“Messa alla prova” e “Affidamento al servizio sociale”: la speranza supera le sbarre di Giacomo Galeazzi interris.it, 18 ottobre 2021 Il decongestionamento delle carceri attraverso un processo rieducativo che orienta e guida gli autori di reato all’interno della comunità. Sos carceri in pandemia. Samuele Ciambriello, campano, è il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Ha appena incontrato la nuova direttrice dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna di Napoli, Claudia Nannola. “Il settore della esecuzione penale esterna è un settore estremante complesso e ampio - osserva il garante Ciambrello. Su di esso sembra che anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia voglia maggiormente investire. Anche perché tutti gli studi parlano chiaro. Confortando nella convinzione che i percorsi fuori dal carcere sono più sicuri e incoraggianti. Purché siano seri e ben strutturati”. Emergenza carceri - Aggiunge Samuele Ciambrello: “L’ufficio di Napoli ha problemi antichi e radicali. Primo fra tutti, la sede. Inadeguata a far lavorare tutti gli operatori. E ad accogliere con dignità gli utenti. Poi la carenza di personale. Soprattutto nei ruoli amministrativi. E di assistenti sociali. Inoltre una mole di arretrati si è determinata per molteplici fattori. Soprattutto legati agli avvenimenti degli ultimi anni. Agli uffici di Napoli il personale amministrativo è esiguo. Molti dipendenti sono andati in quiescenza. E non sono stati sostituiti. Si sono creati carichi di lavoro arretrati nella segreteria tecnica. In cui al momento lavorano solo tre operatori. Notevole è il disagio per gli operatori stessi. E per l’utenza”. Il totale dei soggetti presi in carico dagli Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna), a livello nazionale, alla data del 31 dicembre 2020, risulta essere di 103.172. In Campania - In Campania i numeri risultano essere cospicui. A testimonianza del ruolo fondamentale degli Uepe nel processo di decongestionamento delle carceri. Attraverso un processo rieducativo che orienta e guida gli autori di reato all’interno della comunità. Il totale dei soggetti presi in carico dagli Uepe campani è di 14.952. Di cui 8426 soggetti per le misure alternative e le sanzioni di comunità. E 6626 per indagini e consulenze. Dei quali 7930 a Napoli e provincia. “Messa alla prova e affidamento al servizio sociale appaiono oggi strumenti decisivi. Non solo per rieducare i reclusi. Ma anche per cercare di alleggerire il sovraffollamento carcerario. A livello nazionale i soggetti in carico per messa alla prova sono in totale circa 18000. A fronte dei quali 1772 in Campania”, puntualizza Ciambriello. Rebibbia - A richiamare l’attenzione sulla condizione carceraria è anche un’opera cinematografica. Presentata in anteprima nel penitenziario romano di Rebibbia. Si tratta del film “Ariaferma”. Diretto da Leonardo Di Costanzo. E interpretato dagli attori Toni Servillo e Silvio Orlando. Il lungometraggio è stato presentato all’ultimo festival di Venezia. Ed è una riflessione sul luogo del carcere. All’anteprima ha partecipato anche la ministra della Giustizia. Marta Cartabia, al termine della proiezione, ha dialogato con gli attori. Con il regista. Con ispettori e i detenuti del carcere. Sul film e sul tema del mondo penitenziario. “Al di là di alcune sensibilità- evidenzia la Guardasigilli- credo sia poco nota la vera realtà carceraria. C’è bisogno di approfondire la questione per rompere ogni cliché”. Tra i punti centrali messi in evidenza dalla ministra, il principio contenuto nell’articolo 27 della Costituzione. “La pena deve essere rieducativa”, rileva Cartabia. Carceri e silenzi - “Ariaferma” unisce un duetto attoriale. Fatto più di silenzi che di parole. È ambientato in un vecchio carcere ottocentesco. Una piccola struttura fatiscente. Dove, per problemi burocratici, i trasferimenti si bloccano. E così una dozzina di detenuti si ritrova in attesa di nuove destinazioni. E tutto questo con pochi agenti a fare la guardia. Una situazione anomala. Un microcosmo nel microcosmo che improvvisamente cambia i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie. Al centro di questa piccola rivoluzione i due leader dell’una e dell’altra parte. Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), un capo delle guardie apparentemente tutto di un pezzo. E Carmine Lagioia (Silvio Orlando). Tra di loro c’è un’iniziale legittima diffidenza. Nessuno vuole abdicare al suo ruolo. Ma le circostanze e la solidarietà verso il fragile novizio Fantaccini (Pietro Giuliano) li porta a un sottile avvicinamento. La diga tra di loro, entrambi uomini di silenzio, si sfalda lentamente. Prima con una cucina da condividere. E poi quando un guasto elettrico mette tutto il carcere al buio. Li si faranno in breve tempo delle scelte. E ci saranno i primi segni di una vera convivenza. Sanzioni sostitutive estese per condanne fino a 4 anni di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2021 Addio a semidetenzione e libertà controllata, finora poco utilizzate. Debuttano detenzione domiciliare e semilibertà con soglie applicative elevate. La legge delega di riforma penale (134/2021) modifica radicalmente la disciplina - ormai quarantennale - delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (legge 689/1981), il cui insuccesso applicativo è testimoniato dai dati ufficiali, che vedono - al 15 aprile 2021 - la semidetenzione applicata soltanto a due persone e la libertà controllata applicata a 104 soggetti, a fronte delle oltre 64mila persone in esecuzione, a quella data, di misure alternative (misure di comunità). Si tratta di profili critici ben noti agli operatori, che anche la commissione di studio, voluta dalla ministra Marta Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi, ha considerato per elaborare la proposta di riforma, in parte confluita nella delega approvata dal Parlamento e che entra in vigore domani, 19 ottobre. Le nuove pene Va precisato, intanto che si tratta di una delega: le novità delineate dalla legge - molte e di peso - devono essere attuate dai decreti legislativi da emanare entro un anno. Quanto alle misure, si innalza da due a quattro anni il limite massimo entro il quale la pena detentiva potrà essere sostituita dal giudice; sono abolite le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata e al loro posto si introducono la detenzione domiciliare e la semilibertà (la cui disciplina è mutuata dalle omonime misure alternative alla detenzione). La scelta politica di non adottare quale pena sostitutiva anche l’affidamento al servizio sociale (come era stato proposto dalla commissione Lattanzi) crea un paradosso applicativo per cui il condannato alla pena detentiva, solo se non sostituita con la detenzione domiciliare o con la semilibertà, avrà la possibilità di ottenere dal giudice di sorveglianza, da “libero sospeso” (articolo 656, comma 5, Codice di procedura penale), la (meno afflittiva) misura alternativa dell’affidamento in prova “allargato” (articolo 47, comma 3-bis, legge 354/1975, ordinamento penitenziario). Viene inoltre modificata la pena pecuniaria (si veda il servizio a fianco) e potenziato il lavoro di pubblica utilità (che verrà modellato sulla base dell’analogo istituto del decreto legislativo 274/2000). Nel caso di patteggiamento o decreto penale di condanna, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dall’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, comporterà anche la revoca della confisca eventualmente disposta, purché non si tratti di confisca obbligatoria. Per assicurare l’effettività delle nuove pene, viene per tutte esclusa la sospensione condizionale (articolo 163 Codice penale). L’applicazione delle nuove pene sostitutive verrà disposta dal giudice della cognizione - che potrà avvalersi dell’ausilio dell’Uepe - in relazione a ogni tipo di reato e potrà essere anche applicata nei confronti di chi ne abbia già in precedenza beneficiato. La discrezionalità del giudice, che dovrà essere regolata in sede attuativa, pare comunque sganciata dal consenso dell’interessato (la cui “non opposizione” è richiesta solo per il lavoro di pubblica utilità), con l’effetto che al condannato potrebbe essere imposta l’esecuzione della semilibertà o della detenzione domiciliare in relazione a condanne perle quali, in base agli articoli 656, comma 5, e 678, Codice di procedura penale, avrebbe potuto ottenere ben più ampie misure, quali l’affidamento al servizio sociale (articolo 47, commi 3 e 3-bis, ordinamento penitenziario), l’affidamento terapeutico (articolo 94, Dpr 309/1990) o la sospensione della pena (articolo 90, Dpr 309/1990). La riforma appare, dunque, improntata a un rafforzamento della componente retributiva della sanzione penale, in distonia con il principio rieducativo e riparativo che pure la ministra ha posto a base ideale dell’intervento riformatore. Il carcere che non si rassegna alla modernità di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 18 ottobre 2021 Dramma di un luogo di pena che crea altra pena, dove si impara la tecnica, ormai nota, del colpevolizzare ed essere colpevolizzati, tra indecisioni ed immobilità. Quella della violenza non è l’unica emergenza che riguarda il sistema penitenziario italiano. Una pistola, secondo notizia di stampa, che arriva con un drone in un carcere, pone notizie inquietanti sulla sicurezza dentro gli istituti di pena; un fatto talmente inquietante da rendere palese, qualora ce ne fosse bisogno di dimostrare, che le carceri sono allo sbando, come dicono vari comunicati sindacali, e che sono diverse le problematiche che vanno affrontate con urgenza. Ma la novità non è quella di un ristretto che viene in possesso di una pistola e poi spara in reparto, ma piuttosto l’intervento della polizia di reparto che non cede alle minacce e blocca il rivoltoso. Questo fatto dimostra, spero ai detrattori della polizia di reparto, che l’intervento è stato immediato, senza vittime e principalmente senza il ricorso a soccorsi esterni di altri corpi dello Stato, come previsto dall’Ordinamento Penitenziario del 1975, e rinverdito dalla circolare Gabrielli che indica le procedure di interventi della Polizia di Stato su invito di alti gradi della Polizia Penitenziaria. Protagonista unico e solo, è stato l’agente di reparto che ha messo in atto tutte una serie di azioni portate a buon fine, in tempo brevissimo, dimostrando di saper operare in situazioni difficili e pericolose per sé stesso e per gli altri. Quello che è avvenuto è un insieme di azioni coordinate dentro un processo di altre azione, di alta professionalità, che non possono essere archiviate con il consueto e malinconico e stereotipato, sprezzo del pericolo ecc…, ma devono essere riconosciute in modo tale che la collettività prenda consapevolezza che essere poliziotti penitenziari è un incarico costituzionale di alto livello e merita alto rispetto e riconoscenza; molta riconoscenza perché quando si alzano le grida ormai millenarie: “in galera e che si butti la chiave!” chi ottempera questa sicurezza sociale sono loro, i poliziotti penitenziari. Perché non dovrebbero ricevere la stessa gratitudine che si riserva ai Vigili del Fuoco quando vanno a salvare le vite umane in difficoltà? Non è forse vero che anche detenendo si salvano vite umane, le nostre vite, permettendoci di non essere aggrediti, derubati, subire violenze perché qualcuno trattiene altri dal farlo? La Polizia penitenziaria, tra i cui appartenenti è montato nel tempo un sentimento di frustrazione e rabbia per le sempre più difficili condizioni di lavoro, le carenze di organico e le gravi situazioni locali che gli appartenenti al Corpo si trova, spesso senza strumenti adeguati, a dover gestire quotidianamente, con assunzione diretta dei correlati rischi e responsabilità. Occorre, altresì, riconoscere