nel corso di singoli “Faccia a faccia” di 30 minuti, che si svolgeranno nel Centro studi televisivi Tecnopolo, a Roma. Le tre giornate dei lavori saranno trasmesse in diretta streaming. Massimo Martinelli, direttore del Messaggero, intervisterà Carlo Calenda alle 17.30 del 26 ottobre. Il giorno dopo alle 15, Matteo Salvini se la vedrà con il direttore di SkyTg24 Giuseppe De Bellis. E alle 17.30 Alessia Lautone, direttore dell’agenzia LaPresse, incontrerà Enrico Letta. Nella giornata conclusiva (alle 15 del 28 ottobre) confronto tra Giorgia Meloni e il direttore dell’Adnkronos Gian Marco Chiocci. Il Salone si aprirà ufficialmente il 26 ottobre alle 10 con l’intervento dell’Avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli. Seguirà il primo convegno in programma su “Lavoro, investimenti e giustizia civile”. La sezione del mattino si concluderà con un dibattito moderato da Davide Varì, direttore del Dubbio, su “Giustizia e Azienda Italia”. Il pomeriggio si aprirà con il primo confronto a due tra Roberto Tomasi, amministratore delegato di Autostrade, e Osvaldo De Paolini, vicedirettore del Messaggero. Subito dopo, Marco Frittella del Tg1 aprirà il tavolo su “Cambiamenti climatici: come coniugare attività d’impresa e tutela della salute” a cui parteciperà tra gli Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile. Mercoledì l’apertura della seconda giornata sarà affidata al generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario per l’emergenza Covid. Il ministro della Salute Roberto Speranza introdurrà poi i lavori del dibattito sul “Diritto di venire al mondo. Denatalità: strategie per il futuro”. Nel pomeriggio uno degli incontri più attesi per la sua attualità: su “Pandemia in sicurezza” si confronteranno Lamberto Giannini, capo della Polizia e direttore generale Ps, Teo Luzi, comandante generale Arma dei Carabinieri, Nicola Carlone, comandante generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, e Giuseppe Vicanolo, comandante in seconda della Guardia di Finanza. La giornata conclusiva di giovedì 28 ottobre vedrà in apertura l’intervento del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, cui seguirà il convegno “Istruzione e Giustizia”. Nel pomeriggio confronto su “Sport, economia e sociale” con il presidente del Coni Giovanni Malagò e il presidente della Figc Gabriele Gravina. Il dibattito finale verterà sul “Ruolo delle donne per lo sviluppo del Sud Italia”. Gli ultimi due “Faccia a faccia” concluderanno la 12ma edizione del Salone della Giustizia: il primo vedrà protagonista Adolfo Urso, presidente del Copasir, su “Giustizia e sicurezza nazionale”; il secondo, “Riflessioni sulla giustizia penale”, sarà tra il presidente dell’Unione Camere penali italiane Gian Domenico Caiazza e Marco Damilano, direttore del settimanale L’Espresso. Cartabia: “In Italia troppi processi e indagini a vuoto” di Stefano Bensa Corriere del Veneto, 24 ottobre 2021 Il ministro: “C’è un abuso del diritto penale”. E Lamorgese: a Trieste fermati gli antagonisti. Non chiamatela Riforma Cartabia: è stato il frutto di contributi, esigenze e collaborazioni”. Il cui scopo è sostanzialmente uno: snellire la giustizia. In termini di velocizzazione dei processi e di contenimento del cosiddetto “panpenalismo”, la concezione secondo la quale ogni reato ha rilevanza penale. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia lo ha spiegato chiaramente, ieri a Padova, all’evento “Autorità pubbliche e libertà del cittadino” organizzato dall’associazione “Padovalegge” in collaborazione con il Bo: “Il potere di punire ha affermato - è tanto terribile quanto necessario. Ma è un potere che ha preso dimensioni esorbitanti”. Il riferimento è all’uso massiccio della custodia cautelare in carcere, così come alla presenza di “troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagiil ni lasciate cadere”. E troppe pene brevi scontate esclusivamente dietro le sbarre, “dove si espone il detenuto, che dovrebbe essere rieducato, a una criminalità che rischia di produrre l’effetto contrario”. In questo senso il ministro Cartabia lancia una proposta al Parlamento: analizzare preventivamente l’impatto di una regolazione o di una legge, persino sulle carcerazioni. Anche perché “il 35% dei processi finisce in assoluzioni, mentre la prescrizione interviene nel 37% dei casi in fase di indagine e il resto dopo il primo grado”. Insomma, aver appesantito sistema è uno dei problemi chiave della giustizia italiana. “E vanno valutate sanzioni alternative alla detenzione. Recentemente - ha spiegato Cartabia - ho ricevuto una serie di associazioni di volontariato disposte ad accogliere fino a 9 mila persone”. L’intervento ha poi affrontato un’altra questione: l’impatto degli avvisi di garanzia sulla “reputazione” dei diretti interessati. Un problema tanto più amplificato dai social media, oltreché dai mezzi di comunicazione di massa. Sul tema si era espresso, all’inizio del convegno, anche il presidente merito della Camera dei Deputati Luciano Violante, secondo cui “si è costituita una “società punitiva” che si avvale di criteri basati essenzialmente sulla centralità della investigazione penale della vita della nazione”. Ed è un argomento sfiorato, durante la conversazione con il giornalista Paolo Possamai, anche dal presidente della Regione Luca Zaia, a proposito della lentezza della pubblica amministrazione. “Un’azienda può avviare cause milionarie nei confronti di un sindaco o un funzionario per una singola pratica. Che, di conseguenza, viene esaminata ripetutamente ingessando tutto”. In chiusura, collegata da Roma, il ministro dell’interno Luciana Lamorgese ha illustrato le opportunità del Pnrr su digitalizzazione e snellimento dell’apparato burocratico del Paese. Affermando come la vicinanza delle istituzioni sia necessaria soprattutto adesso, in fase post (o quasi) Covid anche per stemperare le tensioni. “A Trieste - ha dichiarato - abbiamo tutelato il diritto al lavoro: da una parte c’erano i portuali, che volevano lavorare. Dall’altra c’erano alcuni antagonisti, frange arrivate da varie parti d’italia e dall’estero che volevano fare di questa guerra del green pass una guerra di carattere nazionale. A quel punto siamo intervenuti con la massima attenzione possibile, usando solo idranti”. Infine, sempre riguardo al Covid, Lamorgese ha assicurato che “già dall’inizio ho allertato la rete delle Prefetture perché fossero intercettati anche i minimi segnali che potessero creare un problema di turbativa dell’’ordine e della sicurezza pubblica, e che potessero agevolare le mafie nell’infiltrazione dell’economia legale”. Economia legale “fondamentale per lo sviluppo del Paese”. Dalle toghe ai partiti, è già guerra di nervi sulla riforma del Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 24 ottobre 2021 Martedì prossimo vertice con la ministra Cartabia. Intanto le varie anime della magistratura associata affilano le armi. Il timore tra le correnti della magistratura è lo stesso: che a soli nove mesi dal rinnovo del Csm si attui una riforma del sistema elettorale sull’onda dell’urgenza, con un dibattito parlamentare compresso e senza tener conto dei contributi che potrebbero arrivare dall’accademia e dalle toghe. Un po’ come è avvenuto per la riforma del processo penale. Eppure sarebbe probabilmente lo snodo principale per quella rigenerazione etica e culturale della magistratura, sollecitata anche dal Presidente Mattarella. Anche se, secondo i penalisti guidati da Caiazza, la vera riforma sarebbe quella delle valutazioni professionali dei magistrati. Comunque, due giorni fa la ministra Cartabia avrebbe dovuto incontrare i capigruppo di maggioranza per incardinare la discussione a partire dalla proposta della Commissione Luciani, ma si sono collegati solo Costa e Zanettin. Questo avrebbe fatto irritare non poco la guardasigilli che, nel ricordare “l’urgenza di riprendere un confronto”, ha rimandato tutto alla settimana prossima, probabilmente a martedì 26. Intanto però le varie anime della magistratura associata affilano le armi e cominciano a fare pressione. Magistratura democratica, dopo quello che preferiscono chiamare ‘recupero di autonomia’ invece che prosaicamente ‘ scissione’ da AreaDg, appoggia la riforma Luciani del ‘ voto singolo trasferibile’. Come spiega la relazione della Commissione, “esso consente di produrre, in collegi di ampiezza almeno media (quattro-cinque seggi) dei risultati di tipo tendenzialmente proporzionale e valorizza fortemente il potere di scelta dell’elettore, eliminando il fenomeno del voto inutile, grazie