Carcere, ormai non è più tempo di commissioni di Riccardo Polidoro Il Riformista, 21 ottobre 2021 Nell’oceano sempre in burrasca della politica italiana naufragano i lavori delle commissioni ministeriali. A volte annegano, altre volte si arenano, ma quando riprendono a navigare il loro destino è già segnato. Lo scampato pericolo si ripropone e, quasi sempre, affogano. Compito della commissione è quello di esprimere pareri, dei quali dovrebbero fare tesoro gli uffici legislativi dei Ministeri, che a loro volta propongono ai ministri l’elaborato finale, il cui destino è del tutto incerto. Si ha l’impressione che il decreto che istituisce la commissione sia uno stratagemma per prendere tempo, laddove la politica non ha ancora le idee chiare su come intervenire ovvero vi sia un contrasto, o una possibilità di contrasto, tra le varie componenti governative. Ciò è avvenuto certamente per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Dopo la sentenza Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013, il Governo e il Parlamento, in carica all’epoca, furono costretti, nel senso letterale del termine, ad intervenire e “risposero” al Consiglio d’Europa, che pretendeva mutamenti strutturali in materia di esecuzione penale, con gli Stati Generali. Diciotto mini commissioni che licenziarono un ottimo lavoro per consentire il richiesto cambiamento. Anni di costante impegno da parte di oltre 200 esperti a cui seguì la Legge delega al Governo per varare la dovuta riforma e l’istituzione di ben tre commissioni ministeriali. Tutto questo immenso e significativo lavoro non si è poi tradotto nella richiesta riforma, ma è stato utilizzato come cortina di fumo che ha consentito all’Italia di ottenere l’archiviazione della procedura d’infrazione da parte dell’Europa. Vittime di questa scelta politica furono - e sono - i detenuti, ma anche tutti coloro che, con entusiasmo e passione, misero il loro “sapere” a disposizione del Paese. Oggi, a circa 9 anni da quella sentenza, sono al lavoro altre due commissioni. Una per “l’architettura penitenziaria”, istituita nel gennaio 2021 dal precedente Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con il compito di proporre soluzioni operative per adeguare gli spazi detentivi, aumentarne la vivibilità e la qualità, al fine di orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria. L’altra per “l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita nel settembre scorso dall’attuale Ministro della Giustizia Marta Cartabia, con il compito, già affidato e portato a termine dalla commissione presieduta dal professor Glauco Giostra nel luglio 2017, di elaborare quanto necessario per riformare l’ordinamento penitenziario. Pur se il nome dato alla neo-commissione fa riferimento ad “innovazione” e non a “riforma”, il testo del decreto istitutivo non lascia alcun dubbio sulle identiche competenze. Del resto, anche in materia di edilizia penitenziaria, la commissione Giostra aveva affrontato i temi dello spazio della pena e della vita in carcere. Argomenti di studio e di prospettate soluzioni degli stessi Stati Generali dell’esecuzione penale. Dunque, ancora molto fumo e pochissimo arrosto! Intanto gli istituti penitenziari restano abbandonati e i principi costituzionali dimenticati. È notizia recente il crollo di un muro perimetrale nel carcere femminile di Pozzuoli, ma la situazione è allarmante in tutta Italia. A Firenze, ad esempio, l’istituto di Sollicciano da anni ha irrisolti problemi strutturali e di manutenzione. Le condizioni di vivibilità sono, nella maggior parte dei casi, vergognose: mura fatiscenti, docce assalite dalla muffa, scarafaggi e topi ospiti abituali, caldo insopportabile d’estate e freddo glaciale d’inverno. Tutto questo in condizioni di ingestibile sovraffollamento. La “rieducazione” è una lontana chimera, perché del resto basta farli sopravvivere, pur se la media di decessi in carcere è di un morto ogni due giorni e molti sono i suicidi. C’è da chiedersi, allora, se davvero si vuole affrontare tutto questo, c’è bisogno davvero di commissioni? Non basta un Ministero, con la sua mastodontica organizzazione, un Dipartimento centrale e i Provveditorati regionali, con tutte le innumerevoli direzioni che avrebbero il compito della gestione amministrativa del personale e dei beni dell’amministrazione penitenziaria e i compiti previsti dalla legge per il trattamento dei detenuti? Evidentemente non sono in grado di farlo pur avendo senz’altro le necessarie potenzialità. Ed allora, è dall’interno che è necessario muovere i passi di una seria, vera e concreta riforma. Rivoluzionare il sistema, prendere atto del fallimento di tutti questi anni, porsi in tutt’altra prospettiva che altro non è che quella indicata dalla Costituzione. Farlo subito, farlo ora, con le risorse economiche in arrivo, che non sono molte e, pertanto, non vanno sprecate ricadendo nei tragici errori del passato. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria va rifondato da un punto di vista culturale e organizzativo per affrontare davvero le innumerevoli problematiche che affliggono il carcere, che va visto come condanna estrema destinata solo a pochissimi casi, mentre devono trovare spazio pene diverse. Gli avvocati lo dicono da tempo, la strada è stata già tracciata, occorre percorrerla eliminando il fumo e la nebbia che la circonda. Flick: “Neanche il Covid ha reso più umano il carcere” di Errico Novi Il Dubbio, 21 ottobre 2021 Intervista al presidente emerito della Consulta. “Si è continuato con gli interventi solo emergenziali e con il gravissimo vizio del nostro sistema: il sacrificio della dignità. Invece il modello attuale va superato. Innanzitutto”, chiede Flick, “con una più convinta apertura alla giustizia ripartiva. A partire dai validi spunti inseriti nella riforma penale e da proposte come quella con cui la Fondazione Falcone ipotizza di legare la liberazione condizionale degli ergastolani ostativi proprio alle condotte riparatorie”. “Fallimento”. “Occasione persa”. Sono le parole che per Giovanni Maria Flick bastano a descrivere i due anni di Covid per il carcere. “Sembrava che la pandemia potesse essere l’occasione per svelare e risolvere il vero vizio che affligge il sistema penitenziario: il sacrificio della dignità. E invece ci si è limitati a norme emergenziali, col risultato che il carcere continua ad essere una discarica del diverso”. È amara l’analisi proposta dal presidente emerito della Consulta: ne ha parlato a margine dell’incontro con il Garante dei detenuti svolto tre giorni fa a Napoli. Solo un aspetto, a suo giudizio, ravviva la speranza: “L’ipotesi di rafforzare la giustizia ripartiva: è la prospettiva a cui guardare. Ed è importante”, dice, “registrare proposte valide, in materia, come quella con cui la Fondazione Falcone collega la liberazione condizionale degli ergastolani ostativi, anche di mafia, proprio a condotte riparatorie del condannato”. Perché si è persa un’occasione, presidente Flick? Non è escluso che si possa rimediare. Ma serve uno scatto culturale. Nella coscienza diffusa, certo. Ma prima di tutto nella politica, che deve smettere di utilizzare il carcere e il diritto penale come strumenti di suggestione e di paura. Cosa si poteva fare sul carcere in tempo di Covid? Alcuni passaggi che vediamo nella riforma del processo penale, proprio in materia di giustizia riparativa, sono interessanti, ma il loro potenziale è ridotto dall’assenza di un’adeguata cornice normativa, che dovrebbe consentire per esempio forme riconciliative fra autore del reato e vittima in ogni fase del procedimento. Le dirò di più: si registrano sul punto una sensibilità poco diffusa e una scarsa formazione della magistratura. Sono problemi da affrontare in una riforma organica. D’altronde si sono viste, in questi due anni, tante amnesie su altri aspetti. A cosa si riferisce in particolare? Qualcuno, ottimisticamente, pensava che l’emergenza coronavirus poteva essere l’occasione per iniziare una riflessione seria sui penitenziari, su un modello da superare, perché quello attuale, in molti casi, non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure sono scritti nell’articolo 27 della Costituzione e in molte altre sue norme in tema di diritti, a partire dall’articolo 2. E invece com’è andata? Non c’ stata alcuna nuova riflessione. Ha prevalso anche questa volta l’agire solo sulla base dell’emergenza, senza progetti di lungo periodo. E soprattutto, non si è diffusa né l’idea di una funzione rieducativa della pena né di una giustizia riparativa, fatte salve le ricordate eccezioni. Si è continuato a considerare il carcere non come luogo che può offrire una rinascita, ma come deposito dove semplicemente scontare una pena: una sorta di discarica per rifiuti tossici e pericolosi. Da dove si dovrebbe partire? Mi verrebbe da risponderle che andrebbero recuperati prima di tutto i lavori della commissione ministeriale per la riforma istituita nel 2016, quando l’incombere delle elezioni indusse poi a cestinare il progetto. Temo che i risultati di quei lavori saranno al più studiati da qualche appassionato. Eppure alcuni spiragli di luce, intravisti innanzitutto nella nuova commissione creata per la riforma del penale e, in parte, nel ddl delega che ne è seguito, andrebbero coltivati. Fino a un radicale cambio d’impostazione. Cioè? Si deve prendere atto che l’attuale modello carcerario italiano non è compatibile con uno stato di diritto basato sulla centralità della persona e sulla sua pari dignità. È un modello in cui si mischiano carceri sovraffollate, interventi solo emergenziali, reclusione vista come la forma più efficace o unica di pena, il condannato isolato perché considerato diverso. E invece non possiamo più esimerci dal ragionare su un punto: il carcere, per come lo conosciamo oggi, è un modello da superare. Non in tutti i casi, beninteso, ma bisognerebbe almeno lasciarsi alle spalle l’idea secondo cui la reclusione sarebbe la norma per affrontare la diversità. In carcere, invece, dovrebbe andare solo chi è aggressivo e violento, e perciò pericoloso: per gli altri condannati è necessario pensare a pene diverse, ma non per questo meno efficaci. Non si tratta tanto di far uscire dal carcere quante più persone è possibile, ma di farvene entrare quante meno è possibile. Nel Paese non sembrano prevalere culture favorevoli a una svolta simile... Molti ritengono che non sia possibile arrivare a un modello del genere. Al di là di sparute eccezioni, si tende tuttora a vedere la pena come una vendetta pubblica e il detenuto come una monade che non fa più parte della società. Ma ci dobbiamo arrivare, al superamento del modello attuale. Ci possiamo arrivare. Certo sono necessarie alcune condizioni. Prima di tutto culturali. La società deve accettare il rischio che chi sconta la pena fuori dal carcere torni a commettere reati. Potrebbe accadere, ma si può fare in modo che ciò tendenzialmente non accada, o che si verifichi il meno possibile. Come? Innanzitutto non abbandonando il condannato a se stesso. La percentuale di recidiva è comunque molto più elevata per chi sconta la pena in carcere rispetto a chi la sconta con una misura alternativa. In attesa che la percezione diffusa cambi, si può agire sull’ordinamento? Sarebbe ingiusto negare i pur limitati passi avanti compiuti. Tengo a segnalare, tra questi, l’istituzione del Garante, nella sua espressione nazionale e locale. Una prima risposta: anche considerato che fra i suoi obiettivi sono previsti il contatto con i reclusi, il raccordo fra realtà istituzionale, penitenziaria e categorie deboli. E, aspetto significativo, l’impegno culturale per la conoscenza diffusa della realtà carceraria. L’altro elemento nuovo non può che consistere in un rafforzamento della giustizia riparativa, ulteriore rispetto a quanto già previsto nella riforma penale. Si può partire da alcuni aspetti inseriti nella riforma: l’impulso previsto per i centri di giustizia riparativa, la formazione degli operatori, la valorizzazione della messa alla prova e, cosa importante, il principio che l’applicazione di meccanismi riparatori non debba essere subordinata al tipo e alla gravità dei reati. Vuol dire che per il legislatore non dev’esserci ipotesi, per quanto grave, in cui la ricerca di uno strumento riparativo, da affiancare all’esecuzione penale, possa essere esclusa. Va aggiunta, come detto, l’ipotesi molto interessante avanzata dalla Fondazione Falcone: passare dall’irreversibile ergastolo ostativo, incostituzionale e infatti bocciato dalla Consulta, a una liberazione condizionale degli stessi condannati per mafia da concedere anche sulla base di condotte riparative. Quindi non è del tutto pessimista... Tenderei ad esserlo, in realtà. C’è analogia fra la dignità che si nega al detenuto e altre forme di discriminazione: dall’odio ancestrale, ignorante, immotivato e razziale verso gli ebrei, alla violenza contro la donna, che si arriva a uccidere se sfugge al potere del maschio, al rifiuto del migrante, liquidato in base a logiche di sicurezza e paura, al dramma della solitudine delle ultime ore dell’anziano dirottato nelle case di riposo. Ma dobbiamo approfittare proprio del trauma che il coronavirus ci ha inflitto per scuoterci anche dalla grettezza e dall’odio. Siamo abituati alla modernità come vettore del profitto, ma la pandemia ci ha fatto notare che allo stesso modo, in un attimo, anche il coronavirus si propaga. Siamo costretti a cambiare modello di vita e di valori, approfittiamone anche per trasformare il carcere. È urgente. Cari onorevoli, la missione non è salvare l’ergastolo ma rispettare la Costituzione di Ignazio Giovanni Patrone* Il Riformista, 21 ottobre 2021 La Consulta ha dato tempo al legislatore fino a maggio per cambiare la norma sul regime ostativo, bocciata anche dalla Cedu. Le proposte in Commissione giustizia della Camera, però, sembrano per lo più orientate a difendere le ragioni del 4-bis. Oggi per i condannati alla pena dell’ergastolo cosiddetto “ostativo” l’unico mezzo per ottenere la liberazione condizionale dopo aver scontato almeno 26 anni di pena è la collaborazione con la giustizia. La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 97 del 2021, ha invitato il legislatore a modificare entro il mese di maggio del 2022 tale disciplina sostenendo a chiare lettere che “il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati. Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale”. Anche la Corte Europea con la sentenza Viola c. Italia del 2019 ha invitato il legislatore nazionale a consentire, oltre alla collaborazione di giustizia, un riesame della pena a partire dall’evoluzione della persona che valuti il progresso nel cammino della rieducazione, senza che si possa pretendere che la rottura con le organizzazioni mafiose si manifesti esclusivamente attraverso la collaborazione di giustizia. Oggi sono in discussione alla Commissione giustizia della Camera tre proposte di legge che, esaminate nel loro complesso, sembrano più orientate a salvaguardare le ragioni alla base del regime speciale di cui all’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario che al rispetto delle chiare e vincolanti indicazioni provenienti dalle due Corti: l’Associazione Antigone ha a questo proposito inviato una nota ai deputati della Commissione precisando in particolari tre punti fra quelli in discussione. Il primo riguarda l’onere probatorio a carico del richiedente, che non potrà richiedergli di provare il fatto negativo della mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, posto che incombe all’autorità provare, semmai, la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio. Il secondo punto tocca le condizioni generali per accedere alla liberazione condizionale: una delle proposte in discussione prevede di aumentare la pena da scontare prima dell’ammissione al beneficio da 26 a 30 anni, ma tale aggravamento non sembra trovare alcuna giustificazione. La terza questione concerne la proposta di attribuire la competenza unica nazionale in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma, che diventerebbe così il giudice unico della pena per i reati più gravi di mafia essendo già competente per i provvedimenti di sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis e per i benefici per i collaboratori di giustizia. Occorre un approccio al tema che sia rispettoso delle pronunce delle due Corti, costituzionale ed europea, e che tenga nel dovuto conto della realtà dell’ergastolo oggi. La percentuale degli ergastolani sul totale dei detenuti è salita dal 3,3% al 4,3%: essi nel 2004 erano 1.161, nel 2009 1.224, nel 2014 1.604, un numero che salirà dopo la riforma del rito abbreviato che ne esclude l’applicabilità per i reati commessi dalla data della sua entrata in vigore. Ciò è avvenuto sebbene le statistiche dell’Istat riportino una progressiva riduzione nel numero dei reati, specie di quelli più gravi: nel 2010 gli omicidi volontari sono stati 526, diminuiti a 345 nel 2018 mentre i sequestri di persona sono passati da 1.436 a 960. Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua, si tratta perciò di oltre 1.250 detenuti che - salve le ipotesi di collaborazione - non hanno alcuna possibilità di reintegrazione sociale, come invece prescrive l’art. 27 della Costituzione. *Già magistrato, componente comitato scientifico Associazione Antigone Salvare l’ergastolo ostativo. La Fondazione Falcone in trincea di Francesco Carta La Notizia, 21 ottobre 2021 Proposta di legge per scongiurare la resa alla mafia. Benefici ai boss legati al diritto delle vittime alla verità. Benefici agli ergastolani detenuti per reati di mafia o per terrorismo ma solo se contribuiranno a soddisfare il diritto alla verità delle vittime e dei loro familiari. Mentre continua a correre la clessidra per rimediare al colpo inferto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo prima (leggi l’articolo) e della Consulta poi all’ergastolo ostativo, la Fondazione Giovanni Falcone lancia la sua proposta di legge per mettere al sicuro uno strumento basilare nella lotta al crimine organizzato. Con una postilla: fare presto. Perché se entro maggio 2022, come ha stabilito la Corte Costituzionale decretando l’illegittimità dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario (leggi l’articolo), che impedisce ai detenuti per reati di mafia e terrorismo di accedere alla libertà condizionata se non hanno collaborato con la giustizia, boss del calibro di Giuseppe Graviano, protagonista della stagione delle stragi, potranno chiedere la libertà vigilata dopo aver scontato 26 anni di carcere. “Con questa nostra proposta - spiega Maria Falcone (nella foto), presidente della Fondazione che porta il nome del fratello magistrato ucciso nella strage di Capaci - intendiamo dare il nostro apporto a un tema per noi di importanza fondamentale. Il fine è tener conto delle indicazioni della Consulta senza indebolire la lotta alla mafia e senza vanificare le grandi conquiste fatte in questi anni grazie a una legislazione costata la vita a tanti servitori dello Stato”. Una proposta messa a punto dal presidente del tribunale di Palermo e consigliere della Fondazione Falcone, Antonio Balsamo, e dal magistrato Fabio Fiorentin, tra i massimi esperti di ordinamento penitenziario e che punta a condizionare la concessione dei benefici a mafiosi e terroristi alle loro iniziative in favore delle vittime, alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa e soprattutto al loro contributo per garantire il diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e alla collettività. La proposta prevede, nel dettaglio, la concessione dei benefici di legge “anche in assenza di collaborazione con la giustizia”, purché “sia fornita la prova dell’assenza di collegamenti attuali del condannato o dell’internato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e dell’assenza del pericolo di ripristino dei medesimi e sempre che il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato”. Non solo. Ai fini della concessione dei benefici, “il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide, acquisite dettagliate informazioni dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza, dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica in relazione al luogo dove il detenuto risiede, nonché, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 -bis, anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo”. E non è tutto. Con il provvedimento di concessione dei benefici, inoltre, il giudice “può disporre l’obbligo o il divieto di permanenza dell’interessato in uno o più comuni o in un determinato territorio”. Infine, “il divieto di svolgere determinate attività o di avere rapporti personali che possono occasionare il compimento di altri reati o ripristinare rapporti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e può altresì prescrivere che il condannato o l’internato si adoperi in iniziative di contrasto alla criminalità organizzata”. Sostegno e formazione al lavoro per tutte le detenute italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2021 L’intesa fra il Dap e “Soroptimist International”. Nella giornata di ieri è stato siglato un protocollo d’intesa tra il Dipartimento d’amministrazione penitenziaria (Dap) e l’Associazione Soroptimist International d’Italia rappresentato dalla Presidente Giovanna Guercio, che ha come obiettivo “la realizzazione di percorsi formativi e laboratoriali in favore della popolazione detenuta femminile”. Un progetto, rinnovato e giunto alla sua terza edizione, da concretizzarsi in un sistema penitenziario pensato al maschile, dove le donne sono il 4% della popolazione carceraria e quindi vivono la reclusione in evidente svantaggio. Con l’accordo siglato, che avrà la durata di tre anni, le parti si impegnano a collaborare per promuovere iniziative sperimentali di sostegno e formazione al lavoro rivolte alle donne detenute presso Istituti e sezioni femminili, ma anche attività professionali ed artigianali, caratteristiche di determinati territori o di supporto a realtà produttive esistenti, che tengano conto delle inclinazioni ed interessi delle detenute. Non solo. Si impegnano entrambi per promuovere azioni di sensibilizzazione nei confronti delle realtà produttive ed imprenditoriali per il reinserimento socio- lavorativo delle detenute, anche successivamente all’uscita dal circuito detentivo. Sia il Dap che Soroptimist, nel concreto si impegnano a realizzare percorsi formativi teorico-pratici, con attività di laboratorio, nei settori di sartoria, cucina, cura dell’estetica, in attività artigianali e/ o in altri settori, concordati sulla base delle esigenze degli Istituti, delle attività e laboratori già presenti, degli interessi delle detenute. Le lezioni teorico/ pratiche, della durata massima di sei mesi, saranno finalizzate al trasferimento di competenze pratiche e professionali. Si tratta del progetto “Si sostiene”, ideato appunto dall’associazione Soroptimist International d’Italia in collaborazione con gli istituti e le sezioni femminili delle carceri. Una associazione di donne professioniste e manager con oltre 5.000 socie solo nel nostro Paese. “Il Soroptimist Italia si batte per tutelare i diritti delle donne e promuovere la loro emancipazione attraverso un’istruzione di qualità e una formazione professionale anche in situazioni complesse come le carceri - commenta Giovanna Guercio - siamo perciò molto soddisfatte di aver rinnovato la collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria e di poter contribuire al reinserimento nella società delle donne detenute”. Nei primi quattro anni il progetto ha promosso 80 iniziative in una trentina di istituti con sezioni femminili, arrivando a coinvolgere 600 detenute. Ben 52 sono i Club di Soroptimist International che hanno realizzato corsi per parrucchiera, estetista, pasticciera, sarta, cake designer, governante, torrefattrice, apicoltrice, bibliotecaria, per la manutenzione del verde e la coltivazione di orti e piante aromatiche. Cinquanta sono le detenute che, dopo aver seguito i corsi, hanno fruito di borse- lavoro retribuite dentro o fuori dal carcere. Presunzione d’innocenza, alla fine i partiti trovano l’intesa contro i processi show di Valentina Stella Il Dubbio, 21 ottobre 2021 Arriva l’ok delle Commissioni giustizia della Camera e del Senato sui pareri allo schema di decreto legislativo per il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Dopo non pochi sforzi di mediazione oggi finalmente le commissioni giustizia della Camera e del Senato hanno approvato i pareri allo schema di decreto legislativo per il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Alla Camera tutti favorevoli, anche Fd’I, fatta eccezione per l’Alternativa c’è. Al Senato voto unanime. Cosa cambia rispetto al testo uscito dal Cdm? Nei casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti” rimane la possibilità di indire da parte del procuratore della Repubblica, o un magistrato delegato, conferenze stampa ma la decisione di convocarle “deve essere assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano”. Lo stesso principio vale per la comunicazione delle forze di polizia giudiziaria, in quanto se resta, rispetto al testo originario, il fatto che “il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia a fornire, tramite propri comunicati ufficiali oppure proprie conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”, tuttavia - e questa è la novità - “l’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano”. Inoltre si deve “prevedere un procedimento più snello per la correzione dell’errore in riferimento alla salvaguardia della presunzione d’innocenza”. Un ulteriore aspetto molto importante è che “sia specificato all’articolo 314 del codice di procedura penale che la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita”. Il relatore in commissione alla Camera Enrico Costa (Azione, +Europa) aveva presentato la scorsa settimana un parere che imponeva una stretta più severa ai rapporti tra stampa e pm, eliminando la facoltà di tenere conferenze stampa. Tuttavia si dice “contento che il lavoro e l’impegno abbiano portato a una condivisione su una proposta al governo sulla presunzione di innocenza”. E aggiunge: “Il procuratore non potrà più svegliarsi la mattina e convocare i giornalisti, perché ci vuole un interesse pubblico, senza il quale deve limitarsi al comunicato ufficiale”. Il bilancio è positivo anche per l’onorevole di IV Catello Vitiello: “Quello di oggi (ieri, ndr) è un passaggio importante, perché tutti insieme abbiamo ribadito che i processi si fanno nelle Aule dei Tribunali e non sui media. È qualcosa già scritto nella Costituzione, ma era meglio ribadirlo, e per di più tutti insieme”. Si dice “soddisfatto” anche il dem Alfredo Bazoli: “Abbiamo sempre lavorato per trovare l’unità nella maggioranza. Il parere è condivisibile e sono state fatte delle osservazioni che noi riteniamo utili. Siamo contenti di essere riusciti a far convogliare tutta la maggioranza su un parere riguardante un principio importante come quello sulla presunzione di innocenza”. Gli fa eco la senatrice dem Anna Rossomando: “siamo soddisfatti che sia stata votata all’unanimità la formulazione su cui abbiamo lavorato. Un testo condiviso a sostegno dei principi che i processi si celebrano nei tribunali con le relative garanzie, non nelle piazze mediatiche e che al contempo va tutelata la libertà di stampa al servizio del diritto dei cittadini ad essere informati. Quando si lavora nel merito delle questioni senza forzature e paletti, le soluzioni si trovano. Questo è stato ed è il metodo del Pd”. Per Federico Conte, deputato di Leu, “è uno stop alla gogna mediatica, un argine al giustizialismo, una bandiera di principio e di fatto per uno Stato di diritto”. L’unica forza politica a dire no al parere è stata L’Alternativa c’è, per cui ha parlato l’onorevole Andrea Colletti: “Dopo la legge che per accorciare i processi li condanna a morte sotto la scure dell’improcedibilità, ecco che il Governo e la maggioranza che lo sostiene danno il via libera pure al bavaglio per i magistrati. Solo noi ci siamo opposti a questa pericolosa deriva, nessun altro ha osato farlo, né chi come noi è all’opposizione del governo, né quel Movimento 5 Stelle che ha sempre condotto battaglie per la legalità e la trasparenza e che ormai è sempre più supino ai diktat di Draghi”, ha affermato. Quello della presunzione di innocenza è un tema molto caro alla ministra Cartabia, avendolo citato alla Camera nell’illustrazione delle sue linee programmatiche all’inizio del suo mandato; però il risultato favorevole di ieri al parere è stato preceduto da un percorso difficile, con un doppio rinvio del voto perché le forze di maggioranza erano spaccate: da un lato Pd e M5S, dall’altro tutte le altre. L’ultima impasse si era registrata mercoledì scorso, quando il banco era saltato all’ultimo. Da lì un lavoro di restyling al testo Costa, fino a ieri, quando, dopo una serie di riunioni dei partiti con il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, si è giunti alla mediazione. Pur non essendo vincolanti, il governo non potrà non tenere conto dei pareri in vista dell’8 novembre, data entro la quale dovrà emanare i decreti attuativi: sarebbe uno sgarbo istituzionale, soprattutto alla luce degli sforzi che i partiti hanno fatto per rinunciare ad una parte delle loro pretese e giungere ad una mediazione, che tanto piace alla ministra. Un accordo unanime ha tolto dall’imbarazzo la stessa Guardasigilli: se avesse vinto la linea Costa, ignorare il parere sarebbe stato pesante. Ma così si sarebbe aperto un problema serio con i grillini, e di fatto pure col Pd. Adesso invece, con la convergenza di tutti, sarà in teoria più facile per il governo recepire il parere. Ma siamo sicuri che la magistratura requirente non agirà dietro le quinte per frenare le modifiche? Stretta sulla giustizia show: via libera delle Commissioni di Angela Stella Il Riformista, 21 ottobre 2021 Approvati i pareri allo schema di decreto legislativo sulla presunzione di innocenza: conferenze stampa di pm e polizia giudiziaria solo se motivate. Approvati a maggioranza ieri nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato i pareri allo schema di decreto legislativo per il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. A Palazzo Madama voto compatto di tutti, alla Camera ha fatto eccezione l’Alternativa c’è. Dunque maggioranza ricompattata. Ora il Governo avrà tempo fino all’8 novembre per emanare i decreti attuativi. Non è obbligato a recepire le indicazioni dei pareri, ma sarebbe strano il contrario, considerato lo sforzo fatto da tutte forze politiche per trovare una quadra ad un argomento in partenza molto divisivo. Da una parte c’erano Pd e M5S, favorevoli alla proposta del Governo, dall’altra tutte le altre forze politiche disposte a limitare molto di più le comunicazioni delle Procure. Stiamo parlando del processo mediatico, quello che si sviluppa soprattutto nella fase delle indagini preliminari, dove il protagonismo di alcuni pm spesso porta allo svilimento dei diritti dell’indagato, innocente fino a sentenza definitiva. Quindi, è facilmente ipotizzabile che, in maniera silente, la magistratura, soprattutto requirente, faccia un’opera di moral suasion per impedire che vengano posti troppi limiti al loro eccesso di comunicazione con la stampa. Ma vediamo cosa c’è di nuovo rispetto al testo licenziato dal CdM. Nei casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti” rimane la possibilità di indire da parte del Procuratore della repubblica, o un magistrato delegato, conferenze stampa ma la decisione di convocarle “deve essere assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano”. Lo stesso principio vale per la comunicazione delle forze di polizia giudiziaria in quanto se resta, rispetto al testo originario, il fatto che “il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia a fornire, tramite propri comunicati ufficiali oppure proprie conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”, tuttavia - ecco la novità - “l’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano”. Un ulteriore aspetto molto importante è che “sia specificato all’articolo 314 del codice di procedura penale che la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita”. Il relatore in commissione alla Camera Enrico Costa (Azione, +Europa) aveva presentato la scorsa settimana un parere che imponeva una stretta più severa ai rapporti tra stampa e pm, eliminando la facoltà di tenere conferenze stampa. Tuttavia si dice “contento che il lavoro e l’impegno abbiano portato a una condivisione su una proposta al governo sulla presunzione di innocenza”. E aggiunge: “il Procuratore non potrà più svegliarsi la mattina e convocare i giornalisti, perché ci vuole un interesse pubblico, senza il quale deve limitarsi al comunicato ufficiale. Non potrà più accadere che ogni inchiesta di per sé sia spiattellata, che dal numero degli arresti di una inchiesta dipenda la presunzione di innocenza degli indagati”. Ieri Costa ha anche interrogato al question time la ministra Cartabia sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. La Guardasigilli ha risposto che tra il 2017 e il 2021 “le valutazioni negative di professionalità dei magistrati sono state in totale 35 (0,5%), quelle non positive 24 (0,3%), quelle positive 7394 (99,2%)”. Per Costa “le valutazioni di professionalità dovrebbero soffermarsi anche sull’esito degli atti dei magistrati. Non basta certo dire che gli imputati sono stati assolti per giudicare male un pm. Ma non è neanche giusto che i risultati dell’attività non contino niente. Se un pm arresta 100 persone e quasi si tutte vengono assolte, se un giudice in 4 anni vede annullare tutte le sue sentenze questo deve avere un rilievo sulla carriera. Oggi le promozioni sono di fatto automatiche e se tutti sono considerati bravi o bravissimi a fare da padrone sono le correnti. Dobbiamo lavorare su questo e sono certo lo faremo insieme per premiare il merito e la qualità”. La battaglia è anche delle Camere Penali. Il Responsabile osservatorio ordinamento giudiziario, avvocato Rinaldo Romanelli, ci dice: “È indispensabile riformare il sistema per consentire che le valutazioni siano effettive e dunque individuino le capacità professionali e anche le attitudini del singolo magistrato in modo che quando si formula la domanda per una assegnazione ad un incarico semi-direttivo o direttivo sia possibile decidere tra più magistrati e non, come adesso, in base all’appartenenza correntizia”. Rimborso spese legali per imputati prosciolti: “Tutelare vittime di errori giudiziari” di Angela Stella Il Riformista, 21 ottobre 2021 La proposta delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale. Giustizia negata agli imputati meno abbienti, le Camere Penali del Diritto europeo e internazionale scendono in campo per lanciare una proposta di legge in grado di colmare, finalmente, il vuoto normativo che da troppo tempo attanaglia il nostro Paese. Lo scorso anno un primo passo era stato compiuto con l’inserimento di un emendamento nella legge di bilancio 2020, che prevedeva lo stanziamento di 8 milioni di euro per il pagamento delle spese legali dei soggetti sottoposti a procedimento penale e poi assolti con formula piena. I successivi decreti attuativi non sono però mai arrivati. E intanto gli imputati assolti continuano a essere vittime di un sistema quanto mai sbilanciato. Per cogliere l’urgenza di quest’intervento basti pensare che attualmente i requisiti per accedere al patrocinio a favore dello Stato sono particolarmente stringenti: il beneficiario deve infatti essere titolare di un reddito imponibile risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi al di sotto di 11.493,82 euro, intesi come cumulo dei redditi percepiti da tutti i familiari con lo stesso conviventi. In pratica, qualsiasi cittadino con uno stipendio di mille euro si trova costretto a indebitarsi in maniera spaventosa per affrontare gli eventuali tre gradi di giudizio di un processo penale. “La nostra proposta di legge contempla la possibilità per questi soggetti vittime del sistema giudiziario di ottenere il pagamento da parte dello Stato degli onorari dovuti al legale impiegato nella loro difesa”, spiega l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale. Il sistema attuale comporta infatti un’insostenibile discriminazione per le persone meno benestanti di fronte a un diritto come quello di difesa che, in quanto costituzionalmente garantito, dovrebbe essere assicurato universalmente: “È evidente - rilancia il presidente Tirelli - la necessità di colmare il vuoto di tutela per le vittime di errori giudiziari. Posto che già il processo penale rappresenta una sorta di pena sia dal punto di vista economico che morale, è fondamentale modificare questa impostazione inquisitoria”. La proposta di legge formulata dalle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale è stata intanto definita e la possibilità di ottenere il rimborso delle spese legali in favore degli imputati prosciolti potrebbe presto diventare realtà. Ad oggi l’unica forma di ristoro prevista dal nostro ordinamento per le vittime degli errori giudiziari è la riparazione per ingiusta detenzione, istituto la cui applicazione è stata tra l’altro recentemente ridimensionata. Nel 2020 lo Stato ha speso quasi 38 milioni di euro per questa tipologia di risarcimento e l’importo non può in ogni caso mai eccedere la cifra di 516.456,90 euro. “Inutile sottolineare come questo spreco di denaro pubblico pesi inutilmente sui contribuenti. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione non è però da solo sufficiente ad offrire tutela a tutte le vittime di errori giudiziari”, avverte l’avvocato Tirelli. Da questo meccanismo vengono infatti automaticamente esclusi tutti gli imputati che hanno affrontato l’intero iter processuale a piede libero. Magistrati, Cartabia: valutazioni positive nel 99,2% dei casi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2021 Al question time della Camera i dati degli ultimi 5 anni. Nel 2021 (a tutt’oggi) le valutazioni negative sono state 7 (0,5 %), le valutazioni non positive 3 (0,2 %) e le valutazioni positive 1.404 (99,3%). Non si sbilancia con un giudizio personale ma sciorina i dati. E i dati degli ultimi cinque anni parlano chiaro: dal 2017 all’ottobre di quest’anno le valutazioni di professionalità dei magistrati con esito negativo in tutto sono state 35 (0,5 %), quelle non positive 24 (0,3 %) mentre le valutazioni positive 7.394 pari al 99,2%. A tracciare il quadro di un sistema criticato ormai da più parti è il Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, rispondendo alle domande dell’onorevole Enrico Costa (Misto) nel corso del question time della Camera. Costa ricorda che (ai sensi dell’articolo 11 del Dlgs 160/2006) tutti i magistrati sono sottoposti a valutazione di professionalità ogni quadriennio, a decorrere dalla data di nomina fino al superamento della settima valutazione di professionalità. E che la valutazione di professionalità riguarda: indipendenza, imparzialità ed equilibrio; capacità; laboriosità; diligenza; impegno. Da ciò dipendono l’avanzamento di carriera e il trattamento economico. “Se tutti hanno valutazione positiva però - afferma Costa nella introduzione - è ovvio che l’unico criterio di valutazione rimane l’appartenenza all’uno o all’altra corrente. Proprio quello che lei Ministra ha voluto sradicare”. “Dunque - prosegue Costa - l’efficace funzionamento delle valutazioni di professionalità rappresenta un tassello fondamentale per restituire efficienza e credibilità all’ordinamento giudiziario”. Da qui la richiesta dei dati relativi alle valutazioni degli ultimi 5 anni. “Mi ha fatto una domanda che ha natura strettamente quantitativa - interviene la Ministra Cartabia - le risponderò offrendole numeri e dati”. “È stato accertato - prosegue Cartabia - che nel 2017 le valutazioni negative sono state 11 (0,8 %), le valutazioni non positive sempre 11 (0,8 %) mentre le valutazioni positive sono state 1.425 (98,5 %)”. E così anno dopo anno. “Nel 2018 - continua la Guardasigilli - le valutazioni negative sono state 5 (0,2 %), le non positive 3 (0,1 %) e le valutazioni positive sono state 1.994 (99,6 %). Nel 2019 le valutazioni negative sono state 6 (0,5 %), le valutazioni non positive 3 (0,2 %) e le positive 1.274 (99,3 %). Nel 2020 le valutazioni negative sono state 6 (0,5 %), le non state 4 (0,3 %) e le positive 1.297 (99,2 %). Infine, nel 2021 (a tutt’oggi) le valutazioni negative sono state 7 (0,5 %), le valutazioni non positive sono state 3 (0,2 %) e le valutazioni positive sono state 1.404 (99,3 %)”. Intervenendo in replica, l’on. Costa, soddisfatto di aver dimostrato il proprio assunto, ha affermato: “Il 99,2% di giudizi positivi del CSM, dimostrano la totale inutilità della procedura. Sulla valutazione professionale di un magistrato “serve una valutazione seria e non solo formale. Non basta dire che gli imputati sono stati assolti per giudicare male un pubblico ministero ma questo deve però avere un peso”. “Se un Pm - incalza - arresta 100 persone e quasi tutte vengono poi assolte o se un giudice in 4 anni vede annullate tutte le sue sentenze questo deve avere una conseguenza sulla carriera”. “Oggi - conclude - le promozioni sono automatiche. Dobbiamo lavorare per premiare il merito e la qualità, per garantire che il nostro sia uno stato di diritto dove il magistrato silenzioso e laborioso non sia calpestato da quello chiassoso”. Misure alternative al carcere: sono 69mila - La Ministra rispondendo ad altre domande ha poi affermato che l’esecuzione penale esterna “è una questione su cui si sta molto impegnando il ministero “. C’è una “sproporzione evidente” tra le pene che vengono eseguite fuori dal carcere e il personale che se ne deve occupare. Al 31 agosto 2021, ha spiegato la ministra, erano in corso 68.916 misure e sanzioni di comunità delle diverse tipologie (misure alternative alla detenzione, messa alla prova, sanzioni di comunità e misure di sicurezza non detentive). “A fronte di questo enorme numero di misure in corso l’organico prevede che il comparto delle funzioni centrali sia dotato di 3.478 unità di cui 1.701 funzionari della professionalità del servizio sociale”. In questo momento però “sono in servizio 1526 persone”. Sono già “in corso assunzioni- ha aggiunto la Guardasigilli - ma occorrerà ampliare in modo significativo le piante organiche e soprattutto coprirle tempestivamente sia per le esigenze attuali sia per quelle all’orizzonte in virtù dell’attuazione della delega penale”. Acceleriamo su piano fabbisogni personale - Cartabia, rispondendo ad un’altra interrogazione, ha poi definito “molto serio e molto sentito in tutti gli uffici giudiziari” il problema dell’ “inadeguatezza delle piante organiche soprattutto per il personale delle cancellerie e delle segreterie e della scopertura dei posti”. Un nodo non ancora sciolto “nonostante sia in atto da qualche anno uno sforzo davvero imponente di immissione in ruolo di moltissime figure”. In particolare “nel biennio 2020 - 2021 sono state eseguite le assunzioni di 1.403 operatori giudiziari; 1.250 cancellieri esperti; 368 direttori amministrativi; 16 conducenti di automezzi; 101 funzionari giudiziari, oltre alla davvero ingente quantità di personale legato all’ufficio del processo che il Pnrr ci consente di effettuare”. Ma il lavoro per colmare carenze che risalgono nel tempo resta “davvero ingente”. Riforma Csm, Cartabia: “Ricominciare dai magistrati che lavorano con la testa tra le mani” di Liana Milella La Repubblica, 21 ottobre 2021 Oggi primo incontro dei partiti in via Arenula con la Guardasigilli. Dopo le riforme del penale e del civile, adesso la ministra della Giustizia vuole garantire una nuova legge elettorale per il futuro Consiglio superiore. La terza gamba delle riforme sulla giustizia riparte oggi. E i partiti della maggioranza si raccolgono con Marta Cartabia in via Arenula. Perché dopo le riforme del processo penale e di quello civile - che a breve andrà al voto finale alla Camera - ora tocca alle nuove regole sulla vita del Csm, sulle sue procedure interne, sulle sue commissioni, sulla sua sezione disciplinare. Tocca alle norme per decidere cosa succede se una toga entra in politica. Giusto dopo la candidatura di Catello Maresca a sindaco di Napoli. Ma dopo il caso Palamara e dopo la grave crisi sulla credibilità morale dei giudici, questa riforma si appalesa come quella più delicata cui mettere mano. Saranno due i relatori che se ne occuperanno alla Camera, Water Verini per il Pd, ex responsabile Giustizia dei Dem e oggi tesoriere del partito, ma da sempre sensibile proprio ai temi della giustizia. Con lui Eugenio Saitta di M5S, capogruppo grillino in commissione. Sul tavolo, come testo base, ancora una volta un disegno di legge dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, com’è accaduto per le riforme del civile e del penale. La Guardasigilli è ben decisa a spingere il pedale dell’acceleratore. Lo ha detto venerdì scorso parlando davanti alla platea dell’Anm subito dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un’affermazione secca, la sua: “È necessario portare a termine la riforma in tempo utile in vista del rinnovo del Csm”. E già, perché l’attuale Consiglio scade a luglio 2022, visto che i primi 16 togati erano stati eletti nel luglio del 2018. Era la prima settimana del mese, e nessuno avrebbe potuto mai immaginare che questa sarebbe stata la consiliatura più difficile nella storia di palazzo dei Marescialli. Il caso Palamara - consigliere nel precedente Csm - esplode il 29 maggio del 2019. Si dimettono cinque togati. Poi un sesto. Sono necessarie tre elezioni suppletive. Mentre c’è chi preme per mandare a casa tutto il Consiglio, la linea del Colle è che prima di eleggerne uno nuovo sia necessario cambiare la legge elettorale. Proprio per bloccare la correntocrazia. Marta Cartabia ha già fatto le sue mosse. In primavera aveva affidato al costituzionalista Massimo Luciani la stesura di una prima possibile modifica. Poi, in questi mesi, lei stessa ha elaborato le sue idee. Che, come ha detto venti giorni fa al congresso di Area, la corrente di sinistra delle toghe, partono da un punto, “la crisi di fiducia per una magistratura con uno scarso tasso di indipendenza”. “La fiducia si perde in un istante, ma poi si guadagna goccia a goccia” dice Cartabia che aggiunge: “Se la fiducia è logorata, non confidiamo in un effetto taumaturgico delle riforme”. Riforme che però, in questo momento storico, non possono prescindere da quanto è avvenuto. Cartabia cita le parole di due magistrati, da una parte Giovanni Falcone, dall’altra Antonino Scopelliti, entrambi trucidati dalle mafie. Diceva Falcone che “l’indipendenza della magistratura, se non è accompagnata dall’efficienza del suo servizio nel rendere giustizia, diventa un privilegio”. Mentre Scopelliti parlava dei “magistrati laboriosi che lavorano con la testa tra le mani”. E Cartabia, per mettere mano alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario parte proprio da questa immagine, dalla “magistratura laboriosa”, quella che racconta di incontrare nelle corti di Appello che via via sta visitando, Milano, Venezia, Napoli, Bari, Catania, Firenze, Perugia. Una magistratura che definisce “animata da grande passione, consapevole del momento storico che stiamo attraversando”. E dunque, dice la ministra. “i fatti sconcertanti ci sono, ma non devono abbagliarci, e farci distogliere lo sguardo dai 10mila magistrati laboriosi che lavorano con la testa tra le mani”. Ma sarà la politica, a partire da oggi, a decidere il destino del Csm e delle toghe. Perché, come dice la Guardasigilli, “le leggi vengono decise in ambito politico e lì devono trovare una sintesi”. Sarà una partita non facile. Come dimostra la battaglia sul decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza chiuso ieri tra Camera e Senato. Anche questo il segnale di una stretta per la magistratura, ma anche per la stampa. E, a seguire, un question time alla Camera che non può passare inosservato. A interrogare la ministra era Enrico Costa, noto fustigatore delle toghe, stavolta con un quesito a trabocchetto. Chiedeva alla ministra quale sia stato l’andamento delle valutazioni di professionalità del Csm sui magistrati per capire fino a che punto sia stato buonista palazzo dei Marescialli. E Cartabia ha portato a Montecitorio dei numeri. Eccoli: “Dal 2017 all’ottobre del 2021, le valutazioni negative sono state in totale 35 (lo 0,5%), quelle non positive sono state in totale 24 (lo 0,3%) e quelle positive sono state in totale 7.394, pari al 99,2 per cento”. Troppo facile per Costa, davanti a questi dati, replicare: “Sulla verifica professionale di un magistrato serve una valutazione seria e non solo formale, perché se un pubblico ministero arresta cento persone e quasi tutte vengono assolte, e se un giudice in 4 anni vede annullate tutte le sue sentenze, questo deve avere un rilievo sulla sua carriera”. Un antipasto della battaglia che comincia oggi in via Arenula. La Guardasigilli si candida ad essere costituzionalmente un arbitro imparziale, ma i nemici dei giudici sono molto agguerriti. E ci si confronterà anche su fino a che punto si potrà intervenire sul Csm a Costituzione invariata, ben sapendo che nel mondo dei costituzionalisti il dibattito è aperto come dimostrano le posizioni di Massimo Luciani e di Giovanni Maria Flick. Che certo sono contrapposte. “Ignorati i diritti dei minori”. I giudici: la riforma è sbagliata di Luciano Moia Avvenire, 21 ottobre 2021 La moltiplicazione dei tribunali (ne sorgeranno 165 in più) si rischia di cancellare esperienze decennali, svalutare l’importanza del giudizio multidisciplinare. Presidenti dei tribunali e procuratori minorili alzano la voce: la riforma della giustizia minorile varata dal Senato e che ora attende il via libera dalla Camera ignora i diritti dei bambini, svuota l’operato degli attuali Tribunali per i minorenni, svaluta l’importanza del giudizio multidisciplinare, cancella il grande lavoro preventivo messo in atto nelle procure minorile, apre la strada a giudici non specializzati che si troveranno a decidere su vicende delicate e complesse come abusi e maltrattamenti in famiglia, magari dopo aver pronunciato una sentenza sugli sfratti. È un quadro tutto negativo quello presentato ieri pomeriggio durante l’incontro tra i presidenti dei Tribunali minorili, i procuratori (presenti i rappresentanti dei 29 distretti minorili) e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Giudici e procuratori condividono l’obiettivo della riforma, cioè quello di favorire una maggiore omogeneità per tutti i procedimenti relativi ai minorenni e alle famiglie, ma fanno notare che il nuovo rito è stato pensato soprattutto per i procedimenti di separazione e di divorzio, ma sono state dimenticate le esigenze di bambini e ragazzi. La ministra ha ascoltato, ha riconosciuto le buone ragioni di giudici e procuratori, ma ha escluso sia possibile in questo momento procedere con lo stralcio della parte riguardante i tribunali minorili e neppure intervenire con altre modifiche. Più avanti, forse, si vedrà. Scompare il collegio multidisciplinare - Quali i problemi evidenziati? Oggi i Tribunali per i minorenni sono composti al 50% da giudici togati e per l’altro 50% da giudici onorari esperti in scienze umane (psicologi, psicoterapeuti, neuropsichiatri, pedagogisti, ecc). Un organo quindi che dovrebbe intervenire in modo elastico e tempestivo per aiutare minori maltrattati e vittime di gravi trascuratezze. Con la riforma tutto cambia. Il 90% dei procedimenti (tranne quelle relativi alle adozioni) viene trasferito alle nuove sezioni minorili circondariali che saranno 165, cioè una presso ciascun tribunale ordinario. Qui a decidere di tutte le vicende in cui sono coinvolti i minori sarà un giudice monocratico non specializzato. La difficoltà di valutare situazioni dolorose, spesso in bilico tra diritti educativi dei genitori e diritti del minore - profilo sempre scivoloso - finirà per indurre il giudice monocratico a ricorrere frequentemente a consulenze tecniche d’ufficio, con un aggravio delle spese per famiglie quasi sempre in precarie situazioni economiche. “Il Tribunale per i minorenni - ha scritto Cristina Maggia, presidente dell’Associazione dei magistrati per i minori e la famiglia in un ampio studio uscito nei giorni scorsi su Questione giustizia - regola un processo che non attribuisce torti o ragioni, non gestisce questioni patrimoniali, ma persegue il miglior interesse o benessere del minore, con finalità di protezione e tutela, attivando in primis la ripresa delle capacità genitoriali carenti”. Si tratta di uno stile che, secondo gli esperti, dovrebbe risultare educativo e costruttivo, grazie all’integrazione tra le competenze giuridiche e quelle scientifiche, ma anche grazie a un confronto costante con i servizi sociali. Tutto questo bagaglio di esperienze e di competenze con la riforma rischia di essere vanificato. Non solo. Vengono allo stesso tempo introdotte novità che, a parere di giudici e di procuratori, potrebbero essere più dannose dei guai a cui si vuole rimediare. Il rischio di decidere in soli due giorni - L’esempio più citato riguarda le modifiche all’articolo 403 del codice civile che permette l’allontanamento di un bambino dalla famiglia di origine quando c’è l’evidenza o il fondato sospetto di maltratta- gravi, abusi, violenze che si traducono in un gravissimo pericolo per l’incolumità del minore. Situazioni estreme che però sono purtroppo tutt’altro che infrequenti. Secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia gli allontanamenti sono 23 al giorno, 8.395 l’anno, 1,4 per mille abitanti. Tanti in assoluto - perché si parla sempre e comunque di bambini sottoposti a profonde sofferenze - eppure