che le difficili condizioni di lavoro del personale che opera all’interno delle carceri esige che lo Stato offra concrete garanzie per chi compie, in condizioni così difficili, il proprio dovere. Alla Polizia penitenziaria proferisco ciò che insegnavo loro durante i corsi di formazione: “Siate fieri della vostra divisa ed esibitela con orgogliosa dignità, cercate di attuare la vostra presenza nelle scuole, con contatti diretti o in televisione, non per rappresentare l’appartenenza ad un Corpo, ma per testimoniare in cosa consiste essere giorno dopo giorno a contatto con chi ha sbagliato, presentando i loro bisogni e i vostri interventi”. Si parla troppo spesso della incapacità della Polizia Penitenziaria di non saper essere mezzo di offerta di servizi professionali di custodia; questa convinzione si è talmente consolidata nelle alte sfere, al punto di considerare come più opportuna per alcuni, una loro sostituzione con altra figura professionale, come ad esempio quella di educatori, naturalmente in divisa. La prima considerazione, a tal proposito è se l’aumento del numero della presenza di poliziotti nelle sezioni o addirittura sostituirli con degli educatori rappresentino le soluzioni migliori. Sono soluzione espressione da compagini contrapposte quasi insanabile, che non risolvono il problema anzi lo portano alla non soluzione e alla conflittualità. Per altri, un solo aumento dei poliziotti ma non ponendo alcuna attenzione sul come si opera o sul come sono obbligati a operare in sezione, non risolve il problema. Questo fatto porta alla luce un grande equivoco professionale, ma ancora prima concettuale, che è quello di aver voluto assimilare i due mandati specifici che l’Ordinamento dà agli agenti di reparto: quello di essere legittimi tutori della custodia e quello di essere erogatori di una offerta di servizi. Sul fronte dell’offerta di servizi è da ammettere che l’agente di reparto spesso è assente, distratto, confuso, infastidito dalle richieste del recluso anche lui con mille problemi esistenziali, specie se trattasi dell’imputato che hai bisogni personali deve aggiungere quelli giudiziari, il timore dell’abbandono dai familiari, la ricerca delle prove a discarico, il tutto in locali di contenzione vetusti e a volte privi o con inadeguati servizi igienici. Anche le richieste di conferire con l’avvocato sono una richiesta di servizi non minimale in quanto l’imputato lo vorrebbe in teleconferenza 24 ore su 24. Esigenze capibili e auspicabile vengano attuate ma chi trovano come referente? L’agente di reparto! Chi ha insegnato a questi operatori ad essere validi operatori della custodia e contemporaneamente offertori di servizi? Chi corre in soccorso a chi attua l’autolesionismo o il suicidio nei momenti in cui la cella si svuota per i passeggi o di notte quando in sezione è presente un solo agente, non preparato ad attuare i movimenti pertinenti nei confronti di queste situazioni, come togliere un cappio o un sacchetto di plastica con movimenti delicati che anziché essere di soccorso possono essere fatali in modo irreversibile? E chi ha insegnato loro come sopportare il dopo di questo evento fortemente drammatico? L’agente di reparto dovrebbe avere una formazione universitaria, fatta di corsi appositamente preparati sia con teoria che pratica su tematiche di gestione delle risorse, gestione dei conflitti, mediazione culturale ormai multilingue, comunicazione; le stesse università hanno proposto accessi nelle carceri per verificare lo stato di sofferenza dei detenuti, ma non si sono poste il problema di una formazione impostata all’offerta dei servizi e di custodia. Ecco perché dico basta a colpevolizzare di tutto e per tutto (insensibilità, ignoranza, assenza di volontà) l’agente di reparto, quando occorre invece chiedersi altro. Ad esempio: chi avrebbe dovuto dar loro una adeguata preparazione alla custodia e all’offerta di servizi? Chi non ha voluto e non vuole che il lavoro di custodia di reparto è, non la più alta specializzazioni del Corpo ma solo una sua attività generica? Questo è l’errore più grande sia da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, sia dei politici, che degli stessi gerarchi del Corpo. La grande carenza-assenza della politica criminologica, è stata quella di non fare emergere la parte migliore della custodia come punto fondamentale della gestione del recluso, ma ha lasciato che prendesse posto reale e stigmatico che l’agente di reparto fosse e sia un insieme di incapacità, ignoranza, bersaglio designato per addossare tutte le colpe inerenti il macchinoso agire condominiale carcerario, e pertanto lasciato come il servizio peggiore e meno qualificato. Ecco, in definitiva e prima di tutto, ciò che si deve chiarire: il collocamento del Corpo, la sua appartenenza e i suoi compiti sia in Carcere che presso gli UEPE, che è parte integrante di quella offerta di servizi, tra cui anche il custodire. È questo l’aspetto più critico rappresentato dalla profonda crisi in cui versa la Polizia penitenziaria; crisi evidente che porta a dover intervenire tanto con una rifondazione ideale e motivazionale, sviluppando formazione e professionalità del Corpo attraverso stage e percorsi formativi qualificati che tendano a potenziarne la vocazione di polizia moderna e proiettata a funzioni di collaborazione attiva nell’esecuzione della pena in senso costituzionale, quanto sul versante organizzativo e di miglioramento dello status complessivo, anche sotto il profilo della carriera. A 45 anni dall’Ordinamento Penitenziario, questi fatti inducono a una dolorosa e pesante riflessione su tutto il mondo del contenimento delle persone in carcere e in misura alternativa. Di certo, è che il carcere è rimasto il punto centrale della restrizione della libertà personale e come modalità di eseguire una pena, in una situazione contestuale altamente diversificata dal momento della emanazione dell’Ordinamento Penitenziario nel 1975. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza. Sos dal convegno di Magistratura Indipendente: “Senza risorse giustizia a rischio” di Francesca Sabella Il Riformista, 18 ottobre 2021 L’imperativo è uno: garantire la qualità delle decisioni rese dalla magistratura, in modo tale che a essere tutelati siano innanzitutto i più deboli. Ma per far sì che ciò avvenga servono risorse economiche e personale negli uffici giudiziari. Ecco l’sos lanciato dalle toghe che ieri hanno preso parte al dibattito inaugurale della tre-giorni di confronto organizzata da Magistratura Indipendente, guidata da Luisa Napolitano, nelle sale della Fondazione Premio Napoli, presieduta dal penalista Domenico Ciruzzi. “Si tratta di un programma molto denso e ambizioso per tentare di riflettere insieme sulle riforme - ha spiegato Napolitano - e per vedere se queste hanno rispettato la cultura della giurisdizione che è un valore importante per la magistratura”. A proposito, nella cultura della giurisdizione il fine giustifica i mezzi? A rispondere è stato Giuseppe De Carolis di Prossedi, presidente della Corte d’appello di Napoli. “Bisogna chiarire preliminarmente quale sia il fine. Perché se il fine è nobile, cioè il miglioramento della qualità della giurisdizione o la tutela dei diritti dei più deboli, può anche andare - ha spiegato De Carolis - Se il fine, invece, è solo quello di eliminare le carte, è un obiettivo che niente e nessuno può giustificare”. E quindi qual è lo scopo della giustizia? “Magistrati e avvocati esistono esclusivamente per consentire anche ai più deboli di trovare un giudice che renda loro giustizia. Bisogna intervenire quindi perché la giustizia non sia solo numeri, ma garantisca una qualità delle decisioni”, ha affermato De Carolis prima di fare il punto sulle criticità che affliggono gli uffici napoletani. “C’è una distribuzione irrazionale delle risorse umane - ha sottolineato il presidente della Corte d’appello - Le risorse umane che vengono allocate in primo grado sono cinque volte superiori a quelle presenti nel secondo grado. Avevamo chiesto più personale, ma ciò non è avvenuto. Anzi, 750 addetti sono stati destinati al processo di primo grado e 168 a quello di secondo grado”. Cita la livella di Totò, Luigi Riello, il procuratore generale della Repubblica, per sottolineare la necessità di restituire credibilità alla magistratura: “Totò, nella sua poesia ‘A livella, parlò di un magistrato, un re e un grande uomo per indicare le categorie più rispettabili. Oggi Totò scriverebbe lo stesso? Ho i miei dubbi”. Poi la riflessione sugli scandali che hanno travolto la magistratura: “Siamo in questo stato per la colpa di pochi ma non di pochissimi, con il concorso di molti che hanno contribuito anche con il loro silenzio. Dobbiamo fare un esame di coscienza”. Al tavolo anche Giovanni Melillo, procuratore della Repubblica di Napoli. “Bisogna procurarsi la fiducia della collettività, perfino dell’imputato - ha detto Melillo - Bisogna abbandonare gli atteggiamenti incompatibili con questa professione e prendere atto che la magistratura è chiamata a svolgere un ruolo di responsabilità rispetto al funzionamento complessivo del sistema”. Sulla stesa lunghezza d’onda anche Antonio Tafuri, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli: “La giustizia serve ai più deboli e dobbiamo essere in due a tutelarli, cioè avvocati e giudici. Altrimenti la giustizia, a Napoli e altrove, non ha più alcun significato”. Perché Mattarella legittima l’Anm, anima di magistratopoli? di Piero Sansonetti Il Riformista, 18 ottobre 2021 Il disastro della magistratura può essere affrontato solo togliendole potere. Il Presidente Mattarella ieri ha inviato un messaggio all’Anm, che teneva un convegno per discutere di referendum e per presentare la nuova veste della sua rivista ufficiale. In questo messaggio, Mattarella ha incitato i magistrati a favorire sia le riforme della Giustizia sia una sorta di rigenerazione etica della categoria. Tutte e due le cose - ha spiegato - servono a ricostruire la fiducia del popolo nella magistratura. Che oggi è ai minimi termini. Ho da fare due domande e una riflessione. Prima domanda: ma perché i magistrati convocano dei convegni? Non dovrebbero occuparsi di indagini, e poi fare i processi e infine le sentenze? Seconda domanda: ma perché i magistrati si associano e poi editano addirittura dei giornali. Non rischiano in questo modo di indebolire la loro cristallina imparzialità, e indipendenza, e oggettività? Non sarebbe più giusto se i magistrati svolgessero i compiti che la Costituzione ha loro affidato e lasciassero a noi giornalisti il compito di fare i giornali, e ai politici quello di fare i convegni? Immagino che i magistrati non sarebbero contenti se il Riformista decidesse di organizzare un suo tribunaletto o una piccola Procura, no? Lasciamo da parte lo scherzo e poniamo la questione più forte. Quella dell’invito alla rigenerazione etica. Non stiamo parlando di una squadra di calcio o di una associazione di geometri, stiamo parlando delle persone, con la toga, che hanno un immenso potere sulla vita di tutti noi, che possono spezzare questa vita, che possono levarci la libertà, il patrimonio, il lavoro, i diritti civili, che possono anche torturarci in una cella di isolamento. È chiara la questione? E in questi mesi, dal palamaragate in poi, abbiamo saputo con certezza che il livello della loro etica è molto basso, e ha influito non sappiamo su quante inchieste e quante sentenze, probabilmente distorcendole. È talmente vero, questo, che lo stesso Mattarella ha posto la questione morale. Cioè ha dato per accertato che c’è un problema di livello morale basso della magistratura. Possiamo affrontare un problema così drammatico, di ripristino dello Stato di diritto affidandoci alla speranza che i magistrati si decidano ad essere persone migliori, meno