Case lavoro, il 41 bis è una doppia pena. Non per la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2021 La Consulta respinge le censure sollevate dalla Cassazione. Non è incostituzionale che un internato, ovvero colui che ha finito di scontare la pena ma è raggiunto da una misura di sicurezza, vada in 41 bis. Sì, ma a una condizione: il trattamento differenziale previsto dal carcere duro deve adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa. In sostanza è questa l’interpretazione posta a base della sentenza n. 197 depositata ieri (redattore Nicolò Zanon) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate (“nei sensi di cui in motivazione”) le censure sollevate dalla Corte di cassazione sul 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La Corte ha quindi rigettato tutte le censure, a condizione che del 41 bis, in quanto riferito agli internati, sia data una lettura costituzionalmente conforme. Si legge nella sentenza che, in conformità agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dev’essere prescelta un’interpretazione dell’articolo 41 bis che consenta l’applicazione agli internati delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale si riferisce: “Trattandosi di un internato assegnato a una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’articolo 41 bis ordinamento penitenziario devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni (quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività compatibili con gli spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione della limitazione della permanenza all’aperto disposta dalla lettera f) del comma 2-quater del citato articolo 41 bis”. Gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso a semilibertà e licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Il Dubbio ha dato notizia della Cassazione quando ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in merito all’applicazione del 41 bis agli internati. La prima sezione della Corte suprema, l’anno scorso, ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati Valerio Vianello Accorretti del Foro di Roma e Piera Farina del Foro de L’Aquila. Lo hanno fatto nell’interesse di un internato presso il carcere di Tolmezzo (dove c’è la casa lavoro) che, finito di scontare la pena al 41 bis nel 2016, è stato raggiunto da una misura di sicurezza e, di fatto, ha continuato a rimanere recluso sempre con l’applicazione del carcere duro. Ciò vanifica qualsiasi obiettivo che si dovrebbe raggiungere con la casa di lavoro. Misura di sicurezza, questa, che prevede lo svolgimento di attività lavorative, ma - come hanno scritto i legali nel ricorso - “essendo in 41 bis non possono trovare alcuno spazio, in quanto il detenuto - come previsto con precisione dall’ordinamento penitenziario - è costretto a restare chiuso nella camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno”. Nel ricorso accolto dalla Cassazione, i legali Vianello e Farina sottolineano che un internato al 41 bis è penalizzato rispetto ad altri perché gli sono precluse alcune specifiche licenze contemplate dall’articolo 53 dell’ordinamento penitenziario, perché parte del percorso trattamentale per gli internati, volte a consentire - recita la sentenza della Cassazione del 1986 - “sia pur sporadiche occasioni di primo contatto con l’ambiente esterno”. Ogni qual volta che sono state richieste, l’Ufficio di Sorveglianza le ha rigettate in virtù del 41 bis. Secondo la Cassazione, l’articolo consente l’applicazione del medesimo regime sia ai condannati a pena detentiva sia agli internati. Ciò comporta una doppia pena, violando vari principi costituzionali, da quello di ragionevolezza a quello di proporzionalità e colpevolezza. Per la Consulta, però, l’applicazione del 41 bis è legittima. Gli internati restano esclusi dall’accesso alla semilibertà e alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Sulla carta è già così. Nella pratica, come si evince dal ricorso dell’internato a Tolmezzo, ciò non avviene. L’ergastolo bianco degli internati, prigionieri a tempo indeterminato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2021 Sono detenuti che hanno finito di scontare la pena, ma rimangono in carcere perché considerati ancora socialmente pericolosi. Parliamo degli internati. Sulla carta vengono raggiunti da una misura di sicurezza presso una “casa lavoro”. Ma è sempre in carcere: le case lavoro hanno celle, sbarre, agenti e addirittura gli internati non godono dei benefici penitenziari dei detenuti stessi. Gli internati - definizione che richiama il vecchio linguaggio manicomiale - vivono in carcere a tempo quasi indeterminato, nonostante non abbiano una pena inflitta. Il rischio è di scontare, di fatto, una lunghissima pena nonostante abbiano già fatto i conti con la giustizia. Gli internati, infatti, chiamano la loro condizione “ergastolo bianco”, perché la misura di sicurezza può essere prorogata diverse volte. Il motivo? Subentra un meccanismo nel quale, non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. A quel punto non possono che scattare le proroghe dell’internamento. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. A far fronte a questo problema, ai sensi dell’art. 1 comma 1ter del D. L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che “le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. Questi internamenti sono misure che risalgono al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi le definiscono “reperti di archeologia giuridica”. Reperti che hanno anche una definizione ben precisa: “il doppio binario”. Parliamo di un doppio sistema sanzionatorio caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: le pene, ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest’ultimo, e le misure di sicurezza, imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell’autore del reato e di durata indeterminata. Il doppio binario si risolve, con riferimento ai soggetti imputabili e al contempo socialmente pericolosi, nell’applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza: è questo il profilo più problematico dell’istituto, che può tradursi in una duplice privazione della libertà personale dell’individuo, ben oltre il limite segnato dalla colpevolezza per il fatto. Non a caso, la Corte europea sentenziò che non si può giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva solo in ragione della funzione preventiva dalla stessa svolta, se poi di fatto la sua esecuzione non si differenzia da quella di una pena. Internati nelle case-lavoro: sì al 41 bis ma va garantita la possibilità di lavorare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2021 Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 197 depositata oggi dichiarando non fondate le censure della Cassazione. Le speciali restrizioni previste dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario sono applicabili anche agli internati, cioè alle persone considerate socialmente pericolose e, in quanto tali, soggette, dopo l’espiazione della pena in carcere, alla misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro. Tuttavia, proprio in considerazione della specifica natura di quest’ultima misura, e alla luce dei principi costituzionali di ragionevolezza e di finalità rieducativa, il trattamento differenziale previsto dall’articolo 41 bis deve adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa. È questa l’interpretazione posta a base della sentenza n. 197 depositata oggi (redattore Nicolò Zanon) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate (“nei sensi di cui in motivazione”) le censure sollevate dalla Corte di cassazione sull’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Secondo la Cassazione, l’articolo in questione consentirebbe l’applicazione del medesimo, rigido regime differenziale sia ai condannati a pena detentiva sia agli internati per l’esecuzione di una misura di sicurezza. La sottoposizione a un identico regime esecutivo comporterebbe però una duplicazione della pena, violando vari principi costituzionali, da quello di ragionevolezza a quello di proporzionalità e colpevolezza, e minando altresì la finalità rieducativa che anche la misura di sicurezza persegue, accanto alla sua funzione di contenimento della pericolosità dell’internato. La Corte costituzionale ha rigettato tutte le censure, a condizione che all’articolo 41 bis, in quanto riferito agli internati, sia data una lettura costituzionalmente conforme. Si legge nella sentenza che, in conformità agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dev’essere prescelta un’interpretazione dell’articolo 41 bis che consenta l’applicazione agli internati delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale di volta in volta si riferisce: “trattandosi di un internato assegnato ad una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’articolo 41 bis ordinamento penitenziario devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni (quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività professionali compatibili con gli effettivi spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione a costoro della limitazione della permanenza all’aperto disposta dalla lettera f) del comma 2-quater del citato articolo 41 bis”. In definitiva, secondo l’interpretazione affermata dalla sentenza, gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso alla semilibertà e alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Carceri e Referendum. Diritti negati di Leda Colamartino* e Andrea Piani** partitoradicale.it, 22 ottobre 2021 Tutti i cittadini italiani hanno la possibilità di firmare per indire un referendum abrogativo su una legge che ritengono sbagliata. Chi vuole firmare per il referendum sulla Giustizia giusta può farlo ai tavoli organizzati nelle strade e nelle piazze, nei comuni oppure online. Questo non vale per i cittadini italiani detenuti, anche per quelli che non sono stati interdetti dai pubblici uffici: nelle carceri non vengono predisposti dei moduli per poter firmare come avviene nei comuni e non c’è la possibilità per i reclusi di firmare online. Il Partito Radicale, che ha da sempre difeso il diritto di voto dei detenuti, si è impegnato nella raccolta firme anche in varie carceri, fra queste quella di Poggioreale e di Secondigliano. Una delegazione del Partito organizzata dal Tesoriere Irene Testa e composta da Chiara Bellusci, Giacomo Melilla, Leda Colamartino, Francesca Pollio Salimbeni, Angela Furlan, Chiara Zane e Andrea Piani nei giorni 9,10 e 16 ottobre è entrata nei due penitenziari napoletani per dare la possibilità ai detenuti con diritto di voto di poter firmare per il referendum sulla Giustizia giusta. Le persone detenute hanno dimostrato un elevato interesse per i temi referendari e le firme raccolte sono state alcune centinaia. Questo risultato non stupisce date le storture del sistema giudiziario, basti pensare che in Italia circa 20.000 sono recluse in carcere in attesa di giudizio: si tratta di persone a tutti gli effetti innocenti, dato che un cittadino può essere ritenuto colpevole solo con una sentenza passata in giudicato. Durante questa iniziativa, la delegazione ha colto l’occasione anche per avere un confronto costruttivo con le autorità carcerarie che si sono dimostrate particolarmente disponibili nei confronti dei militanti radicali presenti. È da sottolineare che il Partito Radicale si occupa da sempre del miglioramento delle condizioni dei detenuti così come del miglioramento delle condizioni di lavoro delle forze dell’ordine, due aspetti strettamente connessi. Dal colloquio con le autorità sono emersi alcuni dei problemi principali che affliggono il sistema carcerario italiano: il sovraffollamento, la cronica carenza di personale, la scarsa valenza rieducativa della detenzione. *Membro di Tesoreria del Partito Radicale **Consigliere Generale del Partito Radicale Nelle carceri italiane le patologie delle detenute crescono più di quelle degli uomini Corriere Nazionale, 22 ottobre 2021 Lo rivela uno studio di Rose, un network genere-specifico di Simspe. “Donne al centro dell’attenzione nella Sanità Penitenziaria. Al 31 gennaio 2021 costituivano il 4,2% della popolazione carceraria, per un totale di 2.250 unità. Una componente minoritaria, ma in crescita e soprattutto con numeri più elevati degli uomini in termini di patologie”. Così in una nota stampa riportata dalla Dire (www.dire.it) Simspe, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, su quanto emerso da uno studio ancora in corso d’opera, i cui primi risultati sono stati presentati in occasione dell’Agorà Penitenziaria 2021, XXII Congresso Nazionale della Simspe. “Il sistema carcerario - si legge - è estremamente complesso, ogni anno vi transitano oltre 100mila persone; recentemente è stato messo a dura prova dal Covid, che però, nonostante i timori iniziali, non ha provocato danni significativi. Per questo ora occorre riportare l’attenzione sulle altre patologie, in particolare quelle mentali e infettive”. Lo studio è stato realizzato da Rose, un network genere-specifico di Simspe sulla salute delle donne detenute e ha affrontato le infezioni da Hiv e da epatite C nelle donne detenute in diverse carceri italiane. In questa occasione, lo studio ha preso in esame cinque istituti penitenziari di quattro diverse regioni, che rappresentavano il 10% della popolazione femminile detenuta. I dati sono ancora preliminari, ma sono i più significativi mai prodotti a livello di popolazione femminile nelle carceri. “Per quanto riguarda l’epatite C, già i dati del Ministero della Salute evidenziano come le donne incarcerate avessero il doppio delle probabilità rispetto agli uomini e 14 volte rispetto alla popolazione generale di contrarre l’infezione - ha sottolineato la dottoressa Elena Rastrelli, coordinatrice responsabile dello studio e UOC Medicina Protetta-Malattie Infettive, dell’Ospedale Belcolle Viterbo - Le donne rappresentano una popolazione complessa da raggiungere, sparsa su tutto il territorio nazionale e spesso legata a storie di tossicodipendenza e prostituzione. Da novembre 2020, 156 donne detenute sono state iscritte allo studio. Di queste, 89 (il 57%) erano italiane: l’età media era di 41 anni; 28 di loro (il 17,9%) facevano uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Su 134 è stato effettuato uno screening con l’innovativo test salivare per l’Hcv, mentre per le altre è stato fatto per via endovenosa. Abbiamo riscontrato dati eloquenti: la siero prevalenza di Hcv riguardava il 20,5%, una cifra leggermente superiore rispetto alla prevalenza riportata