Giustizia, Cartabia assolve i referendum di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 ottobre 2021 Le preoccupazioni dell’Anm. Magistrati in allarme, ma la ministra si preoccupa di sminare il terreno in vista di una frattura nella maggioranza: “I quesiti di leghisti e radicali sono marginali”. Per Mattarella alle toghe serve “una rigenerazione etica”. I sei referendum sulla giustizia promossi da radicali e leghisti “non sono un ostacolo” per le riforme del settore che faticosamente la maggioranza sta portando avanti. Questo perché “i due percorsi procedono paralleli ciascuno lungo binari destinati a non incrociarsi”. I temi al centro dei quesiti referendari, poi, “lambiscono solo in modo marginale l’oggetto delle riforme legislative in tema di ordinamento giudiziario su cui il parlamento sarà chiamato nei prossimi mesi a intervenire”. È come se Marta Cartabia avesse mandato un estintore, più che un messaggio di auguri all’Associazione nazionale magistrati che l’aveva invitata alla presentazione della nuova serie della rivista La Magistratura il cui primo numero si occupa del tema incendiario dei referendum. Tema scottante per i magistrati e incendiario per la maggioranza di Draghi. Che già litiga sufficientemente e la prossima primavera dovrà affrontare una campagna elettorale sul tema giustizia dividendosi tra favorevoli al Sì (il centrodestra e Italia viva) e sostenitori del No (Pd, M5S e Leu). La ministra ha ben chiaro come in quello stesso periodo il governo (lei) si troverà a dover scrivere i decreti legislativi che sono il cuore delle riforme del processo civile e penale, oltreché le norme sull’ordinamento giudiziario (e i magistrati, se tutto va come deve, saranno proprio allora in campagna elettorale per il nuovo Csm), si porta avanti e usa l’estintore. I referendum, garantisce Cartabia, non sono un grosso problema. Andranno avanti per conto loro. L’Associazione magistrati è in realtà assai preoccupata, soprattutto per due quesiti spiega il presidente Santalucia: il quesito che punta a una rigida separazione delle funzioni di pm e giudici e il quesito che introduce la responsabilità civile diretta delle toghe. Quest’ultimo, secondo i costituzionalisti chiamati ieri a convegno dall’Anm, potrebbe essere dichiarato non ammissibile dalla Corte costituzionale (lo sostiene Caravita di Torrito). Ma non è l’unico quesito che rischia di cadere, secondo Gaetano Silvestri più d’uno è destinato a essere bloccato dai giudici delle leggi. “Assistiamo a un uso distorto - dice Silvestri, che è stato presidente della Corte costituzionale - i referendum vengono usati come strumento di lotta politica”. Particolarmente temuto il referendum che abrogando una parte della legge Vassali introduce la responsabilità civile diretta dei magistrati. “Una forma di intimidazione del giudice - spiega Silvestri -, con la responsabilità diretta ogni processo ne genererebbe un altro e a essere incentivato sarebbe il conformismo difensivo dei magistrati”. Contrario a questo referendum è anche il maestro di diritto penale Giovanni Fiandaca, ostile anche al quesito sulla custodia cautelare e invece per nulla preoccupato da quello sulla separazione delle funzioni. Ma a ben vedere l’urgenza è un’altra. Sottolineata da Santalucia e richiamata dal vicepresidente del Csm Ermini: la riforma del sistema di voto del Consiglio superiore si fa troppo attendere. La maggioranza è, inutile scriverlo, divisa. Eppure la ministra assicura: “È necessario portarla a termine prima delle prossime elezioni del Csm”, a luglio. Anche se non basterà. Nel suo saluto, il presidente della Repubblica scrive la magistratura ha bisogno di niente di meno che “una rigenerazione etica”. Mattarella all’Anm: “Alla magistratura servono riforme e una rigenerazione etica” di Liana Milella La Repubblica, 16 ottobre 2021 Il messaggio del Capo dello Stato al presidente Santalucia: “Vitale il confronto con le istituzioni”. La Guardasigilli Cartabia: “La riforma del Csm prima del rinnovo del Consiglio”. Il vice presidente del Csm Ermini: “Siamo ai limiti, riforma tassativa e urgente”. L’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, per un pomeriggio torna protagonista del dibattito sulla giustizia. Alla sua riflessione dà un titolo impegnativo - “Le ragioni del diritto” - proprio in giorni difficilissimi in cui la via del diritto sembra smarrirsi nella contrapposizione, anche violenta, degli interessi di parte. E se il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia dice subito che le toghe sono pronte “al confronto aperto e approfondito, senza arroccamenti pregiudiziali, perché noi non amiamo gli slogan e le trite formule”, è dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che arrivano tre messaggi molto precisi. Il primo: “La magistratura ha bisogno di un profondo processo riformatore, e anche di una rigenerazione etica e culturale”. Il secondo: “La sua indipendenza è un elemento cardine della nostra società democratica e si fonda sull’alto livello di preparazione professionale, che va accompagnata dalla trasparenza delle condotte personali e dalla comprensibilità dell’azione giudiziaria”. Il terzo: “Particolarmente in questo suo difficile momento, la magistratura deve saper svolgere la propria funzione in un’interrelazione continua con il contesto socio-culturale nel quale opera perché nel nostro sistema costituzionale, anche per la funzione giudiziaria, è vitale il confronto costruttivo con le istituzioni della Repubblica”. È un breve messaggio quello che Mattarella invia all’Anm, nel giorno in cui il sindacato dei giudici rilancia la sua rivista - “La magistratura” che sarà diretta da Cecilia Bernardo - che per la prima volta sarà disponibile online. Un modo per parlare a tutti gli iscritti, oltre settemila rispetto alle ormai quasi 10mila toghe italiane. E certo non è casuale che il capo dello Stato, nonché presidente del Csm, affronti tre nodi determinanti per la tenuta istituzionale del terzo potere dello Stato. Innanzitutto la credibilità dei giudici, dopo gli scossoni giunti dal caso Palamara, che ha coinvolto anche l’attuale Csm. Quindi sono inevitabili non solo “un processo riformatore”, ma anche “una rigenerazione etica e culturale”, che impegni ogni magistrato preso singolarmente nel suo lavoro quotidiano. Chi giudica dovrà non solo essere professionalmente all’altezza del difficile compito che dovrà svolgere ogni giorno, ma dovrà anche vivere comportandosi di conseguenza. Né potrà ignorare che il giudice non è una monade, ma vive in un contesto istituzionale di cui dovrà tenere conto. E qui il presidente Santalucia, richiama la Costituzione. Lo fa in un brevissimo passaggio - “Occorre guardare alla Costituzione che, vieppiù nei momenti di confusione, assicura una guida sicura” - che richiama però tutti i suoi colleghi al rispetto della Carta. Pagine su cui, forse, non si riflette abbastanza, soprattutto in tempi di referendum. Qui Santalucia dà voce al suo disagio. Dice così: “Abbiamo sperimentato quanto sia difficile introdurre nel dibattito pubblico spunti critici al programma referendario: scatta immediatamente una reazione polemica che identifica la critica con la chiusura corporativa alle riforme, l’argomentato dissenso con la protezione di inaccettabili e non meglio definite situazioni di privilegio”. I referendum “investono la giustizia complessivamente intesa”, dice il presidente dell’Anm, ma quei quesiti “non sono affare della magistratura, non toccano interessi dei singoli magistrati che possano essere latamente intesi come settoriali, di categoria”. Ma proprio perché investono la magistratura nel suo complesso possono rappresentare uno spartiacque su cui la stessa magistratura s’interrompe. Del resto, come dimostrano le voci della ministra della Giustizia Marta Cartabia e del vice presidente del Csm David Ermini, sui referendum i pareri sono discordi. Per la Guardasigilli i quesiti “lambiscono in modo solo molto marginale l’oggetto delle riforme legislative su cui il Parlamento sarà impegnato nei prossimi mesi a intervenire in tema di ordinamento giudiziario”. Per Cartabia “si tratta ovviamente del legittimo esercizio di una prerogativa costituzionale”. Secondo la ministra “i quesiti riguardano aspetti specifici, anche se tutt’altro che secondari, dell’ordinamento giudiziario e non si sovrappongono ai più sistematici progetti di riforma su cui anche il governo si accinge a intervenire”. E dunque “i due percorsi, legislativo e referendario, procedono paralleli, ciascuno lungo i propri binari, destinati a non incrociarsi, né a ostacolarsi”. Una via, per la Guardasigilli, “del tutto compatibile con la Costituzione” che “tra le forme espressive della sovranità popolare annovera, accanto alla democrazia rappresentativa, anche il referendum abrogativo”. E invece Ermini la pensa altrimenti. Eccolo mostrare tutto il suo scetticismo: “Non credo che un meditato cammino riformatore possa essere sostituito da un episodio referendario. Non mi permetto di entrare nel merito dei singoli quesiti, mi interrogo solo sull’opportunità di un’iniziativa referendaria mentre è in corso l’iter parlamentare delle riforme”. E ancora: “Ho grande rispetto per l’istituto del referendum, ma resto convinto che in una democrazia rappresentativa la sede naturale per riforme condivise sia il Parlamento e non l’iniziativa referendaria che, in ragione della sua natura necessariamente abrogativa, potrebbe condurre esclusivamente a esiti parziali, non omogenei e asistematici”. Ma la scommessa, adesso, per Ermini, è quella della riforma del Csm. Ne parla diffusamente davanti alla platea dell’Anm. Anche in tono molto critico. “Lamento, a tutt’oggi, l’assenza del terzo pilastro dell’intervento riformatore, quello relativo al Consiglio superiore e all’ordinamento giudiziario. Da tempo, ormai quasi due anni, lo sto sollecitando. Direi che siamo ai limiti, e davvero spero, come deciso dalla capigruppo della Camera, che a novembre il disegno di legge di riforma possa essere discusso e votato dall’aula”. Su questo arrivano subito le garanzie di Marta Cartabia. Che parla di un intervento che “è necessario portare a termine in tempo utile in vista del rinnovo del Csm”. La scadenza è quella del prossimo luglio 2022, visto che i togati dell’attuale Consiglio sono stati eletti all’inizio di luglio 2018. Mentre il Parlamento ha scelto i laici a settembre. Quindi restano una manciata di mesi per essere pronti. Ma le riforme del processo civile e penale dimostrano che il Parlamento può anche andare in fretta, anche grazie ai voti di fiducia. Cartabia, davanti alle toghe dell’Anm, non nasconde la sua soddisfazione per quanto è stato fatto finora. Ne parla così: “Un’intensa stagione di riforme è in atto nel Paese e il settore dell’amministrazione della giustizia ne è investito in pieno. Le riforme normative sono accompagnate, per la prima volta dopo tanto tempo, da significativi investimenti grazie anche ai fondi europei: un fatto da non sottovalutare perché denota la consapevolezza che la ripresa e lo sviluppo dell’Italia passa anche dalla qualità del servizio giustizia che saremo in grado di assicurare”. Ed ecco, in pillole, nelle parole di Cartabia, un mini bilancio del passato e le prospettive per il futuro: “Molto è stato già realizzato in questi primi otto mesi di intenso lavoro, in linea con le scadenze e gli impegni presi con l’Europa. Ma molti altri interventi ci impegneranno nei prossimi mesi: oltre ai decreti legislativi attuativi delle deleghe già in parte, o del tutto, approvate in Parlamento, oltre al perfezionamento del capitolo sull’insolvenza, oltre al completamento delle procedure di selezione dei giovani dell’Ufficio del processo e a molti altri interventi organizzativi, stiamo lavorando a un riordino urgente della magistratura onoraria, resa ancor più impellente anche da una procedura di infrazione aperta dalla Commissione”. Un mondo, quello della magistratura onoraria, che attende con ansia di sapere quale sarà il suo destino. La fede nel garantismo non ci consente di invocare il pugno duro con la stampa di Cataldo Intrieri Il Dubbio, 16 ottobre 2021 In un’epoca in cui la grande questione politica è la crisi della democrazia liberale di fronte al populismo, ci si aspetterebbe di trovare l’avvocatura compatta in difesa della prima, ma è lecito nutrire qualche dubbio. Di recente sono rimasto sorpreso per alcune prese di posizione ufficiali dell’Unione delle Camere penali che proverò a riassumere. La prima riguarda la famosa (o famigerata) inchiesta “sotto copertura” di Fanpage sulle frange neonaziste contigue alla Lega. Secondo l’Osservatorio sull’informazione dell’Ucpi, “siamo al cospetto di una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico… perché essa è posta oltre confine ed è in grado di oltrepassare qualsiasi limite, tra quelli finora ipotizzati dal legislatore al fine di salvaguardare il principio della presunzione di innocenza”. Assume l’Unione che il giornalista che, al pari di un agente provocatore, ha simulato la commissione di un reato sotto le mentite spoglie di un finanziatore del movimento neo-nazista milanese abbia commesso un atto illecito stimolando gli ignari interlocutori a commettere un reato. Come si ricorderà, il giornalista per molto tempo, fingendo di essere un imprenditore di simpatie di estrema destra si è infiltrato in una congrega di nostalgici e dichiarati fascisti alla ricerca di finanziamenti elettorali, anche in nero, per i loro candidati. Sotto tale falsa veste il giornalista ha organizzato una beffa: la consegna agli interessati di una valigetta che invece di mazzette conteneva libri sull’olocausto. Ciò, secondo l’Osservatorio dell’Ucpi, non è accettabile, il che, diciamo può condividersi, quello che stupisce invece sono le conclusioni secondo cui tali condotte vanno sanzionate anche sotto il profilo penale, e a tale scopo l’Unione invoca il capovolgimento della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea che in casi simili ha ritenuto di dover salvaguardare come prevalente il diritto alla pubblica informazione. Invece secondo l’Osservatorio, “se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra Costituzione (come del resto è accaduto in tema di mafia e di prescrizione), il giornalismo d’inchiesta si sostituirà alla magistratura inquirente, con l’unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali”. Ora possiamo discutere su tutto ma non certo del fatto che la presenza di movimenti neo-fascisti non sia di pubblico interesse, e quanto è successo a Roma di recente dovrebbe spiegare perché. Personalmente mi fa una brutta impressione quando vedo degli avvocati invocare l’inasprimento delle pene: io credo che non sia affare nostro, anzi che strida fortemente con la nostra funzione, con il nostro ruolo e le nostre idee, chiedere pene e galera. Non discuto il diritto di criticare un certo tipo di giornalismo e che ciò vada fatto anche con toni aspri, ma invocare il carcere, via... Aggiungo che tale atteggiamento non si possa poi tenere quando in ballo ci sia comunque un diritto costituzionale come la libertà di stampa, fermo restando il diritto di criticare e di denunciare fenomeni degenerativi: non occorre certo che io ricordi come di recente la Corte Europea dei Diritti Umani abbia condannato il ricorso alla pena detentiva contro i giornalisti. Qualche anno fa io criticai la decisione della Camera Penale di Roma di denunciare dei giornalisti perché avevano pubblicato delle intercettazioni e dei filmati di pedinamento, piuttosto che denunciare i responsabili degli uffici giudiziari che non avevano vigilato. Quando cominciò il processo (Mafia Capitale) chiesi direttamente ai Ros chi avesse confezionato gli spezzoni che giravano su tutti i media e venne fuori che esisteva presso gli inquirenti un apposito “ufficio pubblicità”. Credo che questo sia il nostro compito: la denuncia delle storture processuali. Vi sono poi ulteriori iniziative che hanno aumentato la mia perplessità: ad esempio l’Unione ha recentemente legittimamente manifestato la propria solidarietà ad un autorevole membro della giunta deferito dall’Anm di Palermo ai propri organi disciplinari per lo sfogo contro i magistrati contenuto in una intercettazione di una sua conversazione. Si tratta di un colloquio, senza alcuna rilevanza, con persone che lui aveva conosciuto in ragione della propria attività professionale nell’ambito delle indagini difensive per un clamoroso caso mediatico relativo alla riapertura delle indagini, richiesta dall’avvocato, per la sparizione avvenuta venti anni fa di una minore. La protesta dell’associazione dei penalisti è ampiamente motivata a tutela della riservatezza di uno stimato professionista, ma mi sono stupito che non si sia detto nulla sul massacro mediatico che la stampa in questa occasione ha compiuto in danno dei poveri indagati, alcuni dei quali già prosciolti anni prima. Un’indegna campagna di stampa alimentata da fughe di notizie che la stessa magistratura inquirente denuncia con parole di fuoco come un ennesimo corto circuito di notizie riservate, propalate in modo irresponsabile. Giustamente l’Osservatorio in un’altra recente vicenda portata all’onore delle cronache da Massimo Giletti - uno dei campioni del giustizialismo casereccio - sui cui è imminente la decisione del giudice sulla richiesta di archiviazione, (come nell’altra vicenda peraltro), evento che il conduttore vorrebbe sventare, ha preso una durissima quanto opportuna posizione di condanna, sia pure senza invocare la galera per i giornalisti. So benissimo che queste righe non saranno gradite, ma posso assicurare che il loro scopo non è certo quello di irritare colleghi ed amici che stimo quanto di rilevare delle contraddizioni ricorrenti su principi di natura politica e costituzionale nell’avvocatura penalista. Non debbo dare io lezioni e patenti di garantismo, me ne guardo bene, ma ad esempio, per dirne un’altra, non ho capito le incertezze ed un certo cerchiobottismo sulla condanna di Mimmo Lucano: paradossalmente abbiamo applicato il garantismo ai giudici che lo hanno ferocemente condannato piuttosto che all’imputato, all’insegna pensosa del “dobbiamo aspettare le motivazioni” Qualche anno fa subito dopo l’arresto del sindaco di Riace, quando neanche si era pronunciato il riesame, Massimo Bordin, uno capace di prendere posizione allo stesso modo per Sofri come per Salvini, non ebbe bisogno di leggere alcuna motivazione, né si sognò di definire Lucano come un obiettore civile, non lo confuse con Danilo Dolci, Pannella o Don Milani, disse anzi che era un furbo pasticcione ma denunciò gli arresti come “una campagna di annientamento” contro un’esperienza sociale. Ed allo stesso modo Bordin ha criticato il giustizialismo feroce, da Mafia Capitale ai processi contro Salvini. Allo stesso modo. Vedete, anche se il terrazzino dei veri garantisti, come dice Sansonetti, è molto piccolo, si può trovar lo stesso il posto e lo spazio per esserlo comunque e dirlo. Rider, lo sfruttamento è caporalato di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 16 ottobre 2021 Gig economy. 