Mai più un carcere senza volontari di Luca Cereda Vita, 15 ottobre 2021 La presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia “rilegge” un anno e mezzo di Covid dietro le sbarre: “Tante violenze si sarebbero potute evitare”. Quando in estate - ad un anno di distanza da quel 6 aprile 2020, quando la pandemia era appena agli inizi - sono “esplose” davanti ai nostri occhi le immagini di quei giorni e delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (ma anche delle torture nel penitenziario di Torino ndr), in molti chiedevano ad Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti di aiutarli a capire come mai si fosse arrivati fin lì. E questo grazie alla competenza e alla comprensione del carcere che i volontari e chi fa giornalismo con i detenuti, può aver sviluppato: “Ho faticato molto a dare delle risposte sensate che non fossero di una generica e scontata indignazione. Il fatto è che il sistema carcere sia ancora un sistema malato, e spesso iniquo. Abbiamo a che fare con un malato cronico”. Per questo oggi è più importante che mai contrapporre a quella violenza, le attività che in questi anni hanno concretamente cercato di ridurre i danni prodotti dal carcere. Un’emorragia di umanità che andrebbe interrotta, soprattutto in un luogo in cui si finisce per violenze fisiche, psicologiche o economiche. La comunicazione in carcere, un “telefono senza filo” - Bisogna ora fare un passo indietro per capire meglio come funziona la comunicazione in carcere: è necessario infatti avere la consapevolezza del passaparola tra detenuti, e spesso anche tra operatori, che fa circolare le “notizie” nei luoghi di privazione della libertà. Quel fenomeno viene soprannominato “radio carcere” e ha contribuito in buona parte alle sommosse avvenute all’inizio della pandemia in molti penitenziari italiani, quando le chiusure per evitare l’ingresso del Covid vennero intese come un “stiamo buttando via la vostra chiave”. “Essendo, ahi noi, il carcere un luogo ancora troppo poco trasparente, al suo interno si sviluppa di frequente una capacità, amplificata rispetto al mondo “libero”, di stravolgere tante notizie che arrivano dall’esterno. Ecco, credo sia necessario cominciare a spezzare la catena della cattiva comunicazione e della scarsa trasparenza sulle notizie”, spiega Favero. Avere presente questo meccanismo dentro il carcere è fondamentale, parlarne ha a che fare ancora una volta con una materia di cui i volontari sono (gli unici o quasi) esperti: la comunicazione su temi complessi. “A fronte dei fatti drammatici di Torino e Santa Maria, ma soprattutto a quello che è successo con l’assenza di mese dei volontari nelle carceri, è il momento di dare valore allo “sguardo lungo” del Volontariato, che non ha mai accettato di farsi condizionare dall’alibi delle perenni emergenze carcerarie e che lavora da sempre per produrre percorsi significativi di prevenzione, e per scardinare la dittatura dell’idea di pena come “massimo della sofferenza possibile”“, aggiunge con decisione Favero. Le parole per restituire la complessità - La comunicazione su temi complessi, come lo è la pandemia o sulle violenze e le torture, quando è cattiva o mal gestita è un moltiplicatore di ansia e di rabbia. Dietro le sbarre. “A partire dalle esperienze di questi anni - testimonia la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia -, di un Volontariato che è sempre più maturo e consapevole del suo ruolo, mi sembra importante allora ripartire da alcune parole che raccontano i risultati significativi del lavoro che stiamo facendo, a cui oggi bisogna attingere per cercare di portare idee nuove in un sistema malato che vive ancora di violenza e di conflitti”. La frustrazione di sentirsi mal sopportati perché si fanno troppe domande o si cercano delle risposte in tempi decenti la provano tanto i detenuti quando i volontari. “L’ho provata anch’io, da volontaria, e nel mio rapporto con le istituzioni - testimonia Favero -. Quante volte mi sono sentita “rimessa al mio posto” per esempio da magistrati, coi quali pensavo di poter scambiare qualche riflessione su una persona detenuta che stavo seguendo? Quante volte ho dovuto cercare di stemperare l’angoscia dei detenuti e delle loro famiglie, sfiancati da attese senza fine? E quante volte mi sono sentita dire “deve avere pazienza”, riferito magari a un detenuto in carcere da trent’anni? Come se la condizione di detenuto legittimasse di fatto qualsiasi ritardo, attesa, mancata risposta”. I detenuti sono cittadini - “Credo che se nelle carceri qualcuno dell’amministrazione penitenziaria avesse parlato di più, esprimendo anche le incertezze che tutti, anche fuori, condividevamo a inizio pandemia, la situazione sarebbe andata diversamente. Non ci sarebbero state le sommosse e non sarebbe mancata la fiducia”, ritiene Ornella Favero. Una fiducia forse irrecuperabile. È infatti bene ricordare che i detenuti sono cittadini ristretti nelle libertà, non nei diritti. Questa drammatica pandemia sarebbe potuta essere l’occasione per lavorare a fondo sull’ingresso controllato della tecnologia. Per accorciare le distanze ma anche per imparare un “lessico digitale” che altrimenti rende analfabeti i detenuti che rientrano in società da un’isolamento analogico carcerario. I dispositivi sarebbero serviti anche per mantenere vivi i rapporti con le famiglie fuori dalle sbarre - non sporadicamente com’è accaduto -, nonostante la chiusura dei colloqui. “Dialogando tra le parti che compongono l’universo complesso e composito del carcere, forse, molte cose sarebbero andate diversamente”, chiosa Favero. Non è stato così. Riparte e rieducare: cosa hanno in comune? “Ripartire è una parola che si sente molto di questi tempi, ripartiamo allora riempiendo di contenuti la parola rieducazione, che se serve a collaborare, comunicando, tra tutte per parti chiamate in causa dietro le sbarre e che hanno quel concetto, rieducazione, come obiettivo. Rieducare riconduce all’ambito dell’ascolto, del confronto, del dialogo, è una parola importante, da “salvare” e a cui ridare valore. Ripartiamo da qui”, spiega Ornella Favero. Quando a luglio la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi si sono recati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno fatto un gesto denso di significati, hanno voluto esserci per dire che nessuna violenza può essere tollerata in nessun luogo del nostro Paese e nei confronti di nessuno, tantomeno del più feroce criminale. Che va accompagnato - appunto - in un percorso volto alla rieducazione. “Sarebbe importante per il futuro che in occasioni come queste le persone detenute potessero esprimersi non solo singolarmente, ma forti di un sistema di rappresentanza realmente democratico, dunque fatto di persone elette e non estratte a sorte, e questa deve essere un’altra battaglia che il Volontariato deve fare, per l’istituzione di una rappresentanza vera delle persone detenute. Ma il Volontariato in questa necessaria riforma dell’esecuzione penale deve fare qualcosa di più di “dire la sua”: deve vedere riconosciuto il suo ruolo, come lo configurano il Codice del Terzo Settore e le recenti Linee guida per il rapporto con la Pubblica Amministrazione che lo riguardano”. Perché oggi vengono attribuiti grandi responsabilità di comunicazione con i detenuti e con le famiglie, e nel percorso rieducativo, ma in un ruolo subalterno, da “ospiti” nelle carceri. “In tempi accettabili”. Tempi sconosciuti in carcere - “Le istituzioni devono lavorare insieme con il Volontariato e il Terzo Settore per la coprogettazione e la coprogrammazione di quei percorsi che conducono dal carcere alla comunità, percorsi non sporadici, ma che devono essere al centro della vita detentiva”, aggiunge Favero. Dovevano essere istituiti dal 1975: che fine hanno fatto i Consigli di aiuto sociale? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2021 Interrogazione di Giachetti alla ministra Cartabia, firmata da deputati di tutti i gruppi, tranne i 5 Stelle, per chiedere della mancata costituzione dei Consigli di aiuto sociale. L’unico a Palermo da ottobre. Fin dal 1975, quando furono varate le norme sull’ordinamento penitenziario, non sono mai stati costituiti i Consigli di aiuto sociale (Cas) che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti, in particolar modo quelli che finiscono di scontare la pena, aiutandoli a risolvere i problemi familiari. Per la prima volta, dopo aver ascoltato l’intervista su Radio Radicale di Rita Bernardini e dell’avvocato Giuseppe Rossodivita sull’argomento, il neopresidente del Tribunale palermitano Antonio Balsamo (il già presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta che acclarò il depistaggio di Via D’Amelio con la sentenza di primo grado del Borsellino Quater) ha costituito il primo Cas d’Italia a Palermo. L’istituzione dei Cas è previsto dall’ordinamento penitenziario - Come detto, parliamo dell’unico ente in tutta Italia nonostante sia contemplato - fin dal 1975 - nell’articolo 75 delle norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Proprio per questo motivo, il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva ha depositato una interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della Giustizia, per chiedere contezza della mancata costituzione dei Cas. L’interrogazione di Giachetti firmata da tutti tranne che dai 5Stelle - L’interrogazione è firmata da deputati di tutti i gruppi parlamentari tranne i 5 stelle (Giachetti, Italia Viva - Verini, Pd - Costa, Azione - Basini, Lega - D’Ettore, Coraggio Italia - Mollicone, Fratelli d’Italia - Magi, +Europa - Fratoianni, Liberi e Uguali - Colletti, L’Alternativa c’è - Palazzotto, Liberi e Uguali - Siracusano, Forza Italia) e dà notizia della costituzione del primo Cas a Palermo per volontà, ribadiamolo ancora una volta, del Presidente del tribunale Antonio Balsamo. Nell’interrogazione parlamentare si premette che diversi articoli della legge sull’ordinamento penitenziario, fanno tutti riferimento alla costituzione - presso il capoluogo di ciascun circondario - dei “Consigli di aiuto sociale” ai quali sono affidati una serie di importanti compiti relativi all’assistenza penitenziaria e post - penitenziaria. “Ad avviso dell’interrogante - si legge nell’interrogazione appena depositata - questi enti, dotati di personalità giuridica e sottoposti alla vigilanza del ministero della giustizia, sono fondamentali per corrispondere al dettato costituzionale di cui all’articolo 27 e relativo all’inserimento sociale delle persone detenute e per far fronte al soccorso e all’assistenza delle vittime del delitto”. Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita ne avevano parlato nel 2019 a Rario Radicale - Sempre nell’interrogazione, si evoca l’intervista rilasciata a Radio Radicale del 19 marzo 2019 dell’ex deputata Rita Bernardini e dal presidente della commissione giustizia del Partito Radicale, Giuseppe Rossodivita. I due esponenti radicali hanno lamentato la mancata costituzione e attivazione dei Cas, denunciando l’abrogazione, di fatto, di una parte fondamentale dell’ordinamento penitenziario vigente, “così importante - sottolinea il deputato Giachetti - anche per combattere il fenomeno della recidiva”. Dell’argomento si è più volte discusso sul programma Radio Carcere, condotto da Riccardo Arena e con ospite fisso Rita Bernardini. Ecco perché, nell’interrogazione rivolta alla ministra Marta Cartabia, viene chiesto se corrisponde al vero che l’ente promosso su iniziativa del presidente del tribunale Balsamo. Ancora più approfonditamente, alla guardasigilli viene chiesto: “Quale sia la situazione a livello nazionale in merito alla costituzione dei Consigli di aiuto sociale; da quali organismi o enti siano state svolte negli ultimi 5 anni le funzioni attribuite dall’articolo 75 dell’ordinamento penitenziario ai consigli di aiuti sociale” e per finire “quali iniziative di competenza intenda adottare per promuovere urgentemente la costituzione o se intenda adottare iniziative normative per apportare modifiche alla disciplina vigente e attribuire le imprescindibili finalità di altri enti o organismi”. Rita Bernardini del Partito Radicale tiene molto a questa interrogazione. Spiega a Il Dubbio i motivi: “Riguarda la mancata costituzione (dal 1975!) dei Consigli di Aiuto Sociale che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti. In particolar modo i liberandi aiutandoli a risolvere i problemi familiari e, soprattutto, a trovare un lavoro una volta scarcerati. Insomma, parliamo di reinserimento sociale di cui nessuno si occupa veramente”. Ecco cosa sono e come dovrebbero funzionare i Consigli di aiuto sociale Come la Costituzione, noi abbiamo l’ordinamento penitenziario più bello del mondo, ma non viene rispettato. Come riportato sulla stessa pagina de Il Dubbio, c’è una interrogazione parlamentare depositata dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti riguardante la mancata istituzione, fin dal 1975, dei Consigli di aiuto sociale per l’assistenza penitenziaria e post- penitenziaria (Cas). Nell’articolo 75 dell’ordinamento penitenziario, vengono elencate tutte le attività del consiglio di aiuto sociale. Punto primo. Cura che siano fatte frequenti visite ai liberandi, al fine di favorire, con opportuni consigli e aiuti, il loro reinserimento nella vita sociale. Punto secondo. Cura che siano raccolte tutte le notizie occorrenti per accertare i reali bisogni dei liberandi e studia il modo di provvedervi, secondo le loro attitudini e le condizioni familiari. Punto terzo. Assume notizie sulle possibilità di collocamento al lavoro nel circondario e svolge, anche a mezzo del comitato di cui all’art. 77, opera diretta ad assicurare una occupazione ai liberati che abbiano o stabiliscano residenza nel circondario stesso. Punto quarto. Organizza, anche con il concorso di enti o di privati, corsi di addestramento e attività lavorative per i liberati che hanno bisogno di integrare la loro preparazione professionale e che non possono immediatamente trovare lavoro; promuove altresì la frequenza dei liberati ai normali corsi di addestramento e di avviamento professionale predisposti dalle regioni. Punto quinto. Cura il mantenimento delle relazioni dei detenuti e degli internati con le loro famiglie. Punto sesto. Segnala alle autorità e agli enti competenti i bisogni delle famiglie dei detenuti e degli internati, che rendono necessari speciali interventi. Punto settimo. Concede sussidi in denaro o in natura. Per finire c’è l’ottavo punto: collabora con i competenti organi per il coordinamento dell’attività assistenziale degli enti e delle associazioni pubbliche e private nonché delle persone che svolgono opera di assistenza e beneficenza diretta ad assicurare il più efficace e appropriato intervento in favore dei liberati e dei familiari dei detenuti e degli internati. C’è anche l’articolo 76 dove si stabilisce che il consiglio di aiuto sociale presta soccorso, con la concessione di sussidi in natura o in denaro, alle vittime del delitto e provvede alla assistenza in favore dei minorenni orfani a causa del delitto. C’è anche l’articolo 77 relativo al Comitato per l’occupazione degli assistiti dal consiglio di aiuto sociale. Recita che, al fine di favorire l’avviamento al lavoro dei dimessi dagli istituti di prevenzione e di