pochi se paragonati agli allontanamenti di Francia (10,4 per mille), Germania (10,5), Regno Unito (6,1). Perché, a partire dal caso Bibbiano in poi, il ‘403’ suscita tante polemiche? Perché la legge consente a servizi sociali, organi di polizia, autorità amministrative di intervenire d’urgenza, in autonomia, anche senza il via libero preventivo dell’autorità giudiziaria. La segnalazione al procuratore minorile dovrebbe essere però tempestiva e, altrettanto tempestiva, la conferma o la revoca della decisione. Ma questa sollecitudine talvolta non c’è. Pesanti carenze di organico - ieri sottolineate con forza soprattutto dai procuratori minorili - causano talvolta ritardi di giorni, spesso di settimane. D’altra parte la legge non impone nessun termine per la decisione del magistrato. Una stortura che certamente andava rimossa. Tanto che da tempo la stessa Associazione dei magistrati minorili proponeva un limite accettabile - 15 giorni - per la conferma o la revoca della decisione. La riforma va molto oltre, stabilendo che il giudice investito del procedimento debba decidere in 48 ore e fissare entro 15 giorni l’udienza con i genitori e l’ascolto del minore. In caso contrario il provvedimento decade. Ma come farà il giudice monocratico a concludere gli approfondimenti necessari per comprendere il disagio familiare causa di un allontanamento in sole 48 ore, considerando la complessità e la delicatezza delle maggior parte delle situazioni? Finirà - facile prevederlo, sostengono giudici e procuratori - per fare proprie le valutazioni formulate dai servizi sociali e, nell’impossibilità di intervenire diversamente, convalidare le decisioni assunte con il 403. E la reale tutela dei diritti dei bambini - e dei genitori - continuerà a rimanere un’ipotesi lontana. “Altro che pericolosa: questa riforma sui minori è una svolta epocale” di Simona Musco Il Dubbio, 21 ottobre 2021 Intervista a Claudio Cecchella, ordinario di diritto processuale civile all’Università di Pisa e presidente dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, sulla presa di posizione dei magistrati minorili contro la riforma. “La collegialità non è affatto perduta, sia perché conservata in alcune materie, come quella penale, e sia perché comunque recuperata in sede di appello, condotto innanzi all’articolazione distrettuale del Tribunale”. A dirlo Claudio Cecchella, ordinario di diritto processuale civile all’Università di Pisa e presidente dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, che commenta la presa di posizione dei magistrati minorili contro la riforma del diritto di famiglia. Le modifiche sul diritto di famiglia sono le uniche, nell’ambito della riforma del civile, ad aver incontrato il favore di tutti i partiti politici, ma anche dell’avvocatura, che invece è molto critica su altri aspetti. Quali sono secondo lei i punti di forza? Le associazioni specialistiche degli avvocati, che già avevano lavorato ad un progetto nel 2016/ 2017, prima della chiusura della legislatura, discusso con i magistrati ordinari e minorili, a cui ha in vasta parte attinto la riforma in fase di approvazione parlamentare, hanno accolto con molto interesse le soluzioni dedicate al Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie e al rito unitario, come riforma epocale, attesa dalla nascita della Repubblica, essendo la normativa processuale risalente al ventennio e mai coordinata con la vorticosa evoluzione della disciplina sostanziale. Sia il rito camerale, coerente con una visione gerarchica e autoritaria della famiglia dove non ci sono diritti ma solo interessi da amministrare, dovendo il giudice sostituire il pater familias che non è riuscito a comporre la crisi, perciò svincolato da regole processuali dettate dal legislatore, sia la visione paternalistica di un giudice composto collegialmente in modo paritetico, due giudici togati e due giudici laici, non possono più coordinarsi con una famiglia in cui le componenti fragili, il minore e il coniuge debole, sono titolari di veri e propri diritti soggettivi e le regole processuali devono fare i conti con i principi del giusto processo. Gli avvocati, nella veste di garanti della difesa, funzione di rilievo costituzionale, erano troppo spesso visti come parti scomode, collocati ai margini delle indagini peritali o addirittura delle udienze, particolarmente quando la delega della fase istruttoria fosse affidata ai giudici laici. Un processo che assicura il diritto di azione, il diritto di difesa, il contraddittorio e il diritto alla prova, con la garanzia del reclamo generalizzato in relazione ai provvedimenti provvisori, non può che essere salutato come una conquista, in linea con la giurisprudenza della Cedu. Ugualmente un tribunale unico formato da giudici togati, in cui l’esperto potrà inserirsi come giudice onorario nell’ufficio del processo o meglio ancora come consulente sottoposto al contraddittorio dei consulenti di parte (ciò che non avviene invece quando ha modo di esprimersi solo in camera di consiglio, ove non sono ammessi gli avvocati o i consulenti di parte), risolverà finalmente i gravi rischi di contrasto di giudicati tra le misure sulla responsabilità genitoriale del tribunale per i minorenni e le misure sull’affidamento del tribunale ordinario. Una riforma epocale, da tanto, troppo tempo, attesa. Cosa ha impedito in passato di raggiungere l’obiettivo che invece sembra essere stato raggiunto oggi? Anche se l’avvocatura ha cercato di condividere una soluzione unitaria, nel tentativo che ho ricordato, al termine dei lavori, il nodo della fine del Tribunale dei minorenni, retaggio di un passato imbarazzante, è stato il vero ostacolo e non è stato possibile giungere ad una soluzione accettata da tutte le professionalità coinvolte. Vi è stata troppo spesso, anche nel passato, una contrapposizione tra avvocatura e scienza processualistica, da un lato, a cui molti componenti della magistratura ordinaria hanno aderito, e magistratura minorile dall’altro. Il tema si è presentato anche oggi, come è evidenziato dalle prese di posizione ufficiali dell’Aimmf. Secondo i magistrati per i minorenni, la riforma del diritto di famiglia rischia di essere deleteria, venendo meno la “garanzia della collegialità multidisciplinare” prevista dall’attuale sistema. Le preoccupazioni sono fondate? Con l’adesione alla riforma l’avvocatura manifesta la massima fiducia nell’opera della magistratura minorile, ma quella togata. Ribadisco, il giudice onorario potrà coadiuvare il giudice nell’ufficio del processo e il giudice potrà trarre ausilio da una consulenza tecnica a cui hanno partecipato le parti, e non ad un parere tecnico espresso solo in camera di consiglio. La collegialità non è affatto perduta, sia perché conservata in alcune materie, come quella penale, e sia perché comunque recuperata in sede di appello, condotto innanzi all’articolazione distrettuale del Tribunale. Non vedo tutto questo pericolo. Faccio io una domanda: se recuperassimo una collegialità nella articolazione circondariale, i magistrati minorili sarebbero disposti a rinunciare alla conservazione del Tribunale per i minorenni? Temo una risposta scontata. Ribadisco che l’apporto della scienza psicologica e medica deve stare fuori dalla camera di consiglio e diventare consulenza tecnica sottoposta al contraddittorio delle parti (non è un caso che l’istituto della perizia d’ufficio nel processo comune ha visto sempre più accentuarsi l’attenzione verso forme di sempre più elevata assicurazione del contraddittorio). C’è effettivamente un rischio di appesantimento del lavoro giudiziario, in assenza di un aumento degli organici? La riforma se vuole essere effettiva e nella direzione imposta dalla Cedu e dai principi costituzionali, non può essere a costo zero e comunque la collegialità, che viene sbandierata come vessillo dalla critica, non è affatto a costo zero. Che conseguenze può avere questa presa di posizione? In realtà il carattere monocratico della articolazione circondariale, va certamente nella direzione di una economia degli organici: monocraticità - non si dimentichi - che sarà supportata da un ufficio del processo a cui avranno accesso i giudici onorari e che recupererà la collegialità in appello. Ci sono secondo lei elementi di criticità in questa riforma? In relazione al rito, avere per i diritti disponibili (assegni di mantenimento) costretto le parti a preclusioni coincidenti con gli atti introduttivi, anche per la prova, e non avere adeguato il rito per le persone, per i minorenni e per le famiglie alla gradualità delle preclusioni, pur riconosciuta dalla stessa riforma al rito comune, dopo la battaglia condotta dall’avvocatura. Non certo la introduzione del Tribunale unico. In che modo l’introduzione di un rito unificato migliorerà la gestione dei casi? Una diaspora dei riti, com’è vissuta ora, con il rito camerale in taluni casi, il rito speciale della separazione e divorzio in altri, il rito ordinario, ancora in altri, e il riparto di competenze tra due giudici (tribunale per i minorenni e tribunale ordinario), non va certo nella direzione di un tutela dei diritti: si rischia di discutere di processo per anni, senza giungere al merito, che - non si dimentichi - è il diritto di persone fragili, come i minori e le componenti deboli delle famiglie. Sardegna. Garante per i detenuti: istituito 10 anni fa non è mai stato nominato cagliaripad.it, 21 ottobre 2021 Questa figura è prevista dal 2011 ma ad oggi non è mai stata nominata: il Comune di Cagliari sollecita Giunta e Consiglio regionale perché procedano finalmente alla nomina. Si dovrebbe occupare della tutela dei diritti di chi, per ragioni diverse, si trova in carcere o agli arresti domiciliari o in custodia cautelare. il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale sulla carta è previsto in Sardegna sin dal 2011, ma ad oggi, dieci anni dopo, non è mai stato nominato. “Il sindaco di Cagliari e la sua giunta oggi hanno preso un impegno preciso - annuncia la consigliera comunale Francesca Mulas nella sua bacheca Facebook: sollecitare la Regione Sardegna perché nomini, finalmente, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Siamo molto, molto in ritardo: il garante, figura che si dovrebbe occupare del pieno rispetto dei diritti di chi, per ragioni diverse, si trova in carcere o agli arresti domiciliari o in custodia cautelare, è previsto in Sardegna sin dal 2011. A oggi, dieci anni dopo, non è mai stato nominato. Non è stato mai nominato neanche il garante della città metropolitana, con competenze sui comuni della città metropolitana e sulle carceri di Uta e minorile di Quartucciu, previsto dal 2017?. “È un’assenza che si sente: non esiste oggi una figura che si prenda cura di far rispettare il diritto all’istruzione, alla salute, alla formazione, all’integrazione sociale delle persone in condizioni di fragilità, e che faccia da tramite tra le persone detenute e le istituzioni - scrive Mulas -. Un’assenza che ha pesato durante i mesi terribili del primo lockdown, quando sono stati sospesi i colloqui con familiari e avvocati, la scuola, i corsi, lo sport e tutte le attività, e per i detenuti e le detenute è iniziato un periodo di solitudine e paura mai visti prima. Tantissimi cittadini e cittadine hanno inviato negli anni solleciti e richieste, e diverse associazioni hanno organizzato manifestazioni, sit in e raccolte firme per sollevare il problema. Tra queste l’associazione Associazione Radicale “Diritti alla Follia”. Per questo motivo ho presentato un ordine del giorno per chiedere al sindaco e alla giunta di Cagliari due impegni: la nomina del garante per la città metropolitana, che dovrà firmare il sindaco metropolitano (lo stesso Paolo Truzzu) e un sollecito a Giunta e consiglio regionale perché procedano finalmente alla nomina del garante regionale”. “Il Consiglio comunale ha votato sì all’unanimità, e di questo ringrazio tutti i consiglieri e consigliere del centrosinistra che hanno sottoscritto subito il documento, i colleghi e colleghe della maggioranza che hanno votato a favore e in particolare l’assessora alle Pari Opportunità Rita Dedola per le parole di sostegno per i detenuti di Uta e i loro familiari, lontani dalla città e sempre più isolati. “Criminali non si nasce, si diventa”, ci ricorda sempre don Ettore Cannavera. Abbiamo il dovere di assicurare a tutti e tutte il rispetto dei diritti, e di garantire a chiunque si trovi in condizioni di difficoltà la possibilità di rialzarsi”. Toscana. La Commissione Affari Istituzionali visiterà tutti gli Istituti di pena met.cittametropolitana.fi.it, 21 ottobre 2021 Sono quattro le emergenze del sistema carcerario: massiccia presenza di cittadini stranieri ed extracomunitari (in Toscana oltre il 50 per cento della popolazione detenuta); costante peggioramento della qualità della vita (nel 2020, sempre nella nostra regione, si sono contati 1044 atti di autolesionismo di cui 701 nella sola struttura di Sollicciano mentre la richiesta di psicofarmaci è altissima); scarsa capacità formativa e di istruzione (il livello di alfabetizzazione è pressoché inesistente al momento dell’ingresso in istituto); costi “spaventosi” del sistema. Le criticità sono emerse nel corso dell’audizione del provveditore regionale delegato del ministero della Giustizia, provveditore della penitenziaria Toscana-Umbria, Pierpaolo D’Andria, e del Garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani in commissione Affari istituzionali presieduta da Giacomo Bugliani (Pd). Il confronto, sollecitato dal capogruppo di Fratelli d’Italia Francesco Torselli, ha trovato la Commissione unanime su un punto preciso: toccare con mano la realtà di detenuti, agenti penitenziari ed ogni soggetto coinvolto è fondamentale per conoscere a fondo il sistema ed essere costruttivi non solo in tema di edilizia carceraria - molte strutture risultano obsolete, ‘fuori dal tempo’ come hanno spesso riportato gli organi di stampa - ma anche propositivi dal punto di vista normativo. I sopralluoghi che saranno organizzati, e a cui parteciperà anche il Garante Fanfani, dovranno “superare l’appartenenza politica. Sono d’accordo su un’assunzione di carattere istituzionale perché sarà una strada unica per provare ad essere realmente incisivi” ha dichiarato Bugliani. I commissari si sono trovati d’accordo anche sul un altro fronte: trattare il pianeta carcere nel suo insieme. Detenuti, agenti, operatori e volontari, personale interno addetto ai diversi servizi non sono monadi, piuttosto un “unico sistema di relazioni e vita sociale”. Nel corso della seduta è stata anche illustrata la situazione di alcune carceri toscane, in particolare Sollicciano. Tutte le strutture avrebbero bisogno di un “Piano quanto più organico possibile per affrontare emergenze di tipo strutturale e impiantistico” ha detto D’Auria. Per quello di Firenze è in corso un progetto di rilancio “ben avviato” per l’efficientamento energetico con l’installazione di pannelli fotovoltaici (le risorse provengono da fondi comunitari ed è svolto in sinergia con la Regione), sistemazione delle facciate esterne, messa in sicurezza del camminamento sulla cinta muraria e interna, sistemazione dei terrazzi per evitare infiltrazioni. Interventi sono previsti anche sulle dorsali idriche per attivare le docce all’interno delle celle e per quelle ad uso comune. D’Auria ha informato anche sull’imminente realizzazione di un fabbricato per le attività lavorative: “la stipula del contratto è annunciata” ha affermato. È sceso più nel dettaglio fornendo dati e numeri il Garante regionale che ha definito la situazione toscana “non disprezzabile”. Il problema del sovraffollamento, al netto dell’emergenza di presenze straniere, non è così marcato come nel resto del Paese: a fronte di 3mila 77 detenuti abbiamo una disponibilità per 3mila 117”. La carenza strutturale è invece “atavica”. In Toscana si è affrontata bene anche la pandemia: “Non si sono registrati focolai, ad eccezione di Volterra dove 57 detenuti si sono ammalati contemporaneamente, e i vaccini sono stati distribuiti con velocità”. Al 19 luglio scorso sono infatti 2mila 658 le somministrazioni effettuate. “Probabilmente oggi ci avviciniamo a 3mila, quasi la totalità della popolazione carceraria”. Sui costi “spaventosi” del sistema, Fanfani non ha dubbi: “Non servono tagli quanto miglior impiego delle risorse. Dobbiamo creare le condizioni per il reinserimento. Se non offriamo opportunità reali sono, sì, soldi buttati via”. Sollecitato dalla consigliera Elisa Tozzi (Lega), il Garante ha fornito i numeri delle madri e dei minori presenti nelle carceri. Anche qui la situazione toscana è migliore rispetto al dato nazionale. Pur considerando la presenza di bambine e bambini in istituti “inaccettabile sia umanamente che democraticamente” i numeri sono “estremamente contenuti: due madri con due figli al seguito in tutta la regione (in Italia 25 detenute madri con 28 figli al 30 settembre). Santa Maria Capua Vetere. Violenze in carcere: altre indagini, 100 agenti ancora senza nome di Mary Liguori Il Mattino, 21 ottobre 2021 Il 9 settembre scorso la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiuso le indagini su una prima tranche dell’inchiesta che ha riguardato 120 persone, tra agenti della Penitenziaria, quasi tutti in servizio nel carcere sammaritano, e funzionari dell’amministrazione penitenziaria, ritenuti dagli inquirenti coinvolti nelle violenze sui detenuti avvenute il 6 aprile del 2020. Nonostante l’attività investigativa sta comunque andando avanti come dimostrano gli avvisi di proroga pervenuti pochi giorni dopo l’avviso di chiusura ai legali degli indagati. Va ricordato che l’indagine, per ora, non è riuscita a dare un nome a oltre 100 agenti presenti quella sera nel carcere. Qualcuno degli indagati, dopo aver ricevuto l’avviso di chiusura indagini, ha deciso di collaborare, facendosi interrogare dai pm che ora stanno cercando di dare un nome e un volto a quegli agenti, venuti dalle carceri