al trasferimento ad altri candidati delle preferenze espresse dagli elettori di candidati già eletti o giunti ultimi nel confronto elettorale”. Proprio per questo ha raccolto il placet delle toghe guidate dal dottor Stefano Musolino: i sistemi proporzionali “garantiscono - si legge in un documento dell’esecutivo di Md - la plurale rappresentatività delle diverse sensibilità presenti in magistratura e sono in grado di dare autentiche chance di successo anche a nuove aggregazioni che si propongano come alternative ai gruppi associati “storici”. Diversa in parte la posizione del dottor Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente: “In merito al nuovo possibile sistema elettorale, le ipotesi che fino ad ora sono sul tavolo riguardano sistemi nuovi, che non hanno avuto una sperimentazione. Temiamo che si vada incontro ad una modifica affrettata e dagli esiti sconosciuti”. Per questo la proposta di MI da un lato approva la scelta della Commissione Luciani “di suddividere il territorio nazionale in più collegi plurinominali, coerente con l’obiettivo di ridurre la possibilità di condizionamenti del voto”, dall’altro lato esprime però “forti perplessità” sul sistema di ‘ voto singolo trasferibile’ “che attribuisce particolare peso alle seconde e terze preferenze correlate ai candidati più votati, perché tale sistema si presta alla elaborazione di cordate e, dunque, a condizionamenti del voto, frutto di accordi correntizi”. Sulla possibilità che la legge proposta dalla Commissione Luciani favorisca una polarizzazione che veda MI contrapposta ad Area e Unicost, Piraino conclude: “Innanzitutto il panorama mi sembra molto più variegato. Basti pensare alla recente emersione di questa nuova realtà che è Articolo Centouno. E poi, se noi guardassimo al nostro interesse, la soluzione migliore sarebbe il ballottaggio, sistema perfetto per polarizzare il consenso perché impone aggregazione. Ma noi per primi siamo contrari al ballottaggio, che è il luogo privilegiato di accordi tra gruppi”. Ancora più diretto è il dottor Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, che così commenta con noi la notizia, apparsa qualche giorno fa su Domani, secondo cui appunto la sua corrente si starebbe alleando con Unicost contro MI: “Ignoti commentatori del mondo di MI parlano di alleanze già strutturate e tentativi di escludere quel gruppo. Si tratta di grandi fandonie, a maggior ragione se chi le dice non se ne assume neanche la paternità. Non ci sono e non ci saranno alleanze di nessuno contro nessuno, perché non è nostro costume agire in questo modo. Il problema invece su cui occorre porre l’attenzione è la necessità che il nuovo sistema non crei un bipolarismo, favorendo così i gruppi più grossi. È fondamentale, invece, che sia garantita la maggiore rappresentanza possibile dei gruppi all’interno del Csm. A mio parere la proposta Luciani non produce l’effetto della polarizzazione perché da una parte impone a tutti i gruppi di allargare molto il numero dei candidati e dall’altra offre all’elettore la possibilità di indicare 3 o 4 preferenze. Quindi anche da questo punto di vista consente di mantenere l’elettore libero da controlli e condizionamenti. Pertanto la proposta Luciani sulla carta mi sembra quella più adatta a ridurre il peso delle correnti. Per quanto riguarda i sistemi maggioritari: se fosse di tipo uninominale, rafforzerebbe il condizionamento dell’elettore, invece quello binominale porterebbe al rischio della polarizzazione”. La Cassazione ai magistrati: “Limitare l’uso dei social, niente post sulla vita privata” di Valentina Errante Il Messaggero, 24 ottobre 2021 Le raccomandazioni: evitare l’adesione a gruppi o pagine “connotati politicamente”. Sconsigliata l’esibizione virtuale e attenzione alle amicizie o ai gruppi. Una specifica disciplina giuridica non c’è, ma l’uso dei social da parte delle toghe è comunque regolato dalle norme deontologiche. E riguarda anche la sfera privata. Il principio è quello del “self-restraint”, ossia l’autocontrollo anche sulle mailing list, perché “ove non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati e potrebbero offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria”. Lo precisa la Cassazione che, attraverso l’ufficio del Massimario, ha risposto a un questionario arrivato dalla Corte Suprema della Repubblica Ceca. Va da sé, ma piazza Cavour lo sottolinea, che esprimere opinioni su argomenti legati all’attività dell’ufficio può costituire un illecito disciplinare. La novità riguarda però la vita privata: “si raccomanda la riservatezza”. E si sottolinea il rischio di ledere la credibilità complessiva della magistratura anche con partecipazioni a gruppi o follow che abbiano rilevanza politica. “I limiti - si legge nel documento della Cassazione - sono particolarmente penetranti con riguardo alle espressioni, esternazioni o pubblicazioni che abbiano legami con i contenuti dei procedimenti trattati nell’ufficio o con le persone in essi coinvolti, giacché la legge recante la disciplina degli illeciti disciplinari stabilisce che il magistrato esercita le funzioni con correttezza, riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni”. In certi casi, sottolineano i giudici esternazioni o pubblicazioni possono costituire un illecito disciplinare “allorché siano tali da tradursi in gravi scorrettezze nei confronti delle parti, dei difensori, dei testimoni o di qualunque soggetto coinvolto nel procedimento o nei confronti di altri magistrati”. I limiti, per le toghe, però non riguardano solo l’ambito professionale, ma anche le esternazioni sulla vita privata. Si legge nel documento infatti che l’attività dei magistrati sui social network “deve ritenersi limitata anche quando si riferisca ad espressioni o pubblicazioni di natura privata”. La regola è quella della sobrietà nei comportamenti che impone “di non eccedere nell’esibizione virtuale di frammenti di vita privata che dovrebbero restare riservati, al fine di non pregiudicare il necessario credito di equilibrio, serietà, compostezza e riserbo di cui ogni magistrato (e, quindi, l’intero ordine giudiziario) deve godere nei confronti della pubblica opinione”. In questa prospettiva le regole deontologiche impongono un self-restraint “ancor più rigoroso nei casi in cui le esternazioni o le pubblicazioni (ma anche la creazione di amicizie o connessioni virtuali o la partecipazione a gruppi o a follow) abbiano rilevanza politica o investano temi di interesse generale”. La regola non vale solo per la magistratura ordinaria, ma anche per i giudici di Tar e Consiglio di Stato. Lo scorso marzo, il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, con una delibera, ha definito le linee guida sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati. Il documento si occupa in particolare, delle amicizie e delle connessioni create o accettate on line dai giudici amministrativi, raccomandando che i collegamenti siano gestiti con estrema diligenza e precauzione, limitando le connessioni virtuali che riguardino soggetti coinvolti nel ruolo istituzionale o possano intaccare l’immagine di imparzialità. Infine si prevede che ogni magistrato amministrativo abbia il diritto e il dovere di ricevere una formazione specifica relativa ai vantaggi e ai rischi dell’utilizzo dei social network e si raccomandano iniziative di aggiornamento e formazione a cura del Consiglio di presidenza e dell’Ufficio studi della giustizia Amministrativa. Modena. Una lettera riapre il caso della strage misteriosa nel carcere di Luigi Mastrodonato Il Domani, 24 ottobre 2021 Un detenuto scrive di essere stato presente alla repressione da parte degli agenti: “La più grande macelleria che ho mai visto”. La madre di un altro denuncia ritorsioni in prigione contro chi ha provato a dire la verità. Una lettera e alcune testimonianze fanno emergere nuovi dettagli sui fatti del carcere di Modena dell’8 marzo 2020, quando nel corso di una rivolta morirono nove detenuti, alcuni nelle celle, altri durante e dopo i trasferimenti. Nelle prossime settimane verrà presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione del fascicolo sui decessi. Un detenuto che sarebbe stato presente nelle fasi più concitate della rivolta ha inviato nei giorni scorsi una lettera al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma per raccontare la sua versione. Nella missiva parla della “più grande macelleria che ho visto nella mia vita”, riferendosi tanto al carcere emiliano quanto a quello di Ascoli, dove sarebbe stato trasferito nelle ore successive ai disordini. “Siamo stati