La proposta di Antigone: meno galera e più aiuti per chi rientra in società di Viviana Lanza Il Riformista, 19 ottobre 2021 “Un detenuto, in carcere, costa circa 143 euro al giorno e la maggior parte di questi fondi sono spesi per la custodia, quindi non per attività che potrebbero essere utili al fine del reinserimento. In area penale esterna, invece, il costo è di circa 12 euro al giorno”. Antigone analizza i dati relativi ai costi del sistema penitenziario. “Per questo - ragiona, alla luce di tali dati, l’associazione da anni impegnata per i diritti e le garanzie del sistema penale - chiediamo che siano aumentate le risorse per le alternative alla detenzione e che tutti i detenuti che ne hanno diritto, per pena o pena residua, vi accedano”. Di qui la proposta: “Le risorse risparmiate potrebbero essere investite per dare una continuità al sostegno ai detenuti alla conclusione della loro pena. Spesso, infatti, gli ex detenuti si ritrovano nella stessa situazione economica, personale o sociale che inizialmente li aveva portati a compiere un reato (e quindi in carcere) e che potrebbe quindi portarli a compiere ulteriori atti criminosi”. La proposta, dunque, è potenziare l’area penale esterna “o, meglio ancora - aggiunge Antigone - i servizi sul territorio per potenziare in maniera incisiva il servizio di accompagnamento per gli ex detenuti perché possano proseguire o cominciare eventuali percorsi di istruzione, formazione, ricerca di un lavoro o cura delle dipendenze”. Il settore dell’esecuzione penale esterna è un settore estremante ampio e complesso su cui il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha mostrato di voler investire. Le statistiche e le analisi su questo settore hanno rilevato che i percorsi fuori dal carcere, se ben strutturati, sono più sicuri e danno risultati ben più incoraggianti di quelli svolti all’interno del carcere. In Campania e a Napoli, però, bisogna fare i conti con una serie di criticità irrisolte. Le denuncia il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello: “L’ufficio di Napoli ha problemi antichi e radicali: primo fra tutti, la sede inadeguata per poter far lavorare tutti gli operatori e accogliere con dignità gli utenti; la carenza di personale, soprattutto nei ruoli amministrativi e di assistenti sociali; una mole di arretrati che si è determinata per molteplici fattori soprattutto legati agli avvenimenti degli ultimi anni”. Basti pensare che negli uffici di Napoli molti dipendenti sono andati in pensione e non sono stati sostituiti e i carichi di lavoro arretrati nella segreteria tecnica sono aumentati perché si contano solo tre operatori. Questi dati sono mersi durante l’incontro che il garante ha avuto con la nuova direttrice dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna di Napoli, Claudia Nannola. L’incontro è servito a fare il punto della situazione partendo da alcuni numeri: a livello nazionale, sono 103.172 le persone prese in carico dagli uffici di esecuzione penale alla data del 31 dicembre 2020, di cui 60.157 per le misure alternative e le sanzioni di comunità e 43.015 per indagini e consulenze. “In Campania - commenta Ciambriello - i numeri risultano essere cospicui a testimonianza del ruolo fondamentale degli Uffici di esecuzione penale esterna nel processo di decongestionamento delle carceri mediante un processo rieducativo che orienta e guida gli autori di reato all’interno della comunità”. Il totale dei soggetti presi in carico in Campania è di 14.952, di cui 8.426 soggetti per le misure alternative e le sanzioni di comunità e 6.626 per indagini e consulenze, dei quali 7.930 tra Napoli e provincia. “Consapevoli che gli obiettivi sono comuni, le difficoltà sono numerose e che i ruoli istituzionali sono diversi ma dialoganti e tesi alla ricerca di percorsi costruttivi e proficui, si è fiduciosi - ha affermato nel corso della riunione la direttrice Nannola - di ritrovare, anche nella speranza di uscire dal momento più difficile della pandemia, nuove strade più incoraggianti. È in corso una riorganizzazione dell’ufficio con una più razionale gestione delle risorse umane e con l’individuazione di modelli organizzativi più efficienti. Naturalmente nessun modello, per quanto ben organizzato, può supplire alla mancanza della risorsa umana”. Se la pena deve rieducare, perché vietano alle toghe di frequentare i condannati? di Massimo Donini Il Riformista, 19 ottobre 2021 L’articolo 3 del codice disciplinare dei magistrati vieta di frequentare consapevolmente una persona condannata a più di tre anni di reclusione. Eppure secondo l’articolo 27 della Carta le pene devono tendere alla rieducazione. E la riforma Cartabia punta a rafforzare la giustizia riparativa con programmi che coinvolgono anche i magistrati. Come la mettiamo? L’articolo 3, comma 1, lettera b) del codice disciplinare dei magistrati (D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109) vieta al magistrato di “frequentare persona …. che a questi consta… aver subito condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni… ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone”. L’illecito è equiparato espressamente a quello di frequentare un delinquente abituale o professionale. Ora dobbiamo chiederci quale sia il valore della verità processuale di una sentenza di condanna, che vale nel mondo del diritto, ma non in quello dei rapporti tra le persone o per il giudizio “storico” sui fatti. E qual è comunque il suo valore morale, se conduce a impedire quei rapporti perfino a chi pronunci “di mestiere” condanne a una pena che deve tendere alla rieducazione del con- dannato e non alla sua emarginazione sociale? Il magistrato non è il rappresentante di una moralità superiore - è quasi ironico il doverlo ricordare oggi, anche se lo abbiamo sempre pensato - ma deve solo rispettare disciplinatamente e con onore i pubblici uffici (art. 54 Cost.). Ebbene, come può la sua condotta non apparire portatrice di un’ipocrisia legalistica se si deve allontanare dall’umanità delle relazioni e non è neppure ammesso a provare, se rinviato al Csm per una violazione disciplinare, che aveva il diritto fondamentale di frequentare un condannato, perché nessuna ragione antigiuridica di pubblico interesse era sottesa a quelle relazioni? Certo, esistono doveri di stato che toccano a determinate persone in ragione della peculiare funzione, per come devono “apparire” e non solo essere, e che non riguardano altri. Ma qui si tratta di presunzioni assolute di non frequentabilità e di divieti che neppure ammettono prove contrarie e che sono assistite da diritti scriminanti. Non si può sanzionare la sola apparenza antievangelica di frequentare i pubblicani. In uno “storico” incontro svoltosi qualche anno fa a Scandicci, nel 2016, per la Formazione dei magistrati, dedicato alla giustizia riparativa, alcuni organizzatori ebbero la malaugurata idea di invitare a relazionare al pubblico due ex terroristi rossi, condannati all’ergastolo e poi rimessi in libertà dopo aver scontato interamente la pena, e avere anche attivato percorsi di mediazione e condotte riparatorie a favore di vittime vicarie, sostitutive di quelle reali, ma per offese di analogo significato subìte. Il giorno precedente l’incontro si sollevò una reazione da parte di giornalisti, politici, opinion makers della giustizia, alti magistrati, contrariati per questa iniziativa che metteva “in cattedra” autori di gravi o efferati delitti, per lo più imperdonabili. La “testimonianza” degli ex terroristi saltò e le lezioni si limitarono a quelle svolte da professori e magistrati. Ora sono trascorsi alcuni anni, e la Scuola Superiore della magistratura ospita iniziative anche internazionali in tema di giustizia riparativa, anche con limitate esperienze testimoniali di autori di reato. Forse proprio da quella esperienza di esclusione ha preso avvio un percorso selezionato di ascolto. Per i normali relatori, peraltro, che svolgano anche un’ora di didattica alla Scuola, è stato introdotto l’obbligo di presentare una autocertificazione dalla quale risulti che sono incensurati o se abbiano carichi pendenti. Tutto questo non solo è umiliante, ma profondamente contrario allo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., perché fa intendere che la condanna penale o anche l’essere indagato rende “infetta” la persona, inadatta all’insegnamento a questo pubblico. E come potrà quel magistrato, cioè ogni magistrato, rispettare la lettera, e non solo lo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., se è egli stesso diseducato da queste regole o prassi ordinamentali e persino “disciplinari”? Oggi la recente legge delega n. 134/2021, la c.d. riforma Cartabia, prevede l’introduzione di una “riforma organica della giustizia riparativa”, dove in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena sia possibile accedere a forme di mediazione volte ad assicurare la ricostituzione del rapporto fra autore e vittima e a promuovere programmi strutturati a quell’obiettivo, “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità”. (art. 1, co. 18, lett. c). Questo importante supporto statale alla mediazione penale, debitamente finanziato, rimarrà peraltro una vicenda parallela a quella processuale, dove altre numerosissime forme di “riparazione dell’offesa” già esistono, ma producono specifici e concreti benefici. Invece, l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa di tipo mediatorio potrà, eventualmente, essere valutato nel procedimento penale o nell’esecuzione (art. 1, co. 18, lett. e). Un obiettivo molto spirituale, dunque, direi evangelico e senza vera contropartita utilitaristica, domina questi istituti, che si affiancano al diritto penale più duro di contrasto alla criminalità. In questa antinomia di logiche, che andranno a coesistere nel sistema, una novità specificamente rieducativa è data dalla previsione standardizzata per i condannati a pena che si mantenga entro i quattro anni di detenzione in concreto (anche per delitti gravi in astratto), di limitare detta pena a forme extracarcerarie, se utili alla rieducazione, e in particolare alle pene sostitutive di semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria (art. 1, co. 17). Dunque, riassumendo: programmi umanistici senza utilitarismo per recuperare il rapporto tra autore e vittima, rieducazione extracarceraria per pene detentive entro i quattro anni, inclusione e non esclusione. Ma al contempo, per i gestori di questi programmi, divieto di frequentare condannati ad almeno tre anni di reclusione, rifiuto o permanente difficoltà di ascoltare a lezione di formazione testimonianze di docenti-testimoni spiccatamente “qualificati dal reato”, divieto per i relatori della loro formazione di presentarsi senza autocertificare un pedigree specchiato di mancanza di precedenti e carichi pendenti. La domanda è ovvia: quale “cultura” ci aspettiamo che abbiano questi magistrati quando devono applicare le norme rieducatrici? Da dove prenderanno i basamenti professionali della loro visione del mondo, del loro giudizio, e della discrezionalità che esso richiede? Siamo tutti abituati ad antinomie giuridiche e conflitti di coscienza anche dentro alle istituzioni. Però viene il momento in cui queste contraddizioni esplodono e devono produrre prima un malessere, poi una resistenza, e infine una decisione di libertà e di coerenza. Le più recenti riforme, per quanto interessate anche alla difesa sociale, stanno introducendo una cura per la persona umana che è ora richiesta in misura maggiore anche al magistrato: è questo il primo dovere disciplinare della sua etica del lavoro. Altrimenti la persona da non frequentare, per un gioco di specchi, potrebbe diventare proprio lui. Dobbiamo chiederci quale sia il valore della verità processuale di una sentenza di condanna, che vale nel mondo del diritto, ma non in quello delle relazioni. E qual è il suo valore morale, se conduce a impedire quelle relazioni perfino a chi “di mestiere” irroga una pena che deve rieducare e non emarginare. Green pass, nelle carceri nessuna criticità ma stallo su agenti ansa.it, 19 ottobre 2021 Non si sono registrate al momento criticità nelle carceri conseguenti all’introduzione dell’obbligo di green pass, ma il certificato verde non sembra sinora aver dato una spinta alle vaccinazioni tra il personale della Polizia penitenziaria, che in tutto conta 36.939 addetti. In base ai dati aggiornati alle 20 di ieri sera, sono stati avviati alla somministrazione 24.808 poliziotti, un dato simile e addirittura inferiore, a causa di un ricalcolo, all’ultima rilevazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che risaliva all’11 ottobre scorso. Lo stallo riguarda anche il personale dell’amministrazione che svolge funzioni centrali, dove il dato degli avviati alla vaccinazione (2.703) è identico a quello di una settimana fa. Va comunque considerato che alle cifre ufficiali sfuggono i poliziotti e il personale dell’amministrazione penitenziaria che si sono vaccinati autonomamente attraverso il Servizio sanitario: non sarebbero pochi, secondo il sindacato della polizia penitenziaria Spp, che il mese scorso aveva calcolato in 3mila gli agenti no vax. Tra i detenuti le dosi somministrate dall’inizio della pandemia sono 79.079: l’11 ottobre erano 78.167. “Sia professionale e vicina ai cittadini”. Il richiamo di Mattarella alla magistratura di Francesco Damato Il Dubbio, 19 ottobre 2021 La lettera del presidente della Repubblica al capo dell’Anm Giuseppe Santalucia E con il consueto garbo richiama le toghe a evitare il “corporativismo autoreferenziale”. Un po’ per il suo tono abitualmente misurato, un po’ per il volume troppo alto di una campagna elettorale peraltro anomala come quella sui ballottaggi comunali, che non a caso ha provocato un aumento ulteriore dell’astensionismo, cioè di fuga dalle urne, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato penalizzato nell’ultimo intervento compiuto, venerdì scorso, sui magistrati. Di cui si è occupato, in particolare, in una lettera al presidente della loro associazione, Giuseppe Santalucia, di apparente compiacimento per la nuova veste di una rivista che il capo dello Stato ha voluto definire “commentario”. Scrivo di apparente compiacimento perché Sergio Mattarella ha voluto cogliere l’occasione per richiamare sia l’associazione, comunemente chiamato sindacato, sia le toghe ad una condotta migliore. Egli insomma, pur nel suo stile non certamente paragonabile al piccone della buonanima di Francesco Cossiga, l’amico e collega di partito che lo precedette al Quirinale dal 1985 al 1992, ha voluto mettere o rimettere certe cose al loro posto. Dall’associazione dei magistrati, per esempio, vista la natura particolare di chi vi partecipa, che non è un comune dipendente dello Stato, il presidente della Repubblica e - non dimentichiamolo- del Consiglio Superiore della Magistratura, non si aspetta tanto una tradizionale attività sindacale, per sollevare e risolvere vertenze normative e retributive, o la coltivazione di un “corporativismo autoreferenziale”, quanto la promozione e la gestione - ha scritto- di un “dialogo autentico della Magistratura ordinaria con le istituzioni e con la società”. Per il rispetto delle istituzioni - mi permetto di interpretare la lettera di Mattarella- l’associazione dei magistrati si sarebbe dovuta tenere rigorosamente estranea alle polemiche che hanno accompagnato il lungo e neppure concluso processo sulla cosiddetta e presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi. E non mettersi a difendere pregiudizialmente, com’è avvenuto più volte in modo diretto o indiretto, un’accusa tanto ostinata quanto clamorosamente smentita sino alla Cassazione, come nel caso dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Che sarebbe stato addirittura il promotore di quella trattativa per salvarsi dalla minaccia mafiosa di morte pendente sulla sua persona. Per il rispetto della società - mi permetto sempre di interpretare la lettera di Mattarella- l’associazione nazionale dei magistrati avrebbe dovuto essere la prima a insorgere contro un presidente di sezione della Cassazione, e temporaneamente consigliere superiore della magistratura, che si era permesso in uno dei salotti televisivi abitualmente frequentati di liquidare un imputato assolto per uno che l’aveva semplicemente fatta franca. O no? Ora quel magistrato, nel frattempo andato in pensione e decaduto dal Consiglio Superiore, è indagato per violazione del segreto d’ufficio - e perciò innocente, per carità, sino a condanna definitiva - ma avrebbe dovuto già incorrere in una presa di distanza dei suoi colleghi da quella battutaccia televisiva, a dir poco. O no? Per molto meno noi giornalisti rischiamo denunce e querele, che da sole costituiscono un ostacolo all’esercizio della nostra professione. Dei magistrati il presidente della Repubblica ha giustamente ricordato e difeso “l’indipendenza” - si legge nella sua lettera- come “un elemento cardine della nostra società democratica”, ma che “si fonda - ha ricordato sull’alto livello di preparazione professionale, accompagnata della trasparenza delle condotte personali e dalla comprensibilità dell’azione giudiziaria”. Mi chiedo, a proposito del processo già ricordato sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, se abbia risposto ai requisiti indicati da Mattarella l’iniziativa della Procura generale che per sostenere in appello la conferma della condanna in primo grado di un grappolo di imputati ha presentato