nella letteratura internazionale più recente, nonché di due volte superiore rispetto al 10,4% del genere maschile. Inoltre, le donne avevano un’infezione attiva in oltre il 50% dei casi”. “La maggior parte delle pazienti risultate positive è stata colta di sorpresa: ciò evidenzia la necessità di un intervento mirato sulla popolazione femminile delle carceri, tanto più che oggi per l’epatite C esistono terapie in grado di eradicare definitivamente il virus in poche settimane e senza effetti collaterali- ha aggiunto l’infettivologo Vito Fiore, dirigente medico dell’unità operativa struttura complessa Malattie Infettive e Tropicali di Sassari - Un altro dato interessante riguarda i pazienti coinfetti. Su 84 detenuti maschi trattati con il progetto di microeradicazione dell’Hcv, solo 3 erano positivi anche all’Hiv. Tra le donne trattate nell’ambito di questo progetto, invece, quelle positive anche al virus che causa l’Aids erano ben il 25%. Inoltre, se tra gli uomini non vi erano casi di epatite B, tra le donne ben cinque, quindi il 21%, erano portatrici anche di questo virus. Possiamo dedurre che in carcere le donne sono più esposte degli uomini alle coinfezioni”. “Il numero limitato di donne detenute dovrebbe incentivare una maggiore attenzione, ulteriori servizi, una gestione sanitaria proattiva - ha evidenziato Sergio Babudieri, direttore scientifico di Simspe - In alcune carceri le donne sono poche decine di persone: in queste situazioni è possibile migliorare la sanità penitenziaria. Non possiamo attendere che sia la detenuta a chiedere aiuto o ancor peggio commetta un gesto autolesionista; bisogna capire i bisogni dei singoli”. Un altro filone particolarmente significativo nella sanità penitenziaria, si legge ancora nel comunicato, è quello delle patologie psichiatriche, che rappresenta problema grave e talvolta sottovalutato. “La malattia mentale è una patologia identificabile secondo una codificazione standardizzata a livello mondiale - ha evidenziato Luciano Lucanìa, presidente Simspe - Molte persone ne sono affette. Tuttavia, la parte patologica deve essere distinta da coloro che manifestano un disagio mentale all’arrivo in carcere come segno di risposta al limitato adattamento alla nuova condizione di vita: tra questi figurano coloro che avevano disturbi pregressi, tossicodipendenti, persone che vengono poste in un contesto difficile e totalmente inedito. Anch’essi devono essere curati e tutelati, ma bisogna fare una partizione tra ciò che è malattia e ciò che è disagio. L’aspetto clinico infatti riguarda malattie mentali come la schizofrenia o la paranoia, patologie per le quali un paziente deve andare dallo psichiatra e seguire una terapia specifica. Il disagio mentale - ha concluso - è la risposta di una persona con problemi di base (depressione, tossicodipendenza…) alla privazione della libertà, che resta uno stress gravissimo. Questi ultimi - ha concluso - sono quelli che fanno più notizia, perché hanno maggiore aggressività, minore tolleranza alla frustrazione, alle regole, alla coabitazione forzata, ma le categorie devono essere trattate con le rispettive modalità, senza fare confusione”. No a passi indietro sui colloqui: una telefonata allunga la vita di Catello Romano e altri 200 detenuti Il Riformista, 22 ottobre 2021 Pubblichiamo la lettera-appello alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia scritta dai reclusi del carcere di Catanzaro. Cara ministra Cartabia, circola l’ipotesi di ridurre o azzerare le videochiamate tra reclusi e familiari tornando all’era pre-Covid. Ma rafforzare i contatti umani non ha fatto male a nessuno, anzi. È notorio che le persone detenute o internate nei vari circuiti di Alta Sicurezza - AS1, A52, AS3 - scontano una doppia pena: quella detentiva della sentenza di condanna o della custodia cautelare e quella dello stigma legato alla tipologia di reati per cui sono condannati, indagati o imputati. In forza di questo iniquo e insopportabile (in uno Stato di Diritto) doppio binario del diritto penale del nemico, esse hanno diritto a un numero assai esiguo di colloqui visivi e telefonici coi propri cari, in particolare: 2 telefonate al mese da 10 minuti ciascuna e 4 ore di colloqui visivi se si è stati tratti in arresto dopo l’anno 2000 e una telefonata settimanale - sempre di 10 minuti - e 6 ore di colloqui mensili per chi fu arrestato prima di quella data. Altrettanto noto è il fatto che, nella quasi totalità dei casi, le persone detenute classificate come Alta Sicurezza sono assegnate a istituti lontanissimi dai luoghi di residenza, a volte anche 1.000 km o più, per raggiungere i quali v’è la l’ineludibile necessità per i loro familiari di sacrificare diversi giorni di impegni lavorativi e di sobbarcarsi spese ingentissime che solo una piccolissima minoranza è capace di sostenere e per poche volte l’anno. Dunque, anche l’esercizio effettivo delle ore di colloquio visivo - che siano 4 o 6 ore poco importa - è reso pressoché impossibile da attuare e in alcuni casi è vanificato del tutto, ad esempio per chi ha genitori, parenti anziani o gravemente malati. Quanto fin qui descritto conferma il parere dell’Istituito Superiore di Studi Penitenziari, secondo cui “sono del tutto inadeguate, rispetto alla volontà del legislatore, le dimensioni dello spazio e del tempo riservati all’affettività intesa nel senso più globale possibile delle relazioni familiari”. Come giustamente Lei stessa s’è domandata, facendo Sue le parole del Cardinal Martini, “è umano ciò che li detenuti stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?”. Tutto ciò, evidentemente, “non è giustizia” - per citare sempre il Cardinale. Ancora una volta, appoggiandosi all’alta dottrina e profondissima sensibilità da Lei manifestata, il paradosso diventa “normalità”, il mondo-carcere si tramuta - come Lei ha detto, riprendendo le espressioni di Jean Vanier - in una realtà “dove per fermare la violenza, si deve compiere un atto di forza; dove, per tutelare i diritti, si debbono limitare i diritti; dove, per assicurare la libertà, si deve restringere la libertà; dove, per proteggere i deboli, si devono rendere deboli e indifesi gli aggressori e i violenti”. Ora, essendo che già da tempo si paventa l’eventualità di ridurre o, peggio ancora, azzerare la possibilità di accedere a tali mezzi di comunicazione coi propri cari da parte delle persone detenute - il che di fatto si sta realizzando in alcuni istituti -, ad onta di quanto raccomandato nella circolare del 22 giugno scorso a firma del Direttore Gianfranco De Gesu, i sottoscritti chiedono a Lei, Signora Ministra, non solo di poter continuare a usufruire di video-colloqui e di più colloqui telefonici così come è di norma in numerosi Paesi europei, ma anche di voler considerare la possibilità di normare sotto il profilo ordinamentale l’accesso a tali mezzi-ponte tra chi vive in carcere e chi vive fuori al fine di mantenere vivi i rapporti familiari, perché - come diceva quel famoso spot pubblicitario degli anni 90 - “una telefonata allunga la vita”. Se v’è mia certezza, di cui si doveva già prendere atto senza aspettare questo tempo tanto infausto che ancora miete vittime ogni giorno, è che il dare più contatti umani e veri anche alle persone detenute in Alta Sicurezza non ha arrecato alcun danno alla sicurezza della Società. Anzi, ha, per la prima volta, appena lambito la costituzionalità della pena, cosi prevista e come dovrebbe essere in base alla Carta Fondamentale. Infine, sono in tanti quelli - genitori, figli, fratelli, coniugi... - che grazie a tali mezzi sono finalmente riusciti a riallacciare e ritessere relazioni sane e fondanti per ogni essere umano che, per le motivazioni familiari più disparate, s’erano interrotte o diradate o stavano per perdersi irreparabilmente. Certi di trovare in Lei la giusta comprensione e sensibilità al tema, La ringraziamo anticipatamente e porgiamo ossequiosi saluti. Presunzione d’innocenza, così le toghe potrebbero aggirare la norma di Valentina Stella Il Dubbio, 22 ottobre 2021 Tutti i dubbi sul testo appena approvato in Parlamento per il recepimento della direttiva che pone un freno ai processi show. Le domande sono due adesso: la Ministra Cartabia accoglierà in pieno il parere formulato da Enrico Costa (Azione) e Andrea Ostellari (Lega), votato da tutta la maggioranza sulla presunzione di innocenza? C’è il pericolo che una buona norma possa essere aggirata dalla magistratura stessa? In merito alla prima questione, bisogna ricordare che il parere non è vincolante ma, dato lo sforzo delle forze politiche che sostengono il Governo per farlo approvare da tutti, non potrà essere cestinato da via Arenula senza far rumore. Sul secondo tema di dibattito, si fa tutto più complesso. Innanzitutto il termine per i decreti attuativi è l’8 novembre: quindi, a prescindere dalle audizioni formali tenute in commissione, qualcuno si potrebbe muovere ancora dietro le quinte per chiedere dei correttivi. Volendo abbandonare lo spazio delle dietrologie, pensiamo però alle criticità pratiche della norma se venisse attuata così com’è al momento. Primo punto: l’art. 2 introduce il divieto, per le “autorità pubbliche”, di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini. Chi sono queste autorità pubbliche? Solo la magistratura requirente e i dirigenti di Pg, o anche quella giudicante? Sono inclusi anche i Ministri che qualche volta, anche in un recentissimo passato, hanno alimentato la gogna mediatico giudiziaria? Secondo punto: l’art. 3 prevede la possibilità di indire conferenze stampa delle Procure “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti” con “atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano”. È sicuramente un passo avanti quello della motivazione, perché costringe il pm a prendersi la responsabilità ma, come ha segnalato l’Unione delle Camere Penali in audizione, “il problema è facilmente individuabile nella concentrazione nello stesso soggetto di figure che dovrebbero essere contrapposte. Chi stabilisce l’eventuale presenza della particolare rilevanza pubblica, chi compie le indagini, chi decide l’eventuale iscrizione di notizie di reato in tema di diffamazione e l’esercizio dell’azione penale sullo stesso tipo di reato - sulla base magari dell’assenza di rilevanza pubblica della notizia - e chi svolge la conferenza stampa sono lo stesso soggetto istituzionale, cioè la Procura della Repubblica. Appare evidente la incredibile concentrazione dei ruoli di controllore, controllato e inquirente nel medesimo soggetto”. C’è di più: il decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, modificato appunto dall’art 3 su citato, già prevede ai commi 2 e 3 dell’art. 5 che ogni informazione inerente l’attività della Procura deve essere impersonale e che è vietato per i magistrati della Procura rilasciare dichiarazione sull’attività giudiziaria dell’ufficio. Inoltre il Procuratore della Repubblica ha l’obbligo, secondo il comma 4, di segnalare al consiglio giudiziario chi trasgredisce la norma. Questa norma, pensata per i sostituti in cerca di visibilità, è stata chiaramente disattesa. E allora cosa dovremmo aspettarci in merito alla nuova disciplina? Bisogna essere pessimisti o il contrario, data la nuova stagione di garanzie che stiamo vivendo con la Ministra Cartabia e i nuovi assetti politici più votati al garantismo? Terzo punto: l’art. 4 del testo di recepimento della direttiva prevede che nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato (ad esempio quelli cautelari), la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva. Eppure secondo il testo licenziato dal CdM, in caso di violazione della norma, nella fase di indagine preliminare a decidere dovrebbe essere lo stesso gip che ha disposto, con il provvedimento censurato, le misure cautelari. Il parere invece delle commissioni parlamentari chiede di sostituire ‘giudice’ con ‘l’ufficio del giudice’ per evitare la sovrapposizione: sarebbe difficile che un magistrato rettifichi se stesso. Fatto questo quadro, in cui controllato e controllore in un certo qual modo tenderebbero a coincidere, si potrebbe rilanciare la proposta delle Camere Penali di “un Garante per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo che potrebbe realmente diventare quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea”. “Stretta inevitabile sulle indagini-show, ora i media siano più sobri” di Errico Novi Il Dubbio, 22 ottobre 2021 “Con le inchieste-show alcune toghe hanno fatto carriera, la stessa cosa si è vista nei giornali”. Luciano Violante ha vestito la toga di magistrato. Quindi ha assunto una tra le più alte cariche dello Stato: ha presieduto la Camera. È tuttora fra i protagonisti della scena pubblica che meglio comprendono i danni del circolo vizioso fra giustizia, informazione e politica. Davanti al decreto sulla presunzione d’innocenza, appena “benedetto” dal Parlamento con poche modifiche, segnala due cose: primo, “quando si fa un cattivo uso della libertà, nella specie di informare, è inevitabile che arrivi una stretta”. Dunque alcuni pm e certi giornali meritavano norme più stringenti. Secondo, “adesso serve un’intesa fra i mezzi di comunicazione, un patto che ridefinisca i limiti dell’informazione giudiziaria e che porti a rispettare la dignità delle persone”. Altrimenti il decreto sulla presunzione d’innocenza non cambierà le cose? Aspetti. Intanto la direttiva Ue è un po’ distonica rispetto a quanto previsto dall’ordinamento italiano e dalla nostra stessa Costituzione: il testo europeo si riferisce alla presunzione d’innocenza, l’articolo 27 della nostra Carta parla di presunzione di non colpevolezza. Sono cose un po’ diverse. In teoria noi distinguiamo fra la colpevolezza formalmente ancora non accertata e le responsabilità che possono emergere anche prima di una condanna definitiva. D’altra parte la cronaca giudiziaria, in Italia, è andata ben oltre tali sottili distinzioni. Cosa intende dire? Ricorda la sottosegretaria Guidi, dileggiata per le frasi al telefono sulla colf guatemalteca? Ecco, un circuito dell’informazione che ha colpe così gravi ha poco da star lì a disquisire sulla congruità di una direttiva europea. Sono colpevoli sia i pm che violano i doveri di riserbo sia i cronisti che ne approfittano? Ci sono magistrati che hanno responsabilità anche rilevanti. E ne ha la stampa, ma è chiaro che si deve fare i conti con un mercato e una concorrenza spietati. Ecco perché serve un accordo e un cambio di registro concordato nel sistema della comunicazione. Torniamo al punto: lei ha l’impressione che il