pena, presso ogni consiglio di aiuto sociale, ovvero presso l’ente di cui al quarto comma dell’articolo 74, è istituito il comitato per l’occupazione degli assistiti dal consiglio di aiuto sociale. Di tale comitato, presieduto dal presidente del consiglio di aiuto sociale o da un magistrato da lui delegato, fanno parte quattro rappresentanti rispettivamente dell’industria, del commercio, dell’agricoltura e dell’artigianato locale, designati dal presidente della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, tre rappresentanti dei datori di lavoro e tre rappresentanti dei prestatori d’opera, designati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, un rappresentante dei coltivatori diretti, il direttore dell’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, un impiegato della carriera direttiva della amministrazione penitenziaria e un assistente sociale del centro di servizio sociale. Vitto e sopravvitto in carcere, quando i detenuti sono un business di Mattia Moro Il Riformista, 15 ottobre 2021 Alimenti marci, anomalie e irregolarità nei prezzi, appalti vinti a ribasso. Gestire le mense di una prigione può fruttare molto. E quasi mai la clientela ha la possibilità di lamentarsi. Da due anni sto seguendo la questione degli appalti del cibo in carcere. Tutto parte da diverse segnalazioni giuntemi da ex detenuti mentre lavoravo a Mediaset nel 2019. Fino ad allora non sapevo niente del vitto (i tre pasti giornalieri completi di colazione, pranzo e cena che l’amministrazione è tenuta a fornire ai detenuti) e del sopravvitto (quello che i detenuti possono acquistare negli spacci interni), e non immaginavo cosa avrei scoperto! Le lamentele riguardavano i prezzi, la quantità e la qualità dei beni venduti in carcere. Il regolamento del Dap prevede che i prezzi di vendita non possano eccedere quelli comunemente praticati dagli esercizi della grande distribuzione nelle vicinanze dell’Istituto e che per offrire anche prodotti di basso costo (vista la condizione di totale povertà che vivono quasi tutti i detenuti) il prezzo si fissa in base a quello degli esercizi hard discount più vicini. Per verificare le segnalazioni, ho raccolto decine di liste della spesa ex modello 72 di vari istituti in cui risultavano diverse irregolarità sui prezzi e la qualità del sopravvitto. Un detenuto poi mi ha raccontato che in tanti anni di detenzione non gli era mai stato possibile acquistare, pagandola a prezzo pieno, carne che non fosse maleodorante. Solo chi è stato in carcere conosce i modi per lavarla con l’aceto per camuffare il sapore. Sul vitto ho filmato testimonianze che raccontano di cibo marcio o di menù dannosi per la salute. Un’ex detenuta mi ha raccontato che per una settimana le hanno dato da mangiare solo uova lesse (“Ma che so matti? Così mi veniva il diabete!”). In ogni carcere è prevista una “Commissione vitto”, composta da tre detenuti scelti a sorte mensilmente per controllare, sotto la supervisione di un incaricato dal direttore, il regolare andamento del servizio, dalla consegna delle derrate alimentari al controllo della qualità e quantità. Spesso capitano persone che non sanno leggere e scrivere o che non sanno parlare italiano o rispetto alle quali si possono nutrire dubbi sulla loro idoneità a denunciare eventuali anomalie del sistema. Per un detenuto è rischioso segnalare irregolarità su vitto e sopravvitto. Ci aveva provato Ismail Latief a denunciare agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere di Velletri: ha subito pestaggi e maltrattamenti sia a Velletri, nei giorni successivi alla denuncia, per convincerlo a ritirarla sia a San Vittore, dove era stato trasferito, perché non l’aveva ritirata. Esiste una sorta di consorzio chiamato Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip) di cui fanno parte aziende attive nel settore da tempo immemorabile. Come la Arturo Berselli & C. Spa che opera dal 1930! Studiando il bilancio di una di queste, la Saep Spa, società gestita dai fratelli Tarricone, mi sono accorto che l’azienda aveva vinto un appalto facendo un ribasso incredibile a 3,9 euro per colazione, pranzo e cena partendo dalla base d’asta di 5,7 euro per poi contestare che con il prezzo offerto non avrebbero potuto fornire il servizio come previsto dal regolamento, salvo però fare 6 milioni di utili su un fatturato di 24 milioni. Come è possibile? Mi ha aiutato a capire meglio la Corte dei Conti del Lazio che il 7 settembre 2021, su esposto della Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, è intervenuta in riferimento alla Domenico Ventura Spa, gestita dai fratelli Ventura, proprietari anche del circolo canottieri di Napoli, che gestiscono le mense di Lazio, Campania, Abruzzo e Molise. La Corte ha notato che l’aggiudicatario ha offerto un ribasso di quasi il 58 per cento sulla diaria pro capite di 5,7 euro, impegnandosi a consegnare delle derrate alimentari per il vitto di tre pasti giornalieri a un prezzo di 2,39 euro. E ha concluso rilevando l’apparente insostenibilità economica del servizio di vitto ove svincolato dai ricavi del sopravvitto. La Corte ha fatto notare anche come si metta a gara il vitto, lasciando poi alla amministrazione decidere se gestire direttamente gli spacci del sopravvitto o esternalizzare il servizio. Siccome accade sempre che la ditta che vince la gara del vitto poi si aggiudica di fatto anche la gestione del sopravvitto, la Corte ha detto che i due tipi di servizi - vitto e sopravvitto - presentano caratteristiche diverse e ha invitato a diversificare le procedure di gara per garantire la partecipazione del maggior numero di ditte con evidente beneficio della qualità e della economicità del servizio. “Stranamente”, tutte le società che si occupano di forniture di derrate alimentari in carcere hanno un rapporto utile/fatturato altissimo se comparato a una qualunque azienda di mense. Almeno per queste società i detenuti hanno un valore enorme. Sono una fonte inesauribile di guadagno perché sono clienti sicuri, in costante crescita e non si possono neanche lamentare. Oltre il danno la beffa: a fine “soggiorno”, sono tenuti anche a pagare le “spese di mantenimento in carcere”. Presunzione d’innocenza, 5 giorni per trovare l’intesa di Valentina Stella Il Dubbio, 15 ottobre 2021 Il Pd a Costa: “Abbiamo convinto i grillini a ritirare le loro proposte”. E lui: “Confido nella sensibilità di Cartabia, accetterò le sue scelte”. Sono solo cinque i giorni che la maggioranza ha per trovare un accordo sul parere da inviare al governo in merito ai decreti attuativi di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Sono pochissimi, e c’è pure un week end di mezzo che non aiuta gli sforzi di mediazione su un argomento molto divisivo quale quello della gogna mediatica e del protagonismo di certi magistrati requirenti. Per ben due volte è stata concessa alla commissione Giustizia della Camera una proroga per trovare una quadra, perché da via Arenula sono consapevoli che il problema esiste ma sperano in un risultato condiviso, che segua il metodo Cartabia. Al momento da una parte ci sono M5S e Partito democratico, dall’altro Lega, FdI, Forza Italia, Iv, Coraggio Italia che appoggiano il parere del relatore Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, il quale proprio ieri da twitter è tornato a polemizzare con i dem: “Ho presentato un parere contro le inchieste spettacolo, i pm star mediatici, gli atti spiattellati sui giornali: tutti a favore tranne M5S e, ovviamente Pd e Leu a rimorchio. I dem mi accusano di spaccare la maggioranza, solo perché non dico loro signorsì”. Dall’altra parte appunto il Partito democratico che considera Costa un “battitore libero” divenuto “inesorabile nella sua strategia di puntare alle divisioni della maggioranza anziché dare valore ai risultati raggiunti negli ultimi mesi”. In fondo da centrosinistra rivendicano di essere riusciti a convincere i pentastellati non solo ad abbandonare la proposta di introdurre l’uso dei trojan per le nuove norme anti-riciclaggio, ma anche a sostenere il testo di via Arenula sulla presunzione d’innocenza, facendo loro accantonare qualsiasi richiesta di modifica. Ma a riguardo, Costa obietta: “Se non fosse stato per la mia perseveranza, col cavolo che avremmo recepito la direttiva: il Pd aveva bocciato in passato la mia richiesta. E comunque sono rimasto un po’ sconcertato dall’attacco personale mossomi dai dem”, dice al Dubbio il deputato e relatore del parere sul decreto “garantista”, “io mi rivolgo sempre ai partiti, non faccio attacchi personali. Forse non hanno il coraggio di confrontarsi con Azione? Sono sempre pronto a trovare la sintesi sul parere, ma se questo significa azzerarlo del tutto, allora forse è il caso che si cerchino un altro relatore”. E ancora: “I Cinque Stelle hanno forse dimenticato la lettera di scuse ad Uggetti che Luigi Di Maio consegnò al Foglio? Quello per cui il ministro si è scusato è proprio quello che vogliamo evitare con questa direttiva. Prendiamo atto che il suo partito non sta seguendo Di Maio”. In conclusione assicura: “Conosco molto bene la sensibilità della ministra Cartabia sul tema, qualsiasi decisione prenderà la accetterò serenamente”. Quasi sicuramente a via Arenula non sarebbero pronti ad accogliere quella parte del parere di Costa che prevede il “divieto di comunicazione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti e processi loro affidati”. Sempre in merito ai lavori della commissione Giustizia, il presidente Mario Perantoni, esponente del M5S, ha dichiarato: “Entro lunedì ho chiesto ai gruppi di inviare le loro proposte per rimodulare la disciplina dell’ergastolo ostativo alla luce del pronunciamento della Corte costituzionale. Abbiamo necessità di arrivare con urgenza ad una sintesi e confido perciò nella responsabilità da parte di tutti”. Processo mediatico, quando il diritto di cronaca è solo voyeurismo di Valentina Stella Il Dubbio, 15 ottobre 2021 Oggi alle 10.30 l’evento al Salone del libro di Torino dal titolo “Giustizia e Informazione: un confronto con Il Dubbio, il giornale dell’Avvocatura - L’abuso del diritto di cronaca tra strumentalizzazione e spettacolarizzazione”. Stamane, presso il Salone Internazionale del Libro a Torino, si terrà un dibattito dal titolo “Giustizia e Informazione: un confronto con Il Dubbio, il giornale dell’Avvocatura - L’abuso del diritto di cronaca tra strumentalizzazione e spettacolarizzazione”, organizzato dal Consiglio Nazionale Forense e dalla Fondazione dell’Avvocatura italiana. Il confronto avviene proprio mentre il Governo dovrà esprimersi sui pareri delle commissioni parlamentari in merito al recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, la quale, come ha ricordato il responsabile Giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, “è affermata in Costituzione ma deve esserlo anche nella vita quotidiana del Tribunale. Troppo spesso ci sono persone indagate che vengono sbattute sui giornali a seguito di conferenza stampa degli inquirenti o a causa della divulgazione di video delle forze dell’ordine”. Era il 1983 e i militari, per trasferire Enzo Tortora, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all’Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie o almeno dovrebbe essere trattata sulla stampa spiegando i termini della questione, non imbastendo un criminal show. Salvatore Ferraro, Giovanni Scattone, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Annamaria Franzoni, la famiglia Ciontoli, Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Antonio Logli, Massimo Bossetti, il generale Mario Mori, Mario Oliverio, Clemente Mastella, Nunzia De Girolamo: sono solo alcuni dei nomi più noti di persone che hanno subìto nel nostro Paese i più morbosi processi mediatici. Non importa se tanti di loro siano stato poi condannati: nel momento in cui erano presunti non colpevoli sono stati attenzionati da un voyeurismo giudiziario senza precedenti, che ha costruito mostri da prima pagina, rovinando carriere e relazioni personali. Il fenomeno del processo mediatico è complesso e, come scrive il professore avvocato Vittorio Manes in un contributo dal titolo “La ‘vittima’ del ‘processo mediatico’: misure di carattere rimediale”, alla base “si pone il conflitto, difficilmente superabile, tra diritti contrapposti: il diritto di cronaca giudiziaria, da un lato, e dall’altro i diversi diritti che fanno capo a chi lo subisce (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza), oltre a più generali istanze di imparzialità del giudizio”. Molti, infatti, sono gli studiosi che da anni analizzano la questione e cercano delle soluzioni per bilanciare tutte le esigenze in gioco. Il professore avvocato Ennio Amodio, in un documento pubblicato dalle Camere Penali, descrive una situazione allarmante: “L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare”; mentre per il professor Giorgio Spangher “gli indagati e gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all’infinito”. Non importa se poi verrai assolto: quello che rimarrà nella memoria collettiva sarà la “verità storicizzata costruita dal pm nella fase delle indagini preliminari” quando l’inchiesta riceve tutte le attenzioni giornalistiche. Peccato però che giornali e tv disertano quasi sempre le aule di tribunale quando si celebra il processo, unico momento in cui nel contraddittorio si forma la prova. A delineare quasi scientificamente le differenze tra processo penale e processo mediatico ci ha pensato il professor Glauco Giostra in un elaborato dal titolo “Processo penale e mass media”: “Il processo giurisdizionale ha un luogo deputato - spiega - il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un itinerario scandito, l’altro nessun ordine; l’uno un tempo (finisce con il giudicato), l’altro nessun tempo; l’uno è celebrato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può essere “officiato” da chiunque. Ma vi sono anche differenze meno evidenti e più profonde. Il processo giurisdizionale seleziona i dati su cui fondare la decisione; il processo mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza che arrivi ad un microfono o ad una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. Il primo, intramato di regole di esclusione, è un ecosistema chiuso; il secondo invece è aperto, conoscendo soltanto regole d’inclusione; la logica dell’uno è una logica accusatoria, quella dell’altro, inquisitoria”. Ma tutto questo può inficiare il giudizio della Corte? Per la Cassazione non esiste questo pericolo: “Le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza” (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). Si tratta dello stereotipo del giudice con la corazza: ma è davvero così? La diffusione al di fuori del processo degli atti di indagine, coperti da segreto o non pubblicabili, costituisce certamente un ostacolo all’esercizio del diritto di difesa a causa del forte pregiudizio che arreca all’indipendenza psicologica del giudice. Quest’ultimo dovrebbe conoscere il materiale probatorio solo durante la sua formazione nella dialettica tra le parti. Qualche giurista sostiene che in realtà i giudici sono strutturati in modo da non farsi condizionare, tuttavia una volta un famoso avvocato, durante una cena, partecipò ai commensali che un magistrato gli aveva confessato che in realtà si lasciano in parte