un documento di contestazione di una sentenza contraria e definitiva della Cassazione a favore di un imputato di quegli stessi reati giudicato però col rito abbreviato. Dolce o amaro in fondo, come preferite, Mattarella ha scritto nella sua lettera diffusa dal Quirinale che “per assicurare la credibilità della Magistratura riconosciuta da tutti i cittadini” occorre “un profondo processo riformatore ed anche una rigenerazione etica e culturale”. Ripeto: una rigenerazione etica e culturale, non bastando evidentemente l’attuale livello né etico né morale anche in riferimento alla vicenda Palamara delle carriere e dintorni. Questo richiamo di Mattarella fa un po’ il paio con quello del compianto Sandro Pertini ad una indipendenza e imparzialità della magistratura chiaramente riconoscibile, perché non basta essere ma bisogna anche apparire indipendenti e imparziali nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, disse quello che rimane - credo, al di là del suo leggendario cattivo carattere- il presidente della Repubblica più amato dagli italiani. Peccato che Pertini sia morto e che Mattarella stia per concludere il suo mandato fra il sollievo di tanti, direi troppi, che non si lasciano scappare occasione per ricordarne con malcelato sollievo l’indisponibilità, sinora, ad una conferma almeno per il tempo necessario a garantire che all’elezione del successore provveda un Parlamento un po’ più legittimato di quello che scadrà nel 2023. E verrà sostituito da Camere ridotte di un terzo abbondante dei seggi, profondamente modificato di certo anche nei rapporti di forza fra i partiti che sono rappresentati in quelle attuali. Spangher: “Il dl sui tabulati telefonici bilancia il rapporto tra accusa e difesa” di Giulia Merlo Il Domani, 19 ottobre 2021 Il dl approvato dal governo introduce l’obbligo di decreto motivato del giudice per poter acquisire il tabulato telefonico, che prima veniva chiesto dal pm e dalla polizia giudiziaria direttamente alle compagnie telefoniche. Un cambiamento nelle procedure d’indagine che provoca grandi cambiamenti dal punto di vista concreto. Il decreto legge sull’utilizzo dei tabulati telefonici non ha avuto grossa eco mediatica, ma i suoi effetti concreti nello svolgimento delle indagini portano un cambiamento significativo: il pm dovrà chiedere al gip la possibilità di chiedere il tabulato telefonico dell’indagato e non procederà più in autonomia; inoltre la richiesta può essere fatta solo nel caso di ipotesi di reato con pena uguale o superiore ai 3 anni (e i reati di minaccia, molestia e disturbo col mezzo del telefono) e non in tutti i casi, come è ora. Il dl risponde alla necessità di adeguare il nostro ordinamento a una sentenza della Corte di giustizia, che stabiliva la necessità di bilanciare l’interesse all’indagine con la garanzia della valutazione di un soggetto terzo rispetto alle parti. Questioni ampie, come spiega il professore emerito di Procedura penale, Giorgio Spangher. Professore, quale è il senso di questa nuova previsione? La sentenza della Corte di giustizia afferma principi di ordine generale: a livello europeo la riservatezza della persona è interpretata in modo rigoroso e deve essere garantita anche nel caso di accertamenti di natura giudiziaria. Per questo il dl prevede che, per chiedere i tabulati telefonici, occorra il decreto motivato di un giudice terzo e non basti l’iniziativa del pm. Si tratta di un passo che va nella direzione corretta di rendere sempre più omogenei i sistemi giudiziari europei. Il pm non è una figura di garanzia? Il pm è un soggetto indipendente ma non è terzo, perché è contrapposto alla difesa nel dibattimento. Per questo è stato ritenuto necessario introdurre l’intervento di un giudice terzo, che valuti i requisiti di necessità di questo mezzo di ricerca della prova. Inoltre il dl prevede una aggiunta importante: ora anche l’avvocato può chiedere al giudice di autorizzare la richiesta di tabulato telefonico, parificando accusa e difesa. Ha senso che i tabulati telefonici - che fino a ieri venivano richiesti senza formalità - oggi siano considerati dati talmente sensibili da necessitare di un controllo terzo? I tabulati telefonici permettono di raccogliere molti dettagli di vita. Registrano quando avvengono le telefonate, quanto spesso si chiama un numero, quanto dura una singola telefonata. Ma permettono anche di tracciare gli spostamenti delle persone, a seconda delle celle che vengono agganciate. Inoltre, con gli smartphone, i tabulati informatici contengono anche l’elenco dei siti internet a cui si accede e l’uso delle applicazioni che si connettono al web. Una mole di informazioni che può essere legittimamente acquisita nel processo, ma serve un bilanciamento tra diritto all’accertamento e diritto alla riservatezza, che viene garantito dalla valutazione del giudice. Viene fissato anche un limite di pena, sotto il quale i tabulati non possono essere chiesti... Sì, oggi per chiedere il tabulato resta il requisito della presenza di “sufficienti indizi di reato” e la finalità di prosecuzione dell’indagine, a cui si aggiunge il limite della pena di tre anni, sotto la quale i tabulati non possono essere chiesti. Si riduce in questo modo il numero di reati per cui si può chiedere, visto che prima un limite non esisteva. Il decreto legge presenta quale problema? In particolare uno: manca la norma transitoria. L’incognita è sull’effetto retroattivo della norma: trattandosi di una norma processuale vale il principio del tempus regit actum quindi la norma non è retroattiva. Ma nulla esclude che una persona che si senta lesa nel suo diritto un domani ponga questo problema. Per questo è auspicabile che alcune correzioni vengano apportate nella legge di conversione attesa entro sessanta giorni. Dal punto di vista pratico, non c’è il rischio di rendere più complicata una procedura che prima era molto semplice? Indubbiamente le cose si complicano. Penso alla polizia giudiziaria: ci sono almeno 20 denunce al giorno per furto di cellulare, che vengono smaltite in modo relativamente veloce accertando, attraverso i tabulati telefonici, chi sta usando il cellulare. Aggiungere il passaggio della decisione motivata del gip rallenta il processo. Però esiste la procedura d’urgenza: si procede senza autorizzazione, poi il gip conferma la richiesta. Dai magistrati è arrivato anche l’allarme rispetto al fatto che, in questo modo, si aggrava il lavoro e si rallenta ancora l’ufficio del gip, quando invece la riforma penale punta a velocizzare i tempi... Mi rendo conto. Questo dl ha aspetti positivi e negativi, ma rimane il fatto che le garanzie sono garanzie e che esiste la necessità di adeguarsi al diritto europeo. Inoltre c’è anche il rischio opposto e cioè che questo passaggio in più diventi quasi automatico: ovvero che la richiesta venga praticamente sempre accolta, senza una vera valutazione di merito caso per caso sull’utilità del tabulato telefonico. Come si risolve il problema della potenziale enorme mole di richieste? Cambiando il metodo. Oggi si dice: il lavoro del gip si aggrava perché le richieste di tabulati sono tantissime. Ma questa norma serve anche a ridurne il numero, facendo sì che il tabulato venga chiesto solo quando serve e non a prescindere, perché si tratta di un atto di polizia giudiziaria o del pm. Se la richiesta viene limitata ai casi in cui serve - cioè quando ci sono indizi sufficienti e serve a proseguire le indagini - allora anche i numeri delle richieste calerebbero. La questione è sempre la stessa: trovare un punto di equilibrio nel processo penale, che tenga conto delle garanzie degli indagati. Riforma della giustizia minorile: ma l’ascolto dei bambini non è un interrogatorio vita.it, 19 ottobre 2021 La riforma disegnata non facilita l’accesso per i minorenni e le famiglie perché non è esclusivamente la “vicinanza geografica” a costruire prossimità e ascolto nei confronti dei bambini. Continua a far discutere la riforma del processo civile, a seguito del disegno di legge approvato con voto di fiducia dal Senato lo scorso 21 settembre 2021, che prevede l’Istituzione del Tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie. Una riforma che è stata approvata in pochi giorni, senza alcuna discussione o confronto. “Riteniamo che questa riforma non risponda all’obiettivo di migliorare la giustizia minorile a tutela dell’esigibilità dei diritti dei soggetti di minore età e delle loro famiglie”, dicono cinque fra i principali soggetti che ogni giorno lavorano accanto a bambini e ragazzi in situazione di fragilità, ossia SOS Villaggi dei Bambini, Cncm, Cnca, Agevolando e Cismai. Lo fanno con una lettera inviata al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri Orlando, Cartabia, Bonetti e al Parlamento. Le organizzazioni firmatarie chiedono che venga stralciata dalla legge delega la parte relativa alla giustizia minorile e che venga istituito un tavolo di confronto interdisciplinare e interistituzionale rappresentativo di tutti i soggetti pubblici e privati competenti e attivi nell’ambito e nelle azioni di tutela e protezione dei minori per qualsiasi atto venga assunto anche a seguito e in attuazione della presente legge delega, ivi compresi i decreti delegati. L’istituzione del Tribunale Unico per i minorenni, le persone e le famiglie è “obiettivo unanime, invocato da molti”, ammettono nella missiva. Quindi “non si tratta di sostenere l’immodificabilità dell’attuale organizzazione del Tribunale per i minorenni” e si riconosce “la necessità di ricomporre in un unico Organo l’intera materia afferente alla tutela e protezione del soggetto di minore età e delle famiglie”: ma “al di là di quanto si potrebbe credere” questa riforma “non raggiunge l’obiettivo” poiché “di fatto mantiene ancora frammentazione e una forzata separazione tra competenze attribuite all’Organo circondariale (il tribunale Ordinario) e competenze attribuite all’organo distrettuale (l’attuale Tribunale per i minorenni), senza raggiungere l’obiettivo dell’unificazione”. Non solo: il contenuto nella legge delega sulla giustizia minorile “impoverisce l’esercizio stesso delle funzioni della magistratura”, non facilita l’accesso per i minorenni e le famiglie proprio “perché non è esclusivamente la “vicinanza geografica” garantita dalla sede circondariale a costruire prossimità e ascolto nei confronti dei bambini, dei ragazzi, delle persone in situazione di fragilità, vulnerabilità, solitudine, abbandono, precarietà, disagio grave e molto altro”. Cosa accadrà concretamente, dal punto di vista dei bambini e ragazzi e delle famiglie? La riforma - spiegano nella lettera - “non migliora affatto il sistema sotto il profilo dei tempi, che si allungheranno sensibilmente tenuto conto che questa riforma non prevede risorse aggiuntive, né tanto meno sotto il profilo della complessità della decisione da assumere tenuto conto che in sede circondariale viene meno sia la collegialità sia l’interdisciplinarietà, quale garanzia di ricomposizione di diversi sguardi e competenze necessarie per comprendere e assumere decisioni complesse che incidono sulla vita dei bambini e ragazzi e sulle loro famiglie”. La collegialità e l’interdisciplinarietà sono competenza specifica dei tribunali per i minorenni, che viene dispersa senza ragione. “Siamo molto preoccupati da quanto prevede la legge delega circa l’ascolto del minore, funzione riservata al solo giudice e non delegabile: sappiamo quanto delicata sia questa funzione, quante attenzioni vanno poste rispetto ai tempi dell’ascolto, ai luoghi dell’ascolto, al linguaggio: tutto questo sembra non garantito dall’organizzazione monocratica della funzione. Stiamo chiedendo al giudice monocratico di essere esperto in materia di ascolto, che non è un interrogatorio”. Un altro snodo critico sarà il trasferimento di competenza tra sezione circondariale e distrettuale nel momento in cui una causa si modificherà, passando a sezioni diverse, ad esempio quando un provvedimento di apertura di adottabilità (competenza sezione distrettuale) si chiude ma permane un provvedimento di limitazione della responsabilità genitoriale (sezione circondariale, giudice monocratico) o viceversa. “In tali contesti (non rari) le persone saranno “rimbalzate” da un organo all’altro con cambi di riferimenti e saranno costretti - molte volte - a ricominciare da capo”. L’assurdo divieto di dire i nomi dei pm nei processi di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2021 Proseguirà nelle prossime sedute della Commissione Giustizia della Camera l’esame dello schema di decreto legislativo (atto n. 285) di adeguamento della normativa nazionale alla Direttiva del Parlamento europeo 2016/343 sul rafforzamento della presunzione di innocenza dell’imputato e del suo diritto di presenziare al processo. Va ricordato che le Direttive Ue sono atti legislativi che stabiliscono gli obiettivi che tutti i Paesi sono obbligati a realizzare: spetta tuttavia ai singoli Stati definire disposizioni nazionali circa i mezzi con cui tali obiettivi vadano raggiunti. Circa i due obiettivi previsti dalla Direttiva 343 occorre sottolineare che essi sono stati acquisiti, sin dal secolo scorso, nel vigente codice di procedura penale per cui: 1) l’imputato, in tutte le fasi del procedimento e fino alla sentenza definitiva, dev’essere considerato (e pubblicamente indicato) quale “presunto non colpevole”, come stabilisce l’articolo 27 della Costituzione; 2) è riconosciuto all’imputato, in ogni stadio del procedimento, sia il diritto al silenzio e sia il diritto di essere presente e, viceversa, di rinunziare liberamente a presenziare al procedimento a suo carico (art. 420 C. p. p.), essendo affetto da nullità il procedimento tenuto in sua assenza senza che risulti espressamente che abbia rinunziato a presenziarvi (si vedano Corte Costituzionale, Corte suprema di Cassazione e Corte europea dei Diritti dell’uomo). A questi fondamentali principi si ispirano gli articoli 1 e 2 del decreto, mentre gravi problemi di trasparenza degli atti di indagine non coperti dal segreto attraverso comunicazioni pubbliche (che per il punto 17 della Direttiva sono quelle rilasciate dalle Autorità giudiziarie, dalla Polizia e da altre Autorità pubbliche preposte all’osservanza della legge), sorgono dall’applicazione del punto 18. Per esso, “l’obbligo di non presentare gli indagati non dovrebbe impedire alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine”. Entro questi limiti e nel rispetto dell’interesse pubblico alla conoscenza delle prove di accusa, la divulgazione dovrebbe essere la più completa possibile e affidata, secondo logica, al pm titolare e dominus dell’indagine, l’unico che sia a conoscenza di tutti gli atti, il quale affianchi il procuratore della Repubblica, titolare dell’Ufficio, nelle conferenze stampa, nelle interviste e nelle dichiarazioni pubbliche in genere. È pertanto augurabile che la Commissione elimini dall’art. 5 del Decreto sia l’ingiustificato monopolio del procuratore della Repubblica nei rapporti con gli organi dell’informazione (comma 1) e sia l’assurdo divieto per i giornalisti di pubblicare ogni riferimento ai nomi dei magistrati assegnatari dei procedimenti (comma 2), una norma che trova il suo illustre precedente nei processi staliniani degli anni Trenta, nei quali i nomi dei giudici istruttori non apparivano e gli atti di accusa venivano firmati dal procuratore generale dell’Urss, Andrej Vyshinskij (vedi “I grandi processi di Mosca” - 1936-37-38, Rusconi 1977, pagg. 214). Da “tangentopoli” a “mafiopoli”: serve un’inchiesta sui teoremi giudiziari di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 19 ottobre 2021 Nelle settimane scorse abbiamo avuto notizia di tre sentenze della magistratura che in maniera emblematica confermano, sia pure nella loro contraddittorietà, le analisi che da molti anni facciamo su giudiziario e sul suo rapporto con l’informazione e con la politica. La sentenza della Corte D’appello D’Assise di Palermo sulla “trattativa tra lo Stato e la mafia” che ha assolto i rappresentanti dello Stato; quella del tribunale di Roma dei presunti responsabili della Banca Etruria che vedeva coinvolti i genitori dell’ex presidente del consiglio Matteo Renzi della quale la stampa ha dato scarsissima notizia; la sentenza di condanna e 15 anni di reclusione del sindaco di Riace Lucano che configura l’esempio più vistoso di come il codice penale sia stato sconvolto dal legislatore che, sull’impulso giustizialista degli ultimi ministri della giustizia e a seguito di una campagna moralista e ipocrita, ha stabilito un aumento indiscriminato e illogico delle pene anche per reati amministrativi minori, consentendo ai giudici di irrorare pene considerate da tutti esagerate. Ritorneremo su queste ultime due sentenze e sulla valutazione del panpenalismo imperante che è il male della nostra società, ma ora è necessario un commento sulla sentenza di Palermo, sulla “trattativa” a cui si è voluto dare finora valore penale. Questa sentenza si collega alla sentenza della Corte D’appello di Palermo del 20 gennaio 2020 che aveva dichiarato l’assoluzione dell’ex ministro Mannino perché “il fatto non sussiste”, e ripete per gli imputati la stessa formula che di per sé indica la pretestuosità del processo che non doveva essere celebrato per la mancanza appunto del “fatto”. La sentenza dello scorso anno acquista così maggiore valore perché con le sue ineccepibili motivazioni, aveva cancellato trent’anni di teoremi arbitrari che accreditavano la