Contro gli ergastoli, per sconfiggere gli imprenditori della paura di Maria Brucale Il Domani, 23 ottobre 2021 “L’ergastolo può continuare a esistere in quanto tende a non esistere”. Un sofisma dal corto respiro che capovolto dimostra che il carcere a vita è certamente incostituzionale. Queste le conclusioni cui perviene il professor Andrea Pugiotto nell’affrontare il tema dell’ergastolo comune che è legittimo purché non sia davvero ergastolo. Già nel 1974 La Corte Costituzionale si soffermava sulla coerenza con la carta fondamentale di un istituto già prima facie in conflitto con la vocazione al reinserimento in società di ogni pena secondo Costituzione e superava la questione in ragione dell’esistenza nel codice penale della liberazione condizionale considerata un particolare aspetto della fase esecutiva della pena restrittiva della libertà personale che si inserisce nel fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello cioè di tendere al recupero del condannato. Non di ergastolo, tuttavia, si deve parlare ma di ergastoli connotati da peculiarità normative ed ordinamentali, ciascuno dei quali presenta difficoltà e sbarramenti che ne disegnano il volto incostituzionale e anticonvenzionale e li connotano come pena senza speranza e, nei casi più estremi, anche senza alcuna aspirazione trattamentale. Certamente diverso dall’ergastolo comune è l’ergastolo ostativo che può essere vissuto anche nell’isolamento del 41 bis o nel buio assoluto delle aree riservate. L’incoerenza di tali istituti con la Costituzione è ormai acclarata, seppur non formalmente statuita, dalla Consulta. Si attende uno sforzo normativo che, in coerenza con la lotta alle mafie, si adegui a un monito stringente: proiettare qualunque carcerazione alla restituzione dell’individuo alla vita libera, fornire a tutti i detenuti, per qualunque reato, strumenti concreti di riabilitazione; garantire una rivalutazione periodica della persona ristretta atta a verificare la perdurante necessità dello stato di detenzione. Il tema è al cuore del saggio “Contro gli ergastoli” a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto che ospita riflessioni di illustri giuristi e raccoglie i contributi preziosi di papa Francesco, Aldo Masullo, Aldo Moro, Salvatore Senese. Contro gli ergastoli tutti perché per ogni individuo la pena deve avere un senso diverso da punire, contenere, isolare, eliminare, reprimere. Una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che, nelle parole della Corte Edu, nel caso Viola contro Italia: “è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno”. “L’essenza dell’ergastolo, scrive il compianto Aldo Masullo, citato nell’analisi di Stefano Anastasia, “non è la negazione di un segmento di vita o di tutta la vita residuale dell’uomo. Esso è la negazione all’uomo di ciò che lo caratterizza più profondamente nel suo esistere, cioè il fatto che mentre qualcosa muore qualche nuova possibilità nasce”. “L’unica possibilità per sottrarre il condannato all’ergastolo da questa condizione di agonia - scrive Anastasia - è il riconoscimento del suo diritto all’esistenza e, cioè, tornare a vivere la temporalità come lo scambio tra ciò che passa, ciò che resta e ciò che arriva in ognuno di noi, il riconoscimento di una identità che si fa ogni giorno diversa nello scorrere del tempo e grazie all’esperienza che il tempo ci consegna”. Il 4 bis - Per questo l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario deve essere rivisto, perché esclude da ogni aspettativa di reinserimento la persona reclusa che decida di non collaborare con la giustizia non per pulsione omertosa o pervicace appartenenza a circuiti criminali ma per mille ragioni diverse e legittime quali il timore per i propri cari; lo struggimento al pensiero di sradicarli dai loro contesti di vita, di lavoro, di affetti; la volontà di non autoaccusarsi di nuovi crimini, declinazione del diritto al silenzio, la professione della propria innocenza. L’ergastolo in Italia esiste. Ne scrive Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, esiste dentro le celle, nella vita effettiva delle persone condannate, a volte, spesso, fino al loro ultimo giorno. Dal 2008 al 2020, 111 persone condannate al fine pena mai sono morte in carcere, solo 33 quelle che hanno avuto accesso alla liberazione condizionale. Di carcere si muore, dunque, senza speranza, senza recupero, senza restituzione, senza rieducazione. La società si incancrenisce di ogni vita non restituita. Si inquina una cellula sociale, quella delle persone vicine al recluso, dei suoi cari, del suo contesto di relazione. Una pena esagerata, scrive Riccardo de Vito, “rischia di creare più nemici di quelli che pretende di neutralizzare, soprattutto quando si pensa di poterla utilizzare - un po’ come tutto l’armamentario del diritto e del processo penale - come unico strumento di soluzione dei problemi criminali dimenticandosi di promuovere una politica integrale di protezione dei bisogni e dei diritti umani”. L’abolizione dell’ergastolo è, allora, conclude Franco Corleone, “obiettivo di civiltà e di umanità, perché lo Stato democratico si dimostri radicalmente alternativo rispetto alla logica della violenza e ai comportamenti criminali”. E alternativo è un sistema che rifugge la logica della vendetta, dell’occhio per occhio, del male al male, del dolore al dolore, della morte alla morte. Una comunità che rifiuta l’odio e lancia la sfida che nessuno è perduto per sempre; che sa vincere contro gli imprenditori della paura percorrendo la strada stretta del ritorno alla politica e alla cultura; che sa, come chiedeva Marco Pannella fino alle sue ultime ore, essere Speranza contro ogni speranza. Ergastolo ostativo, si torna sui binari della Costituzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2021 La Fondazione Falcone e l’associazione Antigone hanno inviato in Commissione Giustizia due proposte di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo, tenendo conto delle indicazioni della Corte Costituzionale. Due proposte che hanno in comune un punto che va in direzione contraria rispetto al disegno di legge presentato dal Movimento Cinque Stelle: conservare la competenza decisionale ai magistrati di sorveglianza ed evitare l’accentramento al Tribunale di Roma. Un punto importantissimo. Come già esposto in commissione giustizia da parte dei magistrati di sorveglianza come Fabio Gianfilippi e Antonietta Fiorillo, oppure da magistrati antimafia come il giudice Gudo Salvini, la concentrazione a Roma delle decisioni per particolari categorie di detenuti, lede sia con i principi costituzionali come quelli del giudice naturale, sia per un discorso di valutazione seria e scrupolosa del detenuto che ha richiesto un beneficio. In sostanza, solo il magistrato di sorveglianza ha conoscenza diretta dell’ergastolano e del contesto detentivo nel quale si trova. Una decisione concentrata a Roma, diventa puramente burocratica e quindi anche meno affidabile. Ritorniamo alla proposta della Fondazione Falcone elaborata da magistrati di spessore come il presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo, già giudice della sentenza del Capaci Bis e Borsellino quater e da Fabio Fiorentin, magistrato esperto in materia di ordinamento penitenziario. Uno degli aspetti qualificanti della proposta è l’introduzione della giustizia riparativa: ovvero condizionare la concessione dei benefici penitenziari per gli ergastolani per reati di mafia e terrorismo alle loro iniziative in favore delle vittime, alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa, e, soprattutto, al loro contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali. Il testo della medesima proposta dice ancora che “possono essere concessi ai detenuti o internati, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, purché sia fornita la prova dell’assenza di collegamenti attuali del condannato o dell’internato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e dell’assenza del pericolo di ripristino dei medesimi e sempre che il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato”. Il giudice di sorveglianza, sempre secondo la proposta della Fondazione Falcone può sempre ordinare “l’obbligo o il divieto di permanenza dell’interessato in uno o più comuni o in un determinato territorio; il divieto di svolgere determinate attività o di avere rapporti personali che possono occasionare il compimento di altri reati o ripristinare rapporti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. Come si è detto, anche Antigone ha inviato una proposta. Si concentra soprattutto su tre punti fondamentali. Uno è quello relativo all’attribuzione di una unica competenza nazionale in questa materia in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma: Antigone - in linea con tutti i giuristi competenti della materia - ritiene che si tratterebbe di una scelta non in linea con la natura della magistratura di sorveglianza, che non può che essere quella di una giurisdizione di prossimità. “Il giudice di sorveglianza del territorio ove si trova la casa di reclusione ove viene eseguita la pena - scrive Antigone nella proposta - è in condizione di assumere le più ampie informazioni dalla direzione penitenziaria e di valutare le stesse tenuto conto delle condizioni, assai variabili, degli istituti di pena in Italia”. L’altro punto dolente che Antigone stigmatizza, riguarda la proposta dell’aggravio probatorio a carico dell’ergastolano ostativo che richiede i benefici: in pratica si arriva a chiedergli di provare la mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata. Antigone osserva che ciò renderebbe solo nominale la modifica della presunzione di pericolosità, senza contare che la prova negativa di un fatto non può mai essere richiesta, incombendo all’autorità provare, semmai, la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio. “Una soluzione che non tenesse conto di queste basilari regole di diritto esporrebbe la nuova disciplina ad un nuovo giudizio di costituzionalità, il che ci pare sia un risultato da evitare”, chiosa Antigone. Osservando le proposte della Fondazione Falcone e Antigone, comprese le audizioni di chi è entrato nel merito della riforma dell’ergastolo ostativo e non speculando sulle dietrologie prive di aderenza ai fatti, appare chiaro che non bisogna partire dal testo presentato dal M5s, ma da un ragionamento più ampio ed equilibrato ripartendo dal testo presentato dalla deputata Enza Bossio del Pd. L’indicazione della Consulta rimane la via maestra. Misure alternative, l’impegno di Cartabia: “Ora più organico” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2021 La replica della guardasigilli all’interrogazione presentata dai dem Verini e Bazoli. Per seguire i detenuti in misura alternativa, si prevede che l’organico sia dotato di 3.478 unità, ma in questo momento sono in servizio 1.527 persone. Una evidente sproporzione. Sono questi i dati snocciolati dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia in riposta all’interrogazione parlamentare presentata dai deputati del Pd Walter Verini e Alfredo Bazoli. La guardasigilli, anche in virtù della riforma che amplierà lo spettro dei “candidati” alla pena alternativa, ha assunto l’impegno di ampliare il personale. “Nella legge delega in materia penale - ha spiegato la ministra in risposta all’interrogazione - c’è un forte incremento dell’applicazione delle pene sostitutive e quindi dovranno mettersi in campo misure idonee a garantire l’adeguatezza, in termini di strutture, di risorse e di personale, degli uffici dell’esecuzione penale esterna”. La guardasigilli ha proseguito rivelando i dati: “Ad oggi - quindi, senza tenere conto della prospettiva dello sviluppo che si avrà con l’attuazione della legge delega - i dati, al 31 agosto 2021, dicono che sono in corso 68.916 misure e sanzioni di comunità di diverse tipologie (misure alternative alla detenzione, messe alla prova, sanzioni di comunità e misure di sicurezza); sono quasi 69.000. Se si raffronta con il numero dei detenuti si capisce la significatività di questo impegno”. A fronte di questo enorme numero di misure in corso, l’organico prevede che il comparto delle funzioni centrali sia dotato di 3.478 unità, di cui 1.701 funzionari della professionalità del servizio sociale. “In questo momento, sono in servizio 1.527 persone. La sproporzione è evidente”, ha chiosato la ministra. Per questo, ha messo in luce l’evidenza che occorrerà ampliare in modo significativo le piante organiche, “ma soprattutto - ha concluso Marta Cartabia - coprirle tempestivamente sia per le esigenze attuali, sia per quelle che vediamo all’orizzonte, anche auspicabilmente in virtù dell’attuazione della delega penale”. Un problema che a settembre, Il Dubbio ha messo in luce dando notizia della denuncia da parte di 250 funzionari del servizio sociale che si occupano della presa a carico degli imputati raggiunti da misure alternative alla detenzione. Il Dubbio ha potuto verificare che con una valanga di lettere, hanno sommerso i sindacati e l’ordine professionale per chiedere aiuto. Gli operatori sono preoccupati, credono fermamente alla missione del loro lavoro, ma si sentono abbandonati a sé stessi. Il rapporto tra funzionari dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterno) e gli imputati o condannati, è uno a 180. Dal punto di vista pratico è già insostenibile seguire tutti e la giusta riforma Cartabia che amplierà la platea degli aventi diritto della messa alla prova, se non accompagnata da un sostanzioso incremento delle risorse umane, rischia di rendere vana la buona intenzione. Ma ora, grazie all’interrogazione parlamentare del PD, sappiamo che la ministra della giustizia si è assunta un importante impegno. Con il referendum sulla cannabis si risolvono i problemi delle carceri di Rita Rapisardi Il Domani, 23 ottobre 2021 Le carceri piene sono il risultato più evidente di una politica sbagliata nella lotta alla droga. Basterebbe leggere i numeri per capire la criticità di un intero sistema. Da trent’anni oltre un terzo di tutti i detenuti, circa il 35 per cento, entra in carcere per reati collegati alla droga. Di tutte le denunce all’autorità giudiziaria, il 43 per cento riguarda reati correlati a cannabis e derivati, mentre le segnalazioni alle prefetture per detenzione di sostanze per uso personale, al 74 per cento sono per cannabis. Una montagna di fascicoli e procedimenti giudiziari che si traducono nella metà dei casi in condanne e persone dietro le sbarre. Non ci troviamo di fronte a grandi trafficanti che smuovono i mercati, ma a persone, spesso semplici consumatori, di cui molti con problemi di dipendenza (circa il 30 per cento di tutti i detenuti). “Abbiamo oltre 60mila persone recluse nelle galere. La maggior parte sono lì per aver violato il testo unico sugli stupefacenti. Tantissimi i tossicodipendenti, circa 15mila. Ma una fetta di grande popolazione carceraria riguarda l’articolo 73”, spiega Maria Pia Scarciglia di Antigone. C’è da fare una distinzione importante quando si parla di reati sulle droghe: il 97 per cento delle condanne riguarda appunto l’articolo 73 del testo unico, sono i reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, mentre solo il 3 per cento quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (articolo 74). “Molti hanno precedenti: il carcere diventa una porta girevole, in cui si entra e si esce. Queste persone non dovrebbero passare dalle carceri: è un problema di salute, non di sicurezza”, dice Scarciglia. “Abbiamo una situazione sanitaria che non consente un diritto alla cura: nelle carceri bisognerebbe seguire un percorso psicologico, ma c’è penuria di personale sanitario e medico e gli obiettivi della riabilitazione falliscono”. Un cambiamento a livello legislativo sembra impossibile, il parlamento ha dimostrato immobilità, nel