influenzare, soprattutto quando sono tante e ben mediatizzate le parti civili. E qui si dovrebbe aprire una parentesi - ma ora non c’è abbastanza spazio - sull’apporto che le parti civili, e i loro avvocati, spesso danno alla costruzione del processo parallelo sulla stampa. Nondimeno cosa accade invece per la giuria popolare, molto spesso composta da persone prive delle adeguate conoscenze giuridiche e facilmente influenzabili? Se la risposta è che in fin dei conti decidono i giudici togati, allora discutiamo seriamente affinché vengano soppresse. Se, invece, il loro giudizio ha un peso allora pensiamo a come metterli al riparo dall’influenza della stampa colpevolista. Ad esempio a Roma, nel processo per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, la presidente della Corte decise che i video del dibattimento non sarebbero potuti “essere pubblicati e mandati in onda prima della sentenza di primo grado per non minare la serenità di giudizio di coloro che” sarebbero andati ad esprimersi. Insomma, la matassa è complicata ma da qualche parte bisogna partire per districarla: sicuramente accanto a nuove norme servirebbe una inversione di tendenza sul piano culturale che investa tutti - magistrati, giornalisti e società civile. Ecco l’intercettazione riferita da Scarpinato: il “giocattolo rotto” era la “vecchia” mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2021 In una conversazione registrata il 2 agosto 2000 Giuseppe Lipari, l’uomo di Provenzano, si riferiva al cambio di strategia rispetto alle indicazioni dal carcere di Riina: non più stragi, ma invisibilità per gestire gli appalti. Il Dubbio ha preso in grande considerazione le dichiarazioni del magistrato Roberto Scarpinato in merito alle intercettazioni nelle quali, a un certo punto, si parla di “giocattolo rotto” riferendosi ad un summit dell’estate del 2000 indetto da Bernardo Provenzano. Il tema del contenuto era stato esposto in commissione Giustizia della Camera, nel corso dell’audizione sull’ergastolo ostativo. Nelle intercettazioni non si parla di trattative - Ora abbiamo visionato le intercettazioni ed emerge con più chiarezza che non si parla di alcun patto o trattative con lo Stato, ma cambio di strategia, rompendo con le indicazioni di Riina o Bagarella dal carcere. Come spiega il gip nell’ordinanza relativa al procedimento penale n. 3779/2003 della Dda di Palermo, il contenuto dell’intercettazione si sintetizza così: metabolizzare le conseguenze delle “scelte sbagliate” del passato (quelle di Riina) e ricucire i vecchi strappi, per poter rimettere il “giocattolo in piedi” e realizzare gli obiettivi di sempre, ovvero appalti e potere mafioso. Parliamo di una intercettazione che fu eccezionale per l’alto valore probatorio. Tant’è vero che è servita anche per confermare le parole del pentito Antonino Giuffrè, uno dei boss principali di Cosa nostra che partecipò a diversi summit organizzati da Provenzano. In particolare proprio gli incontri dell’estate del 2000 dove erano state affrontate - come dice lui stesso - “appalti … nell’ambito dei discorsi di Cosa nostra, come andavano processi, 41 bis, cioè c’erano un pochino le problematiche che c’erano in questo periodo”. Ma ora veniamo alla famosa intercettazione. Era il 2 agosto 2000 e Giuseppe Lipari parla con Salvatore Miceli - Si tratta di una conversazione registrata il 2 agosto 2000 all’interno del residence Conturrana di San Vito Lo Capo. Giuseppe Lipari, che vi trascorre le ferie e conversa con Salvatore Miceli, all’epoca già condannato per il reato di partecipazione all’associazione mafiosa Cosa nostra con sentenza che diverrà poi definitiva. Il clima della conversazione è estremamente confidenziale e le circostanze riferite da Lipari sono lo specchio fedele dello “stato” dell’organizzazione di quel momento. A questo punto è utile riportare i passaggi fondamentali. Solo così diventa comprensibile la vicenda del “giocattolo rotto”. È Miceli che si rivolge a Lipari. La discussione è sul dopo Riina, ovvero la gestione da parte di Provenzano: “Comunque tutte cose cambiate sono!”. Lipari risponde: “Sono cambiate ma, si sta cominciando”. Ed ecco che il suo interlocutore, Miceli, usa la frase estrapolata dai giornali di allora: “Ogni tanto mi fa ridere … dice … si è rotto il giocattolo! È scappato questo … è marsalese, è combinato male pure … e allora ci siamo incontrati cose … Salvatò, si è rotto il giocattolo!”. “Signori miei rimettiamo questo giocattolo in piedi” - Lipari dice a Miceli se conosce il carattere di Provenzano, il suo modo di gestire e la situazione di stallo dopo tutti gli arresti dell’ala corleonese di Riina. Poi va dritto al punto, riferendosi al summit dove ha partecipato Provenzano, Giuffrè e altri boss: “Qua sono … perciò … e giustamente quello è restio per una cosa, per dire “signori miei, rimettiamo questo giocattolo in piedi - che succede - se io, dice, non ricevo dal carcere le indicazioni di farlo … perché … significa che io devo andare contro di loro!”“. In sostanza, per indicazioni del carcere, Lipari si riferisce a Riina e Bagarella che hanno una gestione diversa, quella stragista. “Contro Totuccio (Riina, ndr) … contro Bagarella”, sottolinea Lipari. E aggiunge: “Perché … le situazioni furono quelle che furono … a questo punto io gli dissi: “Senti Bino (Provenzano, ndr), qua non è che abbiamo più due anni …, non ti seccare Bino”, io me la prendo questa libertà perché ci conosciamo”. Si decise il cambio di strategia: basta con le stragi - Come spiegato nell’atto giudiziario dove viene riportata l’intercettazione, la discussione del famoso summit fu proprio il cambio di strategia. Quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme. Lipari, infatti, spiega al suo interlocutore: “Gli dissi: “figlio mio, né tutto si può proteggere, né tutto si può avallare, né tutto si può condividere di quello che è stato fatto! Perché del passato ci sono cose giuste fatte … e cose sbagliate … bisogna avere un po’ di pazienza!”“. Ci vengono in aiuto le dichiarazioni di Giuffrè, corroborate appunto da questa intercettazione. Escusso dai magistrati, spiega che durante il famoso summit, si parlò della gestione degli appalti. “Il discorso appalti era stato affrontato - ha spiegato Giuffrè - e in tutta onestà diciamo che era abbastanza un discorso sempre di attualità e che noi per quanto riguarda il discorso della tangente riuscivamo sempre a controllare abbastanza bene. Ed anche in questo sempre su consiglio di Pino (Lipari, ndr), cercare di non fare rumore cioè alle imprese quando magari c’era qualche impresa di questa che era un pochino tosta, diciamo che non si metteva a posto, di non fare nemmeno rumore, cioè facendo fuoco, danneggiamenti… cioè di muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore”. Il tavolino a tre gambe per spartire i lavori - Giuffrè ha anche ricordato il ruolo di Lipari nel cosiddetto tavolino a tre gambe: mafia, politici e imprenditori: “Il Siino e il cosiddetto Tavolino. Il Siino perché? Perché è stato a tutte le gare di una certa entità, di una certa consistenza e come abbiamo detto sono state tolte dalle mani del Siino ed è passato questo potere al cosiddetto Tavolino, cioè dove troviamo quella persona dietro le quinte di cui ho parlato poco fa Pino Lipari, assieme ad altre persone, Salamone, l’ingegnere Bini e i fratelli di Bocca di Falco Nino e Salvatore (Buscemi ndr) che non mi ricordo il nome. E ripeto, dietro le quinte il discorso veniva pilotato da Pino Lipari. Questo tavolo aveva appositamente la funzione di spartire sin dall’inizio i lavori garantendo le tangenti una volta che la gara fosse stata espletata ed appaltato i lavori agli uomini politici da un lato, e alla zona, alla famiglia mafiosa dove ricadeva il lavoro”. Ma quindi, perché Lipari ha consigliato di rimettere il giocattolo a posto, non commettendo atti di sangue come fece Riina? Lo spiega sempre Giuffrè. Provenzano, assieme ad altre persone particolarmente a lui vicine come appunto Lipari, comincia a portare avanti il processo di sommersione, cioè, - ha sottolineato sempre Giuffrè davanti agli inquirenti - “rendere Cosa nostra invisibile affinché ci si potesse con calma riorganizzare”. I nomi era già contenuti nel dossier mafia-appalti - Non si può non notare che il tavolino a tre gambe - basti pensare i nomi citati da Giuffrè che ancora nel 2000 erano “attivi” -, era stato già svelato nel ‘91, quando venne depositato, per volere di Giovanni Falcone, il dossier mafia-appalti redatto dagli allora ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Altro che informativa “light”. Così leggera che, a distanza di anni, ritroviamo alcuni passaggi del dossier in diverse inchieste giudiziarie che si sono succedute nel tempo. Ricordiamo ancora una volta che Giuffrè è uno dei pentiti che ha fin da subito “svelato” la concausa delle stragi di Capaci e Via D’Amelio: mafia e appalti. Anche queste intercettazioni, evocate da Scarpinato, fanno capire quale sia sempre stato l’interesse primario della criminalità organizzata. Cosa, tra l’altro, che Falcone sottolineò durante un convegno organizzato il 15 marzo del 1991 presso Castel Utveggio, che si può trovare su Radio Radicale. Francesca Morvillo, una vittima della mafia e dell’indifferenza che è morta un’altra volta di Attilio Bolzoni Il Domani, 15 ottobre 2021 La prima volta in quel 23 maggio del ‘92, sull’autostrada. Le cronache sono state impietose fin dalle ore immediatamente successive alla strage: “È morta anche la moglie Francesca Morvillo”. La seconda volta della dimenticanza risale quando nel 2015 è rimasta sola nella tomba del cimitero di Sant’Orsola, per volere della sorella Maria le spoglie di Giovanni Falcone furono trasferite nella basilica di San Domenico, il pantheon dei siciliani illustri. La terza volta con le polemiche sollevate dalla confessione di Ilda Boccassini sulla sua storia d’amore con Giovanni Falcone. Ancora una volta lei che è una comparsa, sempre sullo sfondo. È una vittima quasi invisibile, una vittima che continua a subire più di altre l’oblio o l’indifferenza anche dopo la morte. Capita, è capitato di frequente a quelli che cadono per mano mafiosa, uomini e donne ai quali viene rubato il passato. Ma quante volte è toccata questa sorte a Francesca Morvillo, quante volte è stata dimenticata, cancellata dalla memoria, schiacciata nel suo ruolo di moglie come se non fosse altro che un’appendice del giudice Giovanni Falcone, un’ombra del magistrato al tempo più amato o più odiato d’Italia? Almeno tre volte. La prima in quel 23 maggio del 1992, sull’autostrada che si è aperta in un cratere che ha ingoiato la Sicilia. Le cronache sono state impietose fin dalle ore immediatamente successive alla strage: “È morta anche la moglie Francesca Morvillo”. Come se fosse un effetto collaterale, disgraziatamente allo svincolo di Capaci quel giorno c’era anche lei. Resoconti in fotocopia, uccisi Falcone “e gli agenti della scorta”, ragazzi privi di identità, agenti della scorta come corpo unico e anonimo. E, prima o dopo, uccisa pure “Francesca Morvillo che era al suo fianco”. Sempre accanto, un prolungamento, un accessorio. La seconda volta della dimenticanza risale a ventitré anni dopo la bomba, quando nell’estate del 2015 lei è rimasta sola nella tomba del cimitero di Sant’Orsola. Per volere della sorella Maria le spoglie di Giovanni Falcone furono trasferite nella basilica di San Domenico, il pantheon dei siciliani illustri dove riposano anche Francesco Crispi e Ruggero Settimo, Emerico Amari e Camillo Finocchiaro Aprile. Staccata a forza dal marito, vittima involontaria ma sicuramente consapevole, abbandonata al suo destino di martire di secondo piano, anche lei magistrata ma non così meritevole di sepoltura fra i “grandi” dell’isola. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, uniti nella vita e nella morte ma non nel ricordo. Così la famiglia Morvillo ha deciso di trovarle posto in un altro cimitero della città, quello dei Rotoli, una cappella requisita dal comune per ospitare le salme dei migranti inghiottiti dal mare. C’è solo una lapide e ci sono solo quattro parole: ““Qui giace Francesca Morvillo”. Non c’è scritto altro. Qui giace da sola Francesca Morvillo, avrebbero potuto aggiungere. Una rimozione ossessiva che ha toccato l’apice la terza volta in questi ultimi giorni, con le polemiche sollevate dalla confessione di Ilda Boccassini, nel suo libro di memorie, sulla sua storia d’amore con Giovanni Falcone. Ancora una volta lei che è una comparsa, sempre sullo sfondo, lei che resta sempre “la moglie”. Francesca Morvillo è stata una doppia vittima. Vittima di mafia e vittima della narrazione che ne è stata fatta (sono comprese le colpe di noi giornalisti, naturalmente), di come è stata raccontata dal 23 maggio di quasi trent’anni fa a oggi passando per la sconcertante vicenda del pantheon di San Domenico. La sua figura è stata indebolita, snervata, esposta non solo alla cancellazione del ricordo ma anche alle incursioni delle malignità. Senza che nessuno abbia mai cercato di capire chi fosse veramente questa donna che ha scelto di condividere la sua esistenza con un uomo come Falcone, una ragazza che si era laureata a ventidue anni, la sua tesi giudicata la migliore nelle discipline penalistiche nell’anno accademico 1966/1867 dell’Università di Giurisprudenza di Palermo, magistrata (una delle prime in Italia), figlia di magistrato e sorella di magistrato, docente universitaria, consigliere in Corte di Appello e membro della Commissione per il concorso di accesso in magistratura. I più intimi del giudice lo sanno bene che Francesca è stata sempre punto di riferimento e di confronto giuridico per Falcone, nonostante la sua proverbiale riservatezza il magistrato di ciò non ne faceva mistero. C’è un bellissimo libretto della Melampo editore - è uscito nel 2017 - che s’intitola “Canto per Francesca” e che è firmato dalla scrittrice e poetessa palermitana Cetta Brancato. In quelle pagine, che ospitano anche i ricordi di cinque amiche e amici della Morvillo, la Brancato dice che “bisognava come scollarla dalle fotografie che la ritraevano insieme a Giovanni Falcone (per) rivederla bambina, fanciulla e ancora magistrato ma soprattutto donna”. E poi un cenno alla traslazione della salma, lui costretto sempre ad essere eroe e lei “non degna del suo riparo nella morte”. Solo quella lapide solitaria, l’intitolazione di qualche scuola, di qualche via, di qualche piazza. Processo del lavoro con corsia preferenziale di Mauro Pizzin e Matteo Prioschi Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2021 Superamento definitivo del rito Fornero, completamento del percorso verso le specializzazioni, evoluzione della giurisprudenza sui licenziamenti. Ieri, in occasione dell’evento digitale nazionale organizzato dall’Agi, sono arrivate indicazioni importanti riguardanti l’attività degli avvocati giuslavoristi. Con un messaggio ai partecipanti, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha confermato che la riforma della giustizia “punta a offrire una corsia preferenziale per i contenziosi in tema di lavoro, con l’abolizione del doppio binario creato dalla legge Fornero, sostituito da un unico procedimento: l’obiettivo è far sì che i lavoratone le aziende restino il meno possibile nel limbo dell’incertezza”. E riguardo