Ergastolo ostativo, M5S e FdI tentano la “restaurazione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2021 Il disegno di legge presentati dal Movimento Cinque Stelle per - come hanno annunciato loro stessi - disciplinare “un nuovo ergastolo ostativo”, è orientato, di fatto, a neutralizzare le indicazioni della Cedu e della Corte Costituzionale sulla incompatibilità della pena detentiva gravata da una assoluta ostatività. Leggendo il documento redatto dall’Osservatorio carcere delle Camere penali, tale proposta “stellata” - a differenza del ddl del Pd a firma della deputata Enza Bruno Bossio - presenta profili incompatibili con la costituzione. Stesso discorso per la proposta di Fratelli d’Italia. Basterebbe leggere la premessa del ddl 5Stelle che, in perfetta sintonia con taluni magistrati inquirenti, scrivono testualmente di voler “scongiurare che il percorso di frontale contrasto della criminalità organizzata venga disarticolato a causa di mal interpretati e mal metabolizzati princìpi relativi alla funzione rieducativa della pena”. Sempre secondo il testo di legge grillino, la decisione della Corte Costituzionale 253/ 2019 pare che abbia sottoposto “gli stessi magistrati a forti pressioni e pericoli di condizionamento dovuti all’elevata pericolosità sociale dei detenuti i cui casi sono oggetto di decisione”. Sulla stessa linea i magistrati Sebastiano Ardita, Gian Carlo Caselli e Roberto Scarpinato. Quest’ultimo, in particolare, dice che la normativa “è attesa da molti capi mafia, abbiamo segnali di attenzione”. Non solo, sempre Scarpinato, in particolare, aggiunge che bisogna “evitare che escano dal carcere importanti capi mafia che non si sono affatto ravveduti”. Ma chi non è ravveduto, in carcere ci rimane. Le indicazioni della Consulta, per l’acceso dei benefici ai non collaboranti, sono chiare. Tra l’altro, non basta nemmeno il semplice ravvedimento di facciata. Ma nulla da fare, c’è una convergenza di idee tra il M5S, Fratelli d’Italia (le destre in sostanza) con i magistrati antimafia sentiti in commissione Giustizia della Camera. Sembra che tutto si sia fermato a 30 anni fa, quando c’era lo stragismo e si dovettero varare le leggi emergenziali, tra i quali quella che è attualmente in discussione. Le proposte di legge sono conforme ai dettami costituzionali? L’Osservatorio carcere delle Camere penali, presieduto dagli avvocati Riccardo Polidoro e Gianpaolo Catanzariti, smonta uno per uno i punti critici. Il primo riguarda il discorso dello “scioglimento del cumulo” dei reati ostativi. Che cos’è? Semplificando, se il detenuto è stato condannato per un reato ostativo e un reato semplice (cumulo di pene), il detenuto potrà beneficiare delle misure alternative alla detenzione quando avrà espiato la quota- parte di pena relativa alle ipotesi delittuose ostative. Cosa propongono i 5Stelle? L’osservatorio carceri, senza mezzi termini, denuncia che si vuole estendere, “in maniera surrettizia, il catalogo, già ampio ed eterogeneo, dei reati ostativi indicati nell’art. 4 bis op, facendovi rientrare, nei fatti, reati non esplicitamente ostativi”. Proposta che va contro l’orientamento di varie sentenze della Cassazione. Altra criticità della proposta grillina, è quella relativa all’inserimento “di requisiti maggiormente stringenti in ordine all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo del ripristino di tali collegamenti”. Eppure, fa notare il documento dell’Osservatorio carceri, i paletti - già estremamente rigidi - sono indicati dalla Corte costituzionale e dalle sentenze della Cassazione. A detta dei penalisti, sembrerebbe che ci sia la volontà di conservare l’ergastolo ostativo, perdendo di vista “l’obiettivo e le sollecitazioni della Corte costituzionale a evitare disarmonie e a rendere pienamente compatibile il percorso differenziato per i reati ostativi con la funzione rieducativa della pena cristallizzata nell’art. 27 della Costituzione”. Altro punto fortemente critico, è quello di togliere ai magistrati di sorveglianza “territoriali”, per accentrarle nel tribunale di sorveglianza di Roma, tutte le decisioni sulla concessione dei benefici agli ergastolani ostativi. In sostanza, è esattamente come accade oggi nei confronti dei 41 bis. Tale proposta, di fatto, è uno schiaffo e mancanza di fiducia a tutti quei magistrati di sorveglianza che seriamente e con scrupolosità svolgono il proprio lavoro. Il documento dell’Osservatorio carcere, denuncia che tale previsione, del tutto scollegata alle sollecitazioni della Consulta, “preoccupa sia perché prosegue lungo una chiara politica di sfiducia verso l’operato della magistratura di sorveglianza che invece svolge un ruolo altamente qualificato in un settore che manifesta sempre più gravi carenze strutturali e di sistema oltre che una funzione di contenimento democratico del sistema carcerario; sia perché rischia di aggravare le condizioni di lavoro del tribunale di sorveglianza accentrato già oggi gravato da deficit di organico e di risorse che rendono sofferente la risposta tempestiva della magistratura romana all’esecuzione penitenziaria”. Oltre a ciò, viola gravemente il principio della giurisdizione della prossimità strettamente connesso alla fondamentale azione trattamentale del detenuto in funzione di risocializzazione costituzionale. Leggendo il documento dell’osservatorio delle Camere penali, si potrebbe trarre questa conclusione: se dovesse passare la proposta grillina e di Fratelli D’Italia, in sostanza, si rischia di “restaurare” l’ergastolo ostativo e la Consulta sarà di nuovo risommersa di ricorsi. Riforma dell’ergastolo ostativo, i magistrati avvertono: “Sia restrittiva” di Giulia Merlo Il Domani, 1 ottobre 2021 Sono iniziate le audizioni che precedono l’approvazione della modifica del regime carcerario del 4bis, dopo la sentenza della Consulta che lo ha dichiarato incostituzionale. La commissione Giustizia della Camera ha cominciato a discutere della riforma del carcere ostativo, procedendo ad ascoltare i pareri di magistrati antimafia e dell’Associazione nazionale magistrati. Le proposte di legge - attualmente tre, una di Enza Bruno Bossio (Pd), una del Cinque stelle Vittorio Ferraresi e una di Andrea Del Mastro Delle Vedove di Fratelli d’Italia - riguardano l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati ostativi, di cui all’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (che prevede l’automatismo per cui il beneficio carcerario si ottiene solo se si collabora con la giustizia). L’iniziativa legislativa, però, non è di stimolo parlamentare: a intervenire sul tema è stata la Corte costituzionale, che con una ordinanza dell’aprile scorso ha stabilito che l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, “facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Tuttavia, l’ordinanza ha sospeso la dichiarazione di incostituzionalità del 4bis, rinviandone la trattazione a maggio 2022, con l’obiettivo di consentire al parlamento l’intervento correttivo. L’analisi delle proposte di legge non è stata semplice per gli auditi che sono intervenuti nel corso di questi due giorni, perché i tre testi di proposta sono molto diversi l’uno dall’altro. Ardita: “La norma sia stringente” - Il consigliere del Csm e magistrato antimafia Sebastiano Ardita ha fatto un intervento molto duro, dicendo che la nuova soluzione dell’ergastolo ostativo “deve essere il più stringente possibile” e che “tutti i capi di Cosa Nostra devono essere esclusi dalla possibilità di ottenere benefici”. Analizzando la pronuncia della Consulta, ha specificato che “obbedisce a una soluzione evolutiva, mette molti paletti e dà soluzioni molto rigorose che consentono di venire incontro ai pochissimi casi in cui il soggetto che non collabora in effetti si è staccato dal mondo di Cosa Nostra”. Ma non si possono allargare le maglie più di così, secondo Ardita, e serve “la prova che non ci sia alcuna possibilità di riaggregazione alle organizzazioni mafiose”. Scarpinato: “I boss ci guardano” - Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha aggiunto che “ci sono segnali significativi dell’attesa spasmodica da parte di capi mafia detenuti per l’emanazione da parte del parlamento della nuova normativa”. E ancora ha aggiunto di aver fatto “un censimento mentale dei capi mafia che si troveranno ai nastri di partenza nell’attesa dell’entrata in vigore della nuova normativa, a maggio prossimo, che consentirà loro di uscire dal carcere senza avere collaborare, a braccio ne ho contati circa un centinaio”. Questo, secondo Scarpinato, si traduce in una esigenza: “Evitare che importanti capi mafia che non sono per nulla ravveduti escano dal carcere”. L’associazione nazionale magistrati - Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ha censurato l’ipotesi (contenuta nella proposta di FdI), di restrizione dell’accesso ai benefici in caso di più condanne per reati diversi: “Una volta che il detenuto per un reato ostativo ha espiato interamente la pena prevista per quel reato, non si vede per quale ragione debba mantenere una refrattarietà all’accesso a benefici”. Ha tuttavia evidenziato come sia immaginabile mantenere la distinzione tra chi collabora e chi no nel caso di liberazione condizionale: “Costituzionalmente inaccettabile è che ci sia una preclusione assoluta dell’accesso ai benefici per i detenuti che non collaborano, ma nulla vieta al legislatore, una volta ammesso anche il non collaborante al beneficio, di diversificare tra coloro che collaborano”, anche in ottica di incentivo alla collaborazione. Il procuratore antimafia De Raho - Il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho ha detto che nelle proposte ci sono “aspetti condivisibili, ma servono ulteriori accorgimenti”. In particolare, De Raho ha richiamato l’importanza di dare “uniformità alle valutazioni per il riconoscimento dei benefici” (contenuto nella proposta del M5S) ma ha mostrato perplessità sulla “discrezionalità illimitata del giudice nell’individuazione dei confini entro i quali concedere l’accesso ai benefici stessi” (contenuto nella proposta di FdI). Quanto agli elementi per valutare i detenuti, ha apprezzato l’intenzione di “dare una disciplina che consenta di valutare di volta in volta he il detenuto non sia ancora mafioso ma alcuni ulteriori accorgimenti andrebbero adottati”. Cosa prevede oggi il 4bis - L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario si riferisce ai detenuti per reati di terrorismo, eversione, mafia, sequestro di persona a scopo di estorsione; riduzione in schiavitù; prostituzione e pornografia minorile; violenza sessuale di gruppo; contrabbando. A questi detenuti può essere concessa l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione (esclusa la liberazione anticipata) se collaborano con la giustizia. Proprio questo automatismo è stato considerato incostituzionale dalla Consulta. Le tre proposte di legge - Le proposte di legge su cui i magistrati sono intervenuti in audizione sono molto diverse tra di loro. Quella di Bruno Bossio prevede di aggiungere la possibilità di benefici come il lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative non solo ai detenuti che collaborano, ma anche “nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici citati”. Inoltre, prevede che le comunicazioni del procuratore nazionale o distrettuale antimafia (chiamati a segnalare se i collegamenti con la criminalità organizzata siano ancora attuali per i detenuti) non siano pareri sulla concessione o meno del beneficio, ma debbano fornire “elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti dei condannati o internati con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. Quella di Ferraresi, invece, è più corposa. Da un lato punta a rendere uniformi i giudizi sulla concessione dei benefici, dall’altro a impedire ai responsabili di reati molto gravi di ottenere permessi e altri benefìci senza meritarli e con gravi pericoli per la collettività. La proposta è che i benefici siano concessi anche a detenuti che non collaborano ma di cui si possa “escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità”; che abbiano adempiuto alle “obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”; “il condannato deve, inoltre, giustificare e indicare le specifiche ragioni della mancata collaborazione”; che il giudice decida “acquisite dettagliate informazioni” sia dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che dal direttore del carcere; che si chieda “il parere del pubblico ministero presso l’organo giudiziario che ha emesso la sentenza di primo grado”. Prevede che l’onere di dimostrare la totale estraneità al perdurare di rapporti con la criminalità spetti al condannato e l’accentramento presso il tribunale di sorveglianza di Roma delle istanze per l’accesso ai benefici penitenziari dei condannati all’ergastolo ostativo. Inoltre, conferisce delega legislativa al governo per una riforma della materia. Infine, quello di Del Mastro Delle Vedove è il più restrittivo e prevede sì di superare l’automatismo dell’ostatività come oggi prevista, ma anche che “l’onere della prova degli elementi richiesti per neutralizzare le presunzioni qualificate come ostative alla concessione dei benefìci dovrà gravare interamente sull’istante, con ciò determinando un regime probatorio rafforzato”. Inoltre i benefici non potranno essere concessi “esclusivamente sulla base della regolare condotta carceraria, della positiva partecipazione al percorso rieducativo o della mera dichiarazione di dissociazione”. A decidere sulla concessione dei benefici sarà il giudice di sorveglianza, valutando se il detenuto abbia dimostrato la sussistenza di una serie di fatti che ne attestino la non pericolosità sociale. In particolare, il suo profilo all’interno dell’associazione criminale, il permanere di collegamenti, le ragioni della mancata collaborazione, eventuali nuove incriminazioni, le disponibilità economica del detenuto all’interno del carcere e la situazione patrimoniale dei suoi familiari; l’avvio di percorsi di giustizia riparativa. Ergastolo, i giudici anti-mafia bocciano gli “sconti” ai boss di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2021 Con i magistrati che hanno fatto un pezzo importante di storia dell’antimafia ascoltati su ergastolo ostativo e benefici di legge per mafiosi, in commissione Giustizia della Camera è emerso, senza possibilità di equivoci, che il Parlamento, dunque lo Stato, si gioca la sua credibilità nella lotta alle cosche. Da Gian Carlo Caselli a Roberto Scarpinato, da Luca Tescaroli a Sebastiano Ardita e Alfonso Sabella, tutti hanno concordato che la normativa andava bene ma dopo il “diktat” della Corte costituzionale bisogna correre ai ripari. Come si sa, il Parlamento deve approvare una legge, entro maggio 2022, che scongiuri scarcerazioni di capimafia, dopo la sentenza della Consulta che, ad aprile, ha “sdoganato” pure la libertà condizionata per i boss con ergastolo ostativo, che non hanno mai collaborato, dopo 26 anni di carcere. In precedenza, ha dato il via libera essa stessa ai permessi premio. Invece per la libertà condizionale ha dato tempo un anno al legislatore. E alla responsabilità politica si è rifatto Scarpinato, Pg di Palermo fino a febbraio, in prima linea da oltre 30 anni contro la mafia. Ha detto che i mafiosi “irriducibili” sono in “attesa spasmodica” di maggio, quando si aprirà un varco normativo per l’uscita dal carcere (vedi intervento sotto). L’ex procuratore di Palermo Caselli, ha detto chiaramente che la Corte, anche se ci sono state pronunce europee, avrebbe potuto mantenere la normativa attuale limitatamente alla mafia: “Un mafioso è per sempre. Sbriciolare il pentitismo o depotenziarlo, considerarlo non più indispensabile per i benefici è pericoloso”. Ma ormai la Consulta si è pronunciata e quindi i magistrati hanno chiesto paletti “ferrei” per concedere i benefici. Si spera che il Parlamento si ricordi con i fatti che è anche per aver pensato a questa legislazione che Falcone è stato assassinato. La proposta che i magistrati hanno trovato più “strutturata” è quella M5S (Ferraresi, Bonafede, Sarti e