contiguità di un partito e di un rappresentante del governo con la delinquenza organizzata. Con la sentenza della Corte D’Appello del 22 settembre scorso dunque, che assolve i rappresentanti dello Stato, condannati in primo grado a pene severissime, si cancella un vulnus tremendo e drammatico e la verità giudiziaria riabilita lo Stato consentendo di riscrivere per intero la storia politica di questi anni. Le notizie della stampa sulla sentenza di Palermo sono state disparate e contraddittorie, e pochi giornali come “Il Dubbio”, l’hanno commentata serenamente senza pregiudizi e senza faziosità! Alcuni commentatori e alcuni magistrati hanno considerato la sentenza di Palermo “un danno all’antimafia” dimostrando una intransigenza moralistica, come se l’antimafia fosse “l’antagonista” a cui non si può dar torto; altri hanno scritto che non solo sussiste il “fatto”ma la “trattativa” è stata confermata, dimostrando una totale ignoranza della procedura penale, altre ancora che la Corte D’Assise ha tratto conclusioni sconcertanti perché “è stata abbattuta la statua di Nino di Matteo”; e per ultimo è stato detto che la soluzione del processo sulla “trattativa” è “. un segnale di clima di conservazione”, che esisterebbe ora in Italia?! Tante parole in libertà e senza senso prive di cultura giuridica e istituzionale legate a un teorema perverso che è alimentato da se stesso attraverso una falsa narrazione. Eppure bastava leggere l’articolo di Armando Spataro ex pubblico ministero, un giurista di livello, il quale spiega che la formula “il fatto non costituisce reato” non significa che il fatto è confermato e che “questo equivoco deriva sull’omessa conoscenza dei capi di imputazione”. “La contestazione” aggiunge Spataro “in sede penale non è quella di avere dato luogo ad una trattativa - reato non previsto dal nostro codice penale ma di avere tutti, in concorso tra loro ed a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni, per condizionare la regolare attività del governo e gli altri corpi politici”. “Se il reato è facilmente configurabile per i vari boss mafiosi, che hanno minacciato e commesso gravi delitti, per ottenere dalle istituzioni alcuni vantaggi, è francamente difficile se non impossibile”, continua Spataro, “pensare che gli uomini delle istituzioni, tentando di contenere l’impatto criminale di cosa nostra, sia pure con contatti criticabili, “tifassero” per i mafiosi e ne volessero rafforzare la capacità di condizionare l’attività del governo”. Viene da dire che se anziché usare per anni una semplificazione giornalistica “la trattativa”, si fosse fatto conoscere il capo di imputazione “minaccia i poteri dello Stato” previsto dall’art. 338 del c. p. probabilmente nessuno avrebbe creduto che i rappresentanti dello Stato potessero avere condotte minacciose e si proponessero di rafforzare il potere dei mafiosi. Siccome non è difficile capire questa limpida spiegazione anche da parte di chi non è giurista, si deve concludere che la difesa del teorema e del pregiudizio fa prevalere ancora un giustizialismo perverso che avvelena la società, avvilisce le istituzioni e distrugge la politica. D’altra parte la difesa che fanno i pubblici ministeri e in particolare Giancarlo Caselli, è insistente e nega che vi sia stato alcun teorema, alcun accanimento giudiziario, alcuna persecuzione, dimenticando, ahimè! che l’on. Mannino, l’uomo di punta dell’istituzioni contro la mafia, come affermava Falcone, e i rappresentanti dello Stato sono stati perseguitati per oltre 25 anni. Queste valutazioni ci riportano al ruolo della magistratura che dagli anni 80 ha assunto un ruolo politico anomalo non in linea con la Costituzione configurando una Repubblica giudiziaria che ha messo in discussione le fondamenta della Repubblica parlamentare nella sua autonomia e nella separazione dei poteri. L’espansione del potere giudiziario ha consentito la crisi del potere legislativo che ha perduto credibilità anche per aver esso stesso dato per legge una delega ampia al giudice di decidere le controversie sociali e quindi di incidere politicamente. Tutto questo mi induce a fare una riflessione generale su tutti gli accadimenti politici e giudiziari dagli anni 90 in poi, cioè dalle indagini di “Tangentopoli” che hanno colpito i partiti e tanti rappresentanti politici, fino appunto alle indagini sulle presunte minacce ai poteri dello Stato”. C’è un filo conduttore tra queste iniziative giudiziarie e tante altre che in questi anni si sono succedute che hanno determinato uno squilibrio tra i poteri dello Stato e hanno avvilito le istituzioni considerate dai più ostili e corrotte. Così è avvenuto negli anni 90 per Tangentopoli, così è avvenuto successivamente per “mafiopoli”. Le indagini di “mani pulite” hanno avuto come conseguenza la assoluzione degli imputati in una percentuale superiore al 75% con motivazioni a volte molto severe da parte dei giudici nei riguardi dei pubblici ministeri; le loro indagini non hanno costituito prova per una possibile condanna! Le indagini per “mafiopoli” sono state considerate fasulle, e hanno sancito la sconfitta dei pubblici ministeri ridando prestigio allo Stato e ai rappresentanti dello Stato. Per queste ragioni le sentenze non possono non essere considerate importanti perché non riguardano solo la persona dell’on. Mannino e degli altri servitori dello Stato, ma riguardano i partiti politici e in particolare la DC e larga parte della classe dirigente che insieme a Mannino in questi lunghi anni hanno combattuto in tutti modi la delinquenza organizzata. Dobbiamo prendere atto dunque sia pure nell’anomalia prima denunziata che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico. Questa è la sintesi di trent’anni di storia. Oggi registriamo questi risultati e possiamo concludere che il Pool “mani pulite” di Milano considerato rigeneratore di uno Stato etico e della legalità, ha operato una rivoluzione giudiziaria fasulla e dissacrante e ora è sottoposto a indagini giudiziarie; che il pubblico ministero più rappresentativo della lotta al costume e alla legalità con un libro autobiografico disdicevole e scandaloso oltraggia inutilmente la figura di Falcone e la sua memoria, che la sentenza di Palermo non “abbatte la statua di De Matteo” ma spiega e applica il diritto che non può essere utilizzato strumentalmente per processare gli uomini della politica e i rappresentanti dello Stato che con tanta dignità hanno difeso le istituzioni. Un ciclo della storia si è concluso rimettendo a posto le cose e dando alla sentenza il valore giuridico di verità processuale, che fa giustizia di tutti i processi paralleli. A questo punto la domanda è: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?! È necessario quindi andare alla ricerca delle ragioni per cui è avvenuto tutto questo, dalle indagini della procura di Milano che vanno sotto il nome di “Tangentopoli” che volevano dimostrare la contiguità della politica con le “tangenti” e quindi la corruzione come “sistema”, all’indagine della procura di Palermo che ha considerato reato “la trattativa” confondendo la condotta per tutelare lo Stato nel suo contrario. Sarà necessaria un’indagine politica non giudiziaria che la classe dirigente che ha governato il paese fino agli anni 90 deve pur fare; per intanto ci auguriamo che queste sentenze servano ad attenuare il rancore ancora molto presente nella società. Caso Cucchi: “Pestaggio ingiustificato e sproporzionato tenuto segreto per volontà dell’Arma” di Andrea Ossino La Repubblica, 19 ottobre 2021 Le motivazioni con cui la Corte d’Assise d’appello ha condannato quattro 4 carabinieri coinvolti nella morte del giovane romano. I testimoni che hanno raccontato quello che è accaduto il 15 ottobre 2019 sono attendibili. Lo sono perché “la notizia del pestaggio di Stefano Cucchi ad opera dei carabinieri in borghese non era stata divulgata all’epoca dai media e neppure era conoscibile dalle parti”. Eppure i testimoni sapevano ogni cosa. Erano a conoscenza dei fatti quando nessuno poteva esserlo. Perché quella notizia “doveva essere celata per ordine dei superiori gerarchici dell’Arma dei Carabinieri”. C’è anche questo nelle motivazioni con cui la corte di Appello di Roma ha condannato i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a scontare 13 anni di carcere, mentre i colleghi Roberto Mandolini e Francesco Tedesco dovranno scontare rispettivamente 4 e 2,6 anni di carcere. Le pagine con cui i giudici spiegano le ragioni della condanna diventano dunque un tassello fondamentale per l’altro procedimento sulla morte di Cucchi, o meglio su ciò che è ruotato intorno a quel delitto: una serie di depistaggi per cui adesso otto carabinieri sono a processo. C’è un detenuto, ad esempio, che riferisce che “gli autori delle botte non erano stati gli agenti della penitenziaria”, ma “i carabinieri non in divisa”. Una testimonianza importante che diventa fondamentale proprio perché “la corte d’Appello ritiene pienamente credibili tutte le dichiarazioni dal contenuto circostanziato” riferite. “Non possono ritenersi concordanti… dimostra di essere venuto a conoscenza dei fatti direttamente appresi dall’arrestato Stefano Cucchi ebbe a dirgli di essere stato arrestato mentre passeggiava con il cane”. E questo particolare non era conosciuto dai media. Il detenuto non poteva neanche sapere del pestaggio. Perché quella notizia doveva rimanere segreta per volontà “dei superiori gerarchici dell’Arma dei carabinieri”. Anche il silenzio iniziale del carabiniere Tedesco è emblematico. Il suo comportamento, ritengono i giudici, è “attribuibile ai vertici di comando dell’Arma dei carabinieri”. Tutte vicende che “costituiscono oggetto di accertamento in altro dibattimento relativo ai cosiddetti depistaggi”, sottolinea la corte facendo ancora una volta intravedere l’oscuro mondo che ruota intorno alla morte di Cucchi. Una vicenda che va al di là dell’ennesima cronaca di un pestaggio letale, di quella violenza “ingiustificata e sproporzionata”, narrata ancora una volta negli atti. “La vittima è colpita con reiterate azioni ingiustificate e sproporzionate - scrivono i giudici - rispetto al tentativo dell’arrestato di colpire il pubblico ufficiale con un gesto solo figurativo inserito in un contesto di insulti reciproci inizialmente intercorsi dal carabiniere Di Bernardo e l’arrestato, che, nel dato contesto esprime il semplice rifiuto di sottoporsi al foto-segnalamento”. La verità sui fatti accaduti “all’interno della sala Spis della Compagna Carabinieri di Roma Casilina”, emerge chiaramente ed è testimoniata dalla “ripetizione e violenza dei colpi inferti alla vittima”. Un massacro che suggerisce la “volontà di infliggere violente percosse affinché la persona aggredita si sottoponesse a un atto dovuto, il foto-segnalamento”. Stefano Cucchi è stato ucciso con violenza. E i responsabili, cristallizzano le intercettazioni ambientali catturate dopo la sua morte, di compiacevano “per lo stato in cui era stata ridotta la vittima del pestaggio”. Una “spinta violenta” ha fatto cadere a testa il ragazzo “determinandone il violento impatto del coccige” e le lesioni alle vertebre sacrali e al cranio. Una parte della storia è chiara: la ‘‘sussistenza di un rapporto di causa ed effetto tra la violenta aggressione posta in essere con lucidità dai correi che, con le suddette modalità colpivano una persona minuta determinandone la morte’’. Un’altra, quella che riguarda i depistaggi, verrà presto chiarita. Morti di Covid nelle Rsa, la strage senza colpevoli. I parenti: andremo avanti di Zita Dazzi La Repubblica, 19 ottobre 2021 La rabbia dell’associazione creata dai familiari degli anziani dopo la richiesta di archiviazione. Il Trivulzio: fu una situazione enorme. La Cgil: devono emergere le responsabilità politiche. C’è amarezza ma voglia di continuare la battaglia per la verità, fra i familiari delle vittime del Covid nelle Rsa, nel giorno della richiesta di archiviazione per le accuse ai vertici del Pio Albergo Trivulzio e di altre case di riposo. Sono pronti a fare opposizione o a intraprendere altre strade legali, i parenti degli anziani ospiti delle residenze sanitarie morti nella prima ondata Covid. “Non mi aspettavo certo un’archiviazione anche se in termini generali sapevamo che il percorso per arrivare alla verità e alla giustizia su quanto accaduto era lungo e irto di difficoltà. Questa è una brutta notizia, un imprevisto, ma non ci fermerà sulla strada di una legittima e sacrosanta verità sugli anziani morti nelle Rsa, non solo al Trivulzio”, commenta a caldo Alessandro Azzoni, presidente di quell’associazione Felicita sorta dall’iniziale comitato di parenti nato dopo le centinaia di vittime che ci furono nella primavera del 2020. “Stiamo leggendo le motivazioni della procura in cui si evidenziano le gravi negligenze che noi avevamo denunciato subito. Andremo avanti nella richiesta di giustizia in tutti i luoghi dove è possibile agire. Non vorrei che oggi perdessimo l’opportunità di dimostrare che la legge è uguale per tutti”, continua Azzoni, che ha coordinato un esposto collettivo, firmato da 150 famiglie. “Sappiamo che la Finanza ha trovato rilevanze evidenti di criticità, ci riserviamo di valutare se fare opposizione e tutte le altre azioni legali in sede civile e penale”. Nel comunicato dell’associazione - che raccoglie adesioni anche fra familiari di case di riposo fuori da Milano - si parla del “rimosso della tragedia nell’intento di cancellare il conflitto tra gli interessi dei cittadini direttamente colpiti e i diversi interessi delle parti economiche, politiche e istituzionali a vario titolo coinvolte nella catena di responsabilità, convergenti nell’ignorare la verità attraverso una comune narrazione autoassolutoria, per rendere accettabile un’immunità giudiziaria generale e a sottrarre al diritto penale il giudizio in nome del carattere straordinario fenomeno pandemico”. Sollievo, invece, ai vertici del Pat, sommersi da una valanga di denunce da parte di chi aveva perso i propri cari senza poterli nemmeno vedere un’ultima volta, senza conoscere mai fino in fondo qual era stata la loro sorte. “La richiesta di archiviazione della procura è la logica conseguenza del contesto eccezionale in cui sono avvenuti i decessi, in una situazione di mancanza di indicazioni sanitarie precise per la scarsa conoscenza del virus, di mancanza dei tamponi, del tracciamento e dei dispositivi di protezione individuale. Tutto ciò ha portato ad escludere che esista un nesso di causa tra la gestione sanitaria e i decessi”, si legge in una nota del Trivulzio. “Pur rasserenati dalle conclusioni cui è giunta la procura dopo un accertamento estremamente approfondito dei fatti, il Pio Albergo assieme al direttore generale Giuseppe Calicchio sono vicini ai familiari, così come lo sono stati in tutto questo anno e mezzo”. A proposito del direttore Calicchio la nota osserva che “si è trovato a fronteggiare una vicenda enorme, come tutti coloro che hanno la responsabilità di una struttura sociosanitaria, ma in più è stato eletto a bersaglio da alcuni che evidentemente non conoscevano la qualità delle strutture e del personale del Trivulzio”. Fra i sorpresi dalla decisione della magistratura anche i sindacalisti, che furono tra i primi a denunciare le morti durante quei primi mesi alle prese con un virus sconosciuto. “Prendiamo atto e rispettiamo la sentenza, ma continuiamo a pensare che non si è trattato di una fatalità - commenta Federica Trapletti, della segreteria di Spi Cgil Lombardia. Rimane il rammarico che dopo un anno e mezzo di indagini non si sia arrivati ad individuare le responsabilità della tragedia. Continuiamo a pensare che esse ci siano a livello politico, gestionale ed organizzativo. Ci auguriamo che emergano, perché non possa più succedere”. L’eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino, ex assessore alle politiche sociali del Comune, dice: “Non entro nel merito del processo, che credo vada assolutamente rispettato. Resto convinto del fatto che le scelte di Regione Lombardia sulle Rsa abbiano fatto enormi e drammatici danni”. Rimini. Ergastolano si impicca prima dell’estradizione, ricoverato in condizioni disperate di Tommaso Torri riminitoday.it, 19 ottobre 2021 Arrestato dalla polizia di Stato per un mandato di cattura internazionale, il giovane ha tentato il gesto estremo prima di comparire davanti al giudice. Condannato all’ergastolo tenta di uccidersi prima dell’estradizione nella sua cella del carcere di Rimini. Ora è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale “Bufalini” di Cesena un 37enne albanese che questa mattina gli agenti di custodia stato trovato impiccato. L’uomo deve scontare la condanna a vita per omicidio emessa in Grecia, dove aveva sparato una persona nel 2014, uccidendola. Da tempo residente a Rimini, era stato arrestato sabato scorso dalla Squadra mobile della Questura di Rimini in esecuzione ad un mandato d’arresto internazionale. Proprio oggi la Corte d’Appello di Bologna oggi doveva decidere sulla richiesta di estradizione. L’udienza, presente il suo difensore, avvocato Giuliano Renzi, è stata aggiornata al prossimo 20 ottobre, sempre che il detenuto sia in grado di parteciparvi. Trani. Degrado e incuria, quella di Fedele Bizzoca era una morte già scritta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2021 La cella dove il detenuto passava tutta la giornata era in condizioni di degrado materiale e igienico, la “Sezione Blu” dove l’uomo era recluso era priva di assistenza