Ergastolo ostativo: le proposte della Fondazione Falcone al Parlamento di Francesco Verderami Corriere della Sera, 20 ottobre 2021 Concedere i benefici di legge anche a mafiosi o terroristi condannati all’ergastolo a patto che si impegnino in iniziative riparative nei confronti delle vittime dei loro reati. È una delle proposte avanzate dalla Fondazione Falcone per sbloccare il dibattito sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, vale a dire il divieto di accordare permessi premio o altre attenuazioni della pena per chi è condannato al carcere a vita ma non ha mai collaborato con la giustizia. Lo scorso aprile, come è noto, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’ergastolo ostativo e ha invitato il parlamento a varare una nuova legge. Le proposte di riforma sono in discussione in questi giorni alla commissione giustizia e la Fondazione Falcone, presieduta da Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella strage di Capaci, ha voluto dare il suo contributo al dibattito. “Il fine - ha spiegato - è tener conto delle indicazioni della Consulta senza indebolire la lotta alla mafia e senza vanificare le grandi conquiste fatte in questi anni grazie a una legislazione costata la vita a tanti servitori dello Stato”. La proposta è stata elaborata da Antonio Balsamo, giurista e presidente del tribunale di Palermo e da Fabio Fiorentin, magistrato esperto in materia di ordinamento penitenziario. Uno degli aspetti qualificanti della proposta è condizionare la concessione dei benefici penitenziari per gli ergastolani per reati di mafia e terrorismo alle loro iniziative in favore delle vittime, alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa, e, soprattutto, al loro contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali. Il testo della medesima proposta dice ancora che “possono essere concessi ai detenuti o internati, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, purché sia fornita la prova dell’assenza di collegamenti attuali del condannato o dell’internato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e dell’assenza del pericolo di ripristino dei medesimi e sempre che il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato”. Il giudice di sorveglianza, sempre secondo la proposta della Fondazione Falcone può sempre ordinare “l’obbligo o il divieto di permanenza dell’interessato in uno o più comuni o in un determinato territorio; il divieto di svolgere determinate attività o di avere rapporti personali che possono occasionare il compimento di altri reati o ripristinare rapporti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. Ergastolo ostativo, Fondazione Falcone invia una proposta di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2021 La Fondazione intitolata al magistrato ucciso nella strage di Capaci ha inviato alla commissione Giustizia della Camera la sua proposta per riscrivere l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Il cuore della proposta collega la possibilità di accesso alla libertà vigilata al “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”. Se gli ergastolani detenuti per reati di tipo mafioso o per terrorismo vorranno accedere alla libertà vigilata dovranno aver “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”. È questo uno dei passaggi fondamentali della proposta di legge di riforma della normativa sul cosiddetto ergastolo ostativo, elaborata dalla Fondazione Giovanni Falcone. Nell’aprile scorso, infatti, la Corte costituzionale ha decretato l’incostituzionalità dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, cioè la norma che impedisce ai detenuti per reati di tipo mafioso e terrorismo di accedere alla libertà condizionata se non hanno collaborato con la giustizia. La Consulta ha concesso tempo fino al maggio del 2022 al Parlamento per intervenire. Se entro quella data il legislatore non avrà modificato l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, pure i mafiosi stragisti che non hanno mai collaborato con la giustizia, come Giuseppe Graviano, potranno chiedere di accedere alla libertà vigilata dopo aver scontato 26 anni di carcere. In questi giorni la commissione Giustizia della Camera ha iniziato a discutere alcune proposte di legge. Alle quali si aggiunge ora quella della Fondazione Falcone, intitolata al magistrato al quale si devono la maggior parte delle intuizioni relative alle leggi antimafia attualmente vigenti. Compreso l’ergastolo ostativo. “Con questa nostra proposta - spiega Maria Falcone, sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci e presidente della Fondazione che porta il nome del magistrato - intendiamo dare il nostro apporto a un tema per noi di importanza fondamentale. Il fine è tener conto delle indicazioni della Consulta senza indebolire la lotta alla mafia e senza vanificare le grandi conquiste fatte in questi anni grazie a una legislazione costata la vita a tanti servitori dello Stato”. La proposta di riforma, spiega la Fondazione, è stata elaborata dal dottor Antonio Balsamo, presidente del tribunale di Palermo e consigliere della Fondazione Falcone, e da Fabio Fiorentin, uno dei magistrati più esperti in Italia in materia di ordinamento penitenziario. Uno degli aspetti qualificanti della proposta di legge è condizionare la concessione dei benefici penitenziari per gli ergastolani per reati di mafia e terrorismo alle loro iniziative in favore delle vittime, alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa, e, soprattutto, al loro contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali. Una formulazione che si ricollega a uno dei più significativi sviluppi giuridici affermatisi nell’ambito delle Nazioni Unite che ogni anno, il 24 marzo, celebrano la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. Del resto, spiega ancora la Fondazione, l’impegno di contribuire alla realizzazione del diritto alla verità è una componente indispensabile del “diritto alla speranza”, inteso come possibilità di “riscattarsi per gli errori commessi”, come evidenziato dalla Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nella proposta di legge della Fondazione Falcone, dunque, i benefici “possono essere concessi ai detenuti o internati, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, purché sia fornita la prova dell’assenza di collegamenti attuali del condannato o dell’internato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e dell’assenza del pericolo di ripristino dei medesimi e sempre che il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato, desunto dalla sua valutazione critica della sua precedente condotta, dalle sue iniziative a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa, e dal suo contributo alla realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”. Ai fini della concessione dei benefici, si legge ancora nella proposta, “il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide, acquisite dettagliate informazioni dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza, dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica in relazione al luogo dove il detenuto risiede, nonché, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 -bis, anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo”. Infine, “con il provvedimento di concessione dei benefici il giudice può disporre l’obbligo o il divieto di permanenza dell’interessato in uno o più comuni o in un determinato territorio; il divieto di svolgere determinate attività o di avere rapporti personali che possono occasionare il compimento di altri reati o ripristinare rapporti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e può altresì prescrivere che il condannato o l’internato si adoperi in iniziative di contrasto alla criminalità organizzata”. Sul tavolo della commissione Giustizia ci sono altre tre proposte di legge. Quella firmata dai 5 stelle, Vittorio Ferraresi, Alfonso Bonafede e Giulia Sarti si preoccupa di escludere i mafiosi dalla modifica ordinata dalla Consulta. Occorrerà fornire “elementi concreti” che certifichino la lontananza dai clan, ben più evidenti della “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale” per accedere alla libertà condizionale - ma pure ai permessi premio, la cui preclusione per gli ergastolani ostativo, ma anche ai permessi premio. Servirà giustificare i motivi della mancata collaborazione e dimostrare di aver risarcito le vittime del reato commesso o dimostrare di non poterlo fare per questioni economiche. In più a decidere sulla liberazione deve essere un unico ufficio, creato all’interno del Tribunale di sorveglianza di Roma: un modo per evitare la sovraesposizione dei giudici dei vari distretti. Fratelli d’Italia, nella sua proposta di legge, chiede che il magistrato di sorveglianza possa acquisire “dettagliate informazioni” per escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Anche il Pd, con Enza Bruno Bossio, ha depositato una proposta di legge che però esclude l’obbligo di chiedere il parere delle procure antimafia prima di concedere i benefici. Carcere e porno, perché ne parliamo di Luigi Manconi La Repubblica, 20 ottobre 2021 Un detenuto sottoposto a regime di 41 bis chiede di poter acquistare una rivista hard. Ne nasce un caso che finisce in Cassazione. Per comprendere che cosa sia quella forma massima di privazione della libertà rappresentata dal carcere, nella sua più potente capacità di coercizione, una recente sentenza della Corte di Cassazione può valere quanto le immagini delle violenze all’interno dell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere. Vi si legge: “Anche a volerlo considerare un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata, l’autoerotismo non è impedito - di per sé - dallo stato detentivo. La fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile”. (Sentenza Sez. 1 della Corte di Cassazione, 8 giugno 2021). Ma perché mai la suprema corte ha dovuto esercitarsi su un simile tema, ricorrendo a strumenti di analisi e ad approcci scientifici che appartengono, palesemente, ad altre discipline? Tutto nasce dalla richiesta, avanzata da un detenuto sottoposto al regime del 41 bis, di poter acquistare una rivista pornografica. Un primo divieto viene dalla direzione del carcere e, a confermarlo, interviene un’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza. Quello di acquistare la rivista in questione - scrive il giudice - non corrisponderebbe a un diritto, ma a “un mero interesse alla visione delle immagini”. Ma il ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza dà ragione al detenuto, in quanto la sua richiesta rientra “nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero riconosciuto dall’art. 21 Cost.”; e, in particolare, “nella tutela dell’affettività in carcere, all’interno del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani”. Secondo il Tribunale di Sorveglianza il rifiuto opposto dalla direzione non è congruo, né proporzionato, in quanto non si intende quale sia il nesso tra le “finalità di tutela dell’ordine interno” e il “contenimento del diritto alla sessualità del detenuto da esercitarsi acquistando e trattenendo la stampa (pubblicazione o rivista) di genere”. Ma il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non se ne fa una ragione e ricorre in Cassazione. Quest’ultima, infine, accoglie il ricorso del DAP, evidenziando due punti. Il divieto di ingresso di giornali e riviste dall’esterno risulta legittimo in quanto “la pluriennale esperienza” ha dimostrato che “libri, giornali e stampa in genere [sono] molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l’esterno, ricevendo o inviando messaggi in codice”. Allo stesso tempo, la Cassazione entra nel merito della correlazione tra immagini pornografiche e autoerotismo, affermando che le prime non sono condizione “ineludibile” ai fini della masturbazione. Tuttavia, in apparenza, la ragione del divieto risiederebbe solo in motivazioni relative alla sicurezza e all’ordine pubblico. Ma è molto difficile non intravedere, dietro la sentenza, qualcosa di altro e di più inquietante. Intanto, la convinzione che il regime di 41 bis debba essere “carcere duro”, come costantemente afferma uno stereotipo privo di qualunque fondamento giuridico. Il regime speciale, infatti, non prevede in alcun modo una detenzione più afflittiva, bensì solo ed esclusivamente l’interruzione dei rapporti tra il detenuto e l’organizzazione criminale esterna. Di conseguenza, qualunque misura che renda più vessatoria e intollerabile, o semplicemente più pesante, la vita in carcere è illegale. Tuttavia, ciò che maggiormente colpisce è l’idea di un’autorità - l’amministrazione penitenziaria - che si ritiene legittimata a interferire con la sfera più intima della persona umana (quella sessuale, cioè), a giudicarla, a vigilare sul suo equilibrio, a sindacare sulle qualità delle sue espressioni, a inibire e selezionare le sue pulsioni. Il carcere, così, diventa né più né meno che un dispositivo di