altri), hanno invece, criticato, come chi li ha preceduti mercoledì, il ddl della deputata Pd Enza Bruno Bossio che i paletti li mette ai pareri dei pm antimafia. Il suo partito per adesso tace e quindi sembra che sia una posizione isolata, vedremo alla conta dei voti. Il minimo comune denominatore delle audizioni di ieri, in parte anticipate dal Fatto domenica scorsa, è che i pareri dei pm antimafia delle Dda e della Dna devono essere obbligatori perché “sono gli unici che conoscono approfonditamente la realtà di origine degli ergastolani”, ha detto Ardita, ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap. Inoltre, per legge, per avere i benefici non deve valere la dissociazione: “Abbiamo Filippo Graviano e boss della camorra che si stanno muovendo in questa direzione”, ha raccontato il procuratore aggiunto di Firenze Tescaroli il quale ha proposto che per gli ergastolani che hanno avuto “ruoli apicali” resti la norma attuale, fino a quando l’intera organizzazione è operativa: “La Corte non si è pronunciata in merito, c’è spazio per deciderlo”. Ergastolo ostativo, Scarpinato: “Boss in attesa spasmodica della nuova legge” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2021 “Circa un centinaio potrebbero uscire senza collaborare. Bisogna chiedersi se la barriera delle norme sarà sufficiente a reggere l’onda d’urto che dovrà sostenere dal fronte degli irriducibili, quelli che sono in possesso di informazioni utili ma non vogliono collaborare con la giustizia”, ha detto il sostituto procuratore generale di Palermo nel corso dell’audizione davanti alla commissione Giustizia della Camera sulle proposte di legge in materia benefici penitenziari per detenuti per reati ostativi. Caselli: “Per i benefici serve pentirsi, altrimenti è salto nel buio” Secondo Roberto Scarpinato a partire dal maggio prossimo circa un centinaio i boss mafiosi potrebbero uscire dal carcere anche se non hanno collaborato con la magistratura. Una condizione che si potrà verificare se il Parlamento non scriverà una nuova norma sull’ergastolo ostativo. Nell’aprile scorso, infatti, la Corte costituzionale ha decretato l’incostituzionalità della legge che vieta la libertà vigilata a boss mafiosi e terroristi che non collaborano, concedendo al Parlamento un anno di tempo per riscriverla. Se il legislatore non interverrà, modificando l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, pure i mafiosi stragisti che non hanno mai collaborato con la giustizia, come Giuseppe Graviano, potranno chiedere di accedere alla libertà vigilata dopo aver scontato 26 anni di carcere. “Ci sono segnali significativi dell’attesa spasmodica da parte di capi mafia detenuti per l’emanazione da parte del parlamento della nuova normativa. Ho fatto un censimento mentale dei capi mafia che si troveranno ai nastri di partenza nell’attesa dell’entrata in vigore della nuova normativa, a maggio prossimo, che consentirà loro di uscire dal carcere senza dovere collaborare, a braccio ne ho contati circa un centinaio”, ha detto il sostituto procuratore generale di Palermo, nel corso dell’audizione davanti alla commissione Giustizia della Camera sulle proposte di legge in materia benefici penitenziari per detenuti per reati ostativi. “Bisogna chiedersi se la barriera delle norme sarà sufficiente a reggere l’onda d’urto che dovrà sostenere dal fronte degli irriducibili, quelli che sono in possesso di informazioni utili ma non vogliono collaborare con la giustizia”, ha aggiunto Scarpinato, invitando a verificare che la normativa “sia in grado di evitare che importanti capi mafia che non sono per nulla ravveduti escano dal carcere”. È stato audito in Parlamento anche Gian Carlo Caselli. “Per usufruire di benefici penitenziari i mafiosi devono dimostrare prove certe di rinuncia al proprio status. L’unica cosa che lo dimostra è il pentimento, tutte le altre sono ambigue. Senza il pentimento ogni decisione sulla sorte dell’ergastolano diventa un azzardo, un pericoloso salto nel buio”, ha detto l’ex procuratore capo di Palermo e di Torino. “Il ‘pacchetto antimafia’ formato da legge sui pentiti, 41 bis e 4 bis ha funzionato e funziona, ma sta subendo scossoni che rischiano di sbriciolarlo - spiega - Sbriciolare il pentitismo o depotenziarlo e considerarlo non più indispensabile per i benefici è pericoloso e può avere effetti negativi. Chi dice che l’emergenza mafiosa è finita sembra Alice nel paese delle meraviglie, soprattutto in tempo pandemia in cui le mafie sono pronte ad approfittarne come avvoltoi”. Caselli ha sottolineato che “lo status di mafioso è per sempre, un mafioso irriducibile non pentito è convinto di appartenere a una razza speciale, quella degli uomini d’onore, gli altri non sono uomini individui da assoggettare”. Per questo “il doppio binario per i mafiosi non pentiti, ergastolo ostativo compreso risponde a criteri di ragionevolezza basati sulla concreta specificità della mafia”. La Consulta “chiede la quadratura de cerchio e il Parlamento ha in mano un cerino acceso. Il primo obiettivo è cercare sulla legge la massima convergenza perché se dividersi in democrazia è fisiologico non lo si può fare sulla mafia”. Presunzione di innocenza di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 1 ottobre 2021 Una direttiva europea del 2016 (343/2016), impone agli stati membri dell’Unione di intervenire su diversi aspetti della presunzione di innocenza nei procedimenti penali. Tra l’altro la direttiva stabilisce che gli stati membri adottino le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Gli stati devono predisporre le misure appropriate a riparare le violazioni della presunzione di innocenza. La direttiva riconosce che il rispetto della presunzione di innocenza non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, quando “ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”. Si tratta, nella direttiva, di dichiarazioni rilasciate dalle autorità giudiziarie, di polizia o ministri e altri funzionari pubblici. In ogni caso, secondo la direttiva le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia stata legalmente provata. Accanto a numerosi e rilevanti aspetti del processo penale equo, la direttiva e lo schema di decreto legislativo su cui le Camere stanno per rendere il loro obbligatorio parere, si occupano di una questione importante e delicata: quella della comunicazione al pubblico di notizie sul processo penale (che riguarda principalmente la fase dell’indagine preliminare, posto che in quella successiva del dibattimento, la regola è quella della pubblicità). Si stabilisce che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui si trova il procedimento e da assicurare, in ogni caso, il diritto dell’imputato a non essere indicato come colpevole fino a quando la colpevolezza non è stata accertata definitivamente. L’indicazione è molto restrittiva, a meno che non si ammetta che tra le ragioni di interesse pubblico rientri il diritto costituzionale all’informazione: diritto che comprende sia quello di informare, sia quello di essere informati. Lo schema del decreto all’esame del Parlamento si occupa in particolare delle informazioni che vengono fornite dalle procure della Repubblica, stabilendo che i rapporti del procuratore della Repubblica con gli organi di informazione si attuano “esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. Si tratta di norma irragionevole nella sua assolutezza e nella pretesa di limitare le forme di comunicazione. E va aggiunto che lo schema prodotto dal governo va oltre la necessità di rispettare la presunzione di innocenza, investendo e limitando tutta la informazione sui procedimenti penali, indipendentemente dal fatto che venga in gioco la posizione degli indagati. In proposito va ricordato che non mancano già le opportune disposizioni, dalla direttiva del Csm del 2018, alle ipotesi di illecito disciplinare previste dalla legge, al codice deontologico della magistratura, approvato dalla Associazione nazionale dei magistrati come previsto dalla legge. Tuttavia, vi sono certo eccessi, esibizioni, abusivi giudizi morali, contro i quali dovrebbe intervenire una idonea formazione ed eventualmente il rigore disciplinare. Ma limitare l’informazione nelle forme e restringerla oltremodo, rispetto alla pressione dei giornalisti (che sono il tramite verso il pubblico), spinge fatalmente all’uso di vie traverse, irregolari, amicali, preferenziali per saperne di più. Il problema dell’eccesso o dell’abuso di dichiarazioni di magistrati o di altre autorità di polizia non esisterebbe se non vi fosse poi l’opera di divulgazione, commento, enfatizzazione dei giornalisti. Il loro codice di deontologia, “salva l’essenzialità dell’informazione”, stabilisce limiti per il giornalista nel fornire notizie o pubblicare immagini. Tuttavia ci sono evidenti e frequenti violazioni. Non vale a correggerle l’abuso dell’aggettivo “presunto” che si crede basti ad assicurare il rispetto della presunzione di innocenza. Ma la lotta a eccessi e violazioni dei limiti non può condursi creando troppi impedimenti all’azione fisiologica e doverosa del diritto all’informazione. Non opera solo la concorrenza tra giornalisti e testate, ma anche l’essenziale principio per cui l’attività delle autorità pubbliche e anche della magistratura è oggetto del legittimo e necessario controllo dell’opinione pubblica. Per esercitarlo, quando prevalente sia l’interesse pubblico alla conoscenza di certi fatti, è proprio necessaria l’opera dei giornalisti. In casi eccezionali, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, essi sono legittimati persino a forzare i limiti del segreto. In conclusione, la ricerca di equilibrio tra esigenze diverse e opposte è difficile; difficilissimo quando si voglia definirlo con un provvedimento legislativo, ove da un lato il dettaglio della norma esclude tutto ciò che non è nominato e d’altro l’uso di formule ampie e vaghe, pur necessario, finisce per vanificare l’effetto regolatorio. Comunque sia di ciò resta fondamentale l’insistenza sui profili deontologici e culturali, che riguardano le autorità pubbliche, gli esponenti della politica, i magistrati, i giornalisti. Il passo avanti sui tabulati e ciò che serve per l’arresto di Carlo Nordio Il Messaggero, 1 ottobre 2021 Alcuni giorni fa - parafrasando Neil Armstrong - scrivemmo su queste pagine che la riforma Cartabia era un piccolo passo verso un sistema garantista, ma un enorme balzo nella giusta direzione, perché per la prima volta manifestava un cambiamento di approccio verso i diritti individuali. Ora il decreto legge sui tabulati telefonici costituisce una gradita sorpresa in questo percorso virtuoso. In questi anni abbiamo assistito a una progressiva devastazione dei diritti della difesa nel processo penale. Questo forse non sarà l’inizio della fine, ma almeno è la fine dell’inizio. Per chi non è esperto di pandette, la questione è la seguente. Mentre per intercettare le conversazioni di una persona occorre, come per la sua carcerazione, la cosiddetta doppia chiave, cioè la richiesta del Pm e l’ordinanza del Gip, per ottenerne i tabulati, cioè per sapere chi hai chiamato, e quando e dove, era sufficiente il decreto della Procura. La Corte di Giustizia Ue aveva già detto che non andava bene, la Cassazione aveva esitato, auspicando una riforma. Che ora è arrivata: anche per i tabulati occorre, salvo un’urgenza evidente, il provvedimento del Giudice. Perché il passo è piccolo? Perché, come stiamo ripetendo da anni, queste intercettazioni si sono trasformate da mezzi di ricerca della prova in prova autonoma, e quindi vengono utilizzate, anche da sole, per ottenere provvedimenti cautelari e persino condanne. Poi alla fine salta tutto, perché durante i vari dibattimenti queste captazioni si rivelano alterate da una trascrizione imperfetta o travisate nel contenuto per la negligenza di chi le ha ascoltate. Basti pensare che in esse, riportate nei cosiddetti brogliacci, manca il tono, elemento fondamentale nel comprendere l’intenzione e il “mood” degli interlocutori. La stessa imprecazione, e persino la bestemmia, possono infatti, a seconda del tono, assumere un significato affermativo, interlocutorio o negativo; di consenso, di dissenso o di sorpresa. Non solo. Queste intercettazioni, fatte spesso a strascico, oltre ad essere costosissime finiscono quasi sempre sui giornali e in televisione, senza magari aver rilevanza alcuna nelle indagini, ma con l’effetto di “sputtanare”, come disse una volta efficacemente l’on. D’Alema, le persone. Se poi queste rivestono cariche politiche, il loro destino è segnato. Il caso della ministra Guidi insegna. Questa vergogna intollerabile, indegna di un Paese civile, è mantenuta perché una parte della magistratura, cui la politica ha aderito con sospetta cortigianeria, è convinta che sia indispensabile per la lotta al crimine in genere e alla mafia in specie. E’ la consueta mitologia grezza che crea suggestioni enfatiche. Perché è vero che servono. Ma servono come gli altri mezzi ambigui di indagine che tuttavia non entrano nel processo, come le confidenze e le spiate. Dovrebbero costituire lo spunto per la ricerca di prove da esibire in giudizio, non esser di per se stesse elemento su cui fondare una sentenza. D’altro canto qualcosa del genere esiste già: sono le cosiddette preventive, autorizzabili dal solo Pm ma rigorosamente segrete, e destinate a restare nella sua cassaforte. Come le lettere anonime sono letame, ma possono darti degli spunti per iniziare indagini nel pieno rispetto dei diritti individuali, e produrre frutti. Superfluo infine ricordare che queste intrusioni non hanno risparmiato parlamentari, ministri e persino capi di Stato, da Scalfaro a Napolitano, con la pretestuosa giustificazione che se questi soggetti non sono intercettabili, lo è chi parla con loro. Il che, se non è zuppa, è pan bagnato. Su questa sgradevole anomalia del nostro sistema la riforma della ministra non è intervenuta. Né poteva intervenire, perché questo parlamento semigiacobino non glielo avrebbe consentito. Tuttavia essa costituisce - come dicevamo - un balzo nella giusta direzione, perché è un primo esempio di riduzione degli enormi poteri che il Pm attualmente detiene, e di cui spesso fa un uso disinvolto ed esagerato. E quindi un auspicabile prodromo a quella separazione delle carriere che esiste in tutti i codici cosiddetti alla Perry Mason, come quello che abbiamo introdotto, sia pure imbastardito, più di trent’anni fa. Cartabia ha detto a suo tempo che queste riforme continueranno. Se potessimo, con tutta umiltà, darle un consiglio, gliene proporremmo una che non riguarda più i poteri del Pm ma quelli, altrettanto esorbitanti del Gip. Il quale, con la sua sola firma, può mandare in galera una persona e tenercela a lungo, o almeno finché il tribunale del riesame, come spesso avviene, ne ordini la liberazione. Ebbene, la decisione di questa misura cruenta e spesso ingiustificata, che lascia sull’imputato un’impronta indelebile di vergogna e di dolore, sia affidata a un organo collegiale, lontano anche topograficamente dal Pm che la richiede. Sia essa una sezione presso la Corte d’ Appello, sia una “chambre d’accusation” sul modello francese, sia lo stesso tribunale del riesame con competenza distrettuale; ma siano comunque tre teste di magistrati, e non una, a decidere sulla vita di una persona. Stavolta sarebbe davvero un passo gigantesco sulla via del diritto e dell’equità. “Un decreto che va contro la libertà di indagare e di scrivere sui giornali” di Liana Milella La Repubblica, 1 ottobre 2021 Presunzione d’innocenza. Il costituzionalista della Sapienza Gaetano Azzariti rilegge con Repubblica il decreto sulla presunzione d’innocenza e non gli fa passare l’esame. Il professore della Sapienza invita il governo a ripensare norme che, così come sono scritte, rischiano solo “di complicare le indagini e renderle meno trasparenti”. Un decreto “ideologico e per giunta non efficace per garantire i diritti di difesa”. “Non è questo che ci ha chiesto l’Europa”. “L’equilibrio tra processi e informazione va realizzato sul terreno della deontologia