sanitaria adeguata alle gravi condizioni di infermità fisica e psichica. Assistenza demandata all’azione degli agenti di polizia penitenziaria che, per quanto svolta con impegno e attenzione, non era adeguata alle necessità mediche necessarie. Sono alcune fra le tante criticità che il Garante nazionale delle persone private della libertà aveva segnalato in merito alle condizioni del detenuto segnato da gravi criticità di tipo psicofisico. Parliamo del 41enne Fedele Bizzoca, recluso nel carcere di Trani, che il 3 settembre è stato ritrovato privo di vita nella sua cella. Una morte annunciata. Il Garante Nazione ha da poco rese pubbliche le sue raccomandazioni scaturite dopo la visita. Come già reso noto dal Garante, l’impegno profuso nella ricerca della disponibilità di una struttura adeguata per Bizzoca, è stato vanificato dall’irreperibilità delle risorse economiche necessarie a integrare la retta della struttura in cui egli avrebbe potuto essere ospitato, secondo quanto risulta dalla corrispondenza trasmessa il 21 luglio 2021 dalla Direzione della Casa circondariale alla Direzione sanitaria della competente Azienda sanitaria locale. Il Garante ha sottolineato che questa circostanza investe, anche sul piano sistematico, l’azione dei servizi socio- sanitari nelle situazioni di particolare fragilità sociale, come era quella dell’uomo, azione che il Garante stesso ha valutato come fortemente carente. Oltre a questo profilo, la vicenda del recluso è stata segnata da gravi criticità specificamente attinenti le condizioni di vita detentiva, riscontrate dalla delegazione del Garante. Vediamole. Nella raccomandazione, si fa riferimento, in particolare, non tanto e non solo allo stato di assoluta indecenza e di degrado materiale e igienico della cella, non definibile nemmeno come “stanza di pernottamento” per le condizioni riscontrate e per il fatto che la persona detenuta ci trascorreva l’intero arco della giornata: il riferimento più rilevante attiene al fatto che questa persona, affetta da una grave infermità psichica e fisica, risultava collocata in una sezione a esclusiva gestione penitenziaria e, pertanto, priva dell’assistenza sanitaria adeguata alle sue complesse esigenze terapeutiche e di accudimento. Gli agenti, si sono trovati a svolgere una funzione che non è loro propria, supplendo alla mancanza di una assistenza integrata che l’Istituto stesso non è in grado di fornire, mancando anche di una “Articolazione per la tutela della salute mentale”. La Sezione in cui è stato incontrato dalla delegazione in visita era la nota “Sezione Blu”, la cui chiusura era stata definita a ottobre- novembre 2020 e proclamata con importante clamore mediatico: la delegazione del Garante nazionale in visita ha dovuto constatare non soltanto la riattivazione dell’intero piano terra della Sezione, ma anche la sua destinazione impropria. Il Garante ha osservato ancora che il piano terra della “Sezione Blu” è stato riattivato come “Reparto di monitoraggio del Covid- 19” per coloro che fanno ingresso nella Casa circondariale e, quindi, per permanenze brevi e temporanee, comprese nei pochi giorni che intercorrono tra i tamponi diagnostici. La specifica finalità e i tempi entro i quali può essere esaurita hanno fatto ritenere, evidentemente, che quegli spazi potessero essere utilizzati pur senza aver predisposto alcun intervento di ristrutturazione che assicurasse il superamento delle criticità che avevano determinato la chiusura dell’intera Sezione. La delegazione del Garante nazionale ha dovuto constatare, invece, che essa ospita prevalentemente, in entrambi i suoi lati, destro e sinistro, persone che destano problematicità di gestione all’interno delle altre sezioni e - circostanza più rilevante sottolineata sempre dal Garante - persone sofferenti di disagio mentale che non trovano posto nella Sezione dell’infermeria. Al momento della visita da parte della delegazione del Garante, nelle giornate tra il 19 e il 23 luglio 2021, erano almeno 4 le persone collocate nelle stanze “agibili” (con servizio igienico non a vista) della Sezione in ragione delle loro condizioni di sofferenza psichica. Per tutte, come per il detenuto che poi sarà ritrovato morto, la permanenza in quella sezione risultava protratta da settimane o mesi. Il Garante nazione è stato netto, a proposito dell’inadeguatezza strutturale e materiale della Sezione. Se si tratta di persone sofferenti di disagio mentale e che necessitano, quindi, di una assistenza socio- terapeutica specifica, la permanenza in una Sezione a esclusiva gestione penitenziaria “risulta ulteriormente inaccettabile e rischia di integrare la violazione dei principi dettati dall’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo”. Un allarme, quello del Garante, che purtroppo si è rivelato profetico: da lì a poco ci è scappato un morto. Aversa. La situazione nell’ex Opg “Filippo Saporito” è critica di Giuseppe Cerreto ilcrivello.it, 19 ottobre 2021 A destare maggiore preoccupazione sono le condizioni in cui verserebbero alcuni pazienti psichiatrici gravi i quali avrebbero bisogno di cure e di trattamenti specifici. Ancora problemi nella casa di reclusione Filippo Saporito di Aversa dopo le proteste di questa estate da parte dei detenuti. Sono infatti numerose le criticità all’interno dell’ex ospedale psichiatrico aversano le quali non hanno ancora trovato una soluzione. La situazione all’interno della struttura penitenziaria aversana è molto delicata, e non sono mancati in passato casi di pericolose aggressioni avvenute ai danni degli agenti da parte di detenuti con problemi psichiatrici. Gran parte delle problematiche sarebbero infatti legate all’inadeguatezza della struttura detentiva, dato che le celle di reclusione del penitenziario sono state ricavate dagli ambienti dell’ex convento cinquecentesco, poi riconvertito nell’Ottocento in manicomio giudiziario, e infine in ospedale psichiatrico nel 1975. Oltre alle carenze di natura strutturale dovute a un edificio praticamente vecchio e obsoleto rispetto al tipo di funzione da svolgere, i detenuti e i loro familiari lamentano anche gravi problemi inerenti all’assistenza sanitaria. Emblematico è il caso di un detenuto che verserebbe in condizioni di salute precarie, con problemi seri alla gamba, il quale a oggi non ha evidentemente ricevuto le cure adeguate alla sua condizione patologica. Ma i numerosi problemi dell’ex opg normanno sarebbero legati specialmente al sovraffollamento della struttura, con diverse celle all’interno delle quali è stato raggiunto il numero massimo di ospitanti, e ciò creerebbe non poche difficoltà sia ai detenuti, i quali sono costretti a vivere in condizioni a dir poco precarie e al limite, sia per gli stessi addetti alla sicurezza carceraria, i quali si trovano spesso costretti ad affrontare situazioni pericolose per la loro stessa incolumità e per quella dei pazienti detenuti. Le criticità però non finirebbero qui. Significativo è il caso di un detenuto che già da diversi mesi è destinatario di un provvedimento di accompagnamento alla frontiera ma si trova tuttora rinchiuso in carcere. Inoltre sarebbero sorti anche dei problemi di natura burocratica con il rilascio dei permessi. Tale situazione sarebbe stata causata dall’estrema lentezza con la quale il magistrato di sorveglianza della struttura starebbe valutando i casi di richiesta. Un altro problema da sottolineare, non meno importante, è quello legato alle persone recluse nella struttura affette da gravi disturbi psichiatrici. Tre detenuti infatti avrebbero urgente bisogno di essere trasferiti nelle rems, ossia in residenze specifiche per l’esecuzione delle misure di sicurezza al fine di poter ricevere un’assistenza adeguata alla loro condizione patologica. Tuttavia, da parte di queste strutture, non è stata concessa alcuna disponibilità per l’accoglienza di queste persone, pertanto si ritrovano costrette a vivere in condizioni non idonee al loro status psico-fisico, con la polizia penitenziaria che deve farsi carico di mansioni che non le spettano, soprattutto nell’ambito dell’igiene mentale. Oltre alla garante dei detenuti della provincia di Caserta che si è occupata in prima linea di queste problematiche, anche Olga Diana, dirigente sanitaria del carcere, si è dimostrata sensibile al problema. A oggi però la direzione del carcere non avrebbe preso provvedimenti né avrebbe adottato soluzioni definitive. Va infine evidenziato come la metà circa dei detenuti, secondo quanto previsto dall’articolo 20 ter dell’ordinamento penitenziario, si trovino attualmente in regime di casa-lavoro, ossia una misura amministrativa di sicurezza, assegnata a seconda dei casi, in cui è prevista l’obbligatorietà dello svolgimento di mansioni lavorative. Anche in questo frangente non sarebbero mancate delle problematiche. In particolare le persone recluse avrebbero chiesto al magistrato di sorveglianza percorsi alternativi e diversificati in base alle loro particolari condizioni psico-fisiche; inoltre avrebbero richiesto di venire seguite maggiormente nel loro percorso di sconto della pena e di riabilitazione e di inclusione alla vita sociale da parte di figure specializzate sia con modalità in presenza che attraverso l’osservazione da remoto. Richieste di cui si è fatta portavoce anche la garante dei detenuti della provincia di Caserta, in attesa che vengano trovate delle soluzioni fattibili. Alla luce di quanto emerso la situazione all’interno della casa di reclusione Filippo Saporito di Aversa sembrerebbe alquanto critica e andrebbe affrontata con estrema urgenza prima che le cose peggiorino. Belluno. La cooperativa Sviluppo & Lavoro premiata per il progetto dentro il carcere amicodelpopolo.it, 19 ottobre 2021 Ha ricevuto il premio “Innovazione sociale” edizione 2021 della Camera di Commercio. La Camera di Commercio di Treviso e Belluno ha assegnato alla cooperativa Sviluppo & Lavoro il premio “Innovazione sociale” edizione 2021. Il riconoscimento fa riferimento al progetto di inserimento lavorativo nella casa circondariale di Belluno che Sviluppo & Lavoro sta attuando dal 2015 mettendo a frutto la collaborazione tra aziende attive nell’area bellunese e il carcere. Il progetto offre lavoro stabile a diverse decine di detenuti e ha consentito ad alcune aziende di riportare in Italia produzioni fino a poco tempo fa realizzate all’estero. “Progetti di questa valenza sono un patrimonio per tutti noi e per un territorio che da sempre ha guardato al fare impresa unitamente ad una visione etica del creare valore. Complimenti alla cooperativa Sviluppo & Lavoro”, evidenzia il Presidente della Camera di Treviso-Belluno Dolomiti Mario Pozza. “Dare dignità e integrare l’uomo in carcere in una nuova dimensione significa creare un ambiente costruttivo, dare fiducia e attenzione alla persona e alle sue competenze, magari celate, non conosciute e ora riscoperte e capaci anche di dare un nuovo futuro”. “Il premio della Camera di Commercio di Treviso e Belluno”, afferma il presidente della cooperativa Sviluppo & Lavoro, Gianfranco Borgato, “se da un lato ci riempie di orgoglio, dall’altro certifica l’importanza del percorso che stiamo attuando per rispondere alle esigenze di reinserimento sociale ed economico di decine di persone. Offrire lavoro vero, onesto, retribuito è uno degli strumenti di maggior valore per garantire sicurezza sociale ed evitare che i detenuti, una volta scontata la pena ricadano nelle reti della criminalità”. Sviluppo & Lavoro in collaborazione con il carcere e con le imprese aderenti ha creato una fabbrica interna alla casa circondariale di Baldenich per la stampa e il taglio di panni per la pulizia degli occhiali oltre ad altre lavorazioni meccaniche. Inoltre, ha affiancato una sezione esterna al carcere che garantisce continuità di impiego a favore di numerose persone al termine della pena. Roma. A Rebibbia femminile s’inaugura il Mama, il modulo per l’affettività e la maternità garantedetenutilazio.it, 19 ottobre 2021 Realizzato sotto la supervisione dell’architetto Renzo Piano, è destinato ai colloqui fra le detenute e i propri congiunti. Martedì 19 ottobre si inaugura il Mama, vale a dire il Modulo per l’affettività e la maternità, la struttura prefabbricata progettata e realizzata sotto la supervisione dell’architetto Renzo Piano, nella quale le detenute della Casa circondariale femminile di Rebibbia potranno svolgere i colloqui con i propri congiunti. Il Mama di Rebibbia è stato disegnato da tre giovani architetti, Attilio Mazzetto, Martina Passeri e Tommaso Marenaci, vincitori di una borsa di studio messa a disposizione da Renzo Piano, diretti dalla professoressa Pisana Posocco, del Dipartimento di architettura e progetto dell’Università la Sapienza, sotto la supervisione dello stesso Renzo Piano. Grazie alla collaborazione interistituzionale e al supporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), e in particolare con l’aiuto dell’architetto Ettore Barletta, con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, Abruzzo e Molise, le parti del modulo sono state realizzate nella falegnameria della casa circondariale di Viterbo da un gruppo di detenuti addetti alla lavorazione, coordinati dal direttore tecnico convenzionato con l’istituto. Alcuni detenuti, trasferiti temporaneamente a Rebibbia, hanno realizzato la messa in opera del modulo con l’aiuto di alcune detenute di Rebibbia. Gli ultimi interventi di montaggio sono stati effettuati il 27 novembre 2019, alla presenza di Renzo Piano. Dopo una lunga attesa, causata dall’emergenza Covid-19, martedì 19 ottobre finalmente l’inaugurazione. Bologna. Cosa accade dietro le sbarre? Il carcere della Dozza raccontato da dentro di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 19 ottobre 2021 La recente operazione della squadra mobile di Bologna, in collaborazione con la polizia penitenziaria, che ha portato alla denuncia di un uomo, trovato all’esterno del carcere della Dozza, mentre tentava di introdurre telefoni e altro materiale con un drone, rimette al centro dell’attualità le problematiche degli istituti di pena. Per fare il punto sul penitenziario bolognese, Rocco D’amato, meglio noto come “Dozza”, Bologna Today ha incontrato Nicola D’Amore, sovrintendente di polizia penitenziaria e vice segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria, Sinappe. Attualmente i detenuti sono 750 a fronte di una capienza massima di 500, più della metà sono stranieri, 60 le donne. Gli operatori penitenziari sono 400, 50 sono donne. Non ci sono detenuti al 41bis, ma solo nella sezione ‘alta sicurezza’, ovvero destinata alla criminalità organizzata, con poco meno di 100 detenuti, italiani e stranieri. C’è chi pensa che il carcere debba essere solo punizione ed espiazione... Il carcere oggi deve essere considerato un quartiere della città, pensato come risorsa, altrimenti rimane una fabbrica di detenuti. Deve togliere la libertà e non la dignità delle persone. I cittadini che pensano che il carcere debba essere sofferenza, li definirei analfabeti, non conoscono la Costituzione, in particolare l’articolo 27 (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” - ndr), li inviterei a considerare inoltre che il nostro paese è stato condannato dalla Corte europea di Strasburgo per il trattamento inumano dei detenuti e per questo paga. A un detenuto puoi anche fornire la play station, lo Stato gli ha tolto la libertà, il supplizio, semplicemente, non è previsto dalla legge. Veniamo al carcere bolognese, com’è la situazione? Ormai il tema del sovraffollamento è dato come acquisito, le leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi (*/**) sono state in parte modificate, a Bologna arrivavano anche persone accusate di reati migratori, ossia che scappavano dalla guerra, dalla povertà, o con pochi grammi di stupefacenti. Nel 2010-2011, c’erano più di mille detenuti alla Dozza. All’epoca si volevano addirittura creare le carceri galleggianti. Anche oggi, tuttavia, vedo gente che colleziona pene ultra-decennali per spaccio, mentre per i reati legati alla criminalità organizzata, a volte si paga meno, questi soggetti hanno più potere d’acquisto, possono permettersi avvocati costosi. E poi, la carenza di personale, su un piano detentivo, la mattina, a fronte di 200 detenuti ci sono 4 poliziotti, gli educatori sono solo 6, non possono farsi carico di questi numeri, un educatore segue oltre 200 persone. Ci sono anche lati positivi nell’istituto bolognese? Certo, a Bologna i detenuti vengono responsabilizzati, se sbagliano però si giocano tutto. La sanità carceraria funziona anche se ultimamente manca qualche medico. Ha sicuramente delle potenzialità. Sul piano professionale, il merito va al nostro comandante: nonostante le difficoltà, ha dato una buona organizzazione al lavoro. Inoltre è stata redatta dall’Osservatorio carcere della Camera penale di Bologna, con la collaborazione del Garante regionale, un’ottima piattaforma di consultazione, una sorta di vademecum per orientarsi negli articoli dell’ordinamento penitenziario finalizzati a ottenere misure alternative al carcere, rivolto alle persone ristrette, a cura degli avvocati Stefania Pettinacci, Chiara Rizzo e Marco Federico Strozzi. C’è un problema della radicalizzazione? Alla Dozza c’è attenzione ai dettami della Costituzione e alle confessioni religiose, c’è anche una moschea. La maggior parte dei detenuti stranieri è di religione musulmana, si garantisce anche il pasto islamico e si può osservare il ramadan. Sappiamo