Mattarella contro la giustizia malata di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 ottobre 2021 “Occorre impegnarsi per assicurare la credibilità della magistratura che, per essere riconosciuta da tutti i cittadini, ha bisogno di un profondo processo riformatore e anche di una rigenerazione etica e culturale”. E ancora: “L’indipendenza della magistratura è un elemento cardine della nostra società democratica e si fonda sull’alto livello di preparazione professionale, che va accompagnata dalla trasparenza delle condotte personali e dalla comprensibilità dell’azione giudiziaria”. Sembra quasi tradire una certa irritazione l’ultimo - ennesimo - monito lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in favore di un rinnovamento etico e morale nella magistratura italiana. Sono passati due anni e mezzo dallo scandalo delle nomine pilotate ai vertici dei principali uffici giudiziari del paese e la “rigenerazione etica e culturale” delle toghe, tanto auspicata dal capo dello stato, nonché capo del Csm, sembra ancora ben lontana dal realizzarsi. L’inchiesta di Perugia nei confronti di Luca Palamara non aveva fatto altro che rivelare ciò che in realtà tutti sapevano già da tempo, vale a dire l’esistenza di un sistema di lottizzazione sistematica degli incarichi di vertice negli uffici giudiziari (soprattutto le procure) da parte delle correnti togate, degenerate in veri e propri centri di potere. Come ha reagito la magistratura di fronte a uno dei più gravi scandali della sua storia? Radiando Palamara, l’ex “ras delle nomine”, e sospendendo dalle funzioni e dallo stipendio (per periodi che vanno dai nove mesi a un anno e sei mesi) i cinque ex componenti togati del Csm che il 9 maggio 2019 parteciparono alla celebre riunione notturna in un hotel di Roma con lo stesso Palamara e con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. La mancanza assoluta di una riflessione profonda nella magistratura sulle cause e sui possibili rimedi di questo fenomeno degenerativo, distruttivo della propria credibilità, è ciò che più colpisce il normale cittadino. E forse anche Mattarella. La sfida di Magistratura indipendente sul nuovo Csm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 ottobre 2021 Anche Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, dopo il gruppo progressista Area, ha ripreso l’organizzazione di eventi in presenza, interrotti in questi mesi a causa del Covid. Primo appuntamento ieri a Napoli con il convegno dal titolo “Le riforme della giustizia. La cultura della giurisdizione: il fine può giustificare i mezzi?”. Diversi i temi in agenda: le modifiche del processo civile e penale, il futuro dei giovani magistrati, le modifiche all’ordinamento giudiziario e al Csm. “Vogliamo sollecitare una riflessione sulle riforme della giustizia volute dal governo”, dicono le toghe di Mi. Ad esempio: “Cosa rende dissonanti le previsioni sulla giustizia civile e quelle contenute nel Pnrr i cui interventi si pongono esplicitamente in una prospettiva fortemente imprenditoriale: soldi in cambio di riforme, per un sistema in cui la competitività è il massimo principio regolatore”. “Da un lato assistiamo al panpenalismo, con il limite della improcedibilità in luogo di una robusta depenalizzazione, dall’altro lato c’è la economizzazione della giustizia civile, nel duplice senso di voler anche risparmiare sulle fasi processuali”, ricordano i magistrati di Mi. “Ed in mezzo - aggiungono - ci sono avvocati e giudici, sui quali si ribalta il carico della responsabilità dell’eventuale mancato raggiungimento di obiettivi, va detto, estremamente ambiziosi fissati unilateralmente dal governo. “È illusorio pensare che la durata del processo civile dipenda dal rito adottato, eppure il legislatore si appresta, ancora una volta, a modificarlo. Si tratta di modifiche calate dall’alto, senza una effettiva conoscenza delle variegate realtà giudiziarie, che evidenziano una efficienza a macchia di leopardo, ha dichiarato Edoardo Cilenti, ex segretario generale dell’Anm, intervenendo sul civile. Ciò non dipende evidentemente - ha puntualizzato - dalle norme processuali, che sono uguali in tutta Italia, ma da fattori sociali, operativi, organizzativi. Ad aprire i lavori la presidente di Mi Luisa Napolitano. Oggi è previsto l’intervento del vice presidente del Csm David Ermini. Chiuderà il convegno il segretario Angelo Piraino. Non poteva mancare un accenno ai recenti scandali che hanno coinvolto le toghe. “La magistratura in questo momento deve prima di tutto recuperare credibilità’, è stato da più parti ricordato. “Serve ricostruire un rapporto fiduciario con i cittadini”, ha sottolineato il procuratore di Napoli Giovanni Melillo. La magistratura e il diritto di navigare di Cecilia Bernardo Il Domani, 17 ottobre 2021 Arriva sul web la rivista dell’Anm “La Magistratura” e diventa lamagistratura.it. Un nuovo progetto editoriale per interrogarsi e riflettere sulle ragioni del diritto, aperto a contributi di accademici e operatori del diritto ma rivolto anche alla società civile. Lo storico periodico dell’Associazione Nazionale Magistrati, denominato La Magistratura, cambia veste e diventa online. Un cambio di forma ma anche di sostanza, con contributi inediti scritti da magistrati, istituzioni, operatori del diritto. Il nuovo progetto editoriale nasce con l’obiettivo di dare maggiore visibilità a contenuti che, nel corso degli anni, sono stati caratterizzati sempre da un elevato livello di approfondimento tecnico e culturale, ma, proprio perché cartacei, erano di difficile reperimento e di limitata diffusione. Nell’era di internet e seguendo l’idea di una magistratura aperta al dialogo ed al confronto con le altre istituzioni e con la società, la rivista La Magistratura è stata ripensata per poter essere fruita ed apprezzata sia dagli operatori del diritto sia, in generale, dagli studiosi e dai cittadini interessati alle problematiche della giustizia. L’idea editoriale - Il primo passo di questo percorso ha visto la creazione di un autonomo sito web della Rivista La Magistratura, disponibile al link www.lamagistratura.it, collegato a quello principale dell’Associazione che resterà “casa madre” della rivista stessa. Il sito web, caratterizzato da una grafica innovativa, è dotato di un motore di ricerca interno per consentire il rapido ed agevole reperimento delle informazioni mediante inserimento di semplici parole chiave, permettendo così agli interessati di navigare all’interno dei numerosi numeri del nostro periodico in maniera semplice e agile. I singoli articoli possono poi essere condivisi sui social o estratti in formato pdf. Le aree tematiche, che ripercorrono ed arricchiscono le sezioni della originaria rivista cartacea, sono dodici: Civile; Penale e Sorveglianza; Procedura civile; Procedura penale; Diritto giudiziario; Vita associativa; Commentario; Informatica e nuove tecnologie; Storia della magistratura; Diritto europeo e sovranazionale; Educazione alla legalità; Persone, minori e famiglie. Con una forte caratterizzazione legata all’attualità. In una pagina apposita sono inseriti tutti i precedenti numeri della rivista già in formato digitale e, successivamente, saranno resi accessibili anche quelli in formato cartaceo nonché gli atti dei convegni conservati presso la sede dell’Anm. Ciò al fine di non disperdere il patrimonio culturale della nostra Associazione ed evitare che i numeri del passato, soprattutto quelli cartacei, possano deteriorarsi ed andare perduti. Oltre agli approfondimenti tecnico-giuridici, la rivista si propone di offrire contributi anche nelle tematiche di interesse generale ed associative. Inoltre, presenta una sua assoluta specificità scientifica nell’approfondimento dei profili dell’ordinamento giudiziario, tema questo di grandissima attualità nel presente frangente storico. Aprirsi all’esterno - Valorizzare tale settore significa favorire la conoscenza e la diffusione della cultura ordinamentale ma anche far conoscere, all’esterno dell’associazionismo e della componente della magistratura, le ipotesi di riforma che la magistratura e tutte le sue componenti, pur nella diversità delle soluzioni offerte, stanno proponendo. Nell’area riservata è inserita una “porta di accesso” alla Banca dati della Casa editrice Giuffrè, alla quale l’Associazione è abbonata, condividendo tale abbonamento con la Scuola Superiore della Magistratura, anche nell’ottica di poter estendere l’abbonamento ad ulteriori contenuti che possano essere di ausilio per tutti i colleghi. Altra rilevante novità, la sezione dedicata alla giurisprudenza di merito, un vero e proprio motore interno di ricerca sulle novità in tema di sentenze e di giurisprudenza. Per la realizzazione del nuovo piano editoriale, i componenti del Comitato di redazione saranno affiancati da un Comitato scientifico, composto da professori e magistrati di elevatissimo prestigio, affinché la Rivista possa rappresentare, ancora una volta, un luogo di confronto e di approfondimento culturale e scientifico aperto a tutti gli operatori del diritto. Tra i vari progetti avviati nell’ambito del nuovo piano editoriale, è stato previsto anche il “Commentario della Magistratura”, un commentario analitico delle principali fonti di diritto sovranazionale e nazionale, a partire dalla nostra Carta Costituzionale, nella cui predisposizione saranno coinvolti non solo i magistrati, ma anche accademici e soggetti istituzionali in ragione della carica rivestita. Fondamentale infatti contribuire, con modalità adeguate al contesto tecnologico contemporaneo, alla conoscenza e alla diffusione del diritto e, in primo luogo, dei valori consacrati nella Costituzione. Una vera e propria ‘opera’ dall’importante valore scientifico, vista la sua formazione da parte di autori qualificati, ma anche un momento di condivisione unitaria degli ideali comuni ai magistrati ed agli altri operatori del diritto. L’inserimento dei contributi di ciascun autore ha infatti il significato simbolico della collaborazione tra le Istituzioni dello Stato, l’Accademia e la Magistratura, per scopi culturali e divulgativi. Con l’auspicio, in un momento particolarmente difficile per l’immagine e la credibilità della magistratura, che la rivista possa rappresentare un nuovo luogo di confronto e di approfondimento culturale e scientifico, aperto a tutti gli operatori del diritto, che superi l’immagine di una magistratura chiusa in se stessa, auguriamo buona lettura. La battaglia della Consulta antiusura: “Ora la legge sia estesa alle famiglie” di Paolo Lambruschi Avvenire, 17 ottobre 2021 Cambiare la legge sull’usura del 1996 includendo l’aiuto alle famiglie. E in tempi rapidi, perché la pandemia sociale non aspetta mentre le mafie sono partite all’attacco di negozi e imprese delle persone sovraindebitate con la loro disponibilità di liquidità già durante il lockdown di marzo 2020. La nuova battaglia della Consulta nazionale che riunisce le Fondazioni antiusura (da ieri sono diventate 33) è stata lanciata al termine di un convegno che celebrava un quarto di secolo