alla riduzione delle incertezze, la ministra ha affermato che il rinvio pregiudiziale in Cassazione potrà essere “utilmente sperimentato” anche in materia di lavoro”, riducendo il contenzioso ed evitando la compresenza di orientamenti contrastanti a livello territoriale. Dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, invece, è giunto un sostegno al cammino per le specializzazioni, su cui ha lavorato in passato quale ministro della Giustizia, quando varò il primo decreto sul tema. Un terreno “su si deve insistere perché penso che sia la vera condizione per una valorizzazione e per una piena ed efficace tutela dei diritti, in particolare dei più deboli, dei lavoratori, di chi il lavoro l’ha perso o rischia di perderlo”. Due temi, nuovo processo e specializzazioni, toccati in apertura dei lavori da Tiziana Biagioni, presidente Agi, che ha confermato l’impegno dell’associazione per raggiungere questi obiettivi. Nel corso della giornata sono stati approfonditi anche gli effetti delle sentenze sulle norme dei licenziamenti. A proposito di sentenze, Biagioni ha affermato che Agi sta lavorando perché tutte le decisioni siano fruibili, messe a disposizioni dell’avvocatura, anche quelle di merito. Gli interventi delle Corti superiori, che hanno messo nel mirino alcune norme della legge Fornero e del Jobs act sono state oggetto di riflessione di un workshop. Sotto la lente è finita in particolare la reintegra nel caso di mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo dopo le modifiche apportate all’articolo i8, comma 4, dello Statuto dei lavoratori. Si è ricordato che l’ordinanza interlocutoria della Cassazione 14777/2021 apre a un’espansione se la Sezione lavoro dovesse accogliere gli indirizzi formulati, ridando al giudice uno spazio per una reintroduzione del giudizio di proporzionalità anche nella selezione del rimedio applicabile. Al netto dell’ordinanza, l’opinione emersa è che la giurisprudenza di legittimità abbia inteso finora in termini molto restrittivi l’utilizzo della reintegra. Diverso il ruolo della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza 59/2021 - esigendo l’applicazione della tutela reintegratoria nelle condizioni previste dell’articolo 18, comma 7, dello Statuto in caso di giustificato motivo oggettivo di licenziamento - può aprire spazi di espansione dell’istituto anche sul fronte dei licenziamenti disciplinari. La cultura di provenienza non giustifica l’ignoranza della legge penale italiana di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2021 Scatta la condanna della madre che realizza all’estero la cruenta pratica nei confronti delle figlie minori con cui risiede in Italia. La mancanza di istruzione e l’origine culturale che differenzia lo straniero, residente nel nostro Paese, dal comune sentire del resto degli italiani non giustifica la commissione di un reato grave e odioso come l’infibulazione o altre mutilazioni genitali a danno delle donne. Sono argomenti totalmente recessivi di fronte alla violazione dell’integrità fisica dell’individuo che è diritto inviolabile tutelato dall’articolo 2 della nostra Carta costituzionale. Perciò la cultura millenaria che impone alle madri di mutilare sessualmente le proprie figlie e il fatto che ne fosse stata vittima da bambina la stessa imputata non ha determinato alcun ribaltamento della condanna e dell’obbligo di risarcimento verso le figlie minori da parte della Cassazione che con la sentenza n. 37422/2021 ha confermato le decisioni dei giudici di merito. A differenza di quanto sostenuto col ricorso, non scatta il principio dell’inevitabile ignoranza della legge penale per la donna africana poco scolarizzata che aveva praticato la mutilazione degli organi genitali delle figlie minori (solo) dopo un anno dall’introduzione del reato previsto dall’articolo 583 bis del Codice penale che, appunto, le vieta. Inoltre, prima del 2006 una tale condotta sarebbe stata comunque sanzionata a norma del Codice penale come reato di lesioni aggravate. La difesa della donna ricorreva in Cassazione affermando la violazione dell’articolo 5 del Codice penale letto alla luce della sentenza costituzionale 364/1988 che dà rilievo non soltanto all’“oggettivo” dovere di informarsi sulla legge, ma anche all’elemento “soggettivo” delle competenze e delle abilità possedute dall’agente. La Cassazione respinge sul punto la lamentela affermando che la ricorrente avrebbe dovuto contestare le eventuali lacune motivazionali. Lacune ritenute inesistenti dalla Cassazione visto l’esplicita affermazione dei giudici di appello sulla conoscibilità da parte dell’imputata del carattere deprecabile dell’infibulazione o di qualsiasi menomazione definitiva dell’organo sessuale femminile. Questo anche grazie alla circostanza che la donna avesse agito proprio nel Paese africano di provenienza dove - l’anno seguente - tale pratica millenaria veniva anche lì vietata. Non poteva, spiegano i giudici, non aver colto il mutamento di cultura e di opinione che normalmente precede la traduzione in legge di una nuova istanza della società civile. Perciò l’aver agito nel Paese di provenienza era elemento ben lungi dal sostenere la tesi dell’inevitabile ignoranza della donna sulla liceità del proprio comportamento, che ormai era stato già oggetto di forte contestazione anche nel suo stesso Stato di origine. Napoli. Muore detenuto di 84 anni: la denuncia del Garante anteprima24.it, 15 ottobre 2021 Ieri mattina, alle tre, è morto all’Ospedale Cardarelli di Napoli Giovanni Marandino detenuto nel carcere di Poggioreale dal mese di febbraio di quest’anno, accusato di usura. Su questa morte Samuele Ciambriello Garante Campano dei detenuti, ha dichiarato: “Marandino era una persona anziana con un passato con precedenti penali ma questo giustifica il fatto che da Febbraio di quest’anno sia stato fatto morire nell’assoluta solitudine senza il conforto dei familiari presso L’ospedale Cardarelli di Napoli? La tutela della salute, della vita e dell’età avanzata sono prioritarie rispetto alle misure cautelari? Io credo che è questa la domanda da porci, non solo per umanità, che negli ultimi tempi pare sia diventata merce rara, ma anche per misurare l’efficienza e l’efficacia di un sistema penale e detentivo che rimuove ogni problema trincerandosi dietro a vincoli burocratici e un gioco a rimpiattino sulle diverse competenze (Magistratura, sanità penitenziaria, periti di parte…). Da mesi, più volte interpellato dai familiari, ho seguito il caso di Giovanni in carcere e sono andato domenica scorsa a trovarlo in Ospedale al Cardarelli. Davanti a me un vecchio in fin di vita non in grado di intendere e volere. Tra l’altro in cella a Poggioreale era recentemente caduto, spezzandosi il femore, e subendo un’operazione; non poteva nemmeno usufruire dell’ora d’aria e, considerate le sue patologie, gli era stato assegnato un piantone. Una persona anziana arrivata in carcere in autoambulanza ne esce nella bara. Questo è accanimento giudiziario e altro. Napoli. Sbattuto in carcere a 84 anni, la morte annunciata di Giovanni Marandino di Antonio Lamorte Il Riformista, 15 ottobre 2021 Era tra i detenuti più anziani d’Italia Giovanni Marandino. Aveva 84 anni e una ventina di patologie ma il gip del Tribunale di Salerno aveva accolto la richiesta della Procura acconsentendo all’aggravamento della misura cautelare di “Ninuccio”. E così Marandino è morto la scorsa notte alle 3:00 all’Ospedale Cardarelli di Napoli. Era accusato di usura ed esercizio abusivo di attività finanziarie. Ed era stato condannato in passato, in via definitiva, per associazione a delinquere di stampo mafioso: riconosciuto affiliato alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. E infatti i titoli recita tutti o quasi così: su “l’ultimo boss della Nco di Cutolo”. Ma l’84enne aveva una ventina di patologie, come informava il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Marandino soffriva di “severa vasculopatia cerebrale con disturbi mnesici e disorientamento temporo-spaziale, depressione maggiore, ateromasia carotidea, distiroidismo, apnee notturne, diabete mellito scompensato e complicato, pregresso intervento per sostituzione valvola aortica, anuloplastica mitralica e rivascolarizzazione miocardica con bypass, postumi deiescenza ferita sternale tratta con vac terapy, cardiopatia sclero-ipertensiva-ischemia con pregresso ima, aritmia cardiaca da fibrillazione atriale cronica, postumi pancreatite, ipb, incontinenza neurogena, i.r.c da rene policistico, deficit visus, ipoacusia, laparocele, reflusso gastroesofageo, diverticolosi colon, severa artrosi polidistrettuale con gravi limitazioni funzionali”. A Marandino i domiciliari erano stati negati perché la sua abitazione a Capaccio, provincia di Salerno, era considerata “un vero e proprio centro logistico di finanziamento”. Accusato con lui il figlio, 39 anni, agli arresti domiciliari, la moglie e un altro uomo vicino alla famiglia, entrambi a piede libero. Secondo le indagini - condotte dalla Procura di Salerno guidata da Giuseppe Borrelli, ex capo Dda di Napoli - del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Salerno avrebbero incassato 100mila euro in un anno. Di così eccezionale rilevanza il pericolo di reiterazione del reato - si leggeva nella nota della procura di Salerno del 3 febbraio scorso - che lo stesso giudice ha ritenuto necessaria la custodia cautelare in carcere, pur trattandosi di un ultraottantenne. E oggi Ciambriello dichiara: “Marandino era una persona anziana con un passato con precedenti penali ma questo giustifica il fatto che da febbraio di quest’anno sia stato fatto morire nell’assoluta solitudine senza il conforto dei familiari presso l’ospedale Cardarelli di Napoli? La tutela della salute, della vita e dell’età avanzata sono prioritarie rispetto alle misure cautelari? - denuncia Ciambriello - Da mesi, più volte interpellato dai familiari, ho seguito il caso di Giovanni in carcere e sono andato domenica scorsa a trovarlo in Ospedale al Cardarelli. Davanti a me un vecchio in fin di vita non in grado di intendere e volere. Tra l’altro in cella a Poggioreale era recentemente caduto, spezzandosi il femore, e subendo un’operazione; non poteva nemmeno usufruire dell’ora d’aria e, considerate le sue patologie, gli era stato assegnato un piantone. Una persona anziana arrivata in carcere in autoambulanza ne esce nella bara!!!! Questo è accanimento giudiziario”. A denunciare per primo il caso il Garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia. “Non avevo mai visto un uomo in quelle condizioni”, riferiva lo scorso febbraio questo giornale raccontando di un signore anziano che cadeva dalla sedia a rotelle, che non riusciva a stare seduto, che aveva il catetere e non era autonomo. Ioia lanciava un appello alla ministra Marta Cartabia: “Signora ministra, io non so se le arriverà questo messaggio. Sono il Garante dei detenuti del Comune Napoli, sono appena uscito dal carcere di Poggioreale. Ho visto un detenuto di 85 anni, mi creda, sulla sedia a rotelle. Una larva umana. Mi creda, faccia qualcosa. La prego e la supplico, faccia qualcosa. Per la Giustizia italiana, grazie”. Un appello rimasto evidentemente inascoltato. Modena. Rivolta dell’8 marzo 2020. “Una macelleria mai vista”, nuove accuse da un detenuto di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 15 ottobre 2021 “A Sant’Anna denudato e picchiato contro il muro. Ci ammazzavano di botte”. Un carcerato scrive al Garante raccontando di pestaggi e di effetti mai restituiti. “Siamo stati ammazzati di botte”. “La più grande macelleria che ho visto nella mia vita”. Un’altra drammatica denuncia di pestaggi, maltrattamenti e in questo caso di mancata restituzione di documenti e beni preziosi è stata resa pubblica da un detenuto che era presente a Sant’Anna l’8 marzo 2020 durante e dopo la rivolta è che poi è stato trasferito al carcere di Ascoli dove è morto anche Sasà Piscitelli. La lettera è stata mandata al garante nazionale per i detenuti Mauro Palma e ora circola anche pubblicamente. L’ha scritta un detenuto straniero che dice di aver subito vessazioni non solo nella serata dopo la rivolta e nei giorni successivi. L’aspetto più inquietante, in questo caso, è proprio la sparizione di suoi effetti prelevati al momento del trasferimento e dopo quello che ha definito un pestaggio a un uomo denudato. Scrive (abbiamo corretto gli errori grammaticali): “Vogliamo sapere che fine hanno fatto i miei oggetti di valore. Trecento grammi di oro. Braccialetti, anelli, collane alla mia moglie (sic!). Documenti di valore (patente di guida rumena, carta di credito, postapay rimaste in carcere a Modena). Il sequestro del cellulare. I documenti di mio padre sono rimasti a Modena. Rivoglio i documenti di identità di mia moglie”. La lettera, scritta a mano con una grafia curata, denuncia una serie di gravissimi abusi. A cominciare dal giorno della rivolta: “Mi hanno messo al muro con la testa giù, spogliato tutto nudo davanti alla gente. Picchiato con pugni e calci vicino al muro e tenuto su col manganello alla gola. Sputavo sangue dalla bocca. Mi hanno operato la mano, fatto la coronarografia, ho ancora male al braccio sinistro”. E poi la rivendicazione: “Vogliamo i nostri diritti. Siamo delle persone. Degli animali sonio picchiati coi manganelli in terra. Per cosa portano i vestiti dello Stato? Per ammazzare la gente”. Racconta anche il suo trasferimento ad Ascoli, insieme con Sasà, morto poche ore dopo. “Ho visto della gente lì morire davanti ai miei occhi. Vedevi la squadra. Ho problemi alla gola da quando mi hanno tenuto col manganello alla gola. È il più grande massacro. Siamo stati senza vestiti e scarpe. Ci hanno fatto magiare un panino duro come un sasso. Andavamo alla doccia con l’acqua sporca (…) Non potevi aprire la bocca e ti ammazzava di botte. La più grande macelleria che ho visto nella mia vita. Ti massacravano di botte. Andavo a telefonare e staccava la linea. Ecco cosa facevano. Potenza sopra i detenuti. Siamo ammazzati di botte. Denuncio tutto”. La lettera è firmata ed è molto simile alla lettera anonima inviata in luglio. È anonima anche la lettera inviata al procuratore di Modena Luca Masini per denunciare altri abusi ai quali avrebbero partecipato i massimi dirigenti delle istituzioni penitenziarie regionali. È la prima volta che un detenuto, anche se anonimo (e quindi un teste privo di valore), scrive direttamente alla Procura di Modena. “Per favore, signor procuratore, accerti la verità”. Rovigo. Prossimo avvicendamento alla direzione del carcere rovigooggi.it, 15 ottobre 2021 Amministrazione comunale e Garante dei detenuti evidenziano l’esigenza di maggiore stabilità nella direzione del carcere di Rovigo. Incontro in Prefettura. L’assessore al Welfare Mirella Zambello ed il Garante dei diritti dei detenuti di Rovigo, Guido Pietropoli, si sono incontrati presso il Palazzo del Governo con il Prefetto Clemente Di Nuzzo, assieme al Direttore del Carcere Tazio Bianchi. L’incontro si è svolto, in prospettiva di un prossimo avvicendamento alla direzione del carcere, con l’obiettivo di favorire la prosecuzione della collaborazione con le associazioni della città di Rovigo, per la realizzazione delle diverse progettualità di inclusione e di reinserimento sociale e lavorativo rivolte alle persone che