Il carcere senza suicidi non esiste, non esisterà di Stefano Anastasia* Il Riformista, 14 ottobre 2021 È un modo per sottrarsi alla sofferenza della prigione. Non va cercato un colpevole. Bisogna indagare ogni caso, correggere le procedure di prevenzione. Adeguare gli istituti alle norme di sicurezza, invece di costruirne di nuovi. Ancora un morto in carcere, ieri mattina a Regina Coeli. Ancora una volta uno straniero (afghano), sempre con la solita bomboletta. 36 anni, detenuto dal 3 agosto scorso, in attesa di giudizio, accusato di un grave reato contro la persona, maturato probabilmente in circostanze occasionali, di vite ai margini negli interstizi metropolitani. Sappiamo bene che i suicidi in un carcere non si possono completamente evitare, come fuori e più di fuori. Non a caso sono decine di volte più frequenti che fuori. Il carcere genera e aggrava sofferenze esistenziali che non sempre sono riconoscibili né prevedibili. Il suicidio in carcere è un mezzo per sottrarsi alla sofferenza della prigione e di una vita girata per il verso sbagliato (in questo modo “la porta gli devono aprir”, cantava De Andrè). Il carcere senza suicidi non esiste né esisterà mai. È più facile liberarsi dalla necessità del carcere che liberare il carcere dai suicidi. Come in tutte le situazioni tragiche, senza una via d’uscita o un bene assoluto da conseguire, quel che si può fare è tentare di ridurre il danno. E sappiamo che il Ministero della giustizia e le Regioni, a partire dalla direttiva 2016 dell’allora Ministro Orlando, si sono impegnati per piani di prevenzione a ogni livello e in ogni istituto. Quindi non si può lamentare l’inazione, e tantomeno la sottovalutazione. Né ci piace il gioco del cerino, della ricerca della responsabilità ultima, di chi non ha intuito, non ha vigilato o non ha impedito: il medico? Lo psicologo? Il poliziotto? Come se - appunto - il suicidio sia sempre prevedibile e ostacolabile, anche contro la lucida determinazione di chi decida di togliersi la vita. Questa comprensibilissima ricerca della responsabilità individuale sa troppo, però, di capro espiatorio (di chi è la colpa?) e non solo genera atteggiamenti burocratici e difensivi di tutte le figure professionali coinvolte, tutte timorose di essere messe sul banco degli imputati, ma disconosce ancora una volta la soggettività dei detenuti, considerandoli incapaci di determinarsi anche nella scelta tra la vita e la morte. Non mi piace, quindi, la ricerca della colpa da accollare a qualcuno, ma ogni caso di suicidio va indagato ed elaborato, per capire come sia maturato e che altro avrebbe potuto essere fatto per prevenirlo. Questa, sì, è mia domanda che bisogna avere il coraggio di porsi. Comprendeva la nostra lingua la persona che si è tolto la vita a Regina Coeli? Sapeva per quale motivo era in carcere e con quali prospettive? Era coinvolto in qualche attività? Aveva rapporti con i familiari o con altre persone care? È entrato in carcere da tossicodipendente, Reza, in trattamento metadonico presso un servizio territoriale. Ila continuato il trattamento anche in carcere. ma a scalare. Era seguito quindi dal servizio delle dipendenze di Regina Coeli e aveva colloqui periodici con l’educatrice penitenziaria e la psicologa del Serd. Ma non faceva colloqui con familiari o conoscenti. Pare avesse una famiglia e due figli a Genova, che non ha mai incontrato o sentito nei due mesi di carcere. Non un buon segnale, insieme con il suo italiano incerto. Si sarebbe potuto fare di più? Forse sì, ma bisognerebbe riuscire a discuterne serenamente, fuori dall’ossessione della responsabilità penale individuale e senza le chiusure a riccio che determina. Questo manca, forse, salvo buone prassi che non si fanno sistema, alla articolata macchina della prevenzione del rischio suicidario in carcere: l’attenta valutazione tra gli operatori di ciascun singolo caso di suicidio, per capire cosa avrebbe potuto essere