mortificazione della soggettività umana. Si cerca la quadra sulla presunzione d’innocenza: oggi il voto alla Camera di Errico Novi Il Dubbio, 20 ottobre 2021 Tormenti sempre vivissimi, alla Camera, in quella commissione Giustizia diventata, dall’insediamento del governo Draghi, epicentro di molte tensioni fra garantisti e giustizialisti. Da una parte, l’accidentato percorso della legge che dovrebbe attuare la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo si arricchisce di un contributo della Fondazione Falcone, in apparenza positivo ma esposto a “recepimenti restrittivi” da parte dei deputati meno entusiasti della svolta, come il Movimento 5 Stelle. Dall’altra parte, oggi si gioca una partita delicatissima sulla presunzione d’innocenza, con il voto (stavolta destinato a verificarsi davvero) del parere che Montecitorio deve inviare al governo sul decreto attuativo della direttiva Ue. Riguardo al secondo punto, ieri sera non si era ancora riusciti a trovare una sintesi fra i partiti dell’ala “tendenzialmente garantista”, da FdI a Italia viva, e la vecchia maggioranza giallorossa renziani esclusi, vale a dire Pd, Leu e pentastellati. Al centro della contesa, la bozza di parere messa sul tavolo già la scorsa settimana dal relatore, e responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa. Un impianto che vede favorevoli appunto destra e centristi, e che esclude del tutto l’ipotesi delle conferenze stampa convocate dai procuratori capo o autorizzate da loro e poi materialmente tenute da altri pm, o addirittura dalla polizia giudiziaria. Costa ritiene che tali occasioni si trasformerebbero nei soliti “rituali colpevolisti”, senza che si possa realizzare la soluzione di continuità imposta all’Italia dalla direttiva europea. Secondo Pd e M5s, invece, va bene il decreto predisposto dalla guardasigilli Marta Cartabia, che consente le conferenze stampa, seppure in casi di particolare rilevanza delle indagini. C’è poi un’altra parte del parere di Costa, pure interessante, che valorizza il “diritto al silenzio” sempre tutelato dal testo dell’Ue, anche rispetto all’entità della pena e al diritto al risarcimento per ingiusta detenzione, ambiti in cui invece oggi è penalizzato chi, durante le indagini, si avvale della facoltà di non rispondere. “Si cerca la quadra”, filtra dalla commissione Giustizia. E proprio le proposte di integrare il decreto governativo con una maggiore tutela del diritto al silenzio potrebbero diventare la chiave per tenere la maggioranza unita. Riguardo l’altro dossier, la proposta della Fondazione Falcone in materia di ergastolo ostativo valorizza, rispetto alla concessione della liberazione condizionata, le condotte riparative messe in atto dai detenuti di mafia nei confronti delle vittime, e l’impegno per assicurare, pur al di fuori della collaborazione, il “diritto alla verità”. Il testo suscita l’apprezzamento, fra gli altri, di Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia e deputato 5S: “È un utile contributo al dibattito in corso e uno stimolo a superare divergenze: è pienamente condivisibile”, dice Perantoni, “il fine che ci si propone, cioè tener conto delle indicazioni della Consulta circa l’applicazione delle pene senza indebolire la lotta alla mafia né vanificare le grandi conquiste fatte in questi anni grazie a una legislazione costata la vita a tanti servitori dello Stato”. Presunzione d’innocenza, sì a conferenze stampa ma il pm dovrà motivare il pubblico interesse di Liana Milella La Repubblica, 20 ottobre 2021 Raggiunto un compromesso in una riunione di maggioranza al Senato. Il ruolo di mediazione della ministra Cartabia. Sta per tramontare definitivamente la stagione delle conferenze stampa nelle procure di tutta Italia. Quelle grandi per i fatti di maggiore impatto mediatico. Quelle piccole per gli episodi comunque importanti a livello locale. La maggioranza di governo ha raggiunto ieri un accordo. In una riunione al Senato i cui effetti si vedranno oggi nel voto che le due commissione Giustizia - di palazzo Madama e di Montecitorio - hanno in programma di buon mattino al Senato e nel pomeriggio alla Camera. Ma l’intesa è già scritta. Non solo viene ribadita con nettezza la regola, peraltro già in Costituzione, che chi è sottoposto a indagini deve essere considerato e quindi presentato come “presunto innocente”, ma ne conseguono regole drastiche sul piano dell’informazione. Anche con l’obbligo molto stringente di immediate rettifiche qualora la presunzione d’innocenza venga in qualche modo violata. L’intesa raggiunta ieri si gioca in una sola frase che riesce a mettere d’accordo esigenze del tutto contrapposte. A partire da quelle di Enrico Costa di Azione che della direttiva sulla presunzione d’innocenza ha fatto una vera battaglia, convinto com’è che ai magistrati vada messo un bavaglio mediatico. La settimana scorsa, sia alla Camera sia al Senato, si era giunti a una contrapposizione frontale che aveva spaccato a metà la maggioranza. Da una parte Costa, che voleva vietare e abolire del tutto le conferenze stampa e voleva altresì cancellare anche l’indicazione dei nomi dei pm titolari delle indagini, in questo seguito da tutto il centrodestra, compreso il presidente della commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari della Lega. Dall’altra parte Pd e M5S, il primo con una posizione che, con Walter Verini, voleva salvare il diritto all’informazione, il secondo con l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede e l’ex sottosegretario Vittorio Ferraresi che volevano garantire comunque il diritto della magistratura di spiegare pubblicamente le ragioni di arresti importanti. E siamo alla riunione al Senato di ieri pomeriggio, in una pausa dei lavori della commissione Giustizia, dov’è stata la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando a presentare una possibile mediazione. Per evitare - come lei stessa ha spiegato - “un’inutile spaccatura della maggioranza con il rischio di far rivivere vecchie idee sul rapporto tra procure e informazione che risalgono al lontano 2008”. Quando al governo c’era Berlusconi. Anche se non emerge ufficialmente, è stata la Guardasigilli Marta Cartabia a mediare sul terreno delicato tra presunzione d’innocenza da una parte, ed effetto mediatico sulla colpevolezza dall’altro. Tenendo ben presente che il decreto legislativo esce dal suo ministero e traduce il testo della direttiva sulla presunzione d’innocenza della Ue che risale ormai al 2016. Era necessario “importarla” nella legislazione italiana? È stato Costa, a marzo, a chiederlo espressamente alla maggioranza con un ordine del giorno alla legge di delegazione europea. Che ha trovato il voto favorevole di tutti e quindi ha impegnato il governo. Il quale, ad agosto, ha inviato alle Camere il decreto legislativo. Che deve essere votato da entrambe le commissioni Giustizia. Il risultato - che viene definito “equilibrato” da entrambe le parti - alla fine è il seguente: la via maestra per comunicare gli avvenuti arresti sarà sempre quella del comunicato stampa, di cui si assume la responsabilità il capo della procura. Tuttavia le conferenze stampa saranno possibili. Ma solo se ricorreranno “specifiche ragioni di pubblico interesse” che dovranno essere “assunte con un atto motivato”. M5S accetta di rinunciare alla sua proposta - cioè “rilevanti” ragioni di pubblico interesse - e converge sulla formula “specifiche ragioni”. Toccherà dunque allo stesso capo della procura mettere su carta i motivi che lo spingono a superare il solo comunicato stampa per tenere invece una conferenza stampa. Ovviamente nessuno pm - come del resto avviene già oggi - potrà parlare per suo conto dell’inchiesta che sta conducendo. La formula “specifiche ragioni di interesse pubblico assunte con atto motivato” è stata suggerita da Rossomando. Ed è stata accettata da Costa e dal centrodestra. E anche dall’ex presidente del Senato ed ex magistrato Piero Grasso di Leu. Costa adesso la commenta così: “Un’intesa nella maggioranza sulla presunzione d’innocenza sarebbe una bella notizia. Si tratta di un principio fondamentale su cui mi batto da tempo, che troppo spesso viene dimenticato. La politica deve dimostrare maturità e lavorare insieme per un processo che si celebri nelle aule di tribunale e non sui giornali, in televisione o sul web. Troppo spesso persone innocenti e assolte vengono bollate a vita dalla gogna mediatica senza poter recuperare la propria immagine compromessa”. Ovviamente le nuove regole varranno soprattutto per la polizia giudiziaria che a questo punto non potrà più presentare pubblicamente i suoi arresti e le ragioni che li hanno motivati e non potrà neppure fare autonome conferenze stampa. Tutto sarà solo nelle mani del procuratore della Repubblica. Una stretta che non dispiace a un ex magistrato come Nello Rossi che con Repubblica ha richiamato il principio di non colpevolezza quale “cardine del nostro sistema penale come dice la Costituzione che, ormai 73 anni fa, stabiliva: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Un testo però che vede del tutto critico il costituzionalista Gaetano Azzariti, il quale considera invece il decreto uno strumento “contro la libertà di indagare e di scrivere sui giornali”. Tra le norme a favore dell’indagato ci sarà anche quella che il suo silenzio non appena viene arrestato non gli impedirà di ottenere una possibile riparazione per un’ingiusta detenzione subita. Anche questa una richiesta di Costa che è stata accolta. L’assalto delle toghe al diritto di famiglia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 ottobre 2021 Magistrati sulle barricate per la parte della riforma civile che istituisce il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie. Il Cnf: ostracismo inspiegabile. Sulla riforma civile con la quale si istituisce il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, dopo l’approvazione in Senato del disegno di legge 1662, si registra la diversità di posizioni tra l’avvocatura e la magistratura. Per quest’ultima a far sentire la propria voce è l’”Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia” (Aimmf). Qualche settimana fa il professor Filippo Danovi, ordinario di Diritto processuale civile e vicecapo dell’Ufficio legislativo presso il ministero della Giustizia, ha sottolineato l’importanza della riforma civile al vaglio del Parlamento e gli sforzi fatti con i quali si è realizzato, a suo dire, un vero e proprio cambiamento nel modo di pensare la giustizia. In questo contesto gli interventi in materia di diritto di famiglia hanno portato il Cnf e l’Aimmf ad esprimersi diversamente. I magistrati per i minorenni e per la famiglia sono sulle barricate. Ritengono che occorra moltiplicare gli sforzi in termini di risorse umane (non solo magistrati ma anche personale amministrativo) per evitare un appesantimento del lavoro giudiziario ed un rallentamento delle procedure. L’Aimmf ha apprezzato l’impegno con il quale si istituisce, sul modello del Tribunale di Sorveglianza, un unico organo giudicante e un unico organo requirente specializzato, in grado di superare “l’attuale suddivisione di competenze, in parte sovrapponibili, tra i tribunali ordinari e quelli per i minorenni”. Tutto ciò, però, non basta. La riforma civile in materia di minori e famiglia viene considerata “non adeguatamente ponderata e condivisa” e “produrrà ulteriori frammentazioni con la suddivisione delle competenze sulle inadeguatezze genitoriali”. La riforma, scrive l’Aimmf in una nota, “pare andare in senso nettamente contrario a quanto desiderato, proponendo la eliminazione, con riferimento a decisioni fortemente incisive nella vita dei minori e delle loro famiglie, della garanzia della collegialità multidisciplinare, fornita da un organo giudicante composto da quattro giudici di cui due giuristi e due esperti nelle scienze umane, oggi presente nei tribunali per i minorenni”. Di qui la “preoccupazione in relazione al fatto che decisioni dolorose e difficili, perché di grande impatto sulla vita dei minori e delle famiglie, come gli allontanamenti, gli affidamenti familiari e le decadenze dalla responsabilità genitoriale, sarebbero, in base alla riforma, assunte da un giudice solo privo delle garanzie della collegialità e della multidisciplinarietà”. Il tutto “senza possibilità di confronto, disperdendo così il patrimonio di conoscenze e di specializzazioni maturate nel tempo dai tribunali per i minorenni”. Dal canto suo il Cnf rifiuta la visione apocalittica di una parte della magistratura. Anzi, la riforma civile, criticata dall’avvocatura, trova i favori di quest’ultima proprio nella parte dedicata alle famiglie e ai minorenni. Si sta realizzando, infatti, un adeguamento atteso da tempo da tantissimi avvocati e, soprattutto, da tantissime famiglie. Secondo il Cnf, si sta andando nella giusta direzione, considerato che sono mutate le esigenze della società e degli operatori del settore. I nuovi scenari fanno emergere con