Secondigliano e Ariano Irpino, entrati in azione quella sera con caschi e manganelli. Finiti gli interrogatori, l’ufficio inquirente, che intanto ha cambiato Procuratore (ora c’è il facente funzioni Carmine Renzulli mentre Maria Antonietta Troncone è andata a guidare la Procura di Napoli Nord nel vicino comune di Aversa), dovrebbe chiedere il rinvio a giudizio degli indagati. E, probabilmente, proprio il prosieguo dell’indagine - giunta a una seconda fase - potrebbe spiegare il motivo per il quale il Gip ha deciso di non accogliere le istanze di molti avvocati i quali ritenevano, con l’avviso di chiusura, cessate le esigenze cautelari per i propri assistiti. L’inchiesta, comunque, già ora appare molto solida visto che il Tribunale del Riesame di Napoli, dopo gli arresti di giugno, ha confermato quasi del tutto l’impostazione della Procura, annullando solo poche misure cautelari e quasi sempre per mancanza di esigenze cautelari e mai per assenza di gravi indizi di colpevolezza. Ai picchiatori fu pagato lo straordinario nelle ore dei pestaggi - Non solo non li hanno ancora identificati e quindi sono tutt’ora in servizio nelle carceri. Ma hanno anche percepito il pagamento delle ore di lavoro straordinario, fino a quattro per la precisione, per il 6 aprile 2020, ovvero il giorno dei pestaggi nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Isernia. Proteste in carcere durante il lockdown, chiesto il rinvio a giudizio per 16 detenuti ansa.it, 21 ottobre 2021 Sommossa nel carcere di Isernia: la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 16 detenuti. I fatti risalgono al 9 marzo 2020, all’inizio del lockdown quando più strutture carcerarie erano interessate da disordini e anche fughe di detenuti per la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari, disposta dal Governo, in seguito all’emergenza sanitaria. “A partire dalle 18,40 circa - ricorda la Procura in una nota che ricostruisce la sommossa di Ponte San Leonardo -, rifiutandosi in gran parte di rientrare nelle rispettive sezioni, danneggiandone o incendiandone arredi e suppellettili nonché parte del sistema di videosorveglianza, creando barricate impedendo alla Polizia Penitenziaria di recuperare il controllo delle sezioni e aggredendo verbalmente e fisicamente, fortunatamente senza conseguenze, gli stessi agenti, nonché riversandosi (taluni) negli spazi aperti del penitenziario al fine di evadere”. Da qui l’intervento della Questura di Isernia, della Guardia di Finanza e del Comando Provinciale dei Carabinieri e dei Vigili del Fuco per evitare l’evasione dal carcere. Poi un’attività di “ascolto e mediazione fino all’1:30 del 10 marzo 2020 e il ritorno alla normalità. Ingenti i danni: secondo quanto comunicato dalla Direzione della Casa circondariale sono stati complessivamente stimati in oltre 7.700 euro. Le indagini furono affidate alla Squadra Mobile, coordinate dal Procuratore della Repubblica, Carlo Fucci, e dirette dal Sost. Procuratore Alessandro Iannitti. Determinati per identificare i responsabili i filmati del sistema di video sorveglianza del carcere di Isernia, parzialmente distrutto dai detenuti, e quelli effettuati dall’operatore del Gabinetto Provinciale di Polizia Scientifica durante i disordini. Trani. Criticità nel carcere, la questione arriva in Parlamento traniviva.it, 21 ottobre 2021 La senatrice Piarulli interroga il ministro della Giustizia. “Il Ministro della Giustizia è a conoscenza delle gravi criticità delle carceri di Trani? E quali iniziative intende intraprendere per evitare il protrarsi di tale incresciosa situazione?”. A chiederlo formalmente in una interrogazione, insieme con altri colleghi, è la senatrice Angela Anna Bruna Piarulli, del Movimento cinque stelle. La parlamentare lo scorso 7 ottobre, dopo l’evasione di due detenuti e la morte di un altro affetto da problemi psichiatrici, insieme con la collega Cinzia Leone, si era recata al carcere maschile di Trani per un sopralluogo. A seguito della visita, e delle informazioni assunte dalla direzione dell’istituto penale, è emerso uno scenario fatto di non poche criticità. Per prima cosa, nel reparto di Polizia penitenziaria degli istituti penali di Trani, a fronte di una dotazione organica prevista di 211 unità, ve ne sono 206, “ma di questi 206 poliziotti circa 50 sono assenti, o non impiegabili a vario titolo - fa sapere la senatrice Piarulli -, e la situazione è resa ancora più problematica dall’apertura del nuovo plesso da 200 posti letto, avvenuta ad ottobre 2020. Eppure è tuttora attivo uno spaccio bar presso cui è impiegato personale di Polizia penitenziaria, nonostante ci siano distributori automatici di bevande e snack, distogliendo così gli agenti dai servizi propri della Polizia penitenziaria”. Un altro grave problema è nell’organico dei funzionari della professionalità giuridico-pedagogica: “La situazione risulta drammatica - spiega Piarulli - in quanto al momento l’unica presenza garantita è quella della capo area trattamentale con il supporto, per due giorni la settimana, di un funzionario giuridico-pedagogico. Altri due funzionari del settore sono assenti e tale situazione comporta, quindi, un grave pregiudizio al trattamento rieducativo dei condannati, in chiaro contrasto con i principi costituzionali”. Quanto all’edilizia carceraria, l’attivazione del nuovo padiglione pare non abbia risolto per nulla i problemi: “Contestualmente a quell’apertura - ricorda Piarulli - il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva disposto la chiusura completa della sezione “blu”, inagibile poiché necessita di lavori di ristrutturazione per l’eliminazione dei bagni a vista e delle zone doccia separate dalle camere di pernottamento. Ebbene, dal sopralluogo effettuato e dalla relazione fornita dalla direzione, emerge che una parte di tale sezione, nonostante l’ordine completo di chiusura, sia stata invece riaperta: di fatto, dunque, non solo alcuni detenuti sono ristretti in ambienti non idonei, ma vengono impiegate ulteriori unità di Polizia penitenziaria per la vigilanza di tale reparto. All’atto dell’ispezione parte di quella sezione era ancora aperta, nell’attesa di un provvedimento di trasferimento dei soggetti ivi allocati”. Non da ultimo, “molti dei ristretti hanno gravi patologie psichiatriche - denuncia Piarulli - e non possono avere a Trani adeguata assistenza a causa della mancanza di un’articolazione dell’Asl Bt per la salute mentale, nonché per l’insufficienza numerica sul territorio delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, anche cogliendo gli stanziamenti previsti dalla legge di bilancio per l’implementazione delle Rems”. Da non dimenticare infine il sovraffollamento della casa di reclusione femminile, che attualmente conta 40 detenute a fronte di una capienza tollerabile di 30. “Tale situazione - fa sapere Piarulli - è dovuta al fatto che, poiché la sezione femminile presso la casa circondariale di Bari è chiusa da anni per motivi di ristrutturazione, il carcere di Trani è costretto a farsi carico dell’intero distretto della Corte d’appello di Bari”. “Il Ministro della Giustizia è a conoscenza delle gravi criticità delle carceri di Trani? E quali iniziative intende intraprendere per evitare il protrarsi di tale incresciosa situazione?”. A chiederlo formalmente in una interrogazione, insieme con altri colleghi, è la senatrice Angela Anna Bruna Piarulli, del Movimento cinque stelle. La parlamentare lo scorso 7 ottobre, dopo l’evasione di due detenuti e la morte di un altro affetto da problemi psichiatrici, insieme con la collega Cinzia Leone, si era recata al carcere maschile di Trani per un sopralluogo. A seguito della visita, e delle informazioni assunte dalla direzione dell’istituto penale, è emerso uno scenario fatto di non poche criticità. Per prima cosa, nel reparto di Polizia penitenziaria degli istituti penali di Trani, a fronte di una dotazione organica prevista di 211 unità, ve ne sono 206, “ma di questi 206 poliziotti circa 50 sono assenti, o non impiegabili a vario titolo - fa sapere la senatrice Piarulli -, e la situazione è resa ancora più problematica dall’apertura del nuovo plesso da 200 posti letto, avvenuta ad ottobre 2020. Eppure è tuttora attivo uno spaccio bar presso cui è impiegato personale di Polizia penitenziaria, nonostante ci siano distributori automatici di bevande e snack, distogliendo così gli agenti dai servizi propri della Polizia penitenziaria”. Un altro grave problema è nell’organico dei funzionari della professionalità giuridico-pedagogica: “La situazione risulta drammatica - spiega Piarulli -, in quanto al momento l’unica presenza garantita è quella della capo area trattamentale con il supporto, per due giorni la settimana, di un funzionario giuridico-pedagogico. Altri due funzionari del settore sono assenti e tale situazione comporta, quindi, un grave pregiudizio al trattamento rieducativo dei condannati, in chiaro contrasto con i principi costituzionali”. Quanto all’edilizia carceraria, l’attivazione del nuovo padiglione pare non abbia risolto per nulla i problemi: “Contestualmente a quell’apertura - ricorda Piarulli - il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva disposto la chiusura completa della sezione “blu”, inagibile poiché necessita di lavori di ristrutturazione per l’eliminazione dei bagni a vista e delle zone doccia separate dalle camere di pernottamento. Ebbene, dal sopralluogo effettuato e dalla relazione fornita dalla direzione, emerge che una parte di tale sezione, nonostante l’ordine completo di chiusura, sia stata invece riaperta: di fatto, dunque, non solo alcuni detenuti sono ristretti in ambienti non idonei, ma vengono impiegate ulteriori unità di Polizia penitenziaria per la vigilanza di tale reparto. All’atto dell’ispezione parte di quella sezione era ancora aperta, nell’attesa di un provvedimento di trasferimento dei soggetti ivi allocati”. Non da ultimo, “molti dei ristretti hanno gravi patologie psichiatriche - denuncia Piarulli - e non possono avere a Trani adeguata assistenza a causa della mancanza di un’articolazione dell’Asl Bt per la salute mentale, nonché per l’insufficienza numerica sul territorio delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, anche cogliendo gli stanziamenti previsti dalla legge di bilancio per l’implementazione delle Rems”. Da non dimenticare infine il sovraffollamento della casa di reclusione femminile, che attualmente conta 40 detenute a fronte di una capienza tollerabile di 30. “Tale situazione - fa sapere Piarulli - è dovuta al fatto che, poiché la sezione femminile presso la casa circondariale di Bari è chiusa da anni per motivi di ristrutturazione, il carcere di Trani è costretto a farsi carico dell’intero distretto della Corte d’appello di Bari”. Rimini. Disperato dopo l’arresto tenta il suicidio in carcere: era davvero innocente primatorino.it, 21 ottobre 2021 L’uomo, accusato di omicidio, continuava a ripetere che non era stato lui. Quando uscirà dall’ospedale sarà un uomo libero. In carcere per omicidio si professa innocente e tenta il suicidio: viene salvato e sarà scarcerato, era davvero innocente! Una agghiacciante vicenda giudiziaria, per fortuna risoltasi in positivo, coinvolge un 36enne ufficialmente residente a Torino ma da qualche settimana domiciliato a Rimini. L’uomo è stato accusato di omicidio e arrestato, quindi messo in carcere. Continuava a dire che lui non c’entrava niente, che era un errore giudiziario, che avevano sbagliato persona. Ma si sa: la galera è piena di gente che si professa innocente... Quindi le sue lamentele saranno state “pesate” il giusto da giudici e secondini. Questa volta però era vero: l’uomo non era colpevole di omicidio ed era altresì caduto in uno stato di prostrazione estremo. Si può ben immaginare il suo stato d’animo: detenuto ingiustamente e poi condannato all’ergastolo (primo grado) non ha più visto alcunché di positivo nella propria esistenza. Ha quindi cercato di farla finita, di ammazzarsi al culmine del baratro causato dalla depressione. Si è quindi impiccato usando delle federe, ma è stato salvato in extremis due giorni fa. Subito ricoverato all’Ospedale di Cesena, è fuori pericolo. Ma l’epilogo più inquietante è arrivato poche ore fa: all’uomo, di origini albanesi, è stata notificata la revoca del mandato di cattura internazionale. Quando sarà dimesso dall’ospedale quindi sarà ufficialmente un uomo libero. Il protagonista di questa allucinante vicenda (l’innocente che tenta il suicidio in carcere) per fortuna a lieto fine è difeso dall’avvocato Giuliano Renzi. Roma. Vivere i sentimenti e accudire i figli anche in prigione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2021 “Il carcere è un luogo dove dobbiamo dare affetto. Questa piccola casa deve avere una vita felice. Una casa così non è stata scritta sui libri”. Sono le parole, commosse, dell’architetto e senatore a vita Renzo Piano che ha inaugurato il Mama, il Modulo per l’affettività e la maternità, nel carcere femminile di Rebibbia a Roma. Martedì scorso, in una splendida giornata di sole, ha dato inizio alla cerimonia inaugurale la direttrice della Casa circondariale femminile, Alessia Rampazzi. Nel corso dell’inaugurazione sono intervenuti anche la rettrice della Sapienza, Antonella Polimeni, il preside della facoltà di architettura della Sapienza, Orazio Carpenzano. Realizzata dai tre progettisti Tommaso Marenaci, Attilio Mazzetto e Martina Passeri, borsisti del progetto di Pano del G124, in collaborazione con l’università e la facoltà di architettura, terminata nel 2019 poi congelata dal lockdown, la casetta comincerà ora la sua vita, spiega la direttrice, ospitando a rotazione le detenute con le loro famiglie, alle quali verrà offerta qualche ora di normalità, anche per pensare al “dopo”, per fare una prova di futuro. “È facile realizzare questo progetto perché il Mama non poteva essere che l’archetipo di una casa”, ha detto Renzo Piano, parlando di questa casetta rossa di 28 metri quadri, piccola e semplice come fosse uscita dalla matita di un bambino, ma con dentro tutto quello che serve a ricordare la vita di fuori, la famiglia, gli affetti, la normalità dei sentimenti. “Tra i tanti temi importanti che riguardano la nostra società - ha proseguito Renzo Piano - quello del carcere è uno dei più delicati perché è un luogo di passione, apnea, attesa, un po’ come sono gli ospedali. Mi rendo conto che all’interno dei grandi temi del carcere questa non è una gran cosa: è una scintilla. Ma le scintille contano. Se madri potranno incontrare i loro figli in questo luogo e far risalire in superficie sentimenti, sarà una buona cosa. Anche il progetto più piccolo può avere una vita felice. E io mi auguro che questa minuscola casa abbia una vita felice e che possano esservi tante di queste scintille”. Per Renzo Piano la casetta è “modesta nelle dimensioni, grandiosa nelle ambizioni”. Il piccolo fabbricato è stato quasi interamente montato dai detenuti che lavorano nella falegnameria della Casa circondariale di Viterbo. Alcune lavorazioni di supporto sono state eseguite dalle detenute di Rebibbia. Il Mama è dunque “uno spazio per vivere i sentimenti”, spiega Renzo Piano che aggiunge: “I progetti sono come i figli, mi auguro che abbia una vita felice”. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri, la senatrice Monica Cirinnà, il capo di gabinetto del ministero della Giustizia Raffaele Piccirillo, il direttore generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Gianfranco De Gesu, il provveditore regionale Carmelo Cantone e il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia, la Garante di Roma capitale, Gabriella Stramaccioni. A Roma, quindi, si è scelto di dare concretezza ad un progetto di rammendo all’interno del carcere, luogo periferico e separato per definizione, dove a dominare è la cultura dell’isolamento, fortemente impattante dall’esterno, duramente percepibile all’interno, a causa della difficoltà dei rapporti interpersonali tra detenuti. Il progetto, ribadiamo, si è concretizzato presso la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, nella periferia Nord- Est di Roma, uno dei quattro istituti femminili presenti in tutta Italia. Data la scarsità delle strutture sul territorio, molte detenute scontano la propria pena lontane dall’ambiente di provenienza, convivendo quotidianamente con una duplice colpevolezza, quella dovuta al reato commesso e quella derivante dalla consapevolezza di non poter svolgere un ruolo portante nel nucleo familiare. Bergamo. Tra i detenuti del “Kilometro del lavoro”, contro la recidiva di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 21 ottobre 2021 Otto operano nel laboratorio di assemblaggio per tre ore al giorno. La direttrice Mazzotta: “Vogliamo anche ampliare il forno e formare saldatori”. A luglio, in carcere è stato avviato un laboratorio di assemblaggio che dà lavoro a 8 detenuti. Era stata un’idea di don Fausto Resmini, la cooperativa Il Mosaico l’ha sviluppata in un progetto che ora tutti vorrebbero vedere crescere. Insieme ad altri. “A fianco del laboratorio, nell’ex muro di cinta, ci sono altri locali che puntiamo a riqualificare per ampliare il forno interno della cooperativa Calimero - spiega la direttrice Teresa Mazzotta - e organizzare un’attività formativa per saldatori, figura professionale particolarmente richiesta in Lombardia. Vorremmo che diventasse il nostro “chilometro” del lavoro”. Come il Kilometro Rosso a Stezzano. Il laboratorio di assemblaggio è vivo grazie alle commesse garantite alla Mosaico dalla Pneumax e dalla Helios di Lurano (guarda caso il paese di don Fausto). È il profit che si mischia al no-profit. Come per il corso di confezione tessile partito a giugno e che ha coinvolto 10 detenuti, nei locali dell’Abf, e 10 detenute in carcere. “Abbiamo coinvolto Confindustria e lo ritengo un passo importante - spiega l’ex presidente del Tribunale di Sorveglianza Monica Lazzaroni. Progetti validi, che nascono ed entusiasmano, spesso terminano per