fatto meglio, in cosa le procedure di prevenzione potrebbero essere corrette. Tra queste, certamente, a livello di sistema, la mancanza di un’alternativa all’uso delle bombolette da campeggio per le piccole cotture dei detenuti. Sono almeno quindici anni che si discute della possibilità di dotare di piastre elettriche le camere detentive. Si potrebbe prevenire l’uso improprio delle bombolette, per farsi (come potrebbe essere stato anche in questo caso) o per suicidarsi (come di fatto è stato in questo caso). E si potrebbero evitare le esplosioni accidentali, che pure accadono, con gravi rischi per l’incolumità delle persone. Invece di costruire nuovi inutili padiglioni, per tenere in carcere autori di reati da niente, come la gran parte dei detenuti in Italia, non era meglio usare i fondi del PNRR per l’adeguamento degli istituti esistenti alla normativa di sicurezza e igienico-sanitaria vigente? Non era meglio rifare gli impianti elettrici e dotare le stanze dei detenuti di piastre per la cottura? Non era meglio imparare la lezione del Covid e garantire in ogni stanza i servizi igienici e la doccia, come stabilisce il Regolamento penitenziario approvato 21 anni fa? *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante della regione Lazio I nodi dell’edilizia penitenziaria di Alessandro Domenico De Rossi * Il Riformista, 14 ottobre 2021 Stessi membri, stessi problemi: a che servono quelle Commissioni se per il carcere non cambia mai nulla? Oltre al farraginoso dibattito sulla salute al tempo del Covid, altre urgenze da lungo tempo inutilmente bussano alla porta. Tra queste spicca, per assenza dal dibattito politico e nella recente campagna elettorale, l’annosa questione penitenziaria che comunque interessa il territorio, le città, la popolazione e - scusate se è poco - gli stessi diritti umani di chi è recluso e di chi nelle carceri a vario titolo lavora. Non stiamo qui per rammentare l’urgenza di soluzioni e individuazione di responsabilità ricordando alla politica e all’amministrazione della giustizia quanto di recente avvenuto con le violenze nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Né siamo colti dalla frenetica curiosità di conoscere gli esiti, oltre alle generiche affermazioni e le buone intenzioni riguardanti la bonifica strutturale dei vecchi edifici, della corposa Commissione presieduta dall’architetto Luca Zevi, voluta a suo tempo dal ministro Alfonso Bonafede e poi confermata dalla guardasigilli Marta Cartabia. In merito, il sottosegretario alla Giustizia Francesco Sisto, circa la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi delle strutture penitenziarie per adulti e minori, ha riferito che il fondo complementare del Piano nazionale di ripresa e resilienza contemplerebbe ben 132,9 milioni di euro dal 2022 al 2026. “L’obiettivo della Commissione - ha spiegato poi Andrea Giorgis, altro sottosegretario alla Giustizia - è duplice: definire un modello di architettura penitenziaria coerente con l’idea di rieducazione, da un lato, ed elaborare interventi di manutenzione sulle strutture esistenti, dall’altro”. Idea encomiabile, seppure non particolarmente innovativa, quella della rieducazione, che per ora nulla aggiunge se non ulteriore retorica rispetto ai principi generali previsti nella Costituzione. Salvo piccole varianti, i componenti della Commissione Bonafede-Cartabia sono sempre uguali a coloro che parteciparono nel 2015 al Tavolo 1 presieduto dallo stesso architetto agli Stati generali dell’esecuzione penale nominata dall’allora ministro Andrea Orlando. Viste le nomine, vale la pena domandarsi perché debbano riunirsi periodicamente queste Commissioni quando poi, nella realtà, nulla cambia nel sistema e segnatamente per quanto riguarda l’edilizia penitenziaria. Viene il sospetto che essendo sempre gli stessi i componenti che si occupano periodicamente delle medesime commissioni, avranno forse bisogno di riunirsi periodicamente