sono detenute o che stanno terminando il loro periodo di detenzione. Stante la proficua collaborazione con i direttori che sono stati assegnati a Rovigo, è stato condiviso l’auspicio che tali iniziative vengano intraprese e programmate in un’ottica di lungo periodo, in modo da coinvolgere pienamente i soggetti della comunità, sia per iniziative all’interno che all’esterno del carcere. “Il carcere di Rovigo - ha evidenziato Pietropoli - ha un’area detentiva che funziona molto bene con una struttura formidabile perché non ha problemi di sovraffollamento, attualmente ci sono 178 detenuti, per cui potrebbe essere una realtà in cui sperimentare progettualità innovative. Non dimentichiamo che il carcere ha una funzione detentiva, ma molto importante dovrebbe essere anche il suo ruolo educativo, dando una possibilità di reinserimento nella vita civile a chi ha scontato la pena e si prepara per rientrare nella comunità”. L’Amministrazione comunale, da tempo impegnata in una proficua interazione con la struttura carceraria, ha attivato un Tavolo di coordinamento sul “Carcere e Grave marginalità” con le associazioni di volontariato e cooperative sociali presenti nell’ambito carcerario; inoltre a breve saranno affidati fondi ottenuti dalla Fondazione Cariparo per favorire la realizzazione di diversi interventi e progetti delle associazioni. L’impegno del Sindaco Edoardo Gaffeo in sinergia con il Prefetto e le altre istituzioni è rivolto a sensibilizzare la comunità, compreso il mondo produttivo, per attivare tutte quelle forme di accoglienza che permettano anche alle persone che hanno compiuto reati, di potersi reinserire nei contesti lavorativi e sociali ed avere così una seconda chance per reimpostare la loro vita e quella dei loro familiari. Milano. “Non sono scarti, ma risorse”. L’idea dei detenuti esportato in un condominio di Simona Ballatore Il Giorno, 15 ottobre 2021 Il progetto “Risielda” nato nel carcere di Bollate sarà esportato in un condominio di Milano per incentivare la raccolta differenziata. “Proprio chi viene considerato ‘scarto della società’, e non lo è, insegna con la pratica a trasformare gli scarti in risorse e si riabilita, reinserendosi nella società”. Guido Chiaretti, presidente di Sesta Opera San Fedele, spiega così il “circolo virtuoso” nato dal carcere di Bollate che sarà sperimentato in un condominio di via Solari 40, a Milano. Il progetto “Rescue”, che ha ottenuto il finanziato di Regione Lombardia, sarà presentato questa sera negli spazi messi a disposizione dalla Cooperativa Antonio Labriola Scarl, in via Falck 51, in occasione di una serata finalizzata anche a raccogliere fondi per continuare a sperimentare un percorso di ecologia integrale con i detenuti. Al fianco di Sesta Opera anche la Coop Bonola e la Cooperativa Antonio Labriola Scarl. Se in Lombardia si contano circa 20mila tra detenuti e soggetti a provvedimenti cautelari, da quasi un secolo l’associazione di volontariato per l’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria, che fa riferimento ai Padri Gesuiti di Milano, lavora per il loro reinserimento. “Quest’ultimo progetto nasce dall’enciclica Laudato si’ di papa Francesco - spiega ancora Chiaretti - ma anche dall’idea di un ragazzo brasiliano che aveva pensato a un metodo per diffondere la raccolta differenziata in carcere”. Ne è nato un macchinario che pesa il rifiuto, riconosce il sacchetto e lo conferisce nello spazio giusto. “Il gruppo che lo ha realizzato è stato premiato anche con permessi e la possibilità di lavorare all’esterno - ricorda il presidente di Sesta Opera San Fedele - e adesso si occuperà della sua sperimentazione in un condominio vero di Milano grazie all’adesione del Comune. Stiamo cercando nuovi finanziamenti per diffondere questo progetto pilota che assicura anche sicurezza vera alla società, contro il rischio di recidiva”. A conclusione dell’incontro verrà lanciata una campagna di crowdfunding nata in collaborazione con l’università Bocconi e Citi Foundation, per finanziare anche il progetto P.I.A. (povertà, inclusione, ambiente) finanziato dal Ministero del Lavoro. Torino. Testimonianze dalle carceri: “Scrivere ci rende liberi” di Fabio Canessa Il Tirreno, 15 ottobre 2021 Uno spazio a Torino dedicato all’iniziativa nata a Piombino e che raccoglie la voce dei detenuti: anche un video con racconti da Porto Azzurro. “Come tutti gli anni, aspetto l’annuncio in bacheca del Premio Casalini a cui partecipo volentieri cercando le parole migliori da scrivere perché almeno loro possano uscire da questa prigione e viaggiare”, firmato G. D., detenuto nel carcere di Voghera. Al Premio Casalini sarà dedicato un incontro al Salone del Libro di Torino proprio nella giornata inaugurale di oggi, per celebrare il ventennale del primo premio letterario nazionale riservato ai detenuti nelle carceri italiane. Nato a Piombino come un’iniziativa di puro volontariato e dedicato alla memoria di Emanuele Casalini, docente e preside delle scuole superiori piombinesi fino agli anni Novanta (nonché instancabile studioso di Dante), il Premio, organizzato con cura e passione da Lucia Paperetti (vedova Casalini), ha permesso ai detenuti di tutta Italia di esprimersi con poesie e racconti, di essere pubblicati e letti e, in molti casi, di avere scoperto una autentica vocazione letteraria. “La scrittura rende liberi” è infatti il titolo dell’incontro torinese, previsto alle ore 17,15 nella Sala Ciano del Padiglione 3 e condotto da Ernesto Ferrero, scrittore, critico letterario, collaboratore prestigioso della casa editrice Einaudi, ex-direttore del Salone del Libro di Torino e presidente della giuria del Premio Casalini: vi parteciperanno Gabriella Raimo, presidente del Premio, Davide Casalini, figlio di Emanuele e presidente dell’Unitre al carcere di Porto Azzurro, e Pablo Gorini, storico membro della giuria fin dalla prima edizione. Nel corso dell’evento sarà proiettato il video “Voci di Porto Azzurro” di Maurizio Canovaro e sarà presentato il libro “L’altra libertà”, il volume che raccoglie tutte le opere in versi e in prosa premiate o segnalate, con le motivazioni della giuria e una prefazione di Ernesto Ferrero. Diffondendo all’esterno le voci dal carcere e offrendo ai detenuti la possibilità di essere letti da una giuria di qualità (ne faceva parte anche Giorgio Faletti, oggi sostituito dalla moglie Roberta Bellesini, e tra i membri attuali c’è l’editore e scrittore Gian Arturo Ferrari) e di vedere i loro testi stampati sulle pagine di un libro, il Premio Casalini ha già dimostrato più volte come l’esperienza dolorosa del carcere abbia fatto scoprire doti inaspettate e talento da scrittore a uomini e donne (ma c’è anche una sezione dedicata ai minori) dalle vite difficili che altrimenti non si sarebbero mai cimentati con la scrittura. La letteratura dunque non solo rende liberi, come suona il titolo dell’incontro torinese, ma può costituire per molti aspetti la vera riabilitazione. Lo testimoniano le numerose lettere arrivate alla segreteria del Premio. Sentite quello che scrive N. C. dalla Casa di Reclusione di Tempio Pausania: “La lettura e la scrittura hanno fatto di me un uomo nuovo, mi aiutano a sentirmi vivo e alla ricerca dei valori veri della vita”. Secondo E. S., dalla Casa di Reclusione di Padova, “in carcere la scrittura è medicina per l’anima” e P. G. da quella di Oristano ringrazia per essere “riuscito a esternare un po’delle emozioni che vivono nella mia anima”. “Qui la vita è sempre uguale”, scrive S. N. da Porto Azzurro, “e io aspetto con gioia questa cadenza annuale del Premio Letterario perché per me è una delle poche cose belle che ci sono in carcere”. La vera letteratura nasce sempre da un deficit, sforzandosi di colmare i debiti della vita con lo sfogo della scrittura, ma per chi è privo della libertà il bisogno si fa più urgente: “Stimolarmi a occupare il tempo nella nobile arte della scrittura ha rappresentato per me una valvola di sfogo”, scrive F. P. da Velletri, “un’esperienza emotiva nuova che mi ha aiutato a occupare i tempi rallentati del carcere rendendo più lieve il mio isolamento”. Tempi rallentati, isolamento, necessità di una valvola di sfogo sembrano in effetti le condizioni ideali per uno scrittore, come sostiene M. S. da San Gimignano: “Scrivere in un luogo di sofferenza come il carcere aiuta alla ricerca interiore ma stende un velo di malinconia sui nostri scritti”. Tra i troppi premi letterari inutili disseminati per l’Italia, spesso crocevia di scambi di favori editoriali e di compromessi tra addetti ai lavori, è un bel segnale che il Salone di Torino venga inaugurato con l’omaggio all’unico premio letterario che di sicuro serve a qualcosa. Napoli. Dentro il carcere di Nisida con gli operatori Uisp uisp.it, 15 ottobre 2021 Il carcere dovrebbe essere uno spazio e un’occasione di rieducazione per le persone che lo vivono, in particolare per i minori, che hanno davanti una vita da impostare su basi nuove una volta usciti. L’Uisp si inserisce in questi percorsi di recupero attraverso il suo linguaggio, che è quello corporeo e dello sport. Da molti anni le esperienze sul territorio si sviluppano e diversificano in base alle esigenze e ai contesti: la proposta Uisp Campania rivolta ai ragazzi dell’istituto minorile di Nisida si è strutturata già da quattro anni. Un’esperienza che ha già messo radici, costruendo rapporti di fiducia tra detenuti e operatori, per un’attività motoria che non è solo movimento fine a sè stesso, ma anche relazione, confronto e crescita reciproca. È stato proprio questo approccio ad essere raccontato dal servizio di RaiUno andato in onda domenica 10 ottobre all’interno dello Speciale Tg1, realizzato da Vincenzo Guerrizio in presa diretta all’interno del carcere minorile di Nisida. Telecamere e microfoni per due giorni hanno seguito ragazze e ragazzi detenuti, operatori, educatori, agenti. Come scorre il tempo “dentro”? Il reportage mostra regole, attività e interazioni all’interno di una comunità che per definizione non può mostrarsi. “Offriamo ai ragazzi quello che avrebbero già dovuto ricevere fuori”, spiega Gianluca Guida, da venticinque anni direttore dell’istituto napoletano. Corsi, scuola, sport, incontri, lavoro: la vita in un carcere minorile è in realtà, anche sorprendentemente, una relazione continua. Un mondo complesso che mette alla prova continuamente adulti e ragazzi. Una partita di pallone, il video colloquio coi familiari, il permesso premio, la cura delle cose comuni, la formazione professionale: la routine detentiva è sempre un percorso difficile da seguire. “Ho fatto un patto e sto cercando di rispettarlo” dice uno dei ragazzi in regime di semilibertà. “Il carcere è un microcosmo definito da un muro, rappresenta uno spazio fisico ma anche uno spazio ideale: sono tutte le aspettative, e alle volte anche i condizionamenti e i preconcetti, che arrivano dalla collettività esterna”, sono le parole del direttore che aprono l’approfondimento. “Il percorso nato con il carcere di Nisida è nato 4 anni fa - racconta Antonio Marciano, presidente Uisp Campania - grazie alla collaborazione con il direttore, Gianluca Guida, che ritiene importante la nostra attività perché vuole che i ragazzi facciano una vita più normale possibile, sempre all’interno di un sistema di regole. Con questa direzione abbiamo avviato una buona interlocuzione che ci ha permesso di far partire e poi confermare diversi progetti. Al momento i ragazzi fanno attività tre volte a settimana per un’ora e mezzo: praticano calcio, pallavolo e pallacanestro, mentre alle ragazze è stata proposta anche la danza”. Vincenzo Romano e Alessandro Perfetto sono due degli istruttori Uisp che tre volte a settimana entrano nell’istituto e organizzano le attività per i detenuti: “Qui dentro è un mondo a parte - dicono - noi cerchiamo di fare squadra e costruire un gruppo, lavorando anche sul rispetto delle regole. Lo sport diventa un mezzo di comunicazione e di partecipazione, che serve a farli sentire meglio ma anche a far capire che esiste una realtà diversa da quella che hanno vissuto. Nella vita si fanno degli errori e loro li stanno pagando, con il loro tempo e con le restrizioni, magari però un giorno uno di questi ragazzi potrebbe diventare allenatore di una scuola calcio”. Il progetto è co-finanziato dal carcere e dall’Uisp Campania, oltre alle attività sportive è nata una collaborazione per cui all’associazione viene affidata anche la gestione e la consulenza tecnica per l’allestimento degli spazi. Le attività si svolgono tutte all’aperto, dove sono stati allestiti un campo di calcio e cesti per la pallacanestro; i detenuti sono 60, tra cui 10 ragazze che praticano tutte attività con l’Uisp, mentre tra i maschi sono 30 a seguire gli allenamenti. “In questo anno terribile l’unico posto in cui il Covid non ci ha fermato è proprio Nisida - prosegue Marciano - si tratta di un ambiente chiuso, protetto, quindi con le dovute precauzioni abbiamo potuto proseguire l’attività, grazie alla lungimiranza del direttore. L’augurio, infatti, è che lo sport possa diventare parte della loro vita nel futuro, una volta acquisiti valori e principi che li possano accompagnare nella vita fuori”. Per il futuro sono in cantiere delle novità, si sta già lavorando ad un corso per allenatori, ma è importante impostare un percorso formativo fruibile e sostenibile: “L’obiettivo è avviare percorsi formativi da cui possano uscire con l’attestazione Uisp di istruttore, ci stiamo lavorando perchè è necessario trovare il linguaggio giusto per coinvolgerli, non è facile mantenere alta l’attenzione di questi ragazzi. Con gli operatori che entrano nell’istituto si crea un rapporto di fiducia, che permette di parlare, confrontarsi anche su temi diversi, conquistando di volta in volta un nuovo partecipante e una nuova possibilità di riscatto”. Povertà, il governo smetta di voltare lo sguardo di Massimo Pasquini* Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2021 Il 17 ottobre si celebra la XXIX Giornata Mondiale di eradicazione della povertà che venne istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1992. In relazione e adesione alla Giornata Mondiale di eradicazione della povertà la Rete Nazionale dei Numeri Pari ha promosso per sabato 16 ottobre una mobilitazione nazionale per i diritti e la giustizia sociale. Bastano alcuni dati per dare un senso alla Giornata e il manifesto che convoca la mobilitazione li elenca con precisione. In Italia sono 5,6 milioni le persone in povertà assoluta, 1,3 milioni sono minori. Sono, inoltre, 8 milioni le persone che vivono in povertà relativa: una persona su tre è a rischio esclusione sociale. La corruzione e l’evasione fiscale continuano a crescere, la precarietà abitativa e quella nel lavoro sono gli assi centrali che contribuiscono strutturalmente alla crescita della povertà. Le disuguaglianze sempre più marcate e l’assenza di politiche sociali efficaci e innovative creano le condizioni - afferma la Rete dei Numeri Pari - affinché siano le mafie a fare grandi affari. In ampie aree dell’Italia il cosiddetto welfare sostitutivo mafioso rischia di essere oggi l’unica risposta nelle periferie, evocate durante le campagne elettorali ma evidentemente ancora poco conosciute da chi dovrebbe dare risposte. In Italia il lavoro è sempre più povero e