mancanza di risorse. E le persone restano lì. Il “profit” assolutamente potrebbe fare di più. Se si facessero progetti di formazione mirati e le imprese contribuissero, avremmo persone competenti da reintegrare nel territorio”. Significherebbe, in definitiva, abbattere la recidiva: “Il lavoro è fondamentale - riflette Lazzaroni -. Se non ci sono supporti familiari solidi, senza un lavoro e un’attività formativa, entriamo nella certezza che si torni a delinquere”. Dati ministeriali aggiornati sulle percentuali di recidiva “non ne esistono. Nel 2022 - aggiunge Lazzaroni - riprenderemo la ricerca che abbiamo sospeso con il Covid sui provvedimenti di revoca delle misure alternative nel distretto. Ci aiuterà a farci un’idea piuttosto precisa. In generale, purtroppo abbiamo percentuali altissime di marginalità”. La direttrice Mazzotta cita l’esempio del carcere di Bollate, particolarmente all’avanguardia per le attività rivolte ai detenuti: “A Bollate la percentuale di recideva è del 30% mentre in altri istituti arriva al 70%. Cos’è che non funziona? Il non offrire un’opportunità di lavoro o di studio. Sono convinta che molte persone siano disposte a tenersela stretta. Se non c’è trattamento, non c’è sicurezza, è l’inattività che va contro la sicurezza sociale”, insiste Mazzotta. Il comandante della polizia penitenziaria Aldo Scalzo annuisce. “Insistiamo - conclude la direttrice - perché anche gli agenti siano formati a questa idea”. Firenze. Da detenuto a imprenditore che dà lavoro agli ex compagni di cella di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 ottobre 2021 Ieri detenuto in carcere, oggi imprenditore che dà lavoro a 9 dipendenti, tra cui 3 detenuti. È la parabola di Manci Gezim, albanese di 33 anni e un terzo della sua vita passato in carcere. Tanti capi di imputazione, anche gravi, non lo nasconde: “Ma oggi sono una persona diversa e questo lo devo alla Casa Jacques Fesch”, dice Manci, che adesso ha un lavoro, è imprenditore, ha una moglie e una figlia di diciotto mesi. Il giovane albanese ha raccontato la storia della sua rinascita alla presentazione del bilancio sociale della Fondazione Caritas di Prato. La Casa Jacques Fesch è la struttura di accoglienza della Caritas che ospita gratuitamente detenuti in permesso e familiari di detenuti non abbienti che provengono da località distanti da Prato, così da offrire per quanto possibile un ambiente accogliente e decoroso. Manci Gezim ci arriva nel 2017 quando la casa, posta accanto alla chiesa di Narnali in via Pistoiese, è in ristrutturazione. Il 33enne sta finendo di scontare dieci anni di carcere, una volta fuori deve ricominciare da capo, non ha documenti, non ha una famiglia, non ha un lavoro, non ha un posto dove andare. Per quelli come lui il rischio recidiva è altissimo: quasi due detenuti su tre che non hanno opportunità, quando sono liberi tornano a delinquere. Gezim viene coinvolto dalla ditta Saccenti nei lavori alla Casa Jacques Fesch e impara il lavoro di muratore, per sei mesi vive nella struttura e qui viene aiutato da Elisabetta Nincheri, una volontaria. Il giovane capisce che si stanno aprendo possibilità importanti per lui. Ricambia la fiducia data e inizia a costruire la propria vita. Conosce quella che diventerà sua moglie, il lavoro va così bene che decide di mettersi in proprio e aprire una impresa edile dove adesso lavorano nove dipendenti. “Di questi, tre sono ex detenuti - sottolinea Gezim - come hanno aiutato me, anche io voglio fare altrettanto”. Le occasioni create dalla pandemia di Anna Corrado Corriere della Sera, 21 ottobre 2021 Il cambiamento più rilevante si è registrato sul fronte digitalizzazione ed è un bene, se si considera anche che tutti i cittadini da qui a qualche anno dovranno essere muniti di identità digitale per accedere a prestazioni e servizi. Ora che i dati sull’andamento della pandemia sono più incoraggianti e lasciano ben sperare per un imminente ritorno alla normalità, il senso di resilienza proprio dell’essere umano ci impone di ricercare, anche nel dramma vissuto, i cambiamenti positivi. La pandemia ha segnato stile di vita, cultura, economia, politica, progresso scientifico, organizzazione del lavoro e delle famiglie, portandoci ad accettare con naturalezza ciò che in passato sembrava improponibile e impossibile da realizzare. E per certi versi rappresenta un “treno” che non va perso. L’interesse che la popolazione adulta ha mostrato per l’attività sportiva, soprattutto per quella praticata all’aperto, è certamente un’eredità positiva che va preservata; le camminate nel verde, nate per evadere dalla clausura domestica, si stanno tramutando in una pratica quotidiana, cambiando lo stile di vita di tanti e trasformandosi in un viatico di benessere. Oltre ai parchi cittadini anche i marciapiedi, le piazze e ogni tipo di slargo urbano sono stati presi da assalto, questa volta da gestori di bar e ristoranti che sono così riusciti, complice la pandemia, a superare le resistenze della burocrazia che fino a qualche anno fa sembrava invalicabile, consegnando le vie cittadine a una inedita movida. Ma il cambiamento più rilevante si è registrato sul fronte digitalizzazione: la necessità di assicurare didattica a distanza, servizi ai cittadini e comunicazione istituzionale ha costretto famiglie e dipendenti pubblici a familiarizzare velocemente con apparati informatici, dando corpo così a un progresso di almeno di 10 anni. E questo è un bene, se si considera che tutti i cittadini da qui a qualche anno dovranno essere muniti di identità digitale per accedere a prestazioni e servizi. La “rivoluzione pandemica” ha portato, poi, le più alte istituzioni e la politica a “cooptare” il presidente Mario Draghi, un capo del governo che per una volta tutti ci invidiano, per professionalità, credibilità ed esperienza. Un capo del governo che, oltre al ritorno della sobrietà in politica, testimonia che ciò che indigna non è la cooptazione in sé, ma la cooptazione degli incompetenti. Infine, la pandemia ci ha portato lo smart working come nuova modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, soprattutto nella pubblica amministrazione. Se lo smart working generalizzato certamente è destinato a concludersi come esperienza, per la piena efficienza della macchina amministrativa e per la vita stessa dei lavoratori che necessariamente devono riappropriarsi dei contatti umani e delle esperienze professionali che il lavoro in presenza consente, tuttavia continuare a prevederlo in modo elastico, con tetti mensili e annuali potrebbe risultare una modalità molto utile per conciliare vita personale e professionale. Lo smart working, infatti, è una misura capace di impattare sulla vita delle persone, oltre che assicurare una maggiore efficienza organizzativa, come già emerso da numerose esperienze, per cui mantenerla nella giusta misura consentirebbe di introdurre il tema del benessere organizzativo anche nella pubblica amministrazione, per venire incontro a bisogni personali temporanei dei lavoratori. Lavorare da remoto, almeno due giorni alla settimana, consente un risparmio sui trasporti, una migliore qualità della vita, di alimentazione, con ricadute positive sulla salute, sul traffico e sull’inquinamento. Ma non solo, potrebbe trasformarsi a regime in una misura di sostegno alle famiglie, soprattutto per le giovani madri, incidendo positivamente sul preoccupante calo demografico che si registra nel nostro Paese. È chiaro che detta modalità lavorativa necessita di un ripensamento del rapporto di pubblico impiego: sarà necessario ragionare veramente per risultati, organizzare il lavoro per obiettivi, imparare a fidarsi dei propri dipendenti. Un’amministrazione che ha l’ambizione di essere digitale, che opera per dati e attraverso supporti informatici può certamente assicurare da remoto prestazioni e servizi consentendo ai suoi dipendenti di lavorare da uffici virtuali; la sfida futura, quindi, diventa quella di riuscire a pianificare e organizzare il lavoro cercando di capire per esempio quali prestazioni possono essere rese a distanza. Potrebbe essere questa l’occasione per curare, da parte dei dirigenti, quel “benessere organizzativo” previsto dal Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (articolo 13) che fino a oggi è rimasto praticamente lettera morta, tanto lettera morta che è stato anche eliminato nel 2016 quale obbligo di pubblicazione dal decreto trasparenza in quanto dato non “noto” e difficile da reperire. Che questo sia un treno da non perdere, considerata l’esperienza già fatta, in uno con il livello di digitalizzazione pubblica che si sta raggiungendo e il sempre più elevato livello di alfabetizzazione informatica dei dipendenti, lo hanno già capito alcune amministrazioni di punta dell’apparato pubblico, tra cui Banca d’Italia. È di qualche giorno fa l’accordo sindacale che sdogana definitivamente, a partire dal 2022, presso questo istituto il modello del lavoro ibrido, attivato su base volontaria dal dipendente e coordinato con il dirigente, per un massimo di 10 giorni al mese, anche consecutivi ove possibile e 100 giorni l’anno di media (da 50 a 120 giorni in base alla telelavorabilità delle attività). Si fanno strada così i nuovi diritti del lavoratore: diritto alla disconnessione, alle dotazioni di lavoro e alla formazione, al buono pasto elettronico, a scegliere il luogo di lavoro, anche all’estero. Un effetto Covid, questo sì, assolutamente da mantenere, anzi da propagare. Migranti. Cpr, le gabbie della nostra vergogna di Luigi Manconi La Stampa, 21 ottobre 2021 Che cosa sono i Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr)? Sotto il profilo giuridico, strutture destinate a trattenere gli stranieri irregolari in attesa di essere espulsi verso il paese di origine. Non si tratta, quindi, di autori di reati, tantomeno di crimini efferati, bensì dei responsabili di quell’illecito amministrativo consistente nella mancata disponibilità di documenti validi. Attualmente, in Italia, i Cpr sono 10 e la loro scarsa efficenza è provata dal fatto che solo il 50% dei trattenuti viene rimpatriato. D’altra parte, i Cpr costituiscono un caso particolare nella, già desolante, toponomastica dei luoghi di detenzione. E descriverne il paesaggio e, come dire?, l’arredamento è qualcosa di mortificante. All’interno della nostra organizzazione sociale e del suo immaginario, non è frequente incontrare una struttura fisica che richiami così prepotentemente l’idea di gabbia. Eppure, in particolare il Cpr di Corso Brunelleschi, a Torino, e quello di Ponte Galeria, a Roma, rappresentano la realizzazione di un incubo esistenziale e architettonico, che può definirsi attraverso la categoria di “gabbietà”. Un vertiginoso labirinto, un ossessivo rincorrersi di sbarre e cemento, “una matrioska di disperazione” (Elena Stancanelli). Si entra in una gabbia di ampie dimensioni, al cui interno si trovano altre gabbie, altissime e insormontabili, a circondare ulteriori gabbie di dimensioni minori. Una stretta recinzione finalizzata alla riduzione in cattività di un certo numero di esseri umani. In questi spazi coatti, gli stranieri vivono nella totale inattività, calati in un non luogo precipitato in un non tempo, ridotti in uno stato crudamente biologico e concentrati sulla mera sopravvivenza. Le sole attività previste sono quelle delle funzioni fisiologiche primarie: dormire mangiare orinare defecare sono l’unica scansione nel corso dell’attesa infinita dell’espulsione. Non stupisce, pertanto, che una simile condizione di alienazione conduca a esiti estremi. Come documentato dal Libro nero (giugno 2021), curato dall’Asgi di Torino, la diffusione degli psicofarmaci è massiccia (“20 gocce di Valium o di Rivotril non si negano a nessuno”, secondo il responsabile dell’ambulatorio). D’altra parte, le informazioni sugli eventi critici sono pressoché inesistenti: un dato disponibile, relativo al 2011, parla di “156 episodi di autolesionismo, 100 dei quali per ingestione di medicinali o di corpi estranei e 56 per ferite da arma da taglio”. Il 22 maggio scorso Mamadou Moussa Balde, nato in Guinea 23 anni fa, si è tolto la vita mentre si trovava in “isolamento sanitario”. Due settimane prima era stato vittima, a Ventimiglia, di un’aggressione da parte di tre cittadini italiani. Poi, perché privo di documenti validi, era stato rinchiuso nel Cpr torinese. La sua morte ha avuto conseguenze dirompenti tra i reclusi di Corso Brunelleschi. Nell’ultimo mese, tra le venti e le trenta persone hanno tentato il suicidio: una parte di queste è stata riportata nel centro; un’altra parte, giudicata incompatibile con la permanenza nel Cpr, a causa dello stato psichico, è stata rilasciata in libertà. Senza alcuna forma di controllo - ma non venivano considerati soggetti estremamente pericolosi? - e senza la benché minima assistenza. Né più né meno che una condanna a un ulteriore processo di emarginazione.? Considerato ciò e considerato che, nel complesso, le condizioni degli altri nove Cpr sono altrettanto oltraggiose per la dignità della persona, la scelta più saggia dovrebbe essere quella di chiudere, una volta per sempre, queste strutture patogene e criminogene. Si studino e si realizzino istituti più intelligenti e razionali per garantire la sicurezza di tutti, per consentire l’applicazione delle norme e per tutelare, allo stesso tempo, gli standard di rispetto dei diritti umani richiesti da uno stato di diritto. E si cancellino questi ferrivecchi tanto inutili quanto disumani. Migranti. Inferno nel Cpr di Torino: 26 tentati suicidi in un mese di Lodovico Poletto La Stampa, 21 ottobre 2021 Ricordatevi questo nome: Bobo, perché è “l’ultimo” di questa storia. L’ultimo di una serie incredibile di tentati suicidi all’interno del Cpr di Torino. E per chi non se lo ricordasse il Cpr è una specie di “carcere - non carcere” dove finiscono gli stranieri che sono in attesa di rimpatrio. Clandestini, certo, arrivati in Italia da qualche sud del mondo. Ecco: nell’ultimo mese, su per giù, almeno 26 persone, in custodia al Cpr di Torino hanno tentato di togliersi la vita. Tutti sono stati soccorsi in tempo, e tutti sono stati accompagnati negli ospedali, al Maria Vittoria, oppure al Martini, che sono quelli più vicini. Ma cosa sta accadendo dietro i cancelli di questa struttura, dove finiscono gli stranieri trovati senza permesso di soggiorno, in qualche angolo d’Italia e che, quindi, devono essere riportati nei loro Paesi d’origine? Per capirlo bisogna riavvolgere il nastro e tornare a inizio ottobre, quando viene soccorso un giovane di origini egiziane. Il suo nome è Youssef: ha poco più di 20 anni. Il portone della struttura di corso Brunelleschi s’era chiuso alle sue spalle da appena quattro giorni. Era entrato lì dentro con uno zaino e pochi vestiti. Tranquillo, fin troppo. Youssef ha tentato di ammazzarsi adoperando una T-shir come cappio. E prima del suo, nei registri degli ospedali, c’erano già i nomi di altri quattro pazienti ricoverati da lì per la stessa ragione. Quattro in appena una settimana. Qualcuno aveva provato ad ingoiare le lamette dei rasoi usa e getta. Altri trasformando le cinture in cappio. Vista così questa storia fa paura. Fa immaginare mondi dove il confine tra il bene e il male sono molto labili. Anche perché qui - il 23 maggio - si era già tolto la vita un ragazzo originario della Guinea. Il suo nome è Moussa Balde. Di lui si era parlato a lungo poche settimane prima della morte, quando a Ventimiglia, un gruppo di sbandati italiani lo aveva massacrato di botte senza un perché. Le immagini di quell’aggressione erano finite su tutti i giornali e su tutte le tv. Moussa, curate le ferite del corpo, era finito al Cpr di Torino. Per la sua morte la Procura della Repubblica ha messo sotto indagine il direttore del centro e il medico interno. Avrebbero, in sostanza, dovuto segnalare le difficoltà del giovanotto, almeno dal punto di vista psichiatrico. Soltanto così, e con una diagnosi di “incompatibilità con la detenzione” - forse - avrebbe potuto salvarsi. Avrebbero spalancato il portone, gli avrebbero riconsegnato le borse con le sue cose, e arrivederci. Sta di fatto che da allora, oltre quella muraglia di blocchi di cemento, dietro le sbarre che delimitano i blocchi del Cpr, i tentati suicidi sono quasi quotidiani. Se Youssef è uno dei primi di questa incredibile lista di identità, nazioni, età e storie, Bobo - il nome citato nelle prime righe - è l’ultimo. Lo hanno soccorso nella notte tra martedì e ieri. Diciannove anni, originario del Gambia, qualche precedente alle spalle, l’altra notte, con i lacci delle sue sneakers, ha costruito un cappio con cui ha provato ad uccidersi. Lo hanno dimesso rapidamente dall’ospedale: non aveva problemi psichiatrici. Non era disperato. Il suo era un gesto dimostrativo. Anzi, no. Era - forse - una cosa ancora differente. Che spiega - in parte, ma non del tutto - ciò che sta accadendo al Cpr. Ovvero: il caso Moussa ha svelato che con una diagnosi di incompatibilità si può tornare liberi. Qualcuno - dei 26 casi registrati in un mese - avrebbe adoperato questo pericolosissimo escamotage per uscire da lì. Più che qualcuno. Ma non tutti. Perché almeno un paio di persone sono finite nel reparto di psichiatria all’ospedale Maria Vittoria. Un altro sarebbe stato ricoverato due volte per la stessa ragione. Dei restanti si sa ancora poco, o nulla. Perché quelle strutture - e non soltanto quella di Torino - sono mondi a sé. Ma adesso c’è un faro acceso su questo fenomeno. Sui suicidi mancati. E su quelli finti. Lo ha acceso la Prefettura. Ci sarebbero state riunioni, a cui hanno partecipato anche i vertici delle Asl. Ventisei giovani uomini che, in una manciata di giorni, scelgono di sfidare la morte sono troppi. Un perché a tutto questo va trovato. E una soluzione pure. Migranti. Vite da prigionieri al Cpr. Il buco nero di Gradisca di Antonio Maria Mira Avvenire, 21 ottobre 2021 È peggio di un carcere. C’è il nulla per riempire il tempo, in un contesto assolutamente