arroganti, meno attaccate al potere, meno faziose? È chiaro che non è così. L’idea di un’autoriforma di un gruppo di potere, potentissimo e senza limiti, che ha dimostrato di non sapere adoperare con saggezza e giustizia questo potere, è un’idea folle. È la politica che deve riformare la magistratura. Non c’è un’altra via. E deve riformarla riducendo considerevolmente il potere della magistratura e impedendo che questo potere resti incontrollato. Non c’è nessuna altra possibilità di fermare magistratopoli. P.S. A voi sembra normale che una corrente della magistratura aderisca a una manifestazione di piazza? E che poi magari alcuni degli esponenti di questa corrente siano chiamati a giudicare i nemici di quella manifestazione? Beh, succede oggi. P.S. 2 A voi sembra normale che un magistrato abbia partecipato alla manifestazione violenta dei novax di Piazza del Popolo, e abbia chiesto un processo di Norimberga per i nostri governanti (probabilmente senza sapere cos’è il processo di Norimberga) e che dopo tutto questo possa tornare tranquillo al suo lavoro? Bah. Se la televisione ne parla, i processi durano di più di Pieremilio Sammarco* Libero, 18 ottobre 2021 Nei prossimi giorni si discuterà ancora alla Camera lo schema di decreto legislativo (Atto n. 285) sul recepimento della direttiva 2016/343 sulla presunzione d’innocenza; il legislatore europeo, a tutela degli individui, stabilisce che essa è violata quando vi sono dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità (magistrati e forze dell’ordine) che presentino l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata con sentenza definitiva. Questa regola di civiltà giuridica tenta di porre fine alla spettacolarizzazione dell’azione penale e che dovrà essere introdotta anche nel nostro ordinamento è contrastata da quanti invocano il pieno diritto di informare la collettività sulle indagini in corso, favorendo la pubblicazione degli atti di indagine, anche quando vi sono circostanze prive di rilievo giuridico. Al di là delle pacifiche critiche verso la spettacolarizzazione dell’azione penale che calpesta il principio di presunzione d’innocenza e la dignità di quanti si trovano invischiati a vario titolo nei processi, c’è un altro aspetto, assai poco esplorato, che concerne l’influenza di questa valanga informativo-mediatica sul libero convincimento del giudice che si trova a decidere un caso iper-attenzionato dai media. La giurisprudenza, in numerose pronunce, ha sempre rifiutato l’idea che l’opinione pubblica potesse condizionare un processo in corso, affermando che “le campagne di stampa, quantunque accese, astiose e martellanti non sono, di per sé, idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che per ciò solo ne resti menomata la sua indipendenza di giudizio o minata la sua imparzialità” (Cass. pen. 23962/2015). Ma sebbene le nostre corti rifiutino l’idea che la propalazione mediatica degli atti del processo (per lo più quelli dell’accusa) possa influenzare il convincimento del giudice, alcune ricerche condotte in ordinamenti stranieri mostrano il contrario. Si è dimostrato che l’opinione del giudice può essere - anche inconsapevolmente - suggestionata o condizionata nella sua delicata attività di accertamento della fattispecie e valutazione del suo aspetto sanzionatorio da un flusso informativo proveniente dai media. Le ricerche hanno registrato una diversità di trattamento tra i processi a rilievo mediatico e quelli che ne sono privi, propendendo dunque per una certa permeabilità delle decisioni giudiziarie all’influenza degli organi di informazione. I dati che sono stati estratti dall’analisi della casistica giudiziaria (su oltre due milioni di sentenze delle corti statali statunitensi in un arco temporale lungo venti anni) riportano queste tendenze riferite al processo con rilievo mediatico: a) una sentenza più estesa: ciò è dovuto alla maggiore cura che il giudice presta proprio perché si trova ad affrontare un caso con risonanza mediatica che produce in lui la consapevolezza che il provvedimento sarà oggetto di una disamina approfondita da parte di una platea ampia, comprendente anche gli organi di informazione. b) durata più a lunga dei processi per gli stessi reati privi di interesse da parte degli organi di informazione: le motivazioni sono le stesse del punto precedente. c) pene più alte per i condannati: la pena inflitta al condannato è generalmente più elevata, di una media di 6 mesi di reclusione in più rispetto ad analoghi processi che non hanno destato l’interesse mediatico. Naturalmente, proprio il tema della sanzione è centrale e ci si trova così dinanzi ad una preoccupante disparità di trattamento. Questi riscontri incidono su due aspetti: il primo che, al di là della declamata impermeabilità delle corti all’influenza mediatica, quest’ultima, forse anche inconsciamente produce degli effetti sia sul giudice che si trova a dover decidere la vicenda e sia sull’attività processuale in senso lato; il secondo, invece, è di carattere più generale e riguarda il principio di uguaglianza di tutti dinanzi alla legge ed alla sua applicazione, giacché, come sembra, nella prassi giudiziaria, a causa di questi fattori esterni, le disparità esistono. *Ordinario di Diritto Comparato dell’Università di Bergamo Pene pecuniarie, riscosso solo il 2%: delega ampia per renderle effettive di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2021 La delega penale (legge 134/2021) porta un intervento di ampio respiro sulla pena pecuniaria: una riforma nei termini che già la Corte costituzionale auspicava per “restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione” (sentenza 15/2020). Il problema dell’ineffettività della pena pecuniaria è, in effetti, allarmante: la quota delle pene pecuniarie effettivamente riscosse si attesta, infatti, tra l’1% e il 2%, con una perdita annuale per le casse statali di oltre un miliardo di euro. A fronte di questa situazione, il Parlamento ha conferito al Governo una delega particolarmente ampia: una sorta di “carta bianca” (ai limiti della genericità) per “razionalizzare e semplificare il procedimento esecutivo delle pene pecuniarie”, sia sul versante giudiziario che su quello amministrativo. Alcune modifiche riguarderanno sia la pena pecuniaria quale sanzione principale, sia l’omonima tipologia di sanzione sostitutiva; altre la sola pena pecuniaria sostitutiva. Dal punto di vista generale, si vuole assicurare l’effettiva riscossione delle pene pecuniarie e la loro conversione in caso di mancato pagamento. Parimenti da rivedere, “secondo criteri di equità, efficienza ed effettività”, saranno i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento. Da questo punto di vista, l’efficienza del sistema potrebbe essere migliorata eliminando il coinvolgimento del pubblico ministero nella procedura di conversione, riservando la competenza in capo al giudice dell’esecuzione, evitando il passaggio dal magistrato di sorveglianza, alla radice di ritardi e inutili appesantimenti della procedura. Inoltre, la delega prevede di estendere l’area di applicabilità della pena pecuniaria quale sanzione sostitutiva: potrà essere applicata in sostituzione della pena detentiva fino a un anno, rispetto agli attuali sei mesi. La sostituzione avverrà secondo il modello della quota giornaliera che non prevede più un valore minimo ma solo un massimo “non eccedente 2.500 euro”. Se la sostituzione avviene con decreto penale di condanna, il valore della quota non potrà eccedere 250 euro, così da incentivare il ricorso a questo rito alternativo. In un’ottica di effettività, per la pena pecuniaria sostitutiva la delega prevede l’esclusione della sospensione condizionale. La delega si discosta dalle proposte della commissione Lattanzi su alcuni rilevanti profili. Anzitutto, non recepisce l’idea di generalizzare il sistema delle quote giornaliere (sul modello tedesco), estendendolo anche alle pene pecuniarie principali (multa e ammenda), che restano dunque strutturate sull’irrogazione di una somma complessiva determinata alla luce dei criteri dell’articolo 133-bis del Codice penale, forse anche per il timore che il modello dei tassi giornalieri - fondato prevalentemente sulle condizioni economiche del reo piuttosto che sulla gravità del reato - avrebbe potuto generare una difformità eccessiva della sanzione applicata per reati di pari gravità, ingenerando una percezione di ingiustizia nociva per la credibilità del sistema. Né la delega ha accolto la proposta della commissione di determinare il valore giornaliero da versare tra 1 e 1.000 euro, nel caso in cui la pena pecuniaria sostituisse quella detentiva in sede di patteggiamento, per “spingere” ulteriormente verso il rito speciale, a fini deflattivi. Al ciclista che commette omicidio stradale non può essere sospesa la patente di guida di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2021 Inapplicabile la sanzione accessoria alla condanna se l’utilizzo del mezzo non prevede alcuna abilitazione alla guida. L’omicidio stradale commesso alla guida di un velocipede, non può condurre alla sospensione della patente di chi si sia reso responsabile anche del più grave dei reati stradali previsto dall’articolo 589 bis del Codice penale. La Cassazione propende con la sentenza n. 35748/2021 per l’inapplicabilità “tout court” della sanzione amministrativa accessoria di revoca o sospensione della patente di guida per i veicoli a motore se il mezzo con cui si commette il reato stradale non prevede il possesso di un’abilitazione alla guida. Come non è prescritto per qualsiasi mezzo a propulsione muscolare o assistita entro un limite di potenza. La Corte ha perciò annullato l’applicazione della sospensione della patente al ricorrente-ciclista senza rinviare al Gip che aveva condotto il patteggiamento. Non è la prima volta che la Cassazione afferma l’inapplicabilità della sanzione amministrativa accessoria relativa alla patente di guida se l’agente commette il reato stradale inforcando un velocipede per cui non è richiesta abilitazione alla guida. Da tali decisioni di legittimità, invero, emergono i dubbi nella giurisprudenza di merito in casi simili (in particolare sull’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie di sospensione o revoca della patente in caso in cui il ciclista commetta il reato di guida in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di sostanze psicotrope). Si sottolinea che vicende simili a quella definita ora in Cassazione pongono interrogativi importanti come quello del diritto al risarcimento delle parti civili - che in sede penale è precluso dal rito del patteggiamento con la conseguenza di dover agire in via autonoma in sede civile - e l’assenza di qualsivoglia obbligo assicurativo per i ciclisti. Infibulazione alle figlie, “condannata perché la propria cultura non può giustificare” Infibulazione alle figlie, “condannata perché la propria cultura non può giustificare” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 18 ottobre 2021 La Cassazione respinge il ricorso di una donna egiziana che aveva sottoposto alla pratica le bambine di 6 e 9 anni. La poca istruzione, la scarsa integrazione nel contesto sociale italiano, la “mancata sanzionabilità delle pratiche di mutilazione genitale” nel Paese d’origine e “la millenaria “cultura” di queste presenti in Egitto” non sono elementi che possano giustificare un reato grave come sottoporre a infibulazione le proprie figlie. Per questo motivo la Cassazione ha respinto il ricorso di una donna egiziana condannata a Torino per aver costretto le figlie di sei e nove anni a subire una pratica così violenta e disumana. I fatti risalgono all’estate del 2007, quando la donna durante le vacanze nel proprio Paese di origine lascia che le bambine vengano mutilate. Il caso viene alla luce qualche mese dopo il rientro in