passato come nel presente. Non c’è da stupirsi se per i referendum hanno firmato in centinaia di migliaia sia in presenza sia online: oltre un milione e 200mila per l’eutanasia legale e oltre 600mila per la cannabis (in questo caso la raccolta firme si sposterà ora nelle piazze fino al 31 ottobre). Il referendum sulla cannabis andrebbe a modificare proprio il testo unico: sia sul piano penale, con la depenalizzazione delle condotte di coltivazione e detenzione illecita di qualsiasi sostanza e l’eliminazione della pena detentiva per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione della associazione finalizzata al traffico illecito; sia su quello amministrativo: il quesito propone di eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità dei ciclomotori. Scorrendo il lungo elenco del ministero della Giustizia sugli istituti penitenziari il rapporto tra capienza e detenuti presenti è sempre a sfavore della prima. In fondo si conta un saldo di 50.931 posti a fronte di 61.230 detenuti (dati aggiornati al 2020). In alcuni casi il sovraffollamento è grave: a Bologna nel carcere D’Amato sono confinati in 500 posti 891 detenuti, a Busto Arsizio 434 persone per 240 posti, a Brescia i detenuti sono 366 e i posti 189 e al Regina Coeli di Roma sono detenute 1.061 persone in 616 posti. “Mettiamo in galera persone che non dovrebbero entrarci e, in relazione alla cannabis e alle droghe leggere, è evidente. È una sostanza che non ha effetti tali da avere una normativa così restrittiva: una fabbrica di reati e sovraffollamento, che impatta sulla vita delle persone in modo devastante e senza una ragione obiettiva”, commenta Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa, con una lunga esperienza di visita nelle carceri italiane. “Quei luoghi sono una discarica sociale di tutto ciò che non riusciamo a risolvere, un serbatoio di marginalità. La risposta la devono dare i servizi sociali, lo stato, non il carcere: bisogna aumentare le misure alternative”. Spazi ridotti, attività inesistenti o minime per via della mancanza di personale, una vita scomoda e complicata, dove spesso si replicano le dinamiche esterne. Per gli stranieri tutto ciò è ancora più evidente: nel giro di due decenni i detenuti denunciati per reati droga-correlati sono passati dall’essere il 20 per cento fino al 33 per cento del totale. “Si può fare un parallelo: come per le droghe, anche per gli stranieri si fabbrica irregolarità attraverso norme sbagliate, che li rendono clandestini. Separarli dalla comunità è sbagliato e i numeri delle recidive lo confermano: se passi dal carcere, ci torni”, conclude Capriccioli. Il tasso di recidiva è del 28 per cento per chi usufruisce di misure alternative, mentre arriva al 70 per cento per chi resta dietro le sbarre fino a fine pena. “Il referendum sulla cannabis potrebbe avere un influsso positivo, ma c’è da chiedersi perché si finisce in carcere e non con altri tipi di sanzioni, soprattutto per reati di lieve entità, come per la cannabis. Ci vuole sempre una politica più strutturata di riflessione sulle droghe e c’è bisogno di un cambiamento culturale rispetto al consumo”, commenta Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. La regione del nord Italia ospita i penitenziari più problematici: Monza ha un affollamento del 150 per cento, Como del 152,5 per cento, Bergamo arriva al 159 per cento, Canton Mombello a Brescia addirittura al 189 per cento. Le carceri affollate sono costate all’Italia più di una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Celebre quella per il caso Torreggiani nel 2013 a danno di sette detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza, rinchiusi in celle di nove metri quadrati. La sentenza constatò che il sovraffollamento era da considerarsi strutturale. Le carceri piene sono il risultato più evidente di una politica che nei decenni ha sovrapposto consumatore, spacciatore e tossicodipendente. Con la cosiddetta “war on drugs” degli Stati Uniti degli anni Settanta, Richard Nixon ha eletto l’abuso di droga come “nemico pubblico numero uno”. Nel 1961 la Convenzione internazionale ha sancito il proibizionismo di tutte le droghe, riconoscendone l’uso solo per finalità medico-scientifiche. Lo stesso approccio è stato applicato anche in Italia con il metodo San Patrignano, la comunità di recupero fondata da Vincenzo Muccioli, che si è tradotto nella legge Iervolino-Vassalli voluta da Bettino Craxi. La “guerra contro la droga”, come diceva don Andrea Gallo, è diventata una guerra alle persone. E nell’uso singolare del termine “droga” sta quanto di sbagliato è accaduto in Italia: la legge Fini-Giovanardi nel 2006 ha equiparato droghe leggere e pesanti cambiando le pene per la detenzione personale. Il risultato è stato un aumento vertiginoso del numero dei detenuti, fino a 73mila, tra il 39 per cento e il 42 per cento per reati droga-correlati. Il pugno di ferro è finito solo nel 2014 con l’illegittimità costituzionale e il ritorno alla Iervolino-Vassalli, che ha portato solo in un anno a 5mila detenuti in meno. “C’è un forte aspetto moralista della legge. Non posso analizzare la realtà con gli occhi dei morti di eroina e della diffusione dell’Hiv”, spiega Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). “Trattare la sperimentazione e il consumo di qualsiasi droga attraverso la tossicodipendenza ha riempito le carceri. E fatto in modo che chi consuma incontri poliziotti o guardie carcerarie, anziché figure di tipo educativo”. Un trattamento assai diverso rispetto a quello riservato ad altre sostanze come alcool e tabacco, che nella classifica di pericolosità si collocano ben al di sopra della cannabis. Per gli antiproibizionisti si deve puntare alla riduzione e non all’eliminazione e promuovere modelli moderati di consumo, per prevenire abusi. “Il proibizionismo in Italia costa venti miliardi di euro in mancate entrate per lo stato, rallenta la giustizia e sovraffolla le carceri”, si legge nel Libro bianco sulle droghe, promosso tra gli altri da Cnca, Associazione Luca Coscioni e Forum droghe. Depenalizzare il consumo e separare la cannabis da altre sostanze più pericolose sarebbe un passo importante: “Quando si verifica un uso frequente di cannabis in età pre-adolescenziale e adolescenziale, in cui l’aspetto pericoloso non è nel danno fisico, ci interroghiamo sul perché di quell’uso, sul significato della frequenza. Il “ti salverò” non c’entra nulla”, continua De Facci, che chiede la ripresa del fondo nazionale che finanzi gli operatori di strada nei quartieri e nelle scuole, e un piano di prevenzione nazionale che segua quello europeo. “Il referendum è un passo importante per un ragionamento sull’amministrazione della giustizia, dalle forze dell’ordine ai tribunali. Si libererebbero le forze dell’ordine dalle incombenze dei pesci piccoli”, dice Marco Perduca senatore del Partito democratico. Secondo Meglio Legale, tra i promotori del referendum, sette volte su dieci, le forze dell’ordine arrestano anche in casi di lieve entità. La regolamentazione comporterebbe anche meno processi che contribuiscono a ingolfare i tribunali italiani. Intercettazioni, contratti secretati. Il Copasir ora chiede chiarezza di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 ottobre 2021 L’ordinamento italiano è tra i maggiori utilizzatori di tali strumenti, ma risultano registrati alla Corte dei Conti solo quattro accordi di noleggio per i sistemi “spia”. Le Procure della Repubblica “sfuggono” al controllo preventivo di legittimità dei contratti. Nel 2020, ad esempio, risultano registrati alla Corte dei Conti solo quattro contratti di noleggio per sistemi di intercettazioni. E tutti, per altro, relativi ad un’unica sede di tribunale. Un dato che stride con la “ponderosa attività delle Procure (140, ndr) in merito all’impiego di sistemi di intercettazione che vede l’ordinamento italiano tra i maggiori utilizzatori di tali strumenti”. A rilevarlo è stato il Copasir, presieduto dal senatore Adolfo Urso (Fd’I), che ha analizzato la relazione della Sezione centrale per il controllo sui contratti secretati della Corte dei conti. “Si evidenzia una zona grigia di atti che le Amministrazioni o gli Enti non inviano alla Sezione in nessuna fase del controllo o ritirano se oggetto di osservazioni. I contratti senza visto e registrazione della Sezione non sono efficaci ma la Sezione stessa non dispone di poteri che possano far emergere ciò che non viene a sua conoscenza”, affermano i relatori del documento, il senatore Francesco Castiello (M5S) e l’onorevole Elio Vito (FI), depositato questa settimana.Il codice dei contratti pubblici ha demandato alla Corte dei conti le attività di controllo preventivo sulla legittimità e sulla regolarità dei contratti secretati e un controllo successivo sulla regolarità, correttezza ed efficacia della gestione. Sulla questione dei contratti secretati, in particolare, il Copasir nelle scorse settimane ha svolto le audizioni della ministra della Giustizia, Marta Cartabia e del presidente della Sezione centrale della Corte dei conti, Luciano Calamaro. La Guardasigilli ha ricordato che le modifiche introdotte sul punto dalla Riforma Orlando della giustizia del 2017 con la previsione che le tariffe per i servizi erogati dai fornitori privati siano determinate con decreti ministeriali. Con un decreto legislativo del 2018, poi, le spese di intercettazione sono state inserite tra le spese di giustizia disciplinate dal testo unico del 2002. Le attività di intercettazione, dunque, sono ora affidate a un soggetto privato con un conferimento d’incarico da parte del pm nell’ambito di uno specifico procedimento e il relativo costo è considerato come una spesa di giustizia. La ministra ha evidenziato come da tale impostazione deriverebbe la conseguenza che il provvedimento di affidamento dell’incarico non debba più sottostare all’obbligo di controllo della Corte dei conti. Una impostazione, però, in contrasto con le norme europee: la Commissione europea, infatti, ha messo in mora l’Italia perché non ha ottemperato “agli obblighi basati sull’assimilazione dei contratti per le intercettazioni a transazioni commerciali”. Non si esclude la richiesta di un’interpretazione ufficiale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. La ministra, comunque, ha assicurato che sta svolgendo un’opera di monitoraggio e di interlocuzione con le Procure per giungere ad una armonizzazione delle tariffe. Il tariffario proposto è considerato troppo rigido e pone problemi nei casi in cui fissa tariffe inferiori alla media. La finalità dell’approfondimento da parte del Copasir su tale tematica era finalizzata ad “individuare gli strumenti normativi più idonei alla tutela informatica del Paese”. Nel 2018 l’occasione fu offerta dal caso Hacking Team, azienda italiana che nel luglio del 2015 subì l’esfiltrazione di un’ingente quantità di dati resi pubblici tra cui mail, fatture e il codice sorgente del software. Per il Copasir serve “una valorizzazione di apposite linee guida tra le aziende coinvolte e gli uffici giudiziari competenti, sull’esempio di alcune Procure italiane, per il corretto impiego delle strumentazioni volte ad attività di intercettazione e captazione”. In questa legislatura il Copasir ha reputato opportuno avviare un approfondimento della materia, anche tenuto conto dell’impatto del caso Exodus, un software di captazione utilizzato da varie Procure per condurre investigazioni informatiche e che nel 2019 era stato oggetto di indagine da parte della Procura di Napoli. L’indagine aveva appurato che non vi erano garanzie di sicurezza circa la conservazione e la gestione dei dati sulla piattaforma Exodus e che le misure di sicurezza non erano idonee a mantenerne la segretezza e l’integrità. Castiello e Vito, in conclusione, hanno proposto alcune misure per ridurre le criticità, come il potenziamento dell’apparato sanzionatorio della Sezione centrale della Corte dei conti; la previsione che il Copasir possa fornire un parere sulla relazione della Sezione centrale della Corte dei conti; l’introduzione dell’obbligo di motivare adeguatamente la secretazione. Il Copasir, infine, preso atto di quanto rappresentato dalla Guardasigilli, ha segnalato l’esigenza di interventi normativi per migliorare la disciplina dell’affidamento del servizio di intercettazione rafforzando la protezione dei diritti fondamentali, con particolare riguardo alla privacy, garantendo un controllo effettivo sui contratti stipulati, ed armonizzando le tariffe con le quali sono remunerati i fornitori del servizio. “Il mondo della giustizia piange miseria - commenta il consigliere del Cnf Stefano Bertollini. Si potrebbero fare assunzioni di personale amministrativo e di magistrati. Queste spese senza controllo fanno spavento”. Dalle toghe ai partiti è già guerra di nervi sulla riforma del Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 23 ottobre 2021 Martedì vertice con Cartabia. i giudizi di “Md”, “Mi” e “Area” sull’ipotesi di Luciani. Il timore tra le correnti della magistratura è lo stesso: che a soli nove mesi dal rinnovo del Csm si attui una riforma del sistema elettorale sull’onda dell’urgenza, con un dibattito parlamentare compresso e senza tener conto dei contributi che potrebbero arrivare dall’accademia e dalle toghe. Un po’ come è avvenuto per la riforma del processo penale. Eppure sarebbe probabilmente lo snodo principale per quella rigenerazione etica e culturale della magistratura, sollecitata anche dal Presidente Mattarella. Anche se, secondo i penalisti guidati da Caiazza, la vera riforma sarebbe quella delle valutazioni professionali dei magistrati. Comunque, due giorni fa la ministra Cartabia avrebbe dovuto incontrare i capigruppo di maggioranza per incardinare la discussione a partire dalla proposta della Commissione Luciani, ma si sono collegati solo Costa e Zanettin. Questo avrebbe fatto irritare non poco la guardasigilli che, nel ricordare “l’urgenza di riprendere un confronto”, ha rimandato tutto alla settimana prossima, probabilmente a martedì 26. Intanto però le varie anime della magistratura associata affilano le armi e cominciano a fare pressione. Magistratura democratica, dopo quello che preferiscono chiamare ‘recupero di autonomia’ invece che prosaicamente ‘scissione’ da AreaDg, appoggia la riforma Luciani del ‘voto singolo trasferibile’. Come spiega la relazione della Commissione, “esso consente di produrre, in collegi di ampiezza almeno media (quattro- cinque seggi) dei risultati di tipo tendenzialmente proporzionale e valorizza fortemente il potere di scelta dell’elettore, eliminando il fenomeno del voto inutile, grazie al trasferimento ad altri candidati delle preferenze espresse dagli elettori di candidati già eletti o giunti ultimi nel confronto elettorale”. Proprio per questo ha raccolto il placet delle toghe guidate dal dottor Stefano Musolino: i sistemi proporzionali “garantiscono - si legge in un documento dell’esecutivo di Md - la plurale rappresentatività delle diverse sensibilità presenti in magistratura e sono in grado di dare autentiche chance di successo anche a nuove aggregazioni che si propongano come alternative ai gruppi associati “storici”“. Diversa in parte la posizione del dottor Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente: “In merito al nuovo possibile sistema elettorale, le ipotesi che fino ad ora sono sul tavolo riguardano sistemi nuovi, che non hanno avuto una sperimentazione. Temiamo che si vada incontro ad una modifica affrettata e dagli esiti sconosciuti”. Per questo la proposta di MI da un lato approva la scelta della Commissione Luciani “di suddividere il territorio nazionale in più collegi plurinominali, coerente con l’obiettivo di ridurre la possibilità di condizionamenti del voto”, dall’altro lato esprime però “forti perplessità” sul sistema di ‘ voto singolo trasferibile’ “che attribuisce particolare peso alle seconde e terze preferenze correlate ai candidati più votati, perché tale sistema si presta alla elaborazione di cordate e, dunque, a condizionamenti del voto, frutto di accordi correntizi”. Sulla possibilità che la legge proposta dalla Commissione Luciani favorisca una polarizzazione che veda MI contrapposta ad Area e Unicost, Piraino conclude: “Innanzitutto il panorama mi sembra molto più variegato. Basti pensare alla recente emersione di questa nuova realtà che è Articolo Centouno. E poi, se noi guardassimo al nostro interesse, la soluzione migliore sarebbe il ballottaggio, sistema perfetto per polarizzare il consenso perché impone aggregazione. Ma noi per primi siamo contrari al ballottaggio, che è il luogo privilegiato di accordi tra gruppi”. Ancora più diretto è il dottor Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, che così commenta con noi la notizia, apparsa qualche giorno fa su Domani, secondo cui appunto la sua corrente si starebbe alleando con Unicost contro MI: “Ignoti commentatori del mondo di MI parlano di alleanze già strutturate e tentativi di escludere quel gruppo. Si tratta di grandi fandonie, a maggior ragione se chi le dice non se ne assume neanche la paternità. Non ci sono e non ci saranno alleanze di nessuno contro nessuno, perché non è nostro costume agire in questo modo. Il problema invece su cui occorre porre l’attenzione è la necessità che il nuovo sistema non crei un bipolarismo, favorendo così i gruppi più grossi. È fondamentale, invece, che sia garantita la maggiore rappresentanza possibile dei gruppi all’interno del Csm. A mio parere la proposta Luciani non produce l’effetto della polarizzazione perché da una parte impone a tutti i gruppi di allargare molto il numero dei candidati e dall’altra offre all’elettore la possibilità di indicare 3 o 4 preferenze. Quindi anche da questo punto di vista consente di mantenere l’elettore libero da controlli e condizionamenti. Pertanto la proposta Luciani sulla carta mi sembra quella più adatta a ridurre il peso delle correnti. Per quanto riguarda i sistemi maggioritari: se fosse di tipo uninominale, rafforzerebbe il condizionamento dell’elettore, invece quello binominale porterebbe al rischio della polarizzazione”. “Noi italiani paralizzati dal tabù delle riforme. Ma la Carta va rivista” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 ottobre 2021 Intervista al professor Giovanni Guzzetta, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’università di Roma Tor Vergata: “L’incubo autoritario crea la deriva dei decreti legge”. Per il professor Giovanni Guzzetta, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’università di Roma Tor Vergata, in tema di giustizia sarebbero molte le modifiche costituzionali da portare avanti: dall’organizzazione giurisdizionale all’obbligatorietà dell’azione penale e alla separazione delle carriere. Il problema, dice, è che “per qualsiasi riforma siamo pieni di tabù”. Professore, a voler indicare una scaletta di priorità, quali sarebbero le modifiche costituzionali più urgenti nel campo della giustizia? Ci sono ragioni per ritenere che la parte della nostra Carta relativa all’organizzazione giurisdizionale vada ritoccata da più punti di vista. Il primo riguarda l’autogoverno della magistratura: rispetto al modello costituzionale vi è stata una evoluzione, sono stati istituiti nuovi organi, come per esempio i Consigli giudiziari, nei quali però la partecipazione di professionalità esterne è molto circoscritta. Tra l’altro è esclusa quando si tratta di valutare la professionalità dei magistrati, a fronte di un Csm che invece è concepito dal Costituente come un organo a composizione mista. Lei sarebbe d’accordo con il riconoscimento del diritto di voto per gli avvocati e gli accademici nei “mini Csm” di Corte d’appello quando si discute sulle valutazioni di professionalità? Nel Csm la componente di nomina politica, che include anche gli avvocati, ha diritto di voto. Perché la componente laica non dovrebbe avere lo stesso diritto negli organi il cui lavoro è funzionale alle decisioni del Csm? Ci sono altre modifiche che andrebbero apportate? Il tema dell’azione penale è ormai improcrastinabile. Il sistema va avanti con un simulacro di obbligatorietà dell’azione penale. Tuttavia la Costituzione parla di obbligatorietà, ma non indica criteri di selezione delle priorità. Ci sarebbe anche la questione della separazione delle carriere.. È un tema polarizzante oggi ma, in realtà, in Assemblea costituente non sussistevano dubbi sul fatto che la carriera del pm non potesse essere unificata a quella del giudice. Se non si attuò allora la separazione è solo perché il modello processuale penale era di tipo inquisitorio, l’organo inquirente aveva anche delle funzioni giudicanti. Così si rinviò la separazione alla modifica del processo, che però è arrivata solo nel 1989. Soprattutto per la magistratura, si tratta di un tabù... Per qualsiasi riforma siamo pieni di tabù: abbiamo il tabù del bicameralismo intoccabile, quello del governo che non può minimamente essere rafforzato, quello di un regionalismo che non ha un’identità chiara. Purtroppo le riforme costituzionali, soprattutto quando riguardano il governo e l’organizzazione della giustizia, sono tutte assediate dai tabù. Il problema è che se non li si affronta, si realizza il paradosso di una prassi, senza riforme, che invera esattamente lo spettro di quei tabù. Ho già parlato dell’azione penale. Pensi, sul versante del governo, al tema dei decreti legge: da decenni rappresentano sempre di più la fonte principale di legislazione. Mentre nel modello costituzionale sono considerati degli atti eccezionali, ormai la straordinarietà e l’urgenza vengono giustificate con il fatto che altrimenti il processo decisionale è troppo lungo. Ma così si svuota il ruolo del Parlamento... Esatto. Anziché riformarlo e rendere le procedure più efficaci e veloci, lo si marginalizza semplicemente. La nemesi dei tabù. Esaltiamo il bicameralismo, combattiamo i rischi di governo autoritario e, poi, proprio nella conversione dei decreti legge, sperimentiamo un monocameralismo di fatto e un governo che impone la questione di fiducia con maxi-emendamento. Come si affrontano queste criticità? Un tentativo si era fatto con il referendum Renzi-Boschi, ma sappiamo come è andata a finire... Il problema delle riforme in Italia è che si avvia il processo con grande unanimismo, poi però quando ci si approssima al momento della verità i partiti rinnegano le convergenze e preferiscono giocare una partita politica di competizione con gli avversari, utilizzando la riforma costituzionale come una sorta di strumento di lotta elettorale. Dato questo contesto, non è allora quasi fisiologico che i cittadini si riapproprino del loro potere di incidere sul cambiamento attraverso le leggi di iniziativa popolare e i referendum che, infatti, stanno vivendo una stagione prolifera, grazie anche alle sottoscrizioni online? Distinguerei due aspetti. Il primo è quello che riguarda il processo di revisione costituzionale per il quale, secondo me, non si può non passare dal momento rappresentativo, che sia una Commissione costituente o il Parlamento stesso, perché i temi e gli intrecci sono troppo complessi. Altro discorso è quello che concerne i referendum abrogativi, rispetto ai quali la previsione di una disciplina della raccolta delle firme più spedita non presenta alcun problema di legittimità, anche perché non dobbiamo dimenticare che l’Italia è stata condannata dal Comitato diritti umani dell’Onu, grazie ad un ricorso dei radicali, perché ha violato il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica del Paese attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare. La sottoscrizione digitale è un modo per adeguarsi a questa decisione. Professore, mi aiuti a capire: da un lato alle ultime Amministrative abbiamo registrato un forte astensionismo, dall’altro però milioni di cittadini hanno firmato per i referendum su eutanasia, cannabis, giustizia. I cittadini sono dunque interessati o no ad incidere sulle decisioni politiche? Per rispondere dovremmo essere in possesso di dati empirici, sociologici e politologici molto dettagliati. Io credo che la democrazia perda legittimazione nel momento in cui tradisce la propria promessa, ossia che i cittadini contino e incidano sui processi. Quando i cittadini non contano o hanno la percezione di non contare, allora l’afflato democratico si indebolisce. Probabilmente su un tema specifico come un referendum, in cui si potrebbe arrivare ad un voto, i cittadini interessati si sentono più coinvolti. Diverso è quando invece parliamo della politica nazionale, con un sistema che funziona male ed è caratterizzato da una fortissima instabilità che tradisce le scelte elettorali. Se guardiamo solo a questa legislatura, i primi due governi che ci sono stati hanno assunto una composizione che ha tradito l’impegno elettorale dei partiti che ne facevano parte. La politica locale risente di questo clima. Lei ha detto giustamente che i cittadini vogliono incidere. Ma il nostro Paese soffre di analfabetismo funzionale, ci sono minoranze per cui la terra è piatta. Queste persone votano. Non sarebbe il caso di rivedere il modello di voto? L’idea democratica parte dal presupposto che abbiano diritto di voto tutti, indipendentemente dal tipo di preparazione. Non dimentichiamo che una grandissima parte di cittadini che votò il referendum Monarchia/Repubblica e la Costituente era analfabeta. Questo non vuol dire che non ci sia un problema di dibattito pubblico e di consapevolezza. Ma non si risolve tagliando fuori parte della popolazione, altrimenti si entra in un altro regime, oligarchico o dei migliori. Si risolve con strumenti che consentano lo svolgimento del dibattito pubblico nel modo più trasparente possibile. Il problema dell’ignoranza non è solo dei rappresentati ma anche dei rappresentanti, e non è un problema solo italiano. Negli Stati Uniti si riflette molto su questo tema. Siamo poi in un’epoca in cui le fonti di informazione si moltiplicano senza che questo assicuri necessariamente maggior consapevolezza. Macina: “La riforma va avanti e sui minori abbiamo fatto il massimo” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 ottobre 2021 Intervista alla sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina: “Tutti concordi nel ritenere che l’istituzione del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie sia qualcosa che si attendeva da tanto tempo”. “La riforma civile richiede il massimo sforzo da parte dei suoi protagonisti: avvocatura e magistratura”. La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina (M5S) è fiduciosa sul rispetto dei tempi in Parlamento per tagliare il traguardo ambizioso di una riforma che possa far avvicinare sempre di più l’Italia all’Europa e garantire il pieno rispetto dei diritti dei cittadini. Sul dibattito molto acceso degli ultimi giorni in tema di famiglia e minori, che ha contrapposto avvocatura e magistratura, l’onorevole Macina auspica la collaborazione più ampia possibile tra le parti. “Dobbiamo rialzarci dopo la pandemia e remare tutti nella stessa direzione”, dice al Dubbio. Onorevole Macina, dalla magistratura si è alzata una voce critica sulla riforma civile per quanto riguarda la parte su famiglia e minori. Potrebbero essere prese in considerazioni le osservazioni fatte? “Ho seguito tutti i lavori della riforma al Senato e li seguirò anche alla Camera. Quei lavori sono stati caratterizzati da un momento di ascolto preciso. Sono certa che ci saranno i tempi, i modi e i luoghi per confrontarsi sui temi della famiglia e dei minori. Conosco le critiche, ma più che critiche le definirei preoccupazioni sollevate in alcuni passaggi dell’iter parlamentare. Tutti sono comunque concordi nel ritenere che l’istituzione del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie sia qualcosa che si attendeva da tanto tempo. Ecco perché questo è un momento da celebrare. Inoltre, è opportuno sempre ricordarlo, il passaggio in Parlamento è avvenuto con il voto unanime. Maggioranza e opposizione hanno votato alla stessa maniera, consapevoli dell’importanza di avere una sezione specializzata. A riprova del fatto che il tema è molto sentito. I diritti di cui stiamo parlando sono importanti ed è opportuno avere un luogo sempre attento a tutti gli interessi in gioco”. C’è il rischio che intervenga di nuovo il Senato e che l’iter della riforma civile subisca dei ritardi? “Mi faccio portatrice di un interesse condiviso e di una consapevolezza altrettanto condivisa. Mi riferisco all’esigenza di rispettare i tempi per l’approvazione in doppia lettura della riforma del processo civile. Abbiamo, come più volte rimarcato dagli addetti ai lavori e dagli organi di informazione, delle scadenze da rispettare per quanto riguarda gli step dei fondi del Recovery. La riforma del processo civile è uno di questi step. Peraltro, abbiamo un obiettivo molto ambizioso. Quello di tagliare del quaranta percento i tempi dei processi. Siamo tutti concentrati su questo obiettivo che non possiamo mancare, perché è una precondizione di una serie di altri benefici che aiuteranno l’Italia a rinascere, dopo una stagione molto penalizzante provocata dalla pandemia. Anche la giustizia deve ripartire e la riforma del processo civile è un tassello fondamentale. La consapevolezza di questo obiettivo che non possiamo mancare mi tranquillizza”. Un fronte critico della magistratura riguarda il passaggio dal collegio al giudice monocratico. Inoltre, è notizia di queste ore, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, ha chiesto di essere ascoltata dalla Commissione Giustizia della Camera proprio su questo tema. Sono preoccupazioni eccessive? “Conosco Carla Garlatti. È una persona che stimo e con la quale collaboro su altri fronti. Sono a conoscenza di questo malessere in riferimento al passaggio dal collegio al giudice monocratico. Ricordo che l’istituzione del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie prevede non soltanto delle sezioni distrettuali, ma anche circondariali. Voglio, però, fare una precisazione, pur comprendendo i legittimi dubbi, che sono certa avranno una sede opportuna di chiarimento. Siamo di fronte ad una legge delega. Nel momento in cui abbiamo scritto la parte che riguarda la composizione del collegio si è fatto espressamente riferimento ad una forte specializzazione della sezione che si occuperà di persone, famiglia e minori. C’è anche un passaggio che riguarda il recupero della magistratura onoraria nell’Ufficio del processo, che è quell’organo che a sistema deve supportare e coadiuvare il giudice anche nel momento antecedente a quello decisionale. Una sorta di collegialità dunque dovrebbe accompagnare il giudice fino al momento in cui dovrà scrivere la sentenza. Su questo ci sarà modo e ci sarà spazio per approfondimenti”. L’avvocatura ha invece espresso apprezzamento per la riforma in tema di famiglia e minori... “Voglio fare una premessa. Come avvocato ho frequentato i Tribunali. Abbiamo bisogno, affinché la giustizia funzioni, dell’apporto tanto dell’avvocatura quanto della magistratura. Entrambe, con pari dignità, coabitano nelle aule di giustizia. Non vedrei delle contrapposizioni. La verità è che ognuno, per parte sua, ha sottolineato dei vantaggi di questa riforma. Avvocatura e magistratura hanno colto il valore dell’approdo al rito uniformato e l’intervento che è stato fatto per dirimere eventuali contrasti giurisprudenziali, piuttosto che conflitti di attribuzione di competenza tra Tribunali ordinari e Tribunali per i minori. Questa riforma vuole dirimere tutta una serie di questioni che nel corso degli anni si sono affastellate e ha un intento chiarificatore sui riti. Auspico