dell’organismo nazionale che porta il nome di Giovanni Paolo e che da un anno è presieduto dal direttore di Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti. Ha un quarto di secolo anche la legge 108 del 1996, cui la Consulta e il compianto padre Massimo Rastrelli diedero un notevole contributo, e in 25 anni il fenomeno è radicalmente mutato. Norme pensate per contrastare sostanzialmente l’usuraio di prossimità o al massimo i colletti bianchi oggi non riescono a fronteggiare l’assalto delle mafie e dei grandi speculatori. Per l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia, che pochi giorni fa ha lanciato l’allarme sul sacco di Napoli fatto dai clan, è importante cambiare la legge in fretta. “Le mafie sono rapide, approfittano del tempo che perdiamo a discutere per fare altre vittime. L’usura per chi ci cade è perdita di libertà ed è il prodotto di un sistema malato che tende a scartare chi non serve, come ci dice Papa Francesco”. Il quadro sociale del Paese, già disegnato dal rapporto povertà della Caritas italiana pubblicato ieri con un ampio capitolo dedicato proprio al numero crescente delle vittime di usura, è in netto peggioramento secondo il sociologo Maurizio Fiasco. “Dopo le aperture e chiusure della pandemia - afferma - in base alle stime della Banca d’Italia almeno un terzo della popolazione italiana rischia l’esclusione sociale”. Si apre quindi un mercato più ampio che consente alle mafie di guidare l’assalto alla proprietà immobiliare delle famiglie sovraindebitate al prezzo vile fissato attraverso le aste giudiziarie, stando alla denuncia dello scorso agosto della Commissione parlamentare antimafia. Concorda sulla necessità di aggiornare la 108 anche un magistrato del calibro di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro. “La vittima dell’usura- sostiene Gratteri - è come un tossicodipendente che non riesce a uscire da solo dalla dipendenza. C’è ancora l’usura praticata dall’impiegato di banca o dal comune strozzino, ma sempre più fa gola alle mafie che hanno bisogno di immettere nel sistema finanziario un grande volume di liquidità e attraverso ad esempio l’acquisizione di attività commerciali riescono a ripulire i proventi dei crimini” Per Gratteri è importante il ruolo delle fondazioni antiusura nella prevenzione. “Dovete raccontare quello che ascoltate, cosa significa venire terrorizzati anche in casa davanti alla propria famiglia, avere la vita sconvolta spesso irreversibilmente dagli usurai mafiosi”. Il punto debole è quello repressivo. “Purtroppo il contrasto è difficile per le lentezze processuali e le pene soft per questi reati rispetto alle sofferenze che infliggono e scoraggiano le denunce delle vittime. Alla vittima deve convenire stare dalla parte dello Stato”. E Gratteri, che non è mai stato molto tenero con la riforma della Giustizia voluta dall’Ue per concederci i fondi per la ripresa che prende il nome di Marta Cartabia, non è ottimista. “Rischiamo, con i tempi veloci previsti dalla nuova legge, che i processi contro gli usurai non vadano a termine e quindi non siano processabili”. La proposta di riforma della legge è stata elaborata da Antonella Sciarrone Alibrandi, Pro-Rettore Vicario dell’Università Cattolica. Insieme alla Consulta, ad altre associazioni antiusura e a diversi magistrati ha dato vita a un tavolo di lavoro che sta cambiando alcune norme importanti sul sovraindebitamento, troppo sbilanciate contro la vittima. “La riforma - ha spiegato - prevede modifiche agli articoli 14 e 15 della legge n. 108. È importante, soprattutto pensando al momento in cui finiranno i ristori e i sussidi e quanto sta accadendo con il boom dell’azzardo allargare la platea dei destinatari. Non solo imprenditori e commercianti, ma anche famiglie. Serve però che vengano nominati dei tutori perché di molti mutui concessi dalle banche attraverso il fondo non si sa più nulla e va ridefinita la quota del fondo concessa alle fondazioni, che deve passare dal 30 al 50%”. D’accordo sulla necessità di riforma, infine, il prefetto Giovanna Cagliostro, da 10 mesi Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura. “Nel 2020 abbiamo erogato 23 milioni di euro alle vittime, pochi rispetto alla disponibilità. Nel 2021 ne abbiamo erogati 13. Sono ancora poche le denunce, anche perché molti si vergognano”. Ora dal confronto con la politica Luciano Gualzetti si attende tempi rapidi “per stare dalla parte dell’anello debole, gli ultimi”. Reati fallimentari da rivedere: Cartabia vara la Commissione Bricchetti Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2021 La normativa va adeguata alla nuova disciplina sulla crisi d’impresa e dell’insolvenza. Lavori da concludere entro il 31 gennaio 2022. La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato il decreto di costituzione di una Commissione ministeriale, per l’elaborazione di proposte di revisione dei reati fallimentari. Un intervento, spiega una nota di Via Arenula, reso necessario dal diverso contesto, per adeguare le fattispecie penali alla mutata disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza e renderle funzionali, oltre che alla garanzia delle ragioni dei creditori, anche alla prevenzione della crisi d’impresa e al recupero della continuità aziendale. La Commissione ministeriale è presieduta da Renato Brichetti, presidente di sezione della Corte suprema di Cassazione e dovrà concludere i suoi lavori entro il 31 gennaio 2022. La Commissione - a cui partecipano Raffaele Piccirillo, capo di Gabinetto, e Franca Mangano, capo dell’Ufficio legislativo - è composta anche da Enrico Basile (assistente professor di Diritto penale), Alessandro Buccino Grimaldi (magistrato), Massimo Donini (professore di Diritto penale), Fausto Giunta (professore di Diritto penale), Francesco Mucciarelli (professore associato di Diritto penale), Luigi Orsi (magistrato), Vincenzo Picciotti (magistrato), Luca Pistorelli (magistrato), Marco Riva (commercialista), Sergio Seminara (professore di Diritto commerciale), Paolo Veneziani (professore di Diritto penale) e Maria Vessichelli (magistrato). Modena. Morti in cella, c’è un ricorso alla Cedu ansa.it, 17 ottobre 2021 Le famiglie di due degli otto detenuti morti quando a marzo 2020 scoppiò una rivolta nel carcere di Modena, in concomitanza con altre sommosse simili in altri istituti penitenziari, presenteranno ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione del fascicolo, decisa lo scorso giugno. Il ricorso, come riferito dal Tgr Rai Emilia-Romagna, sarà sottoscritto dall’avvocato Luca Sebastiani, che difende i parenti di Chouchane Hafedh e di Baakili Ali, e predisposto anche dall’avvocato Barbara Randazzo e dal professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che tra l’altro hanno patrocinato e vinto il caso alla Cedu sul G8 di Genova. A Modena il fascicolo, che ipotizzava l’omicidio colposo e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto era stato archiviato, su richiesta della Procura, dopo che le autopsie avevano rilevato in overdose da metadone e psicofarmaci le cause dei decessi. Nel frattempo, dopo esposti di altri detenuti, è stato aperto un fascicolo, per tortura. È a carico di ignoti ed è stata recentemente chiesta una proroga d’indagine. Modena. La verità sui nove morti del carcere arriverà dai filmati di Pierfrancesco Albanese L’Espresso, 17 ottobre 2021 La procura riapre il caso sulle violenze dopo la tragica rivolta del marzo 2020 al Sant’Anna. L’Espresso è in grado di confermare l’esistenza di documenti che fanno riferimento alle immagini del circuito interno. La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate. È lo scossone che riapre il caso del Sant’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti. Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto. Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato “come un animale”. “Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora”. Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. “Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”. Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani “rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita”. A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura. “È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda”, commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta. L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno”. A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti”. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi. Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazi, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta. Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che “lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”. Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere. Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti. Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura. Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman. Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. “Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti”. Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. L’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte. Alle richieste di aiuto lanciate dal cellante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde “lasciatelo morire”. E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. “A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato”. Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. “A Modena”, scrive, “molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle”. Ad Ascoli, invece, “la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva”. Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso. Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto. “Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane”. Fisciano (Sa). I volontari della Solidarietà in prima linea per il reinserimento dei detenuti zerottonove.it, 17 ottobre 2021 Concluso, con un grande successo, il progetto dal titolo “Orientamento e Inserimento lavorativo”, che ha visto impegnati gli operatori dell’Associazione di volontariato “La Solidarietà” di Fisciano. Il progetto, al quale hanno partecipato i volontari de La Solidarietà, è promosso dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, rappresentate dal Consiglio Regionale della Campania nella persona del responsabile di settore, Samuele Ciambriello. Il progetto, che ha visto impegnati gli operatori dell’Associazione di volontariato “La Solidarietà” di Fisciano è stato realizzato presso gli istituti circondariali di S. Angelo dei Lombardi e dell’ICATT di Eboli, dove alcune figure professionali del sodalizio con sede a Lancusi di Fisciano, hanno svolto attività di orientamento per l’inserimento lavorativo dei detenuti, e in un’ottica integrata gli operatori impiegati nelle attività hanno lavorato di concerto con le aree educative e le Direzioni degli istituiti al fine di raggiungere obiettivi comuni di inserimento lavorativo dei detenuti. Le attività realizzate si sono suddivise in: colloqui con i detenuti per la rilevazione delle problematiche di carattere sociale; consegna degli atti relativi alle problematiche rilevate presso la struttura di supporto al Garante. Per lo svolgimento di tali attività sono richieste: quattro figure professionali esperte nel campo lavorativo e nel completamento delle relative pratiche per dieci visite complessive per gli istituti carcerari considerati e un incontro settimanale presso l’ufficio del Garante. “La disponibilità offerta da persone qualificate appartenenti alla nostra Associazione - dichiara il Presidente del sodalizio, Sessa, - evidenzia il carattere solidale della stessa, i cui volontari, oltre a prestare attività di emergenza sanitaria sui propri territori di competenza, offrono anche servizi di carattere sociale mediante la professionalità messa in campo da apposite figure che hanno le competenze specifiche nei settori in cui sono chiamate ad operare. Il lavoro da loro posto in essere nella fattispecie progettuale dell’orientamento al lavoro, ha comportato grande responsabilità nei confronti di persone, alle quali si intende offrire una opportunità di riscatto sociale”. Nell’ambito dello svolgimento delle attività progettuali appena conclusesi, La Solidarietà ha garantito la disponibilità di un numero di volontari sufficiente all’adempimento di tutti i compiti previsti, assicurando la loro specifica competenza e preparazione per gli interventi cui sono destinati al fine di raggiungere lo scopo prefissato. Chieti. “L’essenza del carcere”: mostra fotografica e incontro pubblico chietitoday.it, 17 ottobre 2021 “Voci di dentro” presenta “L’essenza del carcere”, incontro pubblico e mostra fotografica in collaborazione con la Camera Penale di Pisa. L’appuntamento è sabato 23 ottobre, alle ore 17, al centro di produzione culturale Tricalle Sistema Cultura (ex Tempietto del Tricalle) a Chieti. “Il carcere è purtroppo un tabù - osservano gli organizzatori - e finisce alla ribalta solo in occasione di episodi drammatici e negativi, come pestaggi, suicidi o rivolte. Ma parlare del carcere è necessario. È necessario inquadrare natura e problemi nella giusta prospettiva, andando all’essenza vera del carcere. Qual è questa essenza? Quella di un’esperienza di sofferenza, un luogo e un percorso esistenziale meramente afflittivo della pena, nel senso morale, fisico e psichico della persona, e che purtroppo non riesce ad essere altro, annullando anche ogni finalità di sicurezza sociale della reclusione, dato l’alto tasso di recidiva di chi esce”. Sabato saranno esposte le foto del progetto della Camera penale di Pisa, pubblicate anche negli ultimi due numeri della rivista Voci di dentro nelle quali il carcere viene presentato come “un contenitore avvilente per un’umanità che sembra fatta di dannati, di scarti sociali”. Storie, immagini, analisi per guardare dentro il carcere con un parterre di relatori esperti: - Sandro Bonvissuto, scrittore, autore di Dentro - Mauro Armuzzi, scrittore e artista musicale, autore del libro Santa Suerte Una storia underground, - Serena Caputo, avvocato, Vicepresidente della Camera Penale di Pisa, coautrice del Progetto fotografico Come polvere sotto il tappeto, foto esposte in mostra - Dario Esposito, agente di polizia penitenziaria, scrittore, autore di Oltre le sbarre - Francesco Lo Piccolo, giornalista, Voci di dentro - Giuseppe Mosconi, Professore ordinario di Sociologia del diritto, Università di Padova - Elisa Mauri, psicologa clinica, psicoterapeuta, autrice di Perché il carcere? - Stefano Pallotta, Presidente dell’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo L’incontro sarà moderato da Claudio Tucci e Antonella La Morgia L’evento sarà trasmesso anche in diretta streaming sulla pagina Facebook di Voci di dentro onlus. “Ragazzi da paura”, il corto girato nel carcere minorile di Nisida di Walter Medolla Corriere della Sera, 17 ottobre 2021 L’associazione The CO2-crisis opportunity Onlus ha realizzato la sceneggiatura di un cortometraggio con un gruppo di giovani detenuti del carcere minorile di Airola (Bn). Mettere attorno a un tavolo giovani detenuti di un carcere minorile a riflettere su un modello maschile alternativo a quello machista e patriarcale, non deve essere stato facile. Almeno all’inizio. Eppure quelli dell’associazione The CO2-crisis opportunity Onlus, ci sono riusciti. Tanto che, poi, da questi momenti di confronto e di condivisione è uscita fuori la sceneggiatura di un cortometraggio sui temi che sono base delle degenerazioni violente e criminali. “Ragazzi da paura”, per la regia di Maurizio Braucci, è un cortometraggio, frutto di un laboratorio di sceneggiatura con un gruppo di giovani detenuti del carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento. Il laboratorio ha avuto lo scopo di sollecitare i suoi partecipanti a una riflessione critica sul modello maschile. In alternativa a tale modello, il laboratorio svolto ad Airola ha costruito una sceneggiatura collettiva che contempla la sensibilità e la fragilità dell’adolescenza maschile. Il corto, girato nel carcere minorile di Nisida a Napoli, e lì ambientato, racconta che durante una sera d’estate, viene improvvisamente a mancare la corrente. Due giovani detenuti che discutevano da cella a cella sul senso del carcere, rimasti al buio, avvistano uno fantasma. La reazione sembra non essere degna dei trascorsi da criminali che hanno condotto i ragazzi in prigione. Il lavoro vuole ricordare al pubblico che molti ragazzi definiti “giovani criminali” sono in realtà il frutto di un immaginario violento che nasconde profonde problematiche psicologiche e sociali, specie in realtà come quella campana dove la condizione giovanile è spesso disperata. Quello che Ilda non dice: reticenze e confidenze superflue di Francesco La Licata L’Espresso, 17 ottobre 2021 L’autobiografia di Boccassini parla troppo di Falcone e troppo poco di collusi e potenti. Il punto di vista di Ilda Boccassini, sia sui fatti pubblici che su quelli privati, non può essere né banale né trascurabile. Per questo la lettura della sua autobiografia richiede uno sforzo di concentrazione maggiore e un tempo di riflessione solitamente non concesso agli sforzi letterari che in stagioni come la presente ci vengono propinati. Abbiamo perciò letto con l’attenzione dovuta il lungo racconto del magistrato (ma forse Ilda preferirebbe magistrata) più “divisivo” della nostra recente storia giudiziaria e perciò politica. Una lettura per molti versi istruttiva: anche se non sempre fatti e retroscena narrati appaiono del tutto inediti, viene offerta quella angolazione particolare che li rende ancora appetibili. La storia di Ilda Boccassini è indissolubilmente legata al suo percorso professionale che, per sua stessa ammissione, l’ha portata ad essere avversata, quando non addirittura odiata, dall’intero mondo in cui è stata costretta a muoversi per via del proprio mestiere. Contestata persino per la sua “fisicità” (non le hanno perdonato neppure il rosso dei suoi capelli o i tailleur che indossava in udienza), considerata propedeutica all’aggressività che metteva nelle sue indagini e nella difesa della propria autonomia anche rispetto all’invasività dei poteri e della sua stessa corporazione. Avversione che assumeva evidenza plastica nelle “contromisure istituzionali” che tradivano la voglia di normalizzare un elemento destabilizzante del quieto vivere paludato della politica. Basti pensare a quando il ministro Claudio Scajola, con sospetta sollecitudine, le tolse la scorta. Tutto questo tragico “teatrino” è un racconto interessante e riavvolge il nastro di un film che non va dimenticato: la stagione dei grandi processi alla corruzione (Tangentopoli milanese), la ricerca spasmodica dei misteri legati allo stragismo mafioso, la battaglia con Berlusconi e col sottobosco economico e finanziario del capitalismo nordico. E poco importa che il filo della narrazione scorra sui binari di un eccessivo protagonismo della principale attrice. Un filo più di qualche volta incompleto quando non addirittura reticente. Oggi, per esempio, racconta della indebita intromissione dell’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, in favore del Silvio Berlusconi indagato. Confessione tardiva che sarebbe stata più appropriata nel momento in cui il fatto avveniva. Evasiva la vicenda della sua uscita di scena dalle indagini sulla strage di Capaci nel momento in cui maturava il depistaggio affidato al falso pentito Scarantino, che a Ilda non piaceva. Boccassini andò via lasciando due relazioni negative sul pentito che, però, rimasero saldamente nelle mani di chi non aveva interesse a denunciare quel depistaggio. Ed è reticente, Ilda la Rossa quando non parla del suo rapporto privilegiato col compianto giornalista Beppe D’Avanzo di cui ricorda solo le “liti furiose”. Ma tradisce tutta la sua frustrazione nel momento in cui ammette di essere stata sottostimata dal potere: “Nessun parlamento ha mai chiesto una mia consulenza”. Eppure non è tutto ciò finora scritto che ha segnato la overdose di visibilità della “Stanza numero 30” di Ilda Boccassini, appena uscito e già su tutte le prime pagine. Il libro è famoso ormai esclusivamente per la “rivelazione” sull’”amore perduto” dell’autrice: Giovanni Falcone. È difficile pensare che la linea editoriale scelta non abbia preso in considerazione la certezza che l’interno racconto si sarebbe ridotto al solo “capitolo Falcone”, come dimostrano le recensioni di giornali e siti on line, per non parlare dei “tribunali social”. E allora viene da pensare: ma quanto sarebbe stato meglio tenersi dentro gelosamente il gran segreto? Ma evidentemente Ilda la Rossa, nella sua infinita ansia da ego, tra le mille puntualizzazioni e piccole vendette, aveva anche da precisare al mondo il privilegio, a suo dire, di una storia, una tenera storia d’amore con Falcone. Una esperienza che ancora la prende, tanto da farle scivolare la penna senza che nessun intervento di editing sia riuscito a frenarla. E allora si lascia andare a particolari anche imbarazzanti, persino dal punto di vista della scrittura. Difficilmente le potrà esser perdonata la descrizione di un momento d’intimità con Giovanni, nel mare dell’Addaura: “Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto”. Per non parlare del “lusso rilassante” della prima classe del Boeing che li portava in Argentina a chiedere l’estradizione di Tanino Fidanzati. Forse sarebbe stato meglio rivelare tutte le confidenze di lavoro che dice di aver ricevuto da Falcone e tenersi dentro tutto il resto. Falcone non amava raccontarsi nel pubblico, figurarsi nel privato. Sposò Francesca quasi in clandestinità e rimandava al mittente ogni tentativo di sapere di più della sua vita privata. E non soltanto per questioni di sicurezza. Resisteva alla tentazione delle dichiarazioni eclatanti, insomma non amava la pubblicità. Rimproverò a Borsellino il clamore provocato da una sua intervista in favore dell’amico Giovanni “bocciato” dal Csm per il ruolo di consigliere istruttore. E arrivò a firmare le conclusioni dell’inchiesta sui delitti politici, che non condivideva, solo