44 ciclofattorini di Uber Eats saranno risarciti con 10 mila a testa. Lo ha deciso la gup milanese De Pascale che ha inflitto 3 anni e 8 mesi a un intermediario della filiale italiana, un ramo di azienda della multinazionale Uber nelle consegne a domicilio. Il reato è il caporalato. La condanna è la prima in Italia e non riguarda più l’agricoltura, ma l’economia delle piattaforme digitali specializzata nel consegnare pizze e altre merci a domicilio. Anche nell’”economia dei lavoretti” (“gig economy”) si sfruttano i lavoratori (i ciclofattorini, i rider) come i braccianti, soprattutto migranti, nella raccolta di pomodori nelle campagne di tutto il paese. Per questa ragione ieri, a Milano, la giudice dell’udienza preliminare Teresa De Pascale ha inflitto una pena di 3 anni e 8 mesi a Giuseppe Moltini, uno dei responsabili delle società di intermediazione coinvolte nell’inchiesta del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano. Tre mesi fa, nell’udienza preliminare, avevano patteggiato Leonardo Moltini e Danilo Donnini, rispettivamente a 3 e 2 anni. Per quest’ultimo la pena è stata sospesa. L’inchiesta del pubblico ministero Paolo Storari ha portato al commissariamento della filiale italiana di Uber il 29 maggio dell’anno scorso, poi revocato perché l’azienda ha adottato una serie di contromisure. Pena di 1 anno e 6 mesi per favoreggiamento è stata inflitta a Miriam Gilardi. A luglio De Pascale ha rinviato a processo Gloria Bresciani, manager sospesa di Uber, con l’accusa di caporalato sui fattorini. L’udienza è fissata lunedì. Rinviata a giudizio un’altra società di intermediazione, imputata per la legge sulla responsabilità amministrativa. La Gup ha deciso di convertire il sequestro di circa 500 mila euro in contanti disposto nelle indagini in un risarcimento da 10mila euro a testa per i 44 fattorini che hanno lavorato tra Milano, Torino e Firenze e si sono costituiti come parti civili nel procedimento. Ventimila euro sono stati riconosciuti anche alla Cgil e alla Camera del Lavoro di Milano. I risarcimenti sono immediatamente esecutivi. La giudice ha già disposto il pignoramento delle somme. “Questo risultato è stato reso possibile grazie alla legge sul contrasto del caporalato (199/2016) fortemente sostenuta dalla Cgil” hanno commentato la Cgil nazionale e la Camera del lavoro. “Ricordiamo che se conoscete fattorini che abbiano lavorato per questa società dal 2018 e il 2019 è ancora possibile costituirsi parte civile per fare causa all’azienda - sostiene il sindacato sociale autorganizzato Deliverance Milano - la responsabilità penale e civile non possa essere scaricata sulla società di outsourcing perché la multinazionale sapeva e la dirigenza era informata sulle condizioni di lavoro in cui vertevano rider che lavoravano per Uber. Anche la compagnia americana paghi e risponda dei propri soprusi di fronte al Tribunale di Milano e ai lavoratori sfruttati”. La sentenza è innovativa perché riconosce l’esistenza dell’intermediazione illegale di manodopera anche nell’economia digitale. In questo caso i rider erano pagati a cottimo “3 euro”, “derubati” delle mance e “puniti” con una decurtazione dei compensi. Dalle carte dell’inchiesta è emerso che i ciclo-fattorini erano reclutati in “situazioni di emarginazione sociale” e spesso erano costretti a implorare per giorni la loro magra paga. Dall’azienda beneficiaria del lavoro i rider erano “solo dei puntini su una mappa da attivare o bloccare a loro piacimento” al fine di “ottimizzare il servizio della piattaforma e far guadagnare Uber il più possibile”. L’attività dei rider si svolgeva in un clima di “forte sfruttamento, intimidazione e prevaricazione”. Campania. “Detenuti in pandemia tra sofferenze atroci, serve un mini-indulto” di Giuseppe Tallino cronachedi.it, 16 ottobre 2021 La rabbia del Garante dei detenuti Ciambriello: “Molti politici, magistrati e persone comuni ritengono i reclusi cifre di scarto, ma la pena dovrebbe rieducare”. “Viviamo in un Paese senza memoria. Sulle carceri parla solo il giustizialismo”. Il garante per i detenuti della Campania Samuele Ciambriello scandisce ogni parola, durante la sua visita alle redazioni di Cronache di Napoli e Cronache di Caserta (nella foto). Sa che “c’è qualcosa che non va nel sistema”. E lancia l’allarme sull’emergenza Covid vissuta dai carcerati. Snocciola dati, cita episodi, ci parla dei mille problemi che i detenuti affrontano ogni giorno, quelli vecchi e quelli nuovi. “All’estero, se qualcuno commette un reato, si parla al plurale delle pene da infliggere. In Italia diciamo ‘la pena’, perché qui questa parola è sinonimo di carcere”. Cosa vuole dire? “Dovremmo prendere consapevolezza del fatto che oggi il carcere è criminogeno. Basterebbe applicare la Costituzione e mettere in campo misure alternative. Ragionare sulla qualità della pena. Non facciamo nessuna di queste cose”. Qualcuno potrebbe replicare che chi sbaglia, poi paga... “Anche io sono per la pena certa. Ma oggi una persona rischia di entrare in cella e di subire la malasanità, o la malagiustizia. Ma su questa realtà, società civile e politica tacciono. C’erano già delle denunce per i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, prima che scoppiasse lo scandalo. Ma se non ci fossero state quelle immagini, chi si sarebbe occupato di ciò che accadeva lì?”. Poi c’è il problema del sovraffollamento... “A Poggioreale ci sono 2.200 detenuti. Ce ne dovrebbero essere al massimo 1.600. Ma un paio di padiglioni sono chiusi e in ristrutturazione. Chi sbaglia può essere privato della libertà, non della dignità. E il Covid ha peggiorato la situazione. A chi viene arrestato dovrebbe essere assicurato anche l’isolamento sanitario, invece si ritrova in stanze spesso sovraffollate. I tre fermati per i disordini di Roma sono stati trasferiti a Poggioreale e sono in una cella da sei. L’ho visto con i miei occhi. Così non va. Sono già morti sei detenuti. E anche sei agenti e un medico a Secondigliano”. Perché solo ora grida allo scandalo? “Abbiamo raggiunto la misura. La politica, invece di pensare al senso del suo ruolo, pensa al consenso. Senza contare che c’è una parte dell’opinione pubblica che segue ancora la logica dell’”occhio per occhio, dente per dente”. Ma questa si chiama vendetta, non giustizia. E si fa un pericoloso salto indietro nel tempo. Per tanti cittadini, ma anche per tanti magistrati e altrettanti politici, i detenuti sono cifre di scarto della società”. Cosa si può fare a questo proposito? “Innanzitutto servono psicologi e psichiatri. Altrimenti queste persone vivranno in uno stato di precarietà perenne, che peggiora solo le cose. E servono più agenti della Penitenziaria. Dobbiamo passare dalla reclusione alla inclusione. A un carcere accogliente, anche per i detenuti difficili. E a progetti che li coinvolgano”. Cosa è successo durante la pandemia? “In Italia nulla, purtroppo. Sono morti agenti e reclusi, in attesa che fosse adottato un provvedimento serio per risolvere il problema. E invece il governo ha preso una sola decisione: chi deve scontare un anno e mezzo può andare a casa con il braccialetto elettronico. Ma spesso i dispositivi non erano nemmeno disponibili. Negli altri Paesi del Consiglio d’Europa, già l’anno scorso 128mila reclusi erano stati rilasciati per prevenire il diffondersi della pandemia. Visto che qui non si fa nulla, che non si parla di amnistia né di indulto, sarebbe una sorta di ristoro per queste persone”. La ritiene una cosa fattibile? “Basterebbe che la politica prendesse coscienza della portata del problema. Proviamo a immaginare cosa può provare un recluso che si è vaccinato in carcere, che non ha potuto vedere i suoi familiari durante tutto il periodo di pandemia, che non ha potuto lavorare, né fare corsi di formazione, che ha subito più di tutti le restrizioni imposte dalla pandemia. Alcuni di loro si sono contagiati e sono morti. All’esterno del carcere c’è stato un ristoro per tutti, perché per loro non è stato fatto niente?” In concreto, a quale misura pensa? “A un provvedimento di carattere generale, un anno di condono. Una sorta di piccolo indulto. Sarebbe un atto di giustizia vera, utile a ridurre la distanza tra il carcere così come è oggi e quello di cui parla la Costituzione, ossia un luogo di rieducazione. Non si può continuare a morire in carcere e del carcere. In molte celle mancano docce e bidet. Serve aggiungere altro?”. Oristano. La Camera penale nell’inferno del carcere di Massama di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 ottobre 2021 I penalisti hanno raccolto il grido di allarme e l’invocazione di aiuto che 160 detenuti della Casa di reclusione hanno rivolto a tutte le Autorità competenti e il 9 ottobre hanno effettuato una visita. Ergastolani che, secondo l’ordinamento penitenziario, dovrebbero essere collocati in celle singole, sono sistemati in stanze da due e perfino da tre detenuti. Solo 35 detenuti su 263 lavorano. L’assistenza sanitaria comincia ad avere problemi. Basti pensare che diversi detenuti lamentano attese di anni per eseguire operazioni chirurgiche. L’80 percento della popolazione carceraria viene sedata con gli psicofarmaci. Questa è l’esatta fotografia della situazione del carcere sardo di Massama, ultimamente al centro dell’attenzione per via delle proteste non violente e lettere dei detenuti indirizzate alle autorità competenti. A relazionare la situazione impetuosa è la Camera penale di Oristano. Il 9 ottobre scorso vi ha fatto visita la delegazione composta dalla Presidente Rosaria Manconi e dalle componenti del Consiglio Direttivo Maddalena Bonsignore, Romina Marongiu e Valentina De Seneen. L’iniziativa - come si legge nella relazione - oltre che dalla consueta attenzione della Camera penale di Oristano verso le problematiche carcerarie e in particolare della locale struttura, è scaturita dalla nota denuncia - più che altro un grido di allarme e una invocazione di aiuto rivolta a tutte le Autorità competenti - con la quale oltre 160 detenuti della Casa di reclusione lamentano gravi criticità e violazioni dei diritti fondamentali. La delegazione è stata accolta dal direttore Luigi Farci, dall’ispettore Adriano Sergi e da altro personale addetto alla sorveglianza, nonché da uno dei medici operanti nell’area sanitaria della struttura e da uno degli educatori in servizio, Salvatore Flore. La visita ha riguardato l’intera struttura, gli uffici, le aule scolastiche, i luoghi di socialità, l’infermeria, l’area trattamentale, le celle destinate all’isolamento e tutte le sezioni. La delegazione della Camere penale di Oristano, ha potuto accertare che la struttura, nonostante sia stata realizzata in epoca recente, presenta gravi problemi strutturali, di manutenzione e di funzionamento. D’estate il caldo è torrido mentre le celle sono invase dalle zanzare. Sono presenti sia nei corridoi che nelle celle vistose chiazze di umidità e quando piove l’acqua filtra copiosa, tanto che in alcune celle (visitate al loro interno dalla delegazione) i detenuti sono costretti a raccoglierla nei secchi. Sempre nella relazione, si apprende che al carcere di Massama non ci sono laboratori. C’è una palestra ma i detenuti segnalano che manca il bagno e gli attrezzi sono deteriorati o inutilizzabili. C’è una biblioteca ma per stessa ammissione del direttore non si riesce a farla funzionare perché non c’è personale, né associazioni di volontariato che la possano gestire utilmente. È presente la sala teatro/aula conferenze ma viene utilizzata in rari casi (e non sempre nell’interesse dei detenuti). L’area educativa, fondamentale per il trattamento dei detenuti, utile per la finalità rieducativa della pena, è un disastro. Sempre la Camera penale di Oristano rende noto che, secondo l’educatore Flore, le carenze dell’area educativa determinano gravi conseguenze anche per ciò che concerne i detenuti comuni, spesso persone molto fragili e bisognose di concreto supporto, che in questo momento il carcere non riesce ad offrire.Come se non bastasse, solo pochi fortunati (in totale 35) - prevalentemente detenuti comuni- vengono destinati alle attività lavorative interne (pulizia, cucina, squadra di manutenzione) secondo una turnazione in base a una graduatoria. Molti detenuti nelle sezioni Alta Sorveglianza si sono lamentati di non essere mai stati chiamati per lavorare. Al momento della visita non era presente la responsabile, ma la delegazione ha avuto modo di parlare a lungo con uno dei 4 “medici di base” dell’organico (Fabio Tolu) secondo il quale l’assistenza sanitaria offerta sia di ottimo livello. Ma, secondo l’educatore Flore, invece, ultimamente stanno facendo ingresso a Massama numerosi detenuti con specifiche e delicate esigenze sanitarie (non solo tossicodipendenti ma anche persone con gravi patologie) a cui il carcere non è in grado di assicurare adeguata assistenza. Il dottor Tolu ha riferito alla delegazione della Camere penale di Oristano, che la percentuale dei detenuti con problemi di natura psichiatrica è altissima. All’80% della popolazione carceraria viene praticata la sedazione o comunque terapia con psicofarmaci. Il medico ha sottolineato che a parte i detenuti con patologie psichiatriche conclamate e riconosciute, quasi tutti prima o poi si ammalano “di reclusione” e necessitano di cure con gli psicofarmaci. Sono 166 i detenuti per mafia, 71 i “comuni” e 72 gli ergastolani La relazione della Camera penale di Oristano illustra anche un’attenta analisi della struttura del carcere di Massama e della tipologia di detenuti. Aperto il 12 ottobre 2012, è una nuova struttura composta da diversi fabbricati ubicati sia all’interno che all’esterno del muro di cinta. Oltre agli edifici della caserma e della direzione, vi è un caseggiato a cui sono assegnati i detenuti in regime di semilibertà e quelli che godono del beneficio di cui all’art. 21 dell’ordinamento penitenziario. Sempre nella relazione, si apprende che all’interno del muro di cinta si trovano, in un primo blocco, gli uffici matricola, casellario, comando, servizi, e sopravvitto. Nello stesso blocco, ma in un corridoio parallelo, si trova la zona adibita ai colloqui con i familiari, con gli avvocati e la sala magistrati. Proseguendo verso l’interno, prima di giungere alla zona detentiva, si trova un lungo corridoio su cui si affacciano la chiesa, un salone adibito a teatro e la palestra per i detenuti. La zona detentiva si sviluppa in un corpo di tre piani. Al piano terra si trovano il locale infermeria, gli ambulatori dei medici specialistici e l’area trattamentale. Nei tre piani sovrastanti si trovano sei sezioni detentive, due per piano. Dai dati raccolti emerge che i posti regolamentari sono 259 e 263 le presenze effettive. Le sezioni sono composte da venti camere detentive da un lato e ventuno nell’altro. Le camere sono dotate di un bagno con doccia, separato dal resto del locale. Ogni sezione ha un’ampia sala per la socialità ed una scala interna per accedere direttamente ai cortili di passeggio. Nella zona retrostante l’istituto si trovano i locali della cucina detenuti, lavanderia, e diversi locali, alcuni dei quali destinati ad ospitare corsi professionali. Sei le Sezioni di cui quattro di Alta Sicurezza: AS1 (detenuti ed internati appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del 41 bis) 33 detenuti, tutti italiani; AS3 (detenuti che hanno rivestito un ruolo di vertice nelle organizzazioni criminali dedite allo spaccio di stupefacenti) 167 detenuti (di cui 6 stranieri). Nell’Alta Sicurezza sono presenti 46 detenuti per mafia, camorra 64, ndrangheta 56, sacra corona unita 20. Sono 71 detenuti (di cui 11 stranieri) i detenuti comuni, 72 gli ergastolani. In misura cautelare: 17 imputati e 3 in appello. Oristano. “Dentro le celle situazione drammatica” di Davide Pinna La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2021 La visita delle avvocatesse delle Camere penali: “Sconforto e impotenza. L’80% dei detenuti ha problemi psichici”. “Sconforto e impotenza, ecco cosa abbiamo provato quando siamo uscite da quelle mura”. Così Rosaria Manconi, avvocata e presidentessa della Camera penale di Oristano, racconta i sentimenti provocati dalla visita al carcere di Massama, lo scorso 9 ottobre. Insieme a lei le colleghe Maddalena Bonsignore, Romina Marongiu e Valentina De Seneen: per sei ore hanno visitato la struttura penitenziaria, rispondendo a una lettera di proteste inviata a settembre da 160 detenuti. Fra i destinatari di quella lettera anche il Presidente della Repubblica e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, “ma è stata ignorata da gran parte dei destinatari” spiega Rosaria Manconi. Il carcere di Massama, secondo quanto emerge dalla relazione della Camera penale, ospita in questo momento 263 detenuti, su una capienza di 259: “Il sovraffollamento è relativo, in realtà spesso in celle per due persone ce ne sono tre e i condannati all’ergastolo, che avrebbero diritto a una cella tutta per loro, devono invece condividere gli spazi angusti con gli altri”. Duecento sono quelli nelle sezioni di alta sicurezza, quasi tutti provenienti dalle organizzazioni mafiose, e 72 gli ergastolani. I numeri relativi al personale fanno segnare 162 agenti di custodia a fronte di 208 previsti, 12 amministrativi contro i 22 necessari, 3 educatori, due dei quali stanno per essere trasferiti, sui 5 di cui ci sarebbe bisogno. Se i freddi numeri bastano ad abbozzare la situazione di grande disagio, sono le parole dell’avvocata a dare il colore al quadro: “La privazione della libertà è già una pena dura, non si possono aggiungere condizioni disumane e totale assenza di attività di rieducazione. Ci sono i problemi quotidiani: l’umidità delle celle, docce rotte, sanitari otturati, ritardi nella consegna del denaro da parte delle famiglie, domande all’amministrazione che restano senza risposta per anni. Poi c’è un aspetto esistenziale: queste persone sono chiuse per venti ore al giorno dentro una cella squallida, hanno quattro ore di passeggio in un cortile in cemento altrettanto squallido. L’unica differenza è che, in quest’ultimo caso, non hanno il tetto sulle loro teste. Un detenuto ci ha detto di vivere in una perenne condizione di “attesa”. Palestra e biblioteca praticamente non funzionano e c’è un teatro bellissimo che è quasi inutilizzato”. Che questa condizione abbia gravi ripercussioni, lo dimostrano i dati sull’uso di psicofarmaci: “I detenuti entrano sani e dopo qualche tempo hanno un crollo. L’80 per cento è sottoposto a sedazione o a trattamenti con psicofarmaci: si ammalano di reclusione. Senza contare quelli che hanno già patologie psichiche, a cui spesso fanno da assistenti i compagni di cella”. Catania. Carceri sovraffollate, spariti i fondi per il nuovo penitenziario di Melania Tanteri Quotidiano di Sicilia, 16 ottobre 2021 In “Piazza Lanza” e a “Bicocca” presente un numero di detenuti superiore alla capienza regolamentare. Aldo Di Giacomo: “Non utilizzati 27 milioni di euro per una nuova struttura da 400 posti”. Un problema vecchio di decenni ma che continua a presentarsi prepotentemente. E che la lunga pandemia da Covid-19 ha acuito, rendendo urgente l’adozione di misure che possano in qualche modo modificare lo status quo. Il sovraffollamento delle carceri resta un grosso limite del sistema carcerario dell’Italia e del meridione del paese in particolare. E la provincia di Catania non fa di certo eccezione: per quanto, secondo i dati del ministero della Giustizia alla data del 30 settembre i detenuti presenti negli istituti della provincia etnea siano in linea con la capienza di ogni casa circondariale o istituto di pene, in città la condizione invece sembra ai limiti della sostenibilità. A partire dal carcere di Bicocca dove sono presenti 191 detenuti di fronte alla capienza di 137. Ma è a Piazza Lanza, la casa circondariale nel cuore della città, a presentare la situazione più spinosa con 354 detenuti presenti a fronte del numero massimo di 279 che potrebbe ospitare. La soluzione di realizzare una nuova struttura carceraria però sembra definitivamente naufragata, come ci spiega Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato di polizia penitenziaria e che da tempo si occupa della questione e che, oggi, non può fare altro che allargare le braccia. “Dopo anni di ricorsi da parte delle ditte appaltatrici, il progetto è giunto a un binario morto - conferma. Questa è una storia davvero assurda - prosegue - in un Paese come il nostro. Il sovraffollamento era inevitabile proprio perché c’era il progetto di realizzare questo carcere da 400 posti che si sarebbe aggiunto i due presenti in città. 