ancora più dirompenza l’esigenza di un approccio specialistico di tutti gli addetti. Il Cnf non nasconde, rispetto alle rigide posizioni dell’Aimmf, “stupore per una reazione tanto violenta e tanto ostracistica all’idea di un cambiamento che per l’avvocatura ha soprattutto il sapore di una evoluzione verso un sistema migliore e più efficiente, più vicino alle esigenze delle persone, delle famiglie e dei minori”. “Un sistema migliore, un rito unico - sostiene il Consiglio nazionale forense -, con la fine di tante sovrapposizioni ignorate, incolpevolmente, da chi se ne occupa e complicanti la gestione di situazioni delicate, ma che non sempre trovano semplificazione, perdendosi nei meandri della cronica difficoltà di mezzi e persone in cui si dibatte la giustizia”. L’attuale contesto richiede collaborazione tra i protagonisti della giurisdizione e non sono ammesse critiche distruttive o, peggio ancora, finalizzate a trovare visibilità. Le riforme nella giustizia, soprattutto in una branca delicata del diritto, come quella riguardante i minorenni e la famiglia, che ha ripercussioni dirette sulla società civile, richiede il massimo sforzo tra chi è chiamato a fornire un contributo diretto. “L’avvocatura - ribadisce il Cnf - è stata chiamata tante volte a mettere da parte istanze tutto sommato più che legittime e a farsi parte diligente per collaborare in modo leale a rispondere a quella domanda di giustizia che vede avvocati e magistrati quali soggetti indispensabili. Anche questa volta farà la sua parte, la farà anche per ciò che non piace e che appare dissonante rispetto alle aspettative e che costringerà all’ennesimo sforzo per modificare quanto appreso e praticato. La parte della riforma in materia di diritto di famiglia è sicuramente quella che ha avuto il più largo e condiviso plauso da parte di tanti colleghi, parrebbe davvero sconsolante immaginare un passo indietro nella materia, che più di tutte coinvolge la società civile e di cui la società, questa società oggi, ha maggiormente bisogno”. Loggia Ungheria, anche Mattarella sapeva dei verbali di Amara in mano a Davigo di Giulia Merlo Il Domani, 20 ottobre 2021 Secondo la testimonianza del vicepresidente del Csm, David Ermini, lui stesso aveva avvertito nel maggio 2020 il Quirinale dell’esistenza della loggia e dei verbali di Amara. Il Colle, però, ha scelto la linea del silenzio e del non intervento per non interferire con la procura di Milano sia allora che, un anno dopo, quando lo scandalo è scoppiato. In attesa di determinare quale sia la verità, i verbali degli interrogatori e delle testimonianze che la procura di Brescia sono stati trasmessi agli ispettori del ministero della Giustizia inviati dalla ministra Marta Cartabia a Milano, al Csm e alla Cassazione. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sapeva dell’esistenza della presunta loggia Ungheria. A informarlo, il 4 maggio 2020, era stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini in un colloquio personale. Ma non è stato il solo. Anche Piercamillo Davigo avrebbe informato dei verbali il consigliere giuridico del Colle, Stefano Erbani. Come riporta il Corriere della Sera, che ha pubblicato ampi stralci della sua testimonianza resa davanti alla procura di Brescia nell’indagine per violazione di segreto istruttorio, Ermini ha parlato “personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il presidente mi ascoltò senza fare commenti”. Il Quirinale, dunque, era stato messo al corrente del fatto che i magistrati di Milano, Paolo Storari e Laura Pedio, avevano raccolto dei verbali in cui l’ex legale di Eni, Piero Amara, raccontava dell’esistenza di una loggia segreta denominata “Ungheria”, i cui membri erano magistrati, politici, legali e pubblici ufficiali e la cui finalità era pilotare le nomine e incidere sui processi. E anche dei timori che Davigo aveva esposto a Ermini sull’inerzia della procura nell’iscrizione della notizia di reato. Oltre al vicepresidente del Csm però anche Davigo, secondo fonti vicine all’ex magistrato, aveva parlato con il consigliere giuridico del Quirinale, Stefano Erbani. Il colloquio sarebbe stato successivo a quello con Ermini, ma l’argomento sarebbe stato anche la notizia che, esattamente un anno dopo, ha terremotato il Csm e gettato un’ombra sull’operato della magistratura milanese. Come anche Ermini ha chiarito ai magistrati bresciani, Mattarella è rimasto in silenzio davanti alla notizia. Altro non avrebbe potuto fare. Come spiegato da fonti del Quirinale, la scelta è stata dettata dall’imperativo di astenersi da ogni tipo di azione davanti a inchieste in corso, rispettando il dovere di non interferire con l’operato della magistratura. Scelta che Mattarella ha confermato con il suo silenzio pubblico anche un anno dopo quando il caso è scoppiato sui giornali, lasciando però così il Consiglio in solitudine nel gestire uno scandalo di proporzioni simili se non maggiori dopo quello del caso Palamara. Ermini riassume ai magistrati di Brescia anche come era venuto a conoscenza dei verbali della loggia Ungheria: il fatto che la fonte fosse l’ex togato del Csm, Piercamillo Davigo, è cosa nota. Non altrettanto le modalità: “Davigo mi invitò in cortile, lasciando i telefoni in stanza. Data la complessità del quadro mi suggerì di informare il presidente della Repubblica, perché riteneva giusto che sapesse. In serata, avendo già in mente di andare dal presidente che non vedevo ormai da un paio di mesi, mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico”. Ermini aggiunge anche un altro dettaglio significativo: pochi giorni dopo la visita al Quirinale, Davigo si è recato da lui con una teca arancione. “Mi disse: “Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara”. Ero molto in difficoltà, averle depositate sulla mia scrivania mi poneva il problema di cosa farne, posto che non intendevo veicolare al Comitato di presidenza senza una qualunque base di ricevibilità e utilizzabilità”. La tesi sempre sostenuta dai vertici del Csm, infatti, è che la circolazione dei verbali di Milano in forma di stampato Word e le informazioni che personalmente Davigo aveva dato in forma orale a molti membri del Consiglio, non potevano essere sufficienti per aprire formalmente un fascicolo. Per poter procedere, infatti, sarebbe servito un esposto. Per questo, “appena uscito Davigo, cestinai la cartellina. Quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai senza aver preso conoscenza del loro contenuto”. Ermini, dunque, si sarebbe trovato in grande imbarazzo davanti alle informazioni confidenziali che gli stava dando Davigo, con un riferimento anche al coinvolgimento nella presunta loggia del consigliere Sebastiano Ardita, ex amico e compagno di corrente di Davigo. Il vicepresidente del Csm allora - senza poter determinare l’attendibilità delle parole dell’ex pm - ha deciso di riferire la conversazione a Mattarella, nelle vesti non solo di capo dello stato ma anche di presidente del Csm. Una sorta di passaggio al livello superiore di una informazione difficile da gestire, oltre che non confermata da atti formali. A quel punto l’esistenza dei verbali era ormai nota non solo al Quirinale, ma anche all’intero comitato di presidenza del Csm, ad alcuni consiglieri laici e togati e anche al presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Il cortocircuito, però, è stato generato da un fatto: nessuno degli informati ha agito davanti alla notizia né, almeno formalmente, avrebbe potuto farlo. Il Colle per non interferire con un altro potere dello stato in un’inchiesta in corso, i vertici del Csm perché mancava un esposto scritto. Alla fine qualcuno però si è mosso. Seppur solo per una richiesta di chiarimenti, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi - anche lui informato da Davigo in quanto membro del comitato di presidenza e titolare dell’azione disciplinare per i magistrati - ha telefonato al procuratore capo di Milano Francesco Greco. “Davigo, senza alcun materiale cartaceo, mi disse che a suo avviso era necessario che io, quale pg della Cassazione, avessi un chiarimento con il procuratore di Milano, essendosi lì determinato uno stallo dovuto al fatto che, secondo lui, Greco non assumeva alcuna iniziativa che desse impulso alle indagini”, è la versione di Salvi. Il pg di Cassazione aggiunge anche che “chiamai Greco per avere chiarimenti. Mi si chiede se la mia prima telefonata a Greco si collochi tra l’incontro con Davigo e il 12 maggio (data di iscrizione della notizia di reato, ndr)” e “la cosa è verosimile, ma non posso darne certezza non avendo più quel cellulare”. Proprio da questa ricostruzione, tuttavia, emerge un dato incongruente rispetto alla posizione di Greco. Il procuratore di Milano, infatti, ha sempre negato di aver ricevuto sollecitazioni per accelerare le indagini da parte di Salvi. “Mai mi ha parlato di Davigo e Storari, e tanto meno di contrasti o indagini”, ha detto Greco nell’interrogatorio davanti ai magistrati di Brescia. Secondo lui, infatti, l’iscrizione della notizia è avvenuta per “maturazione delle scelte” e dunque in modo del tutto autonomo da qualsiasi condizionamento esterno. La tesi che Davigo ripete sin dall’inizio della vicenda è una: le sue iniziative informali sarebbero state dettate dalla sola volontà di rimettere sui binari corretti un’indagine che altrimenti rischiava di saltare. I verbali, infatti, erano datati dicembre 2019 e in aprile l’iscrizione della notizia di reato (di calunnia a carico dello stesso Amara oppure della loggia segreta, a seconda dell’attendibilità attribuita all’ex legale di Eni) ancora non era avvenuta. Per questo Storari si sarebbe allarmato e si sarebbe rivolto a Davigo. La mancata iscrizione dolosa di una notizia di reato, infatti, fa sì che - una volta scoperta - il decorso dei termini scatti nel momento in cui l’iscrizione sarebbe dovuta avvenire. Nel caso dei verbali, quando questi erano stati resi. Di qui l’iniziativa di Davigo di sollecitare l’intervento di Salvi e del Csm a inizio maggio 2020, a un mese dalla scadenza del termine per l’indagine. In quest’ottica, quindi, l’iniziativa di Davigo sarebbe andata a buon fine: l’intervento di Salvi e l’iscrizione della notizia di reato hanno fatto raggiungere l’obiettivo prefissato di salvare l’indagine sulla presunta loggia. Tesi non condivisa dalla procura di Milano, che invece ha sempre detto di essersi mossa nel rispetto delle procedure e senza interferenze esterne se non quelle negative, determinate dal passamano di verbali ad opera di Davigo e Storari. Restano tuttavia una serie di interrogativi: per quale ragione nessuno al Csm ha redatto almeno una relazione di servizio sulle confidenze di Davigo? Perché Davigo non è stato sentito nel procedimento disciplinare a carico di Storari aperto dal pg di Cassazione Salvi? Ma soprattutto non è ancora chiara la dinamica per la quale i verbali sono stati infine resi pubblici, facendo emergere che tutti ne erano a conoscenza ma anche inquinando definitivamente l’indagine. Sospensione patente motivata per gravità della violazione, entità del danno e rilevante pericolo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2021 Nel patteggiamento la sanzione accessoria non è parte dell’accordo per cui è impugnabile e la durata diversa dalla media va giustificata. La sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida nella misura di due anni necessita di adeguata motivazione da parte del giudice che condanna a seguito di patteggiamento l’imputato per lesioni personali stradali gravi o gravissime. La Corte di cassazione ribadisce, con la sentenza n. 37628/2021, che il giudice adotta discrezionalmente nel patteggiamento la sanzione accessoria, che non è ricompresa nell’accordo tra le parti, lasciando quindi intatto l’obbligo motivazionale a carico del giudicante. E tale obbligo è adempiuto se il giudice indica come elementi alla base della sua determinazione: la gravità della violazione, l’entità del danno e il pericolo derivante dalla futura possibilità di circolare per il condannato. Nel caso concreto si trattava di pena patteggiata per il reato ex articolo 590 bis del Codice penale con contestuale applicazione della sanzione della sospensione della patente fissata dal giudice in due anni di durata. La Cassazione accoglie il ricorso contro tale misura che dovrà essere ridefinita dal giudice con adeguata motivazione. In effetti dal ricorso emerge che il giudice - a giustificazione della sospensione per un periodo ben superiore ai minimi edittali - avesse solo citato la sussistenza della gravità della condotta e la rilevante entità del danno senza specificazione alcuna. La Cassazione adotta la sua decisione partendo da un precedente di legittimità da applicare a contrario. Si trattava, infatti, dell’affermazione secondo cui il giudice deve giustificare l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria nella misura vicina al minimo edittale. E, quindi, a maggior ragione dovrà