Italia e la madre finisce sul banco degli imputati: i magistrati l’accusano di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili”, reato entrato in vigore nel nostro Paese nel 2006. Nel corso del processo emerge come la donna parlasse poco l’italiano e non si fosse integrata nella nostra cultura. Non solo, gli avvocati difensori evidenziano la bassa scolarizzazione dell’imputata oltre al fatto che in Egitto la pratica sia ampiamente diffusa e tollerata, tanto che lei stessa l’aveva subita da bambina. Argomentazioni che non hanno convinto i giudici di primo e secondo grado e ora neanche quelli della Cassazione, che hanno respinto il ricorso. Si legge nella sentenza: “Giustificazioni fondate sulla circostanza che l’agente per la cultura mutuata dal proprio Paese d’origine sia portatore di diverse concezioni dei rapporti di famiglia non assumono rilievo, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di un diritto fondamentale dell’individuo”. In sostanza, prevale “il principio della centralità della persona umana”, l’unico “in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a tradizioni diverse e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica”. Infine, gli Ermellini sottolineano come i giudici di merito abbiamo insistito sul fatto che l’imputata fosse a conoscenza del carattere deprecabile dell’infibulazione. E questo proprio perché la donna aveva deciso di sottoporre le figlie all’intervento nel proprio Paese d’origine, l’Egitto: Stato in cui “la tradizionale pratica, nel 2007, era posta in discussione nell’opinione pubblica”, tanto da essere poi vietata un anno dopo, nel 2008. Da qui la conferma della condanna e del risarcimento alle figlie. Modena. “Due anni per vedere mio figlio, chiedo dignità per lui e verità per le vittime” lapressa.it, 18 ottobre 2021 La rivolta al carcere. Dai fatti dell’8 marzo 2020, il primo incontro in carcere di Anna Maria, con il figlio, firmatario dell’esposto sulla morte di nove detenuti, e ancora in carcere. Il calvario di una madre che pare non avere fine. Anna Maria è una madre che non si arrende e combatte ogni giorno per i diritti di suo figlio, carcerato, ma non solo. Anche per chiedere verità sulla morte dei nove detenuti deceduti durante e dopo la rivolta al carcere di Modena dell’8 marzo 2020. Quel giorno C., suo figlio, oggi 41 enne, napoletano, in carcere per scippi ed altri reati predatori, si trovava all’interno del carcere. E’ uno di coloro che si trovò nel mezzo di quella rivolta che ha scritto una pagina nera nella storia del sistema carcerario Italiano. Una volta repressa, la rivolta seguì il trasferimento dei detenuti in altre carceri d’Italia. Quello di Modena era distrutto e per mesi non avrebbe più ospitato nessuno. Pur non accusato, per lui iniziò un calvario, fatto di trasferimenti da un carcere all’altro. ‘Per più di un mese non abbiamo avuto notizia di lui. Non ci avevano detto nemmeno se era tra i morti oppure no’ - afferma Anna Maria. La incontriamo in centro, a Modena, nel presidio organizzato dal Consiglio Popolare di Modena che si è offerto per pagarle il viaggio e la permanenza in Emilia-Romagna per il tempo necessario per la visita. E dal centro ci racconta il suo dramma. Da madre con un figlio in carcere a 700 chilometri di distanza da casa. Che per settimane dopo la rivolta non sapeva dove era o se era rimasto ferito. Durante i trasferimenti nelle carceri italiane dei detenuti, che seguirono la rivolta. Prima Ascoli Piceno, poi il ritorno a Modena per gli interrogatori, poi altri penitenziari e poi, ultimo in ordine di tempo di una serie lunghissima di spostamenti, Parma. Dove Anna Maria lo ha incontrato sabato mattina, dopo due anni da quei fatti. Al termine di un assurdo percorso che l’ha portata, disperata, a fare appello al garante dei detenuti della Campania che ha creato un canale con il suo omologo emiliano romagnolo (con il quale la famiglia non era mai riuscita a parlare), per l’incontro in carcere a Parma. Dove Anna Maria ha potuto vedere e parlare al figlio attraverso un vetro. Lui è uno dei firmatari dell’esposto denuncia per chiedere chiarezza sulla morte la morte di Salvatore Sasà Piscitelli, avvenuta ad Ascoli Piceno, l’unico decesso non ricondotto ad una morte per overdose e per il quale ancora si indaga. E sul cui caso anche Anna Maria chiede verità: ‘Non sono ancora state rese note le immagini di ciò che successe nel carcere di Ascoli Piceno dove anche mio figlio venne subito trasferito. Se sono state diffuse le immagini dei gravi fatti di Santa Maria Capo a Vetere, perché, a due anni di distanza, non viene fatta chiarezza con le immagini su quanto successe ad Ascoli?’. Ma il dramma vissuto ancora oggi da Anna Maria, da poco pensionata con problemi di salute che oggi le rendono difficile viaggiare da Napoli a Parma, per fare visita al figlio, si estende al trattamento dei detenuti. ‘Mio marito è morto un anno fa e a mio figlio non è stato permesso né di partecipare al funerale né di visitare la tomba, non gli hanno risposto alla domanda di potere seguire i corsi universitari che aveva ripreso, e ormai sappiamo che perderà anche quest’anno. Inoltre gli è stata negata la richiesta di ottenere un trasferimento in un carcere più vicino a Napoli per permettere i colloqui. Negata, anche se era l’unica possibilità per vederci, ogni tanto. Siamo rimasti solo io e suo fratello ma io ho problemi di salute, presto mi dovrò operare e difficilmente riuscirò a breve a tornare a Parma. Poi c’è un fattore economico, legato al cibo e non solo. I detenuti hanno la possibilità di ordinare alcuni alimenti da una ditta in appalto che due volte la settimana si reca all’interno. Dobbiamo pagare anche un pomodoro e una fettina di carne in più, senza considerare che quando uscirà dovrà pagare il carico di 105 euro al mese per il periodo di permanenza in carcere. Migliaia di euro, non so come faremo. Non smetteremo mai di combattere per dare dignità ai detenuti come lui e affinché la verità su quelle morti emerga’ Monza. Premio Airò, una borsa di formazione lavoro per il riscatto di chi ha sbagliato ilcittadinomb.it, 18 ottobre 2021 A due anni dalla scomparsa di Pino Airò, indimenticato giudice penale del tribunale di Monza, la Rete per la promozione del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, adulti e minori, degli ex detenuti e delle persone in esecuzione penale esterna ha costituito con la Fondazione della comunità Monza e Brianza un premio dedicato alla memoria del magistrato. Si tratta di una borsa di formazione lavoro finalizzata a formare professionalmente persone adulte e minori sottoposti a provvedimenti penali, e a creare opportunità lavorative concrete. Un progetto che esprime la volontà di chi ha conosciuto e stimato Airò, affinché si continui la sua opera. “Chi ha conosciuto Airò sa che ha saputo guardare sempre alla funzione giurisdizionale non come potere ma come servizio in favore dei cittadini e del territorio, con un occhio di riguardo alle persone in difficoltà”, racconta oggi chi l’ha conosciuto professionalmente. “Si apre oggi la raccolta fondi per la prima edizione del Premio Airò, che sarà promosso nel prossimo autunno - spiegano i promotori -. È stato costituito un fondo presso la Fondazione per raccogliere donazioni da tutti coloro che vorranno proseguire l’operato di Pino Airò, sposandone la filosofia e i principi”. Tutti possono contribuire con donazioni e offerte e incrementare così le risorse a disposizione del premio. Tutti i dettagli e le modalità di donazione sono disponibili sul sito fondazionemonzabrianza.org/news/premio-borsa-di-formazione-e-lavoro-pino-airo-2021. Qui è scaricabile anche il bando per poter partecipare al concorso. Possono partecipare al premio per l’anno 2021 le cooperative sociali e le associazioni senza finalità di lucro che svolgono da almeno tre anni attività specifica di reinserimento lavorativo e sociale di detenuti o ex detenuti su tutto il territorio nazionale. Le domande dovranno essere inviate antro mezzogiorno del 5 novembre 2021 tramite l’area riservata del sito della Fondazione. Il progetto dovrà poi essere attivato entro dodici mesi dalla data di assegnazione. Torino. La foodblogger va in carcere (per insegnare ai detenuti a cucinare) di Federica Giuliani La Repubblica, 18 ottobre 2021 Ambra Orazi e il suo lavoro nel progetto di inclusione della Fondazione Casa di carità arti e mestieri: “L’insegnamento nella Casa circondariale di Torino mi ha permesso di uscire dalla comfort-zone”. Torinese, cresciuta a San Salvario, Ambra Orazi è un raggio di sole improvviso in una giornata nebbiosa. Energica e sorridente food blogger, crea variopinte ricette per note riviste, ma recentemente ha colto l’opportunità di una nuova sfida: insegnare tecniche di cucina ai detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Innanzitutto, Ambra, ci racconti di lei e di come ha iniziato a occuparsi di cibo… “Non mi sono sempre occupata di food, ma la mia famiglia ha origini marchigiane e a casa mia cucinano tutti. Ho avuto la fortuna di crescere accanto ai nonni e la mia vita è sempre stata scandita da qualche preparazione gastronomica: a Carnevale si preparavano le Bugie e così via durante tutto l’anno, un vero e proprio laboratorio di cucina. Ho cominciato a lavorare molto giovane facendo un percorso nelle risorse umane, poi per una serie di vicissitudini ho deciso di accettare un impiego part time in uno studio di amministrazioni condominiali, che però non mi permetteva di trovare gli stimoli di cui avevo bisogno. Ho quindi pensato di frequentare corsi di pasticceria, argomento che conoscevo poco, e poi nel 2008 ho aperto il mio blog ilgattoghiotto.it. Dopo qualche tempo ho capito che avrei potuto farne una professione e, negli anni, ho lavorato in questa direzione affinando la mia professionalità”. A cosa l’ha portata questo percorso? “Dal 2014 collaboro con riviste di cucina, creando ricette e realizzando foto, e fornisco ad aziende contenuti sempre legati al cibo. Più recentemente, invece, ho iniziato un percorso di docenza presso la Casa Circondariale di Torino - gestito dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, che offre formazione al lavoro e sostegno alla crescita professionale e sociale delle persone - che mi permette di uscire dalla mia zona di comfort, sporcandomi le mani in un contesto autentico; credo infatti che chi, come me, ha iniziato il percorso da food blogger molti anni fa, oggi fa un po’ fatica a riconoscersi nelle dinamiche dei social Network. Insegnando ai detenuti capisco che quello che faccio è qualcosa di concreto, che non si limita a qualche like”. Come è stato il “primo giorno di scuola”, come si è approcciata alla realtà del carcere? “Sembra strano da credere ma io non ho mai avuto paura di questa esperienza. Il timore di molti, infatti, è quello di confrontarsi con storie difficili. Sono entrata lasciando fuori ogni tipo di pregiudizio, ricordando a me stessa che ero lì per svolgere il mio lavoro. Solitamente riesco a creare un bell’ambiente di fiducia reciproca, cosa a cui non sono tanto abituati, e un’atmosfera di armonia: alla fine di ogni lezione, ad esempio, si apparecchia e si mangia tutti insieme. Certamente, è necessaria una buona dose di disciplina, ma riuscendo a concentrare la loro attenzione su qualcosa di positivo come il cibo si ottiene anche molta riconoscenza. Durante le ore di formazione si parla molto e spesso emergono le loro storie: personalmente ho fatto un po’ di fatica a metabolizzare le storie delle donne, come la perdita dei figli dati in adozione. In generale, sono tutte storie che fanno pensare anche se cerco di essere sempre molto discreta e ascoltare senza giudizio qualora abbiano voglia di condividere con me”. Insegna sia a uomini che a donne? “Sì insegno a entrambi, anche se le donne fanno un