chiuso. Grate ovunque, anche al di sopra dei cortili. Si vede il cielo tra le sbarre”. Questo è il Cpr (Centro di permanenza temporanea) di Gradisca d’Isonzo, così come denuncia Giovanna Corbatto, garante comunale per i diritti delle persone recluse. Presidente della cooperativa sociale Murice, promossa dalla Caritas della Diocesi di Gorizia, coordinatrice nazionale del programma dei corridoi umanitari di Caritas italiana, da un anno e mezzo si occupa dei diritti degli immigrati presenti nel Cpr. Il centro, un’ex caserma, sorvegliato da Esercito, Polizia, Carabinieri e Finanza, ha una capienza di 150 persone, ma attualmente ne ospita un centinaio per rispettare le norme anti Covid. Età tra 30 e 50 anni, anche comunitari come i rumeni. Vengono sia dalle carceri che dagli hot spot. “Una sbagliata e pericolosa commistione tra chi ha commesso reati e chi ha l’unica “colpa” di non aver avuto il riconoscimento di rifugiato. Entrambi destinati al rimpatrio ma evidentemente si tratta di casi molto diversi”. Eppure a Gradisca il sistema funziona a pieno ritmo, anche durante la pandemia. “L’anno scorso abbiamo avuto 20 rimpatri a settimana, in gran parte tunisini. Il numero più alto tra i Cpr”. Che, ricordiamo, sono dieci. “Si tratta a tutti gli effetti di carceri, non penali ma amministrative”. Gli immigrati dovrebbero restarvi al massimo 120 giorni ma in realtà non pochi non vengono espulsi neanche entro questo periodo, così escono per decorrenza dei termini ma dopo poco rientrano, “sono ospiti fissi”. Ma il problema è come si vive nel Cpr. “Non c’è una carta dei diritti del detenuto, non c’è nessuna premialità perché tanto si è destinati al rimpatrio”. E così nel centro si ripetono casi di violenza e di autolesionismo. Prima delle grate c’era il plexiglass ma veniva rotto per farsi male, e poi farsi ricoverare. “C’è bisogno di una continua manutenzione della struttura perché spaccano e bruciano tutto. Anche i materassi che dovrebbero essere ignifughi. Ma la ditta che deve eseguire le riparazioni lo ha dovuto fare sotto scorta”. Una situazione già tesa, peggiorata col Covid. I pasti vengono consumati nelle stanze ma la vaccinazione è stata fatta solo agli operatori, non ai detenuti. Una condizione che si scontra col costo di questi centri. La diaria dei Cpr, con le ultime modifiche del capitolato che hanno solo parzialmente corretto i tagli dell’allora ministro Salvini, è cresciuta da 32,15 euro al giorno a46,43 per centri fino a 150 posti, come quello di Gradisca, mentre per gli hot spot, sempre fino a 150 posti, la crescita è stata da 33,16 euro a 37,42, e i Cas addirittura solo da 25,25 a 28,73. Un’evidente differenza. “Tolgono i soldi per i corsi di italiano nei Cas e negli Sprar e poi buttano i soldi per i materassi dei Cpr”. Eppure i Cpr sono pieni di problemi. A Gradisca è altissima la percentuale di tossicodipendenti che usano metadone in accordo coi Sert. “Dalle carceri arrivano casi clinici gravi ma qui c’è un grande turn over delle infermiere e quindi la presa in carico è molto complicata. Prendono o no i farmaci di cui hanno bisogno?”. In gran parte vengono da fuori regione, mentre “non c’è nessuno che è arrivato lungo la rotta balcanica”. Una rotta che attualmente, spiega Giovanna, “non vede un aumento dei flussi. Era stato forte durante il lockdown, molti ci provavano “o la va o la spacca”, poi a primavera c’è stata una battuta d’arresto. Ma ora siamo preoccupati per gli effetti della situazione afghana. Ancora non sono arrivati quelli fuggiti da Kabul ma bisogna prepararsi”. E qui giunge una netta critica. “Manca una lettura del fenomeno, si affronta solo l’oggi, non si valuta quello che potrebbe accadere e così manca una programmazione”. Elemento positivo, aggiunge, è che “non non ci sono segnalazioni di espulsioni dirette sul confine. Anche se due settimane fa il sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, in visita al Cpr, ha auspicato la ripresa delle riammissioni”. Comunque, denuncia, “i confini restano luoghi difficili, i croati non vanno molto per il sottile. Gli immigrati vengono picchiati con bastoni, gli rompono i cellulari, gli aizzano contro i cani. Non possiamo parlare di torture come in Libia ma violenze ci sono”. A preoccupare gli operatori è che “nell’ultimo anno sono aumentati i minori non accompagnati. Spesso lungo il viaggio si dichiarano maggiorenni per poter proseguire”. Servirebbero nuove strutture di accoglienza. La cooperativa Murice ha un Cas a Romans con 16 immigrati. “Ne avevamo altri ma coi nuovi capitolati siamo stati costretti a chiudere”. Un vero peccato, visto che tra gli ospiti ben 15 lavorano. Vera inclusione che andrebbe favorita, qui come altrove. Migranti. Ecco come la pandemia ha cambiato l’accoglienza dei minori non accompagnati di Giacomo Galeazzi La Stampa, 21 ottobre 2021 I corsi online “No Walls Young” permettono ad alcune categorie di stranieri di seguire corsi che in presenza sarebbero loro preclusi. Il bando per il crowdfunding. La prevenzione dei conflitti e delle diversità ha nell’ inclusione il suo strumento principale. L’emergenza Covid ha mutato in profondità le esigenze e le prospettive dell’accoglienza dei minori non accompagnati. “L’inclusione dei migranti è possibile e arricchisce senza conflitti il tessuto sociale”, spiega Angela Marchisio, Angela Marchisio, presidente di NoWalls, associazione di promozione sociale senza fini di lucro impegnata a dare supporto ai migranti in fuga da guerre, dittature e povertà e agli stranieri in generale che si trovano a vivere a Milano. E aggiunge: “Attraverso il bando di Eppelà e Msd raccoglieremo i fondi per “Nowalls Young”, l’iniziativa che coinvolge studenti italiani e minori stranieri non accompagnati”. “La pandemia - afferma Angela Marchisio - ci ha costretti a ripensare le nostre modalità di intervento. Tutti i volontari hanno seguito una formazione specifica per lavorare online e in poche settimane- già a partire da marzo 2020 - le nostre attività di insegnamento dell’italiano si sono spostate online, consentendoci di non perdere studenti”. Inoltre “abbiamo procurato tablet, computer e telefoni a chi, tra i nostri studenti, ne era privo affinché tutti potessero seguire le lezioni”, spiega Marchisio. Questa esperienza non sarà abbandonata. “I corsi online permettono ad alcune categorie di stranieri di seguire corsi che in presenza sarebbero loro preclusi- evidenzia-. Ecco perché quest’anno porteremo avanti anche corsi online. Anche le gite a Milano sono diventate virtuali attraverso lezioni online fatte dai nostri volontari dei “Turisti Senza Muri”, ospitati nelle classi di italiano, ma ora torneremo a farle anche dal vivo”. S’intitola “No Walls Young”, il progetto che grazie a Msd CrowdCaring, l’iniziativa dell’azienda farmaceutica Msd e della piattaforma Eppelà, ha vinto il bando per il crowdfunding: “ Il bando di MSD ed Eppelà ci permette di raccogliere i fondi per pagare i materiali e il contributo degli educatori professionisti che affiancheranno i nostri volontari. Il sottotitolo del progetto NoWalls Young è “L’inclusione? Progettiamola a scuola”. È questo, infatti, il senso dell’iniziativa: portare nelle scuole superiori milanesi attività che coinvolgano studenti e studentesse italiane e minori stranieri non accompagnati, arrivati cioè in Italia soli, senza famiglia né reti di supporto. “Lo scopo- puntualizza Marchisio- è quello di avvicinare mondi che altrimenti non avrebbero occasioni di incontrarsi”. La prima edizione partirà a novembre al liceo linguistico Manzoni: sarà un percorso di tre anni inserito nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro. Le ragazze e i ragazzi coinvolti, italiani o Msna, parteciperanno a un laboratorio musicale interculturale, ma anche ad un percorso di formazione sulla progettazione: dovranno imparare a scrivere, strutturare e poi realizzare un progetto, comunicandolo e raccogliendo anche i fondi per renderlo realtà. Tanti i progetti che caratterizzano l’attività dell’associazione perché “la prevenzione dei conflitti e delle diversità ha nell’inclusione il suo strumento principale”, sottolinea la presidente di No Walls. Tra questi anche un percorso di due mesi per l’inserimento nel mondo del lavoro degli stranieri, a dimostrazione del fatto che diversity può diventare un’opportunità per le aziende. “La presenza di uno straniero in un gruppo di lavoro ci costringe a mediare - continua Marchisio - ci è capitato spesso di osservare come alcuni valori insiti in culture differenti possano essere una sfida ma anche un arricchimento. Tutto sta nell’accettare questa sfida e nel cercare, da entrambe le parti, di trovare una mediazione e un punto di incontro”. Attività e progetti inclusivi che con la pandemia hanno dovuto trovare nuovi margini di azione. Migranti. Beppe Caccia: “Criminale è chi sostiene i libici” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 ottobre 2021 Dopo la richiesta di archiviazione dei Pm di Agrigento, il capomissione di Mediterranea Beppe Caccia guarda avanti: “Pronti a tornare in mare, ma bisogna smettere di finanziare Tripoli”. La richiesta di archiviazione di tutte le accuse contro comandante e capomissione di Mediterranea per il soccorso del 9 maggio 2019 ha fatto notizia soprattutto per le sue motivazioni. I pm di Agrigento Salvatore Vella e Cecilia Baravelli hanno accolto in toto le ragioni delle Ong: rifiuto di consegnare i migranti ai libici; scelta dell’Italia come porto sicuro di sbarco; adeguatezza delle navi. Ne parliamo con uno dei due indagati, Beppe Caccia. In che clima politico si inseriva quel soccorso? Era l’epoca dei porti chiusi. Oggi sembra lontana, ma allora furono la determinazione dei migranti in fuga dalla Libia e la caparbietà con cui abbiamo messo in mare la prima nave italiana a dimostrare che i porti chiusi erano una tigre di carta. Prima con la forzatura praticata dal capitano Pietro Marrone e dal capomissione Luca Casarini, poi con la missione di maggio. Siete sorpresi dalla richiesta di archiviazione dei Pm? No, ma ci ha fatto scoprire alcune cose che non sapevamo. Per esempio che quel giorno diversi centri europei di coordinamento del soccorso marittimo erano informati dalla mattina che in mare c’era un gommone in difficoltà. Nessuno, però, ha lanciato l’Sos. Quando abbiamo trovato i migranti stavano pregando. Si preparavano a morire. Bisognerebbe indagare queste omissioni di soccorso. I procedimenti contro le Ong finiscono archiviati, mentre l’ex ministro Salvini tornerà sabato in tribunale, accusato di sequestro di persona e abusi di atto d’ufficio. C’è un nesso? Ogni inchiesta fa storia a sé, ma dal 2017 ne sono state aperte oltre venti contro le Ong del Mediterraneo e quasi tutte sono state archiviate. Nella vicenda del blocco di Open Arms in cui è coinvolto Salvini ci siamo costituiti parte civile. Il processo farà il suo corso, ma la storia ha già condannato chi decise, per cinici calcoli elettorali, di tenere decine di persone sul ponte di una nave per giorni. Caduto Salvini, al Viminale è arrivata la ministra Luciana Lamorgese. È cambiato qualcosa? Sarebbe sbagliato dire che è sempre tutto uguale. È cambiato l’atteggiamento verso gli sbarchi e la volontà di aprire un canale di comunicazione con le Ong. Negli ultimi due anni le navi hanno avuto un porto, sebbene ogni volta debbano affrontare ritardi ingiustificabili. Non è cambiata, però, la strategia di fondo. Anzi: è diventata più efficiente. Lo mostrano i numeri record delle catture di migranti operate dai libici. L’ultimo dato dell’Oim è di 26.705 intercettazioni nel 2021. Dietro questi numeri c’è tutta la violenza dell’esternalizzazione dei confini. Se non cambia questa strategia, anche se si ammorbidisce l’approccio al soccorso in mare, rischiamo di abituarci a una nuova normalità meno appariscente ma molto più letale. C’è un cortocircuito tra questa strategia politica e le conclusioni dei Pm secondo cui la Libia non è sicura per i migranti ed è giusto non consegnarli alla “guardia costiera” di Tripoli? I Pm dicono qualcosa in più: che è giusto non comunicare con la “guardia costiera libica” e il suo inesistente centro di coordinamento dei soccorsi. Che è corretto non relazionarsi proprio con questi soggetti perché hanno comportamenti omissivi o criminali. E però vengono finanziati e addestrati dall’Italia, per esempio nella scuola navale della guardia di finanza di Gaeta. Leggendo le carte dei Pm di Agrigento viene fuori una contraddizione non più sopportabile. Chi finanzia operazioni, mezzi e uomini della “guardia costiera libica” è contro il diritto internazionale e complice di condotte criminali. Prima o poi qualcuno dovrà trarne le conclusioni. Dopo i soccorsi in acque internazionali della zona di ricerca e soccorso (Sar) maltese la guardia costiera italiana invita le Ong a rivolgersi a La Valletta. I Pm, però, affermano che Mediterranea ha fatto bene a puntare su Lampedusa. Perché? Nonostante Malta sia un paese Ue, le sue autorità hanno dimostrato atteggiamenti omissivi quando si tratta di intervenire nella enorme zona Sar che hanno autoproclamato per ragioni economiche. In più non riconoscono un pezzo significativo della normativa dell’Organizzazione marittima internazionale. La Sar maltese è un altro buco nero nelle vicende del Mediterraneo centrale. Comunque nessuno stato costiero può esimersi dal dovere al soccorso. L’Italia in primis, perché ha una guardia costiera preparata e dotata di mezzi tecnici adeguati. Il primo ministro Mario Draghi disse che il nostro paese non abbandona nessuno nelle acque territoriali, ma il dovere al soccorso si estende molto oltre. Da un anno e mezzo di Mediterranea si parla più per i processi penali che per i soccorsi. Riuscirete a tornare in mare? La Mare Jonio è in cantiere. Stiamo ultimando i lavori necessari per rinnovare le certificazioni. Mediterranea è finita nel mirino della criminalizzazione, ma grazie al sostegno di tante e tanti la sua nave tornerà in mare nel giro di qualche settimana. Partiremo guardando alla straordinaria lotta dei rifugiati e rifugiate che da quasi 20 giorni sono davanti agli uffici Unhcr di Tripoli. Quella battaglia indica la strada: non basta una generica promessa di corridoi umanitari, è urgente un’operazione straordinaria di evacuazione di tutte le persone che si trovano in ostaggio nei centri di prigionia. Non c’è mai pace per chi è in esilio di Danilo Taino Corriere della Sera, 21 ottobre 2021 L’organizzazione non governativa Freedom House ha pubblicato quest’anno uno studio globale sulla Repressione Transnazionale e ha individuato 31 Stati che ne fanno uso regolarmente intervenendo in 79 Paesi che ospitano esiliati. C’è una globalizzazione che non conosce crisi. È la repressione senza frontiere: cittadini costretti all’esilio dai loro governi e da questi stessi governi poi perseguitati all’estero. Il caso più noto è quello di Jamal Kashoggi, il giornalista ucciso nel consolato saudita di Istanbul da agenti inviati di Riad nel 2018. Lo scorso maggio, un aereo di Ryanair fu costretto ad atterrare a Minsk dal governo bielorusso che così ebbe modo di arrestare il dissidente Roman Protasevich che era a bordo diretto a Vilnus, Lituania. Gli omicidi e i tentativi di omicidio condotti nel Regno Unito contro fuoriusciti politici russi sono altrettanto famosi. Questi sono casi che hanno fatto i titoli dei giornali. Ma la realtà è molto, molto più diffusa: minacce fisiche e digitali, spionaggio, pedinamenti, abusi servendosi dell’Interpol, intimidazioni alle famiglie, assalti. L’organizzazione non governativa Freedom House ha pubblicato quest’anno uno studio globale sulla Repressione Transnazionale e ha individuato 31 Stati che ne fanno uso regolarmente intervenendo in 79 Paesi che ospitano esiliati. E hanno illustrato 608 casi tra il 2014 e il 2020: 3,5 milioni di persone sono a rischio fuori dal loro Paese. Molti altri episodi avvengono nel silenzio - sottolinea l’organizzazione. Quelli noti all’opinione pubblica non sono, insomma, casi isolati: sono parte di azioni repressive elevate a sistema. Servono a colpire direttamente alcuni e a intimidire tutti gli altri esiliati per ragioni politiche. Freedom House racconta di un russo fuggito negli Stati Uniti dopo che i servizi segreti gli avevano sequestrato l’azienda: raggiunto lì, attraverso l’Interpol, da un’accusa insignificante e detenuto negli Usa per 18 mesi. Di una donna uigura, fuggita in Canada, la cui famiglia finisce in un campo di detenzione. Di un leader dell’opposizione ruandese rapito mentre transitava dagli Emirati Arabi e riapparso a Kigali accusato di terrorismo. Proprio l’accusa di terrorismo è la più usata (58% dei casi) dai regimi repressivi per spiegare (quando devono farlo) le loro azioni. Il rapporto di Freedom House dice che “la Cina conduce la campagna di repressione transnazionale più sofisticata, globale ed esauriente al mondo”. Ma anche Russia, Arabia Saudita, Turchia, Ruanda, Egitto, Iran sono tra i maggiori protagonisti di questa nuova normalità. Il Parlamento europeo conferisce il premio Sakharov a Navalnyj di Rosalba Castelletti La Repubblica, 21 ottobre 2021 L’oppositore russo, ora in carcere, è stato insignito del massimo riconoscimento dell’Unione europea per la libertà di pensiero. Un segnale chiaro alle autorità di Mosca. L’appello del presidente Sassoli: “Rilasciatelo immediatamente”. Il riconoscimento che i suoi sostenitori attendevano dal Comitato Nobel di Oslo, è arrivato da Strasburgo. L’oppositore russo in carcere Aleksej Navalnyj è stato insignito dal Parlamento europeo del Premio Sakharov 2021 per la libertà di pensiero. “Ha combattuto instancabilmente contro la corruzione del regime di Vladimir Putin. Questo gli è costato la libertà e quasi la vita. Il premio riconosce il suo immenso coraggio”, ha twittato il presidente David Sassoli, rilanciando l’appello per il suo “rilascio immediato”. La candidatura di Navalnyj era stata sostenuta dal Ppe, principale gruppo politico al Parlamento europeo, e dal gruppo