decreto risolverà poco? Faccio notare un paradosso: chi non è accusato non è tutelato. Se sono chiamato in causa a proposito di un’indagine ma non sono indagato, la mia dignità non è tutelata. Se mi attribuiscono delle responsabilità, posso stare tranquillo. Paradossale, credo. Sono norme troppo restrittive, rispetto al diritto di informare e di essere informati? Quando si fa un cattivo uso della libertà è inevitabile che ci sia una stretta. Ma ripeto: non teniamo la stampa fuori dal discorso. Voi giornalisti avete concordemente smesso di fare i nomi delle ragazze vittime di violenza sessuale: perché non si può adottare un maggiore self restraint sulle persone indagate? Già le norme preesistenti all’ultimo decreto prevedono che la Procura non debba indicare il nome del magistrato titolare di un’indagine, e che il singolo pm non debba parlare alla stampa se non autorizzato dal procuratore, con relativi meccanismi di controllo disciplinare. Com’è possibile che in tanti anni di inchieste mediatiche non ci sia mai stato un pm perseguito? Ma neanche nei confronti dei giornalisti, però, è mai scattata una censura da parte degli organi di disciplina interna, o sbaglio? Non sbaglia, è verissimo... Ecco, perciò ribadisco che o c’è un’intesa nel sistema dell’informazione o il nodo resta. Ciò detto, se è certamente vero che già le norme del 2006 vietano di dare nomi e foto del singolo pm, è vero che, se vengono pubblicati, quel magistrato comincia a essere importante e rispettato. Persino dal portiere, che si toglie il cappello quando lo vede passare. E quale coincidenza? Se per caso l’indagine di quel tale pm comincia a perdere d’interesse e attenzione, salta fuori a volte la notizia che nei suoi confronti è stato sventato un attentato. L’indagine riprende quota. Il silenzio degli organi disciplinari nei confronti di quei pm troppo mediatici hanno la stessa matrice “corporativa” delle valutazioni di professionalità positive per il 99% delle toghe? In molti casi magistrati con condanne definitive nel corso della vita professionale precedente hanno avuto brillanti valutazioni. Il sistema delle valutazioni professionali va ridiscusso con calma ma approfonditamente. Ci sorprendiamo delle mancate sanzioni per i rapporti con la stampa? Non avviene lo stesso nel mondo giornalistico? Verissimo anche questo... Va detto che la condanna di Sarkozy, per fare un esempio, è stata accolta dai media francesi con esuberanze incomparabilmente più contenute rispetto a quanto sarebbe potuto avvenire in un Paese come il nostro. Altrove non c’è la stessa pruderie. Ma qualcosa cambierà oppure no? Bisogna vedere come garantire il diritto alla reputazione nella società della comunicazione. Non basta il decreto sulla presunzione d’innocenza, dunque? Guardi, un magistrato molto preparato, che conosco, mi ha detto: ti rendi conto che ci troveremo a dover scrivere nelle ordinanze di convalida che un rapinatore è presuntivamente entrato in una gioielleria, che ha presuntivamente sparato al gioielliere, che ha presuntivamente preso degli ori dall’espositore... fa ridere. Se non ci fossero elementi di colpevolezza, gli arresti in flagranza non sarebbero eseguiti. Intendo solo sottolineare che il diritto alla dignità è spesso leso dalle cronache giudiziarie. Così com’è vero che se il poliziotto o il magistrato non vi desse la notizia, voi non la pubblichereste. E se voi non la pubblicaste, quel poliziotto o quel pm non acquisirebbero importanza e visibilità pubblica. In attesa che anche i giornalisti battano un colpo, crede che la crisi di autorevolezza in cui si dibatte la magistratura possa indurre risposte sanzionatorie interne più severe nei confronti di chi viola le norme sui rapporti con la stampa? Questa risposta probabilmente ci sarà. Temo però solo sul versante della magistratura e non per i giornalisti. Anche se qualora gli uffici giudiziari diventassero più sobri, sareste costretti a esserlo anche voi. Csm, slitta il vertice. Cartabia: “Riforma urgente, il Quirinale la sta sollecitando” di Liana Milella La Repubblica, 22 ottobre 2021 Rinviato alla prossima settimana il primo incontro dei partiti in via Arenula con la Guardasigilli. Dopo le riforme del penale e del civile, adesso la ministra della Giustizia vuole garantire una nuova legge elettorale per il futuro Consiglio superiore. La terza gamba delle riforme sulla giustizia, quella sul Csm, ripartirà solo la prossima settimana. L’incontro previsto tra i partiti della maggioranza e la ministra della Giustizia Marta Cartabia è saltato per via delle mozioni sul fascismo e sullo scioglimento di Forza nuova in votazione alla Camera. Convocata alle 15, la riunione era slittata alle 17. Ma a quel punto, in collegamento, c’erano solo Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Enrico Costa di Azione. Anche se nel primissimo pomeriggio Cartabia aveva incontrato i due relatori del ddl Csm, il dem Walter Verini ed Eugenio Saitta di M5S. La Guardasigilli, ai due deputati collegati in video, ha detto poche ma decise parole: “La riforma del Csm è urgente. A sollecitarla è stato il presidente della Repubblica”. Da qui l’appuntamento alla prossima settimana, stavolta rigorosamente in presenza. La Guardasigilli è ben decisa a spingere il pedale dell’acceleratore. Lo ha detto venerdì scorso parlando davanti alla platea dell’Anm subito dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un’affermazione secca, la sua: “È necessario portare a termine la riforma in tempo utile in vista del rinnovo del Csm”. E già, perché l’attuale Consiglio scade a luglio 2022, visto che i primi 16 togati erano stati eletti nel luglio del 2018. Era la prima settimana del mese, e nessuno avrebbe potuto mai immaginare che questa sarebbe stata la consiliatura più difficile nella storia di palazzo dei Marescialli. Il caso Palamara - consigliere nel precedente Csm - esplode il 29 maggio del 2019. Si dimettono cinque togati. Poi un sesto. Sono necessarie tre elezioni suppletive. Mentre c’è chi preme per mandare a casa tutto il Consiglio, la linea del Colle è che prima di eleggerne uno nuovo sia necessario cambiare la legge elettorale. Proprio per bloccare la correntocrazia. Marta Cartabia ha già fatto le sue mosse. In primavera aveva affidato al costituzionalista Massimo Luciani la stesura di una prima possibile modifica. Poi, in questi mesi, lei stessa ha elaborato le sue idee. Che, come ha detto venti giorni fa al congresso di Area, la corrente di sinistra delle toghe, partono da un punto, “la crisi di fiducia per una magistratura con uno scarso tasso di indipendenza”. “La fiducia si perde in un istante, ma poi si guadagna goccia a goccia” dice Cartabia che aggiunge: “Se la fiducia è logorata, non confidiamo in un effetto taumaturgico delle riforme”. Riforme che però, in questo momento storico, non possono prescindere da quanto è avvenuto. Cartabia cita le parole di due magistrati, da una parte Giovanni Falcone, dall’altra Antonino Scopelliti, entrambi trucidati dalle mafie. Diceva Falcone che “l’indipendenza della magistratura, se non è accompagnata dall’efficienza del suo servizio nel rendere giustizia, diventa un privilegio”. Mentre Scopelliti parlava dei “magistrati laboriosi che lavorano con la testa tra le mani”. E Cartabia, per mettere mano alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario parte proprio da questa immagine, dalla “magistratura laboriosa”, quella che racconta di incontrare nelle corti di Appello che via via sta visitando, Milano, Venezia, Napoli, Bari, Catania, Firenze, Perugia. Una magistratura che definisce “animata da grande passione, consapevole del momento storico che stiamo attraversando”. E dunque, dice la ministra. “i fatti sconcertanti ci sono, ma non devono abbagliarci, e farci distogliere lo sguardo dai 10mila magistrati laboriosi che lavorano con la testa tra le mani”. Ma sarà la politica a decidere il destino del Csm e delle toghe. Perché, come dice la Guardasigilli, “le leggi vengono decise in ambito politico e lì devono trovare una sintesi”. Sarà una partita non facile. Come dimostra la battaglia sul decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza chiuso ieri tra Camera e Senato. Anche questo il segnale di una stretta per la magistratura, ma anche per la stampa. E, a seguire, un question time alla Camera che non può passare inosservato. A interrogare la ministra era Enrico Costa, noto fustigatore delle toghe, stavolta con un quesito a trabocchetto. Chiedeva alla ministra quale sia stato l’andamento delle valutazioni di professionalità del Csm sui magistrati per capire fino a che punto sia stato buonista palazzo dei Marescialli. E Cartabia ha portato a Montecitorio dei numeri. Eccoli: “Dal 2017 all’ottobre del 2021, le valutazioni negative sono state in totale 35 (lo 0,5%), quelle non positive sono state in totale 24 (lo 0,3%) e quelle positive sono state in totale 7.394, pari al 99,2 per cento”. Troppo facile per Costa, davanti a questi dati, replicare: “Sulla verifica professionale di un magistrato serve una valutazione seria e non solo formale, perché se un pubblico ministero arresta cento persone e quasi tutte vengono assolte, e se un giudice in 4 anni vede annullate tutte le sue sentenze, questo deve avere un rilievo sulla sua carriera”. Un antipasto della battaglia che comincia oggi in via Arenula. La Guardasigilli si candida ad essere costituzionalmente un arbitro imparziale, ma i nemici dei giudici sono molto agguerriti. E ci si confronterà anche su fino a che punto si potrà intervenire sul Csm a Costituzione invariata, ben sapendo che nel mondo dei costituzionalisti il dibattito è aperto come dimostrano le posizioni di Massimo Luciani e di Giovanni Maria Flick. Che certo sono contrapposte. Riforma del Csm, partenza difficile di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 ottobre 2021 Va a vuoto il vertice di maggioranza con la ministra Cartabia. Che si arrabbia: si sta facendo tardi. Le elezioni per il rinnovo del Consiglio sono nel luglio 2022. I relatori erano al ministero già al mattino. L’incontro tra la ministra e i capigruppo della maggioranza nelle commissioni giustizia era fissato per il primo pomeriggio. Poi uno slittamento di due ore, insufficiente a scavallare le votazioni alla camera. Terminati però i lavori parlamentari, ieri era giovedì, deputati e senatori hanno puntato la stazione Termini. E il vertice per cominciare a discutere della riforma del Csm e dell’ordinamento penale, la più attesa tra le riforme della giustizia promesse dal governo, è saltato. C’erano solo due capigruppo disponibili, dicono dal ministero della giustizia. E lasciano trapelare l’irritazione della ministra Cartabia: “Riprendere il confronto è urgente”. Anche perché tutti, dal vice presidente del Csm Ermini all’Associazione nazionale magistrati, ricordano quotidianamente alla ministra quanto sarebbe grave tornare a votare per il nuovo Consiglio - luglio 2022 - con le vecchie regole che hanno favorito il “sistema Palamara”. Cartabia stessa si era impegnata a far conoscer le proposte del governo (nella forma di emendamenti al vecchio testo Bonafede) ormai da diverse settimane. Dai rappresentati della maggioranza arriva la spiegazione che è stato solo un malinteso. Tutti si dicono pronti a partire, la riunione si terrà la prossima settimana (forse martedì, in presenza). Intanto Magistratura democratica ha espresso “apprezzamento per la proposta elaborata dalla commissione Luciani (che su incarico della ministra ha avanzato delle proposte di emendamenti, ndr) auspicando che, su di essa, si sviluppi un dibattito parlamentare che coinvolga nella riflessione anche la magistratura”. Il tema più delicato è la nuova legge elettorale per la componente togata del Consiglio. Per Md vanno escluse soluzioni “fondate sul sorteggio e sulla base di modelli elettorali di stampo maggioritario”. I magistrati: “Siamo eccellenti al 99%” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 ottobre 2021 Negli ultimi anni, cioè tra il 2017 e il 2021, ha spiegato la ministra Cartabia, rispondendo a un’interrogazione del deputato Costa, il Csm ha valutato positivamente la professionalità del 99,2% dei magistrati. In tutto, sulle settemila e passa toghe esistenti in Italia, quelle che hanno ricevuto un giudizio negativo sul proprio operato sono state 35, cioè lo 0,5%, quelle così così 24, pari allo 0,3%, mentre le restanti 7.394 sono l’eccellenza. Quindi fino a ieri abbiamo scherzato. E tutte le risse scatenate all’interno della procura più famosa d’Italia, quella di Milano, in cui ogni pm accusa l’altro delle peggiori nefandezze, addirittura della commissione di reati, tutto ciò era manifestazione di alta professionalità? Rispondendo a un’interrogazione del deputato Costa, la ministra Marta Cartabia ha comunicato che il Csm dal 2017 al 2021 ha valutato positivamente la professionalità del 99,2% dei magistrati. L’inferno delle procure che abbiamo visto in questi anni del tutto ignorato. Sarà arrossito qualcuno, a partire dal Presidente del Csm fino all’ultimo dei consiglieri, quando la ministra Cartabia ha snocciolato i dati indecenti sulle valutazioni delle capacità professionali dei magistrati? Proprio ora, nei giorni in cui, a sentir parlare di giustizia e di toghe, sembra ormai di entrare in qualche girone dell’inferno, e si possono scegliere i “peccati” di ciascuno a caso, ecco i numeri dell’indecenza. Negli ultimi anni, cioè tra il 2017 e il 2021, ha spiegato la Guardasigilli, rispondendo a un’interrogazione del deputato Enrico Costa, il Csm ha valutato positivamente la professionalità del 99,2% dei magistrati. E in tutto, sulle settemila e passa toghe esistenti in Italia, quelle che hanno ricevuto un giudizio negativo sul proprio operato sono state 35, cioè lo 0,5%, quelle così così 24, pari allo 0,3%, mentre le restanti 7.394 sono l’eccellenza. Quindi fino a ieri abbiamo scherzato. Quindi tutte le risse scatenate all’interno della procura più famosa d’Italia, quella di Milano, in cui ogni pm accusa l’altro delle peggiori nefandezze, addirittura della commissione di reati, contestazioni del genere “tu mi hai teso una trappola”, “tu mi hai preparato una polpetta avvelenata”, e poi tu hai omesso, ma tu hai inventato, tutto ciò che cosa era, manifestazione di alta professionalità? Certo, non va mai dimenticato quel che ha scritto il magistrato Luca Palamara nel libro Il Sistema, con Sandro Sallusti. E cioè che lo scambio tra correnti sindacali comportava anche il fatto dei favori reciproci: io do un giudizio positivo sull’operato del tuo collega di corrente se tu fai