percorso più breve. In realtà ci sono diversi corsi, come quello di panificazione e pasticceria condotto da colleghi, ma io seguo quello per Collaboratori di Cucina, rivolto ai detenuti uomini, piuttosto ambito perché, dopo l’esame, può dare la possibilità di essere assunti dalla cucina centrale del carcere: significa per loro entrare subito nel mondo del lavoro. Quando mi hanno chiamata cercavano qualcuno che avesse un approccio all’insegnamento e alla cucina più creativo e gioioso rispetto all’approccio accademico, in modo da dare ai ragazzi una nuova prospettiva sul cibo. Ma la verità è che una nuova prospettiva la danno loro a me; spesso, infatti, gli allievi provengono da altri Paesi e mi insegnano l’utilizzo di alcuni ingredienti a me sconosciuti o le tradizioni della loro cultura. Mi piace molto lo scambio che si crea tra di noi, una cosa a cui tengo molto, oltre alle ricette che prepariamo insieme, è fare cultura alimentare insegnando loro la corretta alimentazione spiegando, ad esempio, i giusti abbinamenti”. Cosa le insegna, ogni giorno, questa esperienza? “Ho imparato la capacità ad adattarmi. La dispensa di un carcere non è come quella di un ristorante o di casa nostra. Può capitare di non trovare tutti gli ingredienti che avevo richiesto e all’inizio rimanevo spiazzata. Con il tempo ho capito che avrei dovuto improvvisare, così ogni volta nasce una nuova esperienza di sapore”. Pet therapy per 15 detenuti, corso e visita del cane in carcere Progetto Ulisse, pet therapy per i carcerati, Il corso si concluderà a giugno 2022 Nell’iniziativa coinvolti una quindicina di detenuti della casa circondariale Le Sughere Livorno. Pet therapy per 15 detenuti, corso e visita del cane in carcere livornopress.it, 18 ottobre 2021 Sono una quindicina i detenuti della casa circondariale Le Sughere di Livorno coinvolti nella quarta edizione del Progetto Ulisse, percorso di pet therapy organizzato dall’associazione Do Re Miao! con il sostegno economico di Enpa (Ente nazionale protezione animali), il patrocinio del Comune di Livorno e la collaborazione della cooperativa Melograno gestore del canile municipale di Livorno “La cuccia nel bosco”. Il progetto prevede la partecipazione dei detenuti ad un corso nel quale la teoria si unisce alla pratica, messa in atto sul campo con gli animali dell’associazione e con alcuni cani del canile comunale di Livorno, per acquisire le nozioni di educazione e gestione del cane, al termine del quale sarà rilasciato un certificato di partecipazione. Prevista inoltre la possibilità per quei detenuti-corsisti ai quali è riconosciuto il beneficio di uscire dal carcere di mettere in pratica al canile comunale “La cuccia nel bosco” quanto appreso durante i mesi di formazione. La presenza del cane facilita il dialogo e l’apertura dei soggetti coinvolti in quanto tocca e attiva una sfera di relazione non vicariabile da altre esperienze e quasi sempre collegata ad un’immagine positiva e sana di sé. Il cane, per sua natura socievole e bisognoso di attenzioni, predispone il soggetto coinvolto all’interscambio comunicativo ed emotivo, richiama e convalida competenze acquisite in passato con cani di proprietà, dà prova di fiducia incondizionata, gradisce e stimola il contatto fisico spostando l’asse dell’attenzione dal disagio al benessere, dalla richiestività alla disponibilità, genera un circuito virtuoso di scambio di informazioni con gli operatori (conduttori dei cani) che vengono riconosciuti come figure professionali a loro volta non giudicanti in quanto non chiamate a intervenire direttamente sulla persona, se non in senso educativo per quanto riguarda la corretta modulazione dell’incontro con i cani. Attraverso l’Educazione Assistita con gli Animali, il progetto mira a promuovere, attivare e sostenere le risorse e le potenzialità di crescita e progettualità individuale, di relazione ed inserimento sociale delle persone in difficoltà. L’attestato dichiarerà l’apprendimento delle competenze di gestione ordinaria del cane, un primo passo per chi volesse cercare lavoro in ambito cinofilo. In ogni caso si tratta di conoscenze utili, essendo molti i detenuti che possiedono un amico a quattro zampe. E proprio le persone detenute, i cui amici pelosi sono ospiti de “La cuccia nel bosco” potranno chiedere di ricevere la visita dei loro amici a quattro zampe: l’associazione Do Re Miao! provvederà infatti ad accompagnare i cani in carcere rendendo così possibile l’incontro. Parole di giustizia, l’alleanza dei saperi a tutela dei diritti fondamentali di Livio Pepino* e Stefano Musolino** Il Dubbio, 18 ottobre 2021 L’appuntamento, promosso dall’Associazione Studi Giuridici Giuseppe Borrè, coinvolge magistrati, avvocati, docenti universitari e giornalisti. L’uguaglianza delle persone davanti alla legge e la tutela dei diritti sono il banco di prova delle democrazie contemporanee. Ciò sta scritto nelle Costituzioni del Novecento (a cominciare da quella del nostro Paese) ma spesso - troppo spesso - resta un obiettivo irrealizzato. Così la giustizia sembra talvolta ridursi, da orizzonte di una vita decorosa e serena per tutti, a insieme di procedure per risolvere controversie e conflitti. Con conseguenze assai gravi sulla politica, sulla giurisdizione e, soprattutto, sulle condizioni delle persone. Lo ha affermato di recente, parlando a un pubblico di giuristi in occasione del XX congresso della Associazione internazionale di diritto penale, papa Francesco: “Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione - automatico! - che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità”. In questo contesto ha fatto irruzione un fenomeno devastante per il sistema dei diritti: il cosiddetto populismo, caratterizzato, tra l’altro, da un diffuso “scontento verso le procedure della democrazia, considerate troppo lente, macchinose e distanti dalla volontà del popolo con l’enfatizzazione del ruolo di capi politici, diretti interpreti della volontà dei cittadini” (Nello Rossi). Ciò ha avuto pesanti ricadute anche nel settore giustizia, acuendo anomalie preesistenti come l’uso spregiudicato di leggi “manifesto” per lanciare messaggi culturali più che per regolamentare razionalmente fenomeni e situazioni, il ricorso all’aumento delle pene edittali a fronte di ogni (asserita) emergenza, la produzione di norme volutamente vaghe e indeterminate. Non solo ma - fatto ancor più grave - ha alimentato l’insofferenza nei confronti delle regole e delle garanzie e la diffidenza verso i magistrati (ritenuti non legittimati dalla volontà del popolo) e i giuristi in genere sino a far vacillare l’aurea massima del garantismo secondo cui “deve poter esserci un giudice indipendente che interviene a riparare i torti subiti, a tutelare il singolo anche se la maggior parte o persino la totalità degli altri si schierano contro di lui, ad assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna o a condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione” (Luigi Ferrajoli). L’effetto è evidente: nella prospettiva del populismo “il pubblico ministero o il giudice diventano magistrati di scopo: devono punire, duramente, il guidatore sbadato, per ammonire tutti i guidatori, devono sanzionare il politico o il pubblico funzionario accusati di malversazione perché rientrano nel tipo d’autore che il populismo ha configurato, devono sempre e comunque assolvere il cittadino che ha ucciso il ladro. L’alleanza con il Giudiziario è una componente essenziale di questo populismo, perché attraverso il Giudiziario il nemico può essere individuato, segnalato alla pubblica opinione e punito” (Luciano Violante). Ciò - superfluo dirlo - ha condizionato e condiziona la giurisdizione, nonostante alcune significative resistenze in settori della magistratura. Che fare, in questo clima, per inverare un ruolo dei giuristi e della giurisdizione di effettiva tutela dei diritti fondamentali? Inutile auspicare un cambio d’indirizzo della politica, tanto necessario quanto, nei tempi brevi, irrealistico. E non basta il richiamo ai valori costituzionali e alla necessità di una loro applicazione rigorosa: richiamo sacrosanto, ovviamente, ma da solo destinato a soccombere di fronte ai continui attacchi, diretti e indiretti. Occorre un salto di qualità: l’apertura, nel mondo dei giuristi, di una fase nuova, all’altezza di quella che caratterizzò la stagione a cavallo degli anni Settanta e del “disgelo costituzionale”. Si colloca qui il progetto di “Parole di giustizia” promosso dall’Associazione studi giuridici Giuseppe Borrè, approdato quest’anno a Urbino e a Pesaro, grazie alla sensibilità e lungimiranza del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli studi Carlo Bo e alla collaborazione di Magistratura democratica e dell’Ordine degli avvocati di Pesaro: un appuntamento annuale teso a recuperare la consapevolezza del carattere etico e politico oltre (e prima) che tecnico della questione giustizia. Un appuntamento che coinvolge magistrati, avvocati, docenti universitari, giornalisti ed esperti di comunicazione in dibattiti, dialoghi, lezioni magistrali e interviste che intendono portare i temi della giustizia tra chi ne è destinatario, a cominciare dai cittadini e dalle cittadine, dagli studenti e dalle studentesse. Si parlerà, quest’anno, come dice il titolo (In-sicurezza. Giustizia, diritti, informazione) di vita delle persone, di sicurezza, di paure. “Vivere bene”, in una integrazione rassicurante con chi ci sta accanto e al riparo da aggressioni alla propria incolumità, ai propri affetti e ai propri beni, è la sacrosanta aspirazione di tutti. I Costituenti americani del Settecento la chiamarono “diritto alla felicità”. Nella seconda metà del secolo scorso le grandi Costituzioni contemporanee hanno individuato nella giustizia sociale lo strumento per raggiungere quell’obiettivo. Ma oggi il diritto alla felicità sembra soppiantato dalla paura diffusa e dall’intolleranza e lo Stato sociale si trasforma sempre più in Stato penale. All’analisi di questo arcipelago e dei suoi effetti sui diritti, sulla politica, sulla legislazione, sul modo di amministrare la giustizia è dedicata questa edizione di “Parole di giustizia”. *Presidente Associazione Studi Giuridici Giuseppe Borrè **Segretario Magistratura Democratica L’ansia di giustizia che unisce letteratura e diritto di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 18 ottobre 2021 A nessuno verrebbe in mente di mettere sotto l’albero di Natale o di presentarsi alla cena della Vigilia da amici o parenti con un libro di testo giuridico come regalo: si porta in dono un bel libro fotografico sui canyon americani o un cofanetto con gli ultimi thriller italiani o un ricettario di una qualche presentatrice che ha avuto successo con i suoi intingoli semplici da preparare in non più di dieci minuti. Puoi averlo anche ben confezionato - con la carta dorata e un bel nastro variopinto - ma con un libro di sentenze di questa e quella Corte d’Appello o dove si raccoglie la giurisprudenza della Corte costituzionale in merito a una serie di argomenti pure sociali, in regalo, corri il rischio di suscitare delusione. Sempre che non te lo tirino dietro, e decidano di non invitarti più. Eppure. È proprio questo il primo pregiudizio da superare: tra letteratura e diritto esiste un nesso inscindibile, e questo nesso, questa “terra di mezzo” è proprio la parola. Evocativa, suggestiva, complessa nella letteratura; precisa, dettagliata, normativa nella giustizia: cos’altro è una sentenza, se non parola che si traduce in pena o assoluzione? Direi intanto che letteratura e diritto - la parola della narrativa, della poesia, e la parola della legge - hanno oggi una “questione comune” da affrontare, che è il prevalere della “parola mediatica”. È una questione che chi conosce il nostro giornale, i suoi intenti, le sue battaglie, avrà