27 milioni messi da parte per questo - insiste Di Giacomo - e che non sono stati utilizzati quando avrebbero potuto dare una risposta alla richiesta di spazi per i detenuti, dando loro un posto degno dove scontare la pena, e per i lavoratori che operano all’interno”. Il progetto del nuovo carcere di Catania dunque si è arenato, nonostante la pandemia abbia dimostrato la necessità di aumentare gli spazi. “La pandemia non ci ha insegnato nulla - continua Di Giacomo: i detenuti continuano a vivere in spazi angusti, troppo stretti e a contatto l’uno con l’altra. Ma dei carcerati e delle carceri non interessa a nessuno - incalza il sindacalista. Che evidenzia con una situazione del genere non aiuti chi, per esempio, soffre di problemi psichiatrici o di tossicodipendenza. “Questi soggetti non dovrebbero stare in carcere - dice - eppure è lì che stanno. Ma così - insiste Di Giacomo - così non si riesce a portare avanti il principio rieducativo per cui sono state create le carceri; non si riesce ad educare nessuno. Sono solo scuole di formazione di delinquenti e il sovraffollamento, in questo senso, incide eccome”. Ma sono anche altre le carenze del sistema carcerario siciliano: problemi di acqua in estate, docce non presenti in tutte le celle. “Bicocca, ad esempio, cade a pezzi - sottolinea Di Giacomo - Piazza Lanza è vecchissimo. Il sovraffollamento è solo il colpo di grazia un sistema che già si regge in piedi a stento. Sono vent’anni che lo diciamo, eppure ogni cosa viene affrontata con provvedimenti di clemenza indulto o amnistia, che non servono a nulla”. Di Giacomo, insomma, dipinge un quadro a tinte fosche. “La Sicilia è una delle regioni che paga di più lo scotto perché è dotata di strutture più vecchie e molte presenti al centro della città” - aggiunge. Non solo il sindacalista evidenzia come all’interno delle carceri continuino a insistere delle malattie fuori sono state debellate, proprio per le cattive condizioni igieniche. “C’è la scabbia, ad esempio - afferma ancora: le carceri sono immondezzai sociali dove buttare tutti dentro e non occuparsene più. Una situazione che favorisce la criminalità: il carcere dovrebbe essere la parte terminale della carriera criminale - conclude - invece, per come sono adesso, le carceri sono luogo di mantenimento di queste attività”. Napoli. Ciambriello: 85enne detenuto a Poggioreale finalmente libero Il Roma, 16 ottobre 2021 “Apprezzamento per la professionalità dell’avvocato e per il provvedimento del gip” viene espresso dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, per la scarcerazione di G.C., 85enne detenuto nel carcere di Poggioreale a Napoli, difeso dall’avvocato Riccardo Maria Elena. Ciambriello spiega di aver seguito il caso dell’85enne ristretto in carcere dal 23 di agosto per maltrattamenti alla moglie e di essere andato spesso a trovarlo in carcere. Ciambriello ha scritto alla direzione sanitaria del carcere data “la complessità nonché la gravità delle sue condizioni di salute psicofisica. Affetto da decadimento cognitivo globale ad evoluzione cronica senza margini di miglioramento - si legge in una nota - il detenuto necessitava e necessita a tutt’oggi di un monitoraggio clinico e terapeutico costante, stante anche la sua veneranda età”. Ciambriello esprime il suo “apprezzamento per la professionalità e la responsabilità per l’avvocato d’ufficio che ha profuso notevole impegno per la soluzione del caso. Apprezzo il provvedimento del gip, non di meno dobbiamo stigmatizzare alcune posizione della magistratura, troppo frequenti, per l’utilizzo della custodia cautelare. Molte volte in evidenti casi di assenza di esigenze cautelari, assolutamente incompatibili con talune situazioni patologiche come nel caso di G.C. Il nostro auspicio, come garante, non può non essere quello di risparmiare lunghi periodi di carcerazione quando già sia la situazione sanitaria, l’età avanzata o altro, manifestano profili di incompatibilità con il carcere e la nostra Carta costituzionale”. Busto Arsizio. La coop che trova lavoro ai detenuti milanotoday.it, 16 ottobre 2021 Il primo impiego sarà nella digitalizzazione degli archivi di alcuni comuni. Rieducare a partire dal lavoro. Questa la missione de La valle di Ezechiele, la coop che si occupa di trovare lavoro ai detenuti del carcere di Busto Arsizio, comune del Varesotto non lontano da Milano. Il primo impiego sarà nella digitalizzazione degli archivi comunali di alcuni paesi della zona. Al momento sono già cinque le persone che hanno potuto trovare impiego grazie all’iniziativa; presto questo numero dovrebbe aumentare anche in virtù dei contatti con diverse aziende disposte a fare lavorare i detenuti. La coop - presieduta dall’avvocato di Saranno, Filippo Germinetti, e attiva grazie all’impegno di molti volontari - ha iniziato la sua attività durante il periodo del lockdown e al momento sta prendendo quota: il 25 ottobre sarà inaugurata ufficialmente dal ministro della Giustizia, Marta Cartabia, dopo una sua visita alla casa circondariale di Busto. “La cooperativa vuole essere occasione di vita nuova per le persone seriamente intenzionate a riparare ai danni dei propri reati, mettendosi nuovamente in gioco - ha spiegato il cappellano del carcere, Don David Maria Riboldi, ideatore della Valle di Ezechiele - e per noi lo strumento migliore per raggiungere questo è il lavoro, che poi è pure il pilastro fondante delle nostre istituzioni democratiche, come riportato all’incipit della nostra Costituzione: ‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’“. “Siamo molto grati al ministro per l’onore che ci rende, celebrando gli inizi della nostra avventura educativa - ha concluso il sacerdote -. L’ho incontrata recentemente presso il Ministero, al termine della camminata lungo la via Francigena. Abbiamo parlato di questa cooperativa e poi le ho chiesto ‘non è che verrebbe a benedirla?’ e lei mi ha risposto ‘i ministri possono fare tante cose ma non certo benedire, però se posso sarò lì per l’inaugurazione’“. La Spezia. “Mio papà fa le sedie in carcere”: il Design Galeotto di Officine 27 di Caterina Capelli designtellers.it, 16 ottobre 2021 L’articolo 27 della Costituzione Italiana stabilisce che le pene carcerarie non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ma devono tendere alla rieducazione e sancisce il diritto ad un lavoro professionalizzante a fini rieducativi per i detenuti. È proprio da questo nostro articolo 27 che prende il nome Officine 27, il brand di complementi d’arredo prodotti nel Carcere di La Spezia Villa Andreino, all’interno dell’omonimo laboratorio voluto e gestito dall’azienda di carpenteria metallica Metallica Srl che, nella persona di Giorgio Manfroni - ideatore del progetto - dal 2014 si impegna nella gestione del laboratorio carcerario e della formazione dei detenuti. Le “Officine”, infatti, sono due - una che opera all’interno del carcere e l’altra fuori - e collaborano realizzando sedute e altri arredi in metallo dal design elegante, fresco ed essenziale. La qualità estetica delle collezioni non sorprende: infatti (quasi) tutti i prodotti sono immaginati e progettati dai designer Maria Manfroni - figlia di Giorgio - e Mattia Priola, gli stessi che nel 2020 hanno deciso di creare il brand con lo scopo di comunicare la preziosa storia e gli intenti di Officine 27 - Design Galeotto. Quando i due si sono conosciuti, Mattia confessa di non aver capito subito a cosa Maria si riferisse affermando che “Mio papà fa le sedie in carcere”. Qualche giorno fa ho incontrato Maria e Mattia a Venezia - dove vivono i due - per farmi raccontare il progetto da vicino: mi hanno spiegato che il cuore di tutto è la collaborazione, la condivisione delle conoscenze e il rapporto coi detenuti che lavorano nelle Officine. Qui dentro, il Design diventa uno strumento abilitante, usato come driver di innovazione sociale, ma soprattutto come pretesto per l’inclusione e la condivisione. Chi lavora all’interno di Officine 27 viene valorizzato in base alle proprie competenze, senza differenza alcuna tra chi è dentro e chi è fuori, perché qui tutti hanno qualcosa da imparare: “Quando siamo arrivati, per noi è stata la prima esperienza diretta con macchinari (industriali) e tecniche di carpenteria, cose di cui i detenuti con cui abbiamo iniziato a lavorare erano molto più esperti di noi”. Partendo dalla sedia Dima e dalla serie Pivucì - i primi arredi ad essere prodotti, ideati dal padre Giorgio - Maria e Mattia hanno ampliato il catalogo disegnando i tavoli e altre 3 collezioni di sedute, tutte realizzate dagli artigiani-detenuti Ermal e Davide. Al team si è poi unito Francesco, fratello di Maria, che gestisce gli aspetti commerciali di un progetto che oggi continua a crescere ed evolvere e, insomma, promette bene. Quando, a partire dai disegni dei due designer, i detenuti realizzano effettivamente i prodotti, l’emozione è fortissima. “Noi siamo entrati in punta di piedi. Non volevamo arrivare lì e dire loro cosa fare, non ci siamo mai posti su un piano superiore, anzi. Loro sono artigiani e gli artigiani sono sempre un po’ cocciuti, quindi abbiamo lavorato insieme a loro scontrandoci talvolta con la loro diffidenza e al contempo con la nostra difficoltà di approcciarci a macchinari simili per la prima volta. La condivisione del sapere è alla base di tutto secondo noi e aiuta ad instaurare rapporti di fiducia”, mi dice Mattia durante la nostra colazione. E proprio perché qui la condivisione è tutto, non serve dire che i prodotti che escono da queste Officine sono carichi del valore e delle storie di chi li ha realizzati. È invece importante menzionare il fatto che gli artigiani di Officine 27 vengono retribuiti, cosa che permette loro di provvedere al proprio mantenimento in carcere e in molti casi anche di inviare denaro alle proprie famiglie: un aspetto che, pur secondario, delinea i contorni di un sistema virtuoso e sostenibile, in grado di fare del bene e di dare vita anche ad arredi di altissima qualità. Chiedo dei loro piani per il futuro e con i suoi occhi luminosi Maria mi dice che Officine 27 vorrebbe coinvolgere sempre di più i giovani, anche nella progettazione, creando collaborazioni e workshop con designer emergenti e non solo. “Perché chi oggi sta operativamente dietro al progetto è già un team di giovani professionisti”: Mattia e Maria hanno rispettivamente 31 e 26 anni. Inoltre - mi dicono - vorrebbero ampliare il catalogo realizzando nuove collezioni, aprire uno spazio creativo e portare avanti il progetto in modo sempre più capillare. Per il momento, i ragazzi di Officine 27 stanno lavorando ad un nuovo sito e-commerce in cui poter vendere online i prodotti realizzati nel laboratorio (oggi acquistabili contattandoli direttamente dal loro sito). Lo scorso settembre Officine 27 ha portato in mostra per la prima volta alcuni modelli delle sue collezioni in occasione dell’esposizione Design Antidoto 2021 a Bologna, alle Serre dei Giardini Margherita. Dal 9 al 17 ottobre i loro prodotti saranno visibili presso Combo Venezia durante Venice Design Week: vi consiglio di fare un salto. Torino. Personale al lumicino, il Tribunale dei Minori rischia la paralisi di Marina Lomunno vocetempo.it, 16 ottobre 2021 Forte allarme dei magistrati - Secondo il procuratore Emma Avezzù la riforma annunciata dal Governo sommergerà di lavoro una struttura che i tagli di bilancio hanno già ridotto all’osso: pochi magistrati per migliaia di procedimenti nel delicatissimo settore dei diritti dell’infanzia. Mercoledì 20 ottobre i Procuratori dei minorenni della Penisola hanno chiesto un incontro urgente con il ministro della Giustizia Marta Cartabia: c’è preoccupazione, come ha espresso in un recente documento l’Aimmf (Associazione italiana magistrati per i minorenni e per la famiglia), dopo l’approvazione in Commissione giustizia del Senato nelle settimane scorse, nell’ambito della riforma del Processo civile, di provvedimenti urgenti per i minori e le famiglie. La norma che ora passerà all’esame della Camera, se sarà approvata istituirà il nuovo “Tribunale della famiglia”. I magistrati minorili - tra cui Emma Avezzù, procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta - esprimeranno alla Guardasigilli i dubbi sugli effetti di una riforma (attesa da 20 anni), attuata in tutta fretta, su una materia delicata come quella che disciplina il diritto di famiglia: l’inizio di settembre ha segnato infatti la ripresa dei lavori parlamentari su dossier cruciali tra cui la giustizia civile in seguito agli impegni di riforma che l’Italia ha assunto con l’Europa sulla spinta delle risorse che arriveranno dal Recovery Fund. Ma perché l’istituzione dei Tribunali di Famiglia allarma le Procure dei Minori e quali le criticità che verranno messe sul piatto del ministro Cartabia promotore della riforma della Giustizia civile? Il procuratore Avezzù esprime le sue perplessità sulla riforma della Giustizia minorile dagli uffici della Procura, in corso Unione Sovietica 325, fortemente provata dall’emergenza Covid dove - accanto alle difficoltà contingenti delle restrizioni che non hanno permesso ad esempio le visite periodiche nelle comunità dei minori o hanno fatto lievitare le violenze domestiche in quei nuclei dove le convivenze sono problematiche - la riduzione all’osso del personale mette a rischio la tutela dei minori stessi “che è il primo compito della Giustizia minorile” avvisa Avezzù. Che aggiunge come al ministro con i colleghi farà presente innanzitutto che ad oggi non ci sono risorse sufficienti per istituire i Tribunali di famiglia, novità della riforma. “Infatti sono sempre di meno i colleghi che scelgono la giustizia minorile: o hai una forte motivazione o è difficile farsi carico tutti i giorni per tanti anni di situazioni pesanti, dove vieni a contatto con il dolore delle persone - madri e bambini vittime di violenza, minori soli abbandonati, ragazze straniere delle seconde generazioni che si ribellano alle vessazioni di culture che segregano le donne… E questi sono solo alcuni esempi” prosegue Emma Avezzù. “Decidere cosa fare in situazioni così gravi non ti fa dormire di notte e la pesante carenza di organico delle Procure minorili come la nostra, dal centralinista che non abbiamo (agli avvocati forniamo i nostri cellulari), all’autista (uno per tutto il territorio) ai cancellieri (solo due, tanto che abbiamo paura di ‘perdere le pratiche’) e soprattutto i magistrati. Al momento in servizio in questa Procura oltre a me ci sono due sostituti su 5: facciamo turni massacranti tra udienze e disbrigo dei fascicoli” denuncia il Procuratore indicando pile di faldoni accatastati nel suo ufficio. Sì, perché nonostante la pandemia i circa 3 mila fascicoli civili del 2020 ad oggi (8 ottobre ndr) sono già 3229 e nel penale dai 2023 del 2020 oggi ce ne sono da evadere 1497 ma mancano due mesi alla fine dell’anno. E poi aumentano le pratiche dei minori stranieri non accompagnati (Msna), 278 lo scorso anno mentre ad oggi sono 391. “Sono ragazzi pakistani, afgani, egiziani, nord africani che arrivano dalle solite rotte. Negli ultimi due mesi poi registriamo un incremento di arrivi di minori albanesi” La riforma andrà a regime nel 2024, ma già dopo il via della Camera previsto tra qualche mese, in attesa del Tribunale di famiglia, farà partire ad esempio controlli e tempi stretti per gli affidi dei minori al curatore speciale (il cosiddetto articolo 403 del Codice civile che prevede l’intervento e l’allontanamento dalla famiglia dei minorenni in stato di abbandono). Qui, precisa il Procuratore richiamando l’onda lunga delle vicende di Bibbiano che ha esasperato il preconcetto che i servizi sociali siano “cattivi e strappino ai genitori i figli, la riforma prevede giustamente una procedura più definita ma occorre porre attenzione a non privare i minori della tutela loro dovuta a favore degli adulti che spesso passano per vittime invece sono spesso inadeguati ad allevare un bambino”. E anche in questo caso i dati sono espliciti: in Piemonte il 55% degli allontanamenti è posto in essere per via di segnalazioni delle Forze dell’ordine soprattutto a causa di violenze domestiche, il 34% dai servizi sociali e il 12% in ospedale dove giungono mamme o ragazzini con segni di violenza o bambini, come è accaduto di recente che hanno ingerito sostanze stupefacenti usate dai genitori. “Altro che assistenti sociali che vogliono entrare nelle case per portare via a tutti i costi i piccoli. Oltretutto, alimentando questo pregiudizio, le madri per paura che ti tolgano i figli tardano a denunciare le violenze mettendo a rischio se stesse e il bambino” aggiunge il procuratore. “Del resto, la maggior parte dei minori ospiti di comunità ha un’età compresa tra i 14 e i 18 anni e sono loro a chiedere di essere allontanati dalla famiglia”. Altra criticità che verrà sottoposta al ministro è la difficoltà della riorganizzazione che prevede la riforma: intanto riconsiderare la presenza di un collegio giudicante con giudici onorari nelle pratiche di responsabilità genitoriale che la nuova norma non prevede più per questioni di spending review. “Questo significa che nelle separazioni e nei divorzi l’affido dei figli verrà deciso da un solo giudice: la giustizia monocratica con i minorenni è pericolosa perché le sfumature con i minori sono molte e complesse” sostiene Avezzù. Ma soprattutto la riforma sancisce che la giustizia minorile sarà materia di un “Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie e con un aumento delle competenze a fronte di nessun incremento di risorse: “dovremo fare tutto” conclude Avezzù che anche su questo punto solleciterà con i colleghi il ministro: “oltre a gestire il penale con i minori autori di reato, gli allontanamenti, le adozioni, gli affidi o la decadenza della responsabilità genitoriale, ci dovremo occupare che delle separazioni e dei divorzi che finora erano competenza del Tribunale ordinario”. La riforma prevede l’apertura ad esempio in Piemonte (ma non si sa con quali risorse) di 10 Tribunali distrettuali presso le attuali sedi dei Tribunali ordinari coordinati dalla Procura anche grazie al processo telematico che però è visto con preoccupazione dai giudici minorili: “I fascicoli che riguardano i minori” conclude il Procuratore spesso ci parlano di ferite, di traumi che necessitano di sguardi, di gesti, di collegialità nel decidere e la presenza è fondamentale. Un giudice monocratico non può fare tutto e così si rischia di penalizzare i minori che domani, non dimentichiamo saranno adulti”. Anche le associazioni che si occupano di Giustizia minorile, come l’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie che ha sede a Torino in via Artisti 36) si stanno mobilitando. “Spiace constatare che a nulla sono finora servite le autorevoli e preoccupate prese di posizione contrarie a questa riforma” dichiara la presidente nazionale Frida Tonizzo. “Non bastavano le negative proposte di legge attualmente in discussione alla Commissione Giustizia della Camera in materia di allontanamenti e affidamenti e l’istituzione di una Commissione di indagine parlamentare per indagare sugli affidamenti e sulle comunità per minori, ora ci ritroviamo con una proposta di riforma della giustizia minorile che ha pesantissimi limiti. Se è apprezzabile l’istituzione di un unico organo giudiziario che superi l’attuale suddivisione di competenze, è assolutamente inaccettabile l’assegnazione delle delicatissime cause minorili a un giudice monocratico a livello distrettuale che dovrebbe pronunciarsi sugli allontanamenti e sulla limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale” Mentre continuano ad aumentare le richieste alle Associazioni di famiglie affidatarie compresa la nostra di accoglienza di bambini che devono, a loro tutela, essere allontanati, conclude Tonizzo, “assistiamo a un pesantissimo rischio di disinvestimento e svalorizzazione dell’intero sistema. Anche per questi motivi lanciamo un appello perché venga stralciata alla Camera questa riforma, per arrivare a un testo “dalla parte dei bambini”. Bergamo. Dalla scrittura alla cucina: nuovi volontari per il carcere di Michele Andreucci Il Giorno, 16 ottobre 2021 Dal 4 novembre