ammazzati di botte”, scrive, “ho visto la gente morire davanti ai miei occhi. Da Modena ad Ascoli lo stesso”. Lamenta dolori al braccio e problemi alla gola da ormai un anno e mezzo, a seguito delle violenze. “Mi hanno messo vicino al muro con la testa in giù. Spogliato tutto nudo, davanti alla gente, picchiato con pugni e calci. Mi hanno tenuto con il manganello alla gola. Sputavo sangue dalla bocca”. Una versione che coincide con quella emersa dalle lettere di altri carcerati in questi mesi. Il detenuto parla di un “massacro” e denuncia anche le difficoltà nel carcere di Ascoli, dove “siamo stati senza vestiti e senza scarpe, mangiavamo panini duri come sassi, facevamo la doccia con l’acqua sporca, quando andavi a telefonare ti staccavano la linea”. Non gli sarebbero mai stati restituiti gli effetti personali dopo il trasferimento, come la patente, la carta di credito e diversi oggetti di valore. A questo racconto si aggiunge quello di Annamaria Cipriani, madre di Claudio, uno dei detenuti presenti nel carcere di Modena il giorno dei disordini, che ripercorre tramite le parole del figlio quei momenti. “Lui e i suoi compagni non c’entrano con la rivolta, quando hanno visto il fumo hanno cercato di mettersi in salvo, aiutando anche donne detenute e infermieri. Sono riusciti ad arrivare all’esterno e qui sono stati presi di forza e portati in un altro edificio. È arrivata una squadriglia, li hanno fatti spogliare e li hanno picchiati”, racconta la donna. “A mezzanotte li hanno caricati su un mezzo della polizia, scalzi con maglietta e mutande. Qui sono continuati insulti, minacce e botte. Arrivati ad Ascoli, mio figlio mi ha raccontato che si è presentata una squadra di una decina di persone incappucciate e gliele hanno date di brutto. Non credo fossero persone del carcere”. A vivere quei momenti con Claudio Cipriani c’era Salvatore Piscitelli, deceduto nel giro di poche ore una volta arrivato ad Ascoli. Una morte su cui proprio Cipriani e altri quattro detenuti hanno presentato due esposti in procura nei mesi scorsi per denunciare le violenze e i mancati soccorsi. Da lì la loro vita penitenziaria si sarebbe trasformata, vittime, secondo la donna, di una vendetta. “Mio figlio ha grossi problemi alla prostata, a giugno il medico l’ha messo in urgenza per un’ecografia perché potrebbe avere un tumore. Finora però non gli è stato permesso di fare alcuna visita specialistica”, spiega. “Non riesce a leggere per problemi di vista, dalla scorsa primavera chiede una visita oculistica ma non gli permettono di farla. Vorrebbe anche tornare a frequentare l’università, ha fatto quattro appelli per iscriversi dal carcere e glieli hanno rifiutati: lui e gli altri dell’esposto subiscono ritorsioni”. Solo qualche giorno fa la donna è riuscita per la prima volta in un anno e mezzo a fare visita al figlio, oggi nel carcere di Parma: “Si è avvicinata la Digos per chiedere chi fossimo andati a trovare, non volevamo dirlo ma insistevano. Alla fine si è avvicinato un ispettore e ha risposto che eravamo andati dal “capo delle olive ascolane”, a dimostrazione di come ci sia particolare attenzione su mio figlio e sugli altri detenuti dell’esposto. A uno di loro hanno offerto un lavoro in biblioteca a condizione che ritirasse la firma dal documento”. Mentre emergono nuovi dettagli e storie, a giugno l’inchiesta sui decessi (tranne quello di Salvatore Piscitelli) è stata archiviata. Questo nonostante siano emersi molti dubbi e contraddizioni al riguardo, tra orari che non combaciano, referti medici discordanti che certificano in alcuni casi i traumi sui corpi, mancate autopsie, confusione nei soccorsi e testimoni mai sentiti, come ha approfondito anche la giornalista Lorenza Pleuteri in un’inchiesta su Osservatorio Diritti. In estate è stato aperto dalla procura di Modena un nuovo fascicolo contro ignoti per il reato di tortura, ma le famiglie delle vittime e i loro legali non ci stanno che l’altra inchiesta finisca nel cassetto e soprattutto che sia considerata slegata da quella sulle presunte violenze. L’avvocato Luca Sebastiani, che difende i parenti di due detenuti morti quell’8 marzo 2020, ha allora sottoscritto un ricorso, predisposto anche dal professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che nelle prossime settimane sarà presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’obiettivo è che vengano riaperte le indagini sui decessi, sperando anche che si sblocchi il grande problema di Modena: le telecamere. La versione ufficiale è che la rivolta e il blackout abbiano bloccato le riprese, con i video andati persi. Ma ci sono contraddizioni nella documentazione del carcere in cui si fa riferimento all’esistenza di immagini quantomeno nelle fasi iniziali dei disordini. Viterbo. Suicidio in carcere, il caso di Hassan Sharaf si perde nell’oblio di Valentina Errante Il Messaggero, 24 ottobre 2021 Perso nell’oblio della giustizia. Il caso di Hassan Sharaf, 21enne egiziano morto suicida nel carcere di Viterbo, resta sospeso. Sospeso e nascosto tra altri faldoni. Il giudice prenderà in esame l’opposizione all’archiviazione - presentata dai familiari, dall’ambasciata egiziana e da una ong per i diritti umani - solamente nel 2024. Tre anni. Quando dalla morte del ventenne ne sono già passati altrettanti. Il 30 luglio del 2018 Hassan si impicca con le lenzuola nella sua cella in isolamento. Inutile la corsa verso l’ospedale di Belcolle, dove viene registrata la sua morte. Il giovane egiziano era detenuto nel carcere di Viterbo per un cumulo di pene. Piccoli reati che gli hanno spezzato la libertà. E forse anche la vita. La morte di Hassan in un baleno ha riaperto vecchie, e mai sopite, ferite del carcere di Viterbo. Perché Hassan prima di decidere di farla finita aveva raccontato di aver subito abusi e di temere per la propria vita. Una paura così forte che lo avrebbe spinto al suicidio. Il gesto di Hassan ha destato l’attenzione anche del ministero degli Esteri egiziani che pochi giorni dopo il decesso ha inviato alcuni rappresentanti dell’Ambasciata a chiedere di fare piena luce sulla vicenda. Una storia che in alcuni passi assomiglia a quella di Giulio Regeni. Ragazzo italiano ammazzato di botte in un carcere egiziano. La Procura nell’immediatezza aprì un fascicolo per istigazione al suicidio nel tentativo di capire cosa fosse realmente accaduto nel penitenziario e se davvero quel giovane fosse stato spinto da soprusi e percosse a mettere fine alla sua vita. Dopo l’apertura del fascicolo la Procura ha chiesto l’archiviazione del caso. L’unico procedimento che fu aperto è quello per percosse. Schiaffi che due agenti avrebbero dato al giovane prima di spostarlo in isolamento. Il 15 dicembre i due agenti compariranno davanti al giudice Elisabetta Massini con l’accusa di abuso dei mezzi di correzione. Il punto vero però è l’archiviazione. L’avvocato Giacomo Barelli, che assiste l’ambasciata egiziana e il cugino della vittima, e uno studio legale romano a nome di una ong egiziana e della mamma, hanno presentato opposizione all’archiviazione. E il Tribunale ha fissato l’udienza al 2024. “È uno smacco - afferma l’avvocato Giacomo Barelli -. Uno smacco ulteriore che non aiuta nessuno. Ci saremmo aspettati di far valere le nostre ragioni davanti a un giudice, visto che per la Procura non c’è stato nulla, ma a quanto pare è tutto rimandato. L’idea è che non interessi a nessuno”. In realtà a qualcuno sembra importare e molto. L’ong umanitaria che si è inserita nel caso avrebbe presentato, nei giorni scorsi, una nuova denuncia sul caso. Una denuncia più ampia destinata a far riattivare il caso. Sassari. Il garante Unida scrive al ministro: “A Bancali tensione alle stelle” La Nuova Sardegna, 24 ottobre 2021 “Nel carcere di Bancali la situazione è sempre più preoccupante. Sei casi di suicidio sventati negli ultimi mesi e atti di autolesionismo all’ordine del giorno” A lanciare l’allarme, con un’accorata lettera alla ministra della Giustizia Marta Cartabia è il garante dei detenuti Antonello Unida che vive quotidianamente a contatto con le persone private della libertà personale e raccoglie il loro malessere. “È dal 23 maggio scorso, che mancano due importanti figure apicali, in pianta stabile - ha scritto Unida nella lettera inviata a Roma - come il direttore e il comandante degli agenti. I funzionari pedagogico-educativo, su un fronte di circa 400 persone detenute - ha aggiunto il garante - sono solo tre. Troppo pochi - spiega Antonello Unida - perché l’istituto di Bancali è considerato di fascia 1, di importanza strategica nazionale, non fosse