per senso istituzionale e avversione ai gesti clamorosi “buoni solo per i giornali”. Ma non c’è più e non possiamo chiedergli cosa pensi del racconto privato di Ilda Boccassini. Ilda Boccassini, La stanza numero 30 (Feltrinelli, pp. 352, euro 19). Povertà per 6 milioni di famiglie. Minori, donne e precari a rischio di Paola D’Amico Corriere della Sera, 17 ottobre 2021 Nell’anno della pandemia la rete Caritas ha supportato 1,9 milioni di persone. La povertà intacca la classe media a rischio di sovraindebitamento e usura. Sei milioni di famiglie nel tunnel della povertà. Cresce il numero dei nuovi poveri, chi già lo era si cronicizza. La pandemia è uno tsunami che colpisce le fasce già fragili della popolazione, acuendo vulnerabilità e divari preesistenti. A pagare un prezzo altissimo sono i giovani e minori, le persone di cittadinanza straniera, i lavoratori con posizioni precarie e meno protette dal sistema di ammortizzatori sociali, infine le donne. Il Rapporto Caritas-Migrantes 2021 su povertà e esclusione sociale. “Oltre l’Ostacolo”, nella Giornata di lotta alla povertà scatta una dolorosa istantanea del nostro tempo. Nel 2020 solo la rete Caritas in Italia ha supportato 1,9 milioni di persone: una media di 286 individui per ciascuno dei 6.780 servizi promossi o gestiti dallo stesso circuito delle Caritas diocesane e parrocchiali (al cui interno operano oltre 93mila volontari). Il rapporto si articola in sei sezioni, racconta storie raccolte sul campo, analizza le aree depresse del Paese, ipotizza gli scenari post-pandemia e le nuove risposte per il contrasto alla povertà. Nella terza sezione mette anche l’accento anche sul fenomeno dell’indebitamento e dell’usura che è in grande evoluzione. Lo shock della pandemia ha fatto lievitare fino a sei milioni il numero delle famiglie in situazione di sofferenza: da quelle pressate da uno stato di insolvenza finanziaria o creditizia a quelle via via più esposte allo sfruttamento e all’usura che per le mafie è un vero e proprio “eldorado”. Secondo le stime definitive rilasciate dall’Istat risultano in povertà assoluta oltre due milioni di famiglie (pari a un’incidenza del 7,7%), per un totale di 5,6 milioni di poveri assoluti (l’incidenza tra gli individui si attesta al 9,4%). In termini assoluti sono dunque oltre un milione di poveri assoluti in più rispetto al pre-pandemia. E purtroppo si rafforza lo svantaggio di minori e giovani under 34: si contano infatti 1 milione 337mila minori che non hanno l’indispensabile per condurre una vita quotidiana dignitosa. La loro incidenza varia dal 9,5% del Centro al 14,5% del Mezzogiorno (nel Nord si attesta al 14,4%). Tra i minori sono soprattutto ragazzi e adolescenti a sperimentare le maggiori criticità, in particolare le fasce 7-13 anni e 14-17 anni. La povertà minorile non può lasciare indifferenti, costituisce infatti la forma più iniqua di disuguaglianza. Povertà assoluta, sottolinea il rapporto, vuol dire “miseria”, sofferenza fisica e psicologica per mancanza di un “paniere” di beni e servizi fondamentali per la vita Nel 2008 riguardava 4 famiglie su 100; nel 2020 ha investito 7,7 famiglie su 100. Le condizioni precarie vanno di pari passo con il livello di istruzione. Oltre la metà delle persone che hanno chiesto aiuto al circuito Caritas (il 57,1%) ha al massimo la licenza di scuola media inferiore, percentuale che tra gli italiani sale al 65,3% e che nel Mezzogiorno arriva addirittura al 77,6%. Siamo di fronte a situazioni in cui appare evidente una forte vulnerabilità culturale e sociale, che impedisce sul nascere la possibilità di fare il salto necessario per superare l’ostacolo. Il 64,9% degli assistiti dichiara di avere figli (percentuale che in valore assoluto corrisponde a oltre 91 mila persone); tra loro quasi un terzo vive con figli minori (pari a 29.903 persone). Il dato non è affatto irrisorio se si immagina che dietro quei numeri si contano altrettante, o forse più, storie di povertà minorile che ci sollecitano e allarmano. Rispetto alle condizioni abitative, oltre il sessanta per cento delle persone incontrate (63%) vive in abitazioni in affitto, da privato (47,9%) o da ente pubblico (15,1%). Lo rileva il Rapporto Caritas 2021 reso noto oggi. Seguono le persone con casa di proprietà, comprese le situazioni di nuda proprietà (10,5%), i casi di chi è ospitato temporaneamente o stabilmente da amici (7,4%), di chi dichiara di essere privo di un’abitazione (5,8%) o ospitato in centri di accoglienza (2,7%). Percentuali queste ultime che si legano chiaramente alla condizione degli “homeless”, i cui numeri anche per il 2020 risultano tutt’altro che trascurabili. Le persone senza dimora incontrate dalle Caritas sono state 22.527 (pari al 16,3% del totale), per lo più di genere maschile (69,4%), stranieri (64,3%), celibi (42,4%), con un’età media di 44 anni e soprattutto nelle strutture del Nord. Prima dell’impatto della crisi finanziaria del 2008, le ricerche svolte con regolarità dalla Consulta Nazionale Antiusura documentavano una significativa contrazione dell’area del prestito a usura, del denaro offerto e ricevuto a tassi d’interesse e a condizioni illegali. L’Italia, si legge nel rapporto, aveva impiegato almeno quindici anni, a partire dalla traumatica crisi scoppiata nell’estate del 1992, a raggiungere questo risultato e si stava avviando a un nuovo equilibrio: con la ripresa dell’economia e grazie agli strumenti introdotti con la legge 108 del 1996 si stavano alimentando delle speranze fondate. Ora, “l’accelerazione dell’impoverimento anche della classe media apre scenari inquietanti”. La pandemia ha aggravato una situazione già esasperata dall’enorme disparità tra ricchi e poveri. In tutte le regioni italiane, non solo in quelle del Sud Italia. Il reddito delle famiglie, analizzato nelle prime province dichiarate “zona rossa” secondo il report della Banca d’Italia (30 marzo 2021) si è ridotto rispetto al 2019 di oltre il 50 per cento per un nucleo familiare ogni 230. E l’area del sovraindebitamento riguardava già prima della pandemia almeno 2 milioni di famiglie. E anche le aste giudiziarie sono un altro campanello del disastro economico di molte famiglie. Quel milione di nuovi poveri creati dalla pandemia di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 17 ottobre 2021 Povertà è una parola che ripetiamo da molti anni. Senza mai poter dire che è consistentemente diminuita. Ce lo ha ricordato la Caritas ieri con il suo ventesimo Rapporto. Cerchiamo di capire che cosa sta succedendo sulla base dei dati statistici ufficiali. La crisi del 2008-2009 aveva portato con sè una caduta dell’occupazione, ma non un aumento immediato della povertà. Due ammortizzatori sociali avevano agito, la cassa integrazione che aveva tutelato i capifamiglia e le famiglie che avevano protetto i giovani, dando fondo ai risparmi e indebitandosi. Vi ricorderete che in quegli anni abbiamo raggiunto il minimo di propensione al risparmio. Purtroppo la crisi si è prolungata e molte famiglie non hanno retto. E così la povertà balza nel 2012, raddoppiando in media il suo livello e triplicando per minori e giovani fino a 34 anni. Nonostante l’uscita dalla recessione del nostro Paese nel 2014, la povertà non diminuisce. E dobbiamo aspettare fino al 2019 per incontrare la prima diminuzione significativa statisticamente della povertà assoluta in seguito all’introduzione del reddito di cittadinanza. La diminuzione è piccola, si passa dall’8,4% al 7,7% della popolazione, perché la misura era stata introdotta a metà anno con importi oggettivamente troppo bassi per garantire il superamento delle linee di povertà. Il che significa che la crescita che abbiamo conosciuto a partire dal 2014, oltre a essere stata debole, (non siamo mai tornati ai livelli del Pil precedenti il 2008-2009), non è stata inclusiva, non ha portato con sé la diminuzione della povertà assoluta. Arriva la pandemia e nonostante la cassa integrazione, il reddito di cittadinanza e gli ingenti trasferimenti monetari, disposti giustamente dal Governo, la povertà balza di un milione di unità. È particolarmente elevata per le famiglie di immigrati, per le famiglie operaie dove la perdita del lavoro femminile in presenza di figli può aver contribuito alla caduta in povertà. Il Sud continua ad avere i livelli più alti di povertà, ma si riduce la forbice tra il Nord e il Mezzogiorno. E ancora una volta peggiorano i minori e i giovani più degli altri. Ha ragione la Caritas a richiamare l’attenzione sui risultati dell’analisi delle 200 mila persone che si sono rivolte ai suoi centri di ascolto. Cresce in questo caso la quota di persone che da più di 5 anni si rivolge ai centri, ma cresce anche la parte di “nuove” persone, che per la prima volta hanno accesso ai servizi. Il che vuol dire che cresce la parte che cronicizza la sua situazione di bisogno e al tempo stesso si allarga la fascia del bisogno. Ebbene i dati complessivi sulla povertà assoluta dell’Istat devono metterci in guardia sulla situazione. Non possiamo più permetterci una crescita non inclusiva, come è stata quella tra il 2014 e il 2019. Dobbiamo dotarci di politiche adeguate. La questione della povertà non deve essere strumentalizzata dalla lotta politica e dagli interessi di parte di questo o quel partito. Si cambi ciò che non funziona del reddito di cittadinanza, ma non possiamo permetterci il lusso di ricominciare ogni volta da capo. Di fronte alla povertà ci vuole responsabilità. Perché è sulla povertà che si radica lo scontento, e soprattutto sul non vedere prospettive. Abituiamoci a ragionare non solo in base alla crescita del Pil. Se aumenta il Pil ma non diminuisce la povertà e ciò avviene per anni vuol dire che stiamo producendo povertà strutturale che sarà sempre più difficile sradicare. Soprattutto se riguarda bambini e giovani. Vuol dire che stiamo producendo sfiducia e non speranza, risentimento e non voglia di mettersi in gioco. Troppa povertà fa male alla democrazia. Combattere la povertà significa creare le condizioni per una democrazia viva e partecipata, in cui tutti siano in condizione di dare il loro prezioso contributo. *Direttora centrale Istat L’Italia è stanca dell’eterno ritorno di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 17 ottobre 2021 Non ributtiamo i ragazzi italiani nel calderone schifoso che ha segnato la mia gioventù. Molti di noi hanno conosciuto coetanei - neri, rossi - che hanno picchiato, ferito, sparato e ucciso. Basta così. Non succedeva spesso, ma succedeva. Giocavamo a calcio all’oratorio, tra due filari di enormi platani. Le porte erano segnate da maglioni per terra. Non c’erano pali e traverse, ma l’occhio era allenato, e un tiro all’incrocio dei pali veniva riconosciuto subito, all’unanimità e con entusiasmo. Cosa non facile, perché la traversa era calcolata sull’altezza del portiere: una spanna sopra il suo braccio alzato. Se il portiere era un piccoletto, solo tiri a mezza altezza. Ma quando in porta ci andava Franco, agile spilungone vermiforme, potevamo tirare dove volevamo. Tanto, parava quasi tutto. Ogni tanto, però, scattava il litigio. Il portiere prendeva gol su una deviazione e se la prendeva con la difesa; il difensore falciava l’attaccante e sosteneva di non averlo toccato: insomma, cose che accadono anche in serie A. In questo caso, avveniva una cosa curiosa: più ci sentivamo in colpa, più strillavamo. Era un modo per non affrontare la discussione, che ci avrebbe visto perdenti. Mi è tornato in mente l’oratorio di San Luigi, quando ho ascoltato Giorgia Meloni in Parlamento, mentre affrontava le discussioni sulle violenze squadriste di Roma, culminate all’assalto alla Cgil e a un Pronto soccorso. “Strategia della tensione!”