non certo per ricordare a stessi quanto hanno deliberato e ragionato in precedenza, visto che nel tempo nulla è cambiato. Altra ipotesi è quella che i componenti abbiano cambiato idea decidendo correttamente di aggiornarsi, visto che quanto elaborato in precedenza non rispondeva alle esigenze dello stato attuale delle carceri italiane. Preso atto dei risultati mancati, qualcuno sarà giunto alla convinzione che non tutto di quanto era stato prodotto nelle precedenti commissioni di studio era da mantenere e che fosse quindi necessario ripartire da zero. Al Ministero della Giustizia, in compenso, a fronte dei poco brillanti esiti non si è mai inteso modificare i forse troppo consolidati assetti metodologici con i relativi riferimenti e organismi, forse ancora troppo distanti da una ricerca in continua evoluzione proprio in questo settore. Per esempio, la circostanza recentemente verificatasi riguardante la proposta del nuovo carcere di Nola, progetto pomposo e contestatissimo, sovradimensionato e ben lontano da una nuova concezione della carcerazione e dagli stessi principi costituzionali, risulterebbe essere stato concepito secondo una logica che si spera non sia la stessa adottata dalla nuova Commissione Bonafede-Cartabia. In attesa di conoscere nel dettaglio gli esiti, nutriamo la speranza che la Commissione non sia caduta nella banale contraddizione di concepire i “nuovi modelli di architettura penitenziaria” avvalendosi degli stessi criteri e risorse culturali che portarono alla definizione del progetto per la città di Nola. Ma in tempi di una politica che alla velocità della luce si contraddice, non è da escludere che per la soluzione delle gravi criticità in questa materia e in assenza di un più vasto confronto con altre realtà, vengano riproposte le stesse linee-guida che a suo tempo furono a determinare i criticati progetti. *Vicepresidente del Centro europeo di studi penitenziari (Cesp) Non passa il testo grillino sull’ergastolo ostativo di Valentina Stella Il Dubbio, 14 ottobre 2021 Altolà degli altri partiti alla legge che “dribblava” la Consulta. Pericolo scampato, almeno per ora, nel tortuoso percorso di elaborazione di una legge che superi l’ergastolo ostativo, come richiesto dalla Corte costituzionale. Ieri, infatti, la commissione Giustizia della Camera era riunita per adottare un testo base dal quale partire per costruire una proposta sulla scorta delle indicazioni della Consulta. Non vi è ancora riuscita ma almeno il punto di partenza non sarà la proposta di legge per “un nuovo ergastolo ostativo” a firma M5S. Vi avevamo infatti raccontato che il presidente della commissione, nonché relatore del provvedimento, il Mario Perantoni, aveva proposto di adottare come testo base quello dell’onorevole Ferraresi, del suo stesso partito, e non un testo che fosse la summa fra tutti quelli proposti. Ciò aveva suscitato la forte critica della deputata dem Enza Bruno Bossio, prima firmataria di un’altra proposta di legge sul tema. Ieri dunque tutto è rientrato, come ci spiega la capoigruppo di Italia Viva in commissione, Lucia Annibali: “La proposta di Ferraresi è nata come reazione alla decisione della Corte costituzionale dello scorso maggio. Quindi noi ci siamo opposti ad adottarla come testo base, in quanto va contro lo spirito dell’ordinanza 97/2021. Se si fosse dovuti partire da una proposta per poi emendarla, si sarebbe dovuto considerare la regola per cui si adotta il testo depositato per primo, quindi quello della collega Bruno Bossio. Il presidente Perantoni ha preso atto che nessuno avrebbe appoggiato la sua proposta, tranne ovviamente il M5S e L’Alternativa c’è, e si è deciso di creare quindi un comitato ristretto all’interno della commissione per arrivare a un testo unitario”. Secondo l’ex ministro Alfonso Bonafede, però, “il mancato recepimento della nostra proposta come testo base per la legge sul nuovo ergastolo ostativo rappresenta una inspiegabile