invece molto poco dei detenuti di fede islamica provenienti dai Balcani. Dalla morte di Tito e la dissoluzione della Jugoslavia è successo di tutto. La radicalizzazione c’è, e, lo sappiamo, attecchisce nei ghetti. Sottolineo sempre che la responsabilità penale è personale e non etnica, quindi come avveniva per i meridionali in passato, le dinamiche di oggi sono simili. Quindi qual è concretamente il problema? Le carceri italiane non riescono a socializzare, una volta si diceva rieducare, dovrebbero invece essere anche in grado di tirare fuori i valori delle persone. Nessuno nasce delinquente, no quindi alla succursale del quartiere difficile, ma se l’amministrazione è poco attenta, è complice di questa situazione. Per gli stranieri che commettono reati comuni, o per sopravvivenza, i progetti sono deboli, la devianza riporta dentro se non ci sono percorsi seri e così il carcere diventa il contenitore di tutti i disagi della società. Quindi, pene alternative? Molti detenuti a Bologna potrebbero beneficiare di pene alternative, ma non hanno casa, lavoro e qui dovrebbe entrare in gioco l’istituzione. Non ha senso tenere parcheggiate persone che quando usciranno continueranno a delinquere, ad esempio con meno di 4 anni non dpvrebbe essere prevista la detenzione. Servirebbe alla persona e alla società, è un atto di coraggio, ma il legislatore o il politico che parla di carcere talvolta allontana l’elettorato. Cosa chiedete al nuovo sindaco? Progetti per lavori di pubblica utilità, previsti per altro dall’ordinamento penitenziario. Potrebbero comprendere la gestione del verde pubblico ad esempio. L’ex assessore alla sicurezza, Alberto Aitini, aveva avviato un programma lavorativo per la raccolta indifferenziata all’interno del carcere, che non c’è, ma poi è arrivata la pandemia e si è bloccato tutto. Durante un incontro, durante la corsa alle primarie, il sindaco Matteo Lepore parlò proprio di carceri, rimasi contento e meravigliato. Quindi imprese bolognesi e istituzioni possono essere coinvolte. Insisto, la Dozza come ogni istituto non deve essere una realtà a parte, io sono napoletano, a Scampia hanno creato un carcere, un disagio concentrato, con la differenza è che in via del Gomito o a Poggioreale c’è il muro di cinta con i poliziotti che controllano. Come si possono realizzare i progetti lavorativi? Il carcere dà lavoro a poche persone, a tempo determinato, per dare spazio a tutti, si tratta però di lavori domestici, non spendibili da un detenuto quando esce. È comunque importantissimo perché l’ozio in carcere è pericoloso. La città che vede il carcere come una risorsa, che è disposta a entrare dentro, fare impresa e formare i lavoratori, si troverà davanti a una realtà diversa dalla recidiva. Ad esempio il caso del caseificio inaugurato nel 2017 per la produzione di mozzarelle di bufala all’interno del carcere. Gli impianti sono costati circa 400mila euro, ma a un certo punto i detenuti non venivano più pagati, ora è chiuso e gli impianti sono fermi. Si sono verificate diverse aggressioni alla Dozza.... Il poliziotto penitenziario non deve solo occuparsi di sicurezza, un carcere chiuso non serve a fermare la spirale di violenza e il malcontento e continua a produrre recidiva. Il direttore fa quello che può, la rete del riscaldamento ogni tanto esplode, in estate problema dell’acqua, gli impianti idrici sono vecchi di 40 anni. In carcere c’è molto arbitrio, c’è sfiducia, il nostro è un lavoro tossico, la linea che divide carcerato e carceriere è labile, mentre dovrebbe essere ben delineata, altrimenti con il tempo diventi anche tu poliziotto un carcerato. Come avete gestito la pandemia? Con celle senza docce, 50 persone che solitamente devono lavarsi in 3 postazioni. È inaccettabile, non da Paese civile. Uno stato che non riesce ancora a costruire le docce nelle celle... Dalle 8 di sera, se un detenuto si vuole lavare, non può. L’atteggiamento del legislatore è solo quello di costruire nuove carceri, ma bisognerebbe rimodernare le vecchie strutture, abbiamo celle da 10 mq con due persone. La pandemia da Covid è gestita abbastanza bene, il materiale arriva. Purtroppo non sono ripartiti ancora né le attività del Coro Papageno, né il cinema, avevano donato circa mille film alla sezione penale. Cosa rimane dei disordini dell’anno scorso? Davvero un brutto ricordo, quasi tutte le sezioni sono state ricostruite. E la sezione femminile e il nido? Tutt’altra cosa, una bella realtà, organizzata e tenuta molto bene, c’è un bimbo simpaticissimo di due anni e mezzo, ma i bambini non dovrebbero stare in carcere, questa è una piaga, ed è anche da solo. Manca la progettualità sul nido, un collegamento tra istituzioni e servizio esterno, il quartiere per capirci. Il grosso del lavoro lo stano facendo le colleghe, perchè sono mamme. A Bologna c’è una sensibilità diversa. Il carcere è cambiato negli anni? Fino a 20 anni fa, si sentiva parlare solo siciliano, napoletano, calabrese e un po’ pugliese. Delle dinamiche criminali di certi paesi conosciamo poco. Mentre nel carcere si introducono droni professionali e smartphone, noi abbiamo una vigilanza armata anacronistica, ci affidiamo ancora agli occhi dei poliziotti che poi diventano capri espiatori. Le leggi sono datate: le carceri cominciarono a cambiare con gli anni di piombo, quando vennero arrestati esponenti della lotta armata, ovvero quando entrò il sapere, quindi da lì la legge 354/75 sull’ordinamento penitenziario, prima c’erano ancora le leggi del fascio, poi la Gozzini del 1986 che mise in campo la flessibilità e la rimodulazione delle pene. I telefonini che spesso vengono trovati nelle celle, servono a impartire o prendere ordini o semplicemente a comunicare? Con un’attività investigativa interna, poi passata alla squadra mobile, abbiamo scoperto la tecnica del drone. Con la pandemia, il legislatore ha implementato le telefonate, le videochiamate Skype ad esempio. A un detenuto italiano separato che non vedeva la figlia da due anni, consigliai di fare una richiesta al magistrato di sorveglianza per chiamarla con Skype. L’amministrazione ha superato il gap tecnologico, c’erano detenuti stranieri che da 20 anni non vedevano le famiglie, quindi gli strumenti legali ci sono, probabilmente nell’ultimo caso avevano altri fini. La corruzione nelle carceri c’è e ci sarà, entra di tutto perché a Bologna la struttura è aperta quindi la città entra in carcere. La droga entra, potrebbero entrare pistole, se il detenuto decide di evadere non sega le sbarre, ma si fa arrivare una pistola con un drone. Le perquisizioni vengono effettuate con il metal detector, che non rileva telefoni e droga. C’è da gestire il clima di sospetto che influisce su tutto, anche sul personale. Qual è il modello da seguire? Come sempre quello dei paesi scandinavi, della Germania e anche della Spagna. Peggio di noi forse c’è solo Malta. E in Italia, la Lombardia, le carceri di Opera, San Vittore e Bollate sono all’avanguardia. Cosa chiedete voi poliziotti penitenziari all’amministrazione carceraria? Al garante nazionale, Mauro Palma, chiedo di avviare un progetto di scambi lavorativi tra il personale penitenziario (non solo di polizia) con i loro omologhi nei paesi europei. Bologna. Le canzoni di Guccini in carcere diventano magliette e zaini La Repubblica, 19 ottobre 2021 Il cantautore emiliano ha autorizzato l’uso di quattro brani da parte della sartoria della Casa circondariale di Bologna. Vendita online e ricavato per una cooperativa che si occupa di avviamento al lavoro dei detenuti. Non capita spesso di leggere i testi delle canzoni di Francesco Guccini sulle magliette, sulle borse e sugli zainetti. Il cantautore emiliano ha fatto un’eccezione per il carcere di Bologna e ha donato le sue canzoni per realizzare manufatti confezionati dalla sartoria Gomito a Gomito. L’acquisto può essere effettuato sul sito della stessa sartoria a partire dal 18 ottobre, e il ricavato andrà a sostegno della cooperativa Siamo Qua, impegnata da oltre dieci anni nel favorire la formazione professionale dei detenuti. “Sono parole e arte a vantaggio di un’ottima causa”, ha commentato Francesco Guccini, che ha scelto di aderire all’iniziativa memore delle sue esperienze di cantautore in visita nelle case circondariali italiane. Lo racconta lui stesso in uno dei cinque video pubblicati recentemente su YouTube, ricordando le visite a vari istituti penitenziari italiani e i concerti al loro interno, come accaduto a Porto Azzurro, all’isola d’Elba: “Mi ricordo che quando entravi poi alle tue spalle si chiudeva il portone e pensavo io stasera riesco, ma questa gente qua no”. L’invito è partito dalla coordinatrice della sartoria, Enrica Morandi, la quale ha spiegato così la scelta dei quattro brani sulle circa 160 canzoni che compongono il repertorio del “maestrone” di Pavana: “Riflettendo sulla realtà in cui ci si muove, cioè sul carcere, si sono scelti alcuni versi che un po’ rappresentano l’attività di volontari, come anche l’aspettativa che l’impegno della cooperativa suscita nelle persone con cui si lavora”. Tra le frasi scelte quelle di Don Chisciotte: “Anche se siamo soltanto due romantici rottami sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte: siamo i grandi della Mancha, Sancho Panza e Don Chisciotte!”; di La Locomotiva: “Ma un’altra grande forza spiegava allora le sue ali. Parole che dicevano: gli uomini con tutti uguali”; e ancora, Canzone di notte n. 2: “Scusate non mi lego a questa schiera morrò pecora nera”: e di Il vecchio e il bambino: “Mi piaccion le fiabe raccontane altre”. Bologna. Via alla colletta per la scuola della Dozza di Amalia Apicella Il Resto del Carlino, 19 ottobre 2021 Torna da lunedì il progetto per regalare penne, libri e quaderni ai detenuti. Torna l’ottava edizione della colletta per regalare libri e articoli di cartoleria alla scuola del carcere. Da lunedì prossimo fino alla fine dell’anno sarà possibile donare un libro agli studenti del penitenziario rivolgendosi a una quindicina di negozi in città e provincia associati a Confcommercio. “Spesso i detenuti non riescono a comprare nemmeno una penna - sottolinea Alberta Zama, presidente della federazione librai Ascom. Con questo progetto siamo riusciti a portare fino a trecento volumi all’anno”. Un ulteriore problema, nato con la pandemia, è legato al ‘riciclo’ dei vocabolari, perché “nel nostro carcere i detenuti parlano 14 o 15 lingue diverse - afferma Medardo Montaguti, presidente nazionale della federazione cartolai Confcommercio. Purtroppo passare i testi da un allievo all’altro non è più possibile”. Si tratta dunque di un’opportunità di rinascita, “una seconda chance, che passa anche attraverso l’educazione e la lettura”, aggiunge il direttore generale dell’Ascom, Giancarlo Tonelli, ribadendo il valore e il successo delle passate edizioni. “Penne e libri sono le armi più potenti”. Lo aveva detto Malala Yousafzai nel suo discorso all’Onu e lo ha ricordato Vittorio Lega, professore del penitenziario. “In questo caso - conclude Lega - non si tratta di una metafora, ma della realtà. E con quest’iniziativa dobbiamo portare le persone a maneggiare armi migliori. In carcere, inoltre, è totalmente assente il digitale. Chiediamoci se questo, oggi, possa essere accettabile”. Vibo Valentia. Carcere, concluso il corso di formazione intensivo per pizzaioli ilvibonese.it, 19 ottobre 2021 La soddisfazione e i ringraziamenti dell’istruttore, il maestro pizzaiolo Giuseppe Guarnaccia: “Esperienza straordinariamente positiva”. Si è concluso pochi giorni addietro al carcere di Vibo Valentia il corso di formazione intensivo per pizzaioli, che dallo scorso 13 settembre ha visto impegnati sei detenuti del reparto medio sicurezza. “È stata un’esperienza straordinariamente positiva e che mi ha arricchito sia dal punto di vista professionale che umano”, ha affermato Giuseppe Guarnaccia, il maestro piazzaiolo e direttore del corso, nonché noto panificatore reggino che è affiliato a Pizzaitalianacademy e all’Accademia Italiana del Pane. “Allo stesso tempo - ha continuato Guarnaccia - non posso fare a meno di ringraziare, per il supporto ricevuto e la grande disponibilità prestata durante la mia permanenza presso la struttura di Vibo Valentia, la direzione del carcere, rappresentata dalla direttrice Angela Marcello, e la Caritas diocesana di Mileto, nella persona di Antonio Morelli. Ringrazio inoltre la responsabile dell’Area trattamentale, la dottoressa Chiara La Cava, e la dottoressa Simona Carone, funzionario giuridico-pedagogico, così come tutto il personale della polizia penitenziaria, con a capo Salvatore Conti”. Un ultimo e sentito un ringraziamento particolare agli allievi che hanno seguito il corso: “Spero vivamente - ha detto ancora Guarnaccia - che quello che ho insegnato loro possa servirgli un giorno per poter essere reinseriti nel mondo del lavoro una volta riacquistata la libertà, attraverso un mestiere duro sì ma molto qualificante e allo stesso tempo gratificante. Io posso solo registrare la loro dedizione durante lo svolgimento del corso, oserei dire l’entusiasmo che alcuni in particolare hanno evidenziato. Il riscatto sociale - ha concluso il maestro - parte soprattutto dal lavoro; spero, nel mio piccolo, di avere dato un contributo in tal senso nel futuro di ognuno di loro”. Pesaro-Urbino. Festival Parole di Giustizia: “Sfidiamo i luoghi comuni sulla sicurezza” di Guglielmo Maria Vespignani ilducato.it, 19 ottobre 2021 “Abbiamo parole per vendere, parole per comprare, parole per fare parole. Andiamo a cercare insieme le parole per pensare”. Con questa citazione da una filastrocca di Gianni Rodari, pronunciate dalla coordinatrice e docente di Ordinamento Giudiziario Chiara Gabrielli, si è chiusa la conferenza stampa di presentazione del festival “Parole di Giustizia: In-sicurezza. Giustizia, diritti, informazione”, che si svolgerà tra Pesaro e Urbino dal 22 al 24 ottobre. Un weekend di incontri tra cittadini, personalità accademiche e il mondo della magistratura, nato su iniziativa dell’Università di Urbino, con l’obiettivo di riflettere sul linguaggio utilizzato per comunicare la giustizia. Il messaggio contro il sensazionalismo di certa stampa sulla questione della sicurezza, troppo spesso incline a un uso sconsiderato di parole che generano sgomento e paura nell’opinione pubblica, accompagna tutti gli interventi della conferenza stampa. “Anche per questo motivo - dice Gabrielli - durante i lavori del festival ci muoveremo per le strade delle città ospitanti, perché questo evento deve favorire e incentivare il confronto tra partecipanti e relatori”. Secondo il Rettore Giorgio Calcagnini è proprio la paura sociale il primo fardello da esorcizzare: “Stiamo uscendo da un periodo di sgomento e incertezza legati al Covid, dove tuttavia non è stato solo l’aspetto medico a essere investito di negatività. Vari punti di vista sono dunque necessari in questa fase: includere linee di studio e ricerca differenti non può che far bene al confronto e alla crescita collettiva” ha affermato il Rettore, intervenuto all’inizio della conferenza stampa. Un approccio interdisciplinare - Il metodo interdisciplinare è un punto di partenza condiviso da tutti i relatori. Ne sono la prova i diversi incontri che affrontano il tema della giustizia nei suoi effetti pratici: “Un’altra idea di sicurezza: politiche per le vittime” con Umberto Ambrosoli, figlio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli; “Sicurezza e immigrazione”; “Sicurezza del lavoro”; “Carcere e comunicazione”. A confermarlo sono le parole del magistrato Livio Pepino, presidente dell’associazione studi giuridici Giuseppe Borrè: “La giustizia non sono montagne di scartoffie e scontri negli uffici giudiziari, ma è il tentativo di dar risposte alle esigenze delle persone, e perciò capacità di dialogarci e ascoltarne le necessità. Per farlo vanno messi insieme specialisti e professionalità diverse”. Non è un caso, quindi, che nella giornata di venerdì 22 ottobre il festival si aprirà con una riflessione sul sociale (“I dati della paura: realtà e percezione” con Ilvo Diamanti e Alessandro Bondi) e che si concluderà, a Palazzo Ducale, con un incontro che tratterà degli intrecci tra arte e giustizia. “Il concetto di sicurezza va declinato in termini di diritti e non in termini di Tulps (Testo unico di leggi sulla Pubblica sicurezza ndr)” afferma Pepino, che conclude il suo intervento in collegamento video ringraziando l’Università di Urbino “perché l’idea dell’università che si apre al di fuori dei suoi confini è una ragione di speranza”. Di questa idea è anche Marina Frunzio, che da remoto interviene come rappresentante dell’incontro tra discipline - in questo caso il Diritto Romano, di cui Frunzio è docente, e il diritto penale processuale: “Il Dipartimento di Giurisprudenza deve significare accoglienza, consenso ma anche dissenso. Il dissenso è un valore, non un disvalore. Entrare nelle scuole vuol dire occuparsi della crescita delle coscienze e dello sviluppo culturale dei cittadini di domani, ed è una grossissima responsabilità”. Come affrontare la crisi dei diritti? La riflessione sul ruolo delle parole nella giustizia si estende anche ai rappresentanti delle correnti della magistratura, come dimostra il contributo - anche questo da remoto - del segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino: “La sicurezza è un tema centrale soprattutto nelle periferie, dove i bisogni delle persone vengono marginalizzati, mentre invece sta diventando un