ed eliminando i pregiudizi politici”. “Fanno più male dichiarazioni del tipo “tutti in galera” o “i politici sono tutti ladri” che non il silenzio delle procure sui fatti di indagine”. Ha grandi sostenitori - come Enrico Costa di Azione - e molti avversari - come i pm che temono il rischio bavaglio nonché i giornalisti - questo decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. Lei da che parte sta? “Guardi, penso che sia un provvedimento essenzialmente ideologico, che rischia di non affrontare i veri problemi. Che sono quelli di garantire un’informazione equilibrata per i processi in generale, quelli penali in particolare”. Pensa che oggi l’informazione non sia equilibrata? “In termini di stretto diritto costituzionale, l’equilibrio si raggiunge garantendo due principi fondamentali del nostro ordinamento. Da un lato, la dignità delle persone, di tutte le persone, e certamente anche di chi è sottoposto a un’indagine processuale. In fondo è proprio in questo che si rinviene la ratio della sempre citata “presunzione di non colpevolezza”. Dall’altro, l’altrettanto fondamentale diritto all’informazione in entrambe le facce in cui si sostanzia: il diritto di informare e quello di essere informati”. E secondo lei oggi questo equilibrio di cui parla c’è o non c’è? E soprattutto viene vissuto in maniera diversa da destra e da sinistra? Nel senso che, da sempre, il centrodestra vuole mettere il bavaglio ai pm e ai giornalisti sulle indagini. “Se noi applichiamo i principi che ho appena citato a quello che vediamo è evidente che le distorsioni sono essenzialmente legate a quelli che io chiamo “pregiudizi”, da non confondere invece con i “giudizi” che invece devono reggere i processi. È proprio in questo cortocircuito tra giudizi e pregiudizi che si inseriscono i peggiori istinti della società politica e civile, quelle che lei ha chiamato le volontà di bavaglio ovvero anche, perché no, di voyerismo”. Voyerismo? A che sta pensando? “Ad alcune immagini chiaramente lesive della dignità degli indagati. Il caso Tortora è storia nota, il caso Carra altrettanto, e ne sono degli emblemi. Alcuni processi televisivi cui hanno cominciato a partecipare - ahimè - anche alcuni magistrati, producono l’effetto di influenzare non solo l’opinione pubblica, ma anche il regolare svolgimento dei processi. In questo senso dico che forse più che pensare a misure sanzionatorie come quelle in discussione bisognerebbe invece intervenire con regole deontologiche sia sul fronte della magistratura, sia anche su quello degli operatori dell’informazione”. Innanzitutto, dopo aver letto il decreto legislativo, lei ha l’impressione che forzi la Costituzione, nel senso che nega ai pm il diritto di informare, e obbliga i giornalisti a pubblicare solo i comunicati stampa delle procure? “Nel decreto ci sono una serie di forti ambiguità che le spiego. Che vuol dire che viene inibito “di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagine o imputato”? Se è una questione di stile, ovviamente è un’ottima indicazione e dovrebbe riguardare appunto la deontologia dei magistrati. Ma poiché da questo divieto derivano sanzioni penali e disciplinari, nonché un anomalo diritto di rettifica dell’interessato rivolto al magistrato stesso, il rischio di intimidire l’azione di indagine è del tutto realistico”. Sta forse dicendo che al pm potrebbe addirittura venire il dubbio di bloccare l’inchiesta? “Non fino a questo punto, ma il rischio è quello di sollecitare il pm a edulcorare le proprie posizioni. Le faccio un caso: poiché il divieto riguarda tutte le misure relative al processo, mi chiedo come possa un pm richiedere le misure cautelari che presuppongono evidenti e gravi indizi di colpevolezza non potendo però esprimere una propria convinzione di colpevolezza. Ripeto, se è solo un problema di toni, non c’era necessità di fare una legge, se invece è un problema di sostanza, la necessità di un’adeguata motivazione da parte dei pm comporta necessariamente la pubblicizzazione di tutte le ragioni di presunta, sottolineo presunta, colpevolezza non ancora accertata”. Cioè addirittura una discovery anticipata delle carte? “No, più semplicemente una richiesta di adeguata ed esplicita motivazione, che è sempre necessaria, soprattutto per provvedimenti che riguardano la libertà degli indagati, anche, e direi soprattutto, a tutela dei diritti di difesa degli indagati stessi”. La Costituzione parla di “presunzione di non colpevolezza”, e non di “presunzione d’innocenza”. È un fatto casuale o c’è una differenza visto che il decreto parla di “innocenza”? “Sottolineerei il termine “presunzione”, espressione che è inserita all’interno di un complesso processo di accertamento dei fatti. Solo al termine del processo si scioglierà l’enigma. Dunque la nostra Costituzione, giustamente, non prende parte né a favore della pubblica accusa, né a favore dell’indagato. Bensì della verità processuale. Come diceva Calamandrei a favore della “giustizia”. E comunque, sempre la Costituzione, garantisce il diritto all’informazione. Dopo questo decreto non si rischiano invece querele a raffica e continue rettifiche che la renderanno difficilissima o addirittura impossibile? “Questo è sicuramente un problema. Ma io vedo soprattutto un rischio per la corretta informazione: il decreto rimette sostanzialmente nelle esclusive mani della procura la scelta di informare attraverso comunicati ufficiali ovvero conferenze stampa che però possono essere indette solo dagli uffici della procura stessa. Ciò produce due vizi. Da un lato che le indagini proseguano nel segreto e senza la necessaria trasparenza perché le procure tacciono, dall’altro un opposto difetto, che si può rivelare distorsivo della corretta informazione sulle indagini in corso: i giornalisti, i quali non potendo più risalire a fonti ufficiali, dovranno rivolgersi a fonti più oscure e meno controllabili. E questo di certo non sarebbe un buon servizio alla giustizia”. Guardiamo alle procure. Ritiene giusto che un pm che ha seguito un’indagine, ha emesso delle misure, poi non le possa spiegare pubblicamente anche assumendosene la responsabilità davanti agli italiani? Un pm costretto al silenzio non ricorda regimi autoritari? “Anche qui, per capire, può essere utile fare un caso concreto, sebbene ovviamente di fantasia. Prenda il caso di un processo nei confronti di un importante leader politico o di un ministro, ovvero di un’altissima autorità dello Stato che - questa è l’ipotesi - subisca misure restrittive. L’eventuale conferenza stampa, se non addirittura uno scarno comunicato ufficiale, può soddisfare il diritto all’informazione? Nonché dare la possibilità di far eventualmente emergere le stesse ragioni a difesa dell’imputato? Dico di più: poiché il divieto riguarda tutte le autorità pubbliche, quindi lo stesso governo, questo non potrebbe esprimere alcun commento sui fatti commessi, ovvero dovrebbe parlare solo unidirezionalmente ricordando la presunzione d’innocenza. Mi immagino lo scenario che ne deriverebbe e le polemiche conseguenti”. Le conferenze stampa di fatto proibite e sostituite con un comunicato stampa. Noi giornalisti le chiamiamo “veline”, ma c’è il rischio che in futuro si possano pubblicare solo quelle. Se si scrive altro si verrà querelati o subissati di rettifiche. E i pm e le polizie non potranno rivelare nulla. Cosa si teme? Che si spieghino le ragioni di un’inchiesta? I fatti? Le prove che ci stanno dietro? Certo, è solo l’inizio di un’inchiesta ma proprio per questo l’opinione pubblica deve essere informata. Non ha l’impressione, dopo aver letto il decreto, che l’unico obiettivo sia quello di impedire ai magistrati di parlare o addirittura forse di indagare? “La mia idea è che si stiano valutando male due aspetti. Da un lato, la necessità effettiva e urgente di separare i fatti dalle opinioni. Se è giusto per i giornalisti distinguere gli uni dagli altri, a maggior ragione e indubitabilmente questo deve valere per chi esercita funzioni giurisdizionali. Dunque - ma qui torniamo alla deontologia - tutte le misure che impongono un rigore nella puntuale e corretta indicazione dei fatti, nella comunicazione istituzionale dei magistrati, nei confronti della stampa e di chiunque, mi sembra da approvare, ma queste regole sono tutte già previste nella legge sull’ordinamento giudiziario del 2006, nelle direttive del Csm e degli uffici delle procure. L’altro aspetto sottovalutato è il giornalismo d’inchiesta, fattore indispensabile delle democrazie che non può certo limitarsi a informare tramite le veline”. La storia dei nomi alle inchieste, Mani pulite, Mafia capitale, eccetera. Ma può un semplice nome influenzare il giudizio sul caso? Davvero, come chiedono le Camere penali, l’inchiesta va contrassegnata solo con un numero? È accettabile la posizione del relatore Costa che vuole cancellare del tutto questi nomi? “Mi permetto di dire che questo divieto mi fa un po’ sorridere. Da quello che a me risulta i nomi alle inchieste vengono dati per lo più dalla stampa, e non credo proprio che la copertura di un mero numero possa impedire lo sbizzarrirsi della fantasia dei nostri quotidiani. Il limite vero è se questa fantasia si trasforma in un’effettiva lesione della dignità della persona perché, come ho detto all’inizio, questo principio deve valere per tutti, perfino, come diceva Kant, per le persone indegne. Figuriamoci se non deve valere per chi è tutelato dal principio di presunzione di non colpevolezza scritto nell’articolo 27 della Carta”. Mi scusi se insisto, ma questa storia dei nomi - che neppure Berlusconi aveva mai sollevato - non svela una paranoia anti pm e anti giornalisti? Qui l’impressione è che - con la scusa della direttiva Europea - si voglia silenziare del tutto la cronaca giudiziaria... “La direttiva Ue 343 del 2016 in realtà invita ad adottare norme che tutelino indagati e imputati, e impone di presentarli in pubblico senza fare riferimento a una loro colpevolezza. Ma non impone certamente leggi così prevenute e, a mio parere, anche di scarsa utilità per la sacrosanta tutela del non colpevole indagato”. Ermini: la riforma del Csm segni l’abbandono di pratiche di potere di Tiziana Di Giovannandrea rainews.it, 1 ottobre 2021 Secondo il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura David Ermini il sistema giustizia è fragile, la magistratura ha perso credibilità. Inoltre: “Sano che esistano le correnti, ma la loro influenza deve fermarsi sulla soglia del Consiglio Superiore”. David Ermini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura parlando al congresso dell’Aiga, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati, in svolgimento a Roma ha rappresentato come: “All’appuntamento con le riforme il sistema giustizia arriva in condizioni di grande fragilità. La magistratura soffre di una perdita di credibilità che ha pochi precedenti. L’avvocatura, sicuramente la componente giovane dell’avvocatura che voi rappresentate, soffre di un disagio professionale incrudelito dai mesi di pandemia” - specificando - “Si tratta di crisi di natura diversa: crisi morale e di valori quella della magistratura; crisi economica e di identità quella dell’avvocatura. Ma ciò che veramente preoccupa è che la coincidenza di queste due crisi possa pesantemente impattare sulla qualità e indipendenza della giurisdizione e sull’effettività dello Stato di diritto, che è pietra angolare di ogni ordinamento democratico”. Necessario fronte comune magistrati e avvocati per il rilancio e coraggio su riforme Il vicepresidente del Csm ha caldeggiato come “Magistrati e avvocati devono fare fronte comune, abbandonando ottiche corporative, a difesa dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione, premessa e garanzia d’attuazione del principio d’uguaglianza” e “nel chiedere alla politica più coraggio nello slancio riformatore”. “La reciproca legittimazione è il presupposto indispensabile del contributo di ciascuno all’attuazione dei principi, dei diritti e delle tutele stabiliti dalla Costituzione”, ha sottolineato Ermini, giudicando “sterili, ancor più che inopportune, contrapposizioni e diffidenze reciproche”. “Davanti a noi abbiamo una stagione di riforme a largo spettro, che coinvolgono il sistema giustizia nel suo insieme, addirittura con misure organizzative, mi riferisco alla stabilizzazione dell’ufficio del processo, che hanno l’ambizione di un cambio di paradigma e mentalità nell’agire del giudice” e “credo che al di là dei profili problematici che pure non mancano le riforme possano e debbano però essere soprattutto il perno del rilancio del sistema giudiziario al servizio della collettività”. A giudizio di Ermini “se davvero si arriverà a contenere nei limiti della ragionevole durata i tempi dei processi, a ricondurre cioè la giustizia penale e civile a modelli virtuosi di efficienza, qualità e celerità, ciò significherà rigenerare il tessuto fiduciario tra i cittadini e i protagonisti della giurisdizione. Ma ciò potrà avvenire, lo ripeto anche in questa sede, se tutti gli operatori del diritto, in primis avvocati e magistrati, responsabilmente e con spirito costruttivo collaboreranno insieme al perseguimento di questo obiettivo”. Csm, con nuova legge elettorale stop a pratiche di potere Da tempo ormai, da almeno due anni, sollecito la riforma del Consiglio Superiore e dell’ordinamento giudiziario. Nelle prossime settimane il Governo dovrebbe formalizzare le sue proposte. Il mio auspicio è che la nuova legge elettorale per i togati favorisca la rigenerazione valoriale dell’associazionismo giudiziario e l’abbandono di pratiche di potere. Le correnti riflettono le plurime sfaccettature culturali della magistratura ed è sano che esistano, ma la loro influenza - ha ammonito Ermini - deve fermarsi sulla soglia del Consiglio Superiore”. Caos Procure, ‘sanzioni severe a toghe coinvolte, no insinuazioni su disciplinare Csm’ - “I noti fatti di due anni fa e diverse vicende successive hanno inferto ferite ancora aperte. E tuttavia la reazione c’è stata, è in corso una riflessione anche autocritica da parte delle correnti, e come Consiglio Superiore siamo intervenuti e stiamo tuttora intervenendo, in sede disciplinare e amministrativa di incompatibilità, sanzionando severamente i magistrati responsabili di comportamenti non in linea con il Codice disciplinare”. Ermini ha specificato: “Ecco perché amareggiano le insinuazioni di chi solleva dubbi sull’operato e l’imparzialità della Sezione disciplinare o di chi parla di giustizia addomesticata magari ostentando numeri che di per sé, se non rapportati alla platea di riferimento, risultano di nessun valore” e che “ a me pare appartengano tutte al pericoloso gioco alla denigrazione e alla delegittimazione della magistratura che rischia in realtà di vulnerare l’indipendenza e l’autonomia della giurisdizione come fondamento della democrazia”. Futuro Italia passa anche attraverso riforma della giustizia “Se il futuro dell’Italia passa anche attraverso la riforma della giustizia, oggi ci troviamo di fronte a una grande sfida: trasformare la crisi in straordinaria opportunità di modernizzazione del Paese. Ma ciò richiede - insisto - collaborazione e impegno da parte di tutti gli attori del processo. È un’opportunità che dubito potrà riproporsi, sprecarla sarebbe irresponsabile” ha affermato David Ermini. “Giustizia, serve il disarmo. Ma la riforma del Csm non potrà piacere a tutti” di Errico Novi Il Dubbio, 1 ottobre 2021 Per il sottosegretario alla Giustizia, l’onorevole di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, questo governo “intende riconciliare la politica con la magistratura, l’accusa con la difesa, il cittadino con la giustizia grazie ad un’opera di intelligente mediazione, raccogliendo esperienze e proposte, sempre in nome delle competenze”. Che ruolo ha avuto e avrà l’avvocatura in questo periodo di riforme della giustizia? Nelle riforme ci sono stati molti protagonisti. Questo per scelta del Governo che, oltre all’approfondimento tecnico, ha privilegiato il confronto, con l’avvocatura tra i principali interlocutori. Confronto, sia chiaro, non vuole