una fortissima collaborazione tra avvocatura e magistratura. Dobbiamo rialzarci, dopo la pandemia, e remare tutti nella stessa direzione”. Questa riforma civile ci avvicinerà di più all’Europa? “La riforma risponde ad una esigenza: dare una risposta più celere ai cittadini che si rivolgono alla giustizia. Badiamo bene, però, la celerità non significa una giustizia sommaria o approssimativa. L’obiettivo, come detto, di ridurre del quaranta percento i tempi dei processi è ambizioso. La consapevolezza di poter centrare questo obiettivo deriva da una serie di interventi che sono stati fatti non soltanto perché richiesti dal Recovery fund. Gli interventi hanno riguardato l’immissione in ruolo di nuovo personale, la magistratura con nuovi concorsi, la deflazione del carico dei Tribunali con Adr, mediazione, negoziazione assistita, arbitrato. Con gli interventi sulla giustizia civile dobbiamo far ripartire l’economia e l’Italia”. “Liberiamo i sindaci dall’incubo delle indagini”. L’appello di Bianco di Valentina Stella Il Dubbio, 23 ottobre 2021 Abuso d’ufficio, il presidente del Consiglio nazionale Anci Enzo Bianco: “Occorre mettere mano a una riforma della magistratura”. “I dirigenti della pubblica amministrazione sono nel terrore per il rischio di incappare nelle maglie della giustizia. Occorre mettere mano a una riforma della magistratura, ripristinare l’autonomia dei sindaci”. A dirlo ieri Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale Anci, intervenendo al convegno ‘Ripartire dalla semplificazione della Pubblica amministrazione, una grande opportunità non solo per i professionisti’, organizzato da Ancot (Associazione nazionale consulenti tributari) e Confederazione Aepi (Associazione europea dei professionisti e delle imprese). Come ricordato in un recente ordine del giorno dell’onorevole di Azione Enrico Costa, “il 7 luglio scorso i sindaci hanno manifestato a Roma “per chiedere di intervenire sul reato d’abuso d’ufficio e rivedere la responsabilità amministrativa e i confini entro i quali un amministratore o un dirigente pubblico possono agire, poiché il reato non è ancora abbastanza tipizzato e da ciò discendono i pericoli di un’eccessiva dilatazione dell’intervento penale”; la manifestazione dei sindaci ha rappresentato un grido di dolore di chi quotidianamente si ritrova in prima linea, subendo esposti, quasi sempre infondati, che vengono poi strumentalizzati politicamente”. Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istat, nel 2017 sono stati 6.500 i procedimenti aperti per abuso d’ufficio, di cui solo 57 le condanne definitive; nel 2018 quelli definiti da Gip e Gup sono stati 7.133 e 6.142 sono stati archiviati; “si dimostra - conclude Costa - che i procedimenti aperti per abuso d’ufficio sfociano in condanne definitive in meno di un caso su cento”. Nell’accogliere l’odg, il governo si è impegnato a studiare le modifiche alla legge Severino, nel punto in cui prevede la sospensione degli amministratori locali dopo la condanna in primo grado per abuso di ufficio. E in più adesso Partito Radicale e Lega stanno finendo di raccogliere le firme sui sei referendum giustizia, uno dei quali chiede l’abolizione della Severino. Bianco lo avrà sottoscritto? Dodici anni fa moriva Stefano Cucchi. La sorella Ilaria: “Dal suo sacrificio nasca una speranza” di Marco Di Vincenzo agenziadire.com, 23 ottobre 2021 Il 22 ottobre 2009 il cuore del 31enne smetteva di battere nel reparto detenuti dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma. A maggio 2021 l’ultima sentenza sul caso ha inasprito le pene per i carabinieri accusati del pestaggio. Esattamente dodici anni fa, il 22 ottobre 2009, il cuore di Stefano Cucchi smetteva di battere. Erano le prime ore del giorno. Stefano, un diploma come geometra, 31 anni appena compiuti anche se sembrava un ragazzino, pesava solo 37 chilogrammi. Era ricoverato da alcune ore nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma. Era stato fermato solo qualche giorno prima, il 15 ottobre, dai carabinieri. Nel giorno in cui ricorrono i dodici anni dalla sua scomparsa, la sorella Ilaria lo ha voluto ricordare di fronte all’albero di ulivo che, un anno fa, venne piantato in sua memoria, su iniziativa del Municipio II, in piazzale Aldo Moro Roma, a pochi passi dall’ingresso dell’Università La Sapienza. Ilaria è sempre composta nel suo dolore. Sulla targa, ai piedi dell’ulivo, è stato appena appoggiato un piccolo mazzo di girasoli, il cui giallo sgargiante contrasta col grigiore di questa giornata insolitamente calda di fine ottobre. “È emozionante essere qui, è emozionante partire da qui per questo settimo memorial dai dodici anni della scomparsa di Stefano. Questo è un luogo di cultura, un luogo di speranza e rappresenta il futuro. Noi vogliamo guardare al futuro”, dice Ilaria. “Abbiamo vissuto una tragedia nella nostra famiglia, abbiamo vissuto dodici anni drammatici che ci hanno consumato sotto tutti i profili. Vogliamo, però, continuare a dare una speranza. Ci piace pensare che da Stefano, dal suo sacrificio e dal nostro, possa nascere un segnale positivo, che non sia solo per la sua famiglia, che non sia solo per Stefano, ma che sia una speranza per tutti”, racconta Ilaria all’agenzia Dire. Oggi, nell’anniversario della scomparsa, parte il settimo memorial ‘Umanità in marcia’, voluto dalla famiglia per ricordare Stefano. “Spero che saremo tanti e ogni anno di più a camminare insieme, a marciare per il rispetto dei diritti di tutte e di tutti: Stefano, ormai, rappresenta questo - dice Ilaria - Ci vediamo questa sera, alle ore 18, in viale Lemonia, dove Stefano ha vissuto i suoi ultimi attimi da uomo libero e da vivo, dato che dopo sei giorni è morto in quelle condizioni drammatiche. Domani, alle 14, sempre in via Lemonia, partiremo con la staffetta che percorrerà le strade della nostra città, Roma, la città di Stefano, all’insegna dei diritti”. La drammatica storia di Stefano Cucchi, che ha avuto un fortissimo impatto mediatico e culturale sull’opinione pubblica italiana, è stata anche ripercorsa attraverso un lungo e travagliato iter giudiziario composto da più filoni di inchiesta (uno pure sul depistaggio che sarebbe stato organizzato). Pochi mesi fa, nel maggio 2021, per il processo-bis sulle accuse di omicidio preterintenzionale è arrivato un verdetto più duro nei confronti dei carabinieri finiti a processo per il pestaggio mortale di Stefano. “Oggi il processo per la sua morte è arrivato a riconoscere la verità su quel pestaggio ed è una vittoria non della famiglia Cucchi, ma di tutti quelli che ci hanno creduto e che hanno sostenuto questa famiglia, e che oggi ringrazio”, conclude Ilaria nella sua dichiarazione all’Agenzia Dire. Viterbo. Hassan, il Regeni egiziano ucciso nelle nostre prigioni di Luca Fazzo Il Giornale, 23 ottobre 2021 È morto suicida a 20 anni dopo giorni di vessazioni e botte in carcere. Ma i giudici ora vogliono archiviare. Si avvicina alle sbarre, protende le braccia verso le guardie. Si taglia, ripetutamente, tra l’indifferenza delle guardie. Pochi minuti dopo, un agente di custodia entra in cella e lo colpisce al volto, con violenza. Le telecamere immortalano tutto. Sono le ultime immagini di Hassan Sharaf, 20 anni, vivo. La telecamera del carcere di Viterbo segna le 14,02 del 23 luglio 2018: 40 minuti dopo, gli agenti di custodia tornano davanti alla cella del giovane egiziano. Le immagini li ritraggono mentre guardano in alto, verso l’inferriata della finestra: lì c’è appeso il ragazzo che agonizza. Nessuno interviene, nessuno si lancia per salvarlo. Ora quelle immagini sono al centro di un caso drammatico e spinoso, che inevitabilmente ne evoca un altro: quello di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano assassinato in Egitto da uomini dello Stato cinque anni fa. Qua le parti si invertono: a morire è un giovane egiziano, in un carcere italiano dove non doveva trovarsi. E lo Stato italiano, che giustamente pretende (invano, per ora) che il governo egiziano faccia la sua parte per assicurare alla giustizia gli assassini di Regeni, non fa nulla per allontanare le ombre che gravano sulla morte di Hassan. Il segno più chiaro dell’ostruzionismo è il provvedimento del giudice di Viterbo che rinvia alle calende greche l’udienza che dovrebbe riaprire l’inchiesta frettolosamente chiusa dalla Procura locale. Davanti all’opposizione di una associazione egiziana per i diritti umani, il provvedimento del magistrato ha spostato l’udienza dal 2019 al marzo 2024. Un rinvio di cinque anni. Possibile? Eppure di cose da capire, nella morte di Hassan Sharaf ce ne sarebbero tante. É la storia di un ragazzo arrivato in Italia con i barconi, e finito come tanti altri nel giro della piccola delinquenza. Una condanna per furto, un’altra per dieci euro di hashish. Quando lo arrestano per eseguire la pena, Hassan dovrebbe andare - lo dice l’ordine della Procura - in un carcere per minorenni. Invece lo portano prima a Regina Coeli poi, “per opportunità penitenziaria”, in uno delle carceri più malfamate d’Italia, il “Mammagialla” di Viterbo, già teatro di pestaggi e di morti, ed investito di recente, tanto per dare una idea, da una indagine su un giro di spaccio di droga all’interno per cui vengono incriminati sia detenuti che agenti della polizia penitenziaria. Hassan arriva al “Mammagialla” il 21 luglio 2017, accompagnato da una cartella clinica che attesta il suo stato di “deficit cognitivo” e di dipendenza, certificato da numerose visite dei medici del carcere romano. Ma a Viterbo viene sostanzialmente abbandonato a se stesso, vede il primo psichiatra dopo dieci mesi dal suo ingresso, a gennaio. In compenso finisce nel mirino degli agenti di custodia. Dopo una soffiata, gli perquisiscono la cella: viene, dice il verbale “afferrato per le braccia” e “reso innocuo”. Il giorno dopo Saraf invece racconta ai medici di essere stato picchiato ripetutamente. Risposta del consiglio di disciplina, decisa il 9 aprile: quindici giorni di isolamento. E qui la cosa si fa quasi incredibile. Per cinque mesi la sanzione non viene eseguita. Nel frattempo al “Mammagialla” entra il Garante dei detenuti, raccoglie racconti di altri prigionieri che parlano di pestaggi sistematici. Il 23 luglio, non si sa perché e nemmeno chi, qualcuno decide di eseguire la sanzione e portare il ragazzo in isolamento. Il medico di turno, Elena Ninashvili, attesta che il detenuto è in grado di affrontare l’isolamento. Dirà poi di non averlo nemmeno visitato, e che il certificato le è stato portato già compilato dalle guardie. “Era tranquillo e collaborativo”, scrivono gli agenti. Invece i filmati mostrano un ragazzo agitato e disperato. Eppure la Procura di Viterbo chiede di archiviare tutto, liquidando come “abuso di mezzi di correzione” il ceffone al ragazzo. E neanche i magistrati che dovevano farlo togliere dall’inferno di Viterbo non rispondono di nulla. Firenze. Pestaggi in carcere, il Ministero citato tra i responsabili civili di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 23 ottobre 2021 Il Ministero della Giustizia, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, l’associazione Altro Diritto si sono costituiti parte civile all’udienza preliminare per presunta tortura al carcere di Sollicciano. Insieme agli enti, anche i due reclusi che avrebbero subito i pestaggi tra il 2018 e il 2019. Ma c’è di più. Il Ministero della Giustizia è stato citato come responsabile civile. In altre parole, in caso di condanna dovrà risarcire i danni subiti dalle vittime. Prossima udienza, il 13 dicembre. Rischiano il processo dodici persone accusate, a vario titolo di tortura a falso. Si tratta non solo degli agenti e di un’ispettrice della Polizia penitenziaria, ma anche di due medici della Usl Toscana Centro in servizio nella casa circondariale fiorentina: avrebbero “guardato” e non visitato i detenuti coinvolti nei presunti pestaggi. L’inchiesta è partita da una denuncia della ispettrice. Nel 2019, segnalò in Procura di aver subito un’aggressione sessuale da un detenuto marocchino. L’uomo, 50 anni, secondo la funzionaria, convocato nel suo ufficio, si abbassò i pantaloni avventandosi su di lei. Per questo fu bloccato dagli agenti. Ma le indagini hanno svelato che era tutto falso. A subire le torture, ritiene la pm Crhistine von Borries, fu un detenuto marocchino, “inerme e impossibilitato a difendersi”. Fu minacciato, preso a calci e schiaffi e infine lasciato senza abiti prima di essere rinchiuso in cella di isolamento. Fu “punito”, pare, per aver chiesto di telefonare ai parenti in Francia. Non sarebbe stato l’unico a subire questa sorte: nel maggio 2018, sarebbe toccato a un altro detenuto italiano che si era lamentato per non aver goduto completamente dell’ora d’aria. Bastò un cenno del capo di Viligiardi, secondo l’accusa, partirono botte e umiliazioni. Un agente “strinse il braccio attorno al collo dell’uomo, tanto da impedirgli di muoversi, respirare e parlare”. Valentina Marotta Firenze. Effetto Cartabia sulle torture a Sollicciano di David Allegranti La Nazione, 23 ottobre 2021 Il ministero della Giustizia si costituisce parte civile contro i dieci agenti della penitenziaria sotto accusa. Una rivoluzione rispetto al passato. C’è davvero una ministra in via Arenula. Il dicastero della Giustizia guidato da Marta Cartabia si è costituito parte civile al processo per tortura nel carcere di Sollicciano, insieme all’Altro diritto, diretto da Sofia Ciuffoletti, attraverso l’avvocato Raffaella Tucci, e al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, attraverso l’avvocato Michele Passione. La Regione Toscana ha invece deciso di non costituirsi. Ieri c’è stata la prima udienza della preliminare nel Tribunale di Firenze. Dieci agenti di polizia penitenziaria sono accusati di tortura e due medici di aver redatto falsi certificati. Il ministero della Giustizia guidato da Cartabia insomma continua ad adottare una linea diversa rispetto alla gestione precedente targata Bonafede, come aveva dimostrato il caso di San Gimignano (a febbraio dieci agenti sono stati condannati per torture). Ai tempi di Bonafede, infatti, il ministero della Giustizia aveva addirittura presentato l’atto di costituzione, all’interno del procedimento per i reati contestati agli agenti, contro il Garante delle persone private della libertà personale di San Gimignano - L’Altro diritto - che si era costituita parte civile (il ministero ne aveva chiesto l’esclusione dal procedimento). Poi, con Cartabia, le cose sono molto cambiate. Ancora non si sa se le difese degli imputati chiederanno il rito abbreviato. La prossima udienza è fissata per il prossimo 13 dicembre. “L’altro diritto, attraverso l’avvocato Tucci, si è costituito parte civile chiedendo la chiamata in giudizio, come responsabili civili, del ministero e della Asl”, dice alla Nazione Emilio Santoro, filosofo del diritto e fondatore dell’Altro diritto: “Siamo infatti convinti che, come ha affermato la Corte Europea dei diritti dell’uomo, costituisca una tortura per i detenuti, al di là dei singoli episodi di violenza, sentirsi in balia di chi ti può infliggere sofferenza a suo piacimento con la sensazione che nessuno possa intervenire a proteggerti perché chi dovrebbe farlo ti maltratta. È fondamentale che ministero e asl facciano capire ai propri funzionari che proteggere i detenuti dai comportamenti dei loro colleghi vuol dire impedire un reato gravissimo ed è quindi un loro compito fondamentale tanto quanto impedire le evasioni”. Insomma, dice ancora Santoro, “siamo felici che il ministero della Giustizia si sia costituito parte civile, è un segnale importante soprattutto perché sembra stia diventando una prassi nei casi in cui agenti di polizia penitenziaria siano processati per tortura. Ma questo non vuol dire che non debba anche essere garante economico verso i