. Ma quando mai. “Non conosco la matrice delle violenze”. Ah, no? Bastava guardarli e ascoltarli. È chiaro che la maggioranza dei “No Green Pass” in piazza non era violenta (solo illogica e confusa). Ma è chiaro che i neofascisti hanno approfittato dell’occasione per far casino (come i black bloc in altre occasioni, ricordate?). A Giorgia Meloni vorrei domandare una cosa. Anzi, chiedere un piacere. Non ributtiamo i ragazzi italiani nel calderone schifoso che ha segnato la mia gioventù. La leader di Fratelli d’Italia ha vent’anni di meno e non può ricordare: ma è stato brutto, e i personaggi che oggi rimettono fuori la testa - Roberto Fiore, Luigi Aronica detto “er Pantera” - hanno la mia età. Molti di noi hanno conosciuto coetanei - neri, rossi - che hanno picchiato, ferito, sparato e ucciso. Basta così. Di questo patetico, eterno ritorno siamo stanchi. Andiamo avanti. La privacy che il governo continua a toglierci ora che l’emergenza diminuisce di Vitalba Azzollini Il Domani, 17 ottobre 2021 Sin dall’inizio della pandemia alcuni hanno reputato che la privacy fosse un inutile intralcio nel contrasto al virus, e che servisse superarla, contenendo altresì i poteri del Garante. Il decreto Capienze interviene in questo senso. Non serve più una legge o un regolamento per autorizzare un trattamento di dati personali da parte di un’amministrazione, la comunicazione di tali dati da un’amministrazione all’altra o anche a soggetti diversi: è sufficiente una decisione discrezionale di chi esercita compiti di interesse pubblico o pubblici poteri. Il decreto Capienze, inoltre, elimina il potere del Garante Privacy di prescrivere misure vincolanti in caso di trattamenti con rischi elevati per i diritti e le libertà, nonché di stabilire i requisiti minimi di sicurezza e protezione dei dati di traffico telefonico trattati per fini di accertamento e repressione dei reati. Sin dall’inizio della pandemia, la privacy è stata talora reputata un ostacolo nell’azione di contrasto al virus. Si rammentano, ad esempio, le richieste di soluzioni di tracciamento poco rispettose di principi normativi, indicati come un inutile intralcio nel contenimento dei contagi. Il Garante della privacy, intervenuto più volte per ribadire i paletti in materia di trattamento dei dati personali, ha costituito un presidio al loro superamento. Si possono ancora ricordare i pareri dell’Autorità circa il rispetto della riservatezza relativamente allo stato vaccinale del lavoratore ovvero riguardo all’utilizzo della app IO per il “green pass”. Tali interventi del Garante sono stati vissuti con una sorta di fastidio da parte di chi ha reputato che la privacy fosse una “fisima” e si dovesse, quindi, badare solo ai fini perseguiti, potendosi considerare giustificato qualunque mezzo, data la pandemia. Questo è il terreno su cui è maturata la scelta del governo di modificare la normativa in tema di trattamento dei dati personali, riducendo le tutele previste dalla legge e limitando i poteri del Garante stesso, con il cosiddetto decreto Capienze. Meno privacy per tutti - Prima di esporre le novità del nuovo decreto è necessario richiamare alcuni elementi della normativa in materia di privacy. Il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr) stabilisce che ogni trattamento di tali dati deve trovare fondamento in una base giuridica, che autorizza legalmente il trattamento stesso. Il Gdpr indica sei possibili basi: una di queste è l’interesse pubblico o l’esercizio di pubblici poteri, e ricorre in particolare per il trattamento di dati da parte delle autorità pubbliche nello svolgimento dei propri compiti. La norma del Gdpr dà la facoltà ai legislatori nazionali di determinare “con maggiore precisione requisiti specifici per il trattamento e altre misure atte a garantire un trattamento lecito e corretto”. Questa facoltà era stata esercitata dal legislatore italiano, il quale aveva disposto che il trattamento di dati per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri fosse lecito ove previsto “esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”. Il decreto Capienze interviene proprio su tale norma, abrogandola. Di conseguenza, ora non serve più una legge o un regolamento che autorizzi un trattamento di dati personali: è sufficiente la decisione discrezionale di una pubblica amministrazione. Infatti, qualunque trattamento ormai “è sempre consentito se necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri”. In altre parole, ogni ente può decidere autonomamente quale uso fare dei dati dei cittadini, se reputa che tale uso sia necessario per i compiti istituzionalmente svolti e, quindi, per gli interessi pubblici perseguiti. La norma dell’ultimo decreto-legge precisa che va assicurata “adeguata pubblicità all’identità del titolare del trattamento, alle finalità del trattamento e fornendo ogni altra informazione necessaria ad assicurare un trattamento corretto e trasparente con riguardo ai soggetti interessati e ai loro diritti di ottenere conferma e comunicazione di un trattamento di dati personali che li riguardano”. Ma tali precisazioni non attenuano la gravità dell’abrogazione della norma, e peraltro rappresentano la mera ripetizione di quanto già previsto dal Gdpr. Ai sensi del nuovo decreto, inoltre, anche in mancanza di una legge o di un regolamento, è pure consentita la comunicazione di dati tra le amministrazioni, esclusi i dati particolari (“sensibili”) e giudiziari, se effettuata per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o connesso all’esercizio di pubblici poteri. E non basta. Anche la comunicazione e la diffusione di dati dei cittadini da parte delle amministrazioni verso altri soggetti non richiede più l’autorizzazione di una legge o di un regolamento oppure un’istanza al Garante: basta una decisione discrezionale delle amministrazioni stesse, e i dati possono essere diffusi. Insomma, il decreto Capienze introduce una sorta di “liberi tutti” nella trasmissione e nella conseguente conoscenza dei dati delle persone, e ciò si risolve in una pervasività sproporzionata nella sfera individuale. Ma la proporzionalità è uno dei principi cardine della normativa privacy, così come dell’ordinamento in generale per qualunque misura limitativa di libertà e diritti. Se si fosse voluto rendere più fluida la trasmissione di dati fra soggetti pubblici, e in taluni casi anche verso altri soggetti, la legge avrebbe potuto delegare a fonti di rango inferiore - più flessibili - la previsione di fini, limiti e modalità. Limiti ai poteri del Garante - Il decreto Capienze abroga la norma ai sensi della quale l’Autorità garante aveva il potere di prescrivere misure e accorgimenti vincolanti a garanzia dei dati personali in caso di trattamenti con rischi elevati per i diritti e le libertà (com’è stato, ad esempio per la fatturazione elettronica). Viene anche meno il potere del Garante di stabilire i requisiti minimi di sicurezza e protezione dei dati di traffico telefonico trattati per finalità di accertamento e repressione dei reati, nonché di indicare le modalità tecniche per la distruzione di tali dati, una volta decorso il tempo previsto. Insomma, vengono cancellate importanti garanzie a tutela della libertà. Infine, si limita a 30 giorni il termine entro cui il Garante dovrà esprimere i propri pareri riguardo al Piano nazionale di ripresa e resilienza, al Piano nazionale per gli investimenti complementari e al Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030, decorso il quale si maturerà un silenzio-assenso e l’amministrazione potrà procedere. L’unica nota positiva del decreto è l’inserimento di una norma in tema di revenge porn nel Codice della protezione dei dati personali, permettendo ai minori ultraquattordicenni di rivolgersi direttamente al Garante nel caso siano vittime di tali illeciti. Nel marzo 2020, l’allora Garante, Antonello Soro, disse che non era “momento di improvvisazioni né di espressioni infelici come chi dice “io della privacy me ne frego”. La privacy è diritto alla libertà”. Se non era momento allora, a maggior ragione non lo è oggi. Eppure oggi i cittadini hanno un po’ di privacy in meno, tra maggiore discrezionalità delle amministrazioni e minori poteri del Garante. Droghe. Una legge sul “fumo” molto fumosa di Michele Serra La Repubblica, 17 ottobre 2021 Detenzione e spaccio di stupefacenti: per questi reati verrà processato a Parma il pioniere della cannabis light in Italia, quella con principio attivo inferiore allo 0,2 per cento. Degli effetti dei cannabinoidi sulla salute si discute da ben prima che la marijuana entrasse tra i consumi quotidiani (la farmacopea ne fa uso dalla metà dell’Ottocento). Ma sarebbe più urgente discutere, qui e ora, degli effetti devastanti di una legislazione fumosa, così fumosa che in alcune zone d’Italia è reato ciò che in altre è legale, a seconda di come uomini di legge leggono e interpretano le stesse carte. Questo significa che migliaia di contadini hanno coltivato, e centinaia di distributori e negozianti hanno messo in commercio, un prodotto che ritenevano legale; scoprendo solo dopo il raccolto che non lo era; oppure forse sì e forse no. Significa preparare il terreno e seminare una buona pianta, vederla crescere contando su un bel raccolto, e dopo il taglio vederselo sequestrare perché il seme legale è diventato fiore illegale. Niente fa più rabbia di un raccolto che va a male, e non per la trascuratezza di chi lo ha lavorato, o per un rovescio del clima, o per un parassita. Ma perché l’interpretazione di una legge oscilla, come un vento illeggibile, sopra il campo. La canapa è anche una questione contadina, è una fatica ripagata oppure cancellata da un avviso di garanzia. Di fronte a questa assurda altalena bisogna che il processo di Parma serva a fare chiarezza. Sarebbe, tra l’altro, quasi la chiusura di un cerchio: l’Emilia ebbe una fiorente tradizione nella coltivazione della canapa “comune”, la sativa, cugina della indica, oggi pregiudicata, domani chissà. Unione Europea. Quanto pesa la sentenza polacca sul diritto comune di Bernard Guetta* La Repubblica, 17 ottobre 2021 Grave, vergognoso, molto preoccupante, qualcosa su cui non si deve sorvolare. Quando fanno emettere da un Tribunale costituzionale ai loro ordini una sentenza secondo cui il diritto nazionale godrà di supremazia su quello europeo, i dirigenti polacchi violano trattati firmati dal loro Paese di sua volontà e, così facendo, turbano le istituzioni