sempre dire che si debba essere tutti d’accordo, ma significa ascoltare in modo proficuo tutti gli stakeholder del sistema giustizia e tenere in debita considerazione le loro esigenze. Se parliamo della riforma del processo penale, il plauso e l’applauso nei confronti della Ministra Cartabia al Congresso dell’Unione delle Camere Penali costituisce una plastica testimonianza di come l’avvocatura penale nella sua massima espressione abbia gradito l’approccio e i risultati. È evidente che nessuna riforma è perfetta ma è anche vero che tutte sono perfettibili. Il passo avanti è evidente, come palese è il ritorno massiccio dei valori costituzionali: un passo avanti per tornare mai più indietro. Cosa intendeva dire al congresso Ucpi quando ha sottolineato che occorrerà vigilare sui decreti attuativi del ddl penale? Intendevo dire che tra la delega e la sua attuazione c’è un percorso di approfondimento delicato. Come dice Paulo Coelho “il diavolo è nei dettagli”: bisogna vigilare quindi sulle formulazioni normative affinché siano fortemente rispettose dei principi della delega. È necessaria la coerenza con il sistema e l’essenzialità ed efficacia del lessico giuridico. Quindi lei non intende una manina che ad esempio vada a restringere i limiti per l’appello, come teme Caiazza? Assolutamente no: non ci saranno ‘ manine’, perché il livello di attenzione sarà così alto e il percorso così trasparente da rendere impensabile ogni digressione. Sempre dal congresso Ucpi il presidente Caiazza ha enfatizzato molto il problema dei magistrati fuori ruolo distaccati a via Arenula. E la ministra Cartabia, forse non a caso, ha detto che i suoi più stretti collaboratori, cioè lei, sottosegretario, e il professor Gatta, sono stati accolti bene nonostante la copiosa presenza di magistrati. Cosa pensa della proposta di Caiazza e come interpreta le parole della ministra? Rispetto alla prima domanda: il numero dei magistrati fuori ruolo non è un numero eccedente rispetto alla popolazione dei magistrati. È evidente però che l’eccesso dei magistrati fuori ruolo, come ogni eccesso, costituisce una patologia. Si corre il rischio che la esaltazione del magistrato fuori ruolo crei una sorta di tertium genus, ossia un altro tipo di magistratura che si allontana progressivamente ed inesorabilmente dalla giurisdizione. I fuori ruolo, a mio avviso, devono essere una necessità, per specifiche competenze e funzioni, non un’alternativa all’esercizio della giustizia nelle aule. Lei sarebbe d’accordo con la proposta fatta da Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, in un dibattito con Caiazza organizzato da questo giornale: invece di dire no ai fuori ruolo, diciamo sì anche agli avvocati nel ministero? La diversità di genesi culturale e di esperienze professionali fa bene alla democrazia: figuriamoci se non sarebbe capace di dare maggiore rotondità ai compiti ministeriali. E sulle parole della ministra? Non c’è un doppio ministero, solo la presa d’atto che le nuove competenze sono state ben accolte da chi c’era prima. Si riuscirà ad avere una nuova legge elettorale per quando ci sarà il rinnovo del Csm? Certamente sì. Nei programmi della ministra c’è l’obiettivo di intervenire con efficacia ma anche con raziocinio ben prima del prossimo rinnovo del Csm. Sulle modalità, come sa, c’è la relazione della Commissione Luciani: si tratta di una proposta che andrà valutata e a cui seguirà una del governo. Come accaduto con la riforma del penale, non è detto che la posizione del governo sarà quella della Commissione. C’è una grande domanda tra gli addetti ai lavori: gli stessi membri della Commissione Lattanzi, in diverse occasioni, hanno detto che la loro soluzione giusta non era quella dell’improcedibilità. E allora da dove è spuntata? Come evidente, in tema di prescrizione la necessità di una mediazione politica è andata a scapito di ogni altra scelta, anche quelle della commissione Lattanzi. L’importante è avere recuperato il perimetro dei princìpi costituzionali. E comunque si tratta di norme di legge ordinarie: se la sperimentazione ci dirà che il nuovo istituto non funziona, il Parlamento potrà sempre intervenire, come accade normalmente. In generale si aspetta una magistratura, in particolare l’Anm, capace di uscire dal conservatorismo alla vigilia della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario? Sono ottimista. Quello che posso dire è che il Governo è pronto ad aprire le braccia a tutte le forme di collaborazione, nessuna esclusa. Spero che la disponibilità, in un momento così difficile del Paese sia condivisa, senza pregiudizi. I ‘nemici per scelta esistenziale’ devono essere isolati. Però, mi scusi, se insisto: lei è un acuto osservatore. A sentire dire “no” da parte dell’Anm alle valutazioni di professionalità fatte in un certo modo, al diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari, alla separazione delle carriere non le sembra che manchi la necessaria apertura? Con il presidente Santalucia c’è un dialogo che va certamente intensificato e finalizzato. Non mi sembra che ci sia una logica del “no” preclusiva ad un confronto da parte dell’Anm. Come accaduto per la riforma con le Camere Penali, con tutti le ‘parti del processo’ instaureremo anche per questo un dialogo. E poi il governo deciderà, con l’auspicio di trovare la soluzione maggiormente condivisa ed in linea con i principi. Secondo il presidente uscente dell’Aiga, Antonio De Angelis, una parte della magistratura dileggia gli avvocati per allontanare la riforma dei Consigli giudiziari... Bisogna sintonizzarsi su una lunghezza d’onda necessariamente comune: la trasparenza, assistita dalla volontà di condivisione. Non credo di dire un’eresia se sostengo che è giunto davvero il momento in cui magistratura e avvocatura devono provare, ma sul serio, a dialogare. Un Governo così largo e disponibile può essere un ottimo veicolo per questa meta. Che rapporto c’è ora tra politica e magistratura? La prima vuole approfittare del momento di debolezza della seconda o le è ancora subordinata? Per dirla con Oscar Wilde, ogni generalizzazione è inesatta, anche questa. Fermo il dato che le responsabilità sono sempre personali, è il momento di selezionare la migliore magistratura, la migliore politica, la migliore avvocatura per un percorso, migliore, condiviso. ‘Approfittare delle debolezze’ va sostituito con ‘aiutare a superarle’. Il Consiglio dei ministri ha varato un nuovo decreto che restringe l’utilizzo dei tabulati telefonici. Ma per Colletti, deputato di “L’Alternativa c’è” si tratta dell’”ennesimo insulto alla magistratura. Il testo di fatto sbugiarda la ministra Cartabia nelle sue presunte intenzioni di velocizzare i processi”... Nessuna polemica inutile. Dico solo che lo spirito di quel decreto legge è il recepimento di una sentenza della Corte di Giustizia europea: il processo penale, il diritto stesso, ha ormai respiro inevitabilmente europeo. Per quanto mi riguarda, mi sembra, come prescrive la Corte, assolutamente corretto che sia un giudice ad autorizzare l’utilizzo dei tabulati. E il governo, senza alcuna costrizione, meno che mai politica, con inusitata rapidità ha adeguato il codice di rito penale alla esigenza di meglio tutelare il diritto di difesa. Vuoi vedere che si tratta proprio di un buon governo? Tutela delle donne: l’effetto boomerang della riforma di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 ottobre 2021 Accecante l’irrazionalità di un sistema nel quale nei casi di arresto facoltativo può essere applicata una misura coercitiva mentre in nuovo caso di arresto obbligatorio no. Di buone intenzioni è lastricato non solo l’inferno ma - parrebbe - anche il cantiere legislativo quando è succube dell’emergenza di turno e va troppo di fretta: almeno a giudicare dal baco che, in una norma pensata per tutelare le donne vittime di violenza, annulla proprio lo scopo nella riforma del processo penale del ministro Marta Cartabia, approvata a fine settembre con inappropriato doppio ricorso al voto di fiducia, e in vigore tra pochi giorni. Sinora incorreva nell’arresto obbligatorio lo stalker o il maltrattante che avesse violato gli arresti domiciliari, ma non chi avesse violato i provvedimenti con cui il giudice gli aveva ordinato di allontanarsi dalla casa familiare della vittima o di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla donna nel mirino. Adesso, invece, l’arresto obbligatorio (in flagranza o quasi flagranza) è previsto, oltre che per maltrattamenti e atti persecutori, appunto anche per la violazione dei divieti che (dal “Codice rosso” in poi del ministro Bonafede) l’articolo 387 bis punisce con 3 anni di reclusione nel massimo. Chiaro l’intento della norma paracadutata in extremis in Commissione giustizia della Camera nel testo della riforma Cartabia, anche sull’onda di casi nei quali uomini avevano ucciso le loro ex compagne dopo aver violato l’ordine di non avvicinarsi: tutelare di più le potenziali vittime. Senonché un difetto di coordinamento, con le regole generali sugli arresti di tipo facoltativo e gli arresti di tipo obbligatorio, creerà un corto circuito tra due obblighi: e produrrà cioè il non senso di polizia e carabinieri obbligati a eseguire l’arresto obbligatorio, ma di pm nel contempo obbligati subito a liberare l’arrestato perché le misure coercitive si possono chiedere soltanto per reati puniti con pena “superiore” nel massimo a 3 anni, mentre l’articolo 387 bis ha la pena “fino” a tre anni. Accecante l’irrazionalità di un sistema nel quale nei casi di arresto facoltativo può essere applicata una misura coercitiva, e invece in questo nuovo caso di arresto obbligatorio no. Non essendo possibili interpretazioni estensive, alcuni uffici potrebbero provare a ripiegare (come ad esempio da tempo la Procura di Tivoli guidata da Francesco Menditto) sulla richiesta al gip di applicare all’indagato, insieme all’ordine di non avvicinarsi alla parte offesa, un braccialetto elettronico per monitorarlo: ma un vuoto legislativo ipoteca il poterlo fare o meno quando l’indagato non presti il consenso al braccialetto. Insomma, la riforma della giustizia ancora non è pubblicata in Gazzetta Ufficiale e già ci sarà da rimetterci mano. La solidarietà è reato, 13 anni a Lucano. Lui: “Neanche a un mafioso” di Simona Musco Il Dubbio, 1 ottobre 2021 L’ex sindaco di Riace condannato per la gestione dell’accoglienza a 13 anni e 2 mesi di carcere: “È tutto finito, sono morto dentro”. Tredici anni e due mesi. “Nemmeno un mafioso viene condannato a tanto”, commenta Domenico Lucano all’uscita del Tribunale di Locri, che lo ha giudicato colpevole per tutti i reati contestati dalla procura. Tranne che per la concussione, il reato più infamante tra quelli contestati, e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, accuse dalle quali è stato assolto perché il fatto non sussiste, mentre si è estinta per prescrizione l’accusa di turbata libertà degli incanti. Accuse, le ultime due, che avevano fatto finire l’ex sindaco di Riace ai domiciliari il 2 ottobre 2018, ponendo una pietra tombale sulla storia del borgo dell’accoglienza famoso e studiato in tutto il mondo. Per il resto, il collegio presieduto da Fulvio Accurso non gli ha risparmiato nulla: il tribunale lo ha riconosciuto colpevole di associazione a delinquere - finalizzata a commettere “un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)” -, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio, falsità materiale, peculato e falsità ideologica. E lo ha fatto andando perfino oltre le richieste avanzate dal pm Michele Permunian, che per il “curdo” aveva invocato 7 anni e 11 mesi, definendolo il “dominus assoluto” dell’accoglienza, consapevole “di trasgredire le regole” per “interessi di natura politica”. Si chiude così il processo al simbolo per eccellenza dell’accoglienza, quello alla quale tutti, da destra a sinistra, hanno fatto la guerra, a partire da Marco Minniti per finire a Matteo Salvini. Vincendola, da quel che si comprende da una sentenza che ha condannato 18 imputati su 27, giudicati colpevoli di aver accolto i migranti. Ciò nonostante il gip avesse fortemente criticato le accuse, parlando di “vaghezza e genericità” e sottolineando come qualsiasi riferimento a “collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità”. Marchiane inesattezze, così aveva detto il giudice, secondo cui “gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (…) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci”. Per Lucano i giudici hanno stabilito anche il pagamento di quasi un milione di euro, una cifra enorme per un uomo praticamente indigente. “Non ho tutti questi soldi - ha dichiarato in piazza Fortugno dopo la lettura del dispositivo -. Mia moglie fa le pulizie in casa di altri. Non ho proprietà, non ho nulla. Non capisco. Ho visto un elenco di cifre enormi, a me mancano i soldi per vivere, come posso estinguere questa cosa? È inaudito”. Una situazione di povertà più volte emersa nel corso del processo - nemmeno un euro è stato infatti trovato sui conti dell’ex sindaco che dopo l’arresto non ha più avuto un lavoro -, ed evidenziata dai suoi avvocati durante le arringhe conclusive: “Mimmo Lucano vive di stenti, la sua condizione è incompatibile con la commissione di qualsiasi reato”, avevano affermato Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che lo hanno difeso gratis. Nulla da fare: per il tribunale la truffa è provata, quei soldi da qualche parte saranno. Poco importa che Lucano non abbia un centesimo in tasca. “Ho speso la mia vita rincorrendo degli ideali, contro le mafie. Ho fatto il sindaco dalla parte degli ultimi, dei rifugiati - ha commentato l’ex primo cittadino -. Mi sono immaginato di contribuire al riscatto della mia terra, per l’immagine negativa che ha sempre avuto. Un’esperienza fantastica, ma oggi devo prendere atto che davvero finisce tutto”, ha spiegato, aggiungendo di aspettarsi un’assoluzione “con formula ampia”. La condanna è arrivata a tre giorni dalle elezioni regionali, che lo vedono impegnato nelle liste a sostegno di Luigi de Magistris. Ma ora l’avventura politica per lui è finita: la legge Severino gli impedisce di poter essere eletto, anche se venisse votato in massa. Lucano, prima di lasciare Locri, non ha negato di considerare il suo sogno ormai finitio. “Oggi è l’epilogo per me. È un momento difficile - ha evidenziato -, ma la dignità non mi fa dimenticare la riconoscenza che devo avere per tutti quelli che si sono occupati della mia vicenda. Non voglio disturbare più nessuno, mi ritiro da tutto. Non mi importa più, voglio solo evitare dispiaceri ai miei familiari e ai miei amici, se devo morire, non c’è problema. Io sono morto dentro oggi. Non c’è pietà, non c’è giustizia”. Per l’ex sindaco si è trattato di un ribaltamento della realtà: “Quando sono tornato dalle misure cautelari, perché mi avevano sospeso da sindaco e cacciato da Riace, i rifugiati mi aspettavano. Adesso Riace è finita”. Per i magistrati di Locri, invece, ai migranti sarebbero andate solo le briciole, nonostante le manifestazioni d’affetto e le lacrime di chi a Riace, grazie a Lucano, aveva trovato una casa scappando da morte e devastazione. “Valutate voi con la vostra intelligenza se si tratta di un’ingiustizia”, ha concluso. Per Pisapia e Daqua si tratta di “una sentenza lunare e una condanna esorbitante che contrastano totalmente con le evidenze processuali. Oltre tredici anni di carcere, per un uomo come Mimmo Lucano che vive in povertà e che non ha avuto alcun vantaggio patrimoniale e non patrimoniale dalla sua azione di sindaco di Riace e, come è emerso nel corso del processo si è sempre impegnato per la sua comunità e per l’accoglienza e l’integrazione di bambini, donne e uomini che sono arrivati nel nostro Paese per scappare dalle guerre, dalle torture e dalla fame - hanno spiegato -. È difficile comprendere come il Tribunale di Locri non abbia preso nella giusta considerazione quanto emerso nel corso del dibattimento, durato oltre due anni, che aveva evidenziato una realtà dei fatti ben diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa. Per