altrettanto per il mio. E la minaccia contraria, quella della vendetta. Non dimenticando mai anche il fatto che quello stesso magistrato su cui si potrebbe prospettare un giudizio negativo è lo stesso che poi ti dovrà votare proprio per farti entrare al Csm. Insomma, un gioco di specchi e di reciproci possibili ricatti che dà l’immagine piuttosto vicina a quelle di certe massonerie se non addirittura di certe cosche. Ma basterebbe anche confrontare i dati che assolvono i magistrati da ogni “peccato” con quelli dei risarcimenti per ingiusta detenzione, che vengono pure concessi con il contagocce. O aver letto a suo tempo il libro del giornalista dell’Espresso Stefano Livadiotti (Magistrati, l’ultracasta) o quello più recente di Stefano Zurlo che, parafrasando quello famoso sul comunismo, si intitola Il libro nero della magistratura. Ci sarebbe da ridere, se non fossimo costretti a piangere di disperazione davanti a tante toghe indegne, strappate nella dignità, a sentire le storie di vita che emergono dalle carte della commissione disciplinare del Csm. Si parte dai giudici lumaca, quelli che impiegano mesi o anni a depositare le motivazioni delle sentenze, fino a quelli - il che è ciò che di più grave si può fare - che “dimenticano” in cella per giorni e giorni il detenuto da scarcerare. Poi c’è tutto il settore del “tengo famiglia”, i casi in cui vengono giustificati, o al massimo sanzionati con un buffetto, comportamenti scorretti con la situazione familiare o personale del singolo magistrato. Tolleranza per gli errori dovuti a stress, ma anche al divorzio o all’abbandono da parte della fidanzata. Piccole e grandi distrazioni che giocano con la vita e la libertà degli altri, giustificate per salvare la progressione di carriera della vita di un singolo giudice o pubblico ministero. Staremo a vedere che cosa succederà, che sorte avranno non solo davanti ai colleghi di Brescia che li stanno giudicando, ma anche nel tribunale disciplinare del Csm, gli uomini della Procura di Milano che tanto stanno facendo parlare di sé in questi giorni. A partire dal capo dell’ufficio Francesco Greco, per il quale il suo ex sottoposto Francesco Prete, oggi procuratore capo a Brescia ha già chiesto l’archiviazione per il reato di omissione di atti d’ufficio. E poi i due aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale. Oltre ai due sostituti Storari e Spadaro. E all’ex Piercamillo Davigo. La procura di Milano è un antico fortino di Magistratura democratica. Funzionerà ancora il vecchio sistema spartitorio all’interno del sindacato e del Csm? Assisteremo ancora a pressioni reciproche e reciproci ricatti? Verranno salvati i nostri uomini? Insieme al mancato rossore per l’imbroglio sulle capacità professionali, resiste anche all’interno della categoria un certo coraggio spavaldo che rasenta la spudoratezza. Perché la giornata di mercoledì alla Camera ha segnato una tappa importante della commissione giustizia, la quale ha dato un parere definitivo, pur se non vincolante, al governo sullo schema di decreto legislativo sulla presunzione di non colpevolezza e i processi-show celebrati fuori dalle aule da alcuni procuratori. È stata messa una parola, che si spera sarà definitiva, in particolare sui rapporti tra le toghe e la stampa, con quel provvedimento che il Fatto quotidiano e il sindacato delle toghe chiamano “legge bavaglio”. Semplicemente perché si impegnano i capi degli uffici giudiziari a limitarsi a stringati comunicati per riferire notizie sulle inchieste e a restringere solo a motivati casi di urgenza e rilevanza nazionale le conferenze stampa. Il testo del decreto sottolinea anche la necessità di non presentare mai l’indagato o l’imputato come colpevole prima di una sentenza passata in giudicato. E anche di soprassedere da quella funesta abitudine di intitolare le inchieste con denominazioni spesso offensive. Come fu per esempio la famosa “Mafia capitale”, che fu sconfessata in sede processuale da una sentenza che escludeva l’esistenza di metodi mafiosi nella commissione dei reati. Perché diciamo che ancora esiste una certa spavalderia che confina con la spudoratezza? Perché proprio nelle stesse ore (qualche giorno prima) in cui si metteva quasi la parola fine (il governo ha tempo fino all’8 novembre per emettere i decreti attuativi) ai processi-show, in Calabria accadeva qualcosa che non teneva in nessun conto quel che stavano Camera e Senato. Una bella conferenza-stampa. Questa volta Nicola Gratteri è innocente. Stiamo parlando invece del procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, che ha presentato l’operazione “Mala pigna” in conferenza-stampa, affiancato dall’aggiunto Gaetano Paci, dai vertici dell’Arma e dal generale Antonio Pietro Marzo, comandante delle unità forestali degli stessi carabinieri. Tutti fuorilegge e passibili di sanzioni, nel prossimo futuro. Ma anche imprudenti già oggi, con l’aria che tira. Distratti, forse. Ma sicuramente con un eccesso di spavalderia del procuratore Bombardieri (la cui attività investigativa abbiamo su questo giornale lodato in altre occasioni), il quale non ha saputo resistere alla tentazione di dire la sua sull’unico arresto “eccellente”, quello dell’avvocato Giancarlo Pittelli. Che porta a casa un secondo “concorso esterno”, dopo quello che gli ha contestato il procuratore Gratteri nell’inchiesta “Rinascita Scott” (altra denominazione da far sparire). “Quel che è emerso nel caso di Pittelli - ha spiegato il procuratore- è una condotta complessiva, a tutto tondo, che esula dal mandato difensivo…”. Beh, anche quello del magistrato canterino ben presto esulerà dal suo mandato, dottor Bombardieri, che sarà limitato a quello di lavorare e parlare poco. I paletti della Corte Ue su sequestro e confisca dei beni di terzi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2021 Con le sentenze C-845/19 e C-863/19 depositate oggi i giudici di Lussemburgo chiariscono che la direttiva 2014/42 osta ad una normativa nazionale che permetta la confisca di un bene di cui si sostenga che appartiene ad una persona diversa dall’autore del reato, senza che tale persona abbia la facoltà di intervenire nel procedimento. La Corte Ue precisa alcune disposizioni della direttiva relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea. Con le sentenze C-845/19 e C-863/19 i giudici di Lussemburgo chiariscono che la direttiva 2014/42 osta ad una normativa nazionale la quale permetta la confisca di un bene di cui si sostenga che appartiene ad una persona diversa dall’autore del reato, senza che tale persona abbia la facoltà di intervenire quale parte nel procedimento di confisca. Due cittadini bulgari sono stati condannati in sede penale per aver detenuto, nel febbraio 2019, senza autorizzazione, a fini di spaccio, sostanze stupefacenti altamente pericolose. A seguito della condanna l’Ufficio regionale della Procura di Varna ha chiesto al Tribunale regionale, la confisca delle somme di denaro rinvenute nei rispettivi alloggi degli interessati nel corso di perquisizioni. All’udienza dinanzi a detto giudice, gli interessati hanno dichiarato che le somme di denaro sequestrate appartenevano a membri delle loro rispettive famiglie. In primo luogo, la Corte constata che la detenzione di stupefacenti a fini di spaccio rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/42, anche quando tutti gli elementi inerenti alla commissione di questo reato si collocano all’interno di un unico Stato membro. In secondo luogo, la Corte considera che la direttiva non prevede unicamente la confisca dei beni che costituiscono un vantaggio economico derivante dal reato per il quale l’autore di quest’ultimo è stato condannato, ma contempla altresì la confisca dei beni appartenenti all’autore del reato relativamente ai quali il giudice nazionale investito della causa sia convinto che derivano da altre condotte criminose. Per quanto riguarda il primo tipo di confisca, è necessario che il provento alla cui confisca si intende procedere derivi dal reato per il quale è intervenuta la condanna definitiva del suo autore. Per quanto riguarda la seconda fattispecie astratta, che corrisponde alla confisca estesa, la Corte precisa, da un lato, che, al fine di stabilire se un reato sia suscettibile di produrre un vantaggio economico, gli Stati membri possono prendere in considerazione le modalità operative, ad esempio il fatto che il reato sia stato commesso nell’ambito della criminalità organizzata o con l’intento di ricavare profitti regolari da reati. Dall’altro lato, il convincimento del giudice nazionale che i beni derivano da condotte criminose deve basarsi sulle circostanze del caso, ivi compresi gli elementi di fatto concreti e gli elementi di prova disponibili. A tal fine, detto giudice può in particolare prendere in considerazione la sproporzione tra il valore dei beni in questione e i redditi legittimi della persona condannata. Per quanto riguarda infine la confisca nei confronti di terzi, essa presuppone che siano dimostrate l’esistenza di un trasferimento, da parte di una persona indagata o imputata, di proventi ad un terzo, ovvero l’esistenza di un’acquisizione di siffatti proventi da parte di un terzo, nonché la conoscenza, da parte di tale terzo, del fatto che detto trasferimento o detta acquisizione avevano lo scopo di evitare la confisca. In terzo luogo, la Corte statuisce che la direttiva 2014/42, letta in combinato disposto con l’articolo 47 della Cedu, osta ad una normativa nazionale la quale permetta la confisca, a favore dello Stato, di un bene del quale si sostenga che appartiene a una persona diversa dall’autore del reato, senza che tale persona abbia la facoltà di intervenire quale parte nel procedimento di confisca. Infatti, detta direttiva impone agli Stati membri di prendere le misure necessarie affinché le persone colpite dalle misure da essa previste, ivi compresi i terzi che sostengano, o di cui altri sostenga, che sono i proprietari dei beni alla cui confisca si intende procedere, abbiano diritto ad un ricorso effettivo e ad un processo equo al fine di salvaguardare i propri diritti. Inoltre, la direttiva summenzionata prevede varie garanzie specifiche al fine di assicurare la salvaguardia dei diritti fondamentali di tali terzi. Tra queste garanzie figura il diritto di avvalersi di un avvocato durante tutto il procedimento di confisca, il quale comporta con tutta evidenza il diritto per tali terzi di essere ascoltati nell’ambito di detto procedimento, ivi incluso il diritto di far valere il loro titolo di proprietà sui beni colpiti dalla confisca. Il reato edilizio è permanente e la sua prescrizione decorre dalla concreta desistenza dai lavori di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2021 Né la domanda in sanatoria né la presenza di parti rustiche sono in sé sintomo della volontà di proseguire l’abuso. Il termine di prescrizione del reato edilizio decorre dall’ultimazione dell’opera abusiva oppure dalla desistenza dai lavori. La presenza di parte a rustico del manufatto non basta ad escludere che si sia realizzato l’abbandono dall’attività abusiva. Così come la presentazione della domanda di sanatoria non è di per sé sintomo della volontà di proseguire i lavori, semmai al contrario dimostra la volontà di regolarizzazione e di estinzione del reato. Ai fini dell’individuazione del dies a quo del termine prescrizionale, la Cassazione ricorda ai giudici, va fatto un accertamento di fatto “globale” della definitiva sospensione (volontaria o imposta con provvedimento autoritativo) o dell’avvenuta ultimazione dell’opera. Quindi, venendo al caso specifico, la domanda di sanatoria come la presenza di parte rustica dell’abuso sono solo sintomi di una situazione di fatto che va accertata sotto tutti i profili e non provano da soli la permanenza del reato. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 37843/2021, ha accolto il ricorso dei ricorrenti che affermavano l’avvenuto decorso del termine di prescrizione del reato contestato per aver realizzato una serie di opere edilizie difformi e in assenza di concessione edilizia. Sostenevano come confermava la sentenza di primo grado che le attività fossero ferme da oltre 18 anni quando avevano presentato domanda in sanatoria. Domanda che, come chiarisce la Cassazione, non poteva essere letta dai giudici di appello come sintomo della volontà di proseguire l’abuso, vista anche la presenza di parti non ultimate. Ma ciò che rileva è il concreto stop dei lavori, cioè nel caso specifico la desistenza volontaria e proseguita per l’intero decorso del termine prescrizionale. Il termine del reato permanente è individuabile anche in caso di opere non ultimate che vengano destinate all’utilizzo continuativo con attivazione delle relative utenze. Toscana. Il Garante Fanfani: “Penitenziari in grave degrado” redattoresociale.it, 22 ottobre 2021 Tra le altre criticità emerse nell’incontro col provveditore e i garanti provinciali, la salute mentale e le attuali prospettive per la presa in carico in carcere e verso l’esterno. Dopo aver fatto emergere le criticità del pianeta carcere in commissione affari costituzionali del Consiglio regionale, guidata da Giacomo Bugliani (Pd), il Garante toscano Giuseppe Fanfani incontra il provveditore dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria Pierpaolo d’Andria, la responsabile dell’area detenuti e trattamento del provveditorato Angela Venezia e i garanti comunali di Firenze (Eros Cruccolini), Livorno (Marco Solimano), Porto Azzurro (Tommaso Vezzosi), San Gimignano (Sofia Ciuffoletti). Sul tavolo la situazione carceraria toscana che deve essere affrontata e discussa nel suo insieme: “Caratteristiche e problematiche, in particolare le condizioni degli edifici penitenziari spesso in grave degrado e bisognose di interventi urgenti, sono note e grazie al provveditore siamo a conoscenza del Piano dei lavori in corso e programmati” ha detto Fanfani al termine del colloquio svoltosi ieri, mercoledì 20 ottobre. Il dibattito ha toccato anche altri nodi: carenza di personale e le attuali procedure attive per le nuove assunzioni; sanità penitenziaria, in particolare la salute mentale e le attuali prospettive per la presa in carico in carcere e verso l’esterno; la condizione attuale e la progettualità per le due isole carcere di Gorgona e di Pianosa. “I temi sono molti e la collaborazione e il reciproco apprezzamento emerso sarà valore aggiunto per affrontare le emergenze del sistema” ha confermato il Garante che ha anche aggiunto: “È desiderio comune essere presenti per monitorare le situazioni