comuni ai 27 Stati dell’Unione. Poiché si tratta di qualcosa di inaccettabile, la Commissione deve varare sanzioni finanziarie, strumenti di cui dispone, per rammentare così che l’Unione non è un bancone dal quale servirsi a piacimento, prendendo ciò che più aggrada (le sovvenzioni) e lasciandovi ciò che non si desidera più (il rispetto dello Stato di diritto). La Commissione godrà del pieno appoggio del Parlamento, ma la sentenza polacca non annuncia forse una Polexit, che a sua volta lascerebbe prefigurare altri distacchi ancora dall’Unione? La risposta è no, un no categorico, perché l’80 per cento dei polacchi ha a cuore l’Unione europea e non intende rinunciarvi. La situazione in Polonia è assai diversa rispetto a quella della Gran Bretagna, dove la questione europea aveva spaccato a metà un regno disunito. Non soltanto a Varsavia non accadrà nulla del genere, ma nessun altro stato membro dell’Ue proverà la tentazione di imboccare la strada britannica le cui attrattive, peraltro, non smettono di diminuire. La disintegrazione dell’Unione non è all’ordine del giorno. Anzi: associandosi alle idee di Difesa comune e autonomia strategica, l’Unione europea al contrario sta entrando nella terza fase della sua Storia, il tentativo di dar vita a un’unione politica. E allora, di che si tratta? Cosa significa la sentenza polacca? Questo irrigidimento illustra prima di tutto l’inquietudine dei conservatori reazionari usciti dal XIX secolo e oggi completamente sorpassati da un Paese estremamente giovane in fase di rottura con un episcopato preconciliare, gira le spalle alle convenienze di ieri a beneficio del femminismo e della rivoluzione dei costumi e vive come a Parigi, Berlino o Amsterdam, in bicicletta, promuovendo l’ecologia e respingendo le corruzioni della Chiesa. Preso ai fianchi tra una gioventù profondamente europea e la condanna da parte dell’Unione dell’asservimento della magistratura al potere politico, il Partito Diritto e Giustizia e il suo sommo sacerdote Jaroslaw Kaczynski non sanno più dove sbattere la testa. Non senza motivo, temono di perdere le elezioni fissate per il 2023 e tentano quindi di mobilitare di nuovo l’elettorato mostrando i muscoli, ma senza spingersi fino a una rottura netta. Neanche la Commissione vorrà arrivare all’irreparabile. Come le forti collere che provoca e le sanzioni alle quali condurrà, la sentenza polacca rientra in un gioco di ruolo al quale i due partiti dovevano prestarsi ma, oltre a ciò, restano in sospeso due questioni. La prima è sapere se le opposizioni che in Europa centrale si affermano contro i poteri autoritari o addirittura dispotici sapranno proporre un programma economico e sociale che garantisca loro la vittoria. Come Viktor Orbán in Ungheria, Jaroslaw Kaczynski in effetti era riuscito a cavalcare il malcontento provocato dalla transizione verso l’economia di mercato e a distribuire serenamente le eccedenze di budget accumulate dai loro predecessori liberali. Molto più del loro conservatorismo, è questo ad aver garantito la loro vittoria e i loro avversari - in ogni caso in netta avanzata - resteranno deboli fino a quando non riusciranno a proporre un nuovo contratto sociale. L’abbiamo appena constatato nella Repubblica Ceca, dove sabato scorso centrodestra e centrosinistra hanno avuto la meglio su Andrej Babis, ma di così stretta misura da non aver ancora messo fine alla sua carriera politica. La seconda questione sollevata dalla sentenza polacca in altre parole è capire per quanto tempo ancora i nazional-conservatori - sconfitti o meno - conteranno qualcosa nell’Unione. Ma, per quanto riguarda questo, non c’è ancora nessuna risposta. *Traduzione di Anna Bissanti Una giustizia per Regeni. Draghi e la partita diplomatica con l’Egitto di Gianluca Di Feo La Repubblica, 17 ottobre 2021 Ci vorrà almeno un anno prima che un giudice torni a pronunciarsi sulla possibilità di celebrare il dibattimento per l’uccisione di Giulio Regeni. Eppure nessun esponente di governo o leader di partito ha sentito l’esigenza di prendere posizione sull’azzeramento del processo: un silenzio difficile da comprendere, che costituisce un segnale preoccupante. Il rispetto del diritto è la forza di una democrazia, ma diventa spesso un limite quando una democrazia si trova a confrontarsi con un regime che non riconosce gli stessi principi. In questi casi, le democrazie possono trasformare i loro valori in forza solo attraverso una linea politica coerente e incisiva, senza ambiguità. Quello che in questi sei anni si è visto raramente, ma che ora diventa indispensabile per raggiungere verità e giustizia sulla morte del giovane ricercatore italiano. L’ordinanza della Terza Corte d’Assise di Roma rischia di vanificare i risultati delle indagini che hanno portato a identificare i funzionari dell’intelligence egiziana accusati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni. L’effetto delle valutazioni giuridiche mortifica non solo il dolore della famiglia ma anche la mobilitazione di tutti gli italiani che si sono schierati al suo fianco. Per impedire che questa decisione sia l’inizio di una lenta agonia processuale adesso è necessario affrontare una partita diplomatica e giudiziaria molto complessa. Finora infatti le autorità egiziane hanno fatto muro contro le rogatorie italiane. E dopo l’ennesimo tentativo di chiedere la loro collaborazione per notificare formalmente le contestazioni agli imputati, tutti membri degli apparati di sicurezza che sono i pilastri del potere di Al Sisi, il magistrato si ritroverà al punto di partenza. Se anche riuscisse a formulare in modo più convincente e robusto gli elementi sulla consapevolezza delle accuse, dopo l’ordinanza della Corte d’Assise l’assenza di una notifica formale continuerà a essere una mina sotto le fondamenta del processo, pronta a venire innescata in tutti e tre i gradi previsti dal nostro ordinamento, senza escludere un quarto ricorso davanti alle corti europee che già in passato si sono pronunciate con chiarezza in merito. Lo scenario quindi si presenta come incerto, tale da rendere precario il percorso verso una sentenza definitiva per gli aguzzini di Giulio. L’unico modo per dare una speranza di giustizia alla famiglia, di rispondere a quella domanda di verità che continua a essere ribadita dai poster gialli che da sei anni presidiano le piazze d’Italia, passa dall’azione del governo. Con la scelta di costituirsi parte civile contro i presunti assassini, Palazzo Chigi ha dimostrato di volere farsene carico. Nelle motivazioni di questa iniziativa infatti c’è scritto: “Le violenze e la commissione dell’omicidio per motivi del tutto ingiustificati dimostrano la messa in atto di condotte dirette ad annientare la dignità dell’uomo e quindi della collettività che la presidenza del Consiglio, quale organo di sintesi politica dello Stato-comunità, ha il compito di tutelare, promuovere e rafforzare”. Ora si tratta di tradurre l’impegno del governo sul fronte diplomatico, spingendo il Cairo ad accettare il processo. Negli ultimi sei anni la realpolitik dei nostri premier e ministri è stata percepita dall’Egitto come un segnale di debolezza: la disponibilità a fare passare in secondo piano la morte di Giulio Regeni rispetto ai contratti commerciali e agli interessi del momento, a partire dalla richiesta di sostegno italiano nel controllo dell’immigrazione clandestina e nelle vicende libiche. Questa linea però ha portato risultati minimi su tutti i fronti. Nel frattempo la presidenza Al Sisi ha spinto il suo Paese a sentirsi una vera potenza mediterranea: è uscito dall’isolamento in cui l’amministrazione Obama e i contrasti con i sauditi lo avevano relegato. E, grazie al contributo dell’Eni nello sfruttamento dei giacimenti di gas, ha risolto molti dei problemi economici varando programmi di investimento colossali: sta persino inaugurando una città appena costruita nel deserto, destinata a diventare la nuova capitale. Nei giorni dell’omicidio Regeni l’Egitto era nell’angolo e il presidente era circondato dai complotti interni, condotti dagli apparati che hanno ordinato l’uccisione del ragazzo italiano. Oggi Al Sisi si mostra come un grande leader regionale, sostenuto dai Paesi arabi più ricchi, appoggiato dagli Usa e alleato con la Francia di Macron. Convincerlo a collaborare sarà un’impresa dura. Mario Draghi però è uno statista all’altezza della sfida, con una credibilità internazionale riconosciuta. Che può far pesare nelle trattative dirette con il Cairo e nel costruire un consenso europeo intorno a questa istanza che incarna i valori dell’Unione: l’unica strada in grado di infrangere l’ostruzionismo egiziano. Regeni, processo farsa: la resa dei conti fra Stati finita in mano ai pm di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 ottobre 2021 Processo Regeni, giuristi e magistrati d’accordo: non poteva che andare così. Spangher: “Vicini alla famiglia, ma la giustizia ha le sue regole”. La battuta d’arresto, subito dopo l’avvio del processo a carico dei quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani accusati della morte di Giulio Regeni, fa clamore se il provvedimento della Corte d’Assise di Roma viene letto con superficialità e sull’onda emotiva. Ma nella sostanza tutela tanto l’interesse dello Stato quanto quello dei familiari del ricercatore universitario ucciso in Egitto. L’ordinanza della Corte d’Assise ha annullato il rinvio a giudizio disposto dal Gup nello scorso mese di maggio e rinviato gli atti con l’intento di rendere effettiva la conoscenza del processo agli imputati (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) e far reggere da subito il processo su solide basi. Tutto, dunque, dovrà ripartire dall’udienza preliminare. I giudici hanno rilevato che “il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati, comunque non presenti all’udienza preliminare, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento”. Di qui l’annullamento del rinvio a giudizio disposto dal Gup cinque mesi fa. La Corte d’Assise ha affermato che le attività svolte (invito a fornire indicazioni sulle compiute generalità anagrafiche e conoscenza della attuale residenza o domicilio), mediante rogatoria all’autorità giudiziaria egiziana per acquisire la formale elezione di domicilio dei quattro imputati, non hanno sortito alcun effetto. In mancanza di indirizzo determinato non è stato possibile notificare alcun atto ufficiale del procedimento agli agenti dei servizi segreti, a partire dall’avviso di conclusione delle indagini. Processo Regeni, parla il professor Spangher - In tutto questo ha giocato un ruolo l’inerzia, voluta, dell’Egitto, che ha sempre ignorato le richieste italiane fatte tramite il ministero della Giustizia e i canali diplomatici. Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale dell’Università di Roma “La Sapienza” ritiene che la Corte d’Assise ha seguito la logica della costruzione di un processo solido, che potrà arrivare fino in fondo e garantire i diritti di tutte le parti. “Comprendo molto bene - dice il professor Spangher -, da friulano e giuliano, il dolore della famiglia Regeni e sono loro vicino. Il processo nei confronti degli assassini di Giulio Regeni deve però essere regolare. I giudici si sono mossi correttamente. Hanno fatto bene a prendere quella decisione, perché è inutile costruire un processo sulla sabbia. L’eccezione che loro hanno verosimilmente recepito e trasferito nella loro decisione fa sì che il processo regredisca. Ma nel momento in cui regredirà incomincerà a fare le cose giuste. Se invece questo processo fosse andato avanti, ci saremmo potuti trovare con delle sorprese. Se c’è una invalidità processuale è meglio accertarla subito, restituire gli atti dove si è verificata, sanarla e andare avanti, piuttosto che trascinare inutilmente un processo che rischia di avere dentro il tarlo dell’invalidità”. Il ruolo della Corte d’Assise di Roma - Quanto deciso dalla Corte d’Assise di Roma non deve far perdere la speranza ai genitori e alla sorella di Regeni. “Ragioniamo - aggiunge Spangher - con una logica di tipo diverso. È meglio costruire subito un processo solido piuttosto che dire “siamo andati avanti e ottenuto delle condanne” e poi fare i conti con un annullamento. La Corte d’Assise si è messa una mano sulla coscienza. Non è che abbia chiuso il processo. Ha restituito gli atti ad un altro giudice. Il problema potrebbe essere un altro. Come mai non sono stati fatti degli accertamenti? Come mai non sono state fatte delle verifiche in un determinato momento? Non basta la nomina di un difensore. Bisogna che per l’imputato ci sia stata la certezza della conoscenza del processo. E quando non c’è che ci sia la conseguenza che non vuole andare a processo. Il tema della partecipazione all’esercizio del diritto di difesa degli imputati è molto delicato. Le nullità dell’udienza preliminare sono nullità assolute. Mi viene in mente, anche se per una vicenda completamente diversa, quanto accaduto al giornalista Giuliano Ferrara in materia di irregolare convocazione per l’udienza preliminare. Tale problema si trascinò addirittura fino in Cassazione. Si devono quindi evitare irregolarità tali da portare a conseguenze imprevedibili nel processo. Le situazioni di invalidità sono delle vere e proprie mine vaganti”. Il parere del giudice de Gioia - Anche il giudice del Tribunale di Roma, Valerio de Gioia, analizza in profondità quanto deciso in Corte d’Assise. Il magistrato sottolinea l’importanza di non far prevalere gli aspetti emotivi in una vicenda processuale che si conferma complessa. “Capisco - spiega al Dubbio - il disappunto di una parte della opinione pubblica in relazione al provvedimento adottato dalla Corte di Assise, che, nei fatti, ha comportato una regressione di un procedimento che, già estremamente complicato nella fase delle indagini, per via anche di una serie di depistaggi, stenta a partire. Tuttavia, in punto di diritto, si tratta di un provvedimento ineccepibile, considerato che si può procedere in assenza dell’imputato, istituto che, dal 2014, ha sostituito la contumacia, solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria”. “Ora si seguano altre strade, il silenzio dell’Europa su Regeni grida vendetta” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 17 ottobre 2021 A colloquio con Giovanni Guzzetta, professore di Diritto costituzionale a Tor Vergata. Giovanni Guzzetta, professore di Diritto costituzionale a Tor Vergata, spiega che “la terribile ed esecrabile violazione dei diritti umani consumata su Giulio Regeni si confronta con l’applicazione del principio di civiltà giuridica degli ordinamenti costituzionali secondo i quali qualsiasi imputato, perfino il più efferato, ha diritto di difendersi”. Ma aggiunge: “La vicenda dimostra che non è stato fatto abbastanza”. Professor Guzzetta, cosa rimane del processo, subito sospeso, sul caso Regeni? Mi lasci dire che sono veramente colpito dalla compostezza della famiglia Regeni di fronte a questa vicenda. In questa società di politica urlata chiunque avrebbe potuto lasciarsi andare a manifestazioni scomposte, accusando la Corte d’Assise di formalismo o di essersi attaccata a un cavillo. Viceversa la risposta della famiglia mi sembra che inquadri in modo quasi paradigmatico questa vicenda, fotografando la distanza tra civiltà giuridica e barbarie. Qual è il suo parere sulla decisione dei giudici? Una terribile ed esecrabile violazione dei diritti umani, quale è stata quella che ha portato alla morte di Regeni, paradossalmente si confronta con l’applicazione del principio garantista proprio degli ordinamenti costituzionali secondo il quale qualsiasi imputato, perfino il più efferato, ha diritto di difendersi. E di conseguenza quindi è necessario che si abbia la certezza processuale di essere a conoscenza di un procedimento nei propri confronti. Cosa emerge dalla vicenda, al di là della sospensione del processo? Mi sembra una rappresentazione drammaticamente simbolica della distanza tra un paese fondato sullo stato di diritto e un contesto di sistematica violazione dei diritti umani. Proprio questa decisione mette ancora più in luce come questa la distanza non sia solo giudiziaria, anzi forse è quella che meno dovrebbe interrogarci. Il punto vero è un altro. Quale? Quando la magistratura presenta decine di rogatorie internazionali, veicolate attraverso il governo nazionale, e non c’è mai risposta, questo è uno schiaffo nei confronti del governo italiano prima che nei confronti della magistratura. Così come quando il Parlamento europeo adotta più di una risoluzione per chiedere chiarezza e verità al governo egiziano sulla vicenda e nulla accade, anzi proprio sul tema dell’individuazione degli indirizzi degli imputati al fine di notificare loro l’esistenza di un processo e consentire loro di difendersi si assiste a un nulla di fatto, vuol dire che siamo ben oltre la vicenda giudiziaria. Pensa che l’Italia si sia ritrovata da sola? La domanda che dobbiamo porci è: dove è l’Europa? Perché questa è una vicenda che implica i rapporti tra gli Stati e la politica estera. Implica una scelta tra le ragioni di Stato e la tutela dei diritti umani. Con l’Egitto, che ha una collocazione geopolitica ben nota, sussistono rapporti economici che qualcuno definirebbe strategici. La questione è fino a che punto questi possono tollerare quanto sta accadendo. Questo è al contempo, per l’Europoa, un segno della sua enorme debolezza e un banco di prova. Quali altre strade si possono percorrere? Non conosco i dettagli processuali ma mi sembra che nel momento in cui non si riesce a dare prova della conoscenza del processo agli imputati non ci siano molte strade. Viceversa penso ci siano molte strade diplomatiche per rendere ancora più costosa al governo egiziano questa posizione di radicale ostruzionismo. Per adottarle è necessario avere una forte determinazione e autorevolezza che viene anche dall’appartenenza all’Unione europea, un attore importante dell’equilibrio geopolitico mondiale. Dalla quale però non arriva la necessaria solidarietà. Pensa che sia il premier Draghi, a dover sfruttare di più la sua autorevolezza in campo internazionale? Sono certo che lo stia già facendo. Il problema è che l’Italia è collocata all’interno di alleanze politiche e strategiche che giustificherebbero una forte azione comune. Purtroppo riscontriamo ancora una debolezza strutturale della politica estera e della diplomazia europea. Quando le strategie nazionali dei vari paesi europei e delle grandi potenze alleate non convergono sufficientemente a sostegno di un partner come l’Italia, non è solo l’Italia a doversene dolere. Sono gli interessi comuni a venir trascurati. La vicenda di oggi dimostra che non è stato fatto abbastanza. Non spetta a me dire cos’altro si può fare ma l’insufficienza delle misure adottate finora pare evidente. È necessario trovare altre strade. De Gioia richiama una importante sentenza della Corte di Cassazione. “In questo caso - evidenzia - da quello che ho letto, non è stata ritenuta sufficiente la notifica eseguita ai difensori di ufficio degli imputati e in ciò in ossequio alle più recenti indicazioni giurisprudenziali, nazionali e sovranazionali. Come peraltro chiarito dalle stesse Sezioni Unite, con la sentenza numero 23948/ 2019, neanche l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio è sufficiente per la dichiarazione della assenza, dovendo il giudice verificare che vi sia stata una effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato. Che la tematica del processo in absentia sia delicata è confermato anche dall’attenzione della legge delega di riforma del processo penale cosiddetta Cartabia, che, facendo tesoro delle indicazioni della Commissione Lattanzi, ha delegato il Governo ad intervenire per uniformarla al diritto dell’Unione europea. In particolare alla direttiva Ue 2016/ 343 che tratta, oltre che della presunzione di innocenza, anche del diritto di presenziare al processo. Le regole processuali devono valere per tutti i processi e per tutti gli imputati”. Il diritto ad un giusto processo, dunque, non può essere negato neppure a chi viene accusato della morte del ricercatore friulano. “Sul fatto - conclude de Gioia - che gli indagati, nella sostanza, abbiano conoscenza che in Italia si sta per celebrare un processo che li riguarda, non credo si possano avere dubbi, stante il clamore, addirittura internazionale, dello stesso. Ma ciò non è sufficiente, sotto un profilo formale, per poter procedere nei loro confronti. Il provvedimento, se ci pensiamo bene, tutela soprattutto l’interesse dello Stato e dei familiari della vittima ad evitare la celebrazione di un processo che si preannuncia defatigante e doloroso e che un domani potrebbe essere dichiarato nullo, allontanandoci, così, dall’accertamento della verità”. Così l’Egitto è diventato una prigione a cielo aperto per gli attivisti di Laura Cappon Il Domani, 17 ottobre 2021 Il Nilo cinge il quartiere del Manial come un abbraccio che addolcisce il traffico e il suono continuo dei clacson. È in questo distretto del Cairo che incontro Mahienour el-Masry. È una avvocata per i diritti umani ed è stata rilasciata lo scorso luglio dopo 21 mesi di carcere spesi nel penitenziario di Qanater. Il suo arresto era avvenuto nel novembre del 2019 senza mandato: tre uomini in borghese dell’Agenzia per la sicurezza nazionale l’avevano portata via dal tribunale del quinto insediamento del Cairo, dove difendeva alcuni attivisti locali. Quello che la coraggiosa legale egiziana ha vissuto - prelievi improvvisi, interrogatori e accuse fantasiose notificate una volta dietro le sbarre - è lo stesso copione kafkiano che abbiamo imparato a conoscere bene con il caso di Patrick Zaki, il ricercatore arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo mentre rientrava da Bologna. Ma a differenza di quanto accaduto finora a Patrick, il nome di Mahienour è stato più avanti inserito in un altro fascicolo (il numero 855 del 2020) con l’accusa di “prendere parte a una organizzazione terroristica”, prima di rientrare nell’amnistia decisa dal presidente Abdel Fattah al Sisi per sei detenuti di