detenuti torturati per i comportamenti illegali dei suoi funzionari. Senza questa garanzia i detenuti rischiano di non ricevere alcun risarcimento effettivo. Siamo allibiti invece del fatto che non si sia costituita la Regione da cui dipendono i due medici indagati”. “Si apre la vicenda processuale - aggiunge Sofia Ciuffoletti -, ma é importante riflettere sul percorso che le persone offese da questi reati hanno dovuto affrontare finora e alle tutele che il nostro ordinamento appronta (o meno) per la protezione, anche psicologica, delle vittime di reati perpetrati da agenti dello stato. A maggior ragione quando queste persone rimangono detenute nelle patrie galere”. Venezia. L’emergenza nelle carceri: “Pochi agenti e inadeguate” di Cecilia Giancaterino Corriere del Veneto, 23 ottobre 2021 Ambienti fatiscenti, inadatti al lavoro di polizia penitenziaria e di chi, nelle carceri veneziane, deve soggiornare, senza spazi adeguati per la riabilitazione o altre attività. “Sono prive di manutenzioni, dichiariamo lo stato di emergenza - dice Stefano Branchi, coordinatore nazionale Cgil polizia penitenziaria dopo una visita alla casa circondariale della Giudecca. Non ci sono posti letto per il personale neoassunto che deve ricorrere ad alloggi di fortuna e siamo costretti a pagare una tassa una tantum per effetto di una legge del governo Renzi” Al sopralluogo, parte del progetto Cgil “Star bene dentro” avviato due anni fa con la vista al carcere di Santa Maria Maggiore e interrotto a causa della pandemia, era presente Carla Ciavarella coordinatrice nazionale Fp Cgil direttori degli istituti penitenziari. “Chiediamo più investimenti in risorse strutturali e umane per Santa Maria Maggiore e Giudecca, due strutture antiche che si è deciso per comodità di magistrati e avvocati di mantenere in centro storico - denuncia. Oggi non garantiscono trattamenti di riabilitazione adeguati e la tutela dei diritti dei lavoratori. Noi vogliamo che rimangano dei luoghi di comunità e rieducazione ma non possono avere le qualità delle strutture di contenimento adatte alla detenzione”. Unanime è la richiesta che la politica decida come intervenire per migliorare le strutture detentive di Venezia, anche a beneficio degli agenti di polizia penitenziaria. “Dobbiamo avere operatori di polizia preparati - sottolinea Giampietro Pegoraro coordinatore regionale Cgil polizia penitenziaria. In Veneto stiamo promuovendo progetti per la formazione in collaborazione con la facoltà di Psicologia di Padova, per la gestione del burnout e problematiche più serie per fronteggiare la chiusura degli ospedali psichiatrici - dice - “riconosciamo, nonostante le criticità presenti, il merito delle associazioni del veneziano che tanto fanno per mantenere attiva una vita di comunità dentro e fuori il carcere”. Milano. I legali: “I detenuti tornino in aula per le udienze” Il Giorno, 23 ottobre 2021 Gli avvocati milanesi scendono in campo ancora una volta per tutelare i diritti delle persone in carcere e chiedono “a gran voce” di abrogare la disposizione, dovuta all’epidemia di coronavirus, “che le costringe da oltre un anno e mezzo ad assistere alle proprie udienze, da imputati o da condannati, attraverso collegamenti telematici di qualità scadente e con un limitato accesso alla possibilità di conferire con il proprio difensore”. Passata la fase del lockdown è necessario che anche nelle aule del tribunale torni un po’ di normalità, per consentire lo svolgimento dei processi senza più le limitazioni del periodo del Covid. Per i carcerati gli avvocati scendono in campo con un comunicato. In una nota congiunta di Ordine degli Avvocati e della Camera Penale di Milano si annuncia che una loro delegazione visiterà la mostra fotografica “San Vittore: un quartiere della città”, esposta all’interno del carcere. La visita avverrà in compagnia del direttore Giacinto Siciliano, della fotografa Margherita Lazzati e di Laura Gaggini, coordinatrice del progetto ideato e portato avanti dall’associazione “Verso Itaca”. “Dunque gli avvocati vanno in carcere, ma i detenuti ancora non hanno il diritto di ritornare in Tribunale”, affermano i legali, auspicando che la situazione si risolva presto. E poiché ora “l’emergenza Covid è certamente sotto controllo”, domandano alle istituzioni che “la persona detenuta assista all’udienza libera da mezzi di costrizione e seduta di regola accanto al proprio difensore. Questa è una garanzia irrinunciabile del nostro sistema penale”. Alghero. In carcere arriva l’aula informatizzata La Nuova Sardegna, 23 ottobre 2021 Progetto di Amministrazione penitenziaria e Università: martedì l’inaugurazione. È prevista per martedì alle 10, nella casa di reclusione “Giuseppe Tomasiello” di Alghero, l’inaugurazione della nuova aula didattica penitenziaria informatizzata. Le altre aule sono state realizzate negli istituti penitenziari di Nuoro, Sassari e Tempio Pausania. Dopo anni di progetti, colloqui, riunioni, definizione del modello informatico e della struttura organizzativa, gli sforzi congiunti del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna (Prap) e del Polo universitario penitenziario dell’Università di Sassari (Pup Uniss) - rispettivamente sotto l’egida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e della Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp-Crui) - sono stati coronati con l’installazione e l’attivazione dei servizi informatici nelle aule didattiche universitarie realizzate durante il 2020-21 nei quattro istituti penitenziari del Pup Uniss. Grazie a questo risultato, gli studenti del Polo universitario penitenziario dell’ateneo di Sassari sono i primi in Italia a poter fruire delle strumentazioni informatiche installate grazie allo sforzo congiunto dell’amministrazione penitenziaria e dell’Università. All’inaugurazione interverranno il provveditore dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna, Maurizio Veneziano, il magnifico rettore dell’Università di Sassari, Gavino Mariotti, la direttrice della casa di reclusione di Alghero, Elisa Milanesi, il delegato del rettore per il Polo universitario penitenziario dell’Università di Sassari Emmanuele Farris, una rappresentanza degli studenti universitari residenti nella casa di reclusione di Alghero. Seguirà la presentazione del progetto d’informatizzazione e la visita all’aula didattica universitaria informatizzata, a cura del Gruppo di lavoro per l’informatizzazione delle aule didattiche universitarie del Polo universitario penitenziario. Tra le autorità presenti, anche il presidente del consiglio regionale Michele Pais, la prefetta di Sassari Maria Luisa D’Alessandro, il presidente nazionale Cnupp Franco Prina. A Padova si parla di Giustizia: da Cartabia a Lamorgese per discutere di riforma, poteri e diritti di Enrico Ferro La Repubblica, 23 ottobre 2021 PadovaLegge organizza per sabato 23 ottobre un convegno dove saranno presenti esponenti di primo piano della cultura, del diritto e dell’accademia, ma anche rappresentanti della categoria forense. Un focus sulla Giustizia, il malato per eccellenza nella pubblica amministrazione. Ma soprattutto un momento di riflessione sulle cure necessarie per riportare la Giustizia in una dimensione di efficienza e utilità sociale. L’associazione culturale PadovaLegge dedica un’intera giornata di studi su questo tema, domani (sabato), nella Sala dei Giganti dell’Università di Padova. Sono attesi i vertici del sistema giudiziario italiano, esponenti di primo piano della cultura, del diritto e dell’accademia, ma anche rappresentanti della categoria forense. C’è attesa per le relazioni di Marta Cartabia (ministra della Giustizia) e Luciana Lamorgese (ministra dell’Interno). La responsabile del Viminale, ieri in serata, ha annunciato che si collegherà da remoto, probabilmente per evitare tensioni con i No Green pass che proprio sabato hanno in programma una manifestazione anche a Padova. Gli interventi di Cartabia e Lamorgese sono attesi perché naturalmente spetta alla politica, e quindi al Governo, fare sintesi di un dibattito pluridecennale e proporre le linee guida di una riforma davvero capace di accompagnare la modernizzazione dell’Italia. PadovaLegge, sotto la presidenza dell’avvocato Fabio Pinelli, intende portare in questo senso un contributo che trae la propria forza dal fatto che i relatori sono tra coloro che a pieno titolo concorrono a definire il processo delle riforme. “Autorità pubbliche e libertà del cittadino”, è il titolo del convegno. La sessione mattutina è dedicata al tema “Una Giustizia penale costituzionalmente corretta”, mentre la pomeridiana è centrata sul Diritto amministrativo: “Economia, sviluppo, amministrazione. Il problema della decisione pubblica”. Dopo i saluti istituzionali di Daniela Mapelli (rettrice dell’Università di Padova) e del sindaco Sergio Giordani, e dopo la presentazione di Fabio Pinelli, dal titolo “Per una società non governata dalla giustizia penale”, seguirà la relazione di Luciano Violante (presidente Emerito della Camera dei Deputati) e poi quella di Giovanni Salvi (procuratore Generale della Corte di Cassazione) che tratterà di “Il più debole dei poteri. Le scelte del pubblico ministero e il principio di legalità”. Alla tavola rotonda successiva, coordinata da Massimo Donini (professore ordinario di Diritto penale all’Università La Sapienza di Roma), prenderanno parte Gian Domenico Caiazza (presidente dell’Unione delle Camere penali italiane), Cristina De Maglie (professoressa ordinaria di Diritto penale all’Università di Pavia), Giovanni Melillo (procuratore al Tribunale di Napoli), Carlo Nordio (già procuratore aggiunto a Venezia). Questa sessione sarà conclusa dalla ministra Marta Cartabia. Alla ripresa, il programma prevede un intervento di saluto del governatore del Veneto Luca Zaia, cui farà seguito la relazione di Luca Antonini (giudice della Corte Costituzionale). I lavori proseguiranno con la tavola rotonda sul tema del diritto amministrativo. Sarà introdotta e coordinata da Alessandro Pajno (presidente Emerito del Consiglio di Stato) e vedrà i contributi di Vittorio Domenichelli (già professore ordinario di Diritto amministrativo all’Università di Padova), Andrea Giorgis (deputato, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino), Luigi Guiso (Axa Professor of Household Finance all’Einaudi Institute for Economics and Finance) e Bernardo Giorgio Mattarella (professore ordinario di Diritto amministrativo alla Luiss Guido Carli e figlio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella). Al termine di questo secondo ciclo di interventi è atteso quello di Luciana Lamorgese, da maxischermo. Carceri, negli istituti umbri e toscani si produrrà musica digitale di Antonella Barone gnewsonline.it, 23 ottobre 2021 I detenuti degli istituti penitenziari toscani e umbri potranno apprendere linguaggi e tecniche per la produzione di musica elettroacustica digitale e di arte multimediale. È quanto prevede il protocollo d’intesa tra il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Toscana-Umbria e il Conservatorio Statale di Musica “Luigi Cherubini” firmato stamane a Firenze. Si tratta della prima convenzione sul territorio nazionale tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e un’Istituzione Afam - Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica per lo svolgimento di un’attività destinata a persone detenute. Il programma proposto dal Conservatorio e curato da Alfonso Belfiore, coordinatore del Dipartimento Nuove tecnologie e linguaggi musicali consiste in un’articolata attività culturale con particolare riferimento “ai legami intercorrenti fra musica, tecnologia, psiche, percezione, scienza e le nuove tecnologie informatiche e digitali”. Un percorso da attuare tramite un laboratorio permanente della durata di non meno di 3 ore settimanali di ascolto, studio e produzione musicale. Rilevante anche la valenza inclusiva dell’attività, sottolineata dal Provveditore Pierpaolo D’Andria, che ha ringraziato tutti i soggetti sostenitori della progettualità e ribadito la necessità di “promuovere e favorire la collaborazione tra amministrazione penitenziaria e istituzioni del territorio per garantire interventi ad alto impatto in favore dell’inclusione delle persone detenute”. La ricaduta in termini concreti sugli obiettivi socioculturali del percorso sarà oggetto di un’analisi specifica da parte di Filippo Giordano, professore associato di Economia Aziendale dell’Università Lumsa di Roma ed esperto di valutazione d’impatto di progetti di inclusione sociale. L’iniziativa è frutto della collaborazione di diverse realtà pistoiesi. Promossa dall’associazione Artmonia, che ha messo a disposizione l’utilizzo della strumentazione multimediale e tecnologica, è stata sostenuta da Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia, Società della Salute e Far.com-Farmacie comunali. “Non posso non esprimere la mia personale soddisfazione per un’iniziativa che, per la prima volta in Italia, unisce istituzioni dello Stato e del patrimonio culturale italiano come il carcere e il Conservatorio Cherubini di Firenze - ha commentato Il Capo Dipartimento Bernardo Petralia - La musica attraverso lo strumento digitale e nel suo aspetto più moderno può rivestire grande interesse soprattutto fra la popolazione reclusa più giovane e riuscire in tal modo a essere una leva ancora più efficace per la riabilitazione della persona detenuta all’interno della società”. “Ariaferma”: una bella favola nel deserto dei Tartari carcerario di Cristina Battocletti Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2021 Il carcere di Mortana, dove è ambientato Ariaferma, non esiste, ma Leonardo Di Costanzo apre il suo bel lungometraggio su un tappeto di canti e su una teoria di rocce-sculture che ci rivelano un coté sardo. La prigione in fondo è sempre comunque un’isola e come tale ha dinamiche che paradossalmente esondano la legge, inquadrando una peculiare comunità, con regole autonome e invalicabili, cui non sfuggono carcerati e carcerieri. Mortana è una vecchia prigione ottocentesca che sta per serrare i battenti, ma quando tutto è pronto al trasferimento collettivo una dozzina di detenuti, per un cavillo burocratico, non riesce a trovare accoglienza in altri istituti di pena ed è costretta a restare nella vecchia struttura, che si trasforma in un Deserto dei Tartari buzzatiano. Viene da subito in luce un primo forte tema sociale, quello del sovraffollamento delle carceri (il film è ispirato dall’ex Guardasigilli Paola Severino), che Di Costanzo inquadra, ma da cui non si lascia imbrigliare, tenendolo sottofondo, perché è interessato soprattutto al magma umano che nasce e cresce negli spazi bianchi di vicende sociali complesse. È?un’espediente, quello di affrontare lateralmente un’istanza civile, che il regista campano ha già usato in due film precedenti, entrambi prodotti da Tempesta con Rai Cinema: L’intervallo (2012), in cui due adolescenti, chiusi in un edificio abbandonato, sfiorano per un attimo l’idea di deviare le loro vite già segnate dalla camorra; e ne L’intrusa (2013), dove la moglie di un boss mafioso trova riparo in un centro che protegge l’infanzia dall’ambiente malavitoso che lo circonda. In Ariaferma il senso di precarietà di un’esistenza già in bilico, come può essere quella di un detenuto, aumenta nell’incertezza della nuova destinazione e dei tempi di trasferimento, nell’impossibilità di avere colloqui con i propri cari e di avere un vitto decente. Così lo sciopero della fame diventa l’arma di pressione dei detenuti sugli agenti, di cui fiutano la paura e lo smarrimento, poiché anch’essi sono ignari del proprio futuro. Comincia una sfida tra Carmine Lagioia (Silvio Orlando), che guida il manipolo dei ribelli e il responsabile ad interim del carcere, o di ciò che ne resta, Gaetano Gargiulo (Toni