note ed eventualmente prevenire nuove criticità. Anche per questo abbiamo deciso di incontrarci ogni due mesi anche per capire lo stato di avanzamento delle opere programmate”. Sicilia. Siglata convenzione tra Garante detenuti e Uiepe gnewsonline.it, 22 ottobre 2021 Promuovere, realizzare, organizzare attività in co-progettazione, volte a favorire lo sviluppo del sistema di probation, la formazione, la prevenzione e la sensibilizzazione delle comunità locali sul sostegno e il reinserimento di soggetti in esecuzione penale, anche attraverso il coinvolgimento del sistema scolastico. Questo l’obiettivo della convenzione sottoscritto il 20 ottobre da Giovanni Fiandaca, Garante dei diritti dei detenuti, e Anna Internicola, direttore dell’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna per la Sicilia. La collaborazione fra i due organismi consente di supportare congiuntamente attività promozionali e progettuali a sostegno dell’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale esterna e in sospensione del procedimento con messa alla prova. Per lo sviluppo di studi e ricerche su fenomeni devianti, prassi operative e applicazioni normative e per la creazione di un osservatorio sulle misure alternative e sul sistema di probation, i due Uffici hanno deciso di coinvolgere anche l’Università per l’attivazione di una ricerca regionale. Fermo. Detenuto morto, ora servono nuove indagini di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 22 ottobre 2021 Il Gip ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura sul caso del 50enne Lorenzo Rosati. I legali della famiglia: fatto grave, non fu una caduta. “Si continui ad indagare, quel decesso è sospetto e bisogna fare luce sui lati oscuri”. È quanto decretato dal gip del tribunale di Fermo Maria Grazia Leopardi, facendo registrare un colpo di scena sull’inchiesta per la morte di Lorenzo Rosati, un detenuto fermano di 50 anni originario del Viterbese. Rosati era deceduto in circostanze misteriose al Pronto soccorso, dopo che si era sentito male nella casa di reclusione di Fermo dove stava scontando un fine pena per resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamenti. Il magistrato inquirente aveva chiesto a settembre l’archiviazione del caso come decesso accidentale, ma i legali della famiglia di Rosati, gli avvocati Marco Murru e Marco Melappioni del Foro di Macerata, avevano presentato istanza di opposizione. Dopo l’udienza il gip ha comunicato la sua decisione di continuare le indagini, tenendo aperto un fascicolo per morte conseguenza di altro reato. “Siamo molto soddisfatti - ha commentato l’avvocato Melappioni - in quanto il gip ha accolto totalmente le argomentazioni della nostra opposizione, ordinando al pubblico ministero quelle indagini supplementari che avevamo richiesto. Il giudice ha capito la gravità di quanto accaduto e, in maniera molto scrupolosa, ha disposto di indagare in tutte le direzioni per portare a galla la verità su questa tragica vicenda”. Ancora più esplicito l’avvocato Murru che esclude il decesso per cause naturali: “Quella di Rosati non è una morte naturale né è dovuta ad un incidente in cella. Pertanto credo sia importante che vengano sentiti i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria presenti, cosa che non è mai stata fatta. Al giudice abbiamo chiesto, e la richiesta è stata accolta, che venisse nuovamente analizzata la consulenza tecnica, perché non dice affatto che la morte è attribuibile ad una caduta, ma ben altro”. La tragedia si consuma il 28 maggio 2021 quando, all’ora di pranzo, Rosati si sente male e i suoi compagni di cella lanciano subito l’allarme. Il detenuto viene visitato dal medico della struttura che, viste le gravi condizioni del 50enne, decide di allertare il 118. Gli operatori sanitari, giunti sul posto, trasportano l’uomo in ambulanza al vicino pronto soccorso del “Murri”. Rosati ha praticamente la milza spappolata e un’emorragia ormai irreversibile. Nonostante i tentativi di rianimarlo, il 50enne esala l’ultimo respiro intorno alle 17. Scattano immediatamente i primi interrogativi: come si è procurato quelle lesioni il detenuto? È stato aggredito o si è trattato di un incidente? Il referto viene trasmesso alla Procura che apre un fascicolo a carico di ignoti per morte conseguente ad altro reato, disponendo poi l’autopsia sulla salma. L’incarico viene affidato al medico legale di Teramo, Giuseppe Sciarra, e i risultati dell’esame autoptico appaiono abbastanza chiari. Nel referto si parla di decesso da attribuire ad un “traumatismo contusivo toracoaddominale sul fianco sinistro, emoperitoneo da lacerazione della milza e conseguente shock ipovolemico”. La perizia afferma inoltre che la zona del corpo esaminata “è stata interessata da un evento traumatico prodotto da un mezzo contundente non dotato di spigoli vivi, ma con superfice arrotondata ed ha agito con una piccola angolatura dall’alto in basso”. Nonostante ciò, il pubblico ministero presenta al gip la richiesta di archiviazione del caso, ipotizzando una caduta. Tesi, questa, supportata da una ferita occipitale rinvenuta sul capo della vittima, che il medico legale non esclude essere attribuibile al contatto con il pavimento. I legali di Rosati, però, non ci stanno e presentano un’istanza di opposizione, accolta ieri dal giudice. Ora si ricomincia e non è escluso che possano venire a galla verità scottanti. Napoli. Progetto di reinserimento per 10 detenuti tra Poggioreale e Secondigliano ottopagine.it Sono iniziati i lavori previsti dal protocollo d’intesa sottoscritto lo scorso 16 giugno dall’esercito, dall’amministrazione penitenziaria di Napoli, dal tribunale di sorveglianza di Napoli e dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, che prevede lo svolgimento di lavori, a titolo volontario e gratuito, per progetti di pubblica utilità a favore della collettività, da parte di detenuti delle case circondariali di Secondigliano e Poggioreale. Presenti all’avvio delle attività il comandante delle forze operative sud, generale di corpo d’armata Giuseppenicola Tota, con il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, il provveditore reggente dell’amministrazione penitenziaria della regione Campania, Carmelo Cantone, i direttori delle carceri di Secondigliano Giulia Russo e di Poggioreale, Carlo Berdini, che nei loro interventi hanno sottolineato come la sinergia tra Istituzioni e esercito sia importante per il reinserimento dei detenuti nella società. Così il garante regionale Samuele Ciambriello, durante l’incontro: “È complicato trovare chi nelle strutture pubbliche o private vuole avere rapporti con il mondo del carcere. Sono grato all’esercito che a Napoli ha messo su questa esperienza nuova. Sia con la direzione di Poggioreale che di Secondigliano abbiamo avviato altre esperienze con il comune di Napoli e con la Procura. Ora ci auguriamo di aumentare i numeri”. Rivolgendosi ai quattro primi detenuti poi ha concluso: “Siete dei privilegiati e dovete capire che questo è un modo anche per risarcire vittime e società che avete offeso. Il progetto è una sorta di giustizia riparativa”. Cremona. Bottega liutaria dietro le sbarre: il violino dei detenuti rinasce come “La Fenice” di Nicola Arrigoni laprovinciacr.it, 22 ottobre 2021 Lo strumento costruito a Cà del Ferro ritrova la sua voce dopo il restauro presso l’Academia Cremonensis. È una bella storia di liuteria nata dieci anni fa all’interno di Cà del Ferro dalla collaborazione dell’allora direttrice Ornella Bellezza e dal presidente dell’Anlai, Gualtiero Nicolini. L’idea fu quella di dare la possibilità ai detenuti di imparare l’antica arte dei maestri liutai. L’esito di quella collaborazione fu un violino che oggi sarà restituito all’attuale direttrice della Casa circondariale di Cremona, Rossella Padula, violino restaurato in Academia Cremonensis dal maestro Luca Gallo. “Lo strumento è stato realizzato dieci anni fa da tre detenuti nell’ambito di un progetto di educazione all’arte, promosso dall’Anlai ed affidato al maestro liutaio Luca Bastiani - racconta Fabio Perrone, anima dell’iniziativa. Sotto la sua guida tre detenuti, Luca, Max ed Enrico hanno realizzato uno nuovo strumento ispirandosi al violino Guarneri del Gesù Stauffer, uno dei capolavori della collezione del Comune di Cremona, oggi conservato presso il Museo del Violino”. Allora i tre detenuti vollero dare al violino il nome: La fenice e, nella relazione finale del loro lavoro, spiegarono come l’aver costruito quel violino fosse stata un’esperienza di rinascita, un incoraggiamento a perseguire una nuova vita, una rinascita. Oggi quel nome è più che evocativo e racconta di come lo strumento torni a suonare e torni a Cà del Ferro magari per seminare una nuova esperienza sotto il segno della liuteria. A ritornare indietro nel tempo e a ricordare quell’esperienza è oggi Ornella Bellezza, ex direttrice della casa circondariale cremonese, che racconta: “Tutto nacque dal rapporto con Gualtiero Nicolini dell’Anlai e dalla volontà, sotto la mia direzione, di far sì che il carcere potesse nei limiti della legge essere aperto alla città e farsi permeare dalle eccellenze del territorio - spiega. Così quando Nicolini ci propose un percorso di laboratorio di liuteria mi parve un’opportunità da cogliere al volo. Il nostro laboratorio di falegnameria lo permetteva e i detenuti parteciparono alle lezioni del maestro liutaio Luca Bastiani. Era il 2010 e sapere che ora il violino tornerà a suonare e sarà consegnato all’attuale direttrice della casa circondariale fa piacere. Lo strumento vinse un premio anche al concorso di liuteria organizzato dall’Anlai che volle anche riconoscermi il merito di aver dato vita a questa insolita bottega liutaria dietro le sbarre”. Il liutaio Luca Bastiani trasmette ancora tutta l’emozione per quell’esperienza all’interno di Cà del Ferro: “È stata un’esperienza che mi ha cambiato, importante e umanamente fortissima - racconta. Non avevo mai oltrepassato la soglia di una casa circondariale, e poter dare un momento di creatività, attraverso un lavoro artistico, a persone in una condizione così limitante della propria libertà, è stato per me un motivo di orgoglio e arricchimento personale, e questo grazie alla associazione Anlai e alla direzione della casa circondariale - ricorda. Lavorammo su una sagoma tagliata da una riproduzione in scala reali del Guarneri del Gesù Stauffer, i tre ragazzi che fecero con me il violino si appassionarono e io con loro. Il violino La Fenice ha un grande impatto scultoreo e una forte personalità: questo a dimostrazione che gli oggetti lavorati a mano vengono plasmati anche dallo stato d’animo, dalle condizioni contingenti e dalla personalità degli autori. E penso in particolar modo alla passione con cui i ragazzi lavorarono allo strumento, realizzato su una sagoma del Guarneri del Gesù”. L’occasione della restituzione del bene sarà anche l’occasione per parlare dell’attività di promozione della musica nelle Case circondariali ed in particolare del progetto di liuteria che dieci anni fa ha reso l’istituto di pena cremonese protagonista di un progetto pilota interessante. Parteciperanno all’incontro di oggi Ornella Bellezza, ex direttrice della casa circondariale e attuale Garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà personale, Alessandra Abbado, presidente dell’Associazione Mozart14 nata per promuovere progetti sociali ed educativi voluti da Claudio Abbado e che ha promosso diverse attività musicali nella Casa circondariale di Bologna; Flaminio Valseriati, avvocato, che ha promosso azioni musicali nelle Case di pena di Canton Mombello e di Verziano; Tiziana Zanetti dell’Università degli Studi dell’Insubria, che da anni si occupa di arte e legalità, arte e rieducazione ed educazione civica attraverso l’arte. Coordinerà l’incontro Fabio Perrone, direttore delle attività culturali dell’Academia Cremonensis, che ha promosso il restauro funzionale del violino suonato per l’occasione da Angela Alessi. “Alla restituzione del violino restaurato abbiamo voluto affiancare una riflessione sulle esperienze musicali all’interno delle case circondariali italiane - conclude Fabio Perrone -, un modo per far passare l’idea e il pensiero che fare arte e artigianato artistico è un modo per ricostruire l’uomo e farne uscire il lato migliore, per incoraggiare la rinascita, proprio come la Fenice che risorge dalle sue ceneri”. Acqui Terme (Al). Inaugurato Sportello per chi chiede misure alternative al carcere di Daniele Prato La Stampa, 22 ottobre 2021 “Se non avessimo trovato questa nuova sede per l’Asca, dotando l’associazione socio assistenziale dell’Acquese di spazi adeguati alle sue attività, questo nuovo servizio non sarebbe mai arrivato sul territorio”. Il sindaco di Acqui, Lorenzo Lucchini, sottolinea come l’ex tribunale di piazza San Guido si stia trasformando in un aggregatore di servizi sempre più importante per la città. Ieri mattina 20 ottobre, c’era anche lui all’inaugurazione del nuovo sportello Uepe, l’Ufficio esecuzione penale esterna di Alessandria che dipende dal ministero della Giustizia e si occupa della stesura, del coordinamento, della gestione e monitoraggio delle attività per le persone condannate che chiedono di accedere alle misure alternative al carcere. Il nuovo servizio è stato ricavato nella sede dell’Asca, che al primo piano dell’ex tribunale ha traslocato nei mesi scorsi, e potranno usufruirne i destinatari di queste attività dell’Acquese e dell’Ovadese, 166 persone sulle mille seguite in provincia da sette assistenti sociali. “Intorno a loro ruotano anche familiari, servizi, istituzioni ed associazioni - ha spiegato ieri la direttrice provinciale dell’ufficio Uepe, Giuseppa Zavettieri. La maggiore presenza dell’ufficio favorirà un lavoro di rete più efficace, consentendo un utilizzo migliore delle risorse, anche economiche, messe in campo per i progetti del recupero e reinserimento sociale, garantendo una maggiore sicurezza del territorio”. All’Uepe, a cui si potrà accedere su appuntamento al mercoledì mattina, c’erano anche il presidente dell’Asca, Alessandro Vacca, e la responsabile dell’area tecnico sociale dell’ente, Donatella Poggio. Il servizio è un nuovo tassello del piano di rilancio dell’ex tribunale, che il Comune si è visto restituire dal ministero nel 2018. Accanto agli uffici superstiti (il giudice di pace e l’ordine degli avvocati), nei 4 mila metri quadri Palazzo Levi ha trovato posto per Asca, Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, Spazio giovani. È in corso anche la progettazione