coscienza in occasione della festività musulmana dell’Eid al-Adha. Udienze sospese - Dopo il suo rilascio Mahienour ha ripreso ad andare in tribunale e per incontrarla devo aspettare sino alle 7 del pomeriggio, quando le udienze sono ormai terminate. Dobbiamo vederci a casa di un suo amico. È un posto sicuro. Invece la vedo sul marciapiede. Le chiavi non funzionano e dobbiamo cercare un’altra abitazione. Ci spostiamo con un Uber in un quartiere vicino. La osservo e mi rendo conto che è una donna minuta, magrissima. Eppure per quello che ha passato ha una tempra di acciaio. Fa parte dei socialisti rivoluzionari ed è stata un nome di spicco della rivoluzione di piazza Tahrir. Da sette anni entra ed esce dalle carceri egiziane e nel 2014 ha vinto - seconda persona a riceverlo da detenuta dopo Nelson Mandela - il Ludovic Trarieux Award. “Appena si è diffuso il Covid”, ricorda Mahienour, “ho iniziato uno sciopero della fame perché non avevamo tamponi né mascherine e il sovraffollamento era palese. In più le udienze erano state sospese e non sapevamo nulla della nostra detenzione preventiva. Lo sciopero si è allargato anche ad altri penitenziari, ma mi sono fermata quando un’altra attivista di 70 anni ha detto che si sarebbe unita alla mia protesta: non potevo metterla a rischio”. Quando le chiedo cosa significhi per lei muoversi all’interno di questo sistema repressivo mi risponde con un aneddoto. “Ero alla corte di Alessandria per il rinnovo della mia custodia cautelare e dietro di me c’era un altro imputato che era un mio assistito. Quando mi ha visto mi ha chiamato disperato, non sapeva chi lo avrebbe difeso. Io l’ho rassicurato, gli ho detto che se ne sarebbe occupato un mio collega, Ahmed Ramadan. Ecco, funziona così. Lo avevo affidato a Ramadan. Ora io sono libera e Ramadan e in carcere”. Torture - Da quando il presidente Abdel Fattah al Sisi ha preso il potere con un colpo di stato nel 2013, vicende come quella di Mahienour si sono moltiplicate. Ogni anno, ogni mese che passa, la situazione per i diritti umani nel paese peggiora. L’Egitto è diventato una prigione a cielo aperto, dicono gli studiosi e gli attivisti per i diritti umani. E i numeri lo confermano: 60mila detenuti di coscienza (ma c’è chi ne conta 80mila), sparizioni forzate, siti internet bloccati e testate giornalistiche censurate. E poi, l’apparato giudiziario che tiene i cittadini egiziani in detenzione preventiva con il sistema chiamato tadweer, il riciclo dei casi, che consiste nell’aprire nuove inchieste per prolungare la custodia cautelare oltre il limite consentito dei due anni. E poi ci sono le torture, endemiche, inflitte a chiunque durante gli interrogatori e in carcere. Mohammed (il nome è di fantasia per proteggere la sua identità) ha trascorso un anno all’estero prima di rientrare al Cairo. Quel giorno lo ha fatto passando dal Terminal 3 dell’aeroporto della capitale, lo stesso dove è scomparso Zaki quando rientrava da Bologna. “Sono stato fermato dagli uomini dell’agenzia della sicurezza nazionale”, racconta. “Hanno chiamato un loro superiore e io potevo ascoltare la conversazione: gli agenti gli dicevano che ero tornato, lui ha risposto che al momento era in vacanza e si sarebbe occupato di me più avanti”. Accolto da queste parole poco rassicuranti Mohammed, attivista di lungo corso e rappresentante di un centro che si occupa di diritti umani, è tornato a vivere al Cairo. Lo incontro in un quartiere a 45 minuti dal centro della capitale. Per la nostra chiacchierata ha scelto un caffè poco affollato in un centro commerciale, in un’area costellata di compound e palazzi con le vetrate che imitano lo stile dei paesi del Golfo. Una zona, anche se ormai costruita da anni, che è l’esempio di come si stia plasmando la città. Mohammed è felice. Nonostante le norme per il Covid-19 ha trovato un posto che prepara la shisha. Fumare la pipa ad acqua, violando le norme Covid, resta comunque la cosa meno pericolosa della sua giornata. “La mia vita va avanti, io continuo a lavorare con la mia organizzazione e sto attento a qualsiasi cosa. Metto i telefoni in modalità aereo quando parlo di cose sensibili, ne ho più di uno, e penso sempre a dove lasciare la macchina quando ho un incontro”. Vivere da ricercato pur non essendolo. Perché per varcare quella linea rossa, per chi si occupa di diritti umani, è sufficiente esistere e continuare a vivere in Egitto. “L’ultima volta che sono stato in carcere è stata la più lunga e anche la più dolorosa. Quella che ha devastato la mia vita”, spiega. “Il giorno che mi hanno arrestato non sono scomparso solo perché c’erano i miei genitori”. Restare nonostante tutto - Lascio le paure di Mohammed, che mi garantisce di voler restare nel paese e monitorare il nuovo piano di al Sisi per i diritti umani, e mi imbatto nella franchezza di Esraa abdel Fattah. “Se mi dicono che sono coinvolta in un altro caso e mi stanno per rimettere in prigione? Non mi interessa più. Io resto qui, l’Egitto è casa mia”, assicura con piglio. Esraa ha 43 anni e tutti la conoscono come Facebook girl. Nel 2008 fondò la pagina “6 aprile” dopo le proteste degli operai di Mahalla. La stessa pagina che tre anni dopo svolse un ruolo centrale nell’organizzare le proteste di piazza Tahrir. Anche lei, giornalista e attivista, è stata incriminata negli stessi due procedimenti a carico di Mahienour el-Masry ed è stata rilasciata a luglio. Dice che non le importa del carcere, nonostante abbia subìto maltrattamenti, torture fisiche e psicologiche. Nonostante un’altra reporter incriminata con lei, Solafa Magdi (che dopo il rilascio ha lasciato l’Egitto) abbia subito anche violenze sessuali da parte degli agenti. “Le accuse a mio carico sono senza fondamento, non c’è alcuna prova contro di me. Neanche un articolo come invece è accaduto a Patrick Zaki”, attacca. “Mentre ero in carcere hanno aggiunto il mio nome a un altro fascicolo d’accusa. Ma ero reclusa sotto il loro controllo, come avrei mai potuto commettere il reato che mi attribuiscono? In carcere non ho incontrato nessuna delle persone che sono nel caso con me. Stavo in un altro padiglione e non ci siamo mai potuti incontrare perché avevamo l’ora d’aria a orari alternati. Tutto questo che ti ho detto mi sembra sufficiente per spiegare l’assurdità della mia situazione”. Anche il marito di Esraa è in carcere. “Per il momento ho deciso di non lavorare”, continua lei. “Sto cercando di ricostruire la mia vita ma questo lo potrò fare solo quando mio marito verrà rilasciato. Vorrei andare all’estero per studiare, frequentare un master, e tornare più preparata di prima. Perché qualcuno qui, a raccontare il paese, deve restare. E io lo farò”. “L’Italia e l’Europa ci aiutino: portateci via dalla Libia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 ottobre 2021 Mediterraneo. Da due settimane Kosofo protesta nelle strade di Tripoli insieme a migliaia di rifugiati. “Qui all’accampamento non abbiamo riparo da pioggia e freddo. Il cibo scarseggia, ma cuciniamo insieme e condividiamo tutto. Ci sostengono anche alcuni libici”, racconta. Migliaia di rifugiati sono accampati da due settimane davanti alla sede Unhcr di Tripoli, dove non si era mai vista una protesta simile. Sono soprattutto eritrei, somali, etiopi e sudanesi, nazionalità a cui quasi sempre viene riconosciuto l’asilo politico. “In Libia siamo in pericolo, chiediamo il trasferimento in un paese sicuro”, afferma Kosofo, 29enne nato in Sudan ma da cinque anni in Libia. Il nome è di fantasia: il ragazzo teme ritorsioni, è molto attivo nella protesta e fa parte del gruppo che gestisce le relazioni con i media. Martedì scorso il ministro dell’Interno libico Khaled Mazen ha proposto ai rifugiati il ritorno nei centri di detenzione. Loro hanno rifiutato. Poche ore dopo Amer Abaker, sudanese di 25 anni, è stato ucciso in mezzo alla folla da uomini a volto coperto. Mercoledì i manifestanti hanno scritto a Papa Francesco, che li ha invitati all’incontro dei movimenti popolari tenutosi ieri. Quante persone partecipano alla protesta? Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo distribuito 2.500 sandwich. Giovedì eravamo diminuiti perché la notte prima circolava la minaccia di intervento della polizia. In altri momenti superiamo le 3mila persone. Quali sono le condizioni nell’accampamento? Fa freddo e piove. Non abbiamo riparo, né assistenza medica. Il cibo scarseggia, ma condividiamo tutto. I rifugiati che hanno qualche soldo portano da mangiare. Cuciniamo insieme e distribuiamo a ognuno. Ci aiutano anche alcuni libici comprando del cibo per noi. Perché vi siete accampati davanti all’Unhcr? Il primo ottobre le forze libiche hanno fatto un raid nel quartiere di Gargarish. Hanno arrestato i rifugiati casa per casa, comprese donne e bambini. Li hanno portati sulla strada principale, ammanettati, e poi nei centri. Chi ha provato a fuggire è stato colpito. Davanti a me hanno sparato tre donne. Una è morta subito. E lei? Io sono riuscito a nascondermi e a non farmi prendere. Il giorno dopo sono venuto all’Unhcr per cercare riparo e ho trovato altri sopravvissuti. Nei giorni seguenti ci sono stati rastrellamenti in diverse zone della città. Altre persone ci hanno raggiunto. La gente ha paura. Il 6 ottobre c’è stata una fuga di massa da Al-Mabani, dove erano state imprigionate migliaia di persone. Molti sono venuti qui e i numeri sono cresciuti. Perché protestate? Non possiamo più stare in Libia, dobbiamo andare in un paese sicuro. Qui finiamo continuamente nei centri di detenzione, in posti come Ain Zara, Sharia Al Zawya, Al Nasr. Io ero a Tajoura quando è stato bombardato nel 2019. Siamo registrati presso l’Unhcr ma le evacuazioni sono ferme. Se prendiamo il mare la guardia costiera libica ci intercetta e ci porta nei centri di detenzione, dove subiamo violenze e torture. C’è un numero enorme di donne incinte per gli stupri subiti nei centri. Quando l’Onu visita questi luoghi raccontiamo quello che accade. Loro ascoltano. Ma la situazione non cambia. Ha provato ad attraversare il mare? Sì, quattro volte. Ma sono stato intercettato e arrestato. Ogni volta sono riuscito a scappare. Alcuni rifugiati pagano per uscire, per esempio gli eritrei o i somali, ma per noi sudanesi è impossibile trovare i soldi. Noi possiamo solo scappare. Perché ha lasciato il Sudan? Nel 2003 il mio villaggio nel Darfur è stato attaccato. Molte persone sono state uccise dalle milizie del governo, compreso mio padre e una sorella. Poi hanno dato fuoco alle case. Siamo andati nel campo profughi di Kalma, vicino la città di Nyala, Darfur meridionale. Ho vissuto lì per 13 anni. Nel 2016 sono venuto in Libia per provare a raggiungere l’Europa. È registrato presso l’Unhcr? Sì, dal 2017. Ho visto trasferire rifugiati in Canada, Italia, Svezia, Norvegia. Altri li portano nei campi in Niger e Ruanda dove attendono il ricollocamento. Ma io sono ancora qua, non so perché. Cosa chiedete a Italia ed Europa? Chiediamo al primo ministro italiano, a quelli degli altri paesi membri e all’Unione Europea di aiutarci. Non possiamo più vivere in Libia. Evacuateci.