precario, crescono la dispersione scolastica e la precarietà abitativa. Come ha spiegato Walter De Cesaris, segretario nazionale Unione Inquilini, aderendo alla giornata di mobilitazione nazionale della Rete dei Numeri Pari, “l’abitare è uno degli ambiti maggiori dove si esprime la povertà e l’esclusione sociale. Gli sfratti per morosità continuano ad essere al 90% la principale motivazione di sfratto. L’Istat in un suo recente approfondimento ha reso noto che sono ben 866.000 le famiglie in affitto in povertà assoluta, ovvero il 18.1% delle famiglie in affitto, un dato che arriva a oltre il 25% nelle famiglie con minori”. La pandemia ha ampliato ulteriormente la crisi causata da insensate politiche di austerità. La Rete dei Numeri Pari denuncia con forza come, nonostante un aumento senza precedenti di disuguaglianze e povertà nel nostro Paese, il governo continui a volgere lo sguardo da un’altra parte, privilegiando gli interessi di élite economiche che continuano ad arricchirsi in Italia. Senza il coinvolgimento delle realtà sociali i fondi del Pnrr non serviranno neanche a scalfire le disuguaglianze e a garantire equità sociale, né sostenibilità ambientale. Anzi, il rischio è che possano servire per arricchire la criminalità organizzata come evidenziato dalle procure antimafia. Data la mancanza di ascolto del governo Draghi delle realtà sociali e dei movimenti impegnati a contrastare disuguaglianze, povertà e mafie, le realtà della Rete dei Numeri Pari scendono in piazza per i diritti e la giustizia sociale. Una mobilitazione, quella del 16 ottobre, in occasione della giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, sostenuta da associazioni, cooperative sociali, sindacati, reti studentesche, centri antiviolenza, parrocchie, comitati di quartiere, circoli culturali, movimenti per il diritto all’abitare, scuole pubbliche, biblioteche popolari, centri di ricerca, presidi antimafia, progetti di mutualismo sociale, fabbriche recuperate, fattorie sociali impegnate da anni sui propri territori nel contrasto a disuguaglianze, povertà e mafie. Quelle realtà che durante il lockdown hanno sostenuto decine di migliaia di persone in difficoltà attraverso forme di mutualismo e solidarietà. Saranno 10 le piazze che si mobilitano per i diritti e la giustizia sociale da Nord a Sud: Asti, Milano, Ravenna, Firenze, Roma, Salerno, Bari, Messina, Catania, Palermo. A Roma le 105 realtà della Rete hanno convocato una conferenza stampa il 15 ottobre alle ore 12:00 in Piazza del Campidoglio e un’assemblea pubblica romana per venerdì 29 ottobre nel tardo pomeriggio in Piazza Vittorio. In Toscana i diversi nodi locali confluiranno a Campi Bisenzio (FI) davanti ai cancelli della Gkn insieme ai lavoratori e alle lavoratrici. A Milano si terrà un’assemblea presso i nuovi locali della fabbrica recuperata RiMaflow in Via Verri, un presidio importantissimo contro le mafie, per il diritto al lavoro e la giustizia sociale. In Puglia, l’appuntamento è in Piazza Carabellese nel quartiere Madonnella di Bari per una raccolta di alimenti e beni di prima necessità con le realtà impegnate attraverso il mutualismo a contrastare la povertà. A Palermo l’appuntamento è in Piazza Verdi dove il Laboratorio Zen e Emmaus Palermo porteranno contenuti, proposte e attività. *Attivista per il diritto alla casa Carcerati, stranieri, rom: quanto è costato il Covid agli emarginati di Angela Stella Il Riformista, 15 ottobre 2021 Il Rapporto sullo stato dei diritti realizzato da A Buon Diritto e dalla Chiesa Valdese passa in rassegna l’impatto della pandemia sulla vita delle persone, dalla sfera sociale a quella educativa. Presentato ieri da A Buon Diritto e dalla Chiesa Evangelica Valdese il “Rapporto sullo stato dei diritti in Italia”, che traccia una panoramica sullo “stato di salute” dei diritti nel nostro Paese. Diciassette capitoli, ognuno dei quali racconta un diritto e una storia di donne e uomini che si sono battuti per affermarlo. Nell’aggiornamento di quest’anno, i ricercatori e le ricercatrici si sono concentrati sull’impatto del Covid-19 sulla vita quotidiana e sulla sfera dei diritti, con ripercussioni in ambito sociale, educativo, economico, lavorativo. Un capitolo di interesse è quello dal titolo “Prigionieri” e fa riferimento a tutte le persone private della libertà personale nelle carceri e nei centri di permanenza per i rimpatri. In particolare “l’emergenza pandemica è intervenuta in una situazione penitenziaria già “strutturalmente emergenziale”, caratterizzata cioè da un grave sovraffollamento protrattosi ormai almeno dal 2015. Come ben ricostruito da Antigone, a fine febbraio 2020 le 190 strutture penitenziarie italiane contavano 61.230 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un affollamento superiore al 119,4%”. Poi grazie al Decreto Cura Italia e alla circolare del Dap del 21 marzo 2020 si è determinata una “riduzione non irrilevante della popolazione detenuta, che a fine aprile raggiungeva la quota di 53.904, scesa poi a luglio - per effetto dell’applicazione a giugno delle misure provvisorie - a 53.619, con un tasso di affollamento del 106,1%”. Alla circolare del Dap è dedicato un sotto paragrafo: “diversamente dal d.l. Cura Italia prescindeva dal titolo del reato ai fini della concessione del beneficio, muovendosi dunque in una logica essenzialmente sanitaria” e “ha suscitato forti critiche, soprattutto a seguito della scarcerazione di Pasquale Zagaria”, di cui avete letto molto su questo giornale. “Le polemiche scaturite da questa decisione giudiziale - criticata anche dal presidente della Commissione antimafia - hanno indotto il Dap al ritiro della circolare. In realtà, l’infondatezza delle critiche ben può apprezzarsi considerando che la circolare altro non disponeva se non l’applicazione di una disciplina di ordine generale, una norma di civiltà, che coniuga il diritto fondamentale alla salute - che fa parte di quell’irrinunciabile “bagaglio di diritti” che, come ha precisato la Consulta, il detenuto non dismette”. In conclusione, “nessuna condizione più di questa emergenza pandemica, ormai destinata a durare lungo, potrebbe insomma motivare una revisione, tanto radicale quanto strutturale (e perciò da acquisire al sistema a regime e al di là della contingenza del momento) dell’ordinamento penitenziario (e dello stesso sistema penale), fondata su di una visione meno carcero-centrica e meno panpenalista, che sappia scommettere su misure extramurarie”. Le difficoltà di gestione della pandemia hanno aggravato anche il settore del governo del fenomeno migratorio “che già precedentemente soffriva di carenze ed emergenze ormai cronicizzate. Una delle misure maggiormente critiche adottate nel contesto pandemico è quella del trasferimento coattivo su “navi quarantena” di migranti già titolari di protezione umanitaria, richiedenti asilo o comunque regolarmente soggiornanti da tempo sul territorio, per effetto del solo dato della positività al virus. I tempi dell’isolamento su queste navi “sono stati spesso ingiustificatamente protratti fino a un mese”, e i tentativi di fuga sono “costati la vita ad almeno tre migranti”. Anche nel 2020 l’Unione Europea resta la grande assente per quanto riguarda le questioni migratorie e il diritto di asilo. “Le proposte di Bruxelles illustrate nel Patto europeo su immigrazione e asilo sono un compendio di tutte le scelte fallimentari degli ultimi vent’anni. Al contrario, il Parlamento italiano ha approvato una serie di modifiche interessanti al quadro normativo su immigrazione e asilo che meritano attenzione: il 21 ottobre il Consiglio dei Ministri ha licenziato il Decreto Legge 130/2020 che ha modificato alcune disposizioni dei due Decreti Sicurezza”. Tra le persone particolarmente colpite dagli effetti della pandemia anche i cittadini di origine rom e sinta “che già vivevano in situazioni alloggiative, lavorative e sanitarie svantaggiate. Molte non sono in possesso di mezzi di trasporto hanno avuto difficoltà anche solo a effettuare il minimo approvvigionamento di beni di prima necessità”. In condizioni ancor peggiori si sono trovati coloro che vivono negli insediamenti irregolari, dove già mancano le condizioni minime di igiene e non c’è accesso all’acqua potabile. Contesti in cui il diritto alla salute era già precluso prima della pandemia. Ai problemi sanitari si sono sommate le difficoltà scolastiche, visto che molti bambini e ragazzi che vivono nei campi hanno scarso accesso a supporti tecnologici”. “C’è chi protesta contro il green pass. Ma la rabbia è figlia della precarietà” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 ottobre 2021 Intervista al sociologo Domenico De Masi: “Ci sono 13 milioni di poveri in Italia che non hanno nulla da perdere. In passato avevano la chiesa e il Pci come punti di riferimento, oggi non li rappresenta più nessuno”. “Ci sono molte componenti diverse in questo tipo di protesta. C’è il lavoratore terrorizzato dall’innovazione tecnologica e farmacologica, c’è il lavoratore spaventato da dicerie di tipo quasi magico, c’è il lavoratore che rifiuta il green pass per ideologia e c’è il lavoratore arrabbiato per altre cose e usa questo pretesto come sfogo. E a seconda della motivazione queste persone sono più o meno convincibili vaccinarsi”. Nel giorno dell’entrata in vigore del green pass obbligatorio sul lavoro che rischia di paralizzare il Paese, col possibile blocco dei porti, il sociologo Domenico De Masi prova ad analizzare un fenomeno complesso per capirne le cause al di là delle semplificazioni. Professore, tra chi protesta c’è anche chi, da non vaccinato, teme di perdere potere d’acquisto dovendo sottoporsi a un tampone ogni 48 ore per lavorare. È una preoccupazione fuori luogo? Diciamo che avrebbe la possibilità di vaccinarsi gratuitamente per evitare questo pericolo. Sarebbe la soluzione migliore per tutti, per i cittadini e per lo Stato. Perché vaccinare le persone costa un terzo di un tampone ogni 48 ore per otto milioni di persone. Srebbe meglio riuscire a convincerli. E come? Se già il servizio pubblico televisivo dedicasse maggiore spazio all’informazione in materia di vaccini, invece di mandare in onda tutti quei quiz serali, sarebbe già qualcosa. Ma minacciare scioperare contro il green pass è legittimo o no? Prendo semplicemente atto che alcune persone contestano le idee di altre persone. E queste altre persone sono rappresentate soprattutto dal governo che avrebbe potuto rendere obbligatorio il vaccino così come sono obbligatorie tante altre cose nella nostra quotidianità. Perché la convivenza pacifica tra 60 milioni di persone richiede delle regole precise. Ma l’esecutivo non ha voluto introdurre l’obbligo ricorrendo a un escamotage che ha prodotto alcuni effetti ma non è riuscito a convincere tutti a vaccinarsi. Nelle proteste di questi giorni c’è chi rivendica la libertà di scelta e chi si agita per avere ad esempio adeguamenti contrattuali. Quanto sarà complesso questo autunno? Ci saranno molteplici motivi che inducono le persone a utilizzare questa occasione per manifestare la propria rabbia. Nutro del rancore per un motivo A e mi inserisco nel fenomeno B. A fine mese verrà meno ufficialmente il divieto di licenziare. È possibile che le piazze, che oggi chiamiamo no vax, si trasformino in piazze di rivendicazione sociale? Già adesso molti manifestanti chiedono questo. Persino la maggioranza di coloro che sono scesi in piazza sabato scorso. C’erano i no vax, sì. Ma tanti chiedevano lavoro, sicurezza e così via. Il problema semmai è capire chi organizza queste piazze. Chi decide? C’è una regia e andrebbe esplorata con attenzione. Per evitare che la situazione degeneri il governo dovrà intervenire per tutelare le categorie sociali più esposte? Non c’è dubbio. Ma bisogna capire che strada voglia prendere questo governo. Se una strada socialdemocratica, con un occhio di riguardo per gli svantaggiati, o neoliberista, più vicina agli avvantaggiati. Le cure tra loro sono molto diverse. E questo esecutivo che strada sta prendendo? Il presidente del Consiglio è uno dei leader mondiali del neo liberismo, non credo che vada verso la soluzione socialdemocratica. Quale sarebbe la soluzione socialdemocratica? Dare un lavoro a chi può lavorare e un reddito di cittadinanza a chi non può. Secondo l’Istat nel 2020, l’anno più critico della pandemia, il 9,4 per cento della popolazione italiana si è ritrovato in condizioni di povertà assoluta, circa 5 milioni e mezzo di persone (l’anno precedente era al 7,7 per cento). Che se sommate agli 8 milioni di poveri relativi fanno una fetta ragguardevole della popolazione italiana. E se anche solo una parte di questa massa si riversasse in strada nei prossimi giorni? Viviamo in una società precarizzata. L’effetto principale del neo liberismo è stato rendere precaria la vita di tutti e questo fa arrabbiare un po’ tutti. Alcuni però sono più arrabbiati degli altri. Molti di quegli oltre 13 milioni di poveri di cui parla lei non hanno neanche tanto da perdere. In passato i meno abbienti in Italia avevano due punti di riferimento per questa gente: la Chiesa cattolica e il Partito comunista italiano. La prima ha continuato a fare quello che faceva prima, occuparsi degli ultimi attraverso la carità. Ma quando è venuto meno il secondo è mancato un referente politico istituzionale a cui rivolgersi. Nessun partito ha più puntato a rappresentare gli ultimi. Che ora sono preda di qualsiasi forza politica. Si riferisce a Forza Nuova? Certamente. Ma non solo a loro, sono preda di chiunque. Anche del Pd o della Lega, per citare due partiti a caso. Migranti. Calano gli stranieri, ma aumentano le loro difficoltà di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 ottobre 2021 Il rapporto Caritas-Migrantes 2021 fotografa la situazione in Italia. Una famiglia straniera su quattro costretta a vivere in condizione di povertà assoluta. Sono di meno, più poveri e maggiormente colpiti dalla pandemia. È il quadro sulla condizione dei cittadini stranieri che vivono in Italia disegnato dal Rapporto Caritas-Migrantes 2021. Tra il 2020 e oggi la popolazione migrante è diminuita del 5,1%, passando da 5.306.548 a 5.035.643. Le cause individuate dallo studio riguardano soprattutto l’aumento di mortalità causato dal Covid-19 e la diminuzione degli spostamenti verso altri paesi. A livello percentuale decresce la componente di religione musulmana: con due punti in meno si attesta sul 27,1% del totale (circa 1 milione e 400mila persone). Parallelamente aumentano gli stranieri di fede cristiana: sono il 56,2% del totale, intorno ai 2,9 milioni di persone. Per quanto riguarda la provenienza: la maggior parte dei migranti sono originari di stati a medio reddito, mentre il 13% sono nati in paesi a basso reddito (percentuale in aumento negli ultimi anni con la crescita delle crisi umanitarie). Il persistere della pandemia ha avuto un duro impatto sulla riduzione dei posti di lavoro: gli stranieri ne hanno persi tra 100mila e 150mila rispetto all’anno precedente. Così il tasso di disoccupazione è salito al 13,1%, mentre quello degli italiani si ferma all’8,7%. Anche tra le persone con i documenti di altri paesi è la disoccupazione femminile a correre più velocemente: le donne hanno sofferto una diminuzione occupazionale pari al doppio degli uomini. I settori