riscontrato spesso nelle sue pagine: troppe trasmissioni televisive, troppe “campagne” mediatiche vanno sovrapponendosi e sostituendosi ai luoghi propri dell’esercizio e dell’amministrazione della giustizia - come esercitando un “diritto altro”, spesso primitivo. E i loro linguaggi, la loro grammatica è obbligatoriamente semplificata, i loro “personaggi” (persone reali, in carne e ossa) incarnano troppo semplicisticamente il bene o il male - annichilendo proprio quella sfaccettatura di sentimenti, di intenzioni, di animo che sempre alberga nella cronaca, e a cui la letteratura attinge, per indicarci la complessità del mondo e delle relazioni tra gli uomini. Tempo fa, Roberto Esposito, che di mestiere fa il filosofo, chiedeva (Diritto & castigo. Quando il romanzo detta legge. Viaggio nella colpa, da Kafka a Camus, “la Repubblica”, 27 dicembre 2012): “Cosa può mai congiungere il diritto alla letteratura? Un solco profondo sembra separare la fluidità senza confini della scrittura letteraria e la rigidità di un ordine giuridico volto a discriminare la condotta lecita da quella illecita”. Eppure, proprio su questa intersezione, su questo “ponte sospeso” esiste ormai da decenni una vera e propria “accademia” (soprattutto negli Stati Uniti) che ha prodotto opere notevoli, oltre che corsi universitari di elevato spessore culturale e scientifico. Come ha scritto Gabrio Forti nella sua introduzione al primo volume di Giustizia e letteratura, la raccolta e l’elaborazione di un ciclo di seminari sotto la guida del Centro Studi “Federico Stella”: “È nell’area americana che assistiamo alla nascita del vero e proprio Law and Literature Movement. Con gli anni ‘0 del secolo scorso si ha quindi la definitiva consacrazione della riflessione giusletteraria: un solenne riconoscimento interdisciplinare che, fissandone i contenuti, viene a trascendere l’ambito puramente teorico per incardinarsi in esperienze vive di insegnamento e di dibattito e, in alcuni casi, di pratica giuridica. È soprattutto nell’ambiente accademico americano, specie all’interno delle Law Schools, che si ha un fiorire di studi volti ad arricchire il diritto attraverso il confronto con discipline extra-giuridiche come la letteratura, cui si fa riferimento sia quale fonte di narrazioni aneddotiche utili a stemperare certi formalismi legalistici, sia quale strumento linguistico ed ermeneutico per far emergere nuovi significati dai testi normativi. Nella prospettiva del Law in Literature, lo studio di opere letterarie che trattano temi legali assolve a una fondamentale funzione educativa, divenendo un importante strumento di umanizzazione e di crescita etica ed emotiva del giurista il quale, guardando alla letteratura, si ritiene possa meglio percepire e indagare la componente umana del diritto, spesso offuscata da un asettico formalismo e imprigionata in narrative ufficiali incapaci di dare voce (propriamente di “rendere giustizia”) ai soggetti deboli, agli outsiders sociali “. Con semplicità e precisione spiegava ancora Gary Minda (in Teorie postmoderne del diritto, 1995): “Una delle principali premesse dottrinali di questo movimento è che lo studio della letteratura è utile per analizzare la natura etica del diritto: che il pensiero e la pratica letterari hanno cose da dire sui temi umani nel diritto. Un’altra premessa è che diritto e letteratura sono intimamente collegati, poiché entrambi dipendono dal linguaggio e da un modo di leggere, scrivere e parlare che comporta pratiche interpretative simili”. Dalle pagine del nostro giornale, Vincenzo Vitale (3 agosto 2019), scriveva: “In realtà, diritto e letteratura si incontrano ad un crocevia fondamentale, quello stesso della verità... l’oggetto della letteratura e del diritto è il medesimo: la vita stessa. E non è poco, se si pensa che proprio della vita oggi i giuristi sembrano essersi fatalmente dimenticati. Basti leggere e meditare in proposito alcune massime della Cassazione da dove emerge con dolorosa chiarezza come la vita autentica degli esseri umani sembri distante anni luce. Ecco allora il compito della letteratura farsi ancora più chiaro: cercare di evitare questa mortale autoreferenzialità del diritto, riconducendolo, alla fine del suo tortuoso percorso, lì da dove era partito: ancora e sempre la vita degli esseri umani”. Quanta “ansia di giustizia” possiamo ritrovare in Shakespeare, Balzac, Zola, Dickens, Kafka, nell’Orestea di Eschilo, nell’Antigone di Sofocle, nelle figure di Faust e Robinson Crusoe, in Sciascia, in Dürrenmatt! Perciò, regalate “Il mercante di Venezia” di Shakespeare o il “Billy Budd” di Melville, per Natale. Ma con questa avvertenza: dite loro che si tratta di un testo giuridico. Le distorsioni del linguaggio. Il vocabolario del populismo di Giacomo Marramao La Repubblica, 18 ottobre 2021 In un passo delle Lezioni americane Italo Calvino ha un’intuizione profetica sulla minaccia che incombe sul nostro presente. Una “epidemia esistenziale” sembra avere investito le relazioni umane alterando “l’uso della parola”. Una vera e propria “peste del linguaggio” che svuota le espressioni di ogni densità e “forza conoscitiva”, dissolvendole nell’anonimato di formule astratte e multiuso in cui si spegne “ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”. Straordinario lo sguardo-laser verso il futuro di questo testo di 36 anni fa, compreso nel ciclo di Lectures che Calvino avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard e aveva siglato prima di morire con il titolo Six memos for the next millennium. Ed è inevitabile che esso ci rimandi, nell’attuale congiuntura, al modo fluido e generico con cui vengono oggi trattati termini quali “popolo” e “populismo”. Calvino sapeva come pochi che l’istituzione linguistica è l’istituzione primaria e che i nostri atti linguistici determinano inesorabilmente variabili di esclusione e inclusione. Seguire la sua idea di “esattezza” ci porta allora a evidenziare un fenomeno peculiare e una posta in gioco del dibattito politico europeo: popolo e populismo sono termini contrastivi. O, per riprendere l’espressionismo linguistico di Pierre Rosanvallon, sono due parole che “si guardano in cagnesco”. Abbiamo così il paradosso di rendere negativo un termine derivato dalla parola che è da sempre alla base dell’idea di democrazia. Ma per capire come stanno le cose occorre fare un passo avanti, per scorgere la radice della “sindrome populista” proprio in un peculiare modo di intendere il concetto di popolo. “Popolo” è uno di quei concetti a geometria variabile che in Occidente sono da sempre costitutivi della politica e dei suoi dilemmi: dal demos greco alla civitas romana all’idea medievale e moderna di popolo-nazione. Se il popolo è il fondamento di legittimazione e il motore del sistema democratico, la sua potenza resta indeterminata. Del popolo inteso in senso giuridico-normativo possiamo parlare solo in astratto, trattandosi di una moltitudine di differenze di genere, etnia, religione e condizione sociale (con le relative discriminazioni e gerarchizzazioni). Il popolo come un “Noi”, come unità effettiva, può essere soltanto due cose: un enunciato performativo e inaugurale, come il “We, the People” che troviamo nel preambolo della Costituzione degli Stati Uniti d’America, con la sua doppia anima “madisoniana” (limitazione costituzionale del principio di maggioranza) e “populista” (promessa di ampliamento della partecipazione); o un soggetto storico concreto, un popolo-evento inteso come un attore che interviene nella dinamica politica orientandone o modificandone il corso anche con rotture rivoluzionarie volte ad ampliare gli spazi di inclusione della democrazia. Il popolo delle ideologie populiste europee si sottrae invece a entrambe queste prospettive, situandosi in una terra di nessuno tra l’indeterminazione giuridico-formale e l’indeterminazione plebiscitaria che caratterizza le varie forme di totalitarismo. Anche quando si presenta in forma più sofisticata, intendendo il popolo non come un’entità sostanziale precostituita ma come il risultato di una costruzione politica, la prospettiva neopopulista non sfugge a due clausole vincolanti comuni a tutte le varianti di populismo: l’affidamento della costruzione politica del Popolo a un Capo (con il passaggio dal “Noi, il Popolo” all’“Io, il Popolo”) e il referente nazional-sovranista (con l’aperta ostilità agli “apolidi” e a qualunque forma di cosmopolitismo). Ma nel frattempo il trinomio moderno Stato-popolo-territorio è stato sconvolto da una scena globale in cui la sovranità è diventata sovranismo, il popolo populismo e il territorio viene ormai scavalcato dalla Rete. Con l’inevitabile, rapida obsolescenza dei sedicenti leader carismatici, determinata dall’imprevedibilità dei comportamenti delle popolazioni: meno propense ad affidarsi - come accadeva nel tragico secolo che abbiamo alle spalle - a un Capo che, come diceva Theodor Adorno, presenta la sventura sotto le sembianze della salvezza. Certo, ben diverse tendenze si vengono profilando fuori dell’Occidente nella mappa del mondo, con le politiche di potenza non più di Stati-nazione ma di Stati-continente quali Cina, Russia, India. È questa la vera, nuova sfida che ci attende. È il mese della cybersicurezza: sette consigli alla portata di tutti di Andrea Nepori La Repubblica, 18 ottobre 2021 In occasione del Mese europeo della Sicurezza Informatica abbiamo chiesto al capo della ricerca di Acronis alcuni consigli per navigare al sicuro da malware, furti di dati e ransomware. Il Mese europeo della Sicurezza Informatica (in sigla, Ecsm) è la campagna annuale dell’Unione europea dedicata alla sensibilizzazione sui temi della cybersecurity. L’iniziativa nasce allo scopo di promuovere conoscenza su un argomento di estrema attualità che non riguarda solo aziende o addetti ai lavori, ma ha ripercussioni sulla vita digitale di tutti i cittadini. L’Ecsm è coordinato a livello europeo dall’Enisa, mentre in Italia la campagna è seguiti dal Clusit assieme ad altre associazioni, università e istituzioni che organizzano eventi, seminari e conferenze gratuite sulla cybersicurezza per tutto il mese di ottobre (qui la nostra selezione). In occasione dell’edizione 2021 dell’iniziativa, abbiamo chiesto a Candid Wuest, vicepresidente della Cyber protection research di Acronis, di darci alcuni consigli per mettere in sicurezza i dispositivi digitali, navigare senza problemi e scansare le minacce informatiche che mettono a repentaglio la riservatezza dei nostri dati. 1. Sì, le password sono importanti “No, il nome del proprio gatto o del proprio film preferito non sono una buona password. Meglio scegliere una frase breve con numeri e caratteri speciali, come $Italian_Tech-IsMy#1… Ma questa non usatela! - ci ha detto Wuest - Inoltre, bisogna essere sicuri di usare password diverse per i vari account, perché altrimenti quando uno di questi viene violato, come per esempio accaduto con LinkedIn o Twitch di recente, tutti gli altri sono in pericolo. È consigliabile usare una password di base e un’ulteriore autenticazione a 2 fattori per aumentare il fattore sicurezza”. 