essere pienamente motivata la scelta di applicazione ben al di sopra della media edittale. Omicidio colposo per morte del trasportatore se l’azienda non dota mezzo dei cunei blocca-ruote di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2021 Irrilevante l’imprudenza della vittima che aveva disinnescato il freno con una manovra di cui non conosceva le conseguenze. Il comportamento colposo del lavoratore vittima di un incidente sul lavoro rileva soltanto se il rappresentante dell’impresa o il suo preposto alla sicurezza ha adottato tutte le misure di prevenzione, che comprendono tanto le dotazioni tecniche quanto una formazione adeguata alla mansione affidata al dipendente. La Corte di cassazione penale, con la sentenza n.37699/2021, ha confermato la responsabilità per omicidio colposo dell’amministratore delegato di una società di trasporti per la morte del dipendente assegnato alla guida di mezzi articolati perché non aveva dotato il lavoratore dei cunei frenanti da apporre alle ruote nel momento di scarico dei materiali di notevole peso. Il ricorrente si era difeso fino in Cassazione facendo rilevare come l’incidente mortale fosse di fatto dipeso dal comportamento della vittima che sospettando una perdita d’aria aveva distaccato il flessibile, che legava il rimorchio alla motrice, determinando il disinnesco del freno del primo e la sua discesa lungo il declivio dove entrambi i mezzi erano parcheggiati. Dice la Cassazione, che se è vero che lo stacco del flessibile con la conseguente sfrenatura del rimorchio è comportamento imprudente del lavoratore, soprattutto in una situazione a pieno carico, è pur vero che con il posizionamento dei cunei adeguati (invece degli inutili blocchetti in dotazione al mezzo) l’incidente sarebbe stato scongiurato. Spiega la Cassazione che nel caso concreto il comportamento imprudente del lavoratore dipendeva anche da una mancata formazione specifica per la movimentazione di mezzi di tale stazza. Ciò rende ancor più rilevante l’assenza degli strumenti di bloccaggio da apporre alle ruote durante le operazioni di carico e scarico. E da cui emerge ulteriore profilo di responsabilità del ricorrente. Infatti, chi riveste in azienda la posizione di garanzia antinfortunistica può essere escluso dalla responsabilità di un evento dannoso occorso al dipendente solo se la colpa del fatto è ascrivibile a quest’ultimo. Ma il dipendente non è colpevole per le sue imprudenze che con la dovuta attrezzatura sarebbero neutralizzate nelle conseguenze. Quindi, viene ribadito che non è solo con il comportamento totalmente eccentrico e imprevedibile del dipendente che scatta lo scarico di responsabilità dell’imprenditore. L’azienda deve, infatti, comunque dimostrare di aver adempiuto a tutti i propri doveri e obblighi di prevenzione degli infortuni. La prevenzione, infatti, contempla e tutela anche dalle imprudenze o distrazioni dei lavoratori dipendenti dall’impresa. Napoli. Detenuto suicida a Secondigliano, l’ottavo del 2021 in Campania Il Riformista, 20 ottobre 2021 Un nuovo suicidio, un nuovo morto nelle carceri campane, l’ottavo dall’inizio del 2021 e il 36esimo in Italia. È morto domenica sera nel carcere di Secondigliano, a Napoli, Slaviza Jovanovic. Rumeno di 34 anni, era giunto a Secondigliano da quasi un anno, proveniente da Torino, dove era evaso durante un permesso. Per Slaviza il fine pena era breve, nel 2024, dopo la condanna per il reato di rapina. Ma il 34enne dalla sua cella di Secondigliano è uscito cadavere. L’ennesimo suicidio dietro le sbarre che il garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello e quello napoletano Pietro Ioia commentano con amarezza: “Il ritmo delle morti per suicidio nelle carceri non provoca sussulti, sgomento, indignazione, non sviluppa campagne di prevenzione, di sensibilità sul tema delle carceri. Il detenuto era molto seguito dal carcere, aveva effettuato diverse visite psichiatriche, era ristretto in una sezione aperta, aveva ripetutamente chiesto di essere trasferito in un carcere del nord poiché i suoi familiari risiedono in Germania. La violenza endemica del carcere ormai coinvolge tutti, comprese le paure e le insicurezze dei cittadini e il cinismo e la pavidità della politica, che considera il carcere necessario per tutti i “diversi” della società”, spiega Ioia e Ciambriello. I due garanti ribadiscono quindi un appello già avanzato in passato: “È necessario andare oltre la punizione del carcere come antidoto all’insicurezza dei cittadini, non strumentalizzando le vittime come fa la politica e applicando l’art 27 della Costituzione riguardante la rieducazione del condannato e l’art 2 della Costituzione che tratta di diritti inviolabili dell’uomo”. Roma. La casina degli affetti, regalo di Renzo Piano alle detenute di Rebibbia di Francesco Merlo La Repubblica, 20 ottobre 2021 “È una casetta che somiglia a una casetta. Così come la prigione somiglia alla prigione”. E si chiama “Mama”, aggiunge Renzo Piano. Mama è un acronimo di qualcosa, ma è anche l’intercalare dell’amore: ma’, mama... mamma, se è vero, come dicono i dizionari, che è la prima sillaba che il neonato pronunzia: “ma”. E poi, inseguendo chissà quale suono o quale ombra, il neonato ripete e allunga, deforma e raddoppia: “ma-ma-ma-ma-mama, mamma”. Che altro nome poteva avere una casetta di legno arancione adagiata sul prato dentro la prigione femminile di Rebibbia? Per prima cosa Mama è infatti l’alternativa allo squallore del parlatorio, il luogo della tristezza e della durezza, dell’intimità in pubblico che è il più dolente degli ossimori. Questo è invece il miniappartamento degli affetti dove, appunto, la mamma detenuta riceverà i suoi bambini che, a partire dai 4 anni d’età, la legge non le permette più di tenere in cella con sé. E l’intimità è garantita dalla piccola architettura, anche se fuori ci sarà il piantone, tra il melograno, le magnolie e gli arbusti di ribes. È ovvio che sull’uscio anche il carceriere non somiglia a un carceriere, ma a una guardia del corpo o a un portiere. “E si capisce che le parole e gli abbracci, la casa e lo stare insieme sono un’ottima terapia anche contro il far male a se stesse” dice Pisana Posocco, architetta veneziana che insegna alla Sapienza, e più di tutti gli altri ha lavorato con Renzo Piano per questa casetta di Rebibbia, e con il carcere ha la stessa dolce e tormentata ossessione che Quasimodo aveva con Notre-Dame. Per studiare le prigioni è andata pure in Norvegia, nel carcere modello di Skien dove lo stragista Breivik sta scontando la sua pena: 21 anni, (rinnovabili). “Mi hanno offerto da dormire, ma di notte non riesco a stare chiusa”. A Rebibbia le detenute sono 320 e Pisana Posocco ne conosce tante: “Ci sono cinque irriducibili brigatiste - racconta - e sono un’enclave, una comunità nella comunità. Hanno pochi rapporti con le altre, e a volte si riuniscono al mattino per pregare”. Alla fine Mama è un omaggio alla mamma, che ovviamente in carcere pensa alla casa, sogna la casa, “e spesso è dentro per colpa di qualche maschio, marito, compagno, amante o fratello che sia” dice Piano. Non esiste in architettura “lo stile materno”, ma questa casetta in prigione forse è proprio questo: un piccolo rammendo materno. “Noi la guardiamo - dice Piano - e ci sembra la casa come la disegnano i bambini, ma forse è la casa immaginata per un bambino da una mamma prigioniera”. Chiedo come immagina la casa a una detenuta piccola e scura che mi dice il nome, ma poi poggia la mano aperta sopra il taccuino e va a chiedere il permesso alla guardia carceraria: posso dire il nome al giornalista? Meglio no, niente nomi e niente reati. La casetta che mi descrive però è una piccola magia senza sbarre: soggiorno, letto, cucina e bagno. Come quella di Renzo Piano? “Come quella”. E c’è qualcosa di romantico anche nel soffitto spiovente di quattro metri e sessanta, che è il contrario del soffitto basso delle celle e provoca una specie di effetto cielo come nella canzone di Gino Paoli. Alla fine la casetta è il trionfo del concetto di “tipo”: “Una casa è una casa è una casa” si dice in architettura parafrasando l’Eliot di “una rosa è una rosa è una rosa”. E un architetto come immagina la prigione? “Non ne ho mai disegnata una, ma ci penso spesso. Annamaria Cancellieri che era ministro della Giustizia del governo Letta, aveva delle belle idee sulle carceri e mi aveva proposto di progettare un carcere modello. Poi, purtroppo non se ne fece niente. Comunque, se una casa in prigione deve somigliare il più possibile a una casa, una prigione deve somigliare il meno possibile a una prigione”. Anche l’architetto Piano a 84 anni non somiglia a un architetto tipo, non è eccentrico e non veste di nero, non è “total black” come dicono i modaioli a Milano, non è asimmetrico neanche nell’abbigliamento, nelle abitudini, non è il creativo, il “famolo strano” che, in architettura, è anche la nobiltà dell’ellissi, dal manierismo al barocco sino al moderno e a Bruno Zevi che diceva: “La simmetria è fascista”. Invece Piano è oggi una specie di modello da passerella antropologica, maestro di morale e prototipo del bel vecchio italiano senza bile, come furono Gassman, Montanelli e com’è Scalfari che però è molto più vecchio. “Quando la vecchiaia diventa bella lo senti dentro”. È infatti così che lo ricevono, come un vecchio principe della morale che forse ha colto con la sua casetta il twist che sta cambiando l’idea di pena e di galera: “Mi piacerebbe accendere la scintilla degli affetti nelle carceri”. Forse la casetta Mama acchiappa per la coda il mondo nuovo della giustizia, tra la riforma Cartabia, i sei referendum radicali, la crisi della magistratura, la battaglia contro “il fine pena mai” che, dice Piano, “nega il cambiamento delle persone, impedisce a chi cade di rialzarsi, trasforma la giustizia in vendetta”. Monica Cirinnà è la relatrice di una legge che prevede la casetta Mama in tutte le carceri italiane. Commenta Piano: “Non si può replicare la casetta com’è, ma la funzione sociale, sì”. “E mi lasci sognare - dice Lucia Merenda che ai detenuti di Rebibbia insegna italiano - dalle casette dell’affetto si dovrebbe poi passare alle casette dell’amore come già avviene in tanti altri Paesi civili”. L’inaugurazione è festosa: “Mi piace trovare in carcere quest’ottimismo”. La casa l’hanno fatta tre detenuti maschi del carcere di Viterbo, diretti dal mastro artigiano Eriberto Berti. I tre detenuti hanno avuto pure l’encomio scritto, ma oggi non li hanno invitati perché le loro pene sono troppo alte e il regolamento è il regolamento: il più “leggero” ha ancora nove anni. Le guardie vorrebbero evitare i nomi, ma si sa come sono gli operai dell’edilizia, tutti come il padre di John Fante che guarda i mattoni e le pietre e ama le case più dei proprietari, proprio perché per lui non diventeranno mai “la roba”. Tanto più se sono pure detenuti i muratori o, in questo caso, i carpentieri-falegnami, visto che tutto è legno. Di cemento c’è solo, nascosta, una platea di 50 centimetri di fondamento: “Se ci fosse un terremoto la casetta resterebbe in piedi”. Dunque, onore ai tre artisti del legno Aleks Boci, un albanese, Boris Atanaso, un bulgaro, e Andrea Cacciatori, un italiano. Onore alle detenute che hanno fatto il lavoro di rifinitura e che ora si stringono attorno a Piano per la foto, che scatto io (e, ahimè, si vede): peccato che manchi la più tosta, quella che aveva scritto sul viso “never give up”, non mollare mai. È in alta sorveglianza. E onore infine al piccolo rammendo materno di Renzo Piano e dei ragazzi del suo G124 che stanno lavorando in tutte le periferie d’Italia, in tutti i luoghi dell’umanità confinata dove “una casa è una casa è una casa”. Ancona. In carcere la poesia diventa ora d’aria di Marco Benedettelli Avvenire, 20 ottobre 2021 Un laboratorio per detenuti della sezione massima sicurezza. E c’è anche chi compone rap. Oggi al laboratorio di poesia si parla del “fanciullino”, della voce che è nel profondo di ognuno e che guarda al mondo ogni volta con immaginazione sempre nuova. Quando il docente legge la pagina di Pascoli, i detenuti seduti a semicerchio ascoltano con gli occhi socchiusi. Alla domanda: “C’è ancora un bambino, dentro di voi?” si sprigionano le risposte più sincere, le parole di Pascoli si sono depositate in fondo. “Ho avuto una infanzia durissima, ma sono tornato bambino quando è nato mio figlio”, racconta un detenuto dall’accento romano. E un albanese che non avrà trent’anni: “Torno spesso, nella memoria, a quando ero piccolo, non c’erano tutti i problemi di adesso, non avevo commesso errori”. E poi un signore arabo, corpulento: “Ancora riesco a stupirmi, anche in cella i miei sentimenti di improvviso si svegliano, come da bambino”. I racconti sgorgano irrefrenabili. “Ho tanta voglia di parlare, mi basta una parola d’affetto per sentirmi come quando ero piccolo” confida un uomo con i capelli brizzolati. Siamo in una stanza della casa circondariale di