esecutiva per trasferire lì da via Crispi il Centro per l’impiego mentre negli ultimi spazi traslocherà l’Ecosportello Econet dall’ex Kaimano. “Valorizzare l’immobile è stato un impegno importante ma sta dando risultati - dice il sindaco -. L’Asca, con il nuovo sportello Uepe, ne è un esempio”. Ivrea (To). La Garante dei detenuti sarà rimossa dall’incarico ansa.it, 22 ottobre 2021 Si va verso la rimozione della Garante dei detenuti di Ivrea Paola Perinetto, che su Facebook ha paragonato il premier Draghi al terrorista Cesare Battisti. “Sono esterrefatto che una persona con incarichi istituzionali possa lasciarsi andare a tale pensiero e a pubblicarlo sui social - dice il sindaco di Ivrea, Stefano Sertoli - Stasera abbiamo convocato una capigruppo urgente. Lunedi l’ultima parola spetterà al Consiglio comunale”. D’accordo sulla rimozione anche il Pd: “Le espressioni della Garante sono inaccettabili, non è più compatibile con la carica pubblica ricoperta”, conferma il capogruppo Maurizio Perinetti. Il Garante nazionale chiede la rimozione di quello di Ivrea (La Sentinella del Canavese) - Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, letto quanto riportato nel post pubblicato dalla Garante dei detenuti del Comune di Ivrea, Paola Perinetto, l’inqualificabile parallelo da lei proposto e le valutazioni espresse, chiede che il sindaco e il consiglio comunale di Ivrea valutino la rimozione della Garante dall’incarico ricoperto. Il Garante nazionale chiede altresì in una nota che si stabiliscano finalmente delle linee omogenee affinché i Garanti localmente designati rispondano a criteri di indipendenza e professionalità.? Perinetto, garante dei detenuti nominata dal Comune di Ivrea, convinta no Green pass, aveva attaccato duramente il governo nella sua pagina Facebook. In particolare, ha colpito la foto del premier Mario Draghi accanto a quella di Cesare Battisti, il leader del Gruppo Proletari Armati per il Comunismo arrestato nei primi mesi del 2019 in Bolivia dopo una lunga latitanza. “Nella foto possiamo osservare un caso di estrema somiglianza - è scritto - Uno è un criminale senza scrupoli, l’altro è Cesare Battisti”. Non è l’unico intervento contro il Governo nella pagina Facebook della Garante. In particolare, Paola Perinetto ha difeso i portuali di Trieste che hanno protestato contro le decisioni relative al Green pass e attaccato la polizia. Paola Perinetto, 53 anni, è stata nominata Garante per i diritti dei detenuti dal consiglio comunale nell’ottobre 2018. Chieti. “L’essenza del carcere”: tra principi costituzionali, quotidianità e stereotipi ecoaltomolise.net, 22 ottobre 2021 Parlare del carcere è necessario. “Voci di dentro”, associazione attiva da oltre 10 anni nelle carceri di Chieti e Pescara, con laboratori per i detenuti e con progetti di integrazione durante e post carcere, prova a farlo. Il carcere è purtroppo un tabù e finisce alla ribalta solo in occasione di episodi drammatici e negativi, come pestaggi, suicidi o rivolte. Ma parlare del carcere è necessario. È necessario inquadrare natura e problemi nella giusta prospettiva, andando all’essenza vera del carcere. Qual è questa essenza? Quella di un’esperienza di sofferenza, un luogo e un percorso esistenziale meramente afflittivo della pena, nel senso morale, fisico e psichico della persona, e che purtroppo non riesce ad essere altro, annullando anche ogni finalità di sicurezza sociale della reclusione, dato l’alto tasso di recidiva di chi esce. Sul tema si terrà il prossimo 23 ottobre alle ore 17,00, presso l’ex Tempietto del Tricalle, oggi Centro di produzione culturale Tricalle Sistema Cultura, l’incontro pubblico L’essenza del carcere, organizzato da Voci di dentro in collaborazione con Mirare cooperativa di comunità urbana Scarl e la Camera Penale di Pisa. L’incontro e la mostra puntano a mettere sotto gli occhi della collettività, che del carcere ha una lettura deformata anche dai media, problemi vecchi e ancora attuali: principi costituzionali, sistemi di norme e regolamenti, realtà delle strutture detentive, figure professionali, quotidianità, stereotipi. La verità nuda - nelle 50 foto della Camera penale di Pisa, esposte in mostra, e pubblicate anche negli ultimi due numeri della Rivista Voci di dentro - è quella di un contenitore avvilente per un’umanità che più che di umani sembra fatta di dannati, di “scarti sociali”. Relatori: Sandro Bonvissuto, scrittore, autore di “Dentro” Mauro Armuzzi, scrittore e artista musicale, autore di “Santa Suerte. Una storia Underground” Serena Caputo, avvocato, Vicepresidente della Camera Penale di Pisa, coautrice del Progetto fotografico “Come polvere sotto il tappeto Dario Esposito, agente di polizia penitenziaria, scrittore, autore di “Oltre le sbarre” Francesco Lo Piccolo, giornalista, Voci di dentro Giuseppe Mosconi, Professore ordinario di Sociologia del diritto, Università di Padova Elisa Mauri, psicologa clinica, psicoterapeuta, autrice di “Perché il carcere?” Liliana Montereale, criminologa, psicologa penitenziaria Stefano Pallotta, Presidente dell’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo L’incontro sarà moderato da Claudio Tucci, giornalista, Voci di dentro e Antonella La Morgia, consulente comunicazione, Voci di dentro, membro di Sulleregole. Iniziativa nell’ambito del progetto News No Fake - Voci contro il virus, finanziato da Regione Abruzzo. Con la partecipazione di Ministero del Lavoro, Regione Abruzzo, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Chieti e Pescara, Tricalle Sistema Cultura, Cooperativa Mirare, Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo, Csv Abruzzo. Piacenza. Ciak tra le sbarre: il carcere di diventa un set, è caccia alle comparse Libertà, 22 ottobre 2021 Il carcere di Piacenza si appresta a trasformarsi in set. Le autorizzazioni da parte dell’amministrazione penitenziaria sono già arrivate, nero su bianco, il ciak è fissato a novembre. È caccia, da qualche giorno, a trovare comparse. Uomini, esclusivamente, di varia età, che saranno chiamati a fare da figuranti nelle scene che verranno girate alle Novate nei panni sia di detenuti che di guardie, compresi agenti antisommossa. Nello scouting in corso particolare riguardo viene posto alla ricerca di uomini di origini nordafricane. Dietro la macchina da presa vi sarà il regista romano Marco Santarelli, mentre tra i produttori della pellicola figurerebbe anche il pluripremiato regista piacentino Marco Bellocchio. È della Kavac Film, la casa di produzione che ha messo la firma sotto molte opere del regista originario di Bobbio, l’annuncio comparso negli ultimi giorni su un popolare gruppo di Facebook di domande e offerte di lavoro. Progetto educativo antimafia del centro Pio La Torre, il ministro Bianchi apre la nuova edizione palermotoday.it, 22 ottobre 2021 Oltre 160 le scuole collegate in diretta streaming sul sito dell’associazione, 12 le carceri da Nord a Sud Italia. Tra i relatori anche Walter Veltroni, al lavoro su un documentario sul sindacalista. Il membro del governo Draghi nel suo intervento: “L’insegnamento di Pio La Torre il nostro sillabario della legalità” “L’insegnamento di Pio La Torre è ancora fortissimo ed è parte di una sorta di ‘sillabario della legalità’ che deve stare alla base anche di questo straordinario sforzo che stiamo facendo tutti per uscire dalla pandemia”. A sostenerlo è il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, intervenuto alla prima conferenza del progetto educativo antimafia e antiviolenza del centro che porta il nome del sindacalista ucciso dalla mafia che quest’anno vede coinvolte, da Nord a Sud Italia, 160 scuole e 12 carceri. “Credo che questo progetto che proponiamo alle nostre scuole - ha detto il ministro Bianchi - sia un momento di riflessione per tutti. La nostra scuola ritrovata deve essere una scuola di comunità e di legalità e la legalità in Italia ha i nomi di tutti coloro che sono caduti per mano della mafia, del terrorismo e del malaffare”. Il tema dell’incontro e gli ospiti - “Il quarantesimo anniversario della legge Rognoni-La Torre: evoluzione giuridica, politica ed economica” è stato il tema dell’incontro, trasmesso in diretta streaming sul sito dell’associazione e sul portale “Ansa Legalità& Scuola”. A parlarne, con gli studenti e il presidente dell’associazione, Vito Lo Monaco, sono stati: Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo; Franco La Torre, figlio di Pio; Vincenzo Militello, docente di diritto penale all’Università di Palermo e Walter Veltroni, politico, scrittore, giornalista e regista, al lavoro su un documentario sulla vita di Pio La Torre. Diverse le domande arrivate dagli studenti partecipanti, dall’omertà alle confische, dal rapporto tra Covid e criminalità organizzata alle collusioni tra mafia e politica. All’inizio dell’incontro, visibile sul canale YouTube e sul sito del centro Pio La Torre è stato proiettato un video realizzato dai volontari del servizio civile sulla legge Rognoni-La Torre e sui beni confiscati. “Con la legge Rognoni-La Torre - ha detto Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo - finisce la stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove. Il primo a parlare di terrorismo mafioso era stato proprio Pio La Torre, nel 1966, cogliendo nella guerra di mafia il senso della sfida allo Stato, qualcosa che andava oltre l’associazione per delinquere. Il Covid19 ci ha resi consapevoli della fragilità di ciascuno e dell’impossibilità per ogni Stato di salvarsi da solo. La pandemia può offrire la tentazione di un welfare mafioso - ha aggiunto Balsamo - per questo va costruita un’alternativa forte, riducendo le disuguaglianze. La lotta alla mafia è una lotta di liberazione per gli individui e le comunità e credo che uno degli impegni della prossima generazione sia affrontare fenomeni criminali globali con una logica di solidarietà”. “C’è un radicamento delle mafie nei territori che rappresenta un problema, perché accanto alle organizzazioni criminali finanziarie e transnazionali c’è un dato che va colto per aggiornare i metodi di contrasto - ha dichiarato il docente di diritto penale Vincenzo Militello - se guardiamo alla cosiddetta “mafia dei pascoli” della zona dei Nebrodi c’è stato una sorta di mimetismo per il quale la mafia agricola si è avvalsa di forme di sovvenzione pubblica di fonte europea che le hanno consentito di sfruttare strumenti moderni e allo stesso tempo restare ancorata alle proprie radici”. “La conoscenza è l’arma fondamentale per sconfiggere le mafie nel presente e nel prossimo futuro. Non bastano le rituali condanne della mafia nelle ricorrenze - ha detto Vito Lo Monaco - è necessaria un’azione quotidiana di prevenzione e una visione concreta per un nuovo modello di sviluppo che elimini le disuguaglianze economiche, sociali, di genere, territoriali, ambientali. Su questi temi il Centro renderà pubblici i contributi che verranno dagli studenti con scritti, video, ricerche per renderli cittadini consapevoli ai quali consegnare il testimone per liberarci da ogni forma di sopraffazione e d’ingiustizia”. “Mi auguro che nelle scuole gli insegnanti aiutino gli studenti ad arrivare a leggere e capire la storia del Novecento, ad avere dentro di sé gli anticorpi per evitare che le grandi tragedie del 900, tra cui la mafia, si ripetano - ha detto il regista Walter Veltroni - Questa generazione ha nelle sue mani una possibilità di comunicare che nessun’altra prima ha mai avuto. Noi potevamo andare a vedere i film contro la mafia, da “Il sasso in bocca” di Giuseppe Ferrara ai film di Franco Rosi, ma non potevamo fare dei film contro la mafia o scrivere delle cose che circolassero. Questa generazione ha una quantità di strumenti di comunicazione che non ha paragone con la storia umana. La cosa che si può e che le scuole potrebbero contribuire a fare è esprimere questa coscienza nella forma con la quale i ragazzi oggi comunicano. La mafia si alimenta di un collasso culturale, civile, etico, per cui tutto ciò che può rafforzare le dighe di questo collasso è utile. Ai ragazzi dico: fate quello che abitualmente fate con un intento civile, per suscitare rabbia, indignazione, speranza, attorno a un tema come la mafia che ha segnato il destino del nostro Paese”. “Mio padre è nato e cresciuto un ambiente intriso di mafiosità, in una contrada di Palermo dove i grandi proprietari terrieri davano ai residenti contadini, poveri, l’unico lavoro possibile - ha detto Franco La Torre, figlio di Pio, nel corso del suo intervento - e il tramite di collocamento erano i mafiosi stessi. Non ne parlavamo nelle nostre conversazioni quotidiane, ma noi familiari eravamo consapevoli del rischio che correva. C’è stato un momento, però, che ricordo: ed è stato quando mio padre aveva deciso, come tutti i suoi collaboratori negli organi dirigenti nel Pci siciliano, di dotarsi del porto d’armi e di prendere una pistola. Conoscendo i suoi limiti nel maneggiare attrezzi come martelli e forbici lo abbiamo preso in giro e infatti quella pistola non è mai uscita dal cassetto del comodino della camera da letto. Detto questo, non si è mai pronti all’idea che un familiare possa lasciarci. Ancora oggi ho difficoltà a ricostruire le 48 ore successive all’omicidio di mio padre”. “Ariaferma”, il problema più grande per le carceri è la nostra ignoranza di Roberto Saviano Corriere della Sera, 22 ottobre 2021 Non abbiamo idea di come funzioni lì dentro e forse neanche abbiamo voglia di saperlo. Non conosciamo il quotidiano, come i detenuti occupano il tempo, se hanno la possibilità di essere curati, aiutati. Il film di Di Costanzo, con Toni Servillo, ci farà bene. Una scena di “Ariaferma”, regia di Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo e Silvio Orlando. Ambientato in un carcere in via di dismissione, il film, prodotto da Tempesta con Rai Cinema, è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia ed è uscito nelle sale il 14 ottobre, distribuito da Vision. Il carcere ha tanti problemi, ma forse il più grande siamo noi: noi che stiamo fuori; noi che non abbiamo idea di come funzioni la vita in detenzione, noi che probabilmente non abbiamo nemmeno voglia di saperlo. Questo mio pensiero potrebbe sembrare un paradosso, soprattutto agli occhi di chi invece sa esattamente quali sono le carenze strutturali di una istituzione che ogni giorno tradisce la sua missione e la tradisce per tutti, per i detenuti e per chi, a vario titolo, la frequenta. E noi non abbiamo idea di quante siano le figure professionali che servono al carcere, che ogni giorno varcano la soglia degli