2. Mail e siti: non credere alle offerte miracolose “Se il messaggio ricevuto nella posta sembra troppo bello per essere vero, allora probabilmente c’è qualcosa di sospetto. Le mail pericolose spesso presentano marchi famosi falsificati e in alcuni casi si spacciano come messaggi delle nostre banche o provider - ci ha detto ancora Wuest - Se non si intuisce l’inganno, le persone sono spinte a rivelare dati sensibili, come le password o i dettagli della carta di pagamento, si viene indotti a visitare siti falsi o ad aprire allegati dannosi che possono infettare il computer. Ci sono anche negozi online che fingono di presentare offerte interessanti, ma che in realtà vogliono solo i nostri dati e non intendono mai consegnare la merce”. Basta poco per non cadere in inganno: cercate il nome del negozio su Google prima di ordinare da un ecommerce poco conosciuto. Spesso è sufficiente per capire se lo store è autentico oppure è una truffa. Se non trovate alcun risultato o alcuna recensione e il prezzo è eccessivamente conveniente, meglio evitare di inserire i propri dati. 3. Non ignorare gli aggiornamenti del software “Come le automobili hanno bisogno di una manutenzione regolare, così i computer. È necessario installare gli aggiornamenti software non appena vengono rilasciati indipendentemente dal fatto che siano per il sistema operativo, lo smartphone o altre applicazioni - ci ha assicurato Wuest - I criminali informatici spesso cercano di abusare le vulnerabilità del software che possono insorgere per compromettere i sistemi, prima che le medesime siano risolte”. 4. Attenzione a ciò che si pubblica “È molto difficile cancellare qualcosa da Internet, una volta che è online. Pubblicare un video privato divertente o un commento arrabbiato sul proprio capo o sulla propria azienda, magari ammiccando a un’azienda concorrente, potrebbe creare problemi in futuro - è la raccomandazione di Wuest - Meglio pensarci due volte prima di postare qualcosa. È consigliabile verificare saltuariamente anche le impostazioni della privacy negli account dei social media in modo da essere consapevoli di chi può vedere i post che pubblichiamo”. Inoltre, fornire troppi dettagli sulla vita privata può favorire i furti di identità e fornisce ai malintenzionati indizi utili per dirottare i nostri account. Non tanto perché possono intuire le nostre password, ma perché possono utilizzare dati privati (un grande classico: il cognome della madre da nubile) per bypassare le domande di sicurezza dei nostri account, resettando gli accessi e prendendone il controllo. 5. Eseguire regolarmente il backup dei dati “Le preziose foto delle vacanze o quella lettura digitale che richiede tempo possono sparire in un secondo se non si è attenti. Un software malevolo come il ransomware potrebbe criptarle, o un guasto all’hardware potrebbe corrompere i relativi file - è l’avvertimento del vicepresidente di Acronis - Ecco perché è importante creare un backup di tutti i dati. Meglio farlo automaticamente con un’applicazione, in modo da non dimenticarsene mai”. Oltre al classico hard disk esterno, negli ultimi anni si sono moltiplicate le offerte di sistemi di backup remoto basati sul cloud: se impostati con le dovute cautele di sicurezza sono anche questi un’opzione utile per tenere al sicuro i dati. In caso di attacco ransomware, inoltre, la presenza di un backup aggiornato è la polizza di assicurazione migliore contro il pagamento del riscatto in bitcoin, che andrebbe sempre evitato a priori. 6. Esercitare una sana diffidenza con i messaggi “Non tutte le truffe riguardano malware e virus. Alcuni cercano di convincerti a inviare denaro con storie fantastiche. Potrebbe trattarsi sia di truffe romantiche, dove il presunto partner ha bisogno solo di un po’ di soldi per un biglietto aereo per venirci a trovare, sia di una richiesta di denaro per un antidoto contro il coronavirus, acquistabile se solo si paga qualche tassa iniziale in anticipo”. Ancora: “Queste sono le classiche truffe con pagamento anticipato. L’obiettivo dei criminali informatici è fare profitto, quindi bisogna essere scettici ed evitare sempre di pagare in anticipo”. Inoltre, attenzione anche ai messaggi (compresi gli sms) che invitano a cliccare su un link per il recupero delle password, oppure per ritirare un premio o un pacco: nessuna azienda che segua procedure di sicurezza adeguate utilizzerebbe mai questo formato per mettersi in contatto con un cliente o per richiederne i dati sensibili. Medio Oriente. Le voci strazianti di troppe violenze di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 18 ottobre 2021 Proprio ora che le guerre sembrano obsolete e la pace è possibile, aumentano gli attentati individuali e di gruppo. La vergognosa carneficina nello Yemen, sostenuta da Arabia Saudita e soci del Golfo. Il caso Regeni e la vergogna dell’Egitto di Al-Sisi. Confesso di essere un inguaribile ottimista, convinto che finalmente la guerra sia un mostruoso accidente obsoleto (parole dell’amico Mario Giro, ex viceministro degli esteri) e che la pace sia finalmente possibile, come è stato promesso a Roma nell’incontro della Comunità di S. Egidio, presenti Papa Francesco e la Cancelliera tedesca Angela Merkel. Si, ottimista, come mi impone il mio carattere, ma turbato dalla crescita esponenziale di violenze che sembrano annientare la voglia di pace che si comincia a respirare dappertutto. Le violenze dei singoli, o dei gruppi, magari minoritari, sono inaccettabili. Come il farabutto arciere danese convertito all’Islam più estremista che lancia frecce per la strada e uccide 5 persone in Norvegia. O come i nazifascisti che hanno occupato il centro di Roma con le svastiche e i tatuaggi più orrendi, sostenendo che volevano il leader della Cgil Landini, dopo aver devastato la sede del primo sindacato italiano. Esattamente come ha fatto quel golpista di Donald Trump, ex presidente americano, che incitava i suoi ad entrare al Congresso e colpire deputati e senatori. Mi direte: cosa c’entra il Vicino Oriente? C’entra eccome. Non soltanto per le porcherie dell’Arabia Saudita e degli Emirati, finanziatori di violenze sistematiche, ma per la guerra allo Yemen, uno dei Paesi più affascinanti e fragili del mondo. Proprio Riad e Abu Dhabi, oltre alla corte immancabile di ruffiani del petrolio e dei suoi profitti, stanno sostenendo una guerra schifosa contro gente inerme. Lo Yemen, la sua capitale Sana’a e il suo porto Aden sono diventati il teatro dello scempio più orrendo. Centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini, sono alla fame. Chi ha potuto è fuggito, ma la maggioranza è rimasta a patire sofferenze che neppure il leggendario Satana, di biblica memoria, potrebbe immaginare. Non è il solo caso dello scempio generalizzato. È stato aperto e subito sospeso a Roma il processo per il feroce massacro di Giulio Regeni, il nostro ricercatore ucciso dagli sgherri del presidente-dittatore Al Sisi. Certo, con il brutale leader egiziano ci sono aziende, anche italiane, che fanno affari d’oro, ma è ora di alzare la voce e di dire “basta”. Tralascio le consuete porcherie del presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan. Anche l’indagine, promossa da giornalisti americani e internazionali sui furti finanziari dell’aguzzino di Ankara, che speculava facendo miliardi con il petrolio dell’ISIS, cioè lo Stato islamico terrorista, sono state tacitate. Eppure io stesso ho le registrazioni, inviatemi da coraggiosi amici turchi riparati all’estero, di ordini telefonici di Erdogan al figlio: “Nascondi tutto”. Centinaia di milioni di dollari che il figlioletto ultratrentenne, a caccia di un improbabile PHD all’Università di Bologna, cercava di portare oltre frontiera (Leggere gli atti della magistratura emiliana, please). Credetemi. Lo dico da ottimista, ma la corsa alla violenza cieca mi angoscia. Come mai mi era accaduto. È proprio questo nuovo incubo a rendere la vita più difficile. Egitto. Visita al Cairo o decreti, così la politica punta a riaprire il caso Regeni di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 ottobre 2021 Il sottosegretario agli Esteri, Benedetto della Vedova: “Ora tocca a noi pretendere risposte dall’Egitto”. “Il governo usi tutte le leve a sua disposizione”, dice l’ex europarlamentare Elly Schlein, unica politica in aula giovedì a seguire il processo. La deputata Pd Lia Quartapelle al lavoro con l’esecutivo per studiare le strade possibili. Una nuova visita al Cairo, con nomi e cognomi dei quattro imputati fatti a favore di telecamera. Ancora: un’iniziativa diplomatica collettiva, con tutti i Paesi amici dell’Unione che si impegnano a chiedere all’Egitto gli indirizzi degli agenti che non si riesce a processare. La mobilitazione dell’opinione pubblica, con i riferimenti spammati ovunque, anche sui social network. Infine, un ulteriore approfondimento tecnico. Valutando, per esempio, nei decreti attuativi della riforma Cartabia che dovranno essere approvati nelle prossime settimane, se è possibile esplicitare le modalità di intervento in “assenza dell’imputato” del quale la riforma già si occupa. La decisione della Corte di Assise di Roma di annullare il processo per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni per mancata notifica degli atti agli imputati (non avvenuta perché l’Egitto non ha mai voluto dare gli indirizzi dei suoi agenti sotto processo) ha di fatto messo la partita nelle mani della politica: senza la collaborazione dell’Egitto, il processo rischia di finire in un binario morto. Lo sa Palazzo Chigi, che dopo la decisione importante, e per niente scontata, di costituirsi parte civile sta valutando in queste ore il da farsi. Il punto di partenza è quanto scritto nella costituzione di parte civile: “Gli Stati e i rispettivi governi sono titolari del diritto-dovere di tutela della vita e della libertà dei propri cittadini”. Il premier Mario Draghi seguirà in prima persona la vicenda, è possibile che risenta i genitori di Giulio, che ha già incontrato nelle scorse settimane, mentre alcuni dei suoi più stretti collaboratori stanno studiando il dossier per capire come muoversi. Sul tavolo c’è anche il comma 7 dell’articolo 1 della riforma Cartabia che si occupa del “processo in assenza”, sul quale il Governo potrebbe intervenire, per renderlo ancora più esplicito. “È chiaro che ora tocca ancora di più a noi”, spiega il sottosegretario agli Esteri, Benedetto della Vedova, “nel pretendere dall’Egitto una risposta, una collaborazione. Stiamo leggendo l’ordinanza del tribunale per capire che spazi ci sono per intervenire. Credo però si ponga un tema di diritti internazionale. L’Egitto ha firmato la convenzione contro la tortura che impone l’obbligo della cooperazione giudiziaria. Dobbiamo percorrere tutte le strade”. Al lavoro c’è anche Lia Quartapelle, deputata Pd e membro della commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio Regeni. C’è un filo diretto con il governo per studiare le strade possibili: per esempio, un’iniziativa istituzionale e pubblica in Egitto per far conoscere a tutti i nomi degli imputati. “Serve che il Governo italiano usi tutte le leve a sua disposizione”, dice l’ex europarlamentare e vice presidente della regione Emilia Romagna Elly Schlein, l’unica politica in aula giovedì a seguire il processo. “Ma serve anche una risposta della Ue: Giulio era un cittadino europeo come più volto hanno ricordato i suoi genitori e l’avvocata Alessandra Ballerini. Sarebbe per esempio utile se la richiesta degli indirizzi - dice la Schlein - fosse riproposta all’Egitto dalle ambasciate di tutti i Paesi dell’Unione. Giulio appartiene a noi. Ma a tutta l’Europa. E di tutti abbiamo bisogno per ottenere verità e giustizia”. “Di tutti”, dice la Schlein. E ne è convinta anche la famiglia Regeni. L’avvocata Alessandra Ballerini ha chiesto di diffondere, ovunque, le generalità dei quattro imputati. Repubblica ha pubblicato sul proprio sito, in inglese e arabo, i loro nomi e cognomi. Oltre ai reati per cui la giustizia italiana vuole processarli. Dieci anni senza l’Eta, la Spagna ricorda le 854 vittime del terrorismo nova.news, 18 ottobre 2021 Il 20 ottobre 2011, alle sette del pomeriggio, l’edizione digitale del quotidiano “Gara” ha pubblicato un video in cui tre uomini incappucciati annunciavano la “cessazione definitiva dell’attività armata” dell’Eta, il gruppo terroristico basco. “El Pais”, in un editoriale, ricorda quel momento simbolico per tutta la Spagna. I tre uomini hanno incentrato il loro discorso su una richiesta di “un dialogo