altro perché ci stanno circa 90 persone detenute in regime di 41/bis e circa una ventina in regime As/2 (accusati di terrorismo islamico) ripeto la situazione è davvero preoccupante”. Dentro la struttura, stando alla denuncia del garante, ultimamente la tensione si taglierebbe a fette. “Nonostante l’istituto di Bancali sia stato inaugurato nel 2013 - ha scritto Unida alla ministra Cartabia - esistono già problemi strutturali importanti, come l’umidità in diverse camere di pernottamento, docce rotte, sanitari otturati, la cucina dei detenuti comuni è mal funzionante, non garantendo a tutti un pasto degno di questo nome, tutto ciò è inammissibile, è aggiungere pena alla pena. Sommessamente ritengo che dentro una struttura penitenziaria - ha aggiunto il garante dei detenuti bisogna creare amore, con un Lavoro sinergico con tutti gli “attori” che vi lavorano al proprio interno. Uno dei miei compiti - ha concluso Unida - è quello di cercare ponti al suo interno fra le persone detenute e le donne e uomini della polizia penitenziaria e ponti anche con l’esterno. Chiedo - ha concluso il garante rivolgendosi al ministro - un suo autorevole intervento, la situazione è veramente esplosiva”. Busto Arsizio. Domani la ministra Cartabia visita la Casa circondariale agensir.it, 24 ottobre 2021 Poi l’inaugurazione della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. Lunedì 25 ottobre la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sarà in Lombardia per alcuni appuntamenti che la vedranno impegnata in carcere e con realtà che si occupano di detenuti. In particolare, alle 9.30 visiterà la casa circondariale di Busto Arsizio dove incontrerà una rappresentanza di persone detenute e agenti della Polizia penitenziaria. Si sosterà poi a Fagnano Olona (Va) dove alle 11 è in programma l’inaugurazione della sede de “La Valle di Ezechiele”, cooperativa costituita formalmente nel giugno 2019 presso la casa circondariale di Busto Arsizio, ma avviata operativamente nel novembre 2020 con l’intento di creare opportunità occupazionali per persone recluse o in esecuzione penale esterna. Dopo la benedizione impartita da mons. Luca Bressan, vicario dell’arcivescovo di Milano, il taglio del nastro ad opera della ministra. Previsti gli interventi di Filippo Germinetti, presidente della cooperativa, di Bayoussef Bouizgar, il primo dipendente, di don Raffaele Grimaldi, ispettore nazionale dei cappellani nelle carceri e, ovviamente, quello della Cartabia. Alla ministra verranno donati il primo cesto di Natale e la prima cassetta in legno realizzati dalle persone che stanno scontando la pena in misura alternativa alla detenzione. Il cantautore Davide Van de Sfroos canterà la sua “40 pass”, brano che racconta intrecci di vita che hanno avuto a che fare con il carcere. In una nota firmata congiuntamente da don David Maria Riboldi per “La Valle di Ezechiele” e da Orazio Sorrentini, direttore della casa circondariale di Busto Arsizio, si ricorda che “il penitenziario, noto per la sentenza Torreggiani del 2013, accoglierà per la prima volta nella sua storia il ministro della Giustizia”. La cooperativa “La Valle di Ezechiele”, nel corso di quest’anno “ha dato lavoro a 5 persone e - prosegue la nota - si prepara ad accoglierne altre 2. Ha inoltre intrecciato relazioni con realtà produttive del territorio, trovando posti di lavoro per altre tre persone, la cui scarcerazione sarà possibile anche dalla disponibilità lavorativa trovata”. “Siamo profondamente grati alla ministra per l’onore che ci rende, celebrando gli inizi della nostra avventura educativa al servizio delle persone carcerate. La attendiamo, trepidanti e… laboriosi”, concludono don Riboldi e Sorrentini. La Spezia. Radicali in visita a Villa Andreini: “Carceri liguri, condizioni critiche” cittadellaspezia.com, 24 ottobre 2021 Ieri pomeriggio una delegazione del Partito Radicale si è recata in visita alla casa circondariale della Spezia, visita accompagnata dalla raccolta firme sui ‘Sei referendum per la giustizia giusta’; contestualmente, era possibile sottoscrivere anche i referendum per l’abolizione della caccia e per la legalizzazione della cannabis. “L’iniziativa - spiegano dal Partito Radicale - si tiene in tutta Italia e si propone di garantire l’esercizio di un diritto di legge e costituzionale ai cittadini detenuti; per questo motivo nelle settimane precedenti siamo stati presenti a Marassi, Pontedecimo, Chiavari, Sanremo e Imperia. Le condizioni delle carceri liguri ci sono parse ancora una volta critiche, tra sovraffollamento, mancanza di attività lavorativa interna, carenze di assistenza medica e psichiatrica - su questo pesa la sua parte la mancata apertura della Rems di Calice al Cornoviglio - e carenza di personale educativo, di custodia, ormai anche di direttori. La situazione più grave è quella di Marassi, privo di un direttore di ruolo da circa un anno e affidato ad una gestione provvisoria ben poco portata al dialogo e decisamente disattenta alle esigenze trattamentali, una carenza a cui il Ministero deve al più presto porre rimedio. Di un direttore di ruolo sono privi, e affidati in reggenza, anche Imperia, Pontedecimo e La Spezia. Continua a mancare inoltre in Liguria l’importante figura del Garante dei detenuti, istituito per legge nel maggio del 2020, ma alla cui nomina il consiglio regionale non ha ancora ritenuto di provvedere”. Genova. Voci dall’Arca: musica e spettacoli con i detenuti del carcere di Marassi mentelocale.it, 24 ottobre 2021 Teatro, divertimento, inclusione. È composta da due sezioni, una dedicata alla musica l’altra dedicata al teatro, la quarta rassegna di Voci dall’Arca proposta dal Teatro Necessario al Teatro dell’Arca e al Teatro Ivo Chiesa, con il coinvolgimento dei detenuti della Casa Circondariale di Genova Marassi. L’associazione Teatro Necessario, costituita su iniziativa di artisti, operatori culturali e insegnanti con lo scopo di utilizzare il teatro come strumento di integrazione e di riabilitazione socio-lavorativa rivolta ai detenuti, è attiva dal 2005 all’interno della Casa Circondariale di Genova-Marassi dove promuove, ogni anno, corsi di formazione nei mestieri dello spettacolo per persone detenute mediante la collaborazione con professionisti esterni. “Dopo un momento difficile, si parte con la quarta rassegna che realizziamo al Teatro dell’Arca, il teatro all’interno del carcere di Marassi - sottolinea Sandro Baldacci, direttore artistico del Teatro Necessario - È una stagione divisa in due parti. Una prima, Note d’autunno, consiste in cinque spettacoli con cinque generi di musica diversi tra loro. La rassegna riprende poi riprende nel 2022 con una parte dedicata alla prosa, Parole di Primavera, composta da sette spettacoli. La inaugureremo con la nostra produzione, la 15esima come gli anni di vita del Teatro Necessario, e si intitola Delirio di una notte d’estate tratto da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. La programmazione è duplice anzi triplice. Ospitiamo spettacoli di artisti esterni che offriamo sia alla popolazione detenuta sia alla popolazione cittadina e nello stesso tempo produciamo nostri spettacoli”. Per assistere agli spettacoli programmati al Teatro dell’Arca è obbligatoria la prenotazione online da effettuare entro tre giorni dall’evento sul sito Teatro Necessario Genova (dove si trovano anche possibilità di abbonamenti e tutte le informazioni). “Questa stagione è ricca di ripartenza piena anche per questa realtà - sottolinea l’assessore alla cultura e allo spettacolo di Regione Liguria Ilaria Cavo - una realtà particolare perché fa cultura con un grande valore di inclusione sociale con il coinvolgimento della popolazione detenuta portata sul palcoscenico a confondersi con gli attori professionisti con un esito che poi è quello di non distinguere gli uni dagli altri. È importante la programmazione e la collaborazione con istituzioni esterne e poi si festeggiano i 15 anni di attività del Teatro. È un’esperienza pilota, non si fanno soltanto progetti, si fa teatro che si esporta anche fuori. Una formula che sosteniamo perché ha all’interno la cultura, il sociale e anche un po’ di formazione professionale”. Il maggiore sostenitore di Voci dall’Arca è la Fondazione Compagnia di San Paolo. “È una collaborazione che parte nel 2009 - spiega Nicoletta Viziano, membro del comitato di gestione di Compagnia di San Paolo - l’ente è cresciuto, il teatro sta facendo un grandissimo sforzo culturale e sociale. Il fatto di aver portato il teatro nelle case circondariali è importante anche per il recupero di queste