del mercato del lavoro che registrano le tendenze peggiori sono il turistico-alberghiero e quello dei servizi alla persona. In controtendenza il dato sulle imprese straniere che segna un +2,3%. Carenza di impiego significa anche aumento delle famiglie in situazione di povertà assoluta, che salgono al 26,7% (tra i connazionali sono il 6,7%). In numeri si stratta di 568mila nuclei. Negli anni precedenti alla pandemia il dato si attestava al 24,4%: in 12 mesi, quindi, si è registrato un aumento del 2,3%. Un altro indicatore di come le conseguenze sociali del Covid-19 hanno colpito maggiormente chi già viveva in condizioni di difficoltà. Altrettanto è avvenuto dal punto di vista sanitario: a causa della maggiore esposizione dei migranti per via dei tipi di impiego svolti (si sono contagiati sul lavoro in 165.528, due su tre donne); per la campagna vaccinale che ha fatto registrare un ritardo medio di 2/4 settimane tra la popolazione straniera e quella italiana corrispondente. Al momento i gap delle coperture vaccinali per fasce di età oscillano tra il 10% e il 15%. Un grosso problema è stato rappresentato anche dalle somministrazioni ai migranti privi di tessera sanitaria, iniziate con mesi di ritardo rispetto alla tabella di marcia e penalizzate da un’eccessiva difformità tra i sistemi regionali. Tutti questi elementi hanno inciso sulle situazioni individuali diventate più gravi. Notizie positive arrivano invece dalla scuola dove c’è un aumento progressivo delle presenze di alunni stranieri negli istituti secondari di secondo grado. Significa che tra queste ragazze e ragazzi cresce la spinta a proseguire gli studi. Purtroppo, a causa del ritardo legislativo su ius soli e ius culturae, 876.801 gli studenti si sono seduti tra i banchi di scuola nel 2019/2020 senza avere in tasca il passaporto italiano. In pratica uno su dieci rispetto al totale della popolazione scolastica. Chomsky: “Cancel culture regalo alle destre. La censura genera martiri della libertà di parola” di Marilisa Palumbo Corriere della Sera, 15 ottobre 2021 L’intellettuale radicale Noam Chomsky “Negli Stati Uniti abbiamo due partiti e uno dei due ha abbandonato la dinamica parlamentare: sono insurrezionalisti, al servizio dei super ricchi”. Appare puntualissimo sullo schermo con la lunga barba bianca che da qualche tempo ne contraddistingue il look. A 92 anni non si risparmia, parla con 7 per un’ora, si congeda perché lo aspetta un’altra intervista. Noam Chomsky, che torna nelle librerie italiane con Precipizio. Il Capitale all’attacco della democrazia e il dovere di cambiare rotta (Ponte delle Grazie), è forse l’intellettuale americano più conosciuto al mondo, una celebrity. “Una cosa a cui non do il minimo peso”, si schermisce. Ha insegnato a migliaia di studenti, ne ha incontrati, ispirati e sfidati, con i suoi studi sulla linguistica e con le sue idee radicali, molti di più. Cominciamo da come pensano, i ragazzi di oggi, e non solo loro. Lei è sempre stato un difensore accanito della libertà di parola, si sente a disagio davanti alla resistenza che spesso si incontra a discutere punti di vista diversi dai propri? “La soppressione del free speeche la cancel culture non sono una novità. Potrei fornire moltissimi aneddoti personali: incontri interrotti, interventi della polizia per proteggermi. Ma quando tocca alla sinistra essere demonizzata nessuno ne parla. Ora succede che segmenti delle generazioni più giovani autodefiniti progressisti copiano alcune di queste tattiche, ed è sbagliato come principio e suicida dal punto di vista tattico: è un regalo alla destra. Se Charles Murray (controverso politologo ultra conservatore, ndr) vuole fare un discorso al campus, e gli studenti fanno in modo che non parli, lui si vende come un eroe che difende la libertà di parola dai fascisti di sinistra, la sua popolarità cresce, Trump può usarlo nei suoi discorsi...ripeto, è suicida. L’esplosione di nuove preoccupazioni su razzismo e diritti delle donne sono tutte legittime, ma non quando sono perseguite in un modo che mina quegli stessi diritti”. Per esempio? “Prendiamo lo slogan Defund the police. L’idea dietro era piuttosto ragionevole, voleva suggerire il trasferimento dalla polizia a servizi civili di alcuni interventi legati per esempio ai tossicodipendenti, ai senzatetto. Ma se usi lo slogan Defund the police fai il gioco dell’estrema destra che lo prenderà, lo porterà su Fox News e comincerà a dire: ecco queste persone vogliono allontanare la polizia dalle vostre comunità così i criminali possono arrivare e derubarvi. È un assist insperato all’avversario”. L’anno scorso, insieme a intellettuali americani ed europei, ha firmato una lettera sul free speech che ha suscitato enormi controversie... “La lettera in sé era davvero semplice e innocua... Sono state le reazioni da parte di molti intellettuali di sinistra a dimostrare che la patologia denunciata è reale. Strano perché la posizione della sinistra è sempre stata quella di Rosa Luxemburg: se non permetti l’espressione di opinioni che non ti piacciono vuol dire che sei contrario alla libertà di parola, punto. La maniera giusta di rispondere è analizzare, smontare, usare il confronto come esperienza educativa. Tra l’altro una delle cose buone di questo Paese è che siamo i primi nel mondo nella protezione della libertà di parola”. A proposito della democrazia americana, in Precipizio lei suona un allarme molto serio sulla sua tenuta... “Perché sono convinto che sia sull’orlo del collasso. Ormai ne parlano anche i media mainstream, da Martin Wolf sul Financial Times al politologo conservatore Robert Kagan. Abbiamo due partiti, e uno dei due, quello repubblicano, ha abbandonato la dinamica parlamentare. Sono insurrezionalisti con politiche estremamente reazionarie. Sanno di essere minoranza, e sono al servizio dei super-ricchi, cosa divenuta quasi caricaturale sotto Trump, il cui principale successo legislativo è stato un provvedimento fiscale che ha pugnalato alle spalle la popolazione. Ora, non potendo guadagnare abbastanza voti con questa piattaforma, i repubblicani abbracciano i temi culturali: il suprematismo bianco, le armi, l’aborto... Succede dai tempi di Richard Nixon con la Southern strategy, quando conquistarono con la retorica razzista i democratici del sud delusi dal sostegno del partito ai diritti civili. Poi si resero conto che se fingevano di essere contro l’aborto - Reagan era stato pro-choice, e così Bush padre - potevano prendere i tanti voti dei cristiani evangelici e dei cattolici del Nord. Ora sanno di poter solo sperare di restare in piedi, minando il processo democratico. E così gli Stati repubblicani passano delle leggi che rendono difficile votare per chi tende a scegliere progressista: minoranze, poveri”. Ma spiegare tutto così non vuol dire considerare un po’ stupidi gli elettori? “Bisogna pensare a quello che vedono. I repubblicani hanno un sistema mediatico che racconta la loro versione della realtà: le talk radio, Fox News. Un Paese dove c’è caos sociale è una preda facile per i demagoghi, non è certo la prima volta nella Storia. Gli assalitori del sei gennaio erano relativamente benestanti, borghesi: è la base standard del fascismo”. Trump sarà ancora il loro leader? “Certo, e potrebbe vincere nel 2024 se si continuerà a minare il diritto di voto. L’altra parte della loro strategia è danneggiare il Paese il più possibile: fare in modo che ogni sforzo per far passare provvedimenti che aiutino i cittadini venga sabotato, così da alimentare rabbia e disillusione”. I democratici non hanno responsabilità se il Paese è sull’orlo del collasso? “Certo ci sono i democratici definiti “moderati” che invece dovrebbero essere chiamati “reazionari”, da Joe Manchin e Kyrsten Sinema, che con il loro veto impediscono l’approvazione di tante misure di cui la gente ha disperatamente bisogno, dalla sanità al lavoro. L’America è estremamente indietro rispetto all’Europa sulla giustizia sociale”. Le piace invece la nuova leva dei democratici progressisti? “Sono una forza molto importante, tanti sono giovani, e hanno costretto Joe Biden a includere un piano sul clima che non è meraviglioso ma almeno decente, e il partito a prendere posizioni moderatamente progressiste. Che poi di cosa parliamo? Assistenza sanitaria universale, istruzione superiore gratuita... conquiste assodate in Europa che vengono considerate troppo radicali per l’America. È ironico per chi ha la mia età. Quando ero un bambino negli anni Trenta, l’Europa si muoveva verso il fascismo, gli Stati Uniti verso la socialdemocrazia. Oggi è l’opposto: voi avete una qualche forma di socialdemocrazia che anche i conservatori sostengono, l’America si muove verso il protofascismo”. L’Europa aveva grandi aspettative su Biden, ma dal ritiro afghano alla crisi dei sottomarini, la delusione è stata cocente... “Biden è molto diverso dal suo predecessore sulle politiche domestiche, molto diverso sul clima, il che è importantissimo perché è la sfida globale più grande. Negli affari internazionali invece non è volgare e sadico quanto Trump, ma le politiche non sono poi molto cambiate”. Emergenza fame per 5,7 milioni di bambini di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 ottobre 2021 Un bambino su tre al mondo è malnutrito e ogni 15 secondi uno di loro muore a causa della mancanza di cibo; una situazione diventata sempre più pressante a causa di povertà, conflitti, cambiamenti climatici e pandemia che hanno reso quella in corso la più grave emergenza alimentare del 21/o secolo. È quanto emerge dall’ultimo rapporto di Save the Children diffuso in occasione di una campagna di sensibilizzazione e una raccolta fondi. Nel mondo oltre 40 milioni di persone non hanno certezza di poter accedere ogni giorno al cibo necessario. La situazione è in rapido peggioramento in 16 Paesi dell’Africa, 4 dell’America Centrale e 3 dell’Asia. Sono circa 5,7 milioni i bambini sotto i cinque anni che sono al limite della fame, oltre il 50% in più rispetto al 2019, anno in cui, dopo uno sforzo trentennale da parte delle organizzazioni umanitarie e della comunità internazionale, il numero delle persone afflitte dalla mancanza di cibo aveva toccato il punto più basso. Da allora la tendenza si è invertita e, “se non si agisce immediatamente - avverte Save the Children - migliaia di bambini potrebbero morire, vanificando decenni di lenti e difficili progressi”. La pandemia di Covid-19, in particolare, “sta agendo come acceleratore di fragilità esistenti, mettendo a nudo discriminazioni strutturali, disuguaglianze ed esclusioni, legate alla povertà e al genere. È come un motore che gira al contrario in un meccanismo che rende le persone, e i bambini in particolare, molto più vulnerabili”. Nel settembre 2015 - ricorda ancora la ong - 193 leader mondiali sottoscrissero un impegno per il raggiungimento di 17 obiettivi globali per lo sviluppo sostenibile. Il secondo obiettivo intendeva, entro il 2030, porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare e migliorare la nutrizione, promuovendo l’agricoltura sostenibile”. “Se non si interverrà con decisione - conclude il rapporto - l’obiettivo di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite di raggiungere “Fame Zero” entro il 2030 diventerà sempre più lontano”. La campagna di Save the Children riguarda 13 Paesi: Nigeria, Burkina Faso, Mali, Niger, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Somalia, Etiopia, Yemen, Siria, Afghanistan, Venezuela, India. Qui la Ong sostiene i servizi sanitari, svolge programmi di sicurezza alimentare a favore dei bambini e dei loro adulti di riferimento. Giulio Regeni, cancellato il processo agli 007 egiziani. La famiglia: “Non ci arrendiamo” di Elena Del Mastro Il Riformista, 15 ottobre 2021 Dopo 7 ore dall’inizio del processo per l’omicidio di Giulio Regeni arriva la battuta di arresto. Secondo i giudici della Terza Corte d’assise di Roma gli atti devono tornare al Gup. I quattro agenti della security egiziana accusati della morte del ricercatore friulano Giulio Regeni, non erano presenti in aula e i giudici hanno stabilito che il dibattimento non può avere inizio perché non esiste la prova che i 4 imputati conoscano l’esistenza del processo a loro carico. Gli atti dell’inchiesta tornano ora al giudice per l’udienza preliminare che dovrà nuovamente tentare di notifica agli imputati il procedimento a loro carico per poi essere in grado di rinviarli nuovamente a giudizio. Manca dunque la prova che gli imputati si siano sottratti volontariamente al processo. “Prendiamo atto con amarezza di questa decisione, che purtroppo premia l’ostruzionismo, l’arroganza e la prepotenza egiziana”. Così l’avvocata Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni. “È solo una battuta d’arresto, non ci siamo mai fatti fermare in 5 anni e mezzo e non ci arrendiamo certo ora. Si torna indietro di qualche mese, ma si ricomincerà con tutte le formalità richieste. Pretendiamo dalla nostra giustizia che chi ha sequestrato, torturato e ucciso Giulio non resti impunito e sappiamo che presto o tardi la nostra pretesa avrà soddisfazione”. “Chiedo a tutti voi- dice rivolgendosi ai giornalisti -, visto che è stata ribadita l’importanza di rendere noto che c’è questo processo, di dire i nomi dei quattro imputati e ribaditeli ogni volta che parlate di Giulio e di questo processo. Vi prego di fare nomi degli imputati, così che non possano dire che non sapevano”. “Chiediamo la sospensione del procedimento e la nullità della precedente dichiarazione di assenza: bisogna avere la prova certa che gli imputati siano a conoscenza del procedimento, e qui a nostro avviso non vi è alcun atto formale che sia stato materialmente portato a conoscenza di questi. La nostra è una difesa esclusivamente formale”. Così Paola Armellin, Filomena Pollastro, Tranquillino Sarno e Annalisa Ticconi, difensori dei quattro 007 egiziani imputati nel processo per la morte di Giulio Regeni. In mattinata il processo era iniziato nell’aula bunker del carcere di Rebibbia con le parole dure del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco: “I quattro imputati, i quattro agenti della National Security a processo per le torture, il sequestro e l’assassinio di Giulio Regeni sono dei finti inconsapevoli. Non sono qui in aula per evitare che il processo vada avanti. Sperano che non facendo l’elezione del domicilio, possano fuggire dal processo. Noi crediamo che questo non sia giusto. Il processo deve cominciare perché ci sono tutte le condizioni, anche quelle per il diritto di difesa, perché questo processo si tenga”. Un processo storico che inizia a quasi sei anni dalla morte del giovane ricercatore, anni di bugie e false piste, che vede indagati quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani: sono tutti accusati di sequestro, e uno di loro risponde anche delle sevizie e dell’uccisione del giovane. Storico anche perché sotto processo ci sono anche i modi di un paese come l’Egitto di Al Sisi sotto accusa per la violazione dei diritti umani e che mette a rischio anche i rapporti tra le due nazioni. Il processo è stato infatti accompagnato da atti politici forti come il ritiro dell’ambasciatore decisa cinque anni fa dal governo Renzi, per poi però tornare indietro qualche mese dopo e la decisione del premier Mario Draghi di