diritto dei più garantiti a non essere disturbati da chi ha più bisogno. Senza saper leggere queste dinamiche - continua Musolino - saremmo miopi nei confronti delle ragioni che stanno alla base di certi comportamenti, e non saremmo in grado di renderci conto della profonda crisi che stanno vivendo i diritti”. Ed è proprio sul tema dei diritti che si impernia l’intervento della direttrice del Dipartimento di Giurisprudenza Licia Califano: “L’idea di giustizia si coniuga da sempre con l’uguaglianza e la dignità, concetti fondamentali attorno a cui riflettere per proporre un evento all’altezza della complessità e dell’importanza del tema”. Con “Parole di Giustizia” l’Università di Urbino si mette quindi in cammino non solo con chi lavora nella magistratura ma anche con cittadini di oggi e di domani, tenendo in mente l’obiettivo di far rifiorire un senso collettivo di cittadinanza. Attraverso le parole. Milano. Il film “Ariaferma” proiettato nel carcere di Bollate di Tiziana De Giorgio La Repubblica, 19 ottobre 2021 Tra i detenuti arrivano Orlando e Servillo: “Con voi un’ora di libertà”. Il cast è stato nei giorni scorsi a Rebibbia, poi nella struttura milanese considerata da tanti un esempio virtuoso nel sistema delle prigioni italiane. Quando le luci si accendono e dalle poltrone si alzano uno dopo l’altro in piedi, è difficile decidere da che parte stiano gli occhi più lucidi. E la voce dei detenuti che prendono il microfono trema esattamente come quella di chi, fino a un minuto prima, era su quello schermo. E stava recitando la loro parte. Al carcere di Bollate sono arrivati Toni Servillo, Silvio Orlando e il regista Leonardo Di Costanzo per la presentazione di ‘Ariaferma’, il film presentato al Festival di Venezia con il tema del carcere e di una sua possibile umanità al centro. Il cast è stato nei giorni scorsi a Rebibbia per l’anteprima e ora è nella struttura detentiva di Milano considerata da tanti un esempio virtuoso nel sistema delle prigioni italiane. È la prima volta che la sala per il teatro e le proiezioni dei film torna a riempirsi dopo la grande emergenza. Ci sono 150 detenuti arrivati da tutti i reparti, un tutt’uno, nel colpo d’occhio, dentro a una platea che li vede insieme al personale che a Bollate ci lavora. E a ospiti esterni che una volta al mese (o almeno questa era la cadenza prima che iniziasse la pandemia) possono venire al cinema qui, superando le sbarre e abbattendo le barriere di un gigantesco mondo così difficile da capire senza metterci piede. “Vede? Quando si siedono su queste poltrone le differenze non esistono più, sono solo appassionati di cinema”, dice Catia Bianchi, responsabile delle attività culturali dell’istituto. Ecco perché nei posti non esistono schemi ed è difficile capire chi, alla fine, tornerà a casa. E chi invece dovrà fermarsi. “Ci avete regalato un’ora di libertà, questa è la dimostrazione di come la cultura può spingere verso l’umanità”. Sembra una voce unica quella che rimbalza, forte, dalle casse della sala, quando i detenuti prendono la parola. ‘Ariafermà è tutto girato dentro a una vecchia prigione in via di chiusura dove, per problemi burocratici i trasferimenti rallentano e gli ultimi detenuti rimangono, con pochi agenti, in attesa di nuove destinazioni. E dove sono i piccoli gesti umani la chiave di tutto. Gli ospiti di Bollate l’hanno guardato in silenzio, applaudendo a più riprese nelle scene il confine e la vicinanza tra guardie e carcerati sembra farsi sottile. “E vedere la vostra reazione è commovente - ammette Servillo - e sentire che viene apprezzato da voi un film con questo suggerimento, che le relazioni possono cambiare tutto, lo è ancora di più”. Sono in tanti a passarsi il microfono, a chiedere di parlare, di dire di quella realtà in cui si sono rivisti per le dinamiche, per i rapporti, per quel “noi” e “loro” fra carcerati e poliziotti che solo chi sta qui dentro conosce. “Un film dove emerge un valore che a Bollate c’è - racconta Floriano, guardando negli occhi attori e regista - quello di una fiducia reciproca”. Quello della speranza, aggiungono altri subito dopo. “Ma quante Bollate ci sono nel sistema italiano?”, chiede Silvio Orlando, che definisce questo luogo come “una realtà sperimentale, un piccolissimo segmento del mondo carcerario dove c’è la democrazia”. Anche il direttore della casa di reclusione, Giorgio Leggieri, prende la parola: “Quest’anno è il ventennale dalla sua apertura e io penso che sia un modello che si possa replicare altrove, dove la differenza la fa il clima che misuri ogni giorno”. Ma quante realtà sono così? E quante strutture sono ancora esattamente come quelle che si vedono nel film, con i bagni rotti, le celle oltre i limiti della decenza? Ed ecco il perché del film: “Mi sono reso conto che un dibattito sul carcere fuori non c’è - spiega il regista - ed è necessario che si sappia che qui dentro ci sono esseri umani che hanno potuto sbagliare, il problema è recuperare la fiducia”. Un dibattito che sembra quasi una rappresentazione teatrale, dove anche i confini fra attori e detenuti sembrano sfumare, fra racconti di vita intensi, piccoli aneddoti, come un panzerotto con la mozzarella bollente ceduto a una guardia che sembra uscito dalla sceneggiatura di un film. Ma fra gli applausi, i momenti di ironia, c’è un unico sentimento denso che si respira e che lega la sala intera, quello della commozione. “E qui c’è gente che si è fatta più di trent’anni di carcere, se la sentite così forte è anche per questo”. Rebibbia Lockdown: il carcere al tempo del Covid news.cinecitta.com, 19 ottobre 2021 Il film documentario nato da un’idea di Paola Severino. Si intitola “Rebibbia Lockdown” il film documentario diretto da Fabio Cavalli e nato da un’idea della vice presidente della Luiss ed ex ministro della Giustizia Paola Severino, che racconta l’esperienza vissuta da quattro studenti universitari della Luiss con un gruppo di detenuti del reparto di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia. È stato presentato in anteprima al Venice Production Bridge nell’ambito della Mostra del cinema di Venezia. Alla proiezione nello Spazio Incontri dell’Hotel Excelsior al Lido erano presenti, oltre alla Severino, al regista e ai quattro studenti protagonisti, anche l’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco e il Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia. Mentre il Ministro di Grazia e Giustizia, Marta Cartabia, ha inviato un messaggio per sottolineare l’importanza di questa iniziativa che mette al centro l’universo carcerario e il valore della legalità, attraverso il dialogo tra studenti della Luiss e giovani detenuti. Prodotto da Clipper Media con Rai Cinema, con il sostegno della Regione Lazio - Fondo regionale per il cinema e realizzato grazie alla disponibilità del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Rebibbia Lockdown dà voce alle paure e alle inquietudini generate dalla pandemia all’interno dell’universo carcerario e all’impatto sui detenuti e sul personale di Polizia Penitenziaria. Nel periodo in cui il Covid-19 ha costretto tutti all’isolamento nelle proprie abitazioni, tra i protagonisti del film documentario si instaura un fitto scambio epistolare nel quale ognuno sceglie di raccontare a cuore aperto sogni, speranze e sacrifici. Solo alla fine del lockdown, tutti i protagonisti avranno modo di rincontrarsi personalmente nell’aula universitaria di Rebibbia, sentendosi più legati di prima. “Questo film documentario - ha affermato Severino- nasce dall’entusiasmo con cui i nostri studenti della Luiss hanno voluto confermare, anche in tempo di pandemia, il loro impegno nel progetto ‘Legalità e Merito’. Un progetto che ho introdotto tempo fa nella nostra Università, nella convinzione che il rispetto delle regole vada promosso fin dall’età giovanile. Ragazzi volontari che da anni, in numero crescente, portano questi temi nelle scuole delle località più degradate d’Italia e negli istituti carcerari. Neppure il lockdown ci ha fermati, ma anzi ha rappresentato uno stimolo a mettere in comunicazione ragazzi isolati a casa e detenuti isolati in carcere. Si è così aperto un dialogo fitto ed intenso, descritto dal film documentario, che ha attraversato questo periodo così difficile, passando tra la solitudine dei detenuti, impossibilitati a ricevere levisite dei loro familiari, e la solitudine degli studenti, impossibilitati ad incontrarsi con i loro compagni. Un confronto che ha accompagnato anche i drammatici momenti della rivolta nelle carceri, per approdare nel finale ad un toccante incontro nel penitenziario di Rebibbia, finalmente di nuovo accessibile”. “Frasi, sguardi, accoglienza - ha proseguito Severino - tutto intorno a noi confermava che si può e si deve parlare di legalità in ogni contesto: ai giovani studenti che credono nel valore del merito e ai giovani detenuti che mi hanno dato la più bella definizione del valore nel quale hanno ricominciato a credere: ‘la legalità è sentirsi in pace con sé stessi e con il mondo’. Proprio per questo la Luiss ha voluto dare ai migliori allievi la possibilità di raggiungere una meta ambita: mostrare le proprie capacità, vincere la competizione ed iscriversi all’Università grazie ad una borsa di studio. Un piccolo contributo al grande impegno dei tanti che si occupano silenziosamente di formazione dei giovani e rieducazione dei condannati”. “Fra febbraio e aprile 2020 - ha aggiunto il regista - centinaia di migliaia di detenuti in tutto il mondo tentarono in ogni modo di non fare la fine dei topi. Alcune nazioni (Iran, Turchia) ne scarcerarono decine di migliaia per precauzione. In altre furono presi provvedimenti di distanziamento in fretta e furia. In Italia sospesero temporaneamente la pena a qualche centinaio di anziani e malati, tra le stravaganti proteste dei politicanti sulle ‘scarcerazioni facili’ dei ‘super-criminali’. Nella condizione di scandaloso sovraffollamento e promiscuità, alcuni detenuti italiani, isolati da ogni contatto coi familiari, attoniti di fronte alle migliaia di morti quotidiane nelle città oltre le mura invalicabili, si ribellarono e tentarono la fuga disperata. Inutilmente. Lo Stato agisce e vince sempre contro i pochi o i tanti che si scatenano contro di lui. Ma c’è modo e modo di agire. A Rebibbia lo Stato è rappresentato da un Corpo di Polizia Penitenziaria che con fermezza, ragione e persuasione placa gli animi dei rivoltosi e mette in sicurezza il carcere in poche ore, senza torcere un capello a nessuno. E subito dopo cerca e trova le risposte possibili a tanta angoscia e rabbia di chi vive oltre i cancelli”, ha aggiunto Fabio Cavalli. Per Paolo Del Brocco: “Questo film pone al centro una profonda riflessione su alcuni dei temi portanti di ogni democrazia moderna: la formazione dei giovani e la rieducazione dei detenuti. Il lavoro di Fabio Cavalli, nato da un’idea della professoressa Severino, e ancora una volta carico di un grande valore di testimonianza individuale e civile, ci suggerisce che una sintesi tra questi due grandi temi è possibile. Per produrre Rebibbia Lockdown abbiamo raccolto una sfida che per la complessità degli argomenti trattati e la situazione in cui ci trovavamo sembrava quasi impossibile, eppure grazie al coinvolgimento e alla straordinaria collaborazione di tutti i partner del progetto siamo riusciti a portare a termine il lavoro in piena pandemia. Voglio cogliere l’occasione per rivolgere un sentito ringraziamento alla Professoressa Severino, all’Università Luiss, al Presidente Bernardo Petralia Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), a Carmelo Cantone provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, a Rosella Santoro direttrice casa circondariale di Rebibbia N.C. (nuovo complesso), e naturalmente a Fabio Cavalli e alla Clipper Media che ha prodotto il film. Siamo certi che da oggi questo film inizierà il suo percorso di incontro con il pubblico, e come Rai Cinema saremo certamente presenti, per sostenere tutte le iniziative necessarie alla sua divulgazione, dal lavoro con le scuole sino alla messa in onda televisiva”, ha proseguito Del Brocco. Il progetto Legalità e merito nelle scuole Nato nel 2017, il progetto ‘‘Legalità e Merito nelle scuole’’ è da sempre pensato per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado e per i giovani detenuti presso gli Istituti Penali Minorili di tutta Italia, per sensibilizzarli sui valori della legalità e del merito, sulla cultura della corresponsabilità, delle regole e del senso civico, della trasparenza e del rispetto dei beni comuni. ‘‘Legalità e Merito nelle scuole’’ è un’iniziativa sviluppata in collaborazione con il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Istruzione, il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e l’Autorità Nazionale Anticorruzione. L’uomo che fece la rivoluzione gentile di Natalia Aspesi La Repubblica, 19 ottobre 2021 “Let’s kiss”, presentato alla Festa del cinema di Roma, è il documentario dedicato a Franco Grillini e alle battaglie per i diritti civili degli omosessuali. “Busone in Emilia Romagna, Bulicchio in Liguria, Caghineri in Sardegna, Puppo in Sicilia e Arruso a Palermo, Ricchione, Frocio, Finocchio a Roma!”. Cari algoritmi non allarmatevi, non cancellate nulla perché questo vocabolario altamente offensivo per i variegati non binari di oggi, in tempi di maggior allegria, in cui si era gay, lo pronuncia con gran divertimento Franco Grillini agli inizi del documentario di Filippo Vendemmiati, a lui dedicato e presentato ieri alla Festa del cinema di Roma. “Tanti modi per dire ti amo” conclude quella fila di offese popolari e antiche e così inizia il documentario, Let’s kiss. Una rivoluzione gentile, titolo alquanto stravagante oggi, perché la rivoluzione è stata sostituita dal lamento e la gentilezza dall’insulto. Cari ragazzi e ragazze di oggi che vi fregiate di uno o di tutti questi caratteri, Lgbtqqicapf2k+, mi auguro sappiate chi è questo Franco Grillini detto Grillo, un eroe della nostra storia politica, legislativa, sociale, umana, affettiva, paritaria, un combattente inarrestabile che appunto con gentilezza, umorismo, sapienza, creatività, fermezza, ha combattuto in Italia per sottrarre l’omosessualità dall’inferno, dall’esclusione, dalla vergogna, dal dolore e, certo con tanti altri, ci è riuscito benissimo: anche se dice lui “le battaglie non finiscono mai, e troppi ancora si nascondono, sopportano una doppia vita, amano in clandestinità”. Grillini ha anche la fortuna di essere bolognese, e già basta quel dialetto, quella sonorità ondosa a rendere tutto ciò che dice, leggero eppure inattaccabile. Lo vediamo sempre allegro a far battute in televisione dove veniva invitato in quanto fenomeno, come adesso si invitano i terrapiattisti (ma anche i No Vax!), aspetto professorale, non un orecchino o altro segnale per accontentare gli avidi del diverso. Dagli anni ‘80 va da tutti, Bongiorno e Biagi, Ferrara e Chiambetti, Funari e un giovanissimo Gad Lerner ricciolino: c’è l’invitata Dc che parla di devianza, il Dc Buttiglione che esclama conciliante “Siamo tutti peccatori”, l’Msi in forza con Fini che gridano “Frocio Frocio”, e il pubblico che inviterebbe con “gaudela” un gay in famiglia e le signore come sempre litigiose, una che teme per gli innocenti e l’altra che urla una frase d’epoca oggi impronunciabile, “Non siamo obbligati se non vogliamo!”