il corso di formazione per proporre le attività ai 500 detenuti. I colloqui con i detenuti, gli accompagnamenti delle persone che scontano la loro pena all’esterno, i corsi di scrittura creativa, i progetti legati alla cucina, al cucito, all’istruzione. Sono numerosi i progetti che, nel carcere di Bergamo, vedono coinvolti i volontari, una risorsa per dare una mano a una struttura penitenziaria in perenne stato di sovraffollamento (500 detenuti su una capienza massima, teorica di 315), ma anche per ridurre le distanze tra i carcerati, chi sconta pene alternative e la società che vive all’esterno della casa circondariale del capoluogo orobico. In questi giorni è partito il secondo corso di formazione per volontari, in programma da novembre e coordinato dal Centro di servizio per il volontariato (Csv), insieme al carcere di via Gleno e in collaborazione con l’associazione Carcere e territorio, la Diocesi e l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). L’anno scorso il corso aveva consentito l’ingresso in carcere di 27 volontari, che proseguiranno la loro attività anche nei prossimi mesi: l’auspicio è di poterne inserire almeno altrettanti. Il percorso, condotto in collaborazione con Ivo Lizzola dell’Università di Bergamo, prenderà il via il 4 novembre e avrà una durata di quattro incontri online. “Il volontariato - spiega la direttrice della casa circondariale di Bergamo Teresa Mazzotta - rappresenta un ponte di conoscenza tra coloro che vivono all’interno del carcere, e che spesso hanno bisogno di aiuto, e il resto della città. Finora l’adesione è stata massiccia, ed è bello che tra i tanti volontari ci siano anche giovani universitari, che possono mettere a disposizione le loro competenze”. “Il Csv - sottolinea invece il presidente del sodalizio Oscar Bianchi - si mette a disposizione della comunità, raccogliendo una richiesta che nasce dagli stessi cittadini. Da sempre il nostro ruolo è di promuovere e sostenere il volontariato nei contesti di vita: un volontariato attento e pronto a rispondere ai bisogni del territorio”. Conclude Lucia Manenti, direttrice dell’Uepe: “La presenza di volontari formati, disposti a lavorare in rete, può davvero fare la differenza”. Le iscrizioni al corso di formazione resteranno aperte fino al 29 ottobre: il modulo è disponibile sul sito bergamo.csvlombardia.it. La Spezia. “Per Aspera ad Astra”, il teatro in carcere torna “libero di uscire” di Enea Conti Corriere della Sera, 16 ottobre 2021 Riparte da Sarzana (Sp) la rete nazionale di “Per Aspera ad Astra”Dopo venti mesi di chiusura i detenuti di nuovo in scena all’esterno. “Mai fermati del tutto, ma ritrovarsi sul palco è come respirare”. Già il nome del teatro era meraviglioso: il Teatro degli Impavidi. Poteva esserci un posto più adatto per far ripartire (cioè, al chiuso delle loro mura non si sono mai veramente fermati, ma insomma fuori è un’altra cosa...) un allestimento vero, per un pubblico vero, portato in scena dagli attori-detenuti della casa circondariale di La Spezia? E invece dopo quasi due anni eccoli di nuovo sul palco. Il teatro era quello di Sarzana, lì vicino, qualche giorno fa. Lo spettacolo era il primo studio di “Operine… con un tragico sorriso sulle labbra”. E il loro lavoro è stato frutto della terza annualità - ma anticipa allo stesso tempo l’avvio della quarta - del progetto “Per Aspera ad Astra”: già descritto su Buone Notizie in più di una occasione e la cui ripresa esterna, tuttavia, dopo il lungo blocco da Covid vissuto nelle carceri ancora più che nel cosiddetto mondo normale è una notizia non solo nuova bensì buona al quadrato. “Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, è il sottotitolo del progetto. Promosso su tutto il territorio nazionale e al quale partecipano, oltre a Fondazione Carispezia sostenitrice di questa esperienza in particolare, altre dieci Fondazioni bancarie italiane con il coinvolgimento di quattordici istituti di pena. Il percorso teatrale all’interno della casa circondariale ligure “Villa Andreino” è curato fin dalla prima edizione dall’Associazione Gli Scarti, che in questo ambito del mondo carcerario ha già al suo attivo non solo lo spettacolo teatrale “Incendi”, fatto a La Spezia nel 2019, ma anche il mediometraggio “Ciò che resta, appunti dalla polvere”, realizzato dopo il primo lockdown e presentato invece a Sarzana come il lavoro di adesso. Lo scopo generale del progetto non si limita alla proposta di un arricchimento culturale per i detenuti coinvolti ma è l’occasione, per chi tra loro vuole o ne sviluppa la passione, di percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Che non comprendono soltanto il “fare l’attore” o il drammaturgo ma tutta la categoria delle attività di scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Ispirata all’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo, questa iniziativa ha dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. A rendere fattibile e a nutrire di anno in anno questo progetto si è creata nel tempo una inedita comunità, composta da soggetti diversi e in apparenza assai distanti tra loro quali Fondazioni di origine bancaria, direttori e personale di istituti di pena, compagne teatrali, e appunto detenuti. O ex detenuti che una volta usciti - e qui sta buona parte del frutto finale, quando succede - continuano a restare attaccati al mondo del teatro senza più riuscire a mollarlo. Quello presentato al Teatro degli Impavidi di Sarzana è stato un “primo studio” di uno spettacolo che nel corso della prossima edizione del vorrebbe indagare e approfondire le forme del “comico grottesco” attraverso lo stile popolare del Varietà. “Con la passione dell’associazione Gli Scarti - sono parole di Andrea Corradino, presidente della Fondazione - possiamo portare avanti questa esperienza nazionale anche sul nostro territorio. La cultura e la bellezza del teatro offrono ai detenuti un’occasione di riscatto personale e di formazione professionale e, allo stesso tempo, creano un dialogo tra “dentro” e “fuori”, che può aiutare a ridurre le distanze tra questi due mondi apparentemente separati e a scardinare pregiudizi e paure”. “Durante i mesi della pandemia - spiega Andrea Cerri, presidente de Gli Scarti - abbiamo potuto convertire il laboratorio teatrale in esperienza cinematografica, grazie naturalmente alla grande disponibilità della direzione del carcere e lavorando anche in streaming, su connessioni protette. Ma è chiaro che aver potuto riprendere a trovarsi dal vivo, e soprattutto poter portare di nuovo i ragazzi fuori, anche per le prove, in un teatro vero, è stato come ricominciare a respirare: tutt’altra cosa anche per la costruzione di un gruppo. Il carcere da noi non dispone di uno spazio dedicato, le prove si fanno in una cappella. Ma quando loro vengono in teatro tirano fuori un rigore superiore a quello di molti professionisti. E la cosa straordinaria - conclude Cerri - è che malgrado il luogo di provenienza di questi ragazzi sia un carcere, quindi un posto di “regole” per definizione, la loro disciplina e la loro serietà di lavoro si moltiplicano per dieci in un ambiente come il teatro. Che paradossalmente, chi lo pratica lo sa bene, ha regole anche più dure. Ma è lì che la passione vince”. Rapporto Caritas, un terzo dei nuovi poveri Covid ancora non ce la fa di Valentina Conte La Repubblica, 16 ottobre 2021 “Il Reddito di cittadinanza non va abolito, ma ripensato e rafforzato”. C’è un “Long Covid” anche nella povertà. La pandemia ha creato in Italia un milione di poveri assoluti in più. Giovani, coppie, minori, italiani: tanti volti nuovi ai centri di ascolto Caritas, ma solo uno su cinque ha il Rdc. La povertà inedita, come tenaglia: facile scivolare, complicato uscirne. Un terzo dei nuovi poveri emersi in pandemia ancora oggi non ce la fa. La loro povertà si è “ossificata”. Esiste dunque un “long Covid” anche nella povertà. Lo racconta la Caritas nel suo ventesimo Rapporto 2021 dal titolo “Oltre l’ostacolo”. La pandemia ha “sparigliato le carte”. Chi era in bilico, chi galleggiava è finito dentro. Chi era dentro non riesce a uscire. È “l’effetto tenaglia”. Per questo la Caritas chiede alla politica di “non strumentalizzare la povertà”. E di ripensare il Reddito di cittadinanza, ma per “riorientarlo verso i poveri assoluti” che ancora ne sono esclusi perché “il futuro delle politiche contro la povertà nel nostro Paese è oggi più che mai legato al buon funzionamento di questa misura”. Un messaggio implicito a quanti, come Lega e Italia Viva, vogliono abolirlo per referendum. E nel frattempo polemizzano sul rifinanziamento da 200 milioni. Il record dei poveri - Solo in Italia si contano oltre un milione di poveri assoluti in più rispetto al pre-Covid: 5,6 milioni in totale, pari a 2 milioni di famiglie. Tra di loro, un milione e 337 mila minori non hanno l’indispensabile: la forma più iniqua di disuguaglianza, perché incolpevole. Nel 2020 il Reddito di cittadinanza - “una misura di reddito minimo a lungo attesa”, la definisce la Caritas - ha supportato 3,7 milioni di persone. Ma “più della metà delle famiglie in povertà assoluta non riceve il Rdc e di quelle che lo incassano il 36% vive in condizioni di disagio economico, ma non si trova in povertà assoluta”. Ecco perché lo strumento va ritarato: ampliato per chi ne ha più bisogno, asciugato per chi ne ha meno e merita aiuti di altro tipo come un più incisivo avviamento al lavoro. I due terzi dei beneficiari di Rdc non ha estratti contributivi nel biennio 2018-2019: non lavora da tempo. Il 21% non ha mai lavorato. Il 72% ha al massimo la licenza media. Il 20% non sa come si cerca un lavoro. Il 78% è incapace di fare una domanda di lavoro o sostenere un colloquio. I nuovi poveri - La Caritas nel 2020 ha supportato 1,9 milioni di persone: una media di 286 per ciascuno dei 6.780 servizi promossi o gestiti in tutta Italia, grazie a 93 mila volontari e 800 ragazzi del servizio civile. Nei centri di ascolto sono state monitorate 211.233 persone incontrate e sostenute nei momenti più terribili della pandemia. Il 44% non si era mai rivolto alla Caritas prima. Quote di povertà “inedite”, le definisce il Rapporto. Dal punto di vista territoriale, con le incidenze più alte dove non te l’aspetti: Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, oltre a Campania, Lazio e Sardegna. E anagrafico, col 58% nella fascia 18-34 anni. I nuovi poveri sono famiglie giovani che lavorano, con figli minori e redditi insufficienti per i bisogni. Nel 2020 cresce di quasi due punti (dal 25,6 al 27,5%) anche la quota di poveri cronici, in carico al circuito Caritas da cinque anni e più. L’età media è 46 anni. Il 57% ha al massimo la licenza di terza media. Nuovi e vecchi poveri nella stessa tenaglia. Ma solo uno su cinque con il Rdc in tasca. Il Long Covid della povertà - Nei primi otto mesi del 2021 l’emergenza non è ancora finita. Il 70% dei nuovi poveri del 2020 - rivela il Rapporto - non ha fatto più ricorso ai servizi Caritas. Un’ottima notizia per queste persone, se davvero si sono rimesse in piedi e hanno intercettato la ripresa economica. Ma a preoccupare è quel 30% che non ce la fa ancora. Oltre al numero di persone assistite, in crescita del 7,6% sul 2020, e alla quota di chi vive forme di povertà croniche che sale al 27,7%. Preoccupa anche la situazione dei poveri intermittenti (19,2%) che oscillano nella loro condizione di bisogno tra il “dentro-fuori”, in balia degli eventi più di altri: basta una separazione, il precariato, la perdita del lavoro a precipitarli nel baratro della povertà. L’Agenda Caritas per il riordino del Rdc - I profili inediti della povertà, il suo ossificarsi in vasti strati della popolazione, la sua continua evoluzione portano la Caritas a proporre interventi allo stesso tempo espansivi e restrittivi per correggere il Reddito di cittadinanza, come unico strumento di contrasto alla povertà esistente in Italia. L’obiettivo è quello di arrivare a tutti i poveri assoluti per poi passare ai poveri relativi, ovvero sostenere per primi i più poveri dei poveri, chi fatica a sostenersi per poi supportare anche il disagio economico. Tra gli interventi additivi: ampliare alcuni criteri di accesso, come diminuire il numero di anni di residenza richiesti (oggi sono 10), innalzare le soglie del patrimonio mobiliare, alzare le soglie economiche al Nord, introdurre una scala di equivalenza meno discriminatoria verso le famiglie numerose. Tra gli interventi sottrattivi: restringere alcuni criteri di accesso, come abbassare le soglie economiche dell’assegno per i single e i nuclei di due persone. Dall’antifascismo all’alternativa il passo non è breve di Luciana Castellina Il Manifesto, 16 ottobre 2021 Mai sottovalutare lo squadrismo, e la storia ce lo insegna. Ma poi è il logoramento della nostra democrazia che alimenta la confusione mettendo l’”io” al posto del “noi”. “Il fascismo è la finanza”, ha gridato Di Battista nell’ultima apparizione della sua intermittente presenza politica, questa volta in difesa, non si capisce bene, se dei “no vax” o di Forza Nuova. Come dargli torto? Se andiamo alla sostanza del fascismo - le forme variano, si sa - troviamo senz’altro la stessa sostanza del capitale finanziario: l’arbitrio, il razzismo, la prevaricazione, il disinteresse per l’umanità e dunque l’indifferenza per le disuguaglianze e per la illibertà. Lo stretto rapporto fra potere finanziario e fascismo non è del resto una nuova scoperta: in ogni decente libro di storia si può rintracciare il silenzioso appoggio fornito dai poteri forti, fra cui primeggia quello economico, alle prime bande squadriste. (Non solo in Italia: è illuminante la similitudine con la crescita del nazismo in Germania.) Bande che per stare al nostro Paese, si sa bene che ripagarono subito il sostegno dando l’assalto - vedi caso - non alle sedi delle grandi Banche o a quelle Confindustriali, ma proprio alle Camere del Lavoro, che quei poteri forti cercavano di fronteggiare. Se andiamo alla sostanza del fascismo la lista dei mandanti sarebbe, ahimè, ben lunga. E certo non ne sarebbero in cima, come maggiori responsabili, Castellino e Fiore, loro sono solo manovali al servizio, per l’appunto, della grande finanza. E però c’è un dettaglio che il ribelle delle 5 Stelle sembra ignorare: quegli sgangherati gruppuscoli che animarono la Marcia su Roma e che picchiarono e anche ammazzarono i dirigenti sindacali, incendiandone le sedi, benché pochi e sbandati, sono stati essenziali alla vittoria di Mussolini e di chi, assieme a lui, aveva capito che in una fase di drammatica crisi sociale come quella degli anni successivi alla prima guerra mondiale, sarebbe bastata una scintilla a produrre un incendio. La loro iniziativa divenne in questo senso preziosa. Ed è per quanto di analogo può esserci oggi per via della deflagrante ineguaglianza e inadeguata risposta a bisogni primari di tanta parte della società perdipiù dentro la pandemia, che la violenza di Castellino, Fiore, Casa Pound e simili va presa in seria considerazione. Perché nel contesto attuale anche drappelli possono essere pericolosi come furono gli squadristi del 1921. Loro, e chi fa finta di non capire, o si nasconde (avete visto Michetti che, dopo i suoi illuminati giudizi sui banchieri deportati ad Auschwitz, si è presentato come un paladino di De Gasperi, un bravo bambino educato negli oratori?). Per questo sono pericolose, non solo in Italia, le formazioni che pur negando di essere fasciste, sottovalutano il rischio di episodi come quelli recenti verificatisi in Italia in questi ultimi giorni. Un po’ più di storia recente sarebbe importante che si insegnasse davvero nelle scuole. Anche se purtroppo non basterebbe a evitare i pericoli, ormai evidenti, di una rapida degenerazione di quanto resta del nostro sistema democratico. Se oggi è difficile capire come sia possibile il fenomeno di una così vasta e pretestuosa protesta anti vax, in cui trovano spazio fascisti ma anche compagni portuali, è perché questa nostra democrazia è stata già logorata, anzi svuotata, e ha prodotto una disaffezione non solo verso le istituzioni, una sfiducia profonda, ma anche una distanza di ognuno rispetto all’altro, una diffidenza verso tutto ciò che è declinato al plurale - la collettività - cui si sostituisce un’idea ombelicale della libertà. Per questo la via da battere oggi non può essere solo il richiamo all’antifascismo, pur indispensabile, perché aiuta a conoscere la storia e a prendere coscienza del rischio che si ripeta, ma quella più lunga e difficile, ma essenziale, della ricostruzione del “noi”, del senso di appartenenza, della responsabilità collettiva. Che non sono parole, ma lotte: perché la salute non si presenti solo come obbligo di vaccino ma come sistema pubblico che ognuno trova in ogni quartiere e lo aiuta; perché la scuola non sia solo regole ma una delle sedi dove i giovani ma anche i loro genitori si incontrano, si parlano, imparano a capirsi e a capire ed agire insieme; perché il lavoro non sia una condanna, sia quando se ne è privati sia quando si ha il privilegio di averne ma così come è non dà, non può dare, reale soddisfazione - quando non dà anche morte e malattie. Per un secolo riformisti e rivoluzionari si sono scontrati e divisi fra socialdemocratici e comunisti. Molto del dissenso ruotava attorno ai modi di accedere al potere, presa del palazzo d’Inverno o elezioni parlamentari. Quel confronto appare oggi a tutti lunare, perché il potere da combattere non sta più a Palazzo Chigi e conquistarlo non servirebbe a molto. E però una differenza rimane e dovremmo avere più coraggio nel renderla evidente: ed è proprio quella di credere, e dunque impegnarsi, in un progetto che affronti i temi di fondo del vivere insieme. E per questo chiedere che il pubblico diventi gestione collettiva e non delega allo Stato e che questa proprietà comune diventi prevalente su quella privata; che il lavoro sia sempre meno dipendente, merce, e cioè non alienato; che il valore d’uso prevalga su quello di scambio. E cioè la cura - non più servitù femminile - sostituisca via via il mercato. Solo, insomma, se ricostruiamo una collettività vera, un sistema in cui ciascuno possa apprezzare i vantaggi dello stare assieme contro l’avarizia dell’individualismo, potremo ottenere che tutto, compreso il green pass, venga avvertito come autodisciplina e non come sopruso. Oggi, alla sacrosanta manifestazione antifascista in solidarietà con la Cgil, insieme alla richiesta di rendere illegali le formazioni neofasciste, dovremmo portare anche questo impegno più lungo, ma più capace di riaccendere la voglia di alternativa. Lo facciamo con convinzione, perché la Cgil, per il modo come ha risposto all’aggressione, ha mostrato in questi giorni di aver pienamente compreso sia da dove viene oggi il pericolo fascista, sia quale siano le dimensioni dell’impegno necessario a contenerlo. Esser rivoluzionari e non riformisti ha a che vedere oggi con la qualità dell’alternativa che si propone. I pro e i contro di un decreto su Forza Nuova di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 ottobre 2021 La questione della natura fascista di organizzazioni come Forza Nuova e la proposta di scioglierla può essere discussa cominciando da un fatto dal sapore identitario: la visita che il presidente del Consiglio Draghi ha fatto alla sede della Cgil vandalizzata da una folla guidata da esponenti di quel movimento. Non è stata una visita di cortesia, ma un esplicito gesto di parte: dalla parte della Costituzione. Fa venir in mente quello del presidente Mattarella, che appena eletto, prima ancora di recarsi al Quirinale, andò alle Fosse Ardeatine. Perché l’Italia repubblicana è antifascista, ora come nel 1948, quando la Costituzione entrò in vigore. Naturalmente non ci si riferisce ora al fascismo come regime storico, del ventennio. Ma alla sua realtà ideologica. Calamandrei, discutendo in Assemblea costituente (4 marzo 1947) i caratteri della azione politica dei partiti e del connesso divieto di ricostituzione del partito fascista, suggerì di non fermarsi al nome del partito, ma di andare alla sostanza e indicare come inconciliabile con la Costituzione un’associazione che si dia una organizzazione paramilitare, che abbia un programma di violenze contro i diritti di libertà, di totalitarismo e di negazione dei diritti delle minoranze. Fascismo, appunto, ma nelle forme e occasioni consentite da un contesto sociale e politico nuovo rispetto a quello di un cui il fascismo storico sorse, si affermò e porto infine l’Italia alla rovina. La Costituzione democratica stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Per chiarire la ragione che spinse ad inserire nella Costituzione il divieto di ricostituzione del partito fascista, non c’è solo l’occasione storica, che indica la radice della Costituzione nella contrapposizione al regime fascista, ma anche la fondamentale opposizione alla sua ideologia. In “La dottrina del fascismo” (1933), Benito Mussolini ha proclamato che, se “il liberalismo nega lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare, il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo. Il fascismo è per la libertà, ma la sola libertà che possa essere una cosa seria, è la libertà dello Stato e dell’individuo nello Stato. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato… è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno”. Aggiungendo poi “né individui fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)”. I sindacati, appunto, la cui aggressione dell’altro giorno richiama quelle che hanno accompagnato l’origine del fascismo e assume quindi il carattere di una rivendicazione ideologica. Si spiega allora perché la Costituzione pone un limite alla libertà di associazione politica e lo stabilisce proprio e solo per il partito fascista. Fuori di esso, per tutti gli altri, c’è e basta il codice penale, che colpisce gli atti di violenza e le intimidazioni, punendole anche quando siano politicamente motivate. Le democrazie devono potersi difendere. L’esperienza che ha vissuto l’Europa spiega perché un testo liberale come la Convenzione europea dei diritti umani escluda dal suo campo di applicazione ogni azione di Stati, gruppi o persone che agiscano per la distruzione dei diritti e libertà che essa tutela. Così la libertà di espressione non riguarda l’apologia di regimi totalitari e l’istigazione alla violenza o alla discriminazione razziale. E la Corte europea ha ritenuto giustificato lo scioglimento in Francia di organizzazioni parafasciste. Per rendere effettivo e concretamente praticabile il divieto di partiti i movimenti fascisti, è intervenuta la legge del 1952, che stabilisce cosa si debba intendere per riorganizzazione del partito fascista. “Si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principii, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Sono puniti i promotori, gli organizzatori, i dirigenti ed anche i partecipanti a quei movimenti e le pene sono aggravate se fanno uso della violenza. Lo scioglimento di simili associazioni o movimenti è disposto dal ministro dell’interno se vi è una sentenza che accerta la riorganizzazione del partito fascista o, in caso di urgenza, dal governo con il decreto-legge. Dopo i fatti di Roma v’è chi sollecita il governo a provvedere con un decreto-legge (che andrebbe poi convertito in legge dal Parlamento). E, come ha detto il presidente Draghi, il governo sta riflettendo, mentre è in corso una indagine della magistratura. Tutto quanto detto sopra a proposito della legittimità del contrasto ai movimenti di carattere fascista, apre il discorso sull’uso dello strumento dello scioglimento. Non lo chiude. Poiché non tutto ciò che è legale è anche opportuno e saggio, per modi e tempi. Tanto più quando, come ora, le tensioni sono alte, muovono masse e sono stimolate da moventi sociali e politici che nulla hanno a che vedere con il fascismo. Esse possono essere eccitate, come a Roma, dai fascisti e strumentalizzate. Ma sarebbe ingiustificato e cieco davanti alla realtà omologare tutto sotto una etichetta fascista e lanciare il messaggio che il problema si risolva con l’invio alla clandestinità o al cambio di nome di un gruppetto di fascisti violenti, di cui comunque si occupa il codice penale. L’arcipelago di violenza dei Cpr rende gli stranieri dei nemici di Rita Rapisardi Il Domani, 16 ottobre 2021 Harry (20 anni), Hossain Fasal (32 anni), Aymen Mekni (33 anni), Vakhtang Enukidze (38 anni), Orgest Turia (28 anni) Moussa Balde, (23 anni): a loro è dedicato il rapporto “Buchi neri. La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr)”, di Cild, Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili. I sei uomini sono morti negli ultimi due anni all’interno dei Cpr italiani. “Colpevoli di viaggio”, c’è scritto. La dura realtà dei dieci centri sul nostro territorio è fotografata in quasi 300 pagine: detenzione, diritti, enti gestori, salute, fino ai mesi del Covid. Niente si salva di queste prigioni pensate per espellere gli stranieri senza regolari documenti. Anche se negli anni hanno cambiato nome, la sostanza è rimasta immutata: sono luoghi di sofferenza, opachi, dalla giurisdizione straordinaria, nascosti agli occhi di tutti. Grazie ai quali, denuncia l’associazione, gli “stranieri sono stati progressivamente trasformati nei nuovi nemici, trattati peggio dei criminali”. Non è stato semplice entrare in questi luoghi tenuti all’oscuro e, sottolinea il rapporto, alla richiesta al ministero dell’Interno di autorizzare una sua delegazione ad accedere, è seguito il silenzio. Torino, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Ponte Galeria (Roma), Caltanissetta, Trapani, Bari, Brindisi Restinco, Palazzo San Gervasio (Potenza) e Macomer (Nuoro), sono i dieci centri attualmente attivi, con 1.100 posti. Non si sono fermati neanche durante la pandemia, nonostante le frontiere chiuse e l’impossibilità di attuare rimpatri. Illegittimità, discrezionalità e mancanza di diritti: quello dei Cpr è un intero modello da ripensare. Anche alla luce del loro scopo: basti pensare che meno del 50 per cento dei trattenuti è rimpatriato, gli altri, scadute le tempistiche di detenzione, tornano fuori, spesso dando il via a un loop tra libertà e sbarre. “Va sempre ricordato che lo stato non è proprietario esclusivo della vita delle persone che custodisce forzatamente. Lo stato, e nel caso dei Cpr i loro gestori privati, deve assicurare il rispetto della dignità umana di ciascuno degli ospiti presenti e deve rendere conto alla società esterna circa il modo in cui gestisce questi luoghi”, denuncia Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. La gestione dei centri da parte degli enti privati permette a grandi multinazionali di aggiudicarsi appalti a ogni bando meno dispendiosi, diminuendo numerosi servizi verso i migranti. Un business consentito dallo stato, che, talvolta, delega anche l’onere sanitario. La Cild ha calcolato che nel periodo 2018-2021 sono stati spesi 44 milioni di euro (nello specifico 43.964.512 euro, esclusa l’Iva) per la gestione da parte di soggetti privati, cui vanno sommati i costi del personale di polizia e quelli relativi alla manutenzione delle strutture. I più costosi sono stati Roma e Torino. Quello della capitale, conosciuto come la “Guantanamo italiana”, aperto nel 1998 e unico in cui fanno accesso anche le donne, è stato spesso teatro di contestazioni, scioperi della fame e rivolte da parte dei trattenuti: come la “protesta delle bocche cucite” del 2013, messa in atto per denunciare le condizioni di vita inumane di Ponte Galeria. Quello piemontese è tristemente noto perché tra le sue mura negli ultimi due anni sono deceduti Hossain Faisal e Musa Balde. Entrambi avrebbero avuto bisogno di assistenza psicologica. Anche gli avvocati, a cui Cild ha sottoposto numerose domande attraverso dei questionari mirati, confermano mancanze sul piano informativo e difensivo, per cui anche far valere i propri diritti di detenuto appare impossibile. Le ore di informazione normativa a settimana sono poche. Nel centro di Macomer sono otto, che si traducono in nove minuti a detenuto. Interpreti o traduttori non assistono agli incontri, anche quando ce ne sarebbe necessità. Nel 2020 sono transitati nei Cpr italiani 4.387 persone (di cui 223 donne) e di queste ben 2623 erano di nazionalità tunisina. La seconda nazionalità più numerosa è quella marocchina (240), seguono nigeriani (204), egiziani (125), albanesi (110), gambiani (101) e algerini (97). Detenzione dei migranti, un business per i privati di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 ottobre 2021 Centri di permanenza per il rimpatrio. Il rapporto della Cild. Dal 2018 spesi 44 milioni di euro per recludere persone che non hanno commesso reati. Dal 2018 a oggi lo Stato italiano ha speso 44 milioni di euro per la detenzione di circa 400 migranti al giorno che non avevano commesso alcun reato. Queste persone sono finite dietro le sbarre dei 10 Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) per essere rimpatriate nel loro paese di origine: nella metà dei casi non è mai avvenuto. I conti, a cui andrebbero aggiunte le spese di manutenzione delle strutture e per la presenza delle forze dell’ordine, li ha fatti la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) nel rapporto Buchi neri. La detenzione senza reato nei Cpr. Uno studio monumentale firmato dagli avvocati Federica Borlizzi e Gennaro Santoro che in 293 pagine traccia prima la storia della detenzione amministrativa in Italia, che affonda le radici nel decreto Dini del 1995 e nella legge Turco-Napolitano del 1998, e poi fotografa con dovizia di numeri e dettagli i tanti problemi che il sistema genera dal punto di vista giuridico, economico, funzionale, sanitario. C’è una dinamica doppia che tende a stritolare le vite di chi finisce in questi luoghi: lo Stato cerca di minimizzare i costi, gli enti gestori di massimizzare i profitti. Nonostante l’ordinamento italiano sia contrario alla privatizzazione delle carceri, infatti, i Cpr sono in mano a privati che hanno l’obiettivo di guadagnare dalla reclusione dei migranti. Nel rapporto si legge come due cooperative che gestiscono tre strutture, la Edeco poi diventata Ekene per Gradisca e la Badia Grande per Bari e fino a poco tempo fa Trapani, siano “attualmente oggetto di importanti inchieste giudiziarie per la mala-gestione di Cpr o centri d’accoglienza”. Parallelamente negli ultimi anni il mercato della detenzione ha attirato le mire di vere e proprie multinazionali del settore. Come Gepsa e Ors, che gestiscono i Cpr di Torino e Macomer ma nel corso degli anni hanno avuto appalti anche per Cara, Cas ed ex Cie in diverse regioni italiane. Le loro società madri, Engie Francia e Gruppo Ors con sedi rispettivamente in Francia e Svizzera, sono affermate a livello europeo: la prima fornisce servizi ausiliari in 22 strutture penitenziarie transalpine, la seconda è titolare di centri di accoglienza e trattenimento in Svizzera, Germania, Austria e Italia. Nel libro degli orrori della detenzione amministrativa, poi, hanno un posto di riguardo i trattamenti sanitari riservati ai trattenuti: esclusi dal servizio sanitario nazionale e offerti da medici convenzionati con gli enti gestori; crollati nel monte ore dal 27,1% al 78% rispetto a prestazioni mediche e psicologiche nel passaggio dal capitolato d’appalto 2017 a quello 2018-2021. Un focus a parte merita l’abuso di psicofarmaci e ansiolitici che riguarda l’80% dei migranti a Milano, il 65-70% a Roma e il 70% a Gradisca. Questi delicati prodotti sono gestiti da infermieri e psicologi incaricati dall’ente gestore, non c’è alcun controllo pubblico. “Magari un calmante in più faceva comodo per tenere tutti tranquilli”, ha raccontato un’ex operatrice della struttura di Gradisca. “C’è il rischio di piegare il trattamento farmacologico a inaccettabili esigenze di disciplinamento”, ha affermato Borlizzi nella conferenza stampa di presentazione tenutasi ieri al Senato. Tra gli interventi anche quello del senatore Gregorio De Falco (gruppo misto) che ha annunciato la costituzione di una pattuglia di parlamentari che monitorerà costantemente tutte e 10 le strutture. Per il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma i problemi più urgenti sono stabilire una tutela giurisdizionale sui trattenuti nel Cpr e un controllo del Ssn sui servizi sanitari. Palma, però, ha anche ricordato che la strategia complessiva che punta sui rimpatri è da ripensare: lede diritti fondamentali e costa un sacco di soldi. Molto meglio l’integrazione. Migranti. Dal mare al carcere, rapporto sugli scafisti per caso di Andrea Turco Il Manifesto, 16 ottobre 2021 Denuncia dell’Arci di Palermo e di Alarm Phone: dal 2013 oltre 2.500 i migranti arrestati. Accusati di reati gravi, sono spesso persone vittime e colpevoli di aver guidato un barcone. “Ho fatto due anni di prigione per aver guidato una barca. Ho salvato la vita di quelle persone, non avevamo altra scelta. Ora vogliamo lottare per la libertà e i diritti umani di altri migranti imprigionati ingiustamente”. Cheikh Sene è un attivista del circolo Arci “Porco Rosso”, che si trova nel cuore di Ballarò, il quartiere più multietnico di Palermo. Nonostante i due anni di prigionia, quello di Cheikh può ritenersi persino un percorso fortunato. Perché almeno può raccontare la propria esperienza. C’è chi invece, oltre all’ingiustizia vera e propria della detenzione, subisce silenzi e ostracismi che continuano nel tempo. Sono gli scafisti, categoria ormai diventata concettuale, quasi mitologica, nella narrazione mainstream che viene fatta sulle migrazioni. Additati come gli unici responsabili degli sbarchi, ora un rapporto coraggioso ne denuncia la criminalizzazione, a cui aggiunge ogni volta l’aggettivo “cosiddetti”. Si tratta della ricerca “Dal mare al carcere”, realizzata dal Porco Rosso e da Alarm Phone attraverso un incrocio di dati derivanti dai report annuali delle forze dell’ordine, dalle testimonianze dirette raccolte dagli attivisti delle due associazioni e dalla consultazione degli articoli di stampa. Si scopre che dal 2013 oltre 2500 persone sono state arrestate con l’accusa di essere appunto i famigerati scafisti. I capi di imputazione sono vari: si va dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina all’omicidio plurimo (nel caso in cui l’imbarcazione affonda o si ribalta) all’associazione per delinquere, con la magistratura antimafia che li indica come esponenti di organizzazioni più radicate. Maria Giulia Fava, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, denuncia che “si tratta di processi politicamente condizionati. Nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei principi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale vengono con leggerezza violati”. Ma chi sono queste scellerate figure? Il report indica uno “spettro di capitani”, vale a dire persone che hanno condotto le imbarcazioni per vari motivi: o per migrare anche loro, o perché sotto minaccia di violenza, o dietro pagamento di un compenso. In ogni caso Alarm Phone e Porco Rosso, anche di fronte ai casi odiosi (che pure esistono) di sfruttamento e lucro, indicano che è necessario condannare “la criminalizzazione della migrazione in sé e per sé, sulla quale si fonda il sistema che produce tutte queste situazioni”. Concentrare le attenzioni sugli scafisti, e per giunta esclusivamente quelle penali, assolve le responsabilità politiche sui motivi che causano i fenomeni migratori. E crea migliaia e migliaia di reietti, perché i problemi di chi viene condannato, o anche soltanto accusato, per aver guidato una barca non si esauriscono con il carcere. “Viene fuori che una persona che è stata condannata come scafista ha grandissime difficoltà nella richiesta della protezione internazionale”, si legge ancora. Najla Hassen, mediatrice interculturale di Medu Sicilia, racconta il caso di “un detenuto che aspettava la fine della condanna per prendere un caffè al bar di fronte al carcere”. Durante la prigionia l’uomo aveva conseguito la licenza media, era stato quel che si dice un detenuto modello. Fuori dal carcere, però “ad attenderlo non c’era una seconda possibilità, ma una volante che lo accompagna a un centro per il rimpatrio”. Alla colpevole semplificazione delle istituzioni, la ricerca condotta dalle associazioni risponde con una lunga serie di richieste: dalla riduzione dell’ambito di applicazione dell’art.12 del Testo Unico Immigrazione (il reato additato agli scafisti di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”) alla tutela dei diritti di indagati, imputati e testimoni. Il punto centrale resta l’abolizione delle frontiere. Per Sara Traylor, attivista di Alarm Phone, “mandare le persone in prigione non fermerà la migrazione né la renderà più sicura”. Migranti, dubbi sugli scafisti condannati come trafficanti di Marta Bellingreri Il Domani, 16 ottobre 2021 Il report di varie Ong “Dal mare al carcere” ha studiato le vicende processuali di chi viene accusato per la tratta dalla Libia: spesso le indagini non riescono ad attribuire chiare responsabilità, ma i processi si concludono con pesanti condanne. La famiglia di Tareq vive a Bengasi, ed è dalla Libia che è partito nell’estate del 2015 per proseguire la sua carriera di calciatore. Adesso è condannato per omicidio. Il caso di Tareq è uno degli oltre 2.500 casi di “scafisti” che in Italia sono stati arrestati dal 2013 con l’accusa di aver condotto le barche o aver contribuito all’organizzazione dei viaggi illegali. Ogni venerdì Tareq attende la videochiamata della famiglia, da quando la pandemia ha permesso ai detenuti che non potevano più ricevere visite di usare questo mezzo di comunicazione. La famiglia di Tareq vive a Bengasi, ed è dalla Libia che è partito nell’estate del 2015 per proseguire la sua carriera di calciatore. Già giocatore nel Tahaddi Benghazi, aveva deciso di unirsi ai migranti che convergono in Libia per un passaggio verso l’Europa. È stato condannato a 30 anni di carcere per traffico di esseri umani e per omicidio. Il caso di Tareq è uno degli oltre 2.500 casi di “scafisti” che in Italia sono stati arrestati dal 2013 con l’accusa di aver condotto le barche o aver contribuito all’organizzazione dei viaggi illegali. L’associazione Porco Rosso di Palermo e la rete Alarm Phone, con la collaborazione di Borderline Sicilia e Borderline-Europe, hanno analizzato i dati della polizia italiana e ascoltato le persone coinvolte per il report Dal Mare al Carcere. Almeno venti soggetti su mille casi studiati hanno ricevuto pene superiori ai venti anni e sette l’ergastolo. Nel caso di strage in mare, come quando viaggiava Tareq, la condanna è anche per omicidio. Dallo studio di carte processuali e sentenze emerge un fenomeno di criminalizzazione del migrante. “Questo è il chiaro fallimento delle politiche migratorie che vorrebbero contrastare l’immigrazione irregolare”, dice l’avvocata Germana Graceffo, esperta di immigrazione. Ci sono vari tipi di “scafisti”: migrante-capitano forzato, costretto spesso con la violenza a guidare la barca; migrante-capitano per necessità, che si trova a guidare in condizioni di alta pericolosità del mare; migrante-capitano mercenario, che non fa parte del business dei trafficanti, ma che riceve un vantaggio, come portare delle persone a bordo senza pagare; e infine il capitano capo dell’organizzazione che trasporta per un tratto di mare i migranti e rientra subito, l’unico che non rischia l’arresto. La polizia vuole sapere chi ha guidato la barca e non approfondire la dinamica dell’incidente. L’uniformazione dei profili target delle indagini, talvolta con pre-identificazione cromatica dei colpevoli da parte della polizia giudiziaria (i migranti nordafricani sono i carnefici, quelli subsahariani le vittime), e i capi d’imputazione identici nei vari processi dimostrano quanto poco si consideri la singolarità delle storie. Era il 15 agosto 2015, Tareq aveva 20 anni: durante il tratto in barca 49 persone sono morte asfissiate sottocoperta e Tareq, insieme ad altri libici, è stato additato da alcuni passeggeri come uno dei responsabili. Dopo la conferma della sentenza alla corte di Cassazione il 2 luglio scorso, Tareq ha detto alla sua avvocata Serena Romano che la sua vita “era finita”. Ma nel suo come in molti processi esaminati nel report, ci sono molte cose che non tornano. Per l’avvocata Romano, “il processo è stata una farsa”, con traduttori non sono interpreti professionisti e lacune nelle trascrizioni. Le identificazioni sono state fatte con foto in bianco e nero e sgranate, e non in presenza. Inoltre le dichiarazioni sono state prese da 9 testimoni su 313 sopravvissuti. Tra le criticità anche “l’impossibilità giuridica di celebrare questo processo in Italia per omicidio, è necessaria una richiesta formale del ministero della Giustizia quando si tratta di omicidio avvenuto fuori dal territorio italiano”, mentre il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina viene processato in Italia. Gli elementi poco chiari delle testimonianze raccolte dopo il naufragio non provano cosa sia veramente successo in barca. Osserva l’avvocata Romano: “Se Tareq era accanto alla porta della stiva sotto la quale sono morte 49 persone, vuol dire che è responsabile della loro morte? E semmai avesse impedito a qualcuno di uscire da quella botola, così come viene accusato da testimoni mai più sentiti, non l’ha fatto in circostanze estreme in cui qualsiasi movimento delle persone avrebbe potuto causare il capovolgimento della barca e la morte di tutti?”