persone che poi dovranno tornare ad una vita normale, quindi cultura, ma anche sociale”. Il governo (difficile) delle città di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 24 ottobre 2021 Il potere effettivo di incidere che ha chi viene eletto per amministrare una città è sempre minore e chi vuol fare qualcosa si trova davanti un muro. Così i cittadini cominciano ad accorgersi che il loro voto è inutile. Non è solo dei partiti la colpa della massiccia astensione registrata alle elezioni amministrative di qualche giorno fa. In misura maggiore la colpa va attribuita, a mio avviso, al perverso combinato disposto giuridico-burocratico italiano che domina ogni attività di governo. Che condiziona e immobilizza in una rete paralizzante qualunque potere nato dalle urne, a cominciare da quello degli amministratori locali. Condannando quindi tale potere a essere poco o nulla incisivo. Sicché le città che per antica tradizione godono di un buon governo continuano a farlo, le altre continuano con i loro problemi di sempre quasi sempre aggravati, e chi sia a governarle non fa all’incirca alcuna differenza. Certo, la crisi dei partiti esiste. Esiste la crisi della partecipazione che essi riescono (o meglio non riescono) a promuovere. Così com’è dei partiti la responsabilità per la scelta dei candidati. È evidente, ad esempio, che a Milano o a Roma non potevano essere certo in molti a sentirsi spinti ad andare alle urne per sostenere dei perfetti sconosciuti come i due aspiranti sindaci per il centrodestra, Luca Bernardo ed Enrico Michetti, che già dalla loro prima apparizione si portavano cucito addosso il triste abito dei perdenti. Sull’altro versante, quello dell’elettorato di sinistra, perché mai questo avrebbe dovuto accorrere in massa a sostenere il candidato della propria parte, vincitore arcisicuro contro le nullità di cui sopra? Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non hanno perciò alcuna ragione di deprecare oggi la scarsa affluenza alle urne. Come si può pretendere, infatti, che i cittadini accorrano a partecipare con il voto a una gara nella quale manca qualunque competizione? Questa però è solo una parte della verità. La parte minore. Quella maggiore, come dicevo all’inizio, sta nel sempre minore potere effettivo di incidere che ha chi viene eletto per governare una città. Sta nella possibilità sempre minore di imprimere una svolta, di cambiare le cose che contano. C’è qualcuno davvero convinto, ad esempio, che il neo sindaco di Roma Roberto Gualtieri possa far funzionare la raccolta dei rifiuti della capitale, risolvere il problema drammatico del trasporto urbano e quindi del traffico, risanare le condizioni precarie di tanti edifici scolastici, dare un volto umano alle periferie abbandonate, preda del degrado e dello spaccio, far ripulire strade e tombini, liberare la città dagli stormi di gabbiani che se ne sono impadroniti, restaurare i parchi della città ridotti da anni ad una giungla? Sarebbe bello crederlo. Ma per farlo bisognerebbe prima rispondere a una domanda: tutti quelli appena elencati sono problemi che si trascinano da decenni; come mai ciò nonostante non solo non sono mai stati risolti, ma anzi sono andati sempre aggravandosi, nonostante che al Campidoglio si siano succeduti sindaci dal colore politico più diverso, da Rutelli ad Alemanno, da Veltroni a Virginia Raggi? Tutti incapaci? Tutti inadatti, tutti senza idee e voglia di fare? No di certo. Piuttosto, essendo tutti nell’impossibilità pratica di cambiare davvero (la costruzione di un auditorium è stato il massimo obiettivo raggiunto), quelli più scaltri hanno capito che allora conveniva dedicarsi solo ad operazione di pura facciata ma di immagine (tipo l’”estate romana”), mentre gli altri non hanno fatto neppure questo sprofondando sempre di più nelle sabbie mobili dell’impotenza e del discredito. D’altra parte, che gli stessi candidati sappiano benissimo, o intuiscano che una volta eletto nessuno di loro sarebbe in grado neppure lontanamente di guarire qualcuno degli storici mali della città, è testimoniato dal fatto che a proposito di tali mali nessuno di loro si sia azzardato a fare la minima proposta concreta. La loro campagna elettorale si è risolta in un mare di genericità, inevitabilmente anche abbastanza simili, in un elenco di problemi privi di qualunque indicazione precisa circa i modi e i mezzi per risolverli. In quante altre città d’Italia, mi chiedo, accade da molti anni la stessa cosa? Del resto la campagna elettorale prefigura la realtà. Nella realtà, infatti, il sindaco di una città come Roma (così come di tantissime altre) se vuol fare qualcosa si trova davanti un muro. Egli non ha la possibilità di tassare incisivamente niente e nessuno, non può licenziare nessuno degli addetti a macchine municipali che spesso sono rifugio di una miriade di mangiapane a tradimento, non può assumere al suo servizio nessuna competenza significativa e metterla in condizioni di operare; qualunque cosa si metta in testa di fare è ingabbiato in una selva di leggi e disposizioni di ogni genere che allungano a dismisura tutti i tempi di decisione e di esecuzione; quasi sempre non dispone neppure di servizi tecnici adeguati, e per finire deve convivere con una miriade di sigle sindacali quasi tutte fasulle (vedi a Roma la situazione dell’azienda per la raccolta dei rifiuti) che però gli rompono quotidianamente le scatole. Come ci si può scandalizzare, allora, se nella campagna elettorale i candidati si guardano bene dall’affrontare la complessità dei problemi, dal parlare di cose precise, e invece s’impegnano all’incirca tutti per gli stessi vaghissimi (e perlopiù improbabilissimi) traguardi? Ma precisamente questa è una delle malattie mortali della democrazia. Che insorge quando i cittadini cominciano ad accorgersi che il loro voto è inutile perché per mille motivi coloro che essi eleggono in realtà non riescono né a cambiare né a far nascere nulla; quando si accorgono che in realtà l’unico strumento di cui essi dispongono per migliorare la propria vita, e cioè la politica, non serve a questo ma solo ad assicurare il potere di chi la esercita. Forse l’antipolitica è quasi sempre solo la richiesta, in forme sbagliate, di una politica diversa. Allarme crisi climatiche, il Mediterraneo è indifeso dai pericoli dell’effetto serra di Elena Comelli Corriere della Sera, 24 ottobre 2021 Ondate di calore sempre più aggressive, alluvioni, tempeste e frane. La nostra area è tra le più fragili e sensibili all’effetto serra. L’analisi (e le proposte) del Centro per la Sostenibilità della Bbs. Temperatiure sempre più torride, rischio siccità più elevato, eventi estremi in aumento. L’emergenza climatica non perdona nessuno, ma in particolare l’Italia è al centro di un’area considerata uno “hot spot” della crisi dagli stessi scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change: il Mediterraneo. Si tratta di una delle aree piu?sensibili all’effetto serra, con conseguenze imprevedibili sul rapporto fra temperatura dei mari, venti e precipitazioni, tanto che il numero di eventi climatici estremi per anno in Italia è passato da 20 nel 2010 a oltre 200 nel 2020. Basta leggere le notizie di questi giorni per rendersi conto dell’escalation, con un borgo della Valle Stura tra i titoli della Cnn per un diluvio mai visto da 75 centimetri d’acqua in poche ore, tornadi dal Polesine a Catania, bombe d’acqua da Otranto a Padova, frane sulle Dolomiti. “Nel 2020 si sono registrati 86 casi di allagamento da piogge intense e 72 casi di danni da trombe d’aria, dato in forte crescita rispetto ai 54 casi del 2019 ed ai 41 del 2018. Le ondate di calore sono più calde, in media, di circa 4°C rispetto ad un secolo fa e nel 2021 a Siracusa la colonnina di mercurio ha toccato 48,8°C, il nuovo record di temperatura dell’intero continente europeo”, segnala Matteo Mura, direttore del Centro per la sostenibilità e i cambiamenti climatici della Bologna Business School. “Le proiezioni climatiche sono abbastanza chiare: frequenza ed intensità delle ondate di calore estremo aumenteranno, in assenza di azioni di riduzione delle emissioni di gas serra”, spiega Salvatore Pascale, climatologo del dipartimento di Fisica e Astronomia, affiliato al Centro. “In Italia, per esempio, la durata media delle ondate di calore è già aumentata di circa 15 giorni rispetto agli anni ‘60”, precisa Pascale. E non finisce qui. Se non riusciremo a contenere il surriscaldamento del clima entro 1,5°C in più rispetto all’era preindustriale, che secondo l’ultimo rapporto dell’Ipcc raggiungeremo