Montacuto, frazione di Ancona, struttura detentiva con reparti ad alta sicurezza e comuni. La luce filtra dalle finestre in alto, una guardia penitenziaria controlla da un angolo. “Ora d’aria, laboratorio di poesia per detenuti” è organizzato dai volontari dell’associazione culturale Nie Wiem. Il ciclo è parte del festival poetico “La punta della lingua”. L’ora e mezzo di confronto continua, si leggono le lettere, quelle che i detenuti hanno indirizzato ai bambini delle scuole. I testi, letti ad alta voce, risuonano pieni di immagini. Un uomo rivive quando da piccolo abitava in campagna e tanto si divertiva coi suoi amici da restare in giro fino al tramonto, dimenticandosi di dover tornare a casa. C’è poi chi legge i propri testi composti in cella, pagine che inanellano ricordi: la patria lontana, il viaggio migrante con la paura di morire in mare, il rimpianto per gli errori commessi. Anafore, rime interne. I detenuti hanno disseminato le loro prose di figure retoriche, anche involontariamente, impreziosendole di un ritmo che pone tutti in ascolto. L’incontro finisce a suon di rap: un giovane africano che i compagni chiamano “il nostro poeta” inizia a cantare pezzi da lui scritti. Ne ha un block-notes pieno, fogli e fogli di versi. “Creo sempre, in cella”. Le sue parole incalzano fluide, cariche di sogni e rimpianti e tutti ridono, scherzano, anche la guardia penitenziaria. Il ragazzo è un musicista, spiega, su You Tube ci sono un paio di sue performance in giro per le città delle Marche, canzoni dedicate a Dio e all’Africa. Il laboratorio finisce così, coi suoi sogni di riscatto. I detenuti tornano sopra, nelle celle da 23mq. Quello di Montacuto è uno dei dieci carceri più stipati di Italia, con 312 presenti per 256 posti (dati associazione Antigone). Mentre si tiene il laboratorio, in altri reparti si sono vissuti momenti drammatici. Dei detenuti hanno tentato il suicidio, ci sono stati atti di autolesionismo e una rissa, in cinque sono stati trasportati all’ospedale. Dentro le carceri marchigiane nell’ultimo semestre sono stati 88 i casi di autolesionismo e 10 i tentativi di suicidio. In un contesto così duro, verso la riabilitazione, dare voce al proprio fanciullo interiore attraverso il canto delle parole è una strada da tenere aperta. Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita di Venanzio Postiglione Corriere della Sera, 20 ottobre 2021 “Il tempo delle mani pulite”, di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18). Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza. Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo. Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa. È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro “Corriere della Sera” non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, “il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva”, che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione. Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino. “Il telefono squilla presto e troppo”, scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ‘92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del “Corriere”, talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte. Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. “Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti”. Il 1992 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di “un popolo di confidenti e flagellanti”, è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma “i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza”. E qui Buccini ci va dritto: “Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione”. Non solo. “Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?”. C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores. Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: “Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica”. Craxi dice che “hanno creato un clima infame”, Gerardo D’Ambrosio replica che “il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati”. E i giovani socialisti contro-replicano: “Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare”. Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora. Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. “La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…”. Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa. Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: “La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!”. Borrelli è il più lucido: “Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra”. La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento (“un’autobiografia nazionale”), si confida con l’autore del libro: “Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima”. Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso. Tocca al “nuovo miracolo italiano”, alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che “tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale”. La stiamo ancora aspettando. Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, “perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria”. La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: “Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto”. La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore. Codice Rocco, è ora di cancellare le misure di sicurezza di Giulia Melani, Katia Poletti Il Manifesto, 20 ottobre 2021 Com’è possibile che la Carta costituzionale possa essere disattesa, offesa, lesa dalla persistenza nell’ordinamento dell’istituzione Casa lavoro? Questa domanda, con cui l’Arcivescovo di Chieti Bruno Forte chiude il confronto sulle misure di sicurezza per imputabili con il giudice costituzionale Giovanni Amoroso, durante la puntata del 16 aprile 2021 di Incontri - il podcast della Libreria della Corte costituzionale - ha sollecitato la riflessione di un gruppo di lavoro ad hoc. L’incontro, organizzato nella data simbolica del 91esimo anniversario del codice penale Rocco (che fu promulgato proprio il 19 ottobre 1930), è servito per discutere e perfezionare una proposta di legge avente ad oggetto l’abolizione delle misure di sicurezza per imputabili, già presentata, in una sua prima stesura, dalla Società della Ragione nel seminario “Salute mentale e folli rei. Continua la discussione”, che si è tenuto a Treppo Carnico dal 17 al 19 settembre scorso. Cosa siano le misure di sicurezza per imputabili lo mette bene in luce Forte, in quello stesso intervento del 16 aprile, definendole “una realtà che è stata istituita in epoca fascista e che non è mai stata abrogata in cui persone che hanno già scontato la pena che è stata loro comminata e sono ritenute socialmente pericolose devono continuare a vivere, praticamente in condizione di detenzione, fino a quando non abbiano trovato un lavoro da esercitare e un’abitazione che le accolga”. In sostanza, si tratta di misure applicate sulla base di un giudizio che non verte sul reato commesso ma sull’etichettamento del suo autore come “delinquente abituale”, “professionale” o “per tendenza” e “socialmente pericoloso”. Misure illiberali, che raddoppiano la sanzione, sottoponendo ad un di più di detenzione persone che in prevalenza provengono da contesti di disagio. Sono duplicazioni di pena con una fine non determinata ma legata al raggiungimento di un obiettivo di reinserimento (spesso l’ottenimento di un lavoro o di una casa) pressoché irrealizzabile all’interno di un’istituzione che è, a tutti gli effetti, un carcere e spesso molto distante dal territorio dove la persona reclusa ha o aveva i suoi legami (familiari, relazionali, lavorativi, etc…). Come mostra la ricerca condotta dal Garante dei detenuti della Toscana nel 2019 sugli internati nella casa di lavoro di Vasto, la gran parte degli ingressi e delle proroghe delle misure è dovuta alla mancanza di alloggio e di lavoro, all’uso di sostanze, a fattori di precarietà che vengono tradotti nella prognosi di pericolosità sociale. Così, la misura di sicurezza finisce per essere - come la definiva Sandro Margara - una “detenzione sociale”, una privazione della libertà, applicata alle fasce più vulnerabili e marginali. La proposta di legge mira a superare questo sistema, partendo innanzitutto dalla cancellazione delle figure di stampo criminologico-positivista delineate dal codice Rocco: “il delinquente abituale”, “professionale” o “per tendenza”. Il testo inoltre propone di abrogare le misure di sicurezza detentive (casa lavoro e colonia agricola) e riforma la misura non detentiva della libertà vigilata, prendendo ispirazione dalle proposte del Tavolo 11 degli Stati generali sull’esecuzione penale e qualificando la misura come funzionale alla “promozione della libertà”, attraverso l’offerta di opportunità (casa, lavoro, studio). Viene sottoposta al principio di territorialità della sua esecuzione, prevedendo che il soggetto destinatario della misura possa essere supportato dalla relazione con i servizi sociali e sanitari. A fronte di questa proposta, che riguarda (relativamente) poche persone (334 a gennaio 2021), ma che affronta una fondamentale questione di principio, non resta che capire se chi deve fare le leggi riterrà degna di attenzione quella piccola fetta di popolazione che abita a tempo indeterminato le cosiddette case lavoro. Migranti. Il Garante: “Locali inadatti a trattenere gli stranieri espulsi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2021 Ambienti completamente vuoti e come unico elemento di arredo hanno una panca in muratura o metallo, lungo una delle pareti, che funge sia da seduta che da giaciglio per il riposo notturno. In alcuni casi, come a Parma, le finestre sono schermate dall’imposta esterna che rimane sempre chiusa impedendo il passaggio di luce e aria naturali. A Bologna, addirittura, le stanze hanno una parete di vetro. Privacy, di fatto, violata. Parliamo di alcune criticità emerse dal rapporto tematico del Garante nazionale delle persone private della libertà, per quanto riguarda i locali utilizzati dall’Autorità di pubblica sicurezza per il trattenimento delle persone straniere presso le Questure di Parma e Bologna. Tecnicamente sono definite “strutture diverse e idonee” adibite per il trattenimento del cittadino straniero in fase di esecuzione dell’espulsione. Il garante nazionale, nel rapporto, fa una breve premessa a relativamente all’evoluzione normativa dell’istituto e alle aree di valutazione prese in considerazione nell’attività di monitoraggio. La possibilità di utilizzare “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza e locali idonei presso l’ufficio di frontiera interessato” per trattenere temporaneamente lo straniero espulso destinatario di un provvedimento di accompagnamento alla frontiera è stata introdotta con il decreto- legge 4 ottobre 2018 n. 1131. Fin da subito il Garante nazionale, con il parere espresso nell’ambito dell’iter di conversione dell’atto governativo, ha rilevato che la fattispecie detentiva sollevava numerosi profili di criticità relativi, in particolare, all’assenza esplicita di una disciplina delle condizioni di trattenimento e alla formulazione eccessivamente generica della norma, che oltre a non individuare in maniera puntuale i nuovi luoghi di privazione della libertà, rinvia a una vaga nozione di ‘idoneità’ per la loro determinazione. Nel suo parere, il garante nazionale, pur ravvisando sotto il profilo delle condizioni materiali un’analogia con le “camere di sicurezza”, ha messo in risalto la necessità che, qualora queste ultime siano ritenute dall’Autorità di Pubblica sicurezza e dall’Autorità giudiziaria idonee al trattenimento dello straniero, trovino completa e compiuta attuazione tutti i diritti riconosciuti a chi sia sottoposto a una misura di detenzione amministrativa. I locali individuati dalle Questure di Parma e Bologna consistono in due ampie stanze situate al pianterreno simili tra loro e - come osserva il Garante sotto molteplici aspetti non conformi alla normativa e agli standard di settore. Entrambi sono dotati di finestre. Nel caso della Questura di Parma, tuttavia, sono schermate dall’imposta esterna che rimane sempre chiusa impedendo il passaggio di luce e aria naturali. Compensa in parte la presenza di un impianto di areazione. Gli ambienti sono completamente vuoti e come unico elemento di arredo hanno una panca in muratura (Parma) o metallo (Bologna) lungo una delle pareti, che funge sia da seduta che da giaciglio per il riposo notturno. Anche solo valutando tale aspetto, il Garante osserva che appare difficile considerare tali locali come rispondenti ad “adeguati requisiti igienico- sanitari e abitativi”, anche in considerazione dello stato di ammaloramento e di sporcizia delle pareti. Fatte salve le coperte, nessun ulteriore materiale, come effetti letterecci e materasso, viene fornito per il pernottamento. Tale parametro deve, peraltro, essere considerato anche a tutela delle persone fermate a fini identificativi nei casi in cui siano costrette a