centrista e liberale Renew Europe, terza forza politica, mentre l’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici e gli ambientalisti avevano proposto di onorare le donne afghane. Anche l’ex presidente ad interim boliviana, Jeanine Añez, attualmente in carcere, era stata selezionata tra i finalisti. Sullo sfondo delle crescenti tensioni tra Russia e Occidente, la scelta di premiare Navalnyj tra tutti è stata letta come un segnale chiaro alle autorità russe. Non a caso salutato con favore dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg: solo lunedì Mosca aveva deciso di sospendere la sua missione presso l’Alleanza e di chiudere l’ufficio della Nato a Mosca in rappresaglia all’espulsione di diplomatici russi sospettati di spionaggio. L’attivista, partito dalla Russia in coma dopo l’avvelenamento da Novichok nell’agosto 2020 e miracolosamente guarito in Germania, era tornato in patria lo scorso gennaio pur consapevole che lo avrebbero incarcerato. A inizio febbraio è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per una vecchia accusa di frode giudicata motivata politicamente. Una sentenza che ha segnato l’inizio in Russia di una dura repressione nei confronti di media indipendenti e oppositori del Cremlino in vista delle parlamentari di settembre. L’avvocato 45enne ha iniziato la sua lotta al malaffare nel 2007 con un blog che ha poi portato alla nascita del Fondo anti-corruzione (Fbk), messo al bando quest’anno, e di un canale YouTube che oggi conta oltre sei milioni di iscritti. Ma ben presto ha capito che il dissenso virtuale può diventare un movimento di piazza. Unico in grado di mobilitare la popolazione in una Russia asfittica, Navalnyj è diventato così l’unico volto riconoscibile della cosiddetta opposizione “anti-sistemica”, costretta a operare al di fuori delle strutture ufficiali. Anche da dietro le sbarre, l’infaticabile censore del potere è riuscito a trascinare in piazza migliaia di persone lo scorso inverno con la pubblicazione di un’inchiesta sul lussuosissimo “palazzo di Putin” e promosso alle parlamentari di settembre il cosiddetto “Voto intelligente” suggerendo agli elettori il candidato che avesse più probabilità di battere il partito al potere. Finora tutto quello che il Cremlino ha fatto per contrastarlo lo ha solo trasformato in martire ed eroe. Tanto da fare dimenticare le sue passate simpatie nazionaliste da toni razzisti che a inizio anno avevano portato Amnesty a sospendere per qualche mese il suo status di “prigioniero di coscienza”. Quest’ultimo riconoscimento europeo che porta il nome del grande dissidente dell’Urss Andrej Sakharov, spesso anticamera del Nobel per la pace, per il Fondo anti-corruzione fuorilegge non premia solo Navalnyj, ma tutti i russi “che anche nei tempi più bui non hanno paura di dire la verità”. La Francia di Éric Zemmour, ovvero il razzismo come programma di Tahar Ben Jelloun* La Repubblica, 21 ottobre 2021 Non sono solo gli immigrati magrebini e africani a essere preoccupati per il fenomeno Zemmour in Francia. Anche la classe politica è inquieta: il fatto che i sondaggi lo vedano per il momento proiettato verso il ballottaggio delle elezioni presidenziali, con il 15 per cento delle intenzioni di voto, è stato un fulmine a ciel sereno in una Francia che sta appena uscendo dalla crisi sanitaria. Zemmour ha eclissato Marine Le Pen e si è imposto nello spazio politico. Raramente questo Paese ha conosciuto un tale livello di mediocrità, di bassezza e di arroganza. Questo polemista ha salvato la catena televisiva controllata da Bolloré, la CNews, portandola a dei livelli di audience che non aveva mai conosciuto. Per deontologia professionale, ha sospeso la sua rubrica televisiva quotidiana, dove esponeva per un’ora le sue idee. Qual è il suo programma? Non ne ha. Ma ha idee precise su quello che farebbe se fosse eletto presidente. Per il momento non è candidato. Approfitta della pubblicazione del suo libro La France n’a pas dit son dernier mot (La Francia non ha detto la sua ultima parola) per portare avanti una campagna non ufficiale. Quest’ultimo libro se lo è pubblicato da solo perché il suo editore, Albin Michel, ha deciso di non pubblicare più le sue opere. Le sue idee sono semplici. Fortemente influenzato da Trump, Éric Zemmour non esita a lanciare appelli all’odio razziale, cosa che gli ha procurato diverse condanne. Prima di fare delle proposte, parte con una constatazione della situazione di una Francia “in pieno declino”, dove regna l’insicurezza e i malfattori non vengono puniti. Questi malfattori lui sa chi sono e li addita: arabi e neri. Ecco quello che dice: “Ma perché ti controllano diciassette volte se sei arabo o nero? Perché la maggior parte dei trafficanti sono neri e arabi: è così, è un dato di fatto”. Quando gli parlano delle discriminazioni che subiscono queste categorie di persone, dice che “i datori di lavoro hanno il diritto di rifiutare un arabo o un nero”, mentre è vietato dalla legge. Ma della legge lui se ne infischia. Persevera nel suo odio verso gli immigrati e soprattutto verso i loro figli, che incolpa di tutti i mali: “I minorenni non accompagnati, come il resto degli immigrati, non hanno nulla da fare qui: sono ladri, assassini, stupratori, non sono nient’altro che questo”. L’altra ossessione di Zemmour è l’islam. Dice che negli anni 30 “il nazismo veniva paragonato all’islam”. Per cominciare, non fa la minima differenza fra la religione musulmana e l’islamismo, deriva ideologica dei terroristi. Per lui è l’islam che è violento. E aggiunge: “Tutti i musulmani, che ve lo dicano oppure no, considerano i jihadisti dei buoni musulmani”. Nessuna sfumatura, nessun approfondimento. Sono le cose che ama sentire una parte non trascurabile della società francese, che trovava che il Rassemblement national, il partito di Marine Le Pen, non fosse abbastanza duro, non fosse abbastanza forte, non fosse abbastanza razzista. Per Zemmour, “ogni donna col velo è una moschea ambulante”. È per questo che vorrebbe vietare i nomi arabi in Francia: “Un francese non avrà il diritto di chiamare suo figlio Mohammed”. Misogino (“il potere è una faccenda da uomini”), omofobo, islamofobo, razzista, quest’uomo affascina e attira tante persone. I suoi discorsi corrispondono alle attese di una parte di quelli che pensano che tutto il male venga dall’immigrazione, legale o clandestina, che i criminali siano tutti immigrati, che la Francia se la passerebbe molto meglio se “tutte queste persone venissero rispedite a casa loro”. Peraltro, i figli di immigrati con cui se la prendono non sono immigrati, sono nati in Francia e pertanto sono francesi. Zemmour rifiuta di accettare questa realtà e prosegue nel suo astio contro gli stranieri. La sua teoria è quella della “sostituzione”, perché dice che “è in corso una colonizzazione da parte degli stranieri”. La Francia perderebbe la sua anima, la sua identità. Il presidente Macron ascolta i discorsi di Zemmour. Non li condivide, ma farà qualche concessione in campagna elettorale per attirare i voti dei suoi seguaci. Per esempio, la decisione che ha preso Parigi di accordare meno visti ai viaggiatori che vengono dal Maghreb (il 50 per cento in meno rispetto all’anno scorso) è una risposta inconfessata ai discorsi di Zemmour sull’”invasione” degli stranieri. Anche il fatto che il presidente francese abbia indurito i toni nei confronti della giunta militare che governa l’Algeria è un segnale che si ricollega a quello che racconta Zemmour su quel Paese: “Quando il generale Bugeaud arrivò in Algeria, cominciò col massacrare i musulmani, e anche una parte degli ebrei. Ebbene, oggi io sono dalla parte del generale Bugeaud. È questo essere francesi”. Éric Zemmour è abbastanza colto, anche se è stato bocciato due volte all’esame di ingresso all’Ena (la Scuola nazionale di amministrazione), ma non esita a ricorrere a scorciatoie che sono autentiche menzogne. Esagera le cose per mettere paura ai francesi, accrescendo un’inquietudine che già esiste tra la popolazione. Vuole farsi passare come l’uomo che “dice a voce alta quello che tanti francesi pensano senza osare dirlo”. Anche se per farlo distorce la Storia, per esempio quando afferma che il maresciallo Pétain avrebbe “protetto gli ebrei” durante l’occupazione tedesca, dimenticando che fu il suo primo ministro, Laval, a organizzare, il 16 e il 17 luglio 1942, la retata di 13.152 ebrei di origine straniera, di cui 4.115 bambini: tutti consegnati ai nazisti, che li spedirono tutti nelle camere a gas. *Traduzione di Fabio Galimberti Accoglienza, promessa non mantenuta: la corsa a ostacoli degli afghani in fuga di Giuliano Battiston Il Manifesto, 21 ottobre 2021 Rapporto di Amnesty International: confini chiusi, deportazioni, confinamenti in paesi terzi e respingimenti. I Paesi confinanti e quelli occidentali stanno chiudendo le porte ai rifugiati che due mesi fa promisero di portare in salvo. Per le afghane e gli afghani in pericolo, lasciare il proprio Paese è impossibile, o quasi. Una vera e propria corsa a ostacoli. Resa tale dalle politiche dei governi regionali e dalle promesse non mantenute di molti altri. Scelte politiche a causa delle quali aumenta il ricorso ai trafficanti e alle rotte irregolari, costose e pericolose. È quanto emerge dall’ultimo rapporto breve di Amnesty International, reso pubblico oggi. Il contenuto è già nel titolo: Like an Obstacle Course (Come una corsa a ostacoli). Grazie a un team di ricercatori in 13 diversi Paesi, il briefing analizza le politiche governative fino alla metà di settembre in 27 Paesi, inclusi quelli che hanno contribuito al piano di evacuazione della metà di agosto (dall’Albania all’Uzbekistan, passando per l’Italia). E che, terminato quel piano, “hanno promesso di non abbandonare gli afghani a rischio”, tra cui “quelli delle liste di evacuazione”. Da allora, però, “pochi Paesi, tra cui Canada e Irlanda, hanno mantenuto la parola”. I problemi partono dai Paesi limitrofi, “nessuno dei quali ha mantenuto i confini aperti per gli afghani in cerca di rifugio”. Iran, Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan chiedono visti, carte bollate. Documenti legittimi in tempi ordinari, secondo Amnesty, non nell’attuale emergenza. Iran, Pakistan e Turchia continuano con le deportazioni in Afghanistan. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), tra il 27 agosto e il 9 settembre 2021 le autorità iraniane avrebbero deportato 58.279 afghani senza documenti; nello stesso periodo, il Pakistan 230. Tra l’1 gennaio e il 23 settembre 2021 la Turchia, Paese in cui ci sono 130mila afghani rifugiati o richiedenti asilo e altri 50mila con status diverso, avrebbe “catturato” 44.565 migranti afghani irregolari. Nel 2020 ne avrebbe deportati almeno 6mila. Nei giorni scorsi, l’annuncio dell’estensione fino a 295 km del muro turco al confine con l’Iran. I tre Paesi, ricorda Amnesty, contravvengono al principio di non-refoulement, che vieta il trasferimento forzato verso Paesi in cui si è a serio rischio di violazione dei diritti umani o che non sia in grado di impedire un ulteriore trasferimento verso questi Paesi. Per ora i governi europei hanno sospeso le deportazioni. Ma la Francia continua a emettere ordini di deportazioni future e, come la Danimarca, costringe gli afghani che andranno poi respinti in centri di deportazione. Bulgaria, Croazia e Polonia adottano misure repressive sui propri confini, ma allo stesso tempo aiutano in qualche caso il trasferimento negli Stati uniti o in Paesi terzi, su invito di Washington. Oltre ai respingimenti, aumentano i “confinamenti” nelle aree di frontiera: al confine tagiko-afghano, 80 famiglie rimangono nel limbo, altre tra Polonia e Bielorussia. L’Italia ad agosto ha evacuato 5.011 persone, tra cui 4.890 cittadini afghani. Ha poi promesso ulteriore assistenza per le persone a rischio, attraverso “evacuazioni di terra dai Paesi confinanti” (ma il report elenca molti problemi ai confini, perlopiù chiusi) e “l’istituzione di corridoi umanitari”, che invece potrebbe arrivare nei prossimi giorni. All’interno dell’Unione europea, più che la generosità vige la determinazione “a proteggere efficacemente i confini esterni e prevenire ingressi non autorizzati”, come sostenuto nel Consiglio dell’Ue del 31 agosto. Mentre Filippo Grandi, Alto Commissario Onu per i rifugiati, ha chiesto il ricollocamento in Europa di metà degli 85mila rifugiati afghani che nei prossimi 5 anni si stima possano averne bisogno. Una valutazione a parte per l’Operazione Allies Welcome degli Stati uniti. “Unica”, spiega Amnesty, per l’ampiezza (95mila persone) e perché gli afghani sono trasferiti non solo sul territorio statunitense, ma anche nelle strutture militari degli Usa nel mondo e verso Paesi terzi. Ma ci sono testimonianze di “restrizione della libertà di movimento per gli evacuati nelle basi militari Usa e detenzioni e trasferimento in Paesi terzi di evacuati che non abbiano superato i controlli di sicurezza molto stringenti degli Usa”. Le raccomandazioni di Amnesty sono di “adottare misure immediate per rendere possibile l’uscita dall’Afghanistan, offrire protezione internazionali ai nuovi arrivati” e agli afghani in altri territori. L’Afghanistan e quelle ragazze abbandonate al loro destino di Francesca Mannocchi La Stampa, 21 ottobre 2021 Cosa fa di un evento una storia? Un testimone. Sono passati due mesi scarsi dall’assalto all’aeroporto di Kabul, l’Afghanistan è stato progressivamente messo in ombra da altre più attuali notizie, campagne elettorali, l’assalto fascista ai sindacati, le conseguenti manifestazioni di protesta, i ballottaggi, i vincitori e i vinti. Scivola via, tra le cose trascurabili e dunque trascurate, anche una notizia di ieri, la morte della giocatrice della nazionale junior di pallavolo afghana, Mahjabin Hakimi. L’avrebbero decapitata i taleban, a inizio ottobre. La notizia è arrivata solo ieri perché dopo l’omicidio i taleban avrebbero minacciato la famiglia di ritorsioni, intimandoli a non parlare con nessuno, finché non è stata diffusa sui social l’immagine macabra della sua testa mozzata. Mahjabin Hakimi era una delle lasciate indietro. Una di quelle che non ce l’hanno fatta a raggiungere l’aeroporto di Kabul e salire su un volo di evacuazione che l’avrebbe tratta in salvo. Oggi le foto del suo corpo brutalizzato diventeranno popolari ma probabilmente non virali, perché è finito il tempo dell’emergenza ed è iniziato quello della normalizzazione. I taleban sono in turnée in giro per il mondo nel tentativo di aprire canali diplomatici con la comunità internazionale, cercando non solo di negoziare ma di essere formalmente riconosciuti. E mentre cercano approvazione e legittimità, ricordano al mondo che sono quelli che sono stati. Lunedì scorso Sirajuddin Haqqani, già apparso nella lista dei ricercati dell’Fbi, con una taglia di 10 milioni di dollari sulla testa e attuale ministro degli Interni, ha elogiato il “sacrificio” degli attentatori suicidi che hanno attaccato i soldati statunitensi definendoli “eroi dell’Islam e del Paese” e invitato i cittadini ad “astenersi dal tradire le aspirazioni dei martiri”, donando 10.000 afghani alle famiglie degli attentatori e destinando a ognuna un appezzamento di terra. La comunità internazionale, intanto, aspetta. Perché è preoccupata dell’emergenza alimentare di una popolazione ormai allo stremo, della eventuale ondata di profughi diretta in Europa, della possibilità di organizzare dei voli umanitari e per regolare i voli umanitari si deve per forza parlare con chi governa, dunque con i taleban. Gli stessi che stilano liste di proscrizione. Che decapitano le atlete che abbiamo aiutato a emanciparsi dall’oscurantismo e che, però, non siamo riusciti a salvare da quello stesso oscurantismo. Gli stessi che elogiano attentatori suicidi come eroi dell’Islam. Cosa fa di un evento una storia, una notizia? Un testimone, una fonte storica, affidabile, che possa osservare, resocontare, interpretare un evento, una lacerazione individuale e collettiva provocata da una violenza estrema, così che diventi memoria culturale. Questo siamo chiamati a fare noi giornalisti. Cercare documenti. Vedere. Raccontare. Nelle ultime due settimane di agosto abbiamo speso pagine di giornali, ore di telegiornali nel resoconto dei voli di evacuazione. Abbiamo pensato di raccontare quello che accadeva a Kabul, invece stavamo raccontando solo quello che accadeva all’aeroporto di Kabul, cioè quello che accadeva a chi ce la faceva a scappare via, abbiamo avvicinato così tanto l’obiettivo alla notizia da perdere di vista il contesto, trascurando cosa stesse accadendo non solo nel resto della città, ma nel resto di quel vastissimo, fragile paese che è l’Afghanistan. Abbiamo raccontato la storia di chi fugge, e oggi stiamo trascurando la storia di chi resta. E stiamo trascurando il valore della testimonianza. Oggi sarà il tempo dell’indignazione. Scriveremo commenti di sdegno. Deploreremo i carnefici, celebreremo le vittime. Rabbia e pietas. Oggi è il turno della pallavolista, Mahjabin Hakimi. È il suo corpo a testimoniare, in assenza del nostro, cosa accada davvero in Afghanistan. È il suo corpo che porta inscritto su di sé il peso della violenza che ha subito. Il suo corpo che la rende vittima. Qualche anno fa Daniele Giglioli ha scritto un libro che descrive un esperimento con l’etica “Critica della vittima”, esordisce così: La vittima è l’eroe del nostro tempo. Ci suggerisce Giglioli che l’ideologia vittimaria è oggi il primo travestimento delle ragioni dei forti. Perché la vittima si compatisce e si ricorda, non è soggetto attivo, è quello che ha subito. È la violenza che porta inscritta sulla carne. Non ci chiede più di essere salvata, non lo è. La vittima esiste nella stanca litania della celebrazione. È così che stiamo configurando il nostro modo di osservare le sorti delle donne afghane: le pensiamo in fondo già vittime. Siamo pronti, sempre, a ricordarle. Un po’ meno pronti a sentirci responsabili del loro presente.