Servillo). Ciascun fronte ha divisioni, smottamenti e defezioni, ma ogni membro risponde alla fine compatto alla propria falange di appartenenza, fino a che non interviene un espediente che ha a che fare proprio con il cibo, metro della dignità umana. Di Costanzo anche in Ariaferma sembra mantenere un leitmotiv, presente nella sua filmografia: il contesto ci rende quello che siamo, e il nemico in fondo non è così diverso da noi. Ma rispetto alle precedenti pellicole del regista campano Ariaferma ha uno strano sapore di favola, anche senza mai perdere realismo. Di Costanzo ha scritto questo film con Vania Santella e Bruno Oliviero, già coautore de L’intrusa e che nel 2018 aveva girato Cattività, un intenso documentario sul tema carcere e teatro, tra le cui vette c’è Cesare deve morire dei fratelli Taviani (e non a caso nel cast c’è uno degli attori del film che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel nel 2012, un magnifico Salvatore Striano, nel ruolo di Cacace). Ad aiutare la magia del film ci sono Servillo e Orlando, che per una volta si scambiano i ruoli in cui sono soliti navigare: il furbo, maledetto e cinico per Servillo e il loser malinconico, riflessivo e sentimentale nel caso di Orlando. Senza contare la presenza di Fabrizio Ferracane, nei panni del grillo parlante di Servillo, e la bella fotografia di Luca Bigazzi. Questo eterno presente non ci fa pensare al futuro di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 23 ottobre 2021 Costretti nel “corto raggio”, avremmo invece bisogno di ragionare sull’ampiezza dei problemi imposti da un profondo passaggio di tutta l’economia ad un mondo “post-globale”. Colpisce, e negativamente, la povertà del dibattito sulle prospettive di lunga durata dell’economia italiana e sulla sua collocazione nella dinamica dell’economia mondiale, su cui i vari soggetti stanno modificando le loro strategie di fondo. Stiamo uscendo, noi italiani, da una pandemia che ci ha costretti ad una “casalinghità” degli interessi e delle intenzioni di tutti. E la cosa ci poteva stare. Ma oggi, nel dopo pandemia, il dibattito d’opinione non può attestarsi sul primato della cronaca e delle relative emozioni, come si avverte leggendo la maggior parte dei titoli dei quotidiani, anche in prima pagina. Abbiamo invece bisogno di ragionare e di avere idee e decisioni che interpretino l’ampiezza dei problemi imposti da un profondo passaggio di fase o di ciclo di tutta l’economia mondiale: il passaggio ad un mondo “post-globale”. È da una parte evidente il primato assoluto della globalizzazione e delle sue strategie di lungo raggio, rese opportune o obbligate da quella dilatazione universale delle innovazioni (tecnologiche, industriali, logistiche, finanziarie) che i vari soggetti economici hanno cercato di cavalcare e non di subire. E di converso sta tornando importante l’economia di corto raggio, con attenzione a problemi interni ai diversi sistemi economici. Si pensi solo al rilievo che vanno assumendo ovunque le tematiche della sostenibilità, della riconversione ecologica, della qualità dei servizi di vita collettiva, del fisco come strumento di lotta alle diseguaglianze sociali, fino alla esaltazione della economia circolare. Stravince il corto raggio. E non solo su scala internazionale, ma anche in casa nostra, se si pensa alla dinamica cauta dei consumi e dei risparmi, al crescente ruolo economico dello Stato e dei relativi meccanismi consensuali, alla perdurante opzione del sovranismo economico, una opzione verosimilmente destinata a restare. Questa molteplice rivincita del corto raggio la si ritrova puntualmente nei grandi impegni a livello internazionale, dalla presenza del termine “resilienza” in ogni ambizione programmatica dell’Europa di oggi al “build back better” di un Biden interprete del sentire collettivo degli americani, evidentemente scottati dall’essere stati presenti e potenti nelle più disparate contingenze mondiali. Ma vivere nel corto raggio potrebbe rivelarsi un passaggio duro specialmente per noi italiani, che per decenni abbiamo costruito la nostra presenza e potenza internazionale sulla strategia delle filiere lunghe (quella del made in Italy, quella enogastronomica, quella del primato nella produzione dei macchinari, quella del turismo). Oggi quelle filiere diventano crescentemente più fragili, perché ogni loro segmento può improvvisamente entrare in crisi (nella gestione finanziaria come nella catena logistica) e ci troviamo quasi nella necessità di trovare altre idee e altre strategie più funzionali all’operare in un sistema economico a corto raggio. Dovremo fidarci come sempre di quella capacità di adattamento continuato che contraddistingue la sfida a sopravvivere dei nostri imprenditori, vecchi o giovani che siano. Temo che non li aiuterà il quotidiano dibattito d’opinione, paradossalmente prigioniero del cortissimo raggio della cronaca e dei suoi abituali territori; e così estraneo ai problemi qui richiamati da delegare implicitamente verso l’alto il pensarci su e il decidere per il meglio. Magari riservandosi di addebitare vocazioni “dittatoriali” per quei pochi che professionalmente si danno carico di pensare e per quei pochissimi che, per servizio alla collettività, si danno carico di decidere. Il volontariato di competenza si fa strada anche in Italia di Sibilla Di Palma La Repubblica, 23 ottobre 2021 Tra le realtà attive c’è UniGens, associazione di dipendenti ed ex dipendenti di UniCredit che offre attività di mentoring e di formazione a microimprese e a imprese sociali meritevoli. Impiegare le conoscenze maturate con la propria professione a supporto della comunità locale o di organizzazioni non profit. È l’obiettivo del volontariato di competenza, una formula che ha cominciato a diffondersi negli Stati Uniti negli anni Novanta, per poi approdare più di recente anche in Europa. In Italia tra le realtà attive in questo ambito c’è UniCredit, che ha sostenuto la costituzione di UniGens. Ovvero un’associazione di dipendenti ed ex dipendenti della banca che completa il modello di servizio di UniCredit Social Impact Banking, offrendo attività di mentoring e di formazione a individui a rischio di esclusione, a microimprese e a imprese sociali meritevoli. L’associazione è in particolare impegnata con iniziative a favore dei più giovani. Ad esempio, con Startup Your Life, programma di formazione che intende favorire lo sviluppo di una cultura finanziaria e imprenditoriale tra gli studenti delle scuole superiori. L’associazione è anche attiva con iniziative orientate allo sviluppo del microcredito offerto da UniCredit. In questo ambito, i volontari di UniGens supportano i soggetti beneficiari in qualità di tutor o con un accompagnamento mirato su tematiche di gestione d’impresa fino a 18 mesi dal finanziamento. Tra i micro-imprenditori che hanno ricevuto il sostegno dell’associazione c’è Jessica Labrini che a novembre 2019 ha avviato a Ivrea, in Piemonte, la profumeria artistica “Apeiron”, specializzata nella realizzazione di profumi su misura. Il negozio, nato grazie al microcredito UniCredit, è stato però chiuso a pochi mesi dall’avvio a causa delle difficoltà generate dalla pandemia. Il supporto gratuito di un volontario di UniGens ha permesso a Jessica di far ripartire l’attività, contenendo il mancato incasso dovuto al lockdown. L’associazione di volontari ha inoltre affiancato in fase di avvio Ermanno Spandrio, il proprietario di Mercatopoli Regoledo (Sondrio), negozio specializzato nella vendita dell’usato che ha ottenuto il microcredito UniCredit. Tra le realtà supportate c’è anche la onlus romana Economia Carceraria, fondata da Paolo Strano, che si occupa di offrire percorsi di formazione e opportunità di reinserimento lavorativo agli ex detenuti. Quest’ultima ha creato, con il sostegno del microcredito UniCredit, un birrificio e un pub che vendono esclusivamente prodotti realizzati nelle carceri. Un progetto che è stato reso possibile anche grazie al sostegno dei volontari UniGens che hanno affiancato la onlus in fase di realizzazione del business plan. UniCredit con il programma Social Impact Banking ha poi stretto una partnership con Cna Impresa Donna nell’ambito della quale da febbraio a giugno 2021 è stato avviato un percorso di educazione all’imprenditorialità, in collaborazione con UniGens, articolato in nove incontri e che ha visto la partecipazione di oltre mille associate. Infine, con varie associazioni dei consumatori, con il sistema Its (Istituti tecnici superiori) e altri aggregatori sociali sono stati realizzati nel 2019 più di 90 interventi formativi e raggiunti più di 3 mila beneficiari. Draghi: “No a muri finanziati dall’Ue. La Polonia? Le regole sono chiare” di Davide Varì Il Dubbio, 23 ottobre 2021 Il premier al termine del Consiglio europeo di Bruxelles: contrari a finanziare ogni muro per i migranti. Merkel: lascio con un motivo di preoccupazione per lo Stato di diritto. “La commissione è contraria a finanziare ogni costruzione di muro”. Parola di Mario Draghi, che intervenendo in conferenza stampa al termine del Consiglio europeo di Bruxelles si è detto “molto soddisfatto su come si è conclusa la discussione” sui migranti. “Il testo originario parlava solo dei movimenti secondari senza equilibrio tra responsabilità e solidarietà. Il testo attuale ha introdotto questo concetto”, ha spiegato il premier. Sul caso della Polonia, “non ci sono alternative, le regole sono chiare. È stato messo in discussione un Trattato, non una legge ordinaria, la base dell’Ue”, ha chiarito Draghi. Per il quale “la Commissione non può fare altro che andare avanti ma bisogna mantenere un dialogo con la Polonia, una strada politica aperta. È molto importante il linguaggio, il rispetto delle posizioni da entrambi gli interlocutori”, anche quelle “diverse” dalle proprie. Dello stesso avviso la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che sul caso Varsavia ha proposto “una combinazione tra dialogo, risposta legale e azioni concrete per ripristinare l’indipendenza della magistratura”. “Sul meccanismo di condizionalità dobbiamo, e lo stiamo facendo, sviluppare i principi guida e in parallelo la Corte di giustizia dovrà pronunciarsi su una richiesta di Polonia e Ungheria che chiedono se questo meccanismo sia giuridicamente solido. Noi leggeremo la sentenza e la includeremo negli orientamenti che stiamo preparando. Non abbiamo perso alcuna causa da gennaio perché stiamo raccogliendo tutte le dovute informazioni. Non ci saranno misure prima della sentenza ma possiamo sempre mandare delle lettere con cui chiediamo informazioni”. “È importante aver avuto questa discussione perché lo stato di diritto è al centro della nostra Unione europea, questo principio garantisce fiducia reciproca, certezza del diritto e l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Un pilastro fondamentale è l’indipendenza della magistratura, questo è stato al centro della discussione sulla Polonia, abbiamo molta strada da fare. Chiediamo alla Polonia di applicare la sentenza della Corte per reintegrare i giudici dismessi”, ha concluso Von der Leyen. Presente a quella che probabilmente sarà la sua ultima conferenza stampa post Consiglio Ue, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel. Che non ha nascosto di lasciare il timore “in un momento in cui c’è motivo di preoccupazione” nell’Unione europea, che è alle prese con molteplici problemi. “Abbiamo superato molte crisi ma abbiamo una serie di problemi irrisolti”, ha detto citando le controversie sulla questione migranti, l’economia e lo stato di diritto nei paesi dell’Ue, con riferimento al caso Polonia. “Vi è la questione dell’autonomia della magistratura ma anche la questione di dove l’Ue sta andando, di quale deve essere la competenza europea e quali siano le materie che invece devono essere affrontare dai singoli Paesi”, ha spiegato Merkel. “Se si guarda alla storia della Polonia - ha poi osservato - si capisce benissimo che la questione della definizione dell’identità nazionale svolge in ruolo importante e che è una situazione storica diversa rispetto a quella dei Paesi che hanno avuto la democrazia dopo la Seconda guerra mondiale”. Migranti. Nel campo dei braccianti, dove tre pezzi di lamiera sono casa di Giacomo Di Girolamo Il Domani, 23 ottobre 2021 Vengono da Livorno, arrivano dalle Marche, scendono dalla provincia di Torino, dal Lazio, da Udine come dal Veneto. C’è un’Italia che ogni anno si ritrova in un luogo indefinito, non segnato da alcuna cartina geografica, tra i territori dei comuni di Campobello di Mazara e Castelvetrano, nella Sicilia sud occidentale. È l’Italia dei lavoratori stagionali, che percorrono, in una sorta di perenne transumanza, la dorsale del paese, seguendo il calendario antico del raccolto: prima il pomodoro in Campania, poi la vite e l’olio in Sicilia, poi si andrà in Calabria per le arance e poi si tornerà al nord per l’inverno. Hanno tutti origini lontane, Mali, Gambia, Nigeria, Sudan, ma è un errore pensarli stranieri. Molti di loro sono in Italia anche da dieci, vent’anni, hanno famiglia e vanno dove c’è lavoro. Non vogliono essere fotografati, né ripresi, perché ai figli non dicono tutto: papà è fuori per lavoro, ma quale sia lavoro, in che condizioni disumane sia svolto, ecco, questo è meglio non saperlo. Perché non c’è dignità in questo luogo che loro chiamano casa e dove in alcune stagioni erano stipati anche in 1.200. Una baraccopoli nella pancia di metallo ed eternit di un cementificio abbandonato. Lì tre lamiere, un telo di plastica e qualche asse di legno, sono il concetto di casa, dentro ci dormono in tre, quattro. Non hanno acqua, non hanno luce. Raccolgono l’oliva del Belice, la Nocellara, una delle varietà più pregiate, dalla quale si ottiene un olio che poi si trova nei ristoranti stellati e nella tavole dei vip. L’olivo è elemento essenziale del paesaggio di Castelvetrano, ogni famiglia ha il suo uliveto, fa la sua raccolta, produce il suo olio. Non è un caso se la mafia, che qui cerca da sempre di controllare il mercato, come primo segnale intimidatorio compie il gesto ritenuto più crudele: tagliare gli alberi di olivo. E qualche giorno fa il comparto dell’olivicoltura di Castelvetrano, con 10mila ettari di estensione, e una media di 350mila quintali di olive raccolte l’anno, ha vissuto il suo quarto d’ora di celebrità. La regina degli influencer, Chiara Ferragni, ha postato una foto di un aperitivo in terrazza ringraziando un suo sponsor che le ha fatto scoprire “le olive dolci di Castelvetrano”. Quasi in contemporanea, nella notte agitata della baraccopoli del Cementificio Selinunte, tra il 29 e il 30 Settembre, un giovane lavoratore cercava di capire come mai non funzionasse il motore a gas che alimenta la dinamo che dà luce al campo. Nel buio, utilizzava per farsi luce un accendino. Ha causato un’esplosione e un incendio che in poche ore ha bruciato tutte le baracche. Così è morto Omar, 30 anni, originario della Guinea Bissau. Solo per un caso non è successa una strage: quella notte al campo non erano in tanti, solo trecento, molti lavoratori, infatti, dovevano ancora raggiungere la Sicilia. Hanno ritrovato il giovane la mattina dopo. Il corpo parzialmente carbonizzato, disteso nel suo materasso di fortuna. Nel 2013, un’altra vittima, in un incendio analogo, Ousmane. L’incendio ha bruciato tutto: gli alloggi, gli scooter, le carcasse delle auto, le pecore di Will, che viene da Roma e qui cucina per tutti, la sera, nel suo ristorante dove si mangia una cacio e pepe da applausi. E il “negozio” di Abdou, che vende cuffie e batterie portatili per gli smartphone. Non ha bruciato solo le colline maleodoranti di rifiuti che circondano il campo, quasi a volerlo separare dal resto del mondo. Come nel 2013, dopo la morte di Ousmane (“Mai più ghetti” fu l’impegno preso dalle istituzioni) anche