già nel 2040, “a +2°C le ondate di calore estremo saranno 14 volte più frequenti”, rileva Pascale. Sull’altra faccia della medaglia ci sono le alluvioni e le frane. Con l’aumento delle temperature, infatti, cresce anche la capacità dell’atmosfera di trattenere umidità e più vapore acqueo in atmosfera causa più piogge torrenziali. “In Italia, il 23% del territorio rientra in aree a pericolosità idraulica, cui si aggiunge un 20% caratterizzato da pericolosità da frana”, spiega Davide Donati, del dipartimento d’Ingegneria chimica, civile e dei materiali di Bologna. Eventi di questo tipo sono accompagnati da danni economici molto significativi. “I soli eventi idrologici hanno causato, in Europa, danni per oltre 5 miliardi di euro all’anno fra il 2000 e il 2019”, precisa Donati. E in questa stima manca ancora l’alluvione del secolo, che nel luglio scorso ha devastato la Renania, il Belgio, l’Olanda e la Svizzera, con oltre duecento morti e miliardi di danni. “È evidente che l’applicazione di strategie di adattamento alla crisi del clima e di gestione del rischio sono fondamentali per mitigare gli impatti causati da eventi idrogeologici”, fa notare Donati. In Italia, però, le misure tardano ad arrivare. “Nel corso degli ultimi anni, gli eventi climatici estremi hanno reso sempre più evidenti le fragilità socio-ambientali del territorio italiano e la necessità d’intraprendere una serie di politiche di mitigazione e adattamento”, spiega Andrea Zinzani, geografo del dipartimento di Storia, cultura e civiltà. Piogge intense, fusione delle nevi in tempi più brevi, siccità prolungate e incendi hanno messo a dura prova gli equilibri territoriali. “Ne sono un esempio la tempesta Vaia nelle vallate dolomitiche del 2018, il rischio di distacco glaciale del ghiacciaio Planpincieux in Valle d’Aosta in agosto, le alluvioni che interessano il territorio della Liguria ogni inizio autunno e gli incendi che hanno colpito Sardegna e Sicilia la scorsa estate”, precisa Zinzani. Dopo anni di inerzia, ora il tema dell’emergenza climatica è entrato nel dibattito politico, ma è urgente scendere sul concreto. Le misure chiave su cui concordano gli esperti sono due: azzeramento del consumo di suolo e cura del territorio. “È urgente consolidare i quadri normativi sul consumo di suolo, in particolar modo nelle aree più fragili dal punto di visto idrosociale e morfologico, così come nelle aree urbane, sempre più interessate da isole di calore. Occorre incrementare gli spazi verdi, adottando piani di riforestazione. In parallelo, intraprendere un piano massiccio di investimenti per un progetto di cura del territorio che integri la messa in sicurezza di versanti montani e collinari con le infrastrutture esistenti come strade, ponti, ferrovie e impianti idraulici come canali, argini e dighe”, sostiene Zinzani. Fondi europei straordinari, Green Deal e Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresentano un’occasione unica per una cura del territorio che sappia ridisegnare le relazioni socio-ambientali, con la partecipazione di comunità, Ong, associazioni, comitati e società civile. Basta coglierla. Covid, mezzo mondo è vaccinato, ma la parte più povera lotta ancora per una dose di Elena Dusi La Repubblica, 24 ottobre 2021 A due anni dalla comparsa del virus, i vaccini hanno raggiunto il 50% della popolazione globale. L’Italia è tra i primi dieci paesi. La guerra dei brevetti e le promesse tradite. L’umanità oggi si divide in due, fra chi ha ricevuto un vaccino contro il Covid e chi no. Le persone immunizzate con almeno una dose sono 3,8 miliardi e sfiorano il 50%. Il 38% ha ricevuto anche il richiamo. A due anni dall’arrivo del coronavirus - il primo caso noto in Cina risale al 17 novembre 2019 - e quasi un anno dalle prime iniezioni - in Gran Bretagna si è partiti l’8 dicembre 2020 - il pianeta è diviso in due, con una faccia illuminata - Americhe, Europa occidentale, parte di Medio Oriente e Asia - e una in ombra: soprattutto l’Africa, ma anche Russia ed Europa dell’Est. Con 6,8 miliardi di iniezioni si sono immunizzati il 98% dei cittadini degli Emirati Arabi, l’80% degli europei (il Portogallo da record è all’88%, l’Italia al 77%) e il 65% degli americani. La Cina è al primo posto per dosi somministrate: 2,2 miliardi e l’India - già prima del Covid la più grande produttrice di vaccini - ha festeggiato la scorsa settimana con feste e balli in strada la miliardesima iniezione. In quel paese, all’inizio dell’anno, con le fabbriche locali immobilizzate dai blocchi all’export delle materie prime, la variante Delta ha messo il turbo ai contagi nel mondo. La lezione della Delta - vaccinare tutti per prevenire le varianti - non è stata imparata appieno. Eritrea e Corea del Nord sono a zero dosi. Il Burundi ha fatto la prima iniezione giovedì. In Africa la media dei vaccinati con una dose è del 4% e 15 paesi non sono neanche al 3%. Dal 23 agosto - approvazione negli Usa del primo vaccino, Pfizer - si sono contati 3 milioni di morti. “Le nazioni ricche hanno promesso 1,8 miliardi di vaccini, ma si sono fermate a 261 milioni”, denunciano le ong Oxfam, Emergency, Amnesty International e Unaids. L’Italia si è fermata a “6,1 milioni rispetto ai 45 promessi”. Sono soprattutto fiale AstraZeneca non più usate da noi e vicine alla scadenza. Al G20 di Roma il 30-31 ottobre si parlerà della pandemia. “I Paesi del gruppo devono mantenere i loro impegni” ha esortato il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. E l’ambasciatore per la salute dell’Oms, Gordon Brown: “Mancano 500 milioni di dosi all’obiettivo del 40% di immunizzati in ogni Paese a metà 2022. Intanto 240 milioni di dosi giacciono inutilizzate in Occidente”. C’è un unico paese cui è risparmiato il biasimo dell’Oms. Nonostante i cattivi rapporti fra l’Organizzazione di Ginevra e gli Usa, Ghebreyesus ieri ha ringraziato Washington per “la leadership nella condivisione dei vaccini”. Gli Usa hanno già consegnato al programma Covax per i paesi poveri 200 milioni di dosi, soprattutto Pfizer. Hanno ottenuto dalla Big Pharma un totale di 500 milioni di dosi per i paesi poveri a prezzo di costo. E la Casa Bianca giovedì scorso è tornata a chiedere una sospensione dei brevetti, tema sul quale la World Trade Organization discute - inutilmente - da giugno. Quanto è centrale il tema dei brevetti? Uno sprazzo di chiarezza arriva dalle parole di Noubar Afeyan, cofondatore di Moderna. L’azienda Usa ha fin dall’inizio cercato di lustrare la sua immagine rendendo libero il brevetto. “Ma è difficile per me - ha ammesso Afeyan all’Associated Press - immaginare che qualcuno usandolo possa raggiungere una produzione in tempi brevi”. Il vero tema, in un settore pionieristico come i vaccini a Rna, è il know how. E qui le aziende, di fronte alle richieste di condividere la loro tecnologia, fanno muro. “Non condivideremo la nostra ricetta” dice chiaro Afeyan. L’Oms ha provato a superare l’ostacolo affidando a due centri per le biotecnologie in Sudafrica, Afrigen e Biovac, il compito di “craccare” i segreti del vaccino usando le parole del brevetto. Ma i risultati non sono attesi in tempi brevi. Le ire della Casa Bianca, fatte filtrare sui principali giornali americani, si concentrano al momento su Moderna, più riluttante di Pfizer nelle donazioni. Una lettera di 12 membri del Congresso ricorda all’azienda di aver “ricevuto 10 miliardi di finanziamento federale”. Con i suoi centri di ricerca, “il governo ha tenuto Moderna per la mano” nello sviluppo del vaccino. Eppure “l’azienda ha rifiutato di condividere la sua tecnologia”. Le sue promesse di costruire un impianto in Africa “non porteranno a dosi effettive se non fra molti anni”. Il governo federale, secondo i parlamentari, avrebbe l’autorità di diffondere i segreti industriali di Moderna. Difficilmente la minaccia sarà messa in atto. Ma, riflette il consigliere speciale dell’Oms Bruce Aylward, “se la pandemia andrà avanti anche nel 2022, è anche perché con le vaccinazioni non siamo sulla buona strada”. Turchia. Erdogan caccia dieci ambasciatori (Usa compreso) di Alberto Negri Il Manifesto, 24 ottobre 2021 Avevano firmato un appello per la liberazione del filantropo anti-Erdogan Osman Kavala, detenuto da oltre 4 anni E, guarda caso, l’Italia non aveva firmato. Turchia uber alles, il Sultano della Nato, Erdogan annuncia: dichiareremo “persona non grata” gli ambasciatori di Germania, Francia, Usa, Canada, Danimarca, Olanda, Norvegia, Svezia, Finlandia e Nuova Zelanda. Che avevano chiesto la risoluzione rapida del caso riguardante il filantropo Osman Kavala in cella