diretto” con il governo per risolvere le “conseguenze del conflitto” e hanno concluso il loro intervento con i pugni alzati inneggiando all’indipendenza dei Paesi Baschi. In due minuti e 37 secondi, dieci anni fa ciò che restava dell’Eta mise fine a 43 anni di ricatti, rapimenti e attentati, dopo che l’organizzazione era stata sconfitta grazie anche ai molteplici strumenti a disposizione della società democratica. Questa è una data fissata nella memoria degli spagnoli che ha pagato il tributo di 854 morti, più di 7 mila feriti e 86 vittime di rapimenti. Sul fronte legislativo, tuttavia, rappresenta anche un momento importante sul piano politico grazie allo storico accordo fra Partito popolare e Partito socialista che decisero di mettere fuorilegge il braccio politico dell’Eta ed estinguere qualsiasi copertura politica al gruppo terroristico. Dieci anni dopo che l’Eta ha annunciato la fine della lotta armata, la banda terroristica è ridotta a una ventina di evasi e 184 detenuti nelle carceri spagnole, 73 dei quali già trasferiti in strutture detentive dei Paesi Baschi, grazie alla decisione di porre fine alla politica di dispersione adottata dal governo di Pedro Sanchez. Il presidente socialista, d’altronde, ha ceduto la giurisdizione delle carceri all’esecutivo basco e ha accettato la coalizione indipendentista basca Bildu fra i partner necessari per garantire la maggioranza parlamentare. Arnaldo Otegi continua ad essere il leader della sinistra nazionalista oggi, come dieci anni fa, anche se allora era in carcere per aver tentato di ricostruire il partito fuorilegge Batasuna su ordine proprio dell’Eta. Un decennio dopo quella dichiarazione dei tre incappucciati che chiedevano un dialogo riferendosi ai prigionieri - nel 2011 erano 595 in Spagna e altri 140 in Francia - e ai membri dell’Eta in clandestinità, gli organi di sicurezza dello Stato sono alla ricerca di una ventina di latitanti, la maggioranza dei quali si troverebbero in Venezuela. Ahmadreza Djalali ha trascorso duemila giorni in carcere in Iran: è ora di liberarlo di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2021 Ieri Ahmadreza Djalali, scienziato con doppio passaporto iraniano e svedese, ha trascorso il suo duemillesimo giorno dall’arresto in una prigione dell’Iran. Djalali, un esperto in Medicina d’emergenza che ha lavorato presso università della Svezia, del Belgio e anche dell’Italia (in particolare all’Università del Piemonte orientale), è stato arrestato nell’aprile 2016, accusato di spionaggio e condannato a morte da un tribunale rivoluzionario di Teheran un anno e mezzo dopo. Secondo l’accusa, Djalali ha avuto diversi incontri col Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, fornendo informazioni sensibili su siti militari e nucleari italiani e su due scienziati iraniani poi assassinati. Djalali ha sempre respinto queste accuse, denunciando che sono state una rappresaglia per il suo rifiuto di collaborare coi servizi iraniani per identificare e raccogliere informazioni dagli stati dell’Unione europea: “Sono uno scienziato, non una spia”, ha scritto dal carcere nel 2017. Djalali è detenuto nella prigione di Evin, in condizioni di salute sempre più precarie. Da quasi un anno gli è impedito di contattare telefonicamente la moglie e i figli, che vivono in Svezia. La sua esecuzione viene periodicamente annunciata e poi rimandata. In favore della sua scarcerazione hanno preso posizione 121 premi Nobel e Amnesty International, il cui appello alle autorità iraniane ha superato le 220mila firme. *Portavoce di Amnesty International Italia Haiti, il dominio delle gang di Emiliano Guanella La Stampa, 18 ottobre 2021 Diciassette missionari Usa sequestrati mentre tornavano da un orfanotrofio. Le bande criminali tengono in ostaggio il Paese, in 9 mesi oltre 600 rapimenti. Le ultime vittime dell’ondata di sequestri che sta attraversando Haiti stavano tornando da una visita ad un orfanatrofio in costruzione nei pressi di Croix-des-Bouquets, nella periferia di Port-au-Prince. Il bus che stava trasportando i diciasette membri dell’organizzazione missionaria statunitense Chistian Aid Ministries è stato fermato da un commando armato, probabilmente appartenente alla gang “400 Mawozo”, una delle più potenti tra le oltre 100 organizzazioni criminali che dominano le periferie della capitale. Un copione già visto in aprile, quando la gang ha sequestrato nella zona un gruppo composto da quattro preti francesi e delle monache haitiane che stavano andando alla cerimonia di assunzione di un sacerdote. I rapitori chiesero un riscatto di un milione di dollari e hanno liberato il gruppo dopo 19 giorni. Il business dei sequestri è cresciuto esponenzialmente ad Haiti negli ultimi mesi. Dall’inizio dell’anno sono stati più di 600, contro i 231 del 2020; gli stranieri sono gli obbiettivi privilegiati perché i criminali sanno che riusciranno a ottenere dei buoni riscatti in dollari o euro. Il panico e l’impotenza ormai regnano tra chi è venuto da fuori per aiutare; missionari, operatori di organizzazioni internazionali o Ong. Se prima si raccomandava loro di rimanere in casa più possibile per non avere problemi, adesso anche questa precauzione non serve più; le gang ti vengono a cercare, chi non si può permettere una scorta armata ventiquattr’ore al giorno, come i diplomatici nelle loro residenze, rischia grosso. Padre Michel Briand, sequestrato ad aprile, è da 37 anni sull’isola e ai media francesi ha confessato di non aver mai visto una situazione del genere. In due settimane e mezzo è stato portato in tre rifugi diversi, quattro gruppi diversi lo hanno tenuto in ostaggio. “Quando ci hanno lasciato andare - ha detto a France24 - due ragazzi armati ci hanno chiesto di pregare per loro. Ho visto la disperazione nei loro occhi”. Haiti vive in un caos da anni, ma ora il più povero Paese delle Americhe è all’anarchia totale. Ancor prima dell’uccisione del presidente Jovenel Moïse, il 7 luglio, la situazione era fuori controllo. L’opposizione chiedeva la destituzione del Capo di Stato, inchieste indipendenti hanno mostrato la connivenza del suo governo con alcune gang che controllano Port-Au-Prince. Secondo un report della Fondazione Je Klere (Fjkl) esistono almeno 150 bande attive in tutto il Paese, i partiti politici le usano per regolamenti di conti, attacchi ad avversari o per recuperare denaro attraverso racket o sequestri. L’Osservatorio haitiano per i delitti di lesa umanità (Ohcch) ha dimostrato la partecipazione del governo di Moïse in almeno tre attentati commessi tra il 2018 e il 2020. Dopo l’uccisione del presidente il potere è passato al suo primo ministro Ariel Henry, ma questi non controlla affatto l’ordine pubblico né ha la forza per imporre una tregua e organizzare nuove elezioni. I sequestri sono la maniera più efficace per le bande per procurarsi denaro e così munirsi di ulteriori armi; un circolo vizioso che le autorità non possono e probabilmente non vogliono spezzare. Diverse vittime hanno raccontato di essere state catturate da persone con divise della polizia, il governo non nega che questo possa succedere e non fa nulla a riguardo. In prima linea ad Haiti da decenni c’è padre Rick Frechette, punto di riferimento della Fondazione Rava-Nph Italia impegnata fra le altre cose ad aiutare le zone colpite dal terremoto del 14 agosto; hanno assistito 6.000 feriti e fornito un tetto a centinaia di sfollati. “Ho visitato - racconta padre Rick - in questi giorni la clinica gestita dai Missionari della Carità a Croix-des-Bossales. Ci sono 600 pazienti, le condizioni sono devastanti. La stazione di polizia del quartiere è stata distrutta da un attacco delle gang, c’è ancora il sangue degli agenti uccisi sui muri”. La gente è terrorizzata quasi nessuno esce di casa se non per assoluta necessità. “Delle suore mi hanno raccontato che i banditi hanno bloccato la strada con un container. La banda è nascosta dietro le macerie, rimangono appostati per decidere chi passa o no, chi potrebbe essere sequestrato o no”. Dopo il terremoto ad Haiti è arrivata una terza ondata di Covid molto forte, con gli ospedali sprovvisti di ossigeno. Gli aiuti internazionali stanno arrivando ma la sicurezza di chi lavora sul posto è compromessa. La gente, poi, non sa più dove scappare. Dopo l’uccisione di Moïse la Repubblica Dominicana, che ha accolto 400.000 profughi haitiani negli ultimi 5 anni, ha chiuso le frontiere. Trecento haitiani scappati dopo il terremoto del 2010 sono sbarcati sull’isola come deportati dagli Stati Uniti. Uomini e donne che avevano trovato rifugio in Cile, Brasile, Perù e che sono partiti in un’odissea disperata per raggiungere il sogno americano. L’operazione di deportazione decisa dall’amministrazione Biden ha causato le dimissioni dell’inviato Usa a Port au Prince, Daniel Foote. “È disumano che il mio governo rimandi qui gente che è scappata da condizioni di fame e miseria. Tornano dopo anni in patria e non hanno più nulla”, ha detto. A Port-Au-Prince molti chiedono un intervento armato degli Usa per ristabilire l’ordine e poter ricostruire un minimo di tessuto sociale, ma Washington non sembra per ora intenzionata a mandare i soldati nell’inferno haitiano. Stesso discorso per l’Onu, che ha smobilitato nel 2017 la sua missione guidata dai caschi blu brasiliani. Gli haitiani sono sempre più abbandonati e anche aiutarli, ormai, diventa sempre più pericoloso. Myanmar. Rilasciati i cinquemila prigionieri delle proteste contro il golpe La Stampa, 18 ottobre 2021 La decisione arriva dopo l’esclusione del generale Hlaing dal prossimo vertice dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del sud-est asiatico. In Myanmar oltre 5mila prigionieri politici saranno rilasciati nelle prossime ore. Si tratta dei manifestanti incarcerati lo scorso febbraio, accusati di aver partecipato alle proteste contro il colpo di stato che avevano deposto la leader birmana Aung San Suu Kyi. Ne ha dato annuncio il capo della giunta militare, il generale Min Aung Hlaing, che ha assicurato che i 5.636 prigionieri torneranno in libertà prima del festival delle luci di Thadingyut di martedì. Nello specifico, è previsto il rilascio di 1.316 persone e l’archiviazione dei casi di 4.320 altre, che stavano affrontando azioni legali per il loro attivismo anti-regime. L’impressione è che si tratti di un gesto di clemenza mirato a rabbonire la comunità internazionale, che nei giorni scorsi aveva comunicato l’esclusione del generale Hlaing dal prossimo vertice dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del sud-est asiatico. L’Associazione aveva, invece, annunciato che avrebbe invitato un rappresentante “non politico” del Myanmar, suscitando rabbia nella giunta che governa la capitale. Dopo una riunione speciale convocata venerdì, l’associazione aveva infatti constatato che ci sono stati “progressi insufficienti” dello Stato per giustificare l’invito al vertice di questo mese. Lo scorso aprile, infatti, Asean aveva redatto una lista in cinque punti sulla crisi in Myanmar, chiedendo “l’immediata cessazione della violenza” e invitando tutte le parti del Paese a esercitare “la massima moderazione”. Come parte delle misure concordate l’esercito avrebbe dovuto poi consentire a un inviato speciale dell’Associazione di visitare il Paese per incontrare Aung San Suu Kyi, detenuta dal primo febbraio. La scorsa settimana, però, i militari avevano fatto sapere che l’incontro non sarebbe potuto avvenire, mentre i combattimenti hanno continuato a divampare, soprattutto nelle aree di confine come lo stato nord-occidentale del Chin. Il capo dell’esercito birmano Hlaing ha espresso lunedì alle televisioni locali il suo disappunto per l’esclusione, dichiarando che l’intenzione dei militari a febbraio era quella di ristabilire l’ordine e riportare la pace in un paese sprofondato nel caos.