trascorrere la notte in Questura. Da rapporto tematico del Garante, risultano, altresì, completamente assenti tavoli e sedute per la consumazione dei pasti; i bagni (privi di doccia) sono esterni, fruibili pertanto solo con l’intervento del personale di Polizia. Il Garante osserva un ulteriore disallineamento dagli standard internazionali che è rappresentato dall’assenza di un pulsante di chiamata azionabile dall’interno per eventuali necessità. I locali sono, tuttavia, videosorvegliati sia attraverso telecamere interne ai locali, sia tramite una telecamera posta in corridoio. Ma c’è il rovescio della medaglia. Nei locali della Questura di Bologna, le stanze hanno infatti una parete a vetro che consente una visione completa dell’ambiente da parte di chi si trovi nella sala di controllo contigua posta tra le due stanze: secondo il Garante, una simile configurazione determina, una violazione della privacy delle persone trattenute, particolarmente grave nel caso di permanenza di cittadini stranieri di sesso diverso, che possono vedersi attraverso le pareti divisorie in vetro. Secondo quanto riferito al Garante, la capienza massima per stanza è pari a due persone, ma dalla disamina dei registri è emersa in qualche caso la presenza complessiva contemporanea, tra i due locali, di cinque persone. A questo si aggiunge un’altra grave criticità: in tutte le Questure visitate non è presente un’area esterna in cui la persona trattenuta possa trascorrere almeno un’ora al giorno all’aria aperta. Migranti. A Foggia donne vittime di tratta: l’altra faccia di Borgo Mezzanone di Martina Martelloni Il Domani, 20 ottobre 2021 “Questo non è un posto per una donna”, dice Patricia alzando la voce e volgendo lo sguardo al cielo “qui dentro inizi a scomparire dal primo giorno in cui metti piede”. Patricia vive a Borgo Mezzanone, nel ghetto in provincia di Foggia dove stazionano migliaia di migranti. I braccianti, il caporalato, il sistema della grande distribuzione agricola che decide il prezzo del prodotto tornano episodicamente al centro del dibattito pubblico. Ma le donne, che sono la minoranza del campo, sono come cancellate dal racconto e dall’attenzione delle istituzioni. Sono figure invisibili e ignorate. “Ho quarant’anni, ma è come se ne avessi il doppio”, dice Patricia. Viene dalla Nigeria come gran parte delle donne presenti all’interno degli agglomerati di lamiere e mattoni. La sua è la storia di una madre sola che, pur di non far crescere il figlio di otto anni nell’inferno di Borgo Mezzanone, ha scelto il distacco, l’allontanamento. “Non potevo farlo vivere con me, non avevo scelta così l’ho portato a Napoli e affidato a una mia amica perché potesse seguirlo in mia assenza”, dice. Le donne sono il dieci per cento della popolazione presente nel ghetto dell’ex pista aeroportuale militare. Finiscono spesso nella rete della prostituzione e riportano traumi fisici e psicologici che si trascinano addosso per tutta la vita. “La maggior parte di loro sono ragazze di vent’anni, ma ci sono anche donne adulte arrivate negli anni novanta che sono riuscite ad avviare piccole attività commerciali nel ghetto, come locande o empori”, dice Daniela Zitarosa, responsabile dei progetti dell’organizzazione umanitaria Intersos. “Le donne del ghetto restano lì anche di inverno mentre quelle giovani si spostano in altre zone d’Italia in base all’offerta di lavoro agricolo, ma spesso finiscono in strada a prostituirsi”. Alcune donne arrivano per lavorare come braccianti e poi vengono impiegate e sfruttate nella tratta di esseri umani. “I clienti arrivano anche da fuori Foggia, questo è un luogo diventato terra di nessuno dove una rete criminale offre braccia a poco prezzo e anche il corpo delle donne”, dice Zitarosa. Tra le donne che incontriamo c’è Fari. È senegalese, ma nonostante i soli 37 anni di età, è già considerata tra le donne adulte del ghetto. Ci sono Dori e Angela, cinquantenni nigeriane, che in quelle baracche di lamiera della capitanata ci vivono da dieci anni. “Non avere una casa è spesso il primo passo per accettare di vivere in posti come Borgo Mezzanone, una sorta di ‘rete di salvataggio’”, racconta un’operatrice della cooperativa sociale anti tratta Medtraining che opera nel territorio pugliese da più di dieci anni. “Le donne straniere che lavorano nel settore agricolo spesso sono costrette a subire sfruttamento sessuale. Le cosiddette ‘connection house’ sono strutture dove da una parte ci sono le stanze con le ragazze e dall’altra l’area bar per i potenziali clienti. Nessuna di loro ti dice mai quello che fa, per loro è un tabù, una vergogna che resta”, dice l’operatrice. Il Majestic è un vero e proprio albergo costruito su diversi piani per strutturare ancora di più un fenomeno presente e radicato da anni nel ghetto. Avvicinarsi è quasi impossibile se non sei un potenziale cliente. Le donne si sentono abbandonate. Per rivolgersi al centro anti-violenza e vedersi riconosciuta la protezione è necessario avere una residenza. Senza documenti e senza residenza registrata le donne restano invisibili. Sfruttate da donne, ma anche da madri. I loro figli non vengono seguiti e tutelati, non esiste un sistema di supporto alla loro genitorialità. Quando Patricia ha capito che lì dentro la vita sarebbe stata per lei più dura del previsto, ha cercato di ‘salvare’ il figlio minorenne. Ma tutto si è trasformato in un incubo. Il figlio veniva maltrattato dalla donna che lo ospitava. “La pagavo mensilmente per farlo vivere in un ambiente confortevole, ora però la colpevole sono io perché mi imputano di averlo abbandonato lasciandolo a quella che consideravo una mia amica”, dice Patricia che ora attende il giudizio degli assistenti sociali. “Alcune di loro, quelle che non si fanno vincere dalla paura, ci raccontano cosa stanno vivendo. C’è chi subisce violenze, chi non vorrebbe prostituirsi, ma è costretta a farlo. Molte chiedono aiuto per uscirne”, dice Zitarosa. Intersos offre un servizio di assistenza con due cliniche mobili. “La maggior parte di loro riporta infezioni all’apparato genitale o segni di violenza come lividi sul corpo. La possibilità di rimanere incinta è altissima, per questo si rivolgono a noi, per chiedere aiuto, per essere accompagnate in un percorso sanitario di cure o spesso anche di interruzione della gravidanza”, dice Alice Silvestro, medico della clinica mobile. In tutta l’area circostante ci sono solo tre consultori attivi, quello di Borgo Mezzanone è chiuso, a Foggia c’è un solo ecografo e una sola dottoressa disponibile per le interruzioni di gravidanza. Le donne finiscono sotto ricatto anche solo per l’ottenimento dei documenti. “Se una donna ha il permesso di soggiorno e fa richiesta di asilo, ci sono immediatamente uomini che si avvicinano a lei perché magari è anche incinta e facendosi riconoscere il figlio potrebbero richiedere i documenti per motivi familiari. Ricordo di una donna incinta che accompagnammo in ospedale per partorire e lì si presentarono tre uomini diversi che rivendicavano la loro paternità”, spiega Zitarosa. In altri casi ci sono compagni che usano il permesso di soggiorno delle donne come arma di ricatto. Una situazione aggravata dall’esigenza di mandare soldi alla famiglia di origine che obbliga le donne a reperire denaro in ogni modo. Aisha ha 63 anni e in Mauritania ha lasciato la sua famiglia. Dal 2011 si trova in Italia dopo aver vissuto in Francia e Belgio. “Prendo le cose al mercato di Foggia per poi rivenderle qui dentro”, racconta, “guadagno dai 10 ai 15 euro al giorno. In inverno manca il riscaldamento, manca la luce”. Il suo negozio di alimentari è anche la sua casa. Lì vende, lì dorme, lì mangia. “Non sono bella come prima, forse è per questo che mi sono salvata dalla prostituzione. Quelle giovani invece, le vedo passare e mi viene tristezza. La loro è una situazione tragica”, dice. La tratta della prostituzione è un business sicuro per chi la gestisce e ne trae profitto, nonostante la cifra delle prestazioni si aggiri intorno ai dieci euro. Molte ragazze si prostituiscono per pagare il debito del viaggio, ma è un debito che dura tutta la vita. Migranti. “Caso Mare Jonio, giusto non riportare i naufraghi in Libia” di Fabio Tonacci La Repubblica, 20 ottobre 2021 I pm di Agrigento affondano la “linea Salvini”. Dopo due anni di indagini, la procura siciliana chiede l’archiviazione per l’armatore e il comandante della nave dei Mediterranea, in relazione al salvataggio di 30 migranti nel maggio del 2019. “Trasportarli a Lampedusa era legittimo”. Tutto quello che gli attivisti delle navi umanitarie sostengono da sempre è ora contenuto in un atto giudiziario della procura di Agrigento. Una richiesta di archiviazione, per l’esattezza. A favore dell’equipaggio della Mare Jonio, da due anni sotto indagine per aver salvato 30 migranti alla deriva e per averli portati in Italia. Per i magistrati siciliani che quell’atto hanno scritto e firmato - il procuratore aggiunto Salvatore Vella e la sostituta Cecilia Baravelli - contrariamente a quanto vuole la “dottrina salvinian-sovranista”, non si compie mai il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina quando si soccorre chi, in mare, si trova in pericolo. I migranti sui gommoni in balia delle onde del Mediterraneo lo sono, per definizione. Non serve neanche una “patente” per le navi della solidarietà. E, soprattutto, non sbaglia chi si rifiuta di consegnare i naufraghi alle autorità libiche, maltesi o tunisine. La richiesta di archiviazione porta la data del 7 ottobre scorso. Fa riferimento al salvataggio compiuto dalla Mare Jonio, la nave della piattaforma civica Mediterranea, nella zona Search and Rescue (Sar) di competenza libica. Alle 18.15 del 9 maggio 2019 è stato avvistato un gommone verde scuro con a bordo trenta persone, tra cui due donne incinte (una al settimo e l’altra al quarto mese di gravidanza), una bambina di due anni, e quattro minorenni soli. “Veniamo dall’inferno”, urlavano. Sono stati trasbordati sulla Mare Jonio. Dopo un batti e ribatti durato ore tra i Centri di soccorso di Roma, Madrid, Malta e Tripoli, la nave ha fatto rotta verso Lampedusa, dove è sbarcata l’indomani, il 10 maggio. Per questo il capomissione Beppe Caccia e il comandante Massimiliano Napolitano sono indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione di una diffida della Capitaneria di porto di Palermo, che gli aveva vietato di prendere il largo perché l’imbarcazione era priva di “necessarie certificazioni e autorizzazioni a svolgere il trasporto di persone in caso di emergenza”. Era il periodo in cui Matteo Salvini, da ministro dell’Interno, aveva lanciato la politica dei porti chiusi. Due anni dopo, secondo la procura di Agrigento tutte le accuse devono cadere. A Caccia e Napolitano è stato contestato il fatto di non essersi rivolti al centro soccorsi di Tripoli, pur avendo effettato il salvataggio nella Sar libica. Al riguardo, però, i due pubblici ministeri hanno scritto che “la scelta degli indagati di non avanzare richiesta di P.O.S.. (Place of safety, ndr) alle autorità libiche è assolutamente legittima e non contestabile. Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. Accordi come quelli siglati dall’Italia con i Paesi del Nord Africa, per intenderci. I pm prima riportano una nota del 2 aprile 2019 del Comando generale della Guardia Costiera italiana, nella quale si dice che “le autorità libiche, per le attività di ricerca e soccorso nella propria area di competenza, non hanno mai assegnato un Pos alle organizzazioni non governative”. Poi un documento dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. “Ai comandanti - si legge nella nota dell’Unhcr - non può essere chiesto, ordinato, e gli stessi non possono sentirsi costretti, a sbarcare in Libia le persone soccorse per paura di incorrere in sanzioni o ritardi nell’assegnazione di un porto sicuro”. Dunque, ragionano i magistrati agrigentini, aver puntato la prua verso Lampedusa è stata una manovra ponderata e legittima, perché anche La Valletta e Tunisi non offrivano garanzie. “Appare giustificabile la scelta di non dirigersi verso Malta - scrivono - date anche le esperienze vissute dall’equipaggio della Mare Jonio, poiché Malta non forniva garanzie necessarie per portare a termine in sicurezza il salvataggio dei naufraghi. Per le stesse ragioni, anche la scelta di non dirigersi in Tunisia è giustificata e comprensibile”. Come nell’inchiesta su Carola Rackete, dunque, anche in questo caso il principio guida è quello del dovere. “La condotta degli indagati non risulta antigiuridica, perché posta in essere nell’adempimento dei doveri previsti dalle fonti internazionali e sovranazionali, che impongono agli stati e ai comandanti delle imbarcazioni tutte, pubbliche e private, il salvataggio delle vite umane in mare. Che è un dovere anche degli Stati e prevale sulle norme e sui contratti bilaterali”. I migranti stipati su gommoni instabili nel mezzo del Mediterraneo sono da considerarsi sempre in pericolo. Nella richiesta di archiviazione, depositata al Gip di Agrigento, si parla anche della certificazione necessaria alle navi della solidarietà per andare in mare. Ed è un altro punto a favore delle ong. “Il rimorchiatore Mare Jonio non era tenuto a dotarsi di una certificazione Sar (Search and Rescue, ndr) per le attività di salvataggio”. Al momento dei fatti, ribadisce la procura, “non esisteva nell’ordinamento italiano alcuna preventiva certificazione diretta alle imbarcazioni civili. La normativa parla di navi da salvataggio, ma fa riferimento alle imbarcazioni armate per il soccorso di altre imbarcazioni e non al salvataggio di vite umane”. Giudici comuni e giudici nazionali, il nodo delle Corti di Francesco Pallante Il Manifesto, 20 ottobre 2021 Nella pretesa di escludere le Corti costituzionali nazionali dalle questioni rientranti nelle competenze europee si annidano le cause della tensione che, ciclicamente, contrappone alcune di loro alla Cgue. Lo scontro tra la Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) e la Corte costituzionale polacca ha riacceso i riflettori sulla questione del rapporto tra ordinamento europeo e ordinamenti statali. Per comprenderne i termini, occorre anzitutto considerare che, in base ai Trattati europei, nelle materie di competenza dell’Unione europea (Ue) vale il principio fondamentale del primato di tutto il diritto europeo - dai Trattati alle disposizioni amministrative della Commissione, passando per le sentenze della Cgue - su tutto il diritto statale con esso configgente, norme costituzionali incluse. Il diritto statale può essere chiamato dallo stesso diritto europeo a collaborare alla sua specificazione, rimanendo pienamente competente solo nelle materie che si collocano al di fuori del campo d’azione dell’Ue. Le competenze europee risultano, tuttavia, configurate in modo flessibile, dal momento che sono definite non per materie, ma per politiche e obiettivi, cosa che ha indotto la Cgue a riconoscere all’Ue tutti i poteri necessari a esercitare tali competenze, anche se non esplicitati dai Trattati, e tutte le ulteriori competenze necessarie a non pregiudicare il perseguimento degli obiettivi assegnati. Alla stessa Cgue spetta poi decidere, oltre che sull’ambito di applicazione del diritto europeo, sull’interpretazione e sulla validità dello stesso, e, quindi, sulle norme statali che, rientrando nella sfera del diritto europeo, sono destinate a non essere applicate, senza che residui un ruolo per le corti nazionali, nemmeno riguardo alle norme costituzionali. Proprio qui - in questa pretesa di escludere le corti costituzionali nazionali dalle questioni rientranti nelle competenze europee - si annidano le cause della tensione che, ciclicamente, contrappone alcune di loro alla Cgue. Un esempio recente è la sentenza del 2020 con cui il Tribunale costituzionale tedesco ha giudicato esorbitante dalle competenze Ue il programma finalizzato all’acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari da parte della Bce e ha, di conseguenza, negato efficacia alla sentenza del 2018 della Cgue che aveva invece ritenuto rispettate le competenze europee. Un altro esempio è la vicenda polacca di questi giorni, delicatissima perché vertente sulla configurazione dei poteri sanzionatori nei confronti della magistratura, una configurazione che la Cgue ritiene incompatibile con il rispetto dello stato di diritto, e in quanto tale lesiva di un principio fondamentale dell’Ue, e che la Corte di Varsavia afferma invece estranea alle competenze europee. Anche la nostra Corte costituzionale è stata protagonista di contrasti con la Cgue. Inizialmente, a causa del fatto che, essendo stati i Trattati europei recepiti con legge ordinaria, attribuiva al diritto europeo rango di legge, rendendolo così abrogabile dalle leggi successive e subordinato alla Costituzione. Di seguito, a causa della teoria dei “contro-limiti”, in base alla quale ritiene che le limitazioni di sovranità consentite dall’articolo 11 della nostra Costituzione, con cui ha riconosciuto copertura costituzionale all’adesione dell’Italia all’Ue, non possono comunque travolgere i principi costituzionali fondamentali e i diritti umani inviolabili, pena l’incostituzionalità parziale della legge di recepimento dei Trattati. Una simile eventualità non si è, sinora, mai verificata con riguardo al diritto europeo, ma è stata fatta balenare in un caso in cui la Cgue aveva ritenuto incompatibili con l’ordinamento Ue le norme italiane sulla prescrizione dei reati fiscali, suscitando la reazione della Consulta a tutela della irretroattività del diritto penale in malam partem. In quell’occasione, la Cgue era tornata sui suoi passi, ma nulla esclude un nuovo caso futuro, anche a causa di una sentenza del 2017 con cui la Corte costituzionale ha affermato la propria competenza in tutte le circostanze in cui siano in causa diritti fondamentali riconosciuti sia dalla Costituzione italiana, sia dalla Carta di Nizza, a prescindere dalla violazione dei contro-limiti. La Cgue vorrebbe riservarsi ogni spazio d’intervento, essendo la Carta di Nizza oramai equiparata ai Trattati, ma la Corte costituzionale non intende rinunciare al proprio ruolo a tutela dei diritti. Sullo sfondo, permangono due nodi irrisolti del processo d’integrazione europea. Il primo riguarda la differenza d’impostazione tra alcune costituzioni statali, prioritariamente rivolte alla costruzione dello Stato sociale, e i Trattati europei, prioritariamente rivolti alla costruzione del libero mercato: riconoscere precedenza alle une o agli altri in molti casi può fare la differenza. Il secondo riguarda la progressiva marginalizzazione dal processo d’integrazione dei parlamenti a favore dei giudici comuni e costituzionali. Si tratta di due questioni decisive: al punto che è probabilmente da esse, più che dalla limitazione dei poteri del Parlamento europeo, che origina il deficit sociale e democratico che sempre più mina la costruzione dell’Europa unita. Covid-19, quando censura e disinformazione fanno il gioco della pandemia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 ottobre 2021 In un nuovo rapporto pubblicato ieri, dal titolo “Tra bavaglio e disinformazione: libertà d’espressione in pericolo durante la pandemia da Covid-19”, Amnesty International ha denunciato che gli attacchi portati dai governi alla libertà d’espressione e i flussi di disinformazione hanno avuto conseguenze sulla capacità di avere accesso a informazioni accurate e tempestive, fondamentali per arginare la crisi globale di salute pubblica. Da ben oltre un anno governi e altre autorità fanno affidamento sulla censura e sulle sanzioni per ridurre la qualità delle informazioni a disposizione del pubblico. La pandemia ha dato luogo a una pericolosa situazione in cui nuove legislazioni sono state usate per mettere il bavaglio all’informazione indipendente e per punire chi criticava o cercava d’indagare sulla risposta dei governi alla pandemia da Covid-19. Il governo cinese controlla da tempo la liberà d’espressione. Sin dal dicembre 2019, operatori e dirigenti sanitari e cittadini-giornalisti hanno cercato di dare l’allarme ma sono stati presi di mira per aver riferito sulla diffusione di quella che all’epoca era una malattia sconosciuta. Alla fine di febbraio del 2020 erano state aperte 5511 indagini per “produzione e diffusione intenzionale di informazioni false e dannose”. Un caso terribile è quello della cittadina-giornalista Zhang Zhan, recatasi nella città di Wuhan nel febbraio 2020 per indagare sullo scoppio della pandemia. È stata arrestata dalla polizia, accusata di “seminare discordia e provocare problemi” e condannata a quattro anni di carcere. Numerosi stati - tra i quali Nicaragua, Russia e Tanzania - hanno introdotto nuove leggi repressive che hanno limitato il diritto alla libertà d’espressione e ridotto al silenzio coloro che avevano criticato la risposta delle autorità alla pandemia. Il governo dell’ex presidente tanzaniano ha adottato una posizione negazionista e ha utilizzato leggi sulle “fake news” per limitare la copertura mediatica della gestione della pandemia. Le autorità del Nicaragua hanno inizialmente minimizzato l’impatto della pandemia e minacciato chi sollevava problemi, poi nell’ottobre 2020 hanno introdotto la Legge speciale sui reati informatici che punisce coloro che criticano le politiche governative e conferisce ampia discrezionalità per reprimere la libertà d’espressione. Nell’aprile 2020 il governo russo ha ampliato la legislazione sulle “fake news” inserendovi il reato di “diffusione di informazioni consapevolmente false” nel contesto dell’emergenza sanitaria. Molte di queste misure, ufficialmente adottate come risposta alla pandemia, rimarranno in vigore anche al suo termine. Fanno parte di un assalto ai diritti umani iniziato negli anni scorsi e che si è intensificato nel momento in cui i governi hanno trovato una nuova scusa per farlo. Il rapporto di Amnesty International mette in luce anche il ruolo giocato dai proprietari delle piattaforme social nella rapida diffusione della disinformazione sul Covid-19. Queste piattaforme hanno l’obiettivo di amplificare l’eco di contenuti che provochino attenzione per attirare utenti e non hanno applicato una sufficiente diligenza dovuta nel prevenire la diffusione di informazioni false e fuorvianti. Amnesty International sollecita gli stati a cessare di usare la pandemia come pretesto per ridurre al silenzio l’informazione indipendente, ad abolire tutte le limitazioni indebite al diritto alla libertà d’espressione e a diffondere informazioni credibili, attendibili e accessibili in modo tale che il pubblico sia pienamente informato sulla pandemia. Per contrastare la disinformazione non serve la censura, ma occorrono una stampa libera e indipendente e una forte società civile. L’ultimatum dell’Ue alla Polonia: “Niente fondi a chi viola i diritti” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 20 ottobre 2021 L’affondo della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. E La replica del primo ministro Mateusz Morawiecki: “Non ci lasceremo ricattare”. Un botta e risposta serrato, sgradevole, durissimo come raramente è avvenuto tra i membri dell’Unione. Lo scambio consumato questa mattina nell’emiciclo di Strasburgo tra la presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen e il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki segna infatti uno strappo violento tra Varsavia e Bruxelles e una frattura nel cuore dell’Ue. La temuta “Polexit” non è più un sinistro fantasma giornalistico ma una prospettiva possibile, anche se ancora improbabile.In gioco non c’è solo la lealtà verso i trattati comunitari e la coerenza politica di una nazione nei confronti di quegli impegni, ma gli stessi valori fondativi dell’Europa, il rispetto dello stato di diritto e l’indipendenza dei poteri che, secondo la Commissione, la Polonia sta mettendo seriamente a repentaglio. L’ordine del giorno riguardava la recente sentenza della Corte costituzionale di Varsavia, per la quale diventano irricevibili tutte le norme europee in conflitto con l’ordinamento polacco. Il diritto primario è quello nazionale!”, avevano scritto i magistrati dell’Alta corte”, sospettati (non a torto) di essere poco più che dei burattini nelle mani del partito di governo, gli ultraconservatori di Diritto e giustizia, nome ancor più paradossale di fronte all’evoluzione degli eventi. Sostanzialmente Varsavia non intende applicare centinaia di regolamenti comunitari che ritiene incompatibili con la sua Costituzione ma soprattutto le norme che limitano le sue scorribande contro le minoranze, in particolare la comunità Lgbtq (l’esecutivo ha stabilito sul territorio delle zone “gender free” e bandito dalle scuole i libri che mostrano famiglie omosessuali) o contro la libertà di espressione e di stampa, Il conflitto dunque qualcosa che va al di là dell’aspetto finanziario come ha ricordato la stessa presidente Ue in un discorso molto accorato, dal respiro “storico” in cui ha citato l’impegno unitario per l’Europa di Lech Walesa, di Papa Karol Woytila e persino dell’ex presidente conservatore Kachinski che aveva sottoscritto con convinzione il trattato di Lisbona sancendo l’ingresso di Varsavia nello spazio Ue. Anche se poi i “biechi soldi” sono l’unico strumento concreto in mano all’Ue per contenere i frondisti: “La Commissione europea sta analizzando la sentenza della Corte suprema polacca ma posso già dirvi oggi che sono fortemente preoccupata perché essa mette in discussione la base dell’Unione europea. Costituisce una sfida diretta all’unità degli ordinamenti giuridici europei”, ha tuonato von der Leyen prima di lanciare un avvertimento alla Polonia: se non si ricuce lo strappo verrà affettuata una procedura di infrazione e magari, anche se non viene enunciato in modo espliciti, potrebbero venire meno i miliardi del Recovery fund. “Siamo