. Nessuno dei passeggeri, e quindi dei testimoni, sapeva che in stiva ci fossero delle persone, né quante fossero. Potrebbero essere morte anche quando dalla costa libica sono state rinchiuse là dentro. Nella sentenza di appello, viene riportato che da quello che emerge dalle dichiarazioni i calciatori libici verosimilmente sono stati reclutati come trafficanti prima dell’equipaggio. Una condanna che si basa sull’avverbio “verosimilmente”. “Ciò che deve essere ripensato” afferma Germana Graceffo, “è l’impianto normativo che mette sullo stesso piano chi gestisce e organizza il traffico con chi risulta essere soltanto una pedina in mano agli sfruttatori o una loro vittima. Le morti in mare sono conseguenza diretta della mancanza di canali legali di ingresso”. Della squadra di lavoro del report Dal mare al carcere fa parte anche Cheikh Sene, pescatore senegalese che ha lasciato il suo paese a causa della crisi e ha attraversato il Mediterraneo dalla Libia. “Ho passato due anni in carcere solo perché ho aiutato a guidare la barca e per sette mesi non ho visto un avvocato, quando l’ho visto non parlava la mia lingua”, racconta. “Oggi le persone che sanno che verranno arrestate, non aiutano più nella conduzione della barca e questo aumenta il rischio di morti in mare”. Dal Mare al Carcere racconta anche di assoluzioni. Il disagio economico e sociale dopo il carcere è enorme, nonostante sia previsto un risarcimento. Ma spesso gli ex-detenuti che ne avrebbero diritto non vengono adeguatamente informati oppure sorgono problemi burocratici, di tempi massimi di richiesta, di instabilità legale. Tanti ostacoli anche una volta ottenuta la libertà, perfino di reperibilità dei migranti. Forse perché una volta liberi, con l’Italia non vogliono più averci nulla a che fare. Droghe. Andrà a processo l’ideatore della cannabis light in Italia di Giacomo Talignani La Repubblica, 16 ottobre 2021 “Così si rischia la fine di un intero settore”. Nel 2017 Luca Marola lanciò la “marijuana legale”. Ora, anche a causa di leggi poco chiare, finisce a giudizio per detenzione e spaccio. L’ideatore della cannabis light in Italia è stato rinviato a giudizio per detenzione e spaccio di stupefacenti. Il processo, in caso di condanna, rischia di affossare lo sviluppo di un comparto, quello della cosiddetta marijuana legale, che dal 2017 ad oggi nello Stivale ha creato oltre 10mila posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di introiti. Quattro anni fa, Luca Marola, parmigiano proprietario del Canapaio Ducale, ebbe l’intuizione di sfruttare la legge del 2016 relativa alla canapa: fra le righe di quel testo infatti non si parlava nello specifico dei fiori della pianta, così si aprì la possibilità di dar via a un mercato delle infiorescenze di cannabis con valori “legali”, ovvero di Thc inferiore allo 0.2%. Marola lanciò Easyjoint e altri imprenditori lo seguirono: fu un boom. In pochi mesi la cannabis light, incentrata sulle proprietà del Cbd, metabolita con effetti rilassanti, esplose in tutta Italia tra aperture di negozi dedicati e vendita online. Ovunque in pochi mesi si moltiplicarono gli store e il mercato dei derivati della cannabis raggiunse picchi importanti, con alcune società canadesi disposte persino ad acquisire le società italiane per milioni di dollari. Due anni dopo però - in un contesto politico sia di tentativi di legalizzazione sia di demonizzazione di qualunque prodotto collegato alla cannabis - alcune Procure appellandosi al testo di legge, da tutti indicato come “poco chiaro” e incompleto, formularono accuse di spaccio nei confronti di chi commerciava la “light”, equiparando di fatto la marijuana legale a droga. Fra queste anche la Procura di Parma che sequestra oltre 600 kg di erba legale a Easyjoint e costringe la società alla chiusura. Altre, per esempio in Sardegna e in Sicilia, si sono mosse in modo simile, sequestrando la merce o chiudendo le attività. Da allora resta un “vuoto” legato a questo settore che ha portato di fatto a “permessi” diversi a seconda di regioni o città: in alcune la cannabis light viene tutt’oggi commercializzata, in altre ostacolata dalle inchieste giudiziarie. A Parma, dopo quasi due anni di attesa tra lockdown e rinvii, Marola a fine settembre - proprio mentre in Italia tornava alla ribalta il tema legalizzazione visto il successo del referendum sulla cannabis - è stato rinviato a giudizio in un processo che inizierà il 15 luglio 2022. Marola, perchè questo processo rischia di mettere la parola fine alla cannabis light in Italia? “Innanzitutto è il primo di questo genere. Il procuratore di Parma ha dichiarato di fatto che con questa inchiesta vuole fare giurisprudenza relativamente alla normativa. Per chi lavora nel settore la norma attuale è contraddittoria e priva di elementi specifici, per la Procura invece la normativa equipara la cannabis light a stupefacente. Per questo se l’accusa dovesse vincere, di fatto potrebbe sancire la fine della cannabis legale così come la conosciamo, dato che viene equiparata per loro a droga ad uso ricreativo. Altri procuratori potrebbero seguire la scia: se pensiamo a una città come Milano, dove ci sono 300 negozi di light, è facile capire cosa significherebbe: vorrebbe dire la fine di un settore”. Mentre altrove si continua a commercializzare, a lei è stata sequestrata la merce. Perché? “Sono arrivati a sequestrarmi oltre 640 kg di canapa, se l’avessimo venduta tutta si parla di due milioni di euro. Quindi abbiamo dovuto licenziare, svendere, fino a chiudere del tutto. Nonostante come hanno accertato i periti ci sono diversi lotti perfino con zero Thc, e altri comunque con limiti inferiori allo 0.2%, è stata di fatto secondo l’accusa equiparata a droga perché non è possibile la vendita del fiore secondo la visione della procura e venendo vista come sostanza ad uso ricreativo viene indicata come stupefacente. Ma non lo è”. Dopo quattro anni dal boom della light ancora non c’è chiarezza a livello normativo. Come ne risente il settore? “La legge è scritta male, può essere interpretata in un modo e nel suo opposto. Così come la successiva sentenza di Cassazione. Così accade che alcune procure usano una linea repressiva, altre invece non hanno aperto alcun procedimento, oppure ci sono state indicazioni - come a Bologna - davanti all’oggettiva difficoltà sia dei controlli sia delle interpretazioni di legge, di non concentrare inchieste sulla cannabis light ma su quella illegale. Il quadro che ne esce è di un settore in difficoltà perché privo di certezze per potersi sviluppare, in attesa di capire cosa accadrà in termini di legalizzazione in futuro. E avviene che oggi in alcuni luoghi d’Italia è commercializzata e in altri non si può per via delle inchieste (come Oristano o Catania, ndr). Al di là del processo, serve quella chiarezza che chiediamo da tempo”. Ha paura di essere condannato? “Ipoteticamente rischio più di sei anni, ma lo si capirà solo più avanti. Io da anni porto avanti queste battaglie, ma ero sicuro che al penale non ci si sarebbe mai arrivati. Vede, la fine della sentenza di Cassazione a sezioni unite dice che c’è rilevanza penale solo qualora l’effetto stupefacente venga riscontrato in concreto. Ma i valori della canapa che commerciavo, così come quella che oggi si trova nei vari negozi, sono sempre sotto a quelli stabiliti per poter parlare di stupefacente. Per cui a tutt’oggi questo processo mi sembra incomprensibile, impensabile, anche perché non riguarda più soltanto me ma un intero comparto fatto di migliaia di posti di lavoro che si potrebbero perdere”. In caso di assoluzione però sarebbe una vittoria per l’intero comparto... “Credo di sì. Se riusciremo a vincere, a dimostrare che abbiamo ragione, faremo chiarezza per l’intero settore. Ad oggi sono ancora convinto che sia complesso - anche con la difficile legge attuale - dimostrare che una droga, che non droga, sia comunque droga”. Regeni, il processo rischia la paralisi. Scontro dentro il Tribunale di Roma di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 ottobre 2021 La III Corte d’assise non se l’è sentita di aprire il processo in assenza degli imputati. Ora tocca al governo fare pressioni sull’Egitto per le rogatorie. C’è un problema di diversa interpretazione delle norme tra magistrati. Di più: un conflitto all’interno del tribunale di Roma, dove un giudice ha ritenuto che il processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni si potesse fare anche in assenza degli imputati e altri hanno replicato che no, il dibattimento non può cominciare perché manca la prova che quegli stessi imputati siano stai informati del giudizio a loro carico. Di fronte agli stessi commi e alle stesse carte bollate c’è un contrasto di vedute che ha portato a due verdetti opposti: decreto di rinvio a giudizio e successivo annullamento di quel provvedimento. Questo è lo scoglio su cui s’è arenato, per adesso, il processo contro i quattro militari della National security egiziani accusati del rapimento e (uno di loro, l’ultimo) delle torture e dell’uccisione di Giulio: il generale Tarek Ali Saber, i colonnelli Aser Kamal Mohamed Ibrahim, e Hosam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Finora c’era una Procura che era riuscita nel mezzo miracolo di portare alla sbarra quattro cittadini stranieri per un reato commesso nel loro Paese ai danni di un cittadino italiano, nonostante gli ostacoli frapposti dall’Egitto che da quattro anni (quando l’indagine ha imboccato la strada che portava a quei quattro nomi) ha interrotto ogni collaborazione. Anzi, a gennaio scorso ha sferrato un duro attacco alla Procura di Roma, accusandola di “conclusioni illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici penali internazionali”. Adesso lo scenario è cambiato e l’ostacolo è stato sollevato dalla III corte d’assise che non se l’è sentita di aprire il processo in assenza degli imputati. Pur riconoscendo che questa situazione di improcedibilità deriva dalla “acclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte alle richieste del ministero della Giustizia italiano, seguite da reiterati solleciti per via giudiziaria e diplomatica, nonché da appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano”. Ma di fronte a tanta ostinata sordità non si può andare avanti sulla “presunzione” (trasformata dal giudice dell’udienza preliminare Pierluigi Balestrieri in “assoluta certezza”) che gli imputati sappiano e si vogliano sottrarre al dibattimento in corso. Ci vuole la “prova certa”, da valutare con “particolare rigore”, ha scritto la giudice Antonella Capri nell’ordinanza della corte da lei presieduta. Che succederà ora? Nel giro di qualche settimana gli atti del procedimento torneranno allo stesso gup il quale - presumibilmente entro gennaio - fisserà una nuova udienza preliminare dove il pubblico ministero, la parte civile e i difensori torneranno a discutere il tema della reperibilità degli imputati e delle notifiche. È verosimile che il giudice avvierà una nuova rogatoria per chiedere all’Egitto l’elezione di domicilio dei quattro militari, ma è altrettanto verosimile che l’Egitto risponderà con il silenzio fatto scendere dal dicembre 2017 in avanti. A quel punto il processo piomberà in una sorta di limbo, sospeso sine die, in attesa che l’Egitto decida diversamente di fronte alle nuove richieste da reiterare ogni anno. Naturalmente il governo italiano può cercare altre strade per ottenere risposte diverse dal Cairo. Ma la decisione di palazzo Chigi di costituirsi parte civile contro i quattro imputati, al fianco dell’accusa e della famiglia Regeni, non è stata gradita in Egitto; così come l’inserimento nella lista dei testimoni da convocare (su richiesta dei genitori e della sorella di Giulio) del presidente Al Sisi e altri esponenti del governo. Tuttavia, secondo il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta Erasmo Palazzotto, la costituzione di parte civile “pone in capo al governo italiano ancora maggiori responsabilità nel dovere esercitare, con ogni strumento a sua disposizione, una pressione diplomatica e politica affinché l’Egitto collabori con la giustizia italiana”. Ma non sarà facile. Regeni: gli imputati sono latitanti di uno Stato criminale di Alberto Negri Il Manifesto, 16 ottobre 2021 I quattro agenti dei servizi segreti del Cairo che dovrebbero essere alla sbarra, sono considerati “irreperibili”, ma è l’apparato dello Stato egiziano a nasconderli. I nostri giudici vivono sulla Luna? Sì, a quanto pare. La notifica del processo ai quattro massacratori egiziani di Giulio Regeni è arrivata da un pezzo. Non se ne è accorta soltanto la terza Corte di assise di Roma che lo avrebbe già capito soltanto se avesse letto qualche giornale, oltre ovviamente alle carte del pubblico ministero Colaiocco. Basta ragionare con la logica: sono le stesse autorità del Cairo a rifiutare di fornire l’indirizzo degli accusati ed evidentemente non lo fanno a loro insaputa. Costoro sono stati definiti “irreperibili” perché le autorità egiziane ne hanno sempre nascosto gli indirizzi e ci sono “elementi di prova univoci e significativi” che sappiamo benissimo di essere stati chiamati a processo in Italia. Anche perché il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - ripetiamo i nomi, nessuno li dimentichi -, sono stati spostati ad altri incarichi rispetto a quelli che ricoprivano, più o meno direttamente, nella famigerata stanza numero 13 della Sicurezza Nazionale egiziana dove Giulio Regeni è stato incatenato, seviziato, torturato e ucciso. A rigor di logica, non so se di diritto, questi agenti e i loro capi sono dei latitanti: non si è latitanti soltanto se uno si nasconde alla macchia, lo si diventa anche quando è un intero apparato dello stato egiziano a nasconderli e a renderli irreperibili. In questi cinque anni dalla morte di Regeni l’Egitto ha avuto tutto il tempo per fare giustizia ma non ha mosso un dito: per primo proprio il generale Al Sisi. Anzi è stato fatto di peggio, con depistaggi continui: a cominciare dall’autopsia, le cui conclusioni (“morte per emorragia cerebrale”) dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto, per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), fino alla cruenta messa in scena che doveva accollare la responsabilità della uccisione di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo che altro non erano che innocenti fucilati a freddo dai servizi egiziani per simulare un conflitto a fuoco. Chiedere alle autorità egiziane di collaborare è come chiedere al complice e al mandante di un assassinio di consegnare il colpevole. Il Cairo ha avuto un comportamento criminale, dall’occultamento all’invenzione delle prove, a omicidi in serie: in un processo Regeni va alla sbarra il regime del generale, difficile circoscriverlo soltanto agli imputati. Per questo non lo vogliono un processo e proteggeranno sempre i mandanti, gli autori materiali e anche l’ultima ruota del carro coinvolta in questa barbarie. Di questo evidentemente i giudici di corte d’Assise non se ne sono resi conto: qui non si riuscirà a notificare niente a nessuno, se continuano i comportamenti descritti nelle carte del pm Colaiocco. Come la pensa sul caso Regeni ce lo ha detto lo stesso Al Sisi qualche giorno fa parlando davanti ai leader dei Paesi del gruppo di Visegrad - significativamente allargato all’Egitto. Il presidente egiziano ha avvertito i Paesi Ue che il Cairo “non si sottometterà ai diktat europei” in materia di diritti umani. Chiaro il riferimento alle vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki. “Avete a che fare con uno Stato che rispetta se stesso e rispetta pienamente la propria gente. In Egitto c’è un potere che non si sottomette a nessun diktat”, ha detto Al Sisi a Budapest. Cosa si vuole mai notificare a un autocrate golpista del genere? Come scriveva una settimana fa sul manifesto Riccardo Noury di Amnesty International, la procura suprema egiziana non solo presiede a processi e a condanne emesse al termine di procedimenti irregolari, spesso basati su prove estorte con la tortura, ma è anche “l’architrave del clima d’impunità che circonda il fenomeno dei desaparecidos”: i suoi giudici attestano regolarmente che un detenuto è comparso davanti a loro nel rispetto della procedura - entro due giorni dall’arresto - cancellando dunque settimane se non mesi di sparizione forzata. Cosa mai volete notificare a un sistema giudiziario di tal fatta? Ma su tutta questa vicenda grava un sospetto. Ovvero che non si vogliano processare gli imputati di un Paese con cui facciamo affari alla grande con le vendite di armamenti. Il fatto che la presidenza del consiglio si sia costituita parte civile, come affermava ieri Erri De Luca, intervistato sul manifesto da Chiara Cruciati, “non è una notizia, la notizia vera sarebbe stata se il governo non lo avesse fatto, era un atto dovuto”. Perché anche l’Italia, anche noi siamo stati complici di Al Sisi quando gli abbiamo dato credito che avrebbe fatto giustizia: ci hanno creduto forse coloro che lo intervistarono e soprattutto all’epoca il premier Renzi, un senatore che indubbiamente sa far politica e anche gli affari. Ma ovviamente è solo un sospetto e siamo fiduciosi che il processo Regeni prima o poi ripartirà alla ricerca di un barlume di verità e giustizia. Regeni: il diritto non può sostituirsi alla politica di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 ottobre 2021 Il professor Spangher: “Sono vicino alla famiglia ma il procedimento sia regolare”. Il giudice penale de Gioia: “Solo così si tutela l’interesse dello Stato e delle parti civili”. La battuta d’arresto, subito dopo l’avvio del processo a carico dei quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani accusati della morte di Giulio Regeni, fa clamore se il provvedimento della Corte d’Assise di Roma viene letto con superficialità e sull’onda emotiva. Ma nella sostanza tutela tanto l’interesse dello Stato quanto quello dei familiari del ricercatore universitario ucciso in Egitto. L’ordinanza della Corte d’Assise ha annullato il rinvio a giudizio disposto dal Gup nello scorso mese di maggio e rinviato gli atti con l’intento di rendere effettiva la conoscenza del processo agli imputati il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) e far reggere da subito il processo su solide basi. Tutto, dunque, dovrà ripartire dall’udienza preliminare. I giudici hanno rilevato che “il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati, comunque non presenti all’udienza preliminare, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento”. Di qui l’annullamento del rinvio a giudizio disposto dal Gup cinque mesi fa. La Corte d’Assise ha affermato che le attività svolte (invito a fornire indicazioni sulle compiute generalità anagrafiche e conoscenza della attuale residenza o domicilio), mediante rogatoria all’autorità giudiziaria egiziana per acquisire la formale elezione di domicilio dei quattro imputati, non hanno sortito alcun effetto. In mancanza di indirizzo determinato non è stato possibile notificare alcun atto ufficiale del procedimento agli agenti dei servizi segreti, a partire dall’avviso di conclusione delle indagini. In tutto questo ha giocato un ruolo l’inerzia, voluta, dell’Egitto, che ha sempre ignorato le richieste italiane fatte tramite il ministero della Giustizia e i canali diplomatici. Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale dell’Università di Roma “La Sapienza” ritiene che la Corte d’Assise ha seguito la logica della costruzione di un processo solido, che potrà arrivare fino in fondo e garantire i diritti di tutte le parti. “Comprendo molto bene - dice il professor Spangher - da friulano e giuliano, il dolore della famiglia Regeni e sono loro vicino. Il processo nei confronti degli assassini di Giulio Regeni deve però essere regolare. I giudici si sono mossi correttamente. Hanno fatto bene a prendere quella decisione, perché è inutile costruire un processo sulla sabbia. L’eccezione che loro hanno verosimilmente recepito e trasferito nella loro decisione fa sì che il processo regredisca. Ma nel momento in cui regredirà incomincerà a fare le cose giuste. Se invece questo processo fosse andato avanti, ci saremmo potuti trovare con delle sorprese. Se c’è una invalidità processuale è meglio accertarla subito, restituire gli atti dove si è verificata, sanarla e andare avanti, piuttosto che trascinare inutilmente un processo che rischia di avere dentro il tarlo dell’invalidità”. Quanto deciso dalla Corte d’Assise di Roma non deve far perdere la speranza ai genitori e alla sorella di Regeni. “Ragioniamo - aggiunge Spangher - con una logica di tipo diverso. È meglio costruire subito un processo solido piuttosto che dire “siamo andati avanti e ottenuto delle condanne” e poi fare i conti con un annullamento. La Corte d’Assise si è messa una mano sulla coscienza. Non è che abbia chiuso il processo. Ha restituito gli atti ad un altro giudice. Il problema potrebbe essere un altro. Come mai non sono stati fatti degli accertamenti? Come mai non sono state fatte delle verifiche in un determinato momento? Non basta la nomina di un difensore. Bisogna che per l’imputato ci sia stata la certezza della conoscenza del processo. E quando non c’è che ci sia la conseguenza che non vuole andare a processo. Il tema della partecipazione all’esercizio del diritto di difesa degli imputati è molto delicato. Le nullità dell’udienza preliminare sono nullità assolute. Mi viene in mente, anche se per una vicenda completamente diversa, quanto accaduto al giornalista Giuliano Ferrara in materia di irregolare convocazione per l’udienza preliminare. Tale problema si trascinò addirittura fino in Cassazione. Si devono quindi evitare irregolarità tali da portare a conseguenze imprevedibili nel processo. Le situazioni di invalidità sono delle vere e proprie mine vaganti”. Anche il giudice del Tribunale di Roma, Valerio de Gioia, analizza in profondità quanto deciso in Corte d’Assise. Il magistrato sottolinea l’importanza di non far prevalere gli aspetti emotivi in una vicenda processuale che si conferma complessa. “Capisco - spiega al Dubbio - il disappunto di una parte della opinione pubblica in relazione al provvedimento adottato dalla Corte di Assise, che, nei fatti, ha comportato una regressione di un procedimento che, già estremamente complicato nella fase delle indagini, per via anche di una serie di depistaggi, stenta a partire. Tuttavia, in punto di diritto, si tratta di un provvedimento ineccepibile, considerato che si può procedere in assenza dell’imputato, istituto che, dal 2014, ha sostituito la contumacia, solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria”. De Gioia richiama una importante sentenza della Corte di Cassazione. “In questo caso - evidenzia - da quello che ho letto, non è stata ritenuta sufficiente la notifica eseguita ai difensori di ufficio degli imputati e in ciò in ossequio alle più recenti indicazioni giurisprudenziali, nazionali e sovranazionali. Come peraltro chiarito dalle stesse Sezioni Unite, con la sentenza numero 23948/2019, neanche l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio è sufficiente per la dichiarazione della assenza, dovendo il giudice verificare che vi sia stata una effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato. Che la tematica del processo in absentia sia delicata è confermato anche dall’attenzione della legge delega di riforma del processo penale cosiddetta Cartabia, che, facendo tesoro delle indicazioni della Commissione Lattanzi, ha delegato il Governo ad intervenire per uniformarla al diritto dell’Unione europea. In particolare alla direttiva Ue 2016/343 che tratta, oltre che della presunzione di innocenza, anche del diritto di presenziare al processo. Le regole processuali devono valere per tutti i processi e per tutti gli imputati”. Il diritto ad un giusto processo, dunque, non può essere negato neppure a chi viene accusato della morte del ricercatore friulano. “Sul fatto - conclude de Gioia - che gli indagati, nella sostanza, abbiano conoscenza che in Italia si sta per celebrare un processo che li riguarda, non credo si possano avere dubbi, stante il clamore, addirittura internazionale, dello stesso. Ma ciò non è sufficiente, sotto un profilo formale, per poter procedere nei loro confronti. Il provvedimento, se ci pensiamo bene, tutela soprattutto l’interesse dello Stato e dei familiari della vittima ad evitare la celebrazione di un processo che si preannuncia defatigante e doloroso e che un domani potrebbe essere dichiarato nullo, allontanandoci, così, dall’accertamento della verità”. La compagna di Julian Assange: “Così la Cia voleva ucciderlo, abbiamo le prove” di Roberto Saviano Corriere della Sera, 16 ottobre 2021 Intervista a Stella Moris, compagna del fondatore di WikiLeaks. “I legami con la Russia? Inesistenti, tirati fuori per distruggere la sua figura pubblica”. L’ultima volta che ho incontrato Julian Assange è stato a Londra nell’ambasciata dove era rinchiuso, nel 2013; l’avevo trovato pieno di energie. Parlammo a lungo, parlammo dell’unica cosa di cui valeva la pena parlare, ossia della luce. Di come accendere la luce sui meccanismi del potere e come da sempre, da prima che Gutenberg inventasse i caratteri mobili della stampa, la luce sia l’unica possibilità che ci è data per controllarlo quel potere. Strapparne i meccanismi dal cono d’ombra, dall’angolo in cui talvolta si rifugia, per spingerlo sotto i riflettori così che tutti possano comprendere. È sempre questo stato il compito dei cercatori di libertà, dei filosofi d’ingaggio, dei dissidenti, dei ribelli, dei cronisti liberi. Raccontare il potere perché diffidano di qualsiasi potere. In quell’occasione, nell’ambasciata dell’Ecuador, c’era una fotografa, Nicol Vizioli, che ci scattava delle foto. Tutto sembrava dovesse svolgersi meccanicamente; la nostra conversazione, le foto di noi due da pubblicare a testimonianza dell’avvenuto incontro, quando Julian mi ferma il braccio, come a dire: aspetta: “Perché siamo così seri e tristi? Basta! Ridiamo”. E così nasce questa foto che ci ritrae insieme, con Julian che mi abbraccia e noi due che ridiamo, felici. Io però risposi, perché ridere? Perché dobbiamo sorridere all’obiettivo? “Essere fieri delle scelte che abbiamo fatto”, fu la sua risposta. “Sei davvero contento della tua scelta?”, gli chiesi. Assange non mi rispose come mi aspettavo, con un imperativo sì. Articolò una risposta più rara: “Bisogna essere felici di avere vite straordinarie”. Oggi Assange è in carcere. Parlo di Julian con la sua compagna Stella Moris, che sarà in Italia al Salone del Libro di Torino (sabato 16 ottobre, ore 15, Sala Rossa Padiglione 1) in occasione dell’uscita del libro di Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks. Insieme a Stella Moris e Stefania Maurizi ci sarà Riccardo Iacona. Come sta Julian Assange in questo momento? Dove è rinchiuso? “È nel carcere più duro del Regno Unito: la prigione di Belmarsh. Quello di Julian è un caso particolarmente pericoloso, perché è la trasformazione in caso giudiziario di un conflitto politico, ma è rinviato a giudizio per avere pubblicato documenti e aver comunicato con fonti giornalistiche. Julian è stato incriminato per aver ricevuto e pubblicato dal suolo europeo documenti segreti del governo americano che il governo degli Stati Uniti non vuole vedere pubblicati. Se riconosciuto colpevole, rischia 175 anni di prigione. I documenti hanno permesso di rivelare, tra le altre cose, l’uccisione di due giornalisti della Reuters e di altri civili innocenti a Baghdad, la detenzione illegale dei detenuti di Guantanamo, le carneficine causate dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, e documenti come i cablo della diplomazia americana. Questi documenti hanno un grande valore dal punto di vista politico, storico e legale e contengono, per esempio, prove di crimini di guerra. Gli Stati Uniti hanno ammesso sotto giuramento di non avere prove che una qualsiasi persona sia stata danneggiata da queste pubblicazioni. È la prima volta che gli Stati Uniti cercano di imprigionare un editore per il suo lavoro”. Perché Julian è in prigione oggi? “Julian è in prigione perché le nazioni [implicate nel suo caso, ndr] hanno tradito i loro valori fondanti. WikiLeaks ha preso quei valori e li ha messi in pratica, testandoli. Nils Melzer, ha detto che il suo caso è, per molti versi, più grande dell’affaire Dreyfus. La persecuzione di Julian è anche la persecuzione di ciò che rappresenta la democrazia nella sua forma più autentica”. Cosa dovrebbe accadere perché possa tornare libero? “Il Paese che sta cercando di estradarlo [gli Stati Uniti, ndr] ha pianificato di ucciderlo in modo stragiudiziale. La chiave per arrivare alla liberazione di Julian è piuttosto semplice: le leggi che esistono dovrebbero essere rispettate, invece che essere sovvertite. Seconda cosa: il governo americano dovrebbe difendere la libertà di stampa a livello globale, invece che approvare la persecuzione e l’incarcerazione di giornalisti, dissidenti e intellettuali pubblici. Ma non basta liberare Julian. Bisogna incriminare i responsabili delle azioni illegali della Cia contro Julian, contro lo staff di WikiLeaks e lo staff legale, condotte anche sul suolo europeo. Deve essere aperta un’inchiesta per andare a fondo della questione di quanto il tentativo di ammazzare Julian si è spinto lontano: cosa sapevano le autorità inglesi dei piani della Cia e fino a che punto erano disposte ad assecondarli? Quanto sapevano l’Australia e l’Ecuador? Chi altro volevano uccidere?”. Yahoo! News lo scorso settembre ha pubblicato un’articolata inchiesta firmata da Zach Dorfman, Sean D. Naylor e Michael Isikoff in cui rivela che nel 2017 la Cia, sfruttando gli uomini di una società che lavorava per la sicurezza dell’ambasciata dell’Ecuador, voleva rapire o assassinare Assange che, a quel tempo, viveva protetto come rifugiato proprio dentro l’ambasciata. Quali informazioni avete al riguardo? “Dopo che Julian è stato arrestato nel 2019, alcuni informatori si sono fatti avanti per denunciare come l’azienda di security (la Uc Global), che doveva proteggere l’ambasciata e Julian, aveva ricevuto pagamenti dal principale finanziatore di Trump e di Pompeo, Sheldon Adelson (ormai scomparso) e che questa azienda faceva quello che diceva la Cia, all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador. El Pais ha pubblicato alcuni dettagli della vicenda, basati sulle testimonianze degli informatori. Le testimonianze davanti alla corte hanno rivelato che la Uc Global aveva discusso dei piani per avvelenarlo o rapire Julian nell’ambasciata. E ora, questa grande inchiesta di un team di giornalisti [di Yahoo! News, ndr], che hanno parlato con ex o attuali funzionari dell’intelligence americana, è riuscita a confermare che la Cia stava davvero cercando di lavorare a come ammazzare Julian nell’ambasciata. Hanno confermato che Mike Pompeo, che a quel tempo era il capo della Cia, aveva dato istruzioni alla sua agenzia di preparare “piani” o “opzioni” su come uccidere Julian. Quindi abbiamo conferme da entrambe le sponde dell’Atlantico che questo era stato seriamente pianificato. Essere stati in grado di confermare che la Cia, allora guidata da Mike Pompeo, aveva pianificato di uccidere un giornalista a Londra, è stato un grande scoop”. Mi rivolgo a Stefania Maurizi che è l’unica giornalista italiana a cui Julian Assange ha consegnato i database segreti di WikiLeaks, le chiedo il suo parere sul caso giornalistico e giudiziario di Julian Assange, soprattutto le domando cosa ne pensa delle campagne di delegittimazione che Assange avrebbe subito negli anni, prima tra tutte la percezione che fosse vicino a Putin, insomma un uomo che parlava di democrazia ma che poi si alleava ai suoi peggiori nemici... “Quello che tu chiami “percezione” è, in realtà, il frutto di una lunga campagna di demonizzazione contro Julian Assange e WikiLeaks. Nel corso dell’ultimo decennio, ce ne sono state molte di queste campagne di delegittimazione: la prima in assoluto è stata quella delle “mani sporche di sangue”. Nel luglio del 2010, quando WikiLeaks iniziò a rivelare i documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, il Pentagono accusò immediatamente lui e la sua organizzazione di avere le mani sporche di sangue, perché la loro pubblicazione avrebbe messo a rischio i traduttori e gli informatori afghani, che collaboravano con le truppe americane e della coalizione occidentale. Il Pentagono e la Cia crearono subito delle grandi task force di analisti dell’intelligence per passare al setaccio ogni singolo nome uscito da quei documenti e per cercare di scoprire se qualcuno di loro fosse stato ucciso o ferito o imprigionato a causa dell’uscita di quei nomi. La task force del Pentagono poteva contare su ben 100 esperti di intelligence. Sono passati 11 anni, non si è scoperto un solo esempio di persona uccisa, ferita o imprigionata. Subito dopo, nel 2010, prese il via anche quella contro l’Assange stupratore: 9 anni di supplizio che si sono chiusi in modo sconcertante, con i magistrati svedesi che hanno archiviato una volta per tutte l’indagine senza neppure andare a interrogarlo. Ad oggi, l’accusa di stupro gli rimane incollata addosso, sebbene non sia mai stato non dico condannato, ma neppure rinviato a giudizio”. La delegittimazione ossia l’omicidio civile di una persona, morale e non fisico, è la pratica preferita di democrazie, partiti, aziende, regimi. Ci dici qualcosa di più sull’accusa di stupro? Vogliamo, una volta per tutte chiarire come sono andate le cose? “Per 9 anni Julian Assange è rimasto al centro di un caso di stupro in Svezia senza che mai le autorità svedesi si decidessero a incriminarlo - ovvero rinviarlo a giudizio per stupro e mandarlo a processo - oppure a scagionarlo una volta per tutte. Questo pantano giudiziario ha avuto un ruolo cruciale nella prolungata e costante demonizzazione di Julian Assange, nel privarlo dell’empatia dell’opinione pubblica mondiale, specie di quella fetta più sensibile alle rivelazioni dei documenti del governo americano sui crimini di guerra e sulle torture, perché, spesso, quella fetta coincide con quella più attenta ai diritti delle donne. Nel 2015, quando ormai Julian Assange aveva perso la libertà da 5 anni e il caso svedese rimaneva in uno stato di paralisi giudiziaria, mi sono resa conto che nessuno, tra le centinaia di giornalisti internazionali e locali che avevano scritto di Assange, aveva mai provato a chiedere i documenti sul caso per ricostruire i fatti in modo rigoroso. A quel punto ho chiesto la documentazione e le corrispondenze diplomatiche sul caso alle autorità di Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Australia. L’ho fatto completamente da sola: nessun giornale o media internazionale o locale era interessato a fare questo lavoro di duro giornalismo investigativo. Sono passati 6 anni da quando ho iniziato questa battaglia: sono ancora in tribunale a Londra, Stoccolma, New York, e in Australia. Sono rappresentata da 7 avvocati su 4 giurisdizioni. Quattro governi da ben 6 anni usano ogni risorsa legale per negare a una giornalista, completamente sola e con pochissime risorse, i documenti di questo caso: vuol dire che contengono cose importanti, come confermano i documenti che ho ottenuto finora e che hanno permesso di rivelare il ruolo delle autorità inglesi nel creare la paralisi giudiziaria-diplomatica che ha intrappolato Julian Assange”. Ma torniamo alla presunta vicinanza a Putin… “Nel 2012 è partita la campagna contro Julian Assange “utile idiota del Cremlino”. Ricordo come fosse ieri come prese il via. Il fondatore di WikiLeaks aveva prodotto uno show chiamato The World Tomorrow, prodotto da una piccola azienda di documentari inglese. Nello show venivano intervistati personaggi che andavano: dall’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah, che purtroppo oggi è detenuto nelle carceri del dittatore egiziano Sisi in condizioni terribili, fino all’allora presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, e al leader di Hezbollah, Nasrallah. La televisione del Cremlino, Russia Today, acquistò la licenza per trasmettere lo show di Julian Assange, come anche l’acquistò il gruppo Espresso. Il Guardian usò parole di fuoco contro Julian Assange, accusandolo di essere l’utile idiota del Cremlino. Inutile spiegare che Russia Today aveva acquistato la licenza. E poco importa che, sulla Russia, WikiLeaks abbia pubblicato documenti come i cablo della diplomazia americana, che non raccontano solo la corruzione della Russia sotto Putin, ma vanno oltre: dipingono il Paese come uno Stato-mafia, in cui la criminalità organizzata è controllata dai servizi segreti russi, e fa quello che lo Stato non può fare in modo presentabile. È chiaro che potenze come Russia e Cina apprezzano e applaudono WikiLeaks, quando questa rivela i segreti dei loro avversari o li imbarazza davanti al mondo intero e si fregano le mani anche quando vedono come “l’Occidente libero” tratta Julian Assange, un giornalista che, dopo aver rivelato crimini di guerre e torture, non ha più conosciuto la libertà. Nessun governo ama veder rivelati i suoi sporchi segreti, e infatti nessuno ha mosso un dito per aiutare Julian Assange”. La stessa domanda pongo alla compagna di Assange. Stella, le chiedo direttamente, in questi anni Assange è sembrato vicino a Putin, poi ai governi populisti. Da un iniziale consenso che le sinistre (compresi i giornali) gli avevano dato ora (salvo eccezioni) sembra non avere più sostegno dalle stesse parti. Dove ha sbagliato secondo te Julian? “Non ritengo che sia corretto suggerire che WikiLeaks piacesse solo a certi gruppi o a persone con un certo credo politico. Piace a diversi gruppi per ragioni diverse: agli storici e agli accademici, perché apprezzano gli archivi di documenti; agli avvocati e alle vittime, perché fornisce documenti a supporto delle loro cause; ai giornalisti perché rivela informazioni censurate, e così via. È più interessante riflettere su chi non ama WikiLeaks e perché. La risposta è, in parte, contenuta nelle rivelazioni di Yahoo! News. Per farla franca con l’assassinio di qualcuno, devi prima uccidere la sua figura pubblica. L’inchiesta