ora purtroppo possiamo solo sottolineare che non solo la condanna, ma anche l’entità della pena inflitta a Mimmo Lucano sono totalmente incomprensibili e ingiustificate e aspettare le motivazioni della sentenza per poter immediatamente ricorrere in appello nella convinzione che i successivi gradi di giudizio modificheranno una decisione che ci lascia attoniti”. Soddisfatto, invece, il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio: “Le sentenze si commentano da sole. In questo caso è stato riconosciuto il nostro impianto accusatorio, la sentenza quindi ci sembra equilibrata”. Nonostante quei 5 anni e tre mesi in più. Mimmo Lucano e la giustizia rovesciata di Francesco Merlo La Repubblica, 1 ottobre 2021 L’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi. È la stessa pena di Omar, che a Novi Ligure ammazzò la mamma e il fratellino di Erika. La sentenza del Tribunale di Locri, che condanna a 13 anni e due mesi Mimmo Lucano, il sindaco povero degli immigrati poveri nella Calabria povera, è così crudelmente esagerata da far subito pensare all’iperbole, alla “sparata”, al bum!, appunto. Qui salta persino la prudenza che magari ipocritamente tutti noi ad ogni lettura di sentenza esibiamo in attesa delle motivazioni. C’è, infatti, il troppo che stroppia, cioè deturpa, da quella parola turpis che, senza andare troppo in fondo, arriva al dunque, e trasforma ogni cosa nel suo contrario, è l’eccesso che rovescia la giustizia quale che sia la colpa di Lucano, quale che sia la virtù di Lucano, quale che sia la verità di Lucano. Giorgio Manganelli la chiamava “troppità”, una patologia che danneggia chi l’esibisce molto più di chi la subisce. E forse questa sentenza-boomerang a questo servirà: a mostrare tutta la troppità della Giustizia italiana: troppa ideologia, troppa parzialità, troppo corporativismo, troppo protagonismo, troppa irresponsabilità civile, troppa disinvoltura, troppo moralismo, troppa disumanità, troppa iniquità... Una volta caduti i reati di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (assolto e prescritto), l’aritmetica delle truffe attribuite a Lucano qui sembra quella di Platone che stabiliva a quale distanza dal mare peccaminoso bisognasse costruire le città affinché fossero virtuose: tredici anni e due mesi, poco meno del doppio dei sette, chiesti da una Procura già platealmente accanita, per reati che manco i truffatori del secolo, il lupo di Wall Street, o Frank Abagnale Jr. che nel film di Spielberg è Leonardo DiCaprio: Prova a prendermi. Povero Lucano. L’hanno preso, ma senza contestargli né trovargli un solo euro. E passi che l’accusa, che nel processo è parte, non tenga conto della personalità dell’imputato, ma il tribunale, calcolando la pena, sapeva che Lucano, incensurato, aveva rifiutato le candidature sicure (in primis quella europea) che gli avrebbero garantito l’immunità e uno stipendio, a lui che non ha i soldi per mangiare. Si trattava, voglio dire, di truffe a fin di bene, come ammise lo stesso procuratore già nell’ottobre del 2018 quando ne chiese l’arresto: “Non possiamo consentire, come Stato italiano, come istituzione della Repubblica, che qualcuno persegua un’idea passando bellamente sopra i principi e sopra le norme”. E va bene. Ma dopo l’arresto ai domiciliari ci fu pure la sofferenza del divieto di dimora che stabilì che Lucano, umiliato e punito, potesse andare dappertutto tranne al suo paese, dove comunque, quando gli imposero questa sadica restrizione, non era più sindaco perché era stato sospeso. Ed ecco che nella troppità della sentenza salta fuori anche il sospetto di una revanche verso i colleghi della Cassazione, che stabilì che gli avevano comminato penose misure immotivate. E non fu per niente usuale quella netta pronunzia della Suprema Corte che entrava nel merito. Era il 2019 e la Cassazione, che è il giudice della Forma, sentì il bisogno di tracciare, in maniera esemplare, i confini delle decisioni capricciose. Di sicuro già nel 2018 l’arresto estirpò con l’efficienza della chirurgia sociale un modello di integrazione che era vincente anche da un punto di vista economico, visto che con i 35 euro per immigrato, che allora versava lo Stato, a Riace non compravano panini da dare in pasto ai disperati rinchiusi in qualche palazzo sbrecciato di periferia, ma creavano lavoro. “Non hanno condannato me” mi dice adesso Mimmo Lucano “ma l’idea di una forma di vita alternativa, in un villaggio rurale morente”. Ancora nel 2020 quest’idea di Lucano fu esposta al Moma di New York, e non per solidarietà internazionale, ma come esempio di vita di campagna spopolata, insieme alle new town cinesi, alle fattorie robotizzate dell’Olanda e del Canada, alle coltivazioni con i droni nell’Africa subsahariana. Si può imbrogliare non cercando di arricchirsi? Che significa truffare, ma non per fare soldi? Significa pasticciare con gli atti amministrativi, procedere in disordine. E dunque così, per dire, i soldi del frantoio andavano agli artigiani del vetro e quelli del vetro venivano girati al laboratorio degli aquiloni di Herat, e il ricamo era sovvenzionato con i fondi assegnati alla carta e quelli della carta erano i soldi dei vasi di Kabul... Non cambia il totale, ma solo l’ordine dei fattori mescolati e sovrapposti. Perché è così Lucano, è il leader, rustico e disordinato ma lucido, che meglio di tutti impersona l’accoglienza e la pietà nella Calabria aspra e dirupata. E lasciamo perdere Robin Hood, per carità. In questo modo ogni fattore disordinato può diventare una truffa: una carta d’identità e l’asilo nido multietnico, una scuola e i presidii medici, il ristorante e le borse-lavoro. E Riace era persino albergo-diffuso per accogliere il turismo equo solidale: in una casa aveva vissuto Wim Wenders, in un’altra Fiorello. Ebbene, invece di riprodurlo nelle terre abbandonate del Sud, nelle campagne desertificate della Sicilia, questo modello, questo povero castello dell’accoglienza e dell’integrazione nel mondo sovranista del respingimento e della disintegrazione, è stato spazzato via senza le ruspe di Salvini e senza fomentare le guerre tra i poveri di Giorgia Meloni, ma con il codice penale applicato con accanimento talebano fino al bum dei tredici anni e due mesi di ieri. Andava comunque punito, Mimmo Lucano? Non è compito nostro stabilire se bisognasse condannarlo o assolverlo. Ma abusare del potere discrezionale che la legge concede al giudice nel calcolo della pena è qui mostruoso. Così venivano puniti nel ‘500 gli Ugonotti, e nel ‘600 i valdesi di Torre Pellice, così venivano massacrati gli eretici. Mimmo Lucano e il modello Riace che piace nel mondo ma non in Italia di Daniela Preziosi Il Domani, 1 ottobre 2021 Mentre nel 2017 in Italia la procura di Locri iscrive Mimmo Lucano nel registro degli indagati per abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata, in giro per i convegni del mondo il “modello Riace” è considerato una pratica di accoglienza da studiare, da raccontare, se non proprio da imitare. Il suo “metodo” per integrare i profughi e i richiedenti asilo che venivano ospitati nel “Villaggio Globale”, cuore della piccola Riace - una cittadina della Locride, meno di tremila abitanti distribuiti fra il paese in collina e quello che cresce sghembo giù, Riace marina, con qualche sbrego di troppo al paesaggio - è stato già raccontato in un film da un grande regista. Nel 2009 infatti Wim Wenders si trasferisce a Riace per girare Il volo. Il cortometraggio fa il giro dei festival: peraltro è l’ultimo film interpretato da Ben Gazzara, doppiato da Giancarlo Giannini, e nel cast c’è anche Luca Zingaretti. Lucano è stato condannato a oltre 13 anni di carcere. “Sentenza lunare”, hanno commentato i suoi difensori Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, “che contrasta totalmente con le evidenze processuali” e con “quanto emerso nel corso del dibattimento, durato oltre due anni, che aveva evidenziato una realtà dei fatti ben diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa”. L’anno dopo il film, nel 2010, Lucano è terzo nella World Mayor, concorso organizzato da City Mayors Foundation sui migliori sindaci del mondo. Nel 2016 la rivista Fortune lo piazza fra i cinquanta uomini più influenti della terra. Nel 2017, e siamo all’anno dell’inizio delle indagini, Lucano riceve il premio per la Pace Dresda. L’anno dopo, siamo nel 2018, viene arrestato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Arresti domiciliari, e per di più obbligo di dimora via dalla sua città (che poi sarà revocato). Ministro dell’Interno è il leghista Matteo Salvini, quello di “prima gli italiani”, il governo è quello di Giuseppe Conte, quello dei decreti Salvini. I deputati e i senatori Cinque stelle, che in quel periodo hanno uno sterminato consenso in Calabria, la pensano per lo più alla stessa maniera dei colleghi del carroccio. Ma in realtà, come Lucano racconta nel documentario Non rimarrò in silenzio, visibile sul sito di Domani, e nel libro Il fuorilegge (Feltrinelli), la sfortuna giudiziaria di Lucano risale al governo precedente, guidato da Paolo Gentiloni, a quando al Viminale c’è Marco Minniti, calabrese anche lui, uomo d’ordine del Pd, quello di Sicurezza è libertà, il libro che riassume la sua visione del mondo (oggi Minniti ha lasciato il parlamento ed è a capo della Fondazione Med-Or, di Leonardo, che promuove relazioni fra stati e programmi aerospaziali, di difesa e di sicurezza, ma questa sarebbe un’altra storia). Sindaco di Riace per tre mandati, dal 2004 al 2018, diventa presto un simbolo. Prima per aver accolto gli immigrati che il ministero degli Interni gli chiedeva di prendere in consegna. Così ricostruisce com’è iniziata, molto prima: “Il prefetto Mario Morcone mi chiama e mi dice che deve mandarmi 500 persone perché il ministro dell’Interno Roberto Maroni non vuole che i rifugiati vadano al nord. Signor prefetto, dico io, ma Riace superiore ha 500 abitanti. Tutti questi pullman, come li prenderà la gente? Ma comunque mi sono dato da fare. Ho fatto un protocollo d’intesa con i comuni di Caulonia e di Stignano, abbiamo ripartito le persone. Lo stato mi chiede numeri altissimi, e li chiede a me perché sa che sono sensibile a quella richiesta. Però poi mi punisce. Il colonnello che mi interroga mi dice “sindaco li poteva tenere o no?”. Poi dunque diventa famoso per aver rifiutato di seguire le linee guida dello stesso ministero perché gli sembrano disumane. “Si è preteso che accogliessi le persone e dopo sei mesi, o un anno, le cacciassi”, ha spiegato lo scorso settembre, “e io ho disatteso queste pretese. Anzi non le ho neanche disattese, ho spiegato che se come sindaco mi fossi attenuto a queste regole dopo sei mesi un bambino, per esempio, lo avremmo mandato via dalla scuola. Ma che senso ha fare progetti così su persone che hanno già perso tutto? Se lo avessi fatto non sarei incorso in un reato penale. Ma la mia coscienza?”. Per far lavorare gli accolti a Riace nasce un frantoio, le esperienze dell’agricoltura biologica. Sulla carta “forse non corrispondeva tutto” ammette, ma il sindaco non si è arricchito - vive frugalmente spesso grazie all’aiuto di amici - “ma nell’accoglienza non basta essere abili ragionieri”. Le televisioni scoprono il Villaggio Globale, Lucano diventa un personaggio anche mediatico. Insultato dalla destra - quella radicale è arrivata fino alla Locride a fargli manifestazioni contro - è osannato invece della sinistra del civismo, meno dai partiti, tranne quelli della sinistra radicale. La trasmissione Propaganda Live (La7) condotta da Diego Bianchi ne segue il calvario giudiziario e lo consacra come personaggio. Nel 2019 Lucano tenta di nuovo l’elezione, sarebbe la quarta, ma Riace passa alla Lega. Vengono cancellati i murales e tutti i simboli del “modello Riace”. Però il nuovo sindaco dura poco: si scopre che era ineleggibile. Le formazioni della sinistra lo corteggiano per candidarlo alle europee, e lui invece sceglie di accettare la proposta di Luigi de Magistris, sindaco di Napoli uscente che tenta la sorte alle regionali calabresi. Lucano fa il pugno dalla finestra dei domiciliari e si fa fotografare con la bandiera di Rifondazione comunista. C’è generosità ma anche tanta ingenuità nelle sue scelte politiche, nella sua postura in direzione ostinata e contraria, negli attacchi alla prefettura da cui è convinto sia nata la sua disgrazia giudiziaria. Ma bisogna stare attenti: il suo accento molto calabrese, il carattere fragile, il sorriso disarmante e lo stile ruspante rischiano di confondere. Perché l’improvvisazione di Lucano non è improvvisata. Giovane della sinistra extraparlamentare negli anni Settanta, conosce il comunista Peppino Lavorato, protagonista delle lotte nella piana di Gioia Tauro, e a sua volta maestro di Pietro Valerioti, altro combattente contro la mafia degli agrumeti e che viene ucciso nel 1980. Poi nella Locride arriva Monsignor Giancarlo Bregantini. Per Lucano è un’illuminazione. Racconta: “Quando arrivò, trasferito dal suo Trentino, era stato appena scomunicato il mio professore di religione, Natale Bianchi, un attivista dei Cristiani per il socialismo. Le parrocchie avevano diramato un comunicato dove era scritto: scomunicato per comportamenti sovversivi. Perché nella sua parrocchia aveva scritto: “Cristo non si è fatto i cazzi suoi”. Parlava dell’omertà. Quando arriva Bregantini esordisce così: “Non uno ma cento, mille Natale Bianchi”. Poi nel 1997 a Badolato c’è il primo grande sbarco dei curdi. Il giovane Lucano accorre ed impara come si organizza la loro accoglienza da Dino Frisullo (pacifista, è morto nel 2003) e dal professore Tonino Perna, pioniere delle Ong in Italia. Tonino Perna, oggi vicesindaco di Reggio Calabria, è ancora al suo fianco. Come Monsignor Giancarlo Bregantini, oggi arcivescovo metropolita di Campobasso-Boiano, dopo una vita spesa contro la ‘ndrangheta. Bregantini è stato chiamato a deporre al processo contro Lucano e ai giudici raccontato la sua versione del modello Riace: “Ricordo con commozione quello che avveniva a Riace. Ho accompagnato Mimmo Lucano e l’ho incoraggiato, gli ho dato consigli e sostegni. Ho visto la positività dell’esperienza e il consenso attorno a lui in paese. Con grande premura ho mobilitato la comunità diocesana e accompagnato Lucano attraverso diverse fasi”. Sempre al suo fianco, fino a ieri in aula, anche padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, pacifista, anche lui sentito dai giudici: “Per me Riace rimane un modello e ringrazio Lucano per aver fatto questa scelta. A vedere come un antico borgo della Calabria stava rinascendo con l’accoglienza, tanti altri borghi potrebbero fare la stessa scelta per rinascere. Senza fondi ha continuato in modo eroico ad aiutare i migranti di Riace, anticipando quello che dovrebbe essere fatto dal governo sui temi dell’accoglienza Per me Riace resta un modello da imitare”. La sentenza di ieri ha fatto ritrovare la strada giustizialista ai leghisti, da Salvini in giù, di recente folgorati sulla via del garantismo. Ma persino il nuovo segretario del Partito democratico, un partito sempre tiepido sulle scelte di Lucano, ora, davanti alla sentenza di condanna abnorme, esprime “solidarietà e vicinanza nei confronti di Lucano, siamo molto esterrefatti per la vicenda e la pesantezza della pena”. “Favoreggiamento”, quel reato che confonde solidali e trafficanti di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 ottobre 2021 Oltre il caso Lucano. La criminalizzazione delle iniziative umanitarie a sostegno dei migranti colpisce per terra e per mare. Non tutte le sentenze sono uguali e nemmeno i reati. Tra quelli contestati a Mimmo Lucano nel processo che ha portato alla condanna monstre in primo grado a 13 anni e 2 mesi c’è “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Quattro parole ricorrenti nelle cronache di frontiera, dove diventano etichetta sia dei traffici delle organizzazioni criminali, che delle iniziative umanitarie di soccorso. L’ambiguità non è casuale: dipende dalla legge. Il favoreggiamento è disciplinato dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione. Il