dal 2017. Nell’espulsione sono compresi tutti, o quasi, gli europei, tranne l’Italia. I 10 ambasciatori occidentali ad Ankara avevano firmato un appello per la liberazione del filantropo anti-Erdogan Osman Kavala, detenuto da oltre 4 anni E, guarda caso, l’Italia non aveva firmato, forse perché impegnata in un dialogo con la Turchia sul sullo sfruttamento delle risorse del gas offshore e soprattutto sulla Libia, dove Ankara è saldamente insediata militarmente in Tripolitania e dove l’Eni ha il gasdotto Greenstream e importanti risorse petrolifere. Un’assenza italiana di solidarietà a Kavala che può apparire vergognosa ma che forse non è casuale, data la mancanza di solidarietà europea e americana per le vicende Regeni, Zaki, per la stessa Libia e la tragedia dei migranti. Queste sono le politiche degli Stati: stritolano vite di esseri umani senza ritegno e reclamano la solidarietà a intermittenza. Tutto questo accade alla viglia del G-20 di Roma del 29 ottobre che con queste premesse potrebbe non essere la solita ipocrita sfilata di buone intenzioni, visto che in agenda è annunciato l’incontro “clou” tra il presidente Usa Biden ed Erdogan. Un faccia a faccia a lungo rinviato e che viene dopo il vertice tra Putin e il leader turco a Sochi, sul Mar Nero, dove Erdogan ha annunciato l’acquisto di altre batterie anti-missile russe S-400, uno schiaffo evidente alla Nato di cui la Turchia è membro da oltre mezzo secolo. Perché il fondo della vicenda è questa: la diffidenza profonda tra Erdogan e gli Usa. Senza volere affondare nella storia e nelle tormentate relazioni tra impero russo e ottomano, Ankara e Mosca hanno iniziato a sviluppare la loro intesa tattica nel luglio del 2016 dopo che venne archiviato l’incidente del 24 novembre 2015 quando i caccia F-16 turchi colpirono un bombardiere russo Sukhoi Su-24 nello spazio aereo ai confini tra la Siria e la provincia turca di Hatay. Due potenze sull’orlo di un conflitto che vengono calorosamente riavvicinate dal fallito golpe contro Erdogan del 15 luglio 2016. Putin è tra i primi a congratularsi con Erdogan per lo sventato pericolo mentre gli Usa e le potenze europee stanno zitte. Il leader russo è sempre pronto a tendere la mano a Erdogan mentre Washington diffida di Ankara che pure ospita la base Usa di Incirlik, testate nucleari comprese. Con Joe Biden alla Casa Bianca, poi, l’ostilità con il leader turco è radicata. Fu proprio Biden, da vicepresidente di Obama, ad accusare Erdogan nel 2014 di essere stato responsabile dell’ascesa del Califfato in Siria e in Iraq in un discorso all’università di Harvard. Biden si scusò e due anni dopo fece anche un incontro con il leader turco a Istanbul. In realtà Biden sapeva di avere detto la verità ma soltanto a metà: era stata Hillary Clinton, allora segretario di Stato Usa, a incoraggiare Erdogan per facilitare l’afflusso di jihadisti in Siria contro il regime di Assad. Con Biden alla leadership le cose non sono andate meglio. Il presidente Usa ha fatto infuriare Erdogan quando ha riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca: poco prima Erdogan aveva attaccato Biden dichiarando inaccettabile la sua intervista in cui definiva Putin “un killer”. L’ostilità è palpabile. “Le relazioni tra Turchia e Usa non promettono nulla di buono”, ha detto Erdogan parlando all’inaugurazione della Casa Turca a New York, dove si trovava in occasione dell’Assemblea Generale Onu. Ed ecco che ieri Erdogan ha sparato la sua bordata. “Ho ordinato al nostro ministro degli Esteri di dichiarare al più presto questi 10 ambasciatori come persona non grata. Costoro vanno a coricarsi, si svegliano e pensano a Kavala. Kavala è il rappresentante turco di Soros. Dieci ambasciatori si recano al ministero degli Esteri per lui: che impudenza! - ha aggiunto Erdogan - Impareranno a conoscere e capire la Turchia o dovranno andarsene”. Di tutto questo coacervo di interessi geopolitici, di ambizioni imperialiste, di complottismo, di ricatti turchi sui profughi e di ipocrita perbenismo occidentale, che ignora Giulio Regeni - perché l’egiziano al-Sisi è un alleato da lisciare per le forniture di armi - alla fine fa le spese un uomo, Osman Kavala. Kavala è stato un fondatore della Open Society Foundation in Turchia, una rete internazionale di donazioni creata dal miliardario americano-ungherese George Soros. Nel 2018 la Fondazione ha cessato tutte le sue attività in Turchia. In un’intervista Kavala ha affermato di “rispettare Soros” e che “le nostre opinioni si sovrappongono su questioni come il corretto funzionamento delle istituzioni legali, la protezione e l’estensione dei diritti civili, il sostegno alle organizzazioni della società civile e ai difensori dei diritti e le politiche sull’immigrazione”. In realtà stanno esplodendo enormi contraddizioni di quel mondo atlantista occidentale che in questi anni ha fatto guerre ovunque pensando di usare gli attori regionali a suo vantaggio. E ora si paga il prezzo. Egitto. Al Cairo gli avvocati nel mirino sono pronti a tutto per Zaki di Laura Cappon Il Domani, 24 ottobre 2021 Abbiamo incontrato i legali egiziani che studiano la strategia difensiva per il ricercatore detenuto in carcere Sono i suoi ex colleghi, anche loro sono stati arrestati in passato e sanno di rischiare la vita per quello che fanno. L’appartamento che ospita la sede di Eipr è ampio e luminoso. Le finestre affacciano sul ponte che sovrasta il quartiere Doqqi. Dall’alto si vede il luccichio delle auto che avanzano lente dalla sera alla mattina. In queste stanze, ogni giorno, lavorano gli uomini e le donne che dal febbraio del 2020 pianificano, in condizioni che definire difficili è un eufemismo, la strategia difensiva di Patrick Zaki, il ricercatore arrestato all’aeroporto del Cairo mentre tornava da Bologna, città dove frequentava un master in studi di di genere e il cui processo riprenderà il prossimo 7 dicembre. E in questa organizzazione Patrick aveva lavorato e fatto ricerca poco prima di trasferirsi a studiare in Italia. Verso le 11 è un impiegato ad aprirmi la porta dell’ufficio: a quest’ora il Cairo, nonostante il traffico, è ancora una megalopoli che sonnecchia. La prima ad arrivare è Lobna Darwish. È minuta e ha i capelli ricci. Ha fatto la giornalista durante la rivoluzione e da alcuni anni è la responsabile del settore di studi di genere per l’Eipr. “Ero il capo di Patrick e posso solo dire che in ufficio era una persona molto curiosa e in grado di fare amicizia rapidamente”, racconta. “Osservando la mobilitazione che c’è stata in Italia dopo il suo arresto, in ufficio ci abbiamo scherzato sopra. Perché nessuno di noi, se fosse andato all’estero a fare un master o un dottorato, sarebbe riuscito a creare una rete di contatti e conoscenze in maniera così veloce. Noi ci avremmo impiegato sicuramente molto di più”. Mentre parliamo con Lobna, l’ufficio si popola. È giovedì, giorno della consueta colazione settimanale dove tra un falafel, un hummus e un nutrito vassoio di patatine, si discute delle attività dell’organizzazione. Visto così, tra sorrisi, un caffè e chiacchierate informali, questo posto sembrerebbe la sede di un normale think tank. Invece non lo è, perché occuparsi di diritti umani nell’Egitto di oggi non è mai stato così pericoloso. Anche perché l’Eipr (la sigla sta per Egyptian Initiative for Personal Rights) si occupa di molti casi politici: arresti giustificati con delle carte vuote e inchieste costruite senza prove scandiscono la giornata di ricercatori e avvocati. E con l’incarico di difendere Patrick Zaki, collega e amico, l’organizzazione è diventata un obiettivo ancora più sensibile per il governo. A novembre del 2020 Muhammad Bashir, direttore amministrativo, Karim Ennarah, direttore del Gruppo di lavoro sulla giustizia, e Ghasser Abdel Razak, il direttore esecutivo, sono stati arrestati dopo aver incontrato una delegazione diplomatica di alcuni paesi occidentali, tra cui l’Italia, con l’accusa di concorso in associazione terroristica e diffusione di notizie false. La loro detenzione è durata solo tre settimane grazie a una mobilitazione che ha coinvolto personaggi di carattere internazionale. Tra loro c’era anche Scarlett Johansson, protagonista di un video appello che chiedeva la scarcerazione dei tre dirigenti e di Patrick Zaki. “Siamo stati oggetto di una dura campagna mediatica. Ci hanno accusato di essere delle spie, di collaborare con i governi stranieri e di operare contro la sicurezza nazionale”, racconta Hossam Bahgat, fondatore e attuale direttore di Eipr. A novembre è tornato a guidare l’organizzazione ma