in questo caso è stata la volta delle riunioni in prefettura, dei tavoli tecnici e delle conferenze di servizio, fino alla decisione: trasferire i lavoratori in due aree accanto, due aziende confiscate alla mafia e oggi, come accade troppo spesso per i beni passati in mano dalla criminalità allo stato, abbandonate. Si tratta di un un oleificio, Fontane d’oro, e di e un’ex concessionaria Mocar. Lì la Croce rossa e la Protezione civile offrono tende, docce, bagni, fanno anche da mangiare. E così in pochi giorni, tra la puzza di bruciato e di carogna, hanno cominciato a ricostruire le loro case. Hanno trovato altre lamiere, altri assi di legno, chiodi e martelli. E sono ritornati. “Qui stiamo meglio - raccontano alcuni ragazzi del Senegal - perché è un posto nostro”. Stanno piantando pali, fissando dei cartoni spessi su assi di legno, per mettere su una baracca un po’ più larga. “È il luogo dove ci ritroviamo la sera - aggiungono - e guardiamo la tv”. I migranti della baraccopoli hanno fatto prima della burocrazia: in pochi giorni il loro villaggio sgangherato era di nuovo in piedi, il primo carico di moduli abitativi inviati dal governo è arrivato molto dopo. In campo anche i volontari. C’è Alessia Maso dell’associazione Re-agire, c’è suor Luisa Bonfante, che viene da uno dei quartieri più difficili di Castelvetrano, il Belvedere, “eppure dopo l’incendio, in molti hanno donato indumenti, scarpe e coperte”, dice. “Coperte che non servono per i letti, ma per le pareti, per assorbire l’umidità fredda della notte”. C’è anche Leo Narciso di Libera, che qui viene tutto l’anno “perché quando gli altri partono, c’è comunque un nucleo di persone che resta, saranno una sessantina, e lavorano nei campi”. Ci sono altre sigle, e, come sempre accade, gelosie striscianti e veti incrociati. Con l’incendio sono bruciati non solo le case, e la poca roba di ognuno, ma anche i documenti. Come si fa a lavorare regolarmente, senza? Ti rispondono che poco cambia, perché loro vivono di contratti fittizi, perché con le leggi cambia anche il caporalato, si aggiorna. E funziona che solitamente il lunedì vengono assunti, il venerdì vengono pagati, ma vengono dichiarati molti meno giorni degli effettivi. “Lavori cinque giorni e il padrone ne dichiara uno”, così da un lato evita i controlli, perché può dimostrare un contratto, e dall’altro lato risparmia in contributi e seccature. Ma per i migranti è un guaio. A perderci sono sempre loro. Con contratti così poveri non possono dimostrare di essere autosufficienti, e quindi niente permesso di soggiorno. Diventano tutti clandestini. Questo ti raccontano mentre chiedono di avere più acqua. La portano il venerdì dal comune di Castelvetrano, che la versa in alcune cisterne di plastica (anche quelle bruciate nell’incendio) donate da alcune associazioni. Il lunedì è già finita. Qualcun altro, invece, è andato in giro a cercare un altro generatore di corrente alimentato a benzina. Lo ha trovato. Lui e i suoi amici esultano. D’altronde sono italiani, conoscono bene l’arte di arrangiarsi. Unione europea. La controriforma dei governi sui diritti, i migranti e il clima di Francesca De Benedetti Il Domani, 23 ottobre 2021 Doveva essere il Consiglio dove non si decideva nulla di dirimente. Con l’addio di Merkel e la Francia verso il voto, i baricentri stanno per cambiare. Doveva anche essere il vertice in cui Polexit veniva lasciata fuori dall’agenda, e in effetti non figura nelle conclusioni; formalmente si esce dal vertice così come ci si è entrati. Ma sulla Polonia qualcosa si può concluderlo. Il passo del governo polacco per eliminare la camera disciplinare, che sanziona i giudici infedeli alla linea, è il primo segno del compromesso. La Commissione dal canto suo continuerà ad aspettare, invece di attivare subito il meccanismo che condiziona fondi a stato di diritto. Il canale di dialogo è aperto. Inoltre questo vertice qualcosa ha sancito: che i migranti sono un problema e la salvaguardia del clima è questione di punti di vista. “Rispetto al passato c’è una convergenza sempre più grande, obiettivi comuni”. La chiosa del presidente del Consiglio europeo è rivelatrice: la convergenza di cui parla è quella per una Europa che fa da barriera verso i migranti. Il vertice parte dal controllo delle frontiere esterne, e in particolare dalle tensioni al confine con la Bielorussia. Per affrontare quella che i governi definiscono “minaccia ibrida” da parte di Aleksandr Lukashenko, la Polonia ha già dichiarato uno stato di emergenza tale per cui i media non possono sorvegliare cosa accade alla frontiera. Ha inoltre trasformato in norma i respingimenti illegali, negato la possibilità di chiedere protezione internazionale, costruito un muro; e si prepara a costruire una nuova barriera ipertecnologica. Mentre i leader si riunivano, l’ennesimo migrante è stato trovato morto al confine. Eppure, i leader si sono mostrati comprensivi verso l’approccio di Varsavia: il dibattito si è articolato piuttosto su chi debba farsi carico dei costi di quel muro. La presidente della Commissione Ue dice che “abbiamo messo a disposizione Frontex, si può prevedere un finanziamento per sostenere gli sforzi ed è già previsto che la gestione delle frontiere sia a carico del bilancio europeo”. Anche se poi, di fronte alla domanda schietta se fili spinati e muri saranno pagati coi soldi Ue, von der Leyen fa presente che “abbiamo un’intesa con l’Europarlamento perché ciò non avvenga”. C’è sintonia invece, in Consiglio, sul fatto che si debbano drenare risorse verso quei paesi che possono accogliere rifugiati e migranti al fine di non farli arrivare in Ue. In prima fila c’è la solita Turchia, e lo sforzo dell’Italia è andato perché stanziamenti più generosi riguardino anche la Libia: “La pressione migratoria che viene dalla Turchia aumenterà per la crisi afghana - dice Mario Draghi - e anche la pressione dal Nord Africa ci è ben nota. Ho detto ai colleghi che un problema che eravamo stati lasciati ad affrontare da soli ormai è comune: non ha senso privilegiare un paese o una rotta”. L’idea di pagare ed esternalizzare così i rifugiati piace, purché riguardi pure la Libia e la rotta che ci riguarda. In più, “noi capi di governo siamo tutti d’accordo su una cosa che l’Italia dice da tempo, e cioè che sui rimpatri dobbiamo agire insieme, per avere più peso negoziale”. Su frontiere dure, rimpatri, soldi per lasciare fuori i rifugiati, c’è sostanziale accordo: è molto più difficile raggiungere consenso sulla solidarietà. La Francia spinge per la riforma di Schengen - o meglio, una controriforma visto che va nella direzione di una circolazione non più tanto libera pure dentro l’Ue - mentre il piano di riforma e asilo annunciato dalla Commissione oltre un anno fa è ancora fermo; il commissario Margaritis Schinas un mese fa a Roma ha detto candidamente che si sbloccherà quando Berlino e Parigi avranno i nuovi governi. Draghi però vanta una consolazione: la discussione in Consiglio era partita con l’intenzione di limitare i movimenti secondari, “nel testo finale siamo riusciti ad accoppiare questo concetto con la necessità di un adeguato equilibro tra solidarietà e responsabilità”, dice. “E per come sono stilate le conclusioni, ci sono le condizioni perché si riapra il discorso sul patto di migrazione e asilo”. Il caro prezzi dell’energia, e la crisi che ne consegue, sono lo strumento perfetto per prendere d’assalto i piani europei a favore del clima. L’esempio più evidente è anche quello meno insidioso: la Polonia, terra storica di miniere e ancora dipendente dai combustibili fossili, utilizza le tensioni sull’energia per minacciare il boicottaggio di Fit for 55, il piano di Bruxelles per ridurre le emissioni. Ma la tattica polacca è appunto una tattica, per acquisire potere negoziale durante la battaglia su Polexit; e soprattutto c’è un fronte compatto - così riporta Draghi - che vuole portare a termine la transizione. “Le divergenze sono sui tempi”. E non solo. Emmanuel Macron, portando altri paesi e la stessa Varsavia dalla sua, usa la crisi per spingere a favore del nucleare. La Commissione Ue deve presentare la cosiddetta “tassonomia”, e se fosse per Parigi il nucleare andrebbe etichettato come green; ad alcuni piacerebbe un trattamento simile per il gas. Il pressing ha i suoi effetti. “Ovvio, serve più energia rinnovabile - dice ora Bruxelles - ma intanto accanto serve una fonte stabile, il nucleare per esempio, e durante la transizione anche il gas naturale”. Ma non è green washing? “Sul nucleare in Consiglio ci sono posizioni molto divisive”, risponde Draghi. “Vedremo che farà la Commissione”. Per addolcire il dibattito, i leader con la Commissione danno il via a uno studio sul funzionamento del mercato e dei prezzi, per correre ai ripari. L’idea, cara a Madrid e Roma, di acquisti comuni sul modello dei contratti per i vaccini, viene considerata. “Siamo stati espliciti sulla necessità di avviare sùbito l’ipotesi dello stoccaggio integrato di riserve strategiche e di un inventario delle riserve nei vari paesi - dice Draghi - perché si arrivi così a un sistema che protegga tutti i paesi europei in egual misura”. Nel frattempo, per proteggere almeno i più vulnerabili, gli aiuti nei vari stati membri dovrebbero alleggerire le bollette. I dettagli spettano martedì ai ministri dell’Ue, poi il tema torna in mano ai leader a fine anno. Bielorussia, il boia d’Europa che non si ferma davanti a niente di Sergio D’Elia Il Riformista, 23 ottobre 2021 Il solo paese ad applicare la pena di morte in Europa. L’Europa sarebbe un continente totalmente libero dalla pena di morte se non fosse per la Bielorussia, Paese che anche dopo la fine dell’Unione Sovietica non ha mai smesso di condannare a morte e giustiziare suoi cittadini. Dal dicembre del 1991, quando l’URSS è stata ufficialmente sciolta e la bandiera rossa con la falce e il martello ammainata dal palazzo del Cremlino, la madre patria Russia ha ammainato anche il vessillo della pena di morte instaurando una moratoria delle esecuzioni. In Bielorussia, alla immediata periferia dell’ex impero, hanno continuato invece a fucilare le persone a ritmi sovietici. Più di 400 detenuti nel braccio della morte sono stati giustiziati, pochissimi sono stati graziati. Sotto il dominio pieno e incontrastato di Alexander Lukashenko, il segreto di stato, altro retaggio della tradizione sovietica, ha coperto con una spessa coltre di silenzio la sorte dei condannati a morte e l’intero sistema penale capitale. Le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni molto tempo dopo il fatto e solo tramite parenti dei condannati o tramite organizzazioni internazionali. Le autorità hanno sempre fornito scarse segnalazioni sulle esecuzioni, ma recentemente la procedura è diventata ancora più segreta. Spesso nemmeno alle famiglie dei condannati è permesso sapere se e quali condannati a morte sono stati giustiziati e quali sono ancora in vita. I parenti non vengono avvisati dell’imminente esecuzione e non possono incontrare per l’ultima volta i loro congiunti. Alcune volte scoprono che il loro caro è stato giustiziato quando si recano alla prigione per la visita, altre volte quando ricevono un pacco contenente le scarpe e l’uniforme carceraria. Il corpo non viene restituito alla famiglia, non è reso noto il luogo della sepoltura. Il segreto avvolge anche la “vita” nella prigione che ospita l’unico braccio della morte del Paese, la prigione n. 1, conosciuta anche come il castello di Pishchalovsky, situato nel cuore di Minsk, la capitale del Paese, dove almeno cinque persone sono in attesa della morte. Il giorno stabilito, attraverso un passaggio sotterraneo, il condannato viene condotto alla stanza del boia che, letto l’atto di rigetto del perdono, lo benda e lo mette in ginocchio. Giustizia è fatta sparando un solo colpo di pistola, alla nuca. Nella stanza, oltre al boia, sono presenti un pubblico ministero e un medico. Le sentenze di morte vengono solitamente eseguite di notte in modo che altri prigionieri non possano identificare i carnefici o inscenare una protesta. Questa è la sorte che non è dato sapere, ma molto probabilmente è capitata quest’anno a due condannati a morte: Viktar Skrundzik e Viktar Paulau. Non è ancora chiaro se Viktar Skrundzik sia stato giustiziato ad agosto o a settembre, come farebbe pensare un ambiguo servizio televisivo andato in onda il 5 settembre scorso su STV, un canale televisivo controllato dal governo. L’autore del servizio ha raccontato la storia di una serie di omicidi di pensionati avvenuti vicino a Sluck nel 2019, per cui Viktar Skrundzik è stato infine condannato a morte nel marzo 2020, quando aveva 29 anni. Il narratore ha fatto capire che il condannato avrebbe potuto essere stato giustiziato. “Oggi ha 30 anni. Avrebbe potuto averli. La prima condanna a morte [eseguita] nel 2021”, ha detto il giornalista. Tuttavia, a oggi, la sorella di Skrundzik, Nadzeya, non ha ancora ricevuto alcuna conferma ufficiale dell’esecuzione. L’ultima lettera di suo fratello l’ha ricevuta il 19 agosto. Nel mese di giugno, si erano perse le tracce di un altro condannato a morte, Viktar Paulau. “Molto probabilmente è stato giustiziato”, aveva detto Raisa, la sorella del prigioniero. Non aveva ricevuto alcuna lettera da Viktar per sei settimane e non le era stato permesso di entrare nella prigione per vedere suo fratello. Inoltre, il personale della prigione di Minsk aveva detto all’avvocato di Paulau che il suo assistito non si trovava più nella struttura. Tutti questi elementi hanno fatto pensare che sia stato giustiziato, anche se l’esecuzione non è stata mai confermata ufficialmente. Dirk Schuebel, capo della delegazione dell’Unione Europea in Bielorussia, ha ricordato i due “desaparecidos” in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, il 10 ottobre scorso. “Lo spazio per arbitri ed errori giudiziari è vasto”, ha detto Schuebel, sottolineando la mancanza assoluta di giustizia e stato di diritto nel Paese. Ragione sufficiente per l’introduzione di una moratoria, in vista dell’abolizione definitiva della pena di morte, eredità dell’impero del male, un altro ferrovecchio della storia dell’umanità. L’imbroglio della Polonia sulla giustizia di Micol Flammini Il Foglio, 23 ottobre 2021 Da Varsavia l’Unione europea continua a sembrare sdentata. Il governo non ha molta paura delle ritorsioni che possono arrivare da Bruxelles per lo scontro sullo stato di diritto, e dopo la sessione del Consiglio europeo di giovedì, quando la cancelliera Angela Merkel è riuscita a frenare la Commissione e anche i capi di stato e di governo più agguerriti che chiedevano azioni immediate contro la Polonia, è ancora più convinto che l’Ue non morderà. Anzi, il premier polacco Mateusz Morawiecki si sente più tranquillo a Bruxelles che a Varsavia. Teme più i suoi alleati di governo che i suoi rivali europei. A Varsavia l’aria è talmente tranquilla che Jaroslaw Kaczynski, leader del principale partito di maggioranza, il PiS, ha anche pronto un imbroglio da presentare all’Europa. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha chiesto lo smantellamento della Camera disciplinare della Corte suprema, l’organo accusato di funzionare come uno strumento di repressione dei giudici in Polonia. La sua riforma e il suo smantellamento erano stati richiesti come condizione per sbloccare i fondi del piano di Recovery della Polonia da 36 miliardi: l’unica arma immediata di cui dispone la Commissione. Kaczynski ha detto che il governo ha pronta una riforma che riguarda la Camera disciplinare, che quindi potrebbe anche portare all’ammorbidimento dello scontro con Bruxelles, ma la riforma prevede anche altri aggiustamenti. Il primo è quello che prevede di limitare le dimensioni e le competenze della Corte suprema e anche ridurre i tribunali amministrativi di diritto comune. Fingendo di acconsentire alle richieste degli europei, il governo è pronto ad aumentare lo scontro. Alla Corte suprema verrebbero revocati i suoi poteri di cassazione e il percorso punta a subordinarla alla Corte costituzionale. Uno dei primi passi del PiS è stato proprio quello di riempire la Corte costituzionale con i suoi fedelissimi, sostituendo prematuramente alcuni giudici in carica. La sentenza che prevede che la Polonia non riconosce il primato del diritto europeo su quello nazionale è stata emessa proprio da questa Corte. Il controllo dei tribunali locali secondo la nuova riforma aumenterebbe e si ridurrebbe il numero dei giudici, che già denunciano il caos della giustizia polacca dovuto soprattutto alla mancanza di personale. Non sono cose che finora sono contate molto in campagna elettorale per gli elettori, e il PiS conta che continui a essere così anche nel 2023. Il partito ha goduto di un grande sostegno finora che veniva soprattutto dalle zone più periferiche in cui in questi anni si è creata una situazione paradossale. La zone rurali della Polonia sono cambiate molto in questi anni, sono state ristrutturate e soprattutto sono aumentate le comunicazioni che le rendono più collegate e accessibili. Tutto questo è stato possibile grazie ai fondi europei. Il paradosso sta nel fatto che gli abitanti di quelle zone sono consapevoli quanto l’Ue abbia influito a migliorare le loro città - su strade ed edifici ristrutturati compare in bella vista la bandiera europea - ma comunque votano il governo più euroscettico della loro storia. Di questo il PiS ne è certo e semmai teme che i suoi voti possano andare ad altri partiti più a destra, ma sempre euroscettici, per questo non temono che la guerra sullo stato di diritto con l’Ue vada avanti e si faccia durissima. La debolezza con cui la Commissione europea ha reagito alle leggi illiberali ungheresi sono un ulteriore incentivo per il governo polacco e Viktor Orbán si è sempre vantato di poter fare tutto quello che voleva e anche questo dà a Kaczynski la libertà di aumentare la tensione, facendo però finta di pensarla, almeno su un punto, come Bruxelles: “L’anarchia che regna oggi nei tribunali deve essere messa sotto controllo e le istituzioni che non hanno dimostrato il loro valore devono essere liquidate. La Camera disciplinare non ha dimostrato il suo valore”. Facendo finta di cedere, la Polonia ha già pronta una nuova battaglia. L’opposizione se ne è accorta, il rischio è che non se ne accorgano a Bruxelles. Lussemburgo, sì alla produzione di cannabis in casa: è il primo Paese in Europa di Natasha Caragnano La Repubblica, 23 ottobre 2021 Sarà possibile coltivare fino a quattro piante ad uso personale. Così il governo vuole ostacolare il mercato illegale di una droga molto diffusa tra i giovani. Resta il divieto di consumo e trasporto in pubblico e il commercio, tranne che per i semi. Il Lussemburgo è il primo Paese europeo a legalizzare la produzione e il consumo di marijuana per contrastare il mercato illegale. Sarà concesso, ai maggiori di 18 anni, coltivare fino a quattro piante di cannabis a casa o in giardino per uso personale. I semi saranno acquistabili nei negozi, oppure online, senza alcun limite di quantità o di livello di tetraidrocannabinolo (Thc), il principio psicoattivo. “Abbiamo pensato di dover agire. Abbiamo un problema con le droghe e la cannabis è quella più utilizzata, occupando una grande parte del mercato illegale”, ha detto la ministra della Giustizia Sam Tanson. Per i coltivatori domestici lo spazio per le loro piante sarà limitato al luogo di residenza. Resta il divieto di consumo e trasporto in pubblico e il commercio, tranne che per i semi. Ma anche queste regole si ammorbidiranno perché non sarà più considerato un reato portare con sé una quantità minore a 3 grammi: sarà classificato come illecito. Le multe sarebbero ridotte a soli 25 euro rispetto alle cifre precedenti che andavano dai 251 a 2.500 euro. “Al di sopra della quantità stabilita, però, non cambia nulla”, ha avvisatoTanson. “Niente cambia neanche per gli automobilisti: c’è ancora tolleranza zero”. “L’idea è che un consumatore non si trovi in una situazione illegale consumando cannabis in modo tale da non supportare l’intera catena illegale che va dalla produzione al trasporto fino alla vendita. Vogliamo fare tutto il possibile per allontanarci sempre di più dal mercato illegale”. Secondo l’ultimo report del ministero della Salute, la cannabis è la droga maggiormente utilizzata nel Paese con una percentuale del 32,7%, soprattutto tra i 15 e i 34 anni. E vieterla l’ha resa solo più attraente per i giovani, aveva detto il ministro della Salute Etienne Schneider quando nel 2019 aveva annunciato al quotidiano americano Politico il grande piano di Lussemburgo. L’obiettivo era quello di far approvare la proposta di legge entro due anni, cosa non difficile visto che tutti e tre i partiti che formano la coalizione di governo erano favoreveli alla legalizzazione. E infatti due anni dopo il piccolo Paese da 530mila abitanti ha compiuto il primo passo verso un progetto più grande. Il governo ha infatti previsto la formazione di un sistema di produzione e distribuzione regolamentato dallo Stato per garantire la qualità del prodotto. I ricavi delle vendite verranno investiti “principalmente nella prevenzione, nell’istruzione e nell’assistenza sanitaria nel vasto campo delle dipendenze”, affermano fonti del governo riportate dal quotidiano inglese Guardian. Negli Stati Uniti, lo stesso giorno, lo Stato di New York ha invece annunciato il via libera alla coltivazione della marijuana medica in casa. Secondo la misura si potranno coltivare fino a sei piante acquistate solo presso un dispensario autorizzato e dopo l’approvazione da parte di un medico. La marijuana medica è stata legalizzata a New York nel 2014 ma è stato difficile reperirla, almeno finora. La marijuana a scopo ricreativo è invece legale dallo scorso marzo con il “Marijuana Regulation and Taxation Act” che depenalizza il possesso di cannabis fino a 85 grammi e la coltivazione di massimo 12 piante per scopi medici. Ma a fare da apripista alla legalizzazione della marijuana è stato l’Uruguay nel 2013, seguito dal Canada nel 2018. Questi, insieme a Lussemburgo e 11 Stati degli Stati Uniti, sono gli unici a violare una convenzione delle Nazioni Unite sul controllo degli stupefacenti, che impegna i firmatari a limitare “esclusivamente per scopi medici e scientifici la produzione, la fabbricazione, l’esportazione, la distribuzione delle importazioni, il commercio, l’occupazione e il possesso di droghe” compresa la cannabis. Mentre nei Paesi Bassi, il Paese europeo con cui viene subito in mente il confronto, il possesso e il commercio sono tecnicamente illegali. Ha una “politica di tolleranza” in base alla quale l’uso ricreativo è ampiamente accettato entro alcuni limiti. La speranza del governo di Lussemburgo è che altri Paesi europei si uniscano nella lotta contro il mercato illegale della marijuana e seguano il suo esempio visto che “a oggi tutte le politiche sulle droghe non hanno avuto alcun effetto”, aveva detto Schneider a Politico. In Italia, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge che proroga la data di scadenza per la presentazione delle firme sul referendum per la legalizzazione della cannabis dal 30 settembre al 31 ottobre. Libia. Tripoli autorizza la ripresa dei voli umanitari. L’Unhcr: non basta di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 ottobre 2021 Sviluppo positivo ma insufficiente: vale per pochi rifugiati. A Tripoli continua la protesta. Presidio di solidarietà all’ambasciata libica di Roma. Le autorità libiche hanno autorizzato la ripresa dei voli di evacuazione dei migranti. Lo ha comunicato ieri l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), che però avverte: non è sufficiente. “Si tratta di uno sviluppo positivo per alcuni dei rifugiati più vulnerabili che attendono di partire da molti mesi - ha dichiarato Vincent Cochetel, inviato speciale Unhcr per il Mediterraneo centrale e occidentale - Ma bisogna essere realisti: dei voli di reinsediamento o evacuazione potrà beneficiare un numero limitato di persone”. Sono un migliaio i rifugiati e richiedenti asilo che al momento hanno la priorità per gli aerei umanitari. Questi decollano all’interno del Meccanismo di transito di emergenza (Ets, Emergency transit mechanism) a cui possono accedere le persone registrate presso Unhcr in Libia. In genere hanno nazionalità a cui l’asilo politico è riconosciuto quasi sempre. I voli Ets non vanno confusi con i corridoi umanitari organizzati direttamente da alcuni Stati nazionali (tra cui l’Italia). Chi riesce a salire a bordo atterra in Ruanda o Niger, svolge la procedura per l’asilo nei centri di transito e attende il reinsediamento nei paesi che accettano quote di rifugiati (tra questi: Finlandia, Canada, Svezia, Gran Bretagna). Dal 2017 in questo modo sono state evacuate dalla Libia 3.361 persone verso il Niger e 648 verso il Ruanda. Con lo scoppio della pandemia i voli sono stati sospesi. Il 22 giugno scorso le autorità libiche hanno comunicato ufficialmente che sarebbero ripresi. Il 15 luglio un aereo è partito con destinazione Ruanda: a bordo c’erano 133 persone, poco più della metà di quelle previste perché delle altre nel frattempo si erano perse le tracce. Quei rifugiati sono gli unici ad aver beneficiato dell’evacuazione durante tutto il 2021. Un secondo volo avrebbe dovuto portare in Niger 164 migranti il 12 agosto ma è stato annullato da Tripoli. In totale a inizio ottobre i rifugiati registrati nel paese nordafricano presso gli uffici Unhcr erano 41.681. “Speriamo che il prossimo volo possa essere a inizio novembre - dice al manifesto Caroline Gluck, portavoce Unhcr Libia - Il problema è che abbiamo perso i contatti con molte delle persone che dovrebbero partire. Dopo i recenti raid alcune sono state arrestate, altre non hanno più una casa o un telefono”. Il primo ottobre le forze libiche sono entrate nel quartiere di Gargarish, a Tripoli, e hanno rastrellato i rifugiati casa per casa. In 4/5mila sono finiti nei centri di detenzione. Le operazioni hanno provocato almeno un morto, mentre altre sei persone sono state uccise dagli spari dei carcerieri durante la fuga in massa dalla prigione di Al Mabani. Anche in altre zone della città ci sono stati dei raid. Dopo le violenze 3mila di rifugiati hanno cercato riparo davanti al Community Day Centre dell’Unhcr, a Tripoli. Da 22 giorni sono accampati lì: dormono all’aperto, sono esposti al freddo, alla pioggia e alle violenze. Il 12 ottobre Amer Abaker, sudanese di 25 anni, è stato ammazzato tra la folla da uomini libici a volto coperto. I rifugiati lamentano di non ricevere assistenza medica né beni di prima necessità. “Siamo da tre settimane senza cibo”, denunciano. Hanno perso tutto e sopravvivono solo grazie alla solidarietà reciproca e dei cittadini libici che regalano qualcosa da mangiare. Negli ultimi giorni ci sono stati presidi di sostegno alla protesta in diverse città europee e ieri è toccato anche a Roma. Davanti all’ambasciata libica si è data appuntamento la comunità eritrea. “In Libia è in corso una tragedia. Chi arriva in Italia racconta di torture con i cavi elettrici e la plastica bollente. Tutte le donne subiscono violenze. I trafficanti chiedono sempre più soldi - dice Abraham Tesfai durante la manifestazione - Dopo i rastrellamenti la situazione è peggiorata. Bisogna liberare gli arrestati, curare i feriti, aprire i corridoi umanitari ed evacuare tutte le persone in pericolo. Questa situazione è responsabilità dell’Italia e dell’Europa”. Turchia. I due eserciti di Erdogan di Franco Venturini Corriere della Sera, 23 ottobre 2021 Come conseguenza del tentato golpe del 2016, il sultano di Ankara continua a far incarcerare militari e ormai sono decine di migliaia. Un esercito turco, il secondo della NATO dopo quello USA, vive nelle caserme. Un altro, meno potente ma forte pur sempre di ventimila uomini, vive nelle carceri, nelle residenze coatte, nel disonore e nella povertà. Tre giorni addietro i procuratori speciali hanno ordinato l’arresto di 158 tra allievi delle accademie militari, soldati e ufficiali. Per tutti, dal luglio 2016 quando alcuni reparti tentarono un colpo di stato contro Erdogan, l’accusa è la stessa: appartenenza a una “rete” del predicatore Fetullah Gulen, ex amico e collaboratore di Erdogan ma oggi esule negli USA. Non basta. Alcuni processi non sono ancora conclusi e di continuo vengono scoperti nuovi “gruppi eversivi”, militari e civili, per un totale di 150.000 persone. Qualcuno potrebbe pensare che Erdogan sia soltanto uno che non dimentica. Ma proprio in questi giorni si è avuta l’ennesima inquietante prova del fatto che “golpisti” e “oppositori” sono ormai sinonimi. Erdogan ha minacciato di espellere dieci ambasciatori occidentali perché i diplomatici avevano chiesto la liberazione di Osman Kavala, il Navalny turco, editore e noto oppositore, imprigionato da quattro anni senza processo. Trattamento identico, guarda caso, a quello che viene riservato ai presunti amici dei golpisti. Le proteste cominciano a farsi sentire anche in Parlamento, ma Erdogan risponde con nuove iniziative di penetrazione militare ed economica. Dagli USA (che non si sognano di estradare Fetullah Gulen), il Sultano di Ankara vuole almeno quaranta F-16 per compensare la perdita degli F-35 sancita dall’America dopo che la Turchia aveva acquistato missili russi. E intanto, non contento della sua massiccia presenza in Libia, in Somalia e nel Mediterraneo orientale, Erdogan punta al Sahel e gira l’Africa per vendere i suoi ricercatissimi droni. Ma prima o poi, qualcuno gli farà presente che con simili ambizioni è meglio avere un solo esercito? Afghanistan. La notizia della pallavolista decapitata è falsa di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 23 ottobre 2021 Da giorni in Italia e anche in alcune (poche) testate straniere circola una notizia tanto sensazionale quanto falsa. Un gruppo di Talebani avrebbe decapitato una giovane pallavolista afghana di nome Mahjubin Hakimi, giocatrice della squadra della Municipality di Kabul. Il fatto sarebbe accaduto a inizio ottobre nella capitale del paese, ma la notizia è circolata solo nei giorni scorsi dopo essere stata pubblicata dall’Independent Persian, testata legata al gruppo dell’Independent britannico. Il giornale cita come fonte principale una delle allenatrici squadra di pallavolo, che sotto pseudonimo ha raccontato della decapitazione dell’atleta. Un’esecuzione macabra rimasta in sordina nelle ultime settimane perché i famigliari della vittima erano stati minacciati dai Talebani. Una volta pubblicata, con tanto di foto della giovane sbandierata ovunque, la news è stata ripresa dai più autorevoli giornali indiani prima di arrivare in Europa. In Italia, Ansa e Agi hanno diffuso le loro agenzie stampa, che sono state riprese anche dai quotidiani nazionali, che hanno pubblicato commenti e analisi legata alla notizia. Il quotidiano La Repubblica ha dato la notizia nel giornale del 21 ottobre in prima pagina con il titolo “Orrore afghano giovane pallavolista fatta decapitare” con un richiamo all’interno della sezione mondo del giornale. Il Corriere della Sera cita addirittura come fonte che conferma i fatti l’ex ct della nazionale italiana di volley Mauro Berruto, oggi responsabile sport del Partito democratico. Normale amministrazione, se non fosse che più fonti locali smontano la notizia orginariamente data dall’Independent Persia, derubricandola a fake news. Tra questi c’è Miraqa Popal, ex direttore di Tolonews, una delle testate afghane più autorevoli che il 17 agosto, due giorni dopo la presa di Kabul, continuava a far condurre il telegiornale alle sue giornaliste donne.