battuta d’arresto nel cammino del provvedimento: in questa occasione sarebbe stato giusto mettere da parte tutte le strategie politiche ed essere uniti sulla proposta che porta la firma di Ferraresi”. Proposta che però in effetti reca pure un titolo spiazzante: “Il nuovo ergastolo ostativo”. Ergastolo ai boss e bavaglio ai pm: la palla in tribuna di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2021 Il centrodestra e i renziani hanno fatto saltare in commissione Giustizia della Camera il voto sul testo base della nuova legge ergastolo ostativo-benefici penitenziari per mafiosi e terroristi, che il Parlamento, su imposizione della Corte costituzionale, deve modificare entro sette mesi. Se ne riparlerà nelle prossime settimane, sulla “riva destra” della maggioranza ha prevalso la logica elettorale: nessuna concessione al M5S, che “non deve toccare palla”, tantomeno sul fronte giustizia. La Commissione, su proposta del presidente Mario Perantoni, M5S, avrebbe dovuto votare come testo base quello che ha come primo firmatario Vittorio Ferraresi, altro 5S, dato che, a detta dei diversi magistrati antimafia auditi in Commissione, è quello più “strutturato”, in modo da evitare che con la nuova legge ci sia un “liberi tutti” per mafiosi irriducibili che, con quella attuale, invece, non hanno diritto alla libertà condizionata. Ieri, però, il centrodestra e i renziani si sono messi di traverso, non vogliono un testo con il “timbro” M5S e quindi i pentastellati, che avevano dalla loro parte il Pd (il testo in Commissione firmato dalla deputata dem Bruno Bossio, come già scritto, non ha avuto seguito nel partito) e anche Leu, hanno dovuto prendere atto che non c’erano i numeri; al presidente Perantoni, che resterà relatore della legge, non è rimasto che decidere di convocare un “comitato ristretto” con membri di tutti i partiti per trovare la quadra su un testo unico, che rappresenti la Commissione. Sullo sbarramento, nei fatti anti-M5S, è intervenuto l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Il mancato recepimento della nostra proposta come testo base per la legge rappresenta una inspiegabile battuta d’arresto nel cammino della legge sull’ergastolo ostativo. Noi ci siamo e continueremo a lavorare per una legge così importante, ma in questa occasione sarebbe stato giusto mettere da parte tutte le strategie politiche ed essere uniti sulla proposta che porta la firma di Ferraresi”. In una nota, i deputati M5S in Commissione, ribadiscono che questa legge è “una battaglia fondamentale antimafia” e si dicono “profondamente stupiti” che “Italia Viva e il centrodestra abbiano scelto di non sostenere la nostra proposta di legge, ritenendola troppo restrittiva”. Il Parlamento deve approvare una legge entro maggio 2022 che scongiuri le scarcerazioni di capimafia, perché la Corte costituzionale ad aprile ha “sdoganato” pure la libertà condizionata, dopo 26 anni di carcere, per i boss con ergastolo ostativo che non hanno mai collaborato. Ha, però, deciso che sia il Parlamento, entro un anno, a normare. Nel 2019, invece, ha dato il via libera essa stessa ai permessi premio, con dei paletti di cui devono tenere conto i giudici di Sorveglianza chiamati a decidere. Ieri, in Commissione è saltato anche un altro voto, quello in merito al parere sul ddl del governo sulla presunzione di innocenza, che imbavaglia i pm e i giornalisti, prevedendo che i procuratori possano parlare con i cronisti solo con comunicati e “in casi eccezionali” in conferenza stampa, impedendo così, con la scusa del recepimento di una direttiva Ue, che i cittadini vengano a conoscenza di inchieste che riguardino politici e altre figure istituzionali, di rilievo sociale. Ma questo bavaglio è insufficiente per il relatore in Commissione Enrico Costa, di Azione, che non vuole neppure le conferenze stampa dei procuratori e che, per dire, si sappiano i nomi dei pm titolari di indagini. Ferraresi si è