neppure lui è sfuggito alle maglie della macchina repressiva egiziana. È indagato nell’ambito di un’inchiesta che va avanti da 10 anni e ha colpito la maggior parte dei lavoratori delle ong del paese (da allora non può lasciare il paese e i suoi beni sono stati bloccati), mentre lo scorso settembre è stato rinviato a giudizio per aver criticato con un tweet il capo della commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020. Quando gli chiedo del futuro di Patrick, Hossam mi risponde con un laconico “non possiamo sapere che cosa succederà”, poi torna a lavorare nel suo ufficio, mentre io continuo a parlare con uno dei tre vertici di Eipr rilasciati alla fine dello scorso anno ma ancora sotto indagine. Mi racconta del suo arresto e della sua reclusione al carcere di Tora al Cairo, proprio nella stessa cella di Patrick. Nell’atrocità del destino, che nell’Egitto di Abdel Fattah al Sisi vuole che i difensori e i prigionieri di coscienza non si incontrino in tribunale ma direttamente in carcere, ritrovare Patrick ha rappresentato una salvezza. “Mi ha dato del tè e delle coperte per affrontare il freddo”, ricorda con emozione. Verso mezzogiorno arriva Hoda Nasrallah: è lei l’avvocato a capo del team legale che difende Patrick. È una donna minuta, ha i capelli nero corvino e una tempra di acciaio. Prima del caso Zaki era conosciuta anche per il suo lavoro in difesa della minoranza cristiano copta di cui fa parte, come la famiglia del ricercatore egiziano. Nel 2019 era riuscita a vincere una causa molto importante facendo riconoscere alle donne della minoranza cristiana gli stessi diritti in merito di eredità rispetto agli uomini. Si prepara un caffè nella piccola cucina dell’ufficio, le chiedo se ha voglia di parlare. Annuisce in maniera timida, ma quando inizia a raccontare diventa un fiume in piena: conosce il caso a memoria e lo ripercorre in venti minuti, anche se solo di recente ha potuto vedere le carte che hanno motivato il rinvio a giudizio dopo gli ultimi due interrogatori in carcere. “Nel primo, a luglio, hanno chiesto a Patrick solo cosa facesse nella vita ma non hanno citato alcuna prova”, spiega Nasrallah. A settembre, con il secondo interrogatorio qualcosa cambia. Compare l’articolo sulle minoranze cristiane pubblicato nel 2019 per il portale Darraj. È il punto chiave attorno al quale ruota il rinvio di Zaki per “diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione”. “In realtà esistono ancóra i 10 post di Facebook, l’ufficiale della National Security Agency che l’ha interrogato sostiene di averli avuti dall’intelligence”, continua Hoda. “In più ci sono altre carte risalenti al 2013. Si tratterebbe di cose scritte da Patrick in un non precisato sito web ma non so dove le abbiano trovate. Io ho fatto una ricerca e non mi risulta che esistano”. Questi elementi al momento non compaiono all’interno del provvedimento di rinvio a giudizio. Quello che potrebbe accadere, tuttavia, è che nascano altri procedimenti giudiziari per le prove che non sono ancora contenute nell’attuale procedimento. La difesa ha chiesto, su volere di Patrick, una perizia informatica per accertare che lui non sia il vero autore dei post su Facebook. Ma al momento le richieste non hanno ricevuto alcun feedback, così come non hanno avuto alcun seguito né l’esposto presentato dai legali alla procura per le torture subite da Patrick nelle ore immediatamente successive al suo arresto, né la richiesta di accedere alle immagini di sorveglianza dell’aeroporto. “Non ci hanno mai risposto”, spiega Hoda. “L’arresto di Patrick risulta ufficialmente l’8 febbraio a Mansoura e non all’aeroporto la sera prima come realmente accaduto. Abbiamo anche chiesto che venissero esaminati i telefoni di Patrick e del padre perché sappiamo che c’è stata una telefonata poco prima del fermo, ma ci è stata negata anche questa possibilità”. L’ultima azione di Hoda è stata quella di depositare una lettera alla presidenza della Repubblica per chiedere che venga fatta chiarezza sul periodo massimo di detenzione preventiva ammesso. “Patrick è stato rinviato a giudizio per reati minori e il suo periodo di custodia cautelare non è due anni ma 18 mesi”, osserva. “Questo significa che deve essere immediatamente rilasciato”, racconta Hoda, che al momento non ha ancora avuto una copia del fascicolo. “Possiamo consultarlo alla segreteria del tribunale e solo durante i giorni di ferie: è tutto ciò che possiamo fare al momento”. Mentre Hossam riceve una visita da parte di altri colleghi e Hoda torna alla sua scrivania, salutiamo Lobna che ci affida un ultimo pensiero. “Patrick era curioso, per questo in Italia si è fatto fatica all’inizio a capire di cosa si occupasse. Faceva tante cose, aveva mille interessi e non stava mai fermo. Tu non sai quanto ho sofferto quando l’ho visto l’ultima volta in tribunale. Stava lì immobile, senza poter fare nulla. Ogni volta che lo vediamo in quelle condizioni, per noi è un colpo al cuore”. Fuggire dall’Afghanistan, “una corsa a ostacoli” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 ottobre 2021 In un rapporto diffuso il 21 ottobre, Amnesty International ha denunciato le crescenti difficoltà cui vanno incontro le persone che attendono ancora di trovare un luogo sicuro dalle minacce e dalle rappresaglie dei talebani, scattate immediatamente dopo la presa del potere in Afghanistan. Cercare di uscire dall’Afghanistan è una vera e propria “corsa a ostacoli”. Da quando i talebani hanno assunto il potere è quasi impossibile ottenere documenti di viaggio. Di conseguenza, molte persone in fuga dal paese non hanno altra scelta che intraprendere percorsi irregolari che danno luogo a trattamenti punitivi da parte di altri governi: invece di ricevere protezione, finiscono intrappolate in campi improvvisati nelle zone di confine o vengono arrestate per essere poi espulse”. Iran, Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan hanno chiuso le frontiere a chi è privo di passaporto o di altro documento di viaggio, nonostante il rischio di subire rappresaglie da parte dei talebani in caso di rimpatrio. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, tra il 27 agosto e il 9 settembre l’Iran ha espulso 58.279 afgani privi di documenti, mentre le autorità dell’Uzbekistan hanno dichiarato, il 20 agosto, di aver rimpatriato 150 afgani a seguito di un accordo con i talebani. La Turchia ha annunciato l’intenzione di estendere la lunghezza del muro al confine con l’Iran e le sue autorità continuano a dare la caccia agli afgani privi di documenti per poi espellerli. Amnesty International ha notato con estrema preoccupazione i continui respingimenti di afgani da parte di Bulgaria, Croazia e Grecia. In Polonia sono entrate in vigore nuove norme che rendono impossibile attraversare irregolarmente la frontiera per chiedere asilo. Un gruppo di 32 afgane e afgani si trova bloccato dal 19 agosto lungo la frontiera tra Polonia e Bielorussia, dopo un probabile respingimento effettuato dalle autorità di Varsavia verso il lato bielorusso. Queste persone, sorvegliate da personale armato lungo le due frontiere, non hanno riparo adeguato, acqua potabile, cibo o accesso alle cure mediche. Il rapporto di Amnesty International mette inoltre in luce l’impatto delle procedure di sicurezza nei confronti delle persone in fuga dall’Afghanistan. La Germania pretende che, perché siano prese in considerazione per l’evacuazione, le persone si presentino alle autorità tedesche per controlli di sicurezza ma al momento la Germania non ha alcuna rappresentanza diplomatica a Kabul. Gli Usa hanno reso nota l’intenzione di accogliere 95.000 persone evacuate entro la fine del settembre 2022. Destano tuttavia preoccupazione le limitazioni alla libertà di movimento cui sono sottoposte le persone attualmente trattenute nelle basi militari statunitensi e le condizioni di coloro che si trovano in paesi terzi in quanto non hanno superato i rigidissimi controlli di sicurezza necessari per l’ammissione negli Usa. Dato che la situazione dei diritti umani in Afghanistan continua a peggiorare, è urgente che tutti gli stati adottino misure immediate per consentire l’uscita dal paese soprattutto delle attiviste, dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli appartenenti a minoranze etniche o religiose. Sarà necessario fornire protezione internazionale agli afgani e alle afgane già presenti nei loro territori oppure appena arrivati e sostenere gli stati della regione asiatica affinché garantiscano i diritti delle persone fuggite dall’Afghanistan e presenti nei loro territori.