suo impianto viene stabilito nel 1998 dalla Turco-Napolitano. Quattro anni dopo la Bossi-Fini aumenta le pene, specifica le aggravanti ed estende l’applicazione agli attraversamenti dei confini verso altri Stati. La norma punisce chi in violazione del testo unico “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso”. Le pene vanno da uno a cinque anni, ma un’ampia gamma di circostanze porta la reclusione da cinque a quindici. Nell’articolo il profitto non è inteso come un elemento costitutivo del reato, ma come un’aggravante. Per questo anche condotte che non hanno un fine economico possono esserne comprese. “Il reato non è costruito solo contro i trafficanti di esseri umani, ma anche per combattere chi aiuta i migranti lungo le frontiere”, afferma Gianluca Vitale, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Certo, il testo prevede una “scriminante umanitaria”, cioè esclude dalle condotte sanzionabili quelle di assistenza e soccorso, ma queste vanno di volta in volta provate. Il giudice può riconoscerle oppure no, pur nell’assenza manifesta di qualsiasi profitto. È andata bene a Félix Croft assolto dal tribunale di Imperia il 27 aprile 2017 proprio in virtù della clausola umanitaria. Il pm aveva chiesto 3 anni e 4 mesi di carcere perché il giovane francese aveva tentato di portare da Ventimiglia a Nizza una famiglia di sudanesi. I migranti originari del Darfur erano rimasti bloccati e non avevano soldi per pagare un passeur. Di fronte ai racconti delle violenze subite e alle cicatrici sul corpo di uno dei bambini Croft si era convinto ad aiutarli, nonostante i rischi. Da nord-ovest a nord-est: sempre per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono stati rinviati a giudizio il 24 luglio scorso Gian Andrea Franchi, 84 anni, e Lorena Fornasir, 64 anni, per il supporto della loro associazione “Linea d’ombra” ai profughi che arrivano a Trieste dalla rotta balcanica. Il pm di Bologna, dove si è svolta l’istruttoria, ha anche contestato lo “scopo di lucro”. Secondo i coniugi “negli inquirenti domina una volontà politica” che mira a colpire le iniziative di solidarietà con i migranti. Il solito articolo 12 è stato ampiamente utilizzato anche in mare, contro le Ong del Mediterraneo. Sono decine i soccorritori iscritti nel registro degli indagati con questa accusa, tra loro anche il deputato Erasmo Palazzotto (LeU). Finora, però, non è partito neanche un processo. Solo nella maxi inchiesta contro Iuventa, Save the Children e Msf per le missioni del 2016 e 2017 si è arrivati alla chiusura indagini, ma si attende ancora la richiesta di rinvio a giudizio. Intanto il 4 novembre 2020 il giudice per l’udienza preliminare (Gup) di Ragusa ha stabilito il non luogo a procedere nei confronti di Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, comandante e capo missione di Open Arms nella missione di marzo 2018 in cui soccorsero 218 persone. Il procuratore ibleo Fabio D’Anna ha fatto appello sostenendo che “non può passare il principio che i migranti vadano salvati anche dai libici”. Favoreggiamento era anche una delle accuse rivolte contro Carola Rackete. Smontate dalla Cassazione che, in merito alle imputazioni di resistenza a pubblico ufficiale e di resistenza e violenza contro nave da guerra, ha stabilito che la capitana aveva agito per adempiere un dovere, cioè portare i naufraghi al sicuro a terra. Se la scriminante umanitaria vale perfino contro queste accuse, tanto più è da riconoscere per le imputazioni ex articolo 12. Peggio è andata a quattro eritrei (G. A., G. A., M. H. e K. G. H.) condannati a settembre scorso dalla Corte di appello di Roma a un totale di 10 anni e 3 mesi di carcere. Per gli avvocati della difesa il reato di favoreggiamento è stato costruito sulle pratiche di mutuo aiuto messe in campo nella comunità, senza alcun profitto economico. “La norma è scritta in modo da permettere le decisioni più disparate. Per la stessa condotta puoi diventare un eroe o essere condannato a 13 anni di carcere”, afferma Vitale. Sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia di Alberto Olivetti Il Manifesto, 1 ottobre 2021 Non è detto che il continuo discorrere di mafia dal quale siamo circondati e quasi travolti, come in questi giorni è accaduto in occasione d’una sentenza relativa alla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, non debba essere sottoposto ad attente verifiche e precisazioni. A cominciare proprio dal carattere convenzionale attribuito al termine mafia. Carattere che mette capo a un connotato di mafia per l’appunto convenuto, ossia trito e ritrito, quale si è depositato almeno da un trentennio in qua. Esso è riconosciuto e recepito dal largo pubblico e nell’opinione diffusa specialmente negli stilemi del cinema e della televisione; negli stereotipi di scontati personaggi e ambientazioni di maniera quali ci vengono descritti da una letteratura corriva e di consumo; nella attrattiva che esercitano resoconti e commenti a crudeli fatti di cronaca; e via dicendo. Non è invece assunto nella acquisizione critica e meditata dei numerosi e importanti contributi degli studi storici, economici e politici dedicati alla mafia nell’ultimo ventennio. Studi relativi alla mafia in atto, non alla mafia in figura. In figura, ossia a una rappresentazione della mafia per nulla circostanziata, anzi, per dir così, prestabilita e, dunque, niente affatto adeguata (e anzi fuorviante) quando si intenda dar conto della consistenza effettiva di una realtà italiana attuale e viva la cui imponente rilevanza e perentoria presenza segna nel profondo la società del nostro paese e ne determina essenziali dinamiche. Par giusto affermare insomma che, nel ragionare che si fa di mafia, continuo è oggi il ricorso a una idea riduttiva, fissa e stantia che poco ha a che vedere con la mafia attuale. Un’idea forse capace di dar conto di una mafia dei Corleonesi - “tra città e campagna”, tra latifondo e speculazione edilizia - che era già in via di esaurimento mezzo secolo fa, i suoi capi arretrati e sorpassati. Una mafia di pizzini rapidamente sovrastata, in quel torno di anni, dalla mafia mutata e rinnovata della droga, in piena fase di affermazione e rinnovamento dagli anni Settanta, non più a Corleone ma già a Milano, pronta, dalla grande impresa capitalistica, a entrare tempestivamente, con un ruolo di protagonista, nell’inedito universo digitale e ad agire negli ambiti del capitale finanziario globale. Quei vecchi capi che bisognava allora potar via e quasi, diresti, più utili ai nuovi “dirigenti” se affidati alla giustizia dello Stato. Si potrà così parlare all’opinione pubblica (proprio in concomitanza di un suo mutamento e nel momento d’un suo nuovo inizio all’altezza dei tempi nuovi) di sconfitta della mafia, della sua fine. “Forse è bene chiarire che cosa è da intendere per fine” della mafia, ha scritto Francesco Renda, che così argomenta: “La mafia, come si evince dal suo essere associazione criminale di tipo speciale, è costituita da due distinte entità: dall’essere associazione criminale organizzata e dall’avere diffusi rapporti con la società, con la politica, con le istituzioni e con il potere. La fine della mafia vuol dire appunto l’interruzione di tali rapporti, perché vive e prospera in tali rapporti come il pesce nella propria acqua”. E Renda conclude: “Il compito di annullare tali rapporti è compito della società, della politica, delle istituzioni, del potere, e la liberazione da tali rapporti è da intendersi come un’autoliberazione”. Società, politica, istituzioni, potere diciamo con Renda a intendere Stato. La fine della mafia non si dà come soppressione di un ente, la mafia, altro dallo Stato, ma come soppressione dei costitutivi rapporti Stato-mafia, intrinseci e vitali, ciascuno a suo modo, ai due enti. Si comprende allora quanto falsificante sia la rappresentazione convenzionale che quotidianamente ci viene propinata dal cinema, dal dibattito televisivo e in gran parte della pubblicistica. Essa riguarda una mafia non più esistente, da intravedere forse proprio nella vicenda della “trattativa Stato-mafia” agli esordi degli anni Novanta, con le sue estreme (e per questo sanguinarie) imprese e le sue mediatiche (e per questo popolate in gran confusione di comprimari e di seconde parti) propaggini. Benevento. Mirko poteva salvarsi, ad ucciderlo è stato il carcere di Viviana Lanza Il Riformista, 1 ottobre 2021 Il caso del detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Benevento non va archiviato come l’ennesimo suicidio, l’ennesimo dramma su cui far calare presto il silenzio e l’indifferenza. Il caso di Mirko, il detenuto che si è impiccato l’altro pomeriggio in cella, deve far riflettere sulle troppe lacune del sistema penitenziario, soprattutto in fatto di diritti e salute mentale. Forse Mirko si sarebbe potuto salvare. Viene da pensarlo ripercorrendo la sua storia e ascoltando la denuncia del garante campano dei detenuti sui numeri, troppo esigui, di psichiatri all’interno delle strutture carcerarie campane. Mirko aveva 27 anni. Nato e cresciuto ai Quartieri Spagnoli, aveva avuto un’infanzia difficile, la madre morta tragicamente e prematuramente, il padre detenuto. Appena maggiorenne era finito in carcere per rapina. Non è stata la prima volta: Mirko aveva precedenti per oltraggio a pubblico ufficiale e comportamenti aggressivi sempre contro le forze dell’ordine. Di recente gli erano costati il ritorno in cella. Mirko era stato recluso prima nel carcere di Catanzaro, dove la visita medica disposta dalla direzione aveva rilevato un disturbo della personalità, e poi, ad agosto scorso, nel carcere Pagliarelli di Palermo. Lì Mirko aveva provato a togliersi la vita ingerendo vetro: fu subito soccorso e operato d’urgenza. A quel punto fu deciso di fargli cambiare nuovamente carcere. Il trasferimento questa volta lo aveva condotto a Benevento. La casa circondariale campana ha un’articolazione per i detenuti con problemi di salute mentale ma non può garantire un’assistenza fissa perché gli psichiatri lavorano su turni part time, tre volte alla settimana. Mirko, appena arrivato a Benevento, era stato messo in isolamento sanitario. Da quando c’è la pandemia funziona così per ogni nuovo detenuto che arriva in una struttura penitenziaria e Mirko, che era già al terzo trasferimento, lo sapeva bene. Doveva rimanerci, come da prassi, dieci giorni da solo nella cella. Ma questa volta da solo Mirko non ha resistito. Al terzo giorno di reclusione ha creato un cappio con il lenzuolo e si è lasciato andare. Quando l’agente della penitenziaria se ne è accorto era tardi. Domani sul corpo sarà eseguita l’autopsia. La famiglia di Mirko si farà assistere dall’avvocato Roberto Chignoli. Il carcere di Benevento è un carcere dove ci sono cinque posti in articolazione psichiatrica, dove c’è una sezione per detenuti accusati di reati sessuali, c’è una sezione femminile e una di alta sicurezza. Non può definirsi un piccolo carcere, eppure il garante campano Samuele Ciambriello ha dovuto battere i pugni, la scorsa estate, per fare in modo che fossero inseriti nella pianta organica due tecnici della riabilitazione, seppure part-time. La guardia medica è sempre presente ma è ovvio che non può sopperire alla mancanza di un presidio fisso di assistenza per i detenuti con problemi di salute mentale. “Deve far riflettere - osserva Ciambriello - che i tre suicidi che ci sono stati nell’arco di poco più di un anno a Benevento non hanno riguardato detenuti che erano in cella da anni o che avevano una condanna di anni da scontare, ma detenuti arrivati da tre, cinque, dieci giorni”. Deve far riflettere perché ogni detenuto dovrebbe, appena varcata la soglia di un carcere, avere un colloquio con un medico, con uno psicologo, con un educatore, ma se in tutte le carceri le risorse umane sono al minimo è facile immaginare che in qualche criticità si incorra. “Risulta chiaro - spiega Ciambriello - che gli psichiatri vanno in questo carcere, come in tanti altri, alterandosi su turni, invece sarebbe necessario un presidio fisso di almeno due figure per ogni struttura penitenziaria: uno per l’articolazione di salute mentale e uno per tutti gli altri detenuti”. Non vuol dire psichiatrizzare il carcere, ma intervenire in maniera mirata. “Se avessimo un boom di detenuti con l’epatite non avremmo bisogno di più psichiatri ma di più medici specializzati”, aggiunge Ciambriello per spiegare il grande buco nero del sistema penitenziario. Benevento. Giovane detenuto suicida, indagato un medico dell’Asl ottopagine.it, 1 ottobre 2021 Omissione in atti di ufficio e morte come conseguenza di altro delitto: sono le ipotesi di reato prospettate a carico di un medico dell’Asl, in servizio presso il Dipartimento di salute mentale, ‘avvisato’ dal sostituto procuratore Maria Colucci in vista dell’autopsia del 27enne napoletano che lunedì si è tolto la vita nel carcere di Benevento. Un atto dovuto per consentire al professionista - difeso in questa fase dall’avvocato Fabio R usso - di nominare un suo specialista che partecipi all’esame. Altrettanto potranno fare, ovviamente, il papà ed il fratello, della vittima, assistiti dall’avvocato Roberto Chignoli. L’incarico sarà affidato martedì prossimo dal Pm al medico legale Umberto De Gennaro e al dottore Alfonso Tramontano, che si occuperà della consulenza psichiatrica attraverso la valutazione della documentazione riguardante il giovane. Che, come si ricorderà, era stato trovato impiccato nella sua cella, a distanza di due giorni dal momento in cui era arrivato da Palermo. Sul caso era intervenuto il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. “Le persone affette da problemi psichici devono evitare il carcere - aveva tuonato -. È incompatibile perché nel medesimo non vengono adeguatamente curate. Uno scandalo”. “Contrariamente alle altre volte - aveva aggiunto -, non intendo interrogarmi sulle cause che hanno indotto il giovane detenuto, con problemi psichici, a compiere il gesto estremo, Non intendo farlo né per sfuggire alla disamina attenta ed approfondita del dato né per trattare la triste notizia con superficialità ma semplicemente perché la risposta, è ben nota a tutti coloro che sono responsabili di questo ulteriore tragico evento. Solo ed esclusivamente le Istituzioni che ai vari livelli: sanitario, dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura, Dipartimenti di salute mentale e in primis la politica finta e pavida. Che la retorica lasci spazio ai facta concludentia. In presenza di soggetti affetti da problemi psichici per una cura dei medesimi presso strutture alternative laddove possibile, diversamente, se obbligati a rimanere in carcere, che vengano seguiti e monitorati da figure professionali ad hoc e a tempo pieno: in primis Psichiatri, tecnici della riabilitazione, psicologi, assistenti sociali. A Benevento, e in tantissimi Istituti penitenziari della Campania non è così” Pordenone. Morto in cella a 29 anni, al processo il giudice dispone la perizia di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 1 ottobre 2021 Colpo di scena al processo che vede imputato per omicidio colposo a seguito della morte in ospedale di un detenuto l’allora medico del carcere di Pordenone. All’udienza fissata per la discussione, il giudice monocratico Piera Binotto ha invece valutato la necessità di disporre una perizia collegiale per precisare le cause del decesso del giovane portogruarese Stefano Borriello, deceduto a 29 anni il 7 agosto 2015. Quella sera era stato colto da un malore in cella circa un’ora prima del ricovero in ospedale. Il processo nasce da un’imputazione coatta, dopo due richieste di archiviazione da parte del pm, opposte dai familiari della vittima. Nel capo di imputazione viene evidenziato che il giorno prima del decesso non sarebbe stata diagnosticata un’infezione polmonare e È stato nominato consulente tecnico d’ufficio Stefano D’Errico, dell’istituto di medicina legale di Trieste, che all’udienza di ieri mattina in tribunale ha prestato giuramento. Sarà coadiuvato da uno pneumologo, il professor Andrea Vianello, direttore dell’unità