di Yahoo! News rivela un attacco su più fronti messo in atto dalla Cia per “tirar giù” Wikileaks, e una parte importante di questo attacco era la disinformazione. Una delle parti più importanti dell’inchiesta di Yahoo! News è la rivelazione che, nei primi mesi del 2017, la Cia aveva concluso che WikiLeaks non aveva legami con la Russia. Ha dovuto inventarsi una nuova designazione per poter colpire WikiLeaks: la designazione “agenzia di intelligence ostile non statale”, proprio perché aveva concluso che WikiLeaks non aveva legami con nessuno Stato”. Nel 2020 Assange e sua moglie decidono di rendere pubblico non solo il loro legame ma anche l’esistenza di due bambini. Dopo anni di segretezza come mai avete deciso di rendere pubblica la vostra vita privata? “Il clima all’interno dell’ambasciata era incredibilmente minaccioso, soprattutto verso la fine. A dicembre 2017, una delle guardie della security mi disse che non era più sicuro per il nostro bambino stare nell’ambasciata: gli era stato chiesto di rubare il pannolino del bambino ed era venuto da me perché moralmente disgustato dalle istruzioni che aveva ricevuto. Io temevo per la vita di Julian e anche per la mia, in quegli ultimi mesi. Dopo l’arresto di Julian, io avevo ancora molta paura per la nostra sicurezza, ma fu superata da una preoccupazione ancora più seria, quando è esploso il Covid. Julian era a grave rischio di contrarre il Covid in prigione, e così abbiamo fatto un appello urgente alla corte per chiedere che venisse rilasciato agli arresti domiciliari, e io mi sono appellata al giudice, chiedendo che permettesse a Julian di tornare a casa dai nostri bambini. Avevo chiesto che fosse mantenuto il mio anonimato, ma la corte rigettò la mia richiesta, e così sono stata costretta a diventare un personaggio pubblico”. Immagino sia difficilissimo crescere i vostri due bambini, Gabriel e Max, in queste condizioni. Guardando indietro, rimpiangete di avere messo in piedi una famiglia in condizioni tanto difficili? I vostri due bambini, Gabriel e Max, riescono a vedere il padre? E lei riesce a incontrare Julian? “Il governo americano ha agito dietro le quinte per tenere Julian in una condizione prolungata in cui era un ostaggio dentro l’ambasciata. C’era una roccia solida al centro dei nostri mondi e quella roccia era il nostro amore reciproco, brillava per quanto era vero, puro e certo in un mare di fango. Non ho rimpianti, perché abbiamo creato una famiglia bellissima. E tutte le persone che si sono unite per aiutare a liberare Julian mi danno la forza e la convinzione che è solo questione di tempo, prima che staremo di nuovo insieme. È stato molto difficile durante il Covid, per tutti noi, ma a partire dall’estate, ci vediamo di nuovo frequentemente (ogni settimana)”. In una vita impossibile, in cui siete stati continuamente spiati e controllati, si può davvero avere anche solo una giornata di vita senza ansia e pressione? “No, non è possibile. Rimangono sempre con me. È qualcosa che io devo gestire costantemente, ma ci riesco meglio quando sento che quello che sto facendo aiuta concretamente a riportare Julian a casa”. Lei ha seguito dal punto di vista legale il caso svedese delle accuse per stupro: che idea si è fatta di quella vicenda? “È stato un vergognoso abuso del procedimento giudiziario. Julian non è mai stato rinviato giudizio, e i magistrati svedesi alla fine hanno chiuso il procedimento una volta che era servito allo scopo: attaccare la sua reputazione, negargli la possibilità di difendersi, mantenerlo privato della sua libertà per anni fino a quando gli Stati Uniti hanno desecretato il loro atto di incriminazione. Le Nazioni Unite hanno già stabilito, nel 2015, che il Regno Unito e la Svezia hanno agito in violazione delle leggi internazionali e che Julian era detenuto arbitrariamente nell’ambasciata”. L’Europa non ha fatto la sua parte. Cosa avrebbe potuto fare e cosa potrebbe ancora fare? “L’Europa non è uno spettatore passivo. L’Europa è parte in causa sia come beneficiaria delle pubblicazioni di Julian sia come giurisdizione che ha l’obbligo di proteggere i diritti civili e politici di tutti gli individui. L’Europa ha beneficiato delle pubblicazioni di WikiLeaks, che hanno rivelato lo spionaggio dei leader europei e anche lo spionaggio economico contro la Banca centrale europea, la penetrazione dei partiti politici da parte della Cia, il sovvertimento dei procedimenti giudiziari in Germania, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia. WikiLeaks ha rivelato anche le intercettazioni del primo ministro italiano e dei suoi consiglieri. La Germania si è fatta sentire in modo forte con politici di varia estrazione che hanno formato un gruppo parlamentare che chiede la liberazione di Julian, così come Inghilterra e Francia. Anche le associazioni europee della stampa si sono schierate a suo favore. Poi ci sono iniziative al Consiglio d’Europa per chiedere la liberazione di Julian. C’è un forte supporto all’interno del Parlamento europeo, ma nell’insieme l’Unione Europea potrebbe fare di meglio, specialmente considerando che è una parte interessata e che il caso contro Julian è un attacco alla libertà di stampa e, più in generale, alla sovranità dell’Europa”. Perché Assange fa ancora paura? “Alcune persone corrotte e potenti ce l’hanno con lui perché rappresenta ciò che loro temono della stampa. I potenti amano pensare di poter controllare la stampa. Julian ha sempre detto che quello che viene fatto a lui non riguarda davvero la sua persona, ma mira piuttosto a creare dei precedenti che servano a produrre una stampa servile e un’opinione pubblica ignorante e senza potere”. Quanti anni è rimasto rinchiuso in ambasciata? Quanti in prigione? “Si trova incarcerato nella prigione di Belmarsh da oltre due anni e mezzo e rischia 175 anni di prigione, se estradato. È stato confinato nell’ambasciata da giugno 2012 fino all’11 aprile 2019, ma la gente dimentica che aveva perso la libertà prima: il 7 dicembre 2010, quando era stato arrestato e imprigionato a Wandsworth, la prigione dove era stato rinchiuso Oscar Wilde. Dopo 10 giorni, fu mandato ai domiciliari, sotto strette restrizioni, per un anno e mezzo, prima che si rifugiasse nell’ ambasciata. Nel suo provvedimento del dicembre 2015, il Working Group delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha stabilito che la sua detenzione arbitraria ha avuto inizio con il suo arresto il 7 dicembre 2010. La Svezia non l’ha mai rinviato a giudizio per nessun reato”. Cosa potrebbe accadere ad Assange se dovesse venire estradato? “Se intende cosa vogliono fare gli Stati Uniti a Julian, la risposta è che vogliono seppellirlo vivo per il resto della sua vita, e non permettergli di parlare più o di essere visto in pubblico. La corte britannica ha già sentenziato [in primo grado, ndr] che la sua situazione è così seria e che è stato trattato già così male che se le corti inglesi dovessero ordinare la sua estradizione, questo porterebbe alla sua morte”. Polonia. Nuova legge anti migranti: possono essere espulsi direttamente alla frontiera di Andrea Tarquini La Repubblica, 16 ottobre 2021 Chi entra illegalmente non potrà più presentare istanza di riconoscimento del diritto d’asilo, come prevedono le leggi internazionali secondo cui l’espulsione può avvenire solo dopo aver respinto la richiesta, perché qualunque soldato può ora espellere immediatamente. In violazione del diritto internazionale e delle norme delle Nazioni Unite sui diritti umani dei profughi, il governo di Varsavia ha approvato una legge che autorizza qualsiasi soldato delle sue temute e ben organizzate truppe di frontiera a espellere immediatamente qualsiasi esule o migrante sia entrato illegalmente in territorio polacco. Lo riferisce la BBC. La legge voluta dal partito di governo nazional-clericale-sovranista Prawo i Sprawiedlywosc (Diritto e Giustizia) guidato dal premier Mateusz Morawiecki e dal leader storico Jaroslaw Kaczynski autorizza i soldati della Straz Graniczna (guardia di frontiera) anche a rifiutarsi di esaminare domande di asilo degli immigranti illegali. Ciò è particolarmente grave perché secondo le Nazioni Unite e gli accordi internazionali chiunque entri in un paese chiedendo asilo, anche entrando illegalmente, ha diritto a presentare e documentare la sua richiesta di aiuto, la quale può essere respinta solo dopo un accurato esame di ragioni e torti dell’esule. Come è noto la Polonia ha barricato con un reticolato all´ungherese il suo lungo confine con la Bielorussia, schierandovi forti contingenti militari. Insieme al varo di questa legge Varsavia ha annunciato anche l´invio di ulteriori rinforzi delle sue moderne forze armate al confine, vietato ai media e alle ONG perché vi è in vigore lo Stato d´emergenza. Un altro piano polacco più a medio termine è di isolare il confine con la Bielorussia costruendovi lungo tutta la sua estensione un muro di cemento armato, come quello che l´allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump fece edificare alla frontiera col Messico. Finora, circa sedicimila persone hanno passato il confine bielorusso-polacco e da quando la frontiera è stata chiusa migliaia di profughi sono bloccati nella terra di nessuno e rischiano la morte per freddo e fame. Con l´avvicinarsi dell´inverno, sono già almeno una cinquantina i profughi morti assiderati e affamati. La Polonia sostiene che il dittatore bielorusso Lukashenko vuole fare pressing politico sull´Unione europea inviandovi ondate di migranti. Alla linea dura di Varsavia si sono associate Lettonia e Lituania. D´altra parte le Ong fanno notare che non si tratta di migranti economici, bensí di perseguitati politici bielorussi, afghani o siriani o altro, tutta gente in fuga dalla repressione più brutale e dal pericolo di venire torturati e uccisi. La linea dura polacca contro i fuggiaschi è sempre più simile a quella varata dal 2015 dal premier-autocrate ungherese Viktor Orbán, massimo alleato del governo sovranista polacco nell´Unione europea. Giappone. Stop ai colori nel braccio della morte, vietati pastelli e temperamatite di Sergio D’Elia Il Riformista, 16 ottobre 2021 Un quadretto raffigura l’incontro di tre pesci in una bolla di vetro, uno rosso, uno bianco e nero, uno marrone. I tratti sottili disegnati da punte di matita di colore diverso creano un’immagine un po’ infantile ma significativa di uno stato d’animo. Forme di vita sospese in uno spazio senza orizzonte, in un tempo senza futuro. È forse questo il suo disegno più autobiografico. Akihiro Okumoto ha 33 anni ed è nel braccio della morte del centro di detenzione di Fukuoka. Aveva 22 anni quando ha ucciso con un coltello e un martello la moglie di 24 e la suocera di 50 nella sua casa nella città di Miyazaki nel marzo 2010. Ha anche ucciso suo figlio di 5 mesi strangolandolo e annegandolo in una vasca da bagno, seppellendo poi il suo corpo in un cortile vicino. Un disegno dedicato alla pace mostra proprio un bimbo piccolo che prova a prendere due farfalle, una azzurra e una più scura: ha gli occhi grandi neri, le gote rosa e veste un pannolino a pois e calzini verdi. Coltello e martello, le armi del delitto, sono ormai sotto chiave in un cassetto dei reperti di reato del tribunale che lo ha condannato a morte. Per dieci anni Okumoto ha usato armi diverse, leggere, colorate: le sue mani nude e le sue amate, inseparabili matite a colori, per lui vitali per disegnare animali e piante della città natale, il ricordo delle feste della semina del riso, gli uccelli variopinti, i ciliegi rosa in fiore in un mare di verde, le colline e altri paesaggi. Un disegno illustra un ciuffolotto maschio dal piumaggio rosa, celeste e nero, posato su un ramo di fiori di ciliegio. Un’altra immagine mostra due girasoli in un cielo azzurro: c’è il giallo oro dei petali che sfuma nell’arancio scuro della parte centrale, c’è il verde del fusto e delle ampie foglie. Il girasole è il fiore del cambiamento, della vita che volge, tramonta alla fine del giorno e rinasce ogni volta alla luce del sole. Col tempo anche i sentimenti dei famigliari di Akihiro Okumoto verso la sua punizione sono cambiati dopo che la sua condanna a morte è diventata definitiva nel 2014. Nell’aprile del 2017, un membro della famiglia delle vittime ha avanzato una richiesta di clemenza e chiesto un nuovo processo perché ora vuole che Okumoto espii i suoi crimini vivendo piuttosto che morendo. Per anni, il condannato a morte per omicidio ha disegnato immagini usando un set di matite a 24 colori, ha venduto i suoi disegni tramite i suoi sostenitori e ha inviato i profitti ai membri della famiglia in lutto. Ma un giorno, nell’ottobre 2020, il Ministero della Giustizia, nell’ambito di una “una revisione generale delle regole relative alla sicurezza”, ha rivisto la direttiva che stabilisce quali oggetti possono usare i condannati a morte. Così, le matite colorate e i temperamatite personali sono stati vietati. I colori dominanti nei bracci della morte sono ritornati a essere quelli monotoni, grigi e plumbei dei corridoi, delle celle, delle sbarre. Akihiro Okumoto, per riavere le sue matite e, con esse, i colori della sua nuova vita, ha intentato una causa al governo nazionale. Ha chiesto al governo di revocare la riforma delle direttive carcerarie che vietano l’uso di matite colorate, perché la nuova direttiva viola la sua libertà di espressione garantita dalla Costituzione giapponese. La prima udienza del processo avviato da Okumoto si è tenuta presso il tribunale distrettuale di Tokyo il 7 ottobre scorso. Il governo ha chiesto alla corte di archiviare il caso in quanto le direttive sono “ordini di servizio all’interno di un’organizzazione amministrativa e pertanto non devono essere oggetto di un ricorso giurisdizionale”. Rispetto alle matite meccaniche e ad altri strumenti di scrittura consentiti nei centri di detenzione, il rischio che uno faccia del male a se stesso o ad altri con matite colorate non può dirsi eccezionalmente alto. Per Okumoto, quindi, vietare totalmente l’acquisto delle matite è una restrizione crudele e insensata. Per lui, condannato a stare nel braccio della morte fino al giorno dell’esecuzione, disegnare immagini usando matite colorate significa riflettere sulla gravità del delitto commesso ed “evadere” dal rigore del castigo inflitto. Per lui significa anche, per quanto umanamente possibile, riparare il danno arrecato alle famiglie che hanno perso i loro cari. Lasciate a Okumoto, detenuto nel braccio della morte, almeno la facoltà di immaginare una vita a colori. Lasciatelo disegnare girasoli nel cielo azzurro e seguire con loro i raggi del sole. Per lui sarebbe un modo di sentirsi vivo anche nel luogo dove la vita è stata condannata a morte. Australia. Sorvegliare e poi punire, la distopia del “Surveillance Bill” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 16 ottobre 2021 Approvato dal Senato, concede poteri assoluti alla polizia. Sarà lecito spiare online i sospetti, controllare e alterare gli account. Avvocati e giornalisti: “Mostro giuridico che distrugge la privacy”. L’estate scorsa, tra giugno e settembre, le polizie coordinate di tutto il mondo misero a segno un colpo durissimo al traffico internazionale di droga, un successo che riuscì grazie ad un’indagine eseguita attraverso sofisticatissimi strumenti informatici. L’operazione fu denominata Ironside, un nome da telefilm che però ben presto lasciò il posto ad un’altra denominazione altrettanto evocativa: Pegasus. Si trattava dell’azienda israeliana impegnata sul fronte della cyber sicurezza che forniva software capaci di spiare praticamente tutti. E fra i tanti si scoprì che c’erano però anche attivisti dei diritti umani, giornalisti ma anche presidenti e altri uomini di potere. A farne uso governi dittatoriali e agenzie di spionaggio non proprio irreprensibili e così quella che sembrava l’alba di una nuova era del contrasto alla criminalità mondiale mostrò il suo aspetto più pericoloso, quello del controllo totale dei cittadini. I due fatti non sono chiaramente collegati tra loro ma danno il senso di ciò che sta succedendo e dei pericoli insiti in questo contesto. Un caso simbolo è quello dell’Australia dove in contemporanea con Ironside si stava discutendo un disegno di legge, poi passato al Senato del Paese, chiamato Survelliance Bill. Nelle intenzioni i legislatori hanno voluto creare un nuovo strumento legislativo per dotare lo stato di nuovi poteri di polizia che, attraverso tre diversi tipi di mandato, può spiare sospetti criminali online, interrompere i loro dati e assumere il controllo dei loro account. Sebbene la norma sia stata approvata anche con il sostegno dell’opposizione laburista permangono molte preoccupazioni sollevate in particolar modo da alcune associazioni di avvocati e giuristi che ravvedono nel Survelliance Bill un attentato alla privacy e un freno sostanziale alla libertà di informazione e alle inchieste che si occupano di illeciti commessi dal potere politico. L’attenzione di chi si oppone alla legge viene posta soprattutto sui cosiddetti whistleblower w cioè le “gole profonde” o informatori che vogliono denunciare tali illeciti e renderli pubblici attraverso i giornalisti. Per Kieran Pender, legale che lavora per lo Human Rights Law Center organizzazione che si batte per il controllo democratico dei cittadini in Australia) in gioco ci sono i diritti umani perché il Survelliance Bill in realtà, con una serie di norme invasive della vita delle persone, è solo l’ultimo di una serie di provvedimenti che in nome della sicurezza nazionale negli ultimi 20 anni hanno progressivamente eroso privacy e garanzie costituzionali. Da punto di vista legale si tratta di un mostro giuridico, i mandati infatti verranno autorizzati da corti di basso rango, o dall’Administrative Appeal Tribunals (AAT). A nulla è valso il tentativo di far discendere le autorizzazioni da organismi più elevati e indipendenti come il Law Council, il più importante presidio legale del Paese. Inoltre viene sottolineato dai giuristi come alcuni membri dell’AAT non hanno specifiche competenze legali sollevando molti dubbi sulla loro indipendenza. A ciò si aggiunge il fatto che tali mandati possono essere spiccati in regime di emergenza, in parole povere la polizia può autorizzare se stessa senza un’approvazione terza. Dal momento che si tratta di controllare un flusso di dati che viaggia sulla rete pare evidente che la mancanza di controlli può portare ad abusi. E a farne le spese potrebbero essere proprio gli informatori della stampa che devono agire necessariamente in regime confidenziale e segreto. In questo senso i precedenti non mancano. Un caso eclatante è quello che coinvolse David McBride, un avvocato dell’esercito che aveva prestato servizio in Afghanistan. Venuto a conoscenza di crimini di guerra perpetrati dal personale della difesa australiana si rivolse ai suoi superiori che lasciarono cadere la denuncia, McBride allora si rivolse ai giornalisti della ABC, che pubblicarono il famoso rapporto Afghan Files. Per tutta risposta nel 2020 la sede dell’ABC fu perquisita. E nonostante si scoprirono le prove di 29 omicidi di civili afgani le autorità tentarono in ogni modo di perseguire i giornalisti e l’informatore, in ballo naturalmente la sicurezza nazionale. Stessa motivazione che ha portato ad un procedimento contro l’ex ufficiale dell’intelligence australiana Witness K e del suo avvocato Bernard Collaery. L’agente segreto ha denunciato un’azione di spionaggio ai danni di Timor est avvenuta nel 2004 per ottenere vantaggi commerciali a favore dell’Australia durante dei negoziati sullo sfruttamento delle risorse del piccolo e povero stato. Proprio per la legge sulla sicurezza nazionale (contro il terrorismo) i due sono finiti in un tunnel giudiziario nonostante le loro affermazioni si siano rivelate fondate. K infatti si è dichiarato colpevole mentre il suo legale deve vedersela con un processo in gran parte tenuto segreto.