chiedere la costituzione parte civile della Presidenza del Consiglio. Al processo non c’erano gli imputati. L’Egitto non ha mai voluto comunicare i loro indirizzi e dunque gli atti non sono stati notificati. “Lo hanno fatto per sottrarsi. È un caso di abuso del diritto, con una volontà chiara di sottrazione dal processo” ha spiegato il procuratore Colaiocco. Spiegando come, secondo la Procura, gli imputati sanno certamente che il processo italiano stava per cominciare. Lo sanno, “perché tutti i media mondiali ne hanno parlato” ha spiegato. “La notizia delle indagini è stata oggetto di una copertura internazionale oggettivamente capillare e straordinaria”. E poi perché ci sono dati “incontrovertibili” che lo dimostrano. “Gli imputati - si legge nella memoria che il pm ha depositato alla Corte - sono da considerarsi a tutti gli effetti dei testi qualificati essendo ufficiali di Polizia giudiziaria. Sono stati più volte ascoltati nel corso delle indagini preliminari. E seppur uditi come testimoni agli stessi sono state fatte molteplici contestazioni in ordine alla veridicità e correttezza delle dichiarazioni rese. Comunque sia, già in quella sede ebbero notizia della pendenza di un procedimento penale sulla morte di Regeni”. “La National Security - si legge ancora - cui appartengono i quattro ufficiali, ha partecipato alle indagini, ha fatto parte del team investigativo congiunto e ha piena conoscenza delle prove raccolte nell’indagine italiana”. “Gli indagati sono stati reiteratamente invitati ad eleggere domicilio attraverso atti formali in via rogatoriale”, rogatorie a cui mai è stata una risposta. “Qui gli imputati non ci sono. E non ci sono per due motivi: o perché non lo sanno. O invece lo sanno, e hanno evitato di esserci nella speranza che il processo si blocchi. Sottrarsi al processo che l’Italia vuole loro fare”. “Questo - ha spiegato sempre il procuratore Colaiocco in aula - fa parte di una strategia complessiva per sottrarre i quattro imputati alla giurisdizione italiana. E bloccare il processo”. A seguire il lunghissimo elenco di depistaggi, delle 40 richieste fatte e mai evase. Delle alterazioni delle prove stesse: sono stati manipolati persino i tabulati telefonici. L’elenco è lungo e, tristemente, noto: finti testimoni hanno provato ad allontanare le attenzioni dalla National security, addirittura cinque innocenti sono stati ammazzati in un conflitto a fuoco, facendo poi ritrovare a casa di uno di loro i documenti di Giulio. Portati, invece, proprio da un poliziotto, così come racconta un testimone. “L’ho visto giocherellare con il passaporto del ragazzo italiano”. E ancora: sono state cancellate le immagini del sistema di videosorveglianza della metropolitana di Dokki dove, secondo la ricostruzione che ne fa la Procura, Regeni è stato sequestrato. Infine, non è mai stata consegnata all’Italia il traffico delle celle che era stato promesso. Regeni, l’ultima offesa. Il processo è sospeso: “Gli atti tornino al Gup” di Grazia Longo La Stampa, 15 ottobre 2021 La Corte d’Assise di Roma annulla il rinvio a giudizio dei quattro 007: “Mai raggiunti da notifiche”. Si riparte da una rogatoria internazionale. Colpo di scena. Sospeso il processo contro i quattro 007 egiziani accusati del delitto di Giulio Regeni. In barba alle aspettative, dopo cinque ore e mezzo di camera di consiglio, la Terza Corte d’Assise di Roma, guidata dal giudice Antonella Capri, non crede che gli imputati sappiano di esserlo e annulla l’atto con cui il gup aveva deciso il rinvio a giudizio. Gli atti, dunque, ora tornano al gup che con una nuova rogatoria internazionale con l’Egitto dovrà accertare che i quattro agenti della National Security vengano effettivamente informati dell’indagine nei loro confronti. Altrimenti non si potrà procedere contro di loro. Mentre, alle 21.01, la presidente della Corte sta finendo di leggere l’ordinanza nell’aula bunker di Rebibbia salta la corrente elettrica per un blackout. Sembra un’ironia della sorte, il segnale del diritto che sopravanza la giustizia. Secondo i giudici c’è solo “la presunzione di non conoscenza dell’indagine”, condizione non sufficiente come ritenuto anche dalla Corte europea per i diritti umani. A parere della Corte d’Assise di Roma insomma “il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati comunque non presenti all’udienza preliminare mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento”. Anche il governo italiano aveva creduto nella possibilità di un processo, tanto da aver chiesto di costituirsi parte civile accanto alla famiglia Regeni. Per ora invece nessuna udienza in loro assenza per i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. I reati contestati sono, a seconda delle posizioni, di concorso in sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali aggravate e concorso in omicidio aggravato. Il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, che in cinque anni e mezzo ha coordinato con tenacia e determinazione le indagini dei carabinieri del Ros e dei poliziotti dello Sco, ieri mattina in aula ha insistito sulla necessità di considerare gli imputati come “finti inconsapevoli. In generale su 64 rogatorie inviate al Cairo, 39 non hanno avuto risposta. Abbiamo fatto quanto umanamente possibile per fare questo processo e sono convinto che oggi i quattro imputati sappiano che qui si sta celebrando la prima udienza”. Anche i legali della famiglia Regeni, gli avvocati Alessandra Ballerini e Francesco Romeo, hanno insistito sulla necessità di processare i quattro egiziani. E hanno ricordato i depistaggi clamorosi messi in atto dalla National Security e dagli imputati stessi per sviare l’inchiesta ed evitare il processo. Dal finto movente omosessuale, all’uccisione della banda di rapinatori fino ad arrivare al film sulla vicenda di Regeni, andato in onda sui media egiziani e comparso anche sui social network, “evidentemente diffamatorio tanto che i genitori di Giulio hanno presentato una denuncia-querela alla Procura di Roma”. I quattro difensori d’ufficio degli imputati, gli avvocati Annalisa Picconi, Paola Armellin, Filomena Pollastro e Tranquillino Sarno hanno, invece, ribadito a più riprese “l’impossibilità di processare i nostri assistiti perché essi sono irreperibili, come peraltro li ha definiti la procura e quindi è impossibile che abbiamo notizia di essere stati indagati. Se sapessero di dover essere processati avrebbero nominato avvocati di fiducia e invece nessuno ci ha rimosso dall’incarico d’ufficio”. Per rafforzare la loro tesi hanno inoltre ricordato un’informativa dei carabinieri del Ros del 7 aprile 2020 “in cui si evidenziava che il nome dei quattro egiziani non era mai comparso sui media del Cairo”. Abbiamo cercato di salvare i migranti dall’orrore libico, ma siamo stati sconfitti di Lia Manzella Il Domani, 15 ottobre 2021 Martedì abbiamo fatto il possibile per soccorrere un gommone con 70 persone a bordo, ma la Guardia Costiera libica è stata più veloce e i migranti sono stati riportati da dove fuggivano. Siamo tristi, frustrati e arrabbiati. Sappiamo che non avremmo potuto fare nulla di più di quanto abbiamo fatto ma non basta, non può bastare. Non riesco a togliermi dalla testa quelle persone e il bambino nato sul gommone che inizierà la sua vita in Libia, dove i migranti sono uccisi e torturati. L’Italia e l’Europa non possono essere questo. Questa mattina, dopo i normali turni di guardia e di distribuzione della colazione, abbiamo tenuto il nostro meeting quotidiano di aggiornamento per l’equipaggio dal punto di vista operativo, logistico, medico e di tutto il necessario. Virginia, a capo della seconda missione di ricerca e soccorso della ResQ People, ha iniziato il meeting chiedendoci di parlare di quanto abbiamo vissuto il giorno prima e di condividere con il gruppo pensieri ed emozioni. Cos’è successo martedì? È successo che una giornata iniziata nel migliore dei modi, con una meravigliosa lezione di italiano per i 58 ospiti a bordo (un ragazzo è già stato evacuato per gravi motivi di salute grazie alla collaborazione con la Guardia Costiera di Lampedusa), si è conclusa con una grande sconfitta che ha segnato tutti. Abbiamo infatti ricevuto la segnalazione di un gommone in difficoltà al confine tra zona SAR maltese e libica, con circa 70 persone a bordo, tra cui una donna al nono mese di gravidanza e diversi minori. Dopo una verifica delle condizioni del mare e degli ospiti a bordo, abbiamo deciso di muoverci in direzione dell’imbarcazione in pericolo. Ci aspettavano oltre 11 ore di navigazione, durante le quali sembra che la donna incinta abbia partorito il suo bambino sul gommone, ma essendo l’unica nave della flotta umanitaria civile in mare in questi giorni abbiamo deciso di provarci ugualmente. Solo nel tardo pomeriggio abbiamo saputo che anche la Guardia Costiera libica si stava dirigendo verso di loro e, nonostante un guasto tecnico che ci ha fatto sperare di potercela fare, sono purtroppo arrivati prima di noi e hanno riportato tutti nell’orrore da cui stavano fuggendo. Giunti sul luogo, solo lo scafo abbandonato. Quando i nostri rhib - i gommoni usati per il soccorso - sono rientrati, una donna ha chiesto “Where are they?” e così abbiamo dovuto spiegare anche a loro che no, non era rimasto nessuno, che agli altri naufraghi era toccato un altro destino. Come ci sentiamo? Tristi, frustrati, arrabbiati. Sappiamo che non avremmo potuto fare nulla di più di quanto abbiamo fatto ma non basta, non può bastare. Nel pomeriggio, mentre spingevamo la nave al massimo verso sud, in un attimo di pausa tra un turno e l’altro ero nella sala comune con alcuni dei nostri volontari e Matteo, logista di bordo, si è messo a suonare con la chitarra alcune canzoni tra cui un vecchio successo di Toto Cotugno. Mentre ridendo cantavamo “Sono un italiano, un italiano vero”, ricordo di aver pensato che in quel momento, vicepresidente di una onlus italiana che, grazie al sostegno di migliaia di cittadini italiani e non, ha comprato una nave che potesse solcare le acque del mare Mediterraneo per salvare la vita di chiunque ne abbia bisogno, insieme ad un meraviglioso equipaggio internazionale proveniente da cinque paesi diversi, quelle parole non avevano mai avuto per me più senso di così. E allora sì, a bordo della nostra nave non potevamo fare più di quello che abbiamo fatto, ma non riesco a togliermi dalla testa quelle 70 persone e quel bambino che nello stesso giorno in cui è nato è stato riportato in Libia e lì inizierà la sua vita. Lì dove tutti sappiamo che le persone sono uccise, torturate, violentate, picchiate, vendute, a spese dei nostri governi. 70 persone che di uniscono alle altre 25mila persone solo dall’inizio del 2021. Io non posso, non voglio credere che l’Italia sia questo. Non posso e non voglio credere che l’Europa sia questo. Ora sta per iniziare una nuova lezione di italiano, ricacciamo indietro le lacrime e sorridiamo perché è giusto offrire ai nostri 58 naufraghi a bordo l’accoglienza migliore che possiamo dare. Mentre insegniamo qualche frase utile per quando, finalmente, ci verrà assegnato un porto sicuro e potranno sbarcare, proviamo a restituire anche un po’ di dignità, calore, umanità. Finché le istituzioni non decideranno di cambiare radicalmente rotta, ci appelliamo a tutti quelli che come noi credono sia giusto e necessario praticare diritti per tutti, a terra come in mezzo al mare, che si sia nati nella parte giusta o in quella sbagliata della Terra: salite a bordo di ResQ insieme a noi per salvare quante più vite possibile, restituiamo un po’ della fortuna che ci è toccata e diamo una speranza a chi, come i nostri giovanissimi naufraghi, hanno già sulla propria pelle e nel proprio cuore cicatrici indelebili. Afghanistan, non cali il silenzio sulle donne di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 15 ottobre 2021 Non possono essere lasciate sole. È un dovere morale sostenerle nella conquista dei loro diritti. Sono passati due mesi dalla presa di Kabul da parte dei talebani. Era il 15 agosto. È passato un mese e mezzo dalla ritirata degli americani e degli altri Paesi occidentali. Quella ritirata che ci ha fatto male al cuore, che ha lasciato soli e indifesi milioni di donne e anche di uomini. Quella ritirata frettolosa che ha fatto apparire di fronte al mondo così inaffidabili i proclami sull’universalità dei nostri valori di libertà e democrazia. Nel nome di quegli accordi di Doha, voluti da Donald Trump ed attuati, ahimè, da Joe Biden, nei quali non hanno trovato riconoscimento per gli afghani i diritti delle donne e i diritti umani. Sono passati 38 giorni dalla formazione di un governo nelle cui fila sono numerosi i terroristi riconosciuti a livello internazionale. Un governo che già di per sé ha violato gli accordi di Doha, perché è costituito solo da maschi pashtun, senza tagiki, hazara, senza nessuna donna. Un governo che in un così breve lasso di tempo ha fugato qualsiasi promessa di moderazione. Una crisi umanitaria durissima in un Paese che ha vissuto 40 anni di conflitti, oltre disastri naturali, povertà cronica e mancanza di cibo. In tanti sono fuggiti in questi due mesi e negli anni precedenti. Due milioni e 200 mila risiedono come rifugiati in Pakistan e in Iran. È precipitata subito e duramente la situazione delle donne afghane. Nel giro di 24 ore si sono svelate le bugie di chi voleva mostrarsi moderato. Nessun diritto per le donne. Le parole di moderazione dei talebani immediatamente smascherate. No scuola dopo i 12 anni e università. Accompagnate dal maschio di famiglia quando escono, coperte, no sport, no lavoro in molti casi. La condanna a diventare lo spettro di sé stesse. Invisibili. Un tracollo dei loro diritti. Non può e non deve cadere il silenzio sulle donne afghane. Non possono essere lasciate sole. È un dovere morale sostenerle nella conquista dei loro diritti. Perché l’Occidente ha contribuito a lasciarle in questa situazione. Generazioni di uomini e donne hanno sperato nella libertà e l’hanno anche conosciuta, almeno nelle aree urbane, in questi 20 anni. Ora bisogna trovare le strade per rimediare ad un errore capitale. Le donne afghane sono ridotte a schiave. Loro reagiscono quanto possono. Mettono a rischio la loro vita. Rischiano i matrimoni forzati con i cosiddetti combattenti se nubili o vedove, sono costrette a fidanzarsi per evitarli. Loro, ricordiamocelo, sono la speranza della democrazia, la speranza del loro Paese. È stata positiva la decisione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu per la costituzione di uno Special Rapporteur per l’Afghanistan che monitori la situazione dei diritti umani, di pochi giorni fa, a Ginevra, speriamo fortemente supportato dalla struttura dell’Onu. Dobbiamo agire con forza e con continuità. Non c’è interesse strategico che tenga. Nessun riconoscimento ai talebani. Azione umanitaria, sì, ma sullo stesso piano di azioni forti e determinate per il ripristino dei diritti delle donne e dei diritti umani. Perché ce lo dobbiamo ricordare tutti. Compresi noi, semplici cittadini e cittadine di questo Paese. No al calo del silenzio quando sono negati i diritti. La libertà si difende sempre. Solo la difesa dei valori di libertà e progresso, dei diritti umani e delle donne renderà l’Occidente più forte e credibile. *Direttora centrale Istat