. E gli scontri non solo televisivi coi democristiani Giovanardi, Casini e Donat-Cattin. Lo scontro con questo Dc è tra due spiritosi: è il febbraio del 1987, ormai l’Aids anche in Italia è inarrestabile; il numero di vittime è passato dal quattordicesimo posto al quarto e l’Arcigay fondato da Grillini chiede una presa di posizione del ministro: “Non farò mai propaganda al preservativo perché può rompersi”. “Mi pareva davvero che lui fosse ossessionato dal rapporto anale, e avventatamene dissi: “allora domani lo distribuiremo gratis in piazza alle signore”. E lui: “io alle signore mando le rose”, e noi: “ma le rose hanno le spine e li bucano”. Il giorno dopo riuscimmo davvero a trovarne migliaia a buon prezzo e fu un grande successo. È una scena ancora molto cliccata”. Franco nasce nel marzo del 1955 a Pianoro provincia di Bologna: “Eravamo poveri ma dignitosi, come nel film di Bertolucci Novecento, in campagna non mancava certo da mangiare, mio padre contadino, mia madre operaia. A cinque anni ero un re, salivo sul trattore e sapevo di avere in mano il mondo”. Era un bel bambino con gli occhi verdi e i capelli biondo cenere e quando iniziò la scuola “io parlavo solo il dialetto e l’italiano era da imparare come una lingua straniera, alla fine della terza media mi sconsigliarono vivamente di continuare a studiare e avrei dovuto andare subito a lavorare, ma io mi impegnai a diventar un secchione: andavo a scuola con il quotidiano e a sedici anni leggevo Il Capitale. Ero passato da Gesù a Marx; avevo avuto un rapporto sofferto con la religione, forse in contrasto con i miei che erano atei, però il prete cominciò a provarci. Certo, ero il più bello della dottrina e nel confessionale mi faceva domande tipo “ti tocchi”, e io: “certo che mi tocco”, ma ero molto infastidito. Infatti, una delle mie tante proposte di legge, tutte dichiarate inammissibili, fu quella di proibire di parlare di sesso nei confessionali”. La sua carriera politica è stata quanto mai variegata, seppure sempre a sinistra; a quindici anni entra nel partito di Unità Proletaria, nell’85 passa al Pci, nel 1987 si candida alle elezioni politiche, nel 1990 è eletto in consiglio provinciale a Bologna e rieletto nel ‘95. Nel ‘94 è candidato alle europee per il Pds, nel 2001 diventa deputato per i Democratici di sinistra. È lui che nel 2004 riesce a iscrivere all’ordine del giorno della Camera in Commissione Giustizia la proposta di legge sui Pacs, il primo tentativo, discusso per anni e fallito, per consentire le unioni civili tra le persone dello stesso sesso. I tanti filmati d’epoca mostrano la bellezza di quella gioventù senza etichette né travestimenti, se non alla festa del Gay Pride, felice di ritrovarsi insieme per la battaglia della loro verità, ragazzi, e ragazze, che però si unirono dopo. A Bologna contava molto lo spirito della città e i gay sapevano far uso degli anatemi popolari a loro vantaggio, ribaltandoli. Uno striscione che ebbe allora il massimo successo, attraversava la strada con la scritta “L’è mèi un fiol leder che un fiol buson” (meglio ladro che busone). Intanto Grillini si innamora pazzamente di una ragazza, sognando un figlio, ma poi non se ne fa niente: allora abbiamo avuto in tante questa esperienza di fidanzati amorevoli che nel loro disagio esistenziale a un certo punto si rivelavano a se stessi, e poi a noi. Grillini ha incontrato il primo amore nel 1982, a 27 anni, un coetaneo che conosceva da tempo, “una passione travolgente, e solo allora sono passato dalla teoria alla pratica. Anche se continuo a pensare che una grande amicizia vale molto di più di un amore che può essere una fiammata. Una volta laureato in psicologia e già conosciuto come teorico gay e fidanzato con ragazze, ho fatto dieci domande per trovare un lavoro, nove sono state scartate e sono diventato bidello, aiutando gli studenti a fare i temi”. In quell’anno, organizzando una grande festa nella casa in campagna, invitando cento persone e impegnando le donne a fare tortellini per giorni e giorni, trascurò la ragazza di allora, molto arrabbiata, e ballando solo con il suo ragazzo, finalmente fece coming out: e la mamma contenta. Bologna in quegli anni comunista, di un comunismo liberale con sindaci speciali come Zangheri e Imbeni, concesse finalmente all’Arcigay una sede importante nell’antico Cassero. “Ci sono stati anni di bella euforia e chiedemmo al sindaco comunista di Riccione di poterla eleggere “spiaggia Arcobaleno”. Lui acconsentì ma poi la giunta si spaventò, “qua le turiste tedesche e nordiche vengono per il maschio romagnolo, non si può” e noi rispondemmo e noi chi siamo?”. Franco Grillini dal 2014 ha il mieloma multiplo, che lo obbliga a cure dolorosissime, “però preferisco star male andando in giro che chiudendomi in casa, così mi distraggo. Uno scemo mi ha detto: “Hai evitato l’Aids ma ti sei preso lo stesso un male del sangue”. Gli ho risposto, “Vedi che culo”. Let’s Kiss è una specie di testamento suo e di quegli anni bellissimi, di battaglia e vittoria. Lontani. Un anno dedicato al volontariato di Emanuele Alecci e Riccardo Bonacina Corriere della Sera, 19 ottobre 2021 Appello a Draghi: appoggi il nostro progetto affinché il 2022 sia dedicato alla solidarietà. Signor presidente del Consiglio, come certamente ricorderà nel corso del 2020 Padova è stata Capitale Europea del Volontariato. Prestigioso riconoscimento attribuito annualmente dal Centro Europeo del Volontariato e che mai aveva premiato una città italiana. Nel corso del complicato e doloroso 2020 abbiamo vissuto questo riconoscimento cercando di mettere in campo tutto quanto poteva essere necessario per fare in modo che i cittadini specialmente quelli più fragili potessero affrontare la situazione. Come il presidente Sergio Mattarella aveva sottolineato nella cerimonia di apertura di Padova capitale, ci siamo tutti resi conto di come “Il volontariato è una energia irrinunziabile della società. Un patrimonio generato dalla comunità, che si riverbera sulla qualità delle nostre vite, a partire da coloro che si trovano in condizioni di bisogno, o faticano a superare ostacoli che si frappongono all’esercizio dei loro diritti”. Nei giorni più bui cui tutti noi eravamo alla ricerca di uscite di sicurezza, abbiamo finalmente capito come la solidarietà riesca a riscrivere completamente la nostra convivenza tessendo relazioni gratuite e necessarie rispondendo ai bisogni. Ed è proprio questo che è avvenuto in tantissime città italiane ed europee. Persone che hanno trovato nel volontariato la pratica di una cittadinanza riscoperta, il senso di una partecipazione alle proprie comunità, e la scoperta di pratiche innovative di solidarietà. Tutto questo volontariato, ha dato speranza a quanti si sono ritrovati smarriti. Per questo il volontariato è un bene unico e prezioso che riesce a rivitalizzare tutto il nostro vivere. Perciò abbiamo deciso di lanciare una campagna che mira a candidare a livello transazionale il volontariato a Patrimonio immateriale dell’Umanità. Perché il futuro non potrà essere la riproposizione riveduta e corretta di cose vecchie ma l’ideazione di un mondo nuovo. Un mondo che veda nel volontariato la leva robusta di uno sviluppo equo e sostenibile. Quando trent’anni fa venne approvata la legge sul volontariato tra gli applausi di tutto l’emiciclo parlamentare, il presidente del Consiglio Goria scrisse “Il volontariato è sviluppo”, sottolineando come la coesione sociale non sia conseguenza dello sviluppo e della crescita ma la sua prima e necessaria condizione. La candidatura che ha già raccolto l’adesione delle principali reti del volontariato italiano e di centinaia di personalità della cultura e della vita civile, sta crescendo anche a livello europeo. Signor presidente, recentemente abbiamo presentato a Padova la campagna che abbiamo predisposto per accompagnare questa candidatura. Una campagna di grande promozione volta non solo a raccontare le storie dei volontari, ma anche destinata a far sperimentare sempre a più donne e uomini il volontariato. A questo proposito, a conclusione del nostro convegno nazionale tenutosi a Padova il 2 ottobre 2021 scorso, tutti i partecipanti ricordando i vent’anni dell’anno internazionale del volontariato e i dieci dell’anno europeo, hanno condiviso il fatto di proporre che il 2022 venga proclamato e dedicato al volontariato. Che il 2022 anno della rinascita della ricostruzione diventi un anno di grande promozione del volontariato! Conoscendo la sua sensibilità, le chiediamo di appoggiare questo nostro proposito affinché il 2022 diventi per il nostro Paese l’anno del volontariato. Restiamo a sua disposizione per presentarle la campagna e quant’altro fosse necessario per sostenere questa iniziativa. Quante armi ci sono nelle case degli italiani? di Chiara Pizzimenti vanityfair.it, 19 ottobre 2021 Una ragazza di 15 anni è morta nel bresciano a causa di un colpo accidentale partito da un fucile legalmente detenuto dal padre. Incidenti come questo accadono ogni anno, ma molti di più sono gli omicidi e i femminicidi compiuti con armi legalmente detenute. In Italia non esistono dati ufficiali su quante siano le armi nelle case, anche quelle con regolare licenza. Un colpo accidentale partito da un fucile legalmente detenuto. È una disgrazia, un incidente quello che è avvenuto a San Felice sul Benano dove una ragazza di 15 anni è rimasta uccisa per un colpo partito da un fucile armato. Sarebbe stato il fratello 13enne a impugnare l’arma del padre che ha una licenza per uso venatorio e una decina di armi in casa. Ogni anno sono meno di dieci i casi come questo. Molti di più gli incidenti o gli omicidi durante la caccia, una trentina, ma con punte del doppio. Gli incidenti casalinghi nascono soprattutto da mancanza di controllo e cattiva custodia delle armi. Il 57enne, padre dei ragazzi che ha la licenza, è indagato a piede libero per omicidio colposo perché il fucile era sotto la sua responsabilità. Il problema delle armi nelle case degli italiani parte dai numeri. Non c’è un censimento completo neanche di tutte quelle legalmente detenute. Non esistono dati ufficiali del Ministero dell’Interno sul numero di armi legalmente detenute: le stime variano dagli 8 ai 10 milioni. Spiega Giorgio Beretta, analista di Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere: “La normativa italiana per il numero di armi detenibili è tra le più permissive in Europa, con una licenza per tiro sportivo o da caccia si possono tenere tre pistole, dodici fucili semiautomatici (tipo gli Ar-15, i più usati nelle stragi in America) e un numero illimitato di fucili da caccia. Le norme sono troppo blande e le licenze si possono ottenere con troppa facilità: non è richiesto né un esame tossicologico né una perizia psichiatrica nemmeno per gli anziani, tutto si basa su un’autocertificazione controfirmata dal medico curante e un breve esame all’Asl, simile a quello per ottenere e rinnovare la patente di guida”. Non è prevista una forma di assicurazione per le armi che si tengono in casa, ma solo per la licenza di caccia. Non ci sono nemmeno tasse sulle armi: solo due marche da bollo di 16 euro ogni 5 anni. Secondo Beretta avere una tassazione sulla detenzione di armi permetterebbe di avere un quadro più completo della loro presenza, ma darebbe anche la possibilità di istituire un fondo per le vittime e per fare un vero censimento della presenza di armi. “Anche solo una tassa annuale di 12-15 euro potrebbe servire sia per digitalizzare tutte le armi, molte infatti sono ancora su registri cartacei, sia, soprattutto per creare un fondo per le vittime delle armi da fuoco legalmente detenute simile al fondo per le vittime di incidenti stradali” aggiunge Beretta. Manca anche un incrocio dei dati fra possesso di armi e omicidio in famiglia. “Oggi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o da un rapinatore. Lo dimostra la comparazione dei dati Istat con i dati del database di Opal: nel triennio 2017-19 sono stati almeno 131 gli omicidi perpetrati con armi regolarmente detenute a fronte di 91 omicidi di tipo mafioso e di 37 omicidi per furto o rapina. Nel 2020 a fronte di 93 omicidi di donne e femminicidi, 23 sono stati commessi da legali detentori di armi o con armi da loro detenute. Si tratta di un omicidio di donna su quattro”. Con l’ultima legge, che avrebbe dovuto essere più restrittiva recependo le normative europee post Bataclan, le maglie sembrano invece essersi allargate, a parte la durata delle licenze di porto d’armi per la caccia e a uso sportivo che da sei è scesa a cinque anni. Le “armi sportive” che si possono detenere sono passate da sei a dodici, i colpi consentiti nei caricatori sono passate da 15 a 20 per le armi corte e da 5 a 10 per le armi lunghe. Non c’è nessun obbligo di avvisare i propri conviventi maggiorenni di possedere armi ed è stata estesa la categoria dei “tiratori sportivi”. Migranti. Più ombre che luci nel primo rapporto Cild sui Centri di permanenza per il rimpatrio garantedetenutilazio.it, 19 ottobre 2021 Presentato a Roma “Buchi neri. La detenzione senza reato nei Cpr”. La Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild) ha presentato lo scorso 15 ottobre nella Sala ‘Caduti di Nassirya’ del Senato della Repubblica, il suo primo rapporto sui Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Nata nel 2014, Cild è una rete di organizzazioni della società civile che lavora per difendere e promuovere i diritti e le libertà di tutti, unendo attività di advocacy, campagne pubbliche e azione legale. Ai saluti istituzionali del senatore Gregorio De Falco e del presidente di Cild, Arturo Salerni, sono sono seguiti gli interventi dei curatori del rapporto, Federica Borlizzi e Gennaro Santoro. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, è intervenuto a chiusura dei lavori. Nel rapporto, intitolato “Buchi neri. La detenzione senza reato nei Cpr”, sono riportati dati, statistiche, casi e storie che riguardano la detenzione amministrativa in Italia, raccolti anche attraverso la somministrazione di appositi questionari ai Garanti territoriali. In particolare, nel rapporto i curatori ringraziano Stefano Anastasìa, Garante della Regione Lazio, nonché Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, per la collaborazione prestata. Particolare attenzione è data al trattenimento nei Cpr dei soggetti vulnerabili (compresi i minori) e alla tutela dei diritti fondamentali dei trattenuti (dal diritto alla salute, passando per il diritto di informazione e difesa, fino alla libertà di comunicazione). Inoltre, il rapporto effettuata un’analisi dei 10 Cpr attualmente attivi sul territorio nazionale, indagandone i costi, i soggetti privati che li gestiscono; lo stato delle strutture. Infine, si è tentato di ricostruire gli “eventi critici” verificatisi all’interno dei Cpr negli ultimi anni, dedicando - ad ultimo - un’appendice su come l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sia stata affrontata all’interno di tali luoghi. Il primo dato che emerge è che nell’ultimo triennio sono stati spesi circa 44 milioni di euro, prelevati dalla finanza pubblica ed attribuiti a soggetti privati per la gestione dei dieci Cpr, attualmente attivi sul territorio. Tra questi privati vi sono anche grandi multinazionali che, in tutta Europa, gestiscono Centri di trattenimento o servizi all’interno di istituti penitenziari. Nel rapporto Cild, i curatori si sono lungamente soffermati sull’effettiva tutela dei diritti fondamentali dei trattenuti. Il rapporto evidenzia come i Cpr siano dei luoghi in cui molto spesso sembrano non rispettare neanche gli standard fissati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Come dimostrano i casi, approfonditi nel rapporto, di locali di pernottamento di 20/24 mq in cui dovrebbero “alloggiare” fino a sette trattenuti o di servizi igienici privi di porte, anche quando i bagni sono “a vista” nelle stanze di pernotto. I servizi sanitari sono affidati non al Servizio sanitario nazionale ma agli enti gestori dei centri ossia a privati, con l’evidente rischio di piegare l’intervento medico e farmacologico a necessità di disciplina e sicurezza delle strutture, come dimostrerebbe l’abuso di psicofarmaci e tranquillanti tra la popolazione trattenuta riscontrato nella maggior parte dei Cpr. Il rapporto di Cild parla di una situazione di vera e propria “extraterritorialità sanitaria” che porterebbe a continue violazioni dei diritti dei trattenuti: da certificati di idoneità al trattenimento di soggetti affetti da gravi patologie fisiche e psichiche, passando per la presenza delle forze dell’ordine durante le visite mediche, fino a illegittime prassi di isolamento in quelli che dovrebbero essere dei “locali di osservazione sanitaria”. Inoltre, provvedimenti di privazione della libertà personale attribuiti alla competenza della magistratura onoraria (Giudice di Pace) e, nel contempo, l’assenza di un controllo giurisdizionale sulle modalità della custodia. Ne deriva un diritto di informazione e difesa dei trattenuti, nei fatti, mortificato e violato. Nel rapporto Cild si raccolgono testimonianze di operatori e avvocati che denunciano pericolose prassi illegittime: i rimpatri dei cittadini tunisini avvenuti dopo pochissimi giorni dall’arrivo nei Cpr, senza aver dato loro la possibilità di richiedere asilo; l’impossibilità per i trattenuti di contattare i propri legali di fiducia fino al giorno successivo all’udienza di convalida del trattenimento; la mancanza nel fascicolo dell’autorità giudiziaria dell’attestazione di idoneità alla vita in comunità ristretta, pur essendo quest’ultima una condizione ineludibile di validità della detenzione all’interno dei Centri; come udienze di convalida e di proroga che mediamente durano dai cinque ai dieci minuti, con provvedimenti dell’autorità giudiziaria che si riducono a formule di stile. Il rapporto tenta, dunque, di ricostruire tutte le condizioni di eccezione provocate dal diritto che sorregge la detenzione amministrativa dei migranti nei Cpr. Cannabis legale: i percorsi paralleli della legge e del referendum di Giulia Merlo Il Domani, 19 ottobre 2021 La proposta di legge alla Camera e i quesiti referendari rischiano di sovrapporsi nella modifica del testo unico sulle sostanze stupefacenti, quindi il referendum potrebbe saltare se la legge venisse approvata prima. Grazie al referendum sulla cannabis legale, che ha raccolto più di 500mila firme in una settimana, il tema è tornato nel dibattito pubblico. Parallelamente all’iniziativa referendaria, però, è in discussione in commissione Giustizia alla camera anche un progetto di legge sullo stesso tema, di cui mercoledì 20 ottobre vengono presentati gli emendamenti prima dell’arrivo in aula. Lo scontro - Una legge sul tema, se approvata prima del referendum, rischia di farlo saltare perché interverrebbe sul testo oggetto del quesito abrogativo. Questo riaccende lo scontro tra sostenitori del referendum e i partiti alle prese con la stesura della nuova legge ed è stato esplicitato dalla senatrice di Più Europa, Emma Bonino: “La necessità è sventare le trappole di un Parlamento che ha dormito per anni e che ora, per svuotare i referendum cannabis ed eutanasia, faccia passare qualche leggina per farli cadere. Al palazzo i referendum non piacciono, non sono mai piaciuti e nel subbuglio generale dei partiti una cosa li accomuna: nessuno vuole i referendum”. La proposta di legge - Il testo base della legge sulla cannabis è stato approvato in commissione Giustizia ed è frutto della mediazione tra diverse proposte: quella di Più Europa, del Movimento 5 Stelle e della