preoccupati per l’indipendenza dei giudici da tempo, perché l’immunità dei giudici è stata spesso rimossa senza giustificazione, questo minaccia tutto il sistema giudiziario che costituisce un pilastro dello stato di diritto. La situazione è peggiorata e non permetteremo che i nostri principi siano messi in pericolo e quindi non resteremo fermi ma agiremo perché abbiamo il diritto e il dovere di difendere i trattati. La prima opzione è la procedura d’infrazione per impugnare legalmente la sentenza del Tribunale costituzionale polacco. Un’altra opzione è il meccanismo di condizionalità e altri strumenti finanziari, perché nei prossimi anni investiremo 2.100 mld di euro”, tra Next Generation Eu e Mff”. Immediata e decisamente ruvida la replica del ministro polacco (doveva parlare per cinque minuti ed è andato avanti per 35) che non ci sta a farsi processare davanti gli altri eurodeputati esordendo con un raggelante paragone: “La Polonia ha combattuto il Terzo Reich e quindi non accetta ricatti e non si lascia intimidire e respinge la lingua delle minacce. Parlare di violazione dello stato di diritto o addirittura di Polexit è una menzogna. Il mio governo e la maggioranza parlamentare è parte di una coalizione pro-europea. Ma questo non vuol dire che in Polonia non ci siano dubbi e delle preoccupazioni circa l’indirizzo che assume l’Europa che sta compiendo un’azione strisciante contro di noi mettendoci di fronte alla politica del fatto compiuto. L’Unione non è uno Stato, gli Stati membri restano padroni, sovrani dei trattati. Sono gli Stati membri che decidono quali competenze delegare all’Ue”. L’unica concessione di Morawiecki riguarda la sezione disciplinare dei giudici (accusata di essere eterodiretta dal governo a partire dalle nomine) che verrà abolità, Troppo poco per rassicurare Bruxelles. La gran parte degli interventi in aula ha sostenuto la linea della Commissione, dal Commissario alla giustizia Didier Reynders il quale ha ricordato che “il diritto comunitario non è stato imposto ma accettato dalle singole nazioni”, al il capogruppo del Ppe Manfred Weber che ha sottolineato come la Germania, firmando il trattato di Maastricht “abbia cambiato la sua Costituzione per renderla compatibile con il diritto europeo”. Varsavia però non è del tutto isolata e ha incassato la solidarietà di un’altra nazione che coltiva rapporti ambigui e conflittuali con l’Ue, l’Ungheria di Viktor Orban: “Sono d’accordo con il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, che ha assicurato che il principio del primato del diritto dell’Ue non è illimitato, ma si applica solo nei settori di competenza dell’Unione”, ha scritto la tetragona ministra della Giustizia, Judit Varga, in un post su Facebook. Insomma il braccio di ferro è appena cominciato e Varsavia, come Budapest tireranno la corda senza però consumare una rottura che a loro conviene meno che a Bruxelles. Dieci anni dopo il linciaggio di Gheddafi la Libia resta contesa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 20 ottobre 2021 Il decimo anniversario del brutale linciaggio di Muammar Gheddafi arriva in un periodo di diffuso scetticismo nel mondo arabo-islamico nei confronti delle democrazie e in generale dei valori proposti dalle “primavere” del 2011. In Tunisia il golpe indolore del presidente Kais Saied lo scorso 25 luglio ha cancellato in un colpo solo dieci anni di parlamentarismo. La maggioranza della popolazione pare restare al suo fianco in nome della lotta alla corruzione e al nepotismo clientelare dei partiti islamici. In Egitto il regime militare di Abdelfattah al Sissi sbatte impunemente in carcere gli oppositori e sembra più saldo che mai. In Siria il presidente Bashar Assad è oggi più forte di ieri. La sua dittatura repressiva, accusata sette anni fa di avere sparato armi chimiche sulla popolazione, viene progressivamente riconosciuta anche dalle monarchie sunnite del Golfo e persino l’amministrazione Biden sta valutando di aprire un canale di dialogo. In Afghanistan il trionfo talebano riporta le lancette della politica indietro di due decenni. Le elezioni spariscono dall’orizzonte di Kabul, la censura controlla e imbavaglia i media. In tutti questi scenari, i Paesi Nato e in generale le opinioni pubbliche occidentali si sono schierati dalla parte delle rivoluzioni democratiche. Ma oggi quei movimenti sono sconfitti. La crociata dell’esportazione della democrazia è morta e sepolta. E il gravissimo “flop” afghano necessita ancora di una riflessione autocritica, che per ora latita. In questo contesto, ricordare cosa avvenne la mattina del 20 ottobre 2011 alle porte di Sirte può contribuire al dibattito. Le milizie rivoluzionarie sostenute dalla Nato si fecero prendere per l’ennesima volta di sorpresa. Mentre le loro soldataglie erano impegnate a saccheggiare le abitazioni civili, Gheddafi e i suoi pretoriani tentarono di scappare dall’assedio in cui erano intrappolati da due mesi. Se non ci fossero stati nel cielo i droni e jet Nato, probabilmente sarebbe riusciti a raggiungere il deserto e riorganizzare le tribù più fedeli assieme ai volontari arrivati dall’Africa. Furono i missili Nato a fermare il convoglio. Poi fu soltanto vergogna. I miliziani di Misurata, Tripoli e Bengasi gareggiarono vigliaccamente nel fare scempio del centinaio di prigionieri. Gheddafi fu picchiato, umiliato, sodomizzato con una baionetta. Da allora la Libia è un Paese alla deriva, lacerato dalle competizioni tribali e dalla storica divisione tra Tripolitania e Cirenaica. Oggi anche il piano di elezioni organizzato dall’Onu per il 24 dicembre è in forse. E la Libia resta terreno di contesa per chi crede nella soluzione militare, dominato dal braccio di ferro tra Turchia, Russia, Egitto ed Emirati. Etiopia. Resa dei conti nel Tigrai e ogni giorno oltre 400 persone muoiono di fame di Paolo Lambruschi Avvenire, 20 ottobre 2021 I combattimenti sono sempre in più intensi nel Nord del Paese e l’area è isolata da quasi un anno. Impossibile fare arrivare gli aiuti umanitari. Ne uccide più la fame che le bombe nella guerra civile fratricida oscurata e dimenticata in Etiopia settentrionale. Intanto la controffensiva di terra e d’aria lanciata da Addis Abeba due settimane fa per riprendersi il Tigrai ha toccato l’apice con i bombardamenti che hanno toccato dopo mesi il capoluogo Macallè provocando tre morti e molti feriti. La notizia è stata confermata da entrambi i contendenti. Dal punto di vista umanitario, dopo 11 mesi di blocco di viveri e farmaci che passano col contagocce, la situazione è sempre più drammatica, con circa mezzo milione di persone a rischio di morte per carestia. All’ospedale Ayder di Macallè, quello meglio rifornito della regione, i medici che abbiamo potuto raggiungere al telefono confermano che 24 persone ammalate di diabete sono morte per mancanza di farmaci ed è impossibile somministrare cure adeguate ai piccoli pazienti ricoverati per malnutrizione acuta. I sanitari, che mantengono contatti con i colleghi delle strutture delle altre città e delle aree rurali, denunciano una situazione complessiva peggiore. Il black-out comunicativo voluto dal governo centrale - zero Internet, telefono e viaggi in molti distretti tigrini - che ha caratterizzato la guerra fin dall’inizio isolando la regione rendono molto difficile delineare un quadro dettagliato anche se giungono le prime immagini di bambini allo stremo anche fuori Macallé. Ocha, agenzia Onu che coordina gli aiuti, ha reso noto che l’altra settimana sono giunti in Tigrai 211 camion di aiuti. Ancora insufficienti. Il cibo è stato infatti distribuito a 145.000 persone, ma per sfamarne 5.2 milioni in stato di necessità occorre raggiungerne 870.000 a settimana. Altrettanto grave l’emergenza vaccini per 887.000 bambini che aspettano l’antipolio e più di 790.000 che hanno bisogno dell’antimorbillo. La carenza di corrente e carburante rendono difficoltosa la distribuzione. I prezzi del cibo sono alle stelle. Gli accademici dell’università di Gent, in Belgio, applicando i metodi di calcolo del Programma alimentare mondiale e dell’agenzia governativa americana per gli aiuti, Usaid, hanno stimato che in Tigrai ci sono almeno 425 morti per fame al giorno, dimenticati in una carestia nascosta che ricorda quella degli anni ‘80, provocata come quella da mano umana. Abiy Ahmed, il premier etiope cui solo due anni fa veniva assegnato il Nobel per la pace, ha mantenuto la promessa fatta il 28 giugno quando ritirò le truppe da Macallè dichiarando il cessate al fuoco per il periodo della semina dei cereali. Tre mesi. Molti osservatori attribuirono la ritirata alle difficoltà delle truppe etiopi e dagli alleati, l’esercito eritreo e le milizie regionali Amhara negli scontri con le truppe di difesa tigrine (Tdf). I tigrini rifiutarono il cessate il fuoco e approfittarono del ritiro per riprendersi il capoluogo e contrattaccare nelle terre degli Amhara e degli Afar spostando la linea del fronte. Da allora i combattimenti si sono progressivamente intensificati e Addis Abeba si è riarmata con droni turchi. Uno scoop della Cnn ha mostrato come abbia usato voli della compagnia di bandiera da e per la capitale eritrea Asmara per trasportare armi. Ma le Tdf resistono e hanno provato a ovest a riconquistare i territori sottratti dagli Amhara confinanti con il Sudan per rompere l’assedio e tentato di spezzare ad est, nello Stato Afar, la direttrice ferroviaria che collega la capitale a Gibuti dalla quale passa il 90% del traffico merci etiope. Abiy ha appena giurato per il secondo mandato ottenuto dopo le elezioni vinte a giugno, la cui regolarità è stata contestata dagli Usa. Biden ha firmato un ordine per emettere sanzioni contro i belligeranti se non accetteranno le richieste americane di cessate il fuoco immediato con l’apertura di negoziati e l’accesso agli aiuti. Sul fronte diplomatico, il consiglio di Sicurezza Onu è paralizzato dai veti russi e cinesi che ritengono il Tigrai un affare interno etiope. La Farnesina ha chiesto nuovamente giovedì 14 ad Addis Abeba quello che chiede tutta la Ue, cessate il fuoco, dialogo e accesso agli aiuti mentre L’Alto rappresentante Ue Borrell ha minacciato l’Etiopia di sanzioni per violazioni dei diritti umani. Abiy pareva intenzionato a rimuovere il principale ostacolo al dialogo, ovvero la condanna come gruppo terrorista del partito dominante in Tigrai, gli arcinemici del Tplf, ma finora nulla si è mosso, anzi. Continuano gli arresti etnici di tigrini in Etiopia e i leader Amhara, consiglieri fidati del premier, sono accusati di pronunciare discorsi inquietanti accostando Tplf e popolo tigrino. Per gli esperti richiamano la famigerata Radio mille colline del Ruanda negli anni 90, quella che spinse al genocidio. Brasile. La Commissione d’inchiesta sul Covid: “Bolsonaro colpevole di omicidio di massa” La Stampa, 20 ottobre 2021 La relazione finale in Senato, il presidente rischia un’imputazione per reati gravissimi. La Commissione d’inchiesta del Congresso brasiliano chiederà di porre il presidente Jair Bolsonaro in stato di accusa “per omicidio di massa” per avere lasciato intenzionalmente che il coronavirus dilagasse uccidendo centinaia di migliaia di persone. Una decisione che avrebbe assunto per non compromettere l’economia brasiliana puntando sul raggiungimento dell’immunità di gregge. Lo scrive il New York Times anticipando il rapporto che verrà rilasciato ufficialmente domani, mercoledì 20 ottobre. Le accuse - sostiene il quotidiano americano - riguardano in tutto 69 persone tra cui tre figli del presidente “numerosi funzionari governativi attuali ed ex”. Bolsonaro sarebbe ritenuto responsabile della morte di oltre 300mila brasiliani: “Molte di queste morti erano prevenibili - ha detto il senatore Renan Calheiros, l’autore principale del rapporto - Sono personalmente convinto che sia responsabile dell’escalation del massacro”. Tra le accuse mosse al presidente c’è aver promosso “farmaci dall’efficacia non testata come l’idrossiclorochina” provocando un ritardo di mesi nell’inizio della campagna vaccinale. Oggi ci sarà la relazione finale. Il Senato dovrebbe poi tornare a votare in una nuova seduta programmata per il 26. Se dovesse essere approvato dalla maggioranza dei senatori, il testo sarà inviato alla procura generale della Repubblica, cui spetta il compito esclusivo di condurre le indagini del caso, trattandosi del presidente della Repubblica. Ma la complessità del dossier potrebbe spingere il fascicolo anche presso anti enti come la Polizia federale e l’agenzia tributaria ma anche la Corte penale internazionale per il reato di genocidio e crimini contro l’umanità. Secondo la testata “G1” Bolsonaro potrebbe essere accusato di undici capi di imputazione in base al lavoro della Commissione d’inchiesta. Il più grave è aver causato o creato le condizioni per propagare una pandemia, da 4 fino a 15 anni di prigione in caso di “comprovata intenzionalità”, elevabili a 30 se ci sono morti.