istituti penitenziari e che un po’ detenuti finiscono per essere anche loro. E questo no, non è un artificio retorico. Quello che voglio dire non è che “sono un po’ detenuti anche loro” perché lavorano in un luogo di reclusione, no. Lo sono invece perché vorrebbero che quel luogo funzionasse, che la missione di quel luogo si realizzasse. “Sono un po’ detenuti anche loro” perché nonostante il lavoro quotidiano, spesso sfiancate, usurante, quasi del tutto privo di soddisfazioni, sanno di essere in pochi, di non riuscire a farsi carico di tutto. Mi rendo conto che quando parlo di carceri, avendo spesso pochissimo tempo e pochissimo spazio - non è un tema che porta attenzione, né tantomeno consenso - cerco di essere diretto, parlo dell’epifenomeno, della punta dell’iceberg, di ciò che è visibile perché il maggior numero di persone possa interessarsene e magari approfondire. Se dico che le carceri sono palestre di crimine - cosa vera - attiro subito l’attenzione di chi mi ascolta o legge; se però invito a riflettere su cosa sia la vita in detenzione e sul mancato rispetto dei diritti dei detenuti, già so che la risposta che mi verrà data è: se non volevano stare in carcere non avrebbero dovuto commettere reati. È questo pensiero banale, apparentemente innocuo, ad aver fornito a tutti i governi, da che ho memoria, il migliore degli alibi possibili per lasciare le cose come stanno, per promettere al più un incremento dell’edilizia penitenziaria senza che sia mai stato possibile dare avvio, tra i non addetti ai lavori, a un dibattito serio, nemmeno al cospetto di eventi straordinariamente gravi, come i 13 morti in carcere a marzo 2020 e “l’orribile mattanza” avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ad aprile dello stesso anno. Ma la verità è che un dibattito serio non può prescindere dalla conoscenza, e conoscere non significa solo essere aggiornati sul numero di suicidi in carcere o sui maltrattamenti; sono episodi dai quali non si può certo prescindere, ma ci manca un dato essenziale per comprendere davvero cosa sia il carcere: l’idea del quotidiano, di come si svolge la vita in reclusione, di come i detenuti occupano il loro tempo, se hanno la possibilità di essere curati, ascoltati, aiutati in un percorso che è quanto di più vicino esista alla morte. Ho visto Ariaferma, il film di Leonardo Di Costanzo con Toni Servillo e Silvio Orlando ambientato in carcere. La fotografia che ho scelto è un frame del film e ritrae la polizia penitenziaria in una sezione del penitenziario che rappresenta il carcere nel carcere. È stata una visione straniante, quasi onirica, spero possiate vedere il film per confrontare il vostro giudizio con il mio. Lo straniamento risiede in questo: dove lo spettatore che non conosce il carcere vede sopruso, io vedo umanità; dove chi non conosce il carcere vede pericolo, io vedo vita, che per essere tale deve avere margini di casualità. La vicenda narrata dal film si è verificata, ma non come è stata descritta. Si è verificata quando a marzo 2020, con l’inizio della pandemia, l’aria in carcere si è fermata. Niente più colloqui con i parenti e paura: del contagio, del virus che in comunità chiuse è di gran lunga più letale. Eppure la sospensione senza virus ci consente di osservare un quotidiano che per chiunque abbia un briciolo di pietà deve essere inaccettabile. Provate voi a essere cambiati di cella all’improvviso quando credevate di poter essere invece trasferiti. Provate voi a non poter più cucinare ciò che mangiate, ma a dover consumare pasti precotti, sempre. Provate voi a trovarvi in una condizione di totale sospensione, che si aggiunge alla reclusione, senza poter parlare con un familiare, con una persona a voi cara, senza psicologi, senza educatori, senza aree trattamentali e senza sapere quando le cose potranno cambiare. “Sì, ma io non ho commesso nessun reato” non è il pensiero giusto, non è la risposta giusta. La risposta giusta è che nel carcere dobbiamo entrare, entrarci anche fisicamente per capire, quando giudichiamo, cosa stiamo giudicando. Ariaferma è un passo significativo in questa direzione. La libertà non ha colore e non va strumentalizzata di Paolo Franchi Corriere della Sera, 22 ottobre 2021 Gli slogan e gli obiettivi. L’attacco alla Cgil è stato l’attacco al ruolo del sindacato e all’ambizione di far pesare nella definizione stessa dell’interesse generale il punto di vista dei lavoratori. “Libertà!”, scandivano, attaccando la sede del più grande sindacato italiano, i neofascisti (o peggio) di Forza Nuova. “Libertà!”, avevano gridato poco prima per le strade di Roma migliaia e migliaia di manifestanti (molto relativamente) pacifici. “Libertà!” si continua a rivendicare sui social e nelle piazze No Vax, non sempre e non necessariamente “nere”. Come se un mondo minoritario, certo, ma socialmente e politicamente significativo avesse fatto propri, capovolgendone il senso, i versi, di cui con ogni probabilità ignora l’esistenza, vergati da Paul Eluard, resistente, nella Francia occupata: “E per la forza di una parola/Io ricomincio la mia vita/Sono nato per conoscerti/Per nominarti/Libertà”. Scriveva, Eluard, nel 1942. Nel gennaio del 1941, Franklin Delano Roosevelt aveva indicato nella libertà di parola e di espressione, nella libertà religiosa, nella libertà dal bisogno e nella libertà dalla paura, i quattro fondamenti dell’unica pace duratura possibile. All’ingresso in guerra degli Stati Uniti mancava quasi un anno, ma nel suo messaggio sullo Stato dell’Unione sulle “quattro libertà” Roosevelt già ne indicava le motivazioni etico - politiche di fondo. Libertà è una parola che non conosce sinonimi. Non è né di destra né di sinistra. È stata declinata in modi molto diversi, e anche opposti. Ma per buona parte delle generazioni cresciute in Occidente dopo la seconda guerra mondiale fanno ancora testo le parole di Eluard e quelle di Roosevelt, che suggellano il grande compromesso democratico grazie al quale, almeno in questo spicchio di mondo, hanno a lungo vissuto infinitamente meglio, e non solo in termini materiali, delle generazioni precedenti, e con ogni probabilità anche di quelle successive. Chi continua, nonostante tutto, a vederla così, non dovrebbe sottovalutare le sottrazioni di diritti, e quindi di libertà, che la pandemia, o meglio la gestione della pandemia, si è portata appresso; e dovrebbe interrogarsi sul rischio che continui a portarsele appresso anche la ripresa. Non c’entrano, o c’entrano parecchio alla lontana, i distanziamenti, le mascherine, e neppure il green pass della discordia. Di cosa si tratti, ce lo ricorda da ultimo il rapporto di “A buon diritto onlus”, di cui ha riferito giorni fa su Repubblica Viola Giannoli: si va dai 180mila migranti in attesa di permesso ai “nuovissimi poveri” che fanno per la prima volta la fila alla Caritas, dagli anziani afflitti da malattie psichiatriche nelle Rsa ai bambini impossibilitati a essere introdotti nel percorso, già tanto arduo, delle adozioni, dai ragazzi (sei su dieci) per i quali seguire le lezioni da remoto della Dad è stata un’impresa quasi proibitiva all’impennata della violenza sulle donne, che lungo la pandemia hanno perso il lavoro in misura nettamente superiore agli uomini. Ma tutti questi, e altri ancora, sono soggetti che ben difficilmente scenderanno insieme in piazza reclamando le libertà (economiche, sociali, culturali, civili) che sono state loro sottratte. A meno che qualcuno non si risolva a dare loro ascolto, ma anche e soprattutto voce. E qui entra in ballo, eccome, pure il sindacato o, più precisamente, il sindacato confederale. Che gode da molto tempo, e non del tutto immeritatamente, di pessima stampa, e viene rappresentato, anche all’indomani della manifestazione di Piazza San Giovanni, come un ingombrante orpello del passato, da tenere a debita distanza se non si vuole tornare agli anni Settanta. Ma ci deve essere pure una ragione se quelli di Forza Nuova (e non solo loro) hanno eretto la Cgil al rango di simbolo del Male. Perché la considerano, al pari del Parlamento, un’istituzione chiave dello Stato liberticida e della “dittatura sanitaria”? Ci sarà pure questo, gli esaltati sono pericolosi anche perché, a differenza dei provocatori professionali, credono davvero in quello che strillano. Ma c’è dell’altro. In Italia i sindacati confederali non sono soltanto le tre centrali (e a tanti anni di distanza dalla scissione del 1948 è difficile spiegare perché siano ancora tre, e non una) che raggruppano sotto la loro egida i sindacati di categoria. Le loro storie sono nutrite dall’ambizione di far pesare nella definizione stessa dell’interesse generale il punto di vista dei lavoratori, ma forse prima ancora quello del lavoro, il lavoro che c’è e il lavoro che manca; di essere interlocutori ineludibili della controparte e del governo proprio perché, con tutti i loro limiti, sono una grande forza radicata nella società, infinitamente di più degli attuali partiti, o presunti tali. In una Repubblica fondata sul lavoro il sindacalismo confederale è per così dire costituzionalmente un presidio democratico essenziale e insostituibile. Può darsi, anzi, è certo, che sia stato e sia tuttora largamente al di sotto del compito. Ma, se rinunciasse a porsi questo obiettivo, a pagarne le conseguenze non sarebbero solo Cgil, Cisl e Uil. Sarebbero anche la nostra democrazia e, appunto, la libertà, o forse meglio ancora le libertà al plurale, come le quattro indicate da Roosevelt, di cui si nutre. Delle libertà da nominare ogni giorno e in ogni luogo, come la libertà di Eluard, ma da scrivere rigorosamente con la minuscola, perché concrete, operanti, guadagnate o perdute sul campo in un confronto quotidiano con le vite di donne e uomini in carne ed ossa: l’esatto opposto della Libertà con la maiuscola e il punto esclamativo invocata dalle piazze, spesso più affollate del previsto, dei No Green pass. Chissà, magari, prima di storcere il naso e di ironizzare sul sapore retro del messaggio di piazza San Giovanni, sarebbe meglio ragionarci un po’ su. I Paesi ricchi tradiscono la parola data sulle donazioni di vaccini di Andrea Capocci Il Manifesto, 22 ottobre 2021 Covid-21. Il rapporto della People’s Vaccine Alliance: consegnato solo il 14% delle dosi promesse alle nazioni a basso e medio reddito. Le aziende farmaceutiche invece non non forniscono le fiale concordate con Covax e non rinunciano neanche ai brevetti. All’ultimo G20 della salute di Roma di inizio settembre, il ministro della salute Roberto Speranza aveva utilizzato la formula del “vaccino bene comune”. Ma oltre alle formule, di quell’espressione non è rimasto nulla. Lo dimostra il rapporto “Una dose di realtà” pubblicato ieri dalla People’s Vaccine Alliance, una coalizione di Ong di cui fanno parte Oxfam, Emergency, Amnesty International e Unaids. “Il G7 e il Team Europe (cioè Ue più Islanda e Norvegia) hanno consegnato ai paesi a basso e medio reddito solo il 14% delle dosi, cioè 261 milioni sugli 1,8 miliardi promessi”, si legge nel rapporto. “Il governo britannico ha consegnato solo 9,6 milioni - meno del 10% - dei 100 milioni di dosi promesse alle nazioni più povere, e ha per di più usufruito di mezzo milione di dosi da Covax” denunciano Sara Albiani di Oxfam e Rossella Miccio di Emergency. “Gli Stati Uniti hanno consegnato quasi 177 milioni di dosi su 1,1 miliardi promesse, la Germania 12,3 su 100 milioni e così via”. L’Italia ne ha promesse 45 milioni ma per ora è ferma a circa un quarto dell’obiettivo. Paradossalmente, il grosso delle donazioni dai paesi che se le possono permettere è andato verso altri Paesi ad alto reddito, che rappresentano il 16% della popolazione ma hanno ricevuto il 49% delle dosi donate. I paesi a basso reddito, dove vive l’8% della popolazione mondiale, devono dividersi appena l’1% delle dosi donate dai paesi ricchi. “Le nazioni ricche e le aziende farmaceutiche stanno vergognosamente fallendo nel mantenere le loro promesse, e allo stesso tempo bloccano le uniche soluzioni possibili, ossia garantire che i Paesi in via di sviluppo abbiano la capacità di produrre autonomamente i propri vaccini” sottolinea Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Unaids. “È tragicamente chiaro che non si può fare affidamento sulla generosità e sulla beneficenza dei Paesi ricchi e delle aziende farmaceutiche”. Anche l’iniziativa Covax dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sta fallendo, ma in questo caso la responsabilità e delle aziende. Dei 994 milioni di dosi promesse a Covax da Johnson & Johnson, Moderna, Oxford/AstraZeneca e Pfizer/BioNTech, solo 120 milioni (il 12%) sono state effettivamente consegnate, mentre ai paesi ricchi ne sono state spedite 1,8 miliardi. Johnson & Johnson non hanno fornito nemmeno una delle fiale promesse, rispettivamente 200 e 30 milioni. Le aziende hanno dichiarato di essere in grado di produrre 7,5 miliardi di dosi nel 2021, pur di spegnere sul nascere la pressione a rinunciare ai brevetti. Ma sono più di quante ne possono produrre davvero: “agli attuali ritmi potrebbero arrivare a produrne 6,2 miliardi entro l’anno, con un deficit di oltre 1,3 miliardi di dosi” spiegano Albiani e Miccio. Ne servono altrettante per il resto del mondo. Fra una settimana, i leader di governo si incontreranno di nuovo al G20 e il tema dell’accesso globale ai vaccini sarà in agenda. Ue (su spinta tedesca) e Regno Unito sono fermi nel no alla richiesta di India e Sudafrica di sospendere i brevetti su vaccini, farmaci e test anti-pandemia. Ma ancora 46 dei 54 stati africani sono sotto la soglia del 10% della popolazione vaccinata, obiettivo che l’Oms si era data per la fine di settembre. L’obiettivo successivo, vaccinare almeno il 40% della popolazione di ogni paese entro la fine dell’anno, appare altrettanto irraggiungibile. La People’s Vaccine Alliance chiede dunque al più presto di stabilire la moratoria sui brevetti, condividere conoscenze e know how, investire in impianti produttivi nei paesi a basso reddito e redistribuire i vaccini in modo da raggiungere al più presto, o almeno non mancare del tutto, gli obiettivi fissati dall’Oms. L’Europa esporta sorveglianza per proteggere i suoi confini di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 22 ottobre 2021 Il dossier. È una denuncia gravissima quella che il 20 ottobre hanno presentato, insieme, sei organizzazioni internazionali: Privacy International, Sea-Watch, Edri, AccessNow, Homo Digitalis, col sostegno della federazione internazionale per i diritti. Il muro, il muro digitale della fortezza Europa. Di qua, ancora