Lega. L’approvazione al testo è arrivata con il voto favorevole di Movimento 5 Stelle e Pd, l’astensione di Italia Viva e il voto contrario dei tre partiti di centrodestra. Si prevede la possibilità per le persone maggiorenni di coltivare fino a 4 piante femmine finalizzate alla produzione di cannabis, e di detenerle per uso personale. Le piante femmine, infatti, sono le uniche che sviluppano le infiorescenze secche che poi vengono consumate. Cambia il regime delle pene. La coltivazione per uso personale non autorizza la cessione e la vendita della cannabis e questo comportamento è punito con la reclusione da 3 a 12 anni e una multa da 20mila a 250mila euro. La pena è più lieve rispetto alla cessione e vendita illecite di altre sostanze stupefacenti, per cui la pena della reclusione è da 8 a 20 anni e la multa da 30mila a 300mila euro. Nel caso di fatti di lieve entità per “i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la quantità delle sostanze”, nel caso della cannabis la pena è della reclusione è fino a un anno e la multa fino a 6.500 euro; per le altre sostanze stupefacenti, di reclusione fino a due anni e la multa fino a 10mila euro. Nel caso in cui il reato sia stato commesso da un tossicodipendente, la cui condizione è stata certificata da una struttura sanitaria, è possibile applicare la pena del lavoro di pubblica utilità (nel caso di richiesta dell’imputato, accordo del pubblico ministero e se non può essere concessa la sospensione condizionale della pena). Non si applicano riduzioni di pena nel caso in cui le sostanze stupefacenti vengono consegnate a minori, mentre vengono soppresse le sanzioni amministrative, come la sospensione della patente. A questo testo base, entro il 20 ottobre, verranno depositati gli emendamenti in commissione Giustizia. Il quesito referendario - Il quesito referendario proposto dai promotori e che entro il 31 ottobre verrà sottoposto al vaglio di ammissibilità si sovrappone in alcune parti alla proposta di legge in discussione. Propone di depenalizzare qualsiasi condotta illecita relativa tutte le sostanze coltivabili, tranne l’associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito. Questo non legalizza tutte le droghe, ma solo quelle coltivabili (quindi la cannabis e i funghi), perché tutte le altre sostanze stupefacenti richiedono passaggi e trattamenti per poter essere consumate e queste operazioni rimangono illecite. Sul piano amministrativo, propone di eliminare la sanzione della sospensione della patente, che oggi è prevista nel caso di tutte le condotte finalizzate all’uso personale di qualsiasi sostanza stupefacente. Le interferenze tra legge e referendum - Sia la proposta di legge che il quesito referendario si propongono di modificare il Testo Unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (d.P.R. 309/1990) e in alcuni punti si sovrappongono. Questo crea un problema di tempistiche: per legge, il referendum si può svolgere solo in una domenica compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. Se la legge venisse approvata prima del referendum, andando a modificare gli articoli del Testo unico che sono oggetto dei quesiti, il referendum abrogativo rischia di saltare. Caso Regeni, ecco i motivi per cui è impossibile processare gli imputati di Valentina Stella Il Dubbio, 19 ottobre 2021 Ecco l’ordinanza con cui la Corte d’Assise di Roma ha annullato il processo a carico degli 007 egiziani e rinviato gli atti al Gup. Impossibile incardinare un processo “senza insanabile pregiudizio per il diritto di difesa degli imputati e per il loro diritto ad un equo processo ai sensi degli artt 24 e 11 Cost e 6 Cedu”: così si conclude l’ordinanza del 14 ottobre 2021 con cui la Terza Corte di Assise di Roma (Presidente dott.ssa Capri) ha annullato il processo per la morte di Giulio Regeni e ha restituito gli atti al GUP non essendoci prova della conoscenza del procedimento a carico degli imputati egiziani (tre ufficiali della National Security Agency e il capo delle Investigazioni Giudiziarie del Cairo). Il quadro normativo, nazionale e convenzionale, all’interno del quale è maturata la decisione è quello che disciplina il ‘processo in absentia’. Secondo l’art. 6 della Convenzione Edu “un processo può considerarsi equo solo se da parte dell’imputato vi è stata conoscenza effettiva della vocatio in iudicium”, in questo caso del decreto emesso dal GUP con il quale è stato disposto il rinvio a giudizio degli imputati. Inoltre, secondo l’art 420 bis cpp, “ il giudice procede altresì in assenza dell’imputato che nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo”. Ma, secondo la Corte d’Assise, nessuno di questi presupposti è riferibile agli imputati del caso Regeni. Vediamo nel dettaglio perché evidenziando come il giudice di primo grado abbia ritenuto non sufficienti quattro “indici fattuali” con cui il GUP avrebbe, invece, ricavato l’effettiva conoscenza del procedimento a carico degli imputati egiziani. Primo: secondo il GUP “nel corso delle indagini gli imputati sono stati sentiti reiteratamente acquisendo conoscenza della pendenza di un procedimento in fase di indagine sulla morte di Regeni”. Per la Corte, al contrario, dalle informazioni rese alla Procura del Cairo in qualità di testimoni, non risultano acquisite informazioni in merito alla loro residenza, domicilio, dimora o ad altre informazioni se non quelle relative alla data di nascita. Per di più, le richieste inoltrate dal nostro Ministero della Giustizia alla omologa autorità giudiziaria egiziana per ottenere quelle informazioni “non hanno avuto alcun esito nonostante reiterati solleciti per via diplomatica e giudiziaria, nonché appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano”. Ne deriva che “gli imputati, dunque, non sono stati raggiunti da alcun atto ufficiale”. La Corte ha anche osservato come dagli stessi verbali non risulti il loro coinvolgimento nel rapimento e nell’uccisione di Regeni. Si tratta di atti in seguito ai quali i soggetti “hanno potuto acquisire conoscenza dello stato delle indagini e dell’emergenza di elementi investigativi dai quali desumere un loro coinvolgimento nel monitoraggio del ricercatore italiano, senza che tuttavia sia possibile affermare che questa conoscenza si estenda, in modo completo e approfondito, ai contenuti dell’accusa a ciascuno di loro successivamente mossa”. Gli imputati avevano, pertanto, in quel momento conoscenza solo della fase investigativa e non anche delle successive determinazioni del pm, tant’è che “soltanto in epoca successiva i loro nomi verranno iscritti dal PM” nel registro delle notizie di reato. Secondo: “il GUP ha ancorato la sua decisione all’intensa e capillare attività svolta dagli organi di informazione a livello locale (Egitto) e a livello internazionale”. Non potevano non sapere, in sintesi. Eppure, sottolinea la Corte, se da un lato “la lettura delle informative dei ROS evidenzi una indubbia risonanza mediatica della vicenda Regeni sui media internazionali con richiamo, anche nominativamente, alle persone degli imputati come soggetti attinti dalle indagini della magistratura italiana”, dall’altro lato “i mass media egiziani in lingua araba riportano la notizia della iscrizione dei 5 appartenenti alle forze di sicurezza locali, ma non ne viene pubblicato il nome”. Stessa cosa è avvenuta per le fasi successive alla conclusione delle indagini. Terzo: “con riguardo al terzo elemento utilizzato dal GUP a supporto della propria decisione, basato sull’assunto dell’appartenenza degli imputati al team investigativo istituito in Egitto per indagare sulla morte di Regeni, si osserva che in realtà solo uno degli imputati apparteneva a tale gruppo”. Quarto: “quanto al quarto indice delineato dal GUP nel proprio provvedimento, cioè l’essere stati gli imputati reiteratamente invitati ad eleggere domicilio in Italia”, le evidenze documentali descrivono invece “una sistematica inerzia delle autorità egiziane a dar seguito alle richieste italiane, mai portate a conoscenza dei singoli indagati/imputati per quanto è pacificamente acquisito”. Inoltre “nulla consente di affermare che i contestati comportamenti in sede di cooperazione siano stati in alcun modo addebitabili alle persone degli imputati”. In conclusione, sostiene la Corte, si è in presenza di soli “dati presuntivi, dai quali può inferirsi, in termini di ragionevole certezza, la sola conoscenza da parte degli imputati della esistenza di un procedimento penale a loro carico, ma non certo quella più pregnante conoscenza - che rileva ai fini della instaurazione di un corretto rapporto processuale - relativa alla vocatio in iudicium davanti al GUP (e poi davanti a questa Corte) con riferimento alle specifiche imputazioni elevate a loro carico”. In pratica non è possibile “affermare che sia stato dimostrato con ragionevole grado di certezza che gli imputati avevano una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse a loro carico; non si può neanche concludere che essi abbiano tentato di sottrarsi alla giustizia o che abbiano rinunciato in maniera non equivoca al loro diritto di partecipare al giudizio”. Stati Uniti. Muore a 84 anni il generale Powell, il solo che pagò le bugie sull’Iraq di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 19 ottobre 2021 All’ex segretario di Stato fatale il Covid: era vaccinato, ma debilitato dal tumore. In un’intervista del 2002 il Guardian chiese a Colin Powell quale fosse la sua canzone preferita. L’allora segretario di Stato ne indicò due: l’inno degli Stati Uniti e “We Shall Overcome”, la ballata dei pacifisti resa celebre dalla versione di Joan Baez nel 1963, ma che in realtà, spiegò Powell, nacque all’inizio del Novecento, come “canto di speranza dei black people”. Per tutta la vita Colin è rimasto fedele, nel bene e nel male, sia alla bandiera nazionale sia alla sua identità di afroamericano. È morto ieri, a 84 anni, in una stanza del Walter Reed National Medical Center, l’ospedale militare poco lontano da Washington. Era stato ricoverato per infezione da Covid-19. Si era vaccinato, ma il sistema immunitario, minato da un tumore, il mieloma multiplo, non ha retto. Nato ad Harlem da immigrati giamaicani, Colin è cresciuto nel Bronx e ha studiato al City College di New York, un’università pubblica di buon livello. Erano gli anni del movimento per la liberazione dei “neri”, lacerato tra le anime di Martin Luther King e di Malcom X. Powell raccontò di aver partecipato a qualche sit-in, ma poi nel 1958 decise di entrare nell’esercito. Si addestrò in una base in Georgia. Lo “Zio Sam” gli aveva dato una divisa e il grado di sottotenente. Ma di sera la società dei bianchi si rifiutava di farlo entrare nei bar e nei ristoranti. Fu investito in pieno dalla guerra nel Vietnam, mentre i futuri leader americani, da Bill Clinton a Donald Trump, facevano il possibile per scansare la ferma obbligatoria. Rischiò la vita almeno una volta: il suo elicottero venne abbattuto, riuscì a salvare se stesso e due commilitoni. Tutto ciò per dire che almeno fino a un certo punto quello di Powell è stato un percorso lineare: lealtà, spirito di sacrificio, servizio alla Nazione. Lo testimoniano la sfilza di medaglie e la sua carriera militare lunga 35 anni, culminata con la carica di Comandante dello Stato maggiore congiunto, dal 1989 al 1993, il gradino più alto delle Forze Armate Usa. Eppure Powell era il primo a riconoscere, soffrendone, che la sua parabola pubblica era stata segnata per sempre dal discorso del 5 febbraio 2003 nel Consiglio di Sicurezza all’Onu. Quel giorno cambiò la vita del Paese e sfigurò la sua reputazione. Powell agitò una provetta di antrace, accusando Saddam Hussein di nascondere “armi di distruzione di massa”. Quando lasciò il Palazzo di Vetro, mezza America, anzi mezzo Occidente, dimenticò all’istante che Colin era il primo segretario di Stato afroamericano della storia, l’eroico ed esperto generale, confermato all’unanimità dal Congresso, un possibile candidato per la Casa Bianca. Da quel momento diventò un simbolo di divisione. Veniva insultato nelle piazze, deriso negli show satirici. Come sappiamo non furono mai trovate “armi di distruzione di massa”. Powell si dimise il 15 novembre del 2004, pochi giorni dopo la rielezione di George W. Bush. Pagò da solo il conto di un errore o di una menzogna collettiva (ancora non è chiaro) e si allontanò anche dal partito repubblicano. Rimase affascinato da Barack Obama. Lo appoggiò nel 2008 e nel 2012, dichiarando: “È uno dei nostri, è un afroamericano”. Criticò aspramente Trump e nel 2020 si schierò con Joe Biden. Stati Uniti. Dalla parte sbagliata della Storia: tutte le guerre di Colin Powell di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 19 ottobre 2021 È morto a 84 anni il primo segretario di Stato nero: nel 2003 accusò l’Iraq di nascondere armi chimiche, preludio dell’attacco degli Stati uniti. Ai vertici dell’esercito Usa per decenni, compilò il rapporto sul massacro “mai avvenuto” di My Lay, invase Panama, bombardò la Libia, lanciò l’operazione “umanitaria” in Somalia e la prima guerra del Golfo. Colin Powell è morto ieri a 84 anni “per complicazioni da Covid”, ha riferito la famiglia, secondo la quale era stato vaccinato. La prima reazione è stata quella dell’ex presidente degli Usa George W. Bush: “L’America perde un grande servitore dello stato”. Powell è uscito indecorosamente dalla storia dopo aver raggiunto i vertici della carriera politico-militare e una tale popolarità che aveva suggerito una candidatura alla Casa bianca, da lui respinta con la motivazione di non essere interessato alla politica. Il momento di maggiore “popolarità” l’aveva raggiunto quel 5 febbraio 2003 quando si era presentato all’Onu per dimostrare che Saddam Hussein era pericoloso e andava abbattuto. Per la dimostrazione si era dotato di fialette con una polverina bianca, che doveva essere antrace, e furgoncini giocattolo per simulare i laboratori mobili con i quali Saddam avrebbe potuto usare le “armi di distruzione di massa”. L’occidente credette a quella ridicola messa in scena a tutto schermo, propedeutica al lancio della seconda guerra del Golfo. La macchina da guerra era in marcia, pronta a sferrare l’attacco sei settimane dopo. Inutili le informazioni degli ispettori Onu che da Baghdad smentivano, sostenendo che Saddam non aveva più quelle armi. Non solo non furono usate ma non furono nemmeno mai trovate perché non c’erano. Ma Saddam era stato eliminato e l’Iraq distrutto. Due anni dopo il discorso di Powell all’Onu, un rapporto governativo disse che la comunità dell’intelligence aveva “torto marcio” nelle sue valutazioni delle capacità irachene di produrre armi di distruzione di massa prima dell’invasione Usa. Ma il danno era fatto e Colin Powell a un giornalista dell’Abc news che, l’8 settembre 2005, gli chiedeva se ritenesse che la sua reputazione fosse stata danneggiata aveva risposto: “Naturalmente. È una macchia. Io sono colui che lo ha fatto a nome degli Stati uniti e sarà sempre parte della mia storia. È stato doloroso. Lo è anche adesso”. Ma se ci sono stati ripensamenti che forse hanno determinato il suo passaggio dai conservatori ai democratici - votando Obama e Biden -, non sono bastati a riscattare il suo “onore”. Anche perché la seconda guerra del Golfo non è stata l’unica alla quale Powell nella sua lunga carriera ha contribuito. Le sue prime due missioni militari risalgono agli anni ‘60 in Vietnam. Nel 1962 era uno dei consulenti inviati da John F. Kennedy nel Vietnam del sud; ritornato ferito, ricevette la prima medaglia di bronzo. La seconda volta è stato inviato (1968-69) per investigare sul massacro di My Lay, nel quale erano stati uccisi più di 300 civili. Il rapporto di Powell negava la fondatezza delle accuse contro i soldati statunitensi: “Le relazioni tra i soldati americani e il popolo vietnamita sono eccellenti”. Ferito per la seconda volta in un incidente aereo era riuscito a salvare i suoi compagni: un’altra medaglia. Dopo aver comandato un battaglione in Corea (1973) ottenne un incarico al Pentagono. Era assistente militare senior del segretario alla difesa Caspar Weinberger quando coordinò l’invasione di Granada e il bombardamento della Libia. Come consigliere alla sicurezza di Reagan ai tempi dell’Irangate, che serviva a finanziare i contras che combattevano il governo sandinista, fu chiamato a testimoniare davanti al Congresso ma ne uscì pulito. Da capo di stato maggiore dal presidente Bush padre lo attesero nuove sfide. Come l’invasione di Panama per eliminare il dittatore Manuel Noriega che non cedeva alle richieste Usa sul canale di Panama. Anche l’operazione “umanitaria” in Somalia è opera del generale Powell, anche se si era ritirato dall’esercito qualche giorno prima della disastrosa battaglia di Mogadiscio (1993). Ma è soprattutto contro l’Iraq di Saddam Hussein che si è impegnato, e non solo nella seconda guerra del Golfo, ma anche nella prima. La guerra era iniziata il 16 gennaio 1991 con un massiccio e devastante bombardamento con missili Cruise dalle navi da guerra e dagli aerei americani, britannici e sauditi. A dare il via all’attacco era stato il presidente Bush padre ma “Desert Storm” fu rafforzata da un piano d’attacco di forze terrestri fortemente voluto da Powell, capo degli Stati maggiori riuniti. Fu la prima vera guerra mediatica, fatta con le veline diffuse dal Pentagono: i giornalisti erano stati evacuati e a Baghdad erano rimasti solo Stefano Chiarini del manifesto e Peter Arnett della Cnn.