di pneumologia a Padova. L’incarico sarà conferito al professore alla prossima udienza, fissata per domani. I consulenti tecnici del giudice avranno quindi 90 giorni di tempo per depositare le loro conclusioni. L’esito della perizia sarà discusso l’anno prossimo. L’11 marzo è già stato fissato l’esame dei periti. Ai consulenti tecnici d’ufficio del giudice il compito di determinare se, in base agli atti del procedimento e in particolare al diario clinico-infermieristico si possano ravvisare comportamenti colposi da parte dei sanitari che hanno prestato assistenza al giovane detenuto e un eventuale nesso causale fra le condotte del personale e il decesso. L’avvocato Manlio Contento, che assiste l’imputato, ha evidenziato come il giudice abbia usato la parola sanitari al plurale. Sul banco degli imputati, però siede solo l’allora medico del carcere. “Siamo tranquilli - ha commentato il difensore di fiducia del medico- perché riteniamo che non ci siano elementi per poter arrivare a un giudizio di responsabilità nei confronti del mio assistito”. Salerno. Sommossa in carcere, indagati 17 detenuti di Viviana De Vita Il Mattino, 1 ottobre 2021 Armati di spranghe di ferro, divelte dalle brande, sfondarono i finestroni esterni del carcere e abbatterono le grate. Dopo essere riusciti a salire sul tetto, circa cento detenuti del penitenziario di Fuorni, cominciarono a lanciare pietre e detriti contro il personale della polizia penitenziaria riunito nel piazzale di via del Tonnazzo in assetto antisommossa. Distrussero completamente il sistema di videosorveglianza interno, le telecamere dei corridoi, gli impianti di illuminazione e diedero fuoco ai materassi incendiando i locali del secondo piano del penitenziario. Era il 7 marzo 2020 e in un clima spettrale per l’allerta coronavirus, nel carcere di Salerno era appena stata annunciata la sospensione dei colloqui tra i detenuti e i loro familiari. Fu questa la scintilla che fece esplodere la rivolta. Devastazione è l’ipotesi di reato formulata dai sostituti procuratori Katia Cardillo e Claudio D’Alitto che, a 18 mesi di distanza da quella folle sommossa, hanno chiuso il cerchio chiedendo il giudizio per diciassette persone, le uniche individuate tra i circa cento rivoltosi al termine di serrate indagini. L’appuntamento è per il prossimo 19 novembre nell’aula della cittadella giudiziaria davanti al Gup del tribunale di Salerno Alfonso Scermino e al ricco collegio difensivo (avvocati Stefania Pierro, Lucia Miranda e Antonio Pentone). Rischiano il processo in 17, tutti, all’epoca dei fatti, erano detenuti a Fuorni. Lunghe e complesse, le indagini espletate dalla Procura hanno ricostruito le singole fasi di quella folle sommossa all’esito della quale due agenti della polizia penitenziaria finirono al pronto soccorso dopo essere stati costretti a lanciarsi dai finestroni nel cortile esterno del penitenziario con i tubi antincendio usati come corda. La follia andò in scena alle 14,30 del 7 marzo 2020 e furono necessarie 180 unità di varie forze di polizia per frenare i rivoltosi che furono domati solo sei ore dopo. I detenuti agirono facilmente, approfittando del regime custodiale “aperto” e, dopo essersi impossessati con violenza delle chiavi dei cancelli di sbarramento delle sezioni A e B, acquisirono il controllo di tutto il secondo piano dell’edificio che ospitava 106 detenuti. Il film, ricostruito dalla Procura, mostra le scene di quella che si configura come una vera e propria devastazione. I rivoltosi lanciarono lungo le scale le brande dei letti e una scrivania sbarrando così il passaggio al personale che fu in tal modo immobilizzato; quindi rovesciarono sul pavimento la polvere degli idranti del sistema antincendio e si armarono con tutto ciò che riuscirono a reperire: piedi dei tavoli, brande metalliche smontate, mattoni e calcinacci. Con quegli arnesi distrussero tutto riuscendo persino ad abbattere le grate in ferro dei finestroni aprendo così dei varchi attraverso i quali salirono sul tetto. Sul posto sopraggiunse anche un elicottero della polizia che per ore sorvolò l’area dell’istituto penitenziario. Le immagini di quella rivolta divennero virali in un’Italia sconvolta dalle continue chiusure e dalle incessanti limitazioni imposte dal Governo per far fronte alla fase più acuta della pandemia. Oggi, a distanza di un anno e mezzo dai fatti, ai 17 imputati è stata notificata la richiesta di rinvio a giudizio. Rieti. Il Garante dei detenuti Lazio riferisce sulle rivolte del 2020 askanews.it, 1 ottobre 2021 Gli ispettori del ministero nella Casa circondariale per fare luce su quanto accaduto. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, si è recato ieri nella Casa circondariale Rieti Nuovo complesso, per essere ascoltato dalla Commissione ispettiva del ministero della Giustizia, costituita per fare luce sulle rivolte avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, quando è iniziata l’emergenza Covid-19. La commissione, presieduta da Sergio Lari, è a Rieti, per acquisire informazioni su quanto è accaduto nel Lazio, nelle carceri di Frosinone, Rebibbia, Rieti e Velletri, dove si sono verificati tumulti tra la popolazione detenuta. Il Garante Anastasìa ha riferito quanto a sua conoscenza. Gli istituti penitenziari oggetto di attività ispettiva sono in totale 22. A conclusione dei lavori, la commissione consegnerà una relazione ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) sull’origine delle rivolte e sui successivi comportamenti adottati dagli operatori. Trani. Parlamentari in visita alle carceri: “Recuperare gli ambienti per recuperare i detenuti” di Giuseppe Di Bisceglie pugliaviva.it, 1 ottobre 2021 A Trani occorrono lavori. A Spinazzola, una struttura da 70 posti, è rimasta attiva per soli sei anni. Ora è abbandonata. La funzione del carcere è quella di riabilitare i detenuti. Ciò può essere possibile soltanto se le strutture carcerarie sono idonee a garantire un sereno percorso di recupero. È quanto ribadiscono le parlamentari del Movimento Cinque Stelle Bruna Piarulli e Cinzia Leone che questa mattina hanno fatto visita all’istituto penitenziario di Trani. Nell’ultimo periodo il carcere di Trani è balzato agli onori delle cronache per l’evasione di due detenuti e per il decesso di un altro detenuto, le cui condizioni di salute erano state dichiarate incompatibili con il regime carcerario. Il triste evento fu occasione per il garante dei detenuti di denunciare le cattive condizioni della struttura. Le senatrici pentastellate hanno voluto verificare coi propri occhi le condizioni del penitenziario tranese. “A livello nazionale la situazione delle carceri è molto critiche. Ci sono problematiche ataviche come il sovraffollamento, strutture fatiscenti e carenza di personale. A Trani c’è stata l’apertura di un nuovo plesso che necessitava anche di personale di polizia penitenziaria, con conseguente chiusura della sezione blu proprio per le sue condizioni fatiscenti” commenta la senatrice Piarulli che del carcere di Trani è dirigente in aspettativa. È stata lei infatti ad essersi interessata alla chiusura della sezione che necessita di lavori in particolare dei servizi igienici, poiché qui vi sono ancora i bagni a vista. Le fa eco la collega senatrice Cinzia Leone che è vice presidente al Senato della commissione sui femminicidi. “Il tema della condizione e della conduzione delle carceri è un tema che mi sta a cuore. Occorre intervenire subito: non accetto che il carcere possa diventare una discarica sociale, una società ai margini che non appare nemmeno nell’agenda politica” spiega la parlamentare siciliana. La necessità di provvedere ad una migliore edilizia carceraria è stata evidenziata anche dal senatore di Forza Italia Dario Damiani, intervenuto ad una conferenza a Spinazzola. “Qualche mese fa abbiamo consegnato il nuovo padiglione del carcere di Trani. Adesso bisogna provvedere alla vecchia struttura. Bisogna anche intervenire sulla struttura del carcere femminile, spostandola dall’attuale collocazione fatiscente ubicata nel centro di Trani verso la struttura di via Andria. Si tratta di operazioni già in cantiere, ora si attende la conclusione delle rifiniture”. A fronte di problemi legati al sovraffollamento carcerario, tuttavia, si registrano casi di istituti penitenziari anche di recente costruzione, dismessi. È il caso del carcere di Spinazzola, aperto nel 2005 e chiuso 6 anni dopo. Attualmente la struttura è abbandonata. Nel corso di un incontro elettorale, la questione è stata portata all’attenzione del sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. L’impegno del Governo è quello di restituire alla fruizione una struttura che avrebbe potuto ospitare 70 detenuti. “Ho preso l’impegno di valutare attentamente questa situazione perché mi sembra singolare che un carcere aperto nel 2005 debba restare chiuso e fermo. Vedremo tutto quello che si può fare per restituire, anche parzialmente, questa struttura alla sua funzione di architettura carceraria. Perché il carcere non è solo il luogo della pena ma anche il luogo del recupero del detenuto” ha affermato l’esponente del Governo. Quello dell’edilizia penitenziaria non è soltanto un problema di cui si discute ai tavoli politici. Anche secondo il presidente dell’ordine degli avvocati di Trani, Tullio Bertolino, occorre essere attenti alla questione. “Occorre evitare le porte girevoli, persone che entrano ed escono in poco tempo e raggiungere l’obiettivo di una giustizia riparativa che punti ad un percorso di tipo psicologico e riabilitativo dei condannati. Perseguendo questi obiettivi si può dare una risposta anche al problema del sovraffollamento carcerario” fa notare l’avvocato Bertolino. Alba (Cn). La storia dei 15 detenuti tornati tra i filari a raccogliere le uve per “Valelapena” La Stampa, 1 ottobre 2021 È tempo di vendemmia anche tra le mura del carcere di Alba. Ieri una quindicina dei detenuti all’interno della casa di reclusione Giuseppe Montaldo di Alba, ora diventata casa lavoro, hanno completato la raccolta dei grappoli di nebbiolo e barbera che serviranno a produrre il Valelapena, l’ormai celebre vino realizzato grazie al lavoro congiunto tra la direzione del carcere, l’ente formativo Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, la Scuola enologica “Umberto I” e il supporto di Syngenta Italia. Con loro, c’era anche il consigliere comunale albese e vignaiolo di professione Mario Sandri. “Il lavoro in vigna non si è mai fermato, neppure durante la pandemia e i vari cambiamenti che hanno interessato la casa di reclusione albese - spiega Giuseppe Bertello, insegnante e direttore tecnico del progetto Valelapena -. I ragazzi coinvolti si sono dimostrati molto volenterosi e ci hanno consentito di portare avanti i progetti agricoli, compreso il noccioleto e la serra”. L’idea di creare il vino Valelapena è nata nel 2006: “Produciamo duemila bottiglie di Nebbiolo e di Barbera e grazie a questo progetto ogni anno una quindicina di detenuti ottengono la qualifica di operatore agricolo” spiega ancora Bertello. Alla vinificazione pensa l’Istituto enologico di Alba, che ogni anno ottiene un vino rosso rubino dal sapore morbido e dall’alto significato sociale. “Quest’anno gli studenti non sono potuti venire a vendemmiare con i detenuti, ma ci saranno altre occasioni - conclude -. A conferma del ruolo che l’agricoltura può svolgere nel recupero sociale e professionale di chi sta scontando una pena, ogni anno almeno un paio di ex reclusi che hanno seguito i nostri corsi riescono a trovare lavoro nelle aziende agricole del territorio”. Roma. Rimpatri forzati e tutela dei diritti fondamentali Il Dubbio, 1 ottobre 2021 Oggi, a partire dalle 9,15, si terrà a Roma, a Palazzo Merulana, il convegno dal titolo “Rimpatri forzati e tutela dei diritti fondamentali. La rotta del Mediterraneo e le sfide del presente”, organizzato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, come avvio del nuovo progetto nell’ambito del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (Fami) 2014- 2020. L’iniziativa si propone di fotografare lo stato dell’arte dei rimpatri forzati e delle misure messe in campo per la tutela dei diritti delle persone in una fase difficile connotata per molti quale fallimento di una ipotesi diversa di vita. Per questo saranno resi noti i dati aggiornati (al 15 settembre 2021) sull’andamento dei rimpatri forzati dall’Italia, che nell’ultimo anno hanno riguardato cinquantatré Paesi di destinazione. Verrà inoltre proposta una riflessione sulla Tunisia, che sta attraversando un momento particolare e rimane il Paese verso cui l’Italia realizza più rimpatri. In occasione del convegno sarà inoltre pubblicato il Rapporto tematico sui monitoraggi svolti dal Garante nazionale tra gennaio 2019 e giugno 2021, contenente le raccomandazioni inviate alle amministrazioni competenti. Oltre a Mauro Palma, Presidente del Collegio del Garante nazionale, parteciperanno, tra gli altri, Michele Di Bari, Capo dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Gennaro Migliore, presidente dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Pam), Piero Rossi, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Puglia, Tommaso Palumbo della Direzione centrale immigrazione e Polizia delle frontiere. Nella seconda parte della mattinata ci si concentrerà sulle sfide del presente con la tavola rotonda, moderata da Daniela de Robert del Collegio del Garante nazionale, con Arianna Poletti, giornalista, Majdi Karbai, parlamentare tunisino e Corrado Quinto, consigliere tecnico principale in giustizia e diritti umani, United Nations Development Programme (Undp) Tunisia. Le conclusioni sono affidate a Jean Pierre Cassarino del Collegio d’Europa. Lo Stato e le crepe più larghe di Sabino Cassese Corriere della Sera, 1 ottobre 2021 Immersi nelle urgenze della gestione quotidiana, gli amministratori, i politici e i burocrati operano “a sentimento”, prescindendo dalla realtà da regolare. Quale è lo stato di salute delle istituzioni? La pandemia vi ha lasciato ferite, e queste sono sanabili? Quale futuro esse promettono? L’Italia ha dimostrato quello che da tempo i migliori studiosi di scienze organizzative rilevano: sappiamo fronteggiare eventi straordinari, molto meno l’ordinario. Le istituzioni hanno retto, nonostante che una buona parte di esse si sia fermata per la pandemia, nonostante i livelli retributivi bassi, nonostante i tanti assunti senza concorso per pressioni sindacali o fame di posti di politici di passaggio (alcuni si sono persino vantati di aver immesso in ruolo decine di migliaia di avventizi), nonostante che lo Stato debba fare sempre più ricorso a organismi satelliti per colmare le proprie debolezze, nonostante che nel settore pubblico vi sia miseria senza nobiltà. Nell’edificio pubblico, però, si vedono crepe che si allargano sempre di più. La prima riguarda la separazione dei poteri, progressivamente sostituita dalla condivisione o dalla confusione dei poteri. Il governo, da due anni ormai, legifera a furia di una media di quattro decreti legge al mese. Il Parlamento, al quale spetta la funzione legislativa, legittima questa invasione, ma ci aggiunge del suo: i decreti legge, dopo la conversione in legge, “pesano” un terzo in più, talvolta raddoppiano la lunghezza, perché il ramo legislativo vi aggiunge nuove norme. Queste nuove norme sono a volte estranee alla materia trattata e servono a soddisfare esigenze in larga misura localistica, o settoriale, o corporativa, o perché il governo si ricorda all’ultimo minuto di nuove esigenze. Se l’esecutivo esonda nel legislativo, quest’ultimo a sua volta ambisce a fare norme e ad applicarle, tante sono le leggi “autoesecutive”, così dettagliate da non lasciare spazio alla discrezionalità delle amministrazioni. L’ordine giudiziario, a sua volta, occupando gli uffici dell’apposito ministero con i suoi magistrati, gestisce l’organizzazione e il funzionamento dei servizi della giustizia, che spetterebbero all’esecutivo e, in nome di un autogoverno della magistratura che non sta scritto nella Costituzione, fa valere le proprie esigenze