le regole, le leggi, un sostanziale rispetto - minacciato certo ma insomma in qualche modo ancora efficace - rispetto della privacy. Di là, un mondo di senza diritti. Tanto meno diritti digitali. Ed è proprio la fortezza Europa a spingere verso quelle violazioni. È una denuncia gravissima quella che il 20 ottobre hanno presentato, insieme, sei organizzazioni internazionali: Privacy International, Sea-Watch, Edri, AccessNow, Homo Digitalis, col sostegno della federazione internazionale per i diritti. Tutte organizzazioni non governative autorevolissime. Insieme - utilizzando le normative europee sulla trasparenza -, dopo lunghissime battaglie burocratiche, sono riuscite a leggere i resoconti di tanti enti del vecchio continente. E scoprire così che l’Unione fa di tutto per ampliare la “sorveglianza di massa” sulle persone al di fuori dei propri confini. Con un tornaconto evidente: il controllo delle proprie frontiere. Gli esempi? Tanti. E tutti - tutti - difficili da accettare per istituzioni democratiche. Si viene così a sapere che nell’aprile di due anni fa, il Cepol - l’agenzia europea “di contrasto” a tutto ciò che minaccia la sicurezza - ha fatto corsi di formazione alla polizia algerina per spiegare come “infiltrarsi” nei social durante le proteste. Come creare account fasulli, come controllare ed identificare gli organizzatori delle manifestazioni. Ma qui, siamo ancora ai primi rudimenti. Un po’ più avanzato il corso che - sempre il Cepol - ha fornito agli uomini dell’intelligence marocchina, su come utilizzare Catcher IMSI, lo strumento - il terribile strumento telematico - che consente di identificare immediatamente tutti i dispositivi mobili in un’area. Consente cioè di sapere chi sta manifestando a quell’ora, in quella piazza. Corso che comunque deve esser partito da una “base” di conoscenze già avanzate, visto che il Marocco è esattamente uno di quei paesi totalitari finito sul banco degli imputati per aver usato Pegasus, lo spyware israeliano che consente di “curiosare” fra i cellulari di chiunque. Ma nel dossier - spaventosamente lungo - non c’è solo quell’agenzia che fa scuola alle polizie meno democratiche. I documenti raccolti chiamano in causa le più grandi autorità dell’Unione. I responsabili del fondo fiduciario per l’Africa, per esempio. Si è venuti così a sapere che il Niger - già indicato all’epoca di Minniti come uno degli hub strategici per provare a fermare i flussi migratori - ha beneficiato di undici milioni e mezzo di euro per acquistare droni, telecamere e software di sorveglianza. E con quei soldi è stato costruito - in uno dei paesi più poveri subsahariani - un avanzatissimo centro di intercettazione di tutto il traffico mobile. Di più e di più grave. L’Europa ha sostanzialmente imposto al governo di Niamey il varo di una legge che permette ai paesi europei di chiedere ed ottenere i dati personali dei cittadini nigeriani. Così, alle frontiere europee, gli agenti sapranno subito se un migrante viene da quel paese e potranno immediatamente rispedirlo indietro. Non basta? C’è il Senegal, paese al quale sono stati concessi 28 milioni di euro per sviluppare un sistema di riconoscimento biometrico. Proprio in quel paese che tutti consideravano “modello di stabilità” in funzione anti-jahidista e che invece ha visto, pochi mesi fa, la rivolta dei giovani e degli studenti, che sono la metà esatta della popolazione. I loro volti ora possono essere schedati. Grazie all’Europa. Meno dati e meno dettagli, le Ong sono riuscite a conoscere su come Frontex abbia addestrato quelle bande che i media occidentali chiamano “guardia costiera libica”. Si sa solo che “esperti” hanno fornito loro strumenti per localizzare dispositivi mobili e per acquisire le impronte digitali di persone che si rifiutano di fornirle. Di più, si è venuti a sapere invece (a pagina 112 del dossier) su come l’Europa abbia “istruito” la polizia di frontiera del Montenegro, sempre in funzione anti migranti. E si ritorna al Cepol che ha fatto dei corsi a quegli agenti per spiegar loro come “adattare” TrueCaller. Che è un software - un po’ costoso - accessibile a tutti, che permette, più o meno, di identificare chi ti chiama da un cellulare ma soprattutto è usato per bloccare i contatti indesiderati. I tecnici della Cepol hanno invece spiegato agli agenti montenegrini come si può utilizzare quell’applicazione per sapere chi sta provando a superare le frontiere della fortezza. Ecco perché le ong hanno scritto al difensore civico (Ombudsman) dell’Unione europea. Si appellano ad una norma che imporrebbe quantomeno una “valutazione del rischio” prima di trasferire in paesi extracomunitari dispositivi e strumentazione tecnologica. Ma c’è poco da aspettarsi, visto che qualche tempo fa - in un’analoga denuncia sugli strumenti telematici affidati alla Bosnia - lo stesso responsabile, come scrive euractiv, aveva risposta che “non c’è alcun obbligo o necessità per la Commissione di effettuare una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati”. Tanto più per i progetti del Fondo Fiduciario europeo. E allora? Le ong nella loro lettera chiedono all’Europa di “correggere il tiro”. Di impegnarsi a far rispettare anche negli altri paesi le regole che si è dotata, chiedono di interrompere tutti gli aiuti alla “sorveglianza di massa”, che è diventato il primo strumento per distruggere le vite dei migranti, delle minoranze. Dei dissidenti. Chiedono di riflettere su quel che è avvenuto in Afghanistan, dove i database sono finiti nelle mani dei talebani. Chiedono il rispetto dei diritti umani. Come sempre. Con una lettera. E sembra un po’ poco rispetto a quello che Marwa Fatafta, di AccessNow, definisce la vergogna di un continente che “basta che elimini dalla propria vista le violenze per sentirsi l’anima in pace”. Sembra un po’ poco. Forse perché il compito delle Ong si esaurisce nella denuncia e nell’aiuto. Il resto spetterebbe alla politica. Colombia. “I morti non parlano”: il libro sugli ultimi settanta anni di storia di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 22 ottobre 2021 A Roma presso la Casa delle Donne la presentazione del lavoro di indagine di Flavia Famà. L’autrice, figlia dell’avvocato Serafino Famà assassinato dalla mafia nel 1995. La Colombia tradita, metafora del mondo contemporaneo, con i suoi morti - migliaia - e le tante verità taciute torna a chiedere giustizia attraverso un lavoro scrupoloso ed esaustivo. “Qui si parla di un Paese con una costituzione democratica, non di una dittatura militare. Questa annotazione semplice e forse anche ovvia rivela in realtà il grande pozzo nero del nostro tempo”. A scriverlo è Nando Dalla Chiesa, che ha curato la prefazione del libro “I morti non parlano - La guerra infinita in Colombia” di Flavia Famà, edito da Villaggio Maori Edizioni. Oggi la presentazione. La presentazione, oggi, a Roma alle 17.30 presso la Casa internazionale delle donne. Interverranno, oltre all’autrice, Juan Camilo Zuluaga del Nodo Italia Comisión de la Verdad e Giulia Poscetti del settore internazionale di Libera Associazioni Nomi e Numeri contro le mafie. Sangue, stragi, ingiustizie, violenze, censure, depistaggi, insabbiamenti segnano da oltre 70 anni la storia del Paese latinoamericano. Ciò che non va trascurato, secondo Nando Dalla Chiesa, è che tutto scorre “dentro qualcosa che, per quanto precaria e traballante e impaurita, è pur sempre una democrazia”. È qualcosa che ci riguarda. Questa consapevolezza Flavia Famà l’ha usata per indagare coniugando la ricostruzione storica a un approccio umano, fatto di solidarietà e impegno civile. C’è una pluralità di interessi in campo: narcotrafficanti, proprietari terrieri, multinazionali, governi corrotti e collusi. La storia colombiana è un campo minato che l’autrice ha conosciuto personalmente con Libera nel 2014. Nonostante le cerimonie ampollose con cui si è messa nero su bianco la parola “pace” dinanzi ai riflettori di tutto il mondo nel 2016, per la popolazione la tregua è ancora lontana. Sono milioni le vittime: di sfollati, i desplazados, nel 2010 se ne contavano 250mila; 8 milioni dal 1985 al 2020; 120 mila i desaparecidos; migliaia i falsos positivos, cioè coloro che dopo essere spariti sono stati dichiarati morti in combattimento, pur non avendo nulla a che fare con la guerriglia. “Una delle particolarità del conflitto colombiano è la contemporanea esistenza di diversi conflitti e di vari gruppi armati, sia legali che illegali”, spiega. All’origine delle guerre c’è l’agognata riforma agraria, chiesta dai contadini e mai concessa. Dalla nascita del paramilitarismo al narcotraffico. Ci sono avvenimenti più cruenti e significativi di altri, come l’assalto al Palazzo di Giustizia di Bogotá del 1985 o la strage del Mapiripán. “I morti non parlano” li attraversa con la testimonianza di chi li ha vissuti e ne è rimasto vittima. Sparizioni forzate, uccisioni extragiudiziali e sistematiche, il ruolo dei governi: quella che racconta Flavia Famà è una storia che trascende i confini nazionali e coinvolge Stati Uniti, Israele e Italia. Tutti “uniti - racconta - da una lunghissima striscia a tratti invisibile di violenza, sangue e cocaina”. Sono storie che fluttuano nel grande marasma della storia nazionale e internazionale. La testimonianza. È quella di Juan Camilo Zuluaga, figlio di due massimi esponenti del gruppo guerrigliero Ejército popular de liberación; la voce, interna alle Farc, della contadina, diventata guerrigliera e poi parlamentare, Sandra Ramírez; il racconto del rapimento di Íngrid Betancourt, candidata nel 2002 alle elezioni presidenziali. E poi i gruppi paramilitari, il ruolo di Salvatore Mancuso, la collaborazione dei narcotrafficanti con la ‘ndrangheta, le tonnellate di cocaina purissima arrivate nel porto di Gioia Tauro; i casi ancora irrisolti di falsos positivos. Gli attivisti dei diritti umani, le comunità contadine, i popoli indigeni e i sindacalisti, tra le categorie più segnate dalla violenza. “I morti non parlano” è un libro dal titolo eloquente, che ha la forza e una dovizia di particolari tali da riuscire a restituire un volto a chi non lo ha più. Congo. “Basta silenzi sulla morte di Luca. Dall’Onu un muro di gomma” di Raffaella Scuderi La Repubblica, 22 ottobre 2021 L’accusa del padre di Attanasio: “Indagini a un punto morto. Rischiamo l’insabbiamento. Il Programma alimentare mondiale non collabora”. “Più il tempo passa e più si rischia l’insabbiamento. Abbiamo bisogno di uno Stato con la schiena dritta che non si genufletta davanti alle grandi potenze come l’Onu”. Parla Salvatore, il padre di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano ucciso in un attentato nella Repubblica Democratica del Congo il 22 febbraio insieme alla guardia del corpo Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. Un piccolo collettivo di giornalisti investigativi che si chiama Darkside, lo ha invitato martedì sera alla diretta social: “Attanasio, morte di un ambasciatore”, con Matteo Giusti, autore dell’omonimo libro, e l’attivista congolese John Mpaliza. Il dottor Salvatore ha accettato e ha denunciato: “Le indagini sono a un punto morto. A cosa è valso darsi da fare per gli altri come ha fatto Luca, se non c’è giustizia?” Il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, in una recente visita a Roma, ha dichiarato di avere arrestato quattro balordi, presunti complici dell’attentato. Dottor Attanasio che idea si è fatto di quello che è successo? “È stato un agguato in piena regola. Cercavano proprio lui. Non è stata l’azione di criminali comuni”. Perché proprio l’ambasciatore italiano? “Questo è il punto. Non lo so. Luca era più trasparente dell’acqua. La sera prima era stata diramata un’allerta su Goma, di cui Kinshasa non sapeva nulla, ed erano stati richiamati i militari che presidiavano la zona in cui è stato ucciso. È un caso? Vicino al luogo dell’attentato c’era una postazione militare. Al momento dell’attacco era vuota”. Cosa si è fatto finora per consegnare alla giustizia i killer di Luca? “Poco. Bisogna fare pressione sul nostro governo perché si muova. C’è molta reticenza, molta omertà. La gente ha paura di parlare. E non c’è collaborazione da parte congolese” L’agenzia Pam dell’Onu (Programma alimentare mondiale) era responsabile della sicurezza durante il viaggio in cui l’ambasciatore è stato ucciso. Collabora? “No. Si trincera dietro lo scudo dell’immunità. L’Onu è un colosso e ci sono delle forti resistenze. Per i nostri inquirenti è difficile anche solo interrogare i funzionari Pam. Io mi fido dei Ros. Ma sono davanti a un muro di gomma”. Cosa si può fare? Cosa si aspetta? “Devono intervenire i nostri servizi e la nostra diplomazia per fare in modo che gli inquirenti svolgano il loro lavoro. Invece li mandano laggiù e li abbandonano. Non possono bussare alle porte dell’Onu se non sono sostenuti. Se intervenisse l’Europa forse vedremmo uno spiraglio. Ma non fa nulla. L’uccisione di Luca è un precedente gravissimo. Vuol dire impunità per chiunque voglia uccidere un rappresentante di Stato”. Rocco Leone, numero due del Pam in Congo, era l’uomo che avrebbe dovuto assicurare la sicurezza della missione. Ora è tornato a sedere sulla sua poltrona a Kinshasa. Che idea si è fatto di lui? “Ha dato tre versioni diverse. Deve spiegare parecchie cose. Ma si nasconde dietro l’Onu. La disposizione delle persone nei due veicoli e delle auto in strada è tutta da chiarire”. Ci spiega meglio? “Posso solo dire che le cose non sono come sembrano. Abbiamo sentito Luca quella mattina, alle 8.30, un minuto prima che salisse in auto. Era felice. Dopo ci ha mandato un video per farci vedere il traffico di Goma. Questo filmato racconta come stavano davvero le cose. È nelle mani degli inquirenti”. Secondo quello che ha detto in Parlamento la viceministra degli Esteri, Marina Sereni, era lo stesso ambasciatore Attanasio “la figura individuata quale datore di lavoro, cui spettano, nell’ambito della propria autonomia gestionale e finanziaria, la valutazione dei rischi”, ecc... “Sciocchezze. Deve aver letto un discorso che le ha preparato qualche burocrate. Se si fosse informata avrebbe saputo che Luca era stato già due volte nel Kivu. Quando era lì, mi hanno detto i frati saveriani, il piazzale era pieno di polizia e di militari dell’Onu e dell’esercito congolese. Ma in quel caso lui aveva organizzato il viaggio. L’ultima volta era ospite del Pam. Loro dovevano garantire la sicurezza”. Vuole lanciare un appello? “Luca ha reso onore a questo Paese e al Congo. In cambio l’Italia e l’Europa devono rendergli giustizia”.