corporative nella legislazione in materia di giustizia, intervenendo anche nell’arena politica. Intanto, il Csm assiste senza batter ciglio al coma della giustizia. Nessuno, dunque, fa il mestiere proprio. Si sente l’assenza di “regolatori del traffico”. Arriva ora il Piano di ripresa, che dominerà la scena delle istituzioni per il prossimo quinquennio. Ma anche per gestire questo intervento straordinario occorre prepararsi, cominciando dalle conoscenze. La gestione degli Stati moderni richiede accurata analisi della realtà da regolare e una completa informazione sulle proprie attività. Immersi nelle urgenze della gestione quotidiana, gli amministratori, politici e burocrati, operano “a sentimento”, prescindendo dalle une e dall’altra. Ad esempio, come si può intervenire sul reddito di cittadinanza o sulle pensioni, se non si possiedono dati precisi sui beneficiari, sui controlli svolti dagli uffici pubblici, sui loro risultati? Ha ragione la Corte dei conti quando osserva che tutta l’attenzione viene prestata al bilancio di previsione, mentre è il rendiconto che, insieme con il giudizio di parificazione, consente di verificare quanto si è realizzato. L’aver imposto norme di trasparenza è servito a soddisfare curiosità voyeuristiche, non a conoscere meglio e a far conoscere quel che lo Stato fa (quanti dipendenti sono entrati senza concorso, quante autorizzazioni vengono date per anno, qual è lo stato di attuazione delle leggi, per fare solo qualche esempio). La stessa Corte dei conti, invece di inseguire con controlli preventivi ogni singolo atto, dovrebbe concentrare i suoi sforzi su questa attività conoscitiva, come ha fatto di recente la sua Sezione delle autonomie: questa ha rilevato che, per evitare sanzioni, il venti per cento delle società partecipate da Stato ed enti pubblici elude obblighi imposti dal codice civile, come l’approvazione dei bilanci annuali. Per trasmettere una visione del futuro e diventare quindi capaci di dare fiducia ai cittadini, che è il compito principale dei poteri pubblici, questi debbono impegnarsi a ricostituire le grandi reti dei servizi pubblici, a partire dalla sanità e dalla scuola, rimediando alle lacerazioni che si sono prodotte in questi anni: abbiamo visto che i rispettivi ministeri non conoscono neppure lo stato dei servizi a livello territoriale e che questi ultimi non possono contare sugli uffici centrali, quando ne hanno bisogno. Il secondo compito al quale dedicarsi con urgenza è quello di non dover contare sempre sulla spesa pubblica per mantenere la pace sociale. Gli anni dell’abbondanza finiranno presto, e allora la pace sociale andrà ricercata con altri mezzi, rendendo più produttivi i servizi pubblici, e quindi facendo riforme per migliorarne la gestione. Infine, il Piano di ripresa e i suoi innovativi strumenti si affiancano oggi alle fatiscenti strutture e procedure pubbliche. Bisognerà essere pronti a trasferire i primi nella gestione ordinaria, in modo che questa diventi più moderna. Polonia-Bielorussia: “Al confine per i richiedenti asilo la situazione è raccapricciante” di Alessandra Fabbretti * La Repubblica, 1 ottobre 2021 Il governo polacco li considera migranti irregolari e così gli agenti di frontiera sono autorizzati a respingerli verso il Paese confinante. I migranti vengono sospinti verso una zona boscosa dove solo persone esperte sanno orientarsi. “La situazione dei richiedenti asilo al confine tra Polonia e Bielorussia è raccapricciante, i diritti umani non esistono più: il governo polacco li considera migranti irregolari e gli agenti di frontiera sono autorizzati a respingerli verso la Bielorussia. Riceviamo anche denunce di smartphone distrutti. I poliziotti costringono queste persone ad andare addirittura verso una zona boscosa tra Polonia, Bielorussia e Lituania dove solo persone esperte sanno orientarsi. Senza i cellulari, i profughi non possono chiedere aiuto e così si perdono: a volte vengono tratti in salvo, a volte trovati morti”. E’ questo il racconto che Olga Bibbiani fa all’Agenzia Dire. I volontari non possono neanche avvicinarsi ai profughi. Origini italiane, da qualche anno residente a Varsavia, Bibbiani si è laureata in Sociologia e quando non lavora, fa la volontaria per i tanti migranti che bussano alle porte dell’Europa: “Sono sempre gruppi piccoli, di massimo trenta persone. La Polonia rappresenta un Paese di transito per raggiungere altri Paesi dell’Unione Europea. Tra loro ci sono iracheni, yemeniti, iraniani, siriani e ora anche parecchi afghani”, segno della crisi che è scoppiata 5.000 chilometri più a Est, nel Paese centro-asiatico dopo la presa del potere il mese scorso a Kabul da parte dei talebani. Con l’inverno alle porte, ai volontari come Bibbiani le autorità vietano di raggiungere i profughi appena arrivati: “Non possiamo neanche avvicinarci, figuriamoci dargli cibo, acqua e vestiario. Non lasciano passare neanche i medici”. Trovati quattro corpi di persone morte di freddo. A confermare che la situazione è grave, la denuncia di pochi giorni fa dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) e dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (OIM), che hanno constatato il ritrovamento di quattro corpi al confine tra Bielorussia e Polonia, due dei quali morti per ipotermia. Contro questa situazione, ieri si è svolta una manifestazione davanti la sede della polizia di frontiera a Varsavia. A organizzarla, ‘Grupa Granica’, rete che riunisce una dozzina di Ong impegnate nell’assistenza ai profughi al confine: “Hanno denunciato a gran voce le violenze subite dai migranti da parte degli agenti di frontiera - riferisce Bibbiani - e hanno chiesto all’Unione Europea di intervenire inviando forze dell’ordine internazionali per prevenire gli abusi e permettere che queste persone possano presentare la richiesta di asilo, invece di essere respinti”. I complicati rapporti con Bruxelles. Il corteo a Varsavia è anche occasione per denunciare gli abusi che subiscono i migranti in Belorussia. Di recente le autorità di Minsk sono state a loro volta accusate di respingere i migranti verso la Lituania e la Lettonia e di lasciarli intenzionalmente passare fino a raggiungere le frontiere occidentali, al fine di fare pressioni sull’Unione europea. Con Bruxelles, i rapporti si sono complicati dopo che, all’indomani della sesta vittoria alle urne del presidente Lukashenko, un anno fa, a cui è seguita la repressione del movimento di protesta, l’Ue ha fatto scattare le sanzioni economiche contro il Paese e contro vari dirigenti del governo. Minacciare di aprire le frontiere e far entrare i migranti in Europa secondo gli analisti diventa allora un’arma di ricatto. La strumentalizzazione dei migranti. “La verità è che tutti i Paesi della regione stanno strumentalizzando i migranti” osserva la sociologa. Le accuse di “rimpallo” di profughi e richiedenti asilo hanno colpito infatti anche Riga e Vilnius. Ad agosto, nel mezzo della crisi afghana e dell’aumento dei profughi da quel Paese, i governi di Polonia, Lettonia e Lituania hanno accusato Minsk di “usare i profughi come arma per destabilizzare la regione”. All’incontro tra i leader di questi paesi “mancava un rappresentante Ue” evidenzia Bibbiani, “perché Bruxelles nonostante tutti i suoi discorsi, non ha nessuna intenzione di adottare una politica migratoria definita e rispettosa dei diritti umani”. E in questo “grande gioco” ci sarebbe un vincitore: la Russia. “Tutti i paesi che separano l’Afghanistan dall’Ue sono ex repubbliche sovietiche. Mosca sa che questo indebolisce l’Ue” avverte Bibbiani, che si dice convinta del fatto che l’Europa non abbia “fatto abbastanza” per dare manforte al movimento democratico bielorusso proprio per “non rovinare i rapporti con Mosca”. La crisi afghana sullo sfondo. Sullo sfondo, la crisi afghana e quel mezzo milione di esuli previsti dalle Nazioni Unite entro l’anno: vari osservatori - tra cui il rappresentante civile della Nato, Stefano Pontecorvo - hanno evidenziato che l’uscita della missione Nato a guida americana dall’Afghanistan e l’arrivo dei talebani al potere sarebbe stata una manna per Mosca, perché ex repubbliche sovietiche come Kazakistan, Uzbekistan e Tajikistan - preoccupate dall’insorgere del terrorismo nell’area - ora si stringeranno al governo Putin. Il partito del presidente, Russia Unita, ha anche riottenuto la maggioranza alla Duma alle legislative dello scorso weekend. I polacchi non si fidano né dei russi né dei tedeschi. Tra Unione Europea e Russia però, c’è la Polonia: “I polacchi non si fidano né dei russi né dei tedeschi perché in tanti ancora ricordano ciò che è successo durante la seconda guerra mondiale e la guerra fredda” riferisce ancora Bibbiani, che aggiunge: “gli europeisti sono tanti e tutti temono una ‘PolExit’. L’Ue però è lontana, mentre qui lo stato di diritto vacilla: il governo sta mettendo mano nell’indipendenza della giustizia, dei media, delle donne e della comunità Lgbt” avverte l’attivista, in riferimento alle riforme del meccanismo di selezione dei giudici della Corte suprema, alle nuove norme sulle emittenti tv, alla legge che vieta l’aborto e alla proclamazione di varie “zone libere dalle persone Lgbt”. Nonostante questo e la retorica anti-migranti, il governo di Varsavia ha deciso di dare rifugio a tanti oppositori di Lukashenko, e resta da capire che impatto avrà negli equilibri politico-sociali questa nuova presenza di persone animate per lo più dai valori democratici: “Tra le strade di Varsavia è sempre più comune sentir parlare bielorusso”, assicura Bibbiani. La finta riforma delle carceri egiziane di Rania al Malky Internazionale, 1 ottobre 2021 Il presidente Abdel Fattah al Sisi vuole realizzare nuove strutture detentive, nell’ambito del suo piano per “proteggere i diritti umani”. Ma è solo un’operazione di facciata. Pochi giorni dopo aver lanciato la prima strategia nazionale per i diritti umani, durante un’intervista trasmessa in tv il 15 settembre, il presidente Abdel Fattah al Sisi ha annunciato l’inaugurazione del più vasto complesso carcerario d’Egitto. È assodato che più grande è la menzogna, più persone ci crederanno. La cerimonia per la presentazione del piano sui diritti umani è cominciata con un “documentario”: una narrazione dalla sceneggiatura ineccepibile, con tanto di riprese fatte con i droni, inquadrature mozzafiato e persone felici e sorridenti che chiedono uguaglianza nei diritti di cittadinanza e la fine delle discriminazioni. Sono otto minuti che tengono dentro tutto. Una donna cristiana chiede di praticare liberamente la sua fede; una ragazza chiede istruzione; un bambino chiede protezione da ogni tipo di violenza. Compare perfino un detenuto che invoca la riabilitazione mentre svolge diligentemente le sue faccende quotidiane in un impeccabile istituto carcerario. Il narratore elenca successi senza precedenti soffermandosi sugli sforzi dell’esercito per tenere a bada i terroristi cattivi: programmi di religione aggiornati, più donne in politica e nella magistratura, leggi a tutela dei minori, armonia interconfessionale e alloggi a basso costo per coppie giovani e felici. La ciliegina sulla torta è una sequenza che descrive come la costituzione garantisca la libertà di espressione online, sulla stampa e in radio e in tv. Nota a margine: in Egitto più di 630 siti internet sono bloccati. Tra questi ci sono 118 testate giornalistiche e 16 siti che si occupano di diritti umani. Intanto, in un universo parallelo, le terribili condizioni delle carceri egiziane sono ben documentate: torture sistematiche rese possibili da detenzioni arbitrarie di massa, senza un processo regolare; condizioni inumane e crudeli, che vanno dalla mancata distribuzione dei pasti all’isolamento prolungato, fino alle cure e ai farmaci negati. Secondo un rapporto del 2020 di Ifex, una rete internazionale di ong che si occupano di diritti umani, 917 detenuti sono morti in Egitto tra il giugno del 2013 e il novembre del 2019, con un drastico aumento nel 2019. Il rapporto spiega che 677 decessi sono stati causati da negligenza medica e 136 da torture. Il drammatico collasso dell’unico presidente democraticamente eletto del paese, Mohamed Morsi, avvenuto in un’aula di tribunale nel 2019 dopo settimane in isolamento, e la successiva morte sono stati definiti da un gruppo indipendente di esperti dell’Onu una potenziale forma di “uccisione arbitraria di stato”. Quella morte in pubblico è stata un sintomo della negligenza deliberata che subiscono i circa 60mila prigionieri politici in Egitto. Secondo un rapporto dell’aprile 2021 dell’Arabic network for human rights information, dalla rivoluzione del 2011 il numero di carceri nel paese è passato da 43 a 78. Ma l’aumento della capienza non ha migliorato le condizioni di vita dei detenuti né le strutture. Il processo contro Patrick Zaki, l’attivista egiziano e studente dell’università di Bologna arrestato al Cairo nel febbraio del 2020, è stato aggiornato al 7 dicembre 2021. L’udienza del 28 settembre al tribunale di Mansura, la città di origine di Zaki, è durata due minuti (un’altra udienza si era svolta il 14 settembre). Il rinvio è stato chiesto dalla legale di Zaki, Hoda Nasrallah, per poter studiare gli atti. Nasrallah ha chiesto al giudice una copia del fascicolo. In questo processo, Zaki è accusato di aver diffuso “false informazioni”, in un articolo sulla condizione dei cristiani copti, minoranza a cui lui stesso appartiene, che aveva scritto nel 2019. La pena prevista è fino a cinque anni di carcere. Le altre accuse che gli sono state rivolte, più gravi, sono di propaganda sovversiva e terroristica. Per queste rischia fino a venticinque anni di carcere, e non sono state ancora archiviate. Nel tentativo di placare le preoccupazioni internazionali per la vergognosa situazione dei diritti umani in Egitto, Al Sisi cerca di togliersi la spina nel fianco che ogni anno gli costa l’imbarazzo della sospensione degli aiuti militari statunitensi. Ma invece di riformare un sistema giudiziario guasto che ha chiuso in carcere migliaia di persone presumibilmente innocenti, colpevoli solo di essersi opposte al regime, ha fatto la cosa che gli riesce meglio: un’operazione di facciata. Costruirà strutture all’avanguardia in cui i detenuti potranno correre e giocare, e continuerà a ignorare l’abuso di fondo: queste persone non dovrebbero essere in carcere. Al Sisi ha fatto sapere che le nuove carceri saranno “in stile statunitense”. Con questo immagina un modello che prevede i lavori forzati, anche se accompagnati da pasti buoni e molto sole. Magari il presidente ci aggiungerà pure dei campi da basket. Qualcuno dovrebbe raccontargli i documentari che denunciano gli orrori dell’industria delle prigioni negli Stati Uniti, dove è detenuto il 25 per cento della popolazione carceraria del mondo. È ironico che Al Sisi voglia plasmare le strutture egiziane sul modello di un sistema pieno di abusi, di moderne forme di schiavitù e di detenzione di massa ingiustificata, invece di favorire un sistema di giustizia penale che metta i diritti umani davanti al profitto. E cosa dire delle migliaia di detenuti che aspettano dietro le sbarre? Dove si collocano nell’utopistica visione di Al Sisi? Quando vedranno un’aula di tribunale e saranno rappresentati equamente? Quale risarcimento avranno per le loro vite distrutte inutilmente, trascorse lontano dai figli e dalle famiglie? Questa brillante iniziativa include anche un paragrafo sulla riconciliazione e i risarcimenti alle famiglie dei detenuti morti in prigione? Al Sisi ricorda i loro nomi? Il danno è fatto. A meno che il regime non decida di guardarsi allo specchio ed espiare i peccati di cui continua a macchiarsi, nessuna operazione di facciata cambierà la realtà. Risolvere la questione dei prigionieri politici in Egitto è fondamentale per qualsiasi prospettiva a lungo termine in un paese democratico governato dallo stato di diritto e dal rispetto dei diritti umani e civili. Si dice che l’ignoranza svanisce con il tempo, ma ci vuole un grande sforzo per restare stupidi. Nel palazzo presidenziale egiziano stanno facendo sforzi enormi.