espresso contro e ha chiesto, invece, delle modifiche al testo già restrittivo del governo, per garantire il diritto all’informazione e ai giudici il libero convincimento quando scrivono un provvedimento. Alfredo Bazoli, Pd, dal canto suo, ha proposto un parere favorevole secco “per stare col governo e con la maggioranza”. A quel punto si sono iscritti a parlare tutti i deputati M5S e il presidente Perantoni, grazie anche a un “provvidenziale” inizio dei lavori dell’Aula, ha rinviato il voto di una settimana. “M5S quando vede che il voto non ha l’esito che desidera lo impedisce” ha commentato un Costa furioso, Perantoni ammette il problema politico: “È stato un rinvio dovuto sia a ragioni tecniche, cioè l’inizio dei lavori d’Aula, sia per evitare una conta che avrebbe spaccato la maggioranza”. Super 41 bis disumano: il tribunale di sorveglianza dà ragione a un detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2021 Natale Dantese, recluso a L’Aquila, non è un boss ma è nell’area riservata del 41 bis. Il suo ricorso è stato accolto dal magistrato di sorveglianza e confermato dal tribunale che ha respinto la richiesta del Dap di revocare la misura. Ha una finestra caratterizzata da una prima inferriata e da un ulteriore massiccio strato di rete metallica che non consente, per il suo spessore, il passaggio di luce solare. Difficoltà nel ricambio dell’aria e l’impossibilità di vedere al di là della rete. Spazio ridotto per l’ora di socialità e il passeggio. Un incubo. L’area riservata è una forma di carcerazione più aspra del 41 bis - Parliamo di un 41 bis “speciale”, più infernale di quello “ordinario”. Si tratta della cosiddetta “area riservata”. Il detenuto, Natale Dantese, attualmente recluso al carcere de L’Aquila, ha fatto ricorso tramite l’avvocato Vinicio Viol del foro di Roma, ed è stato accolto dal magistrato di sorveglianza. Il Dap ha fatto ricorso e il tribunale di sorveglianza l’ha respinto. Una vittoria importante, che ristabilisce il diritto di non subire una pena disumana. L’area riservata è una forma di carcerazione decisamente più aspra del 41 bis. Ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Parliamo delle caratteristiche principali di una carcerazione che non ha nessun fondamento normativo, ma nonostante ciò è un atto amministrativo che viene applicato in numerosi casi. Il super 41 bis messo all’indice dagli organismi internazionali - Questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali, come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), ma anche dal dossier della commissione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate comportano un isolamento totale. Natale Dantese non è un boss, ma una “dama di compagnia” - Per capire ancora meglio, è di aiuto la memoria difensiva dell’avvocato Viol, quella che ha convinto il magistrato di sorveglianza a disporre la fine dell’incubo. Anche perché, Dantese, non è nemmeno un boss di grosso calibro. Lui è quello che nel gergo carcerario viene chiamato “dama di compagnia”. Come si legge nella memoria a firma dell’avvocato Viol, l’illegittimità si rileva nei confronti del detenuto che accompagna il boss eccellente, in cui la collocazione nell’area riservata si traduce in una inaccettabile strumentalizzazione della persona. Difatti, Dantese, dalle carte processuali, risulta aver avuto all’interno del clan di appartenenza un ruolo secondario, ma nonostante ciò è “sottoposto ingiustificatamente - si legge nella memoria - in tale Area Riservata al fine di svolgere la veste di accompagnatore del detenuto “boss”. Le sue patologie sono incompatibili con il 41 bis - Il 41 bis ulteriormente inasprito crea ulteriori aggravamenti della salute, soprattutto se il detenuto soffre di patologie. Ed è esattamente il caso di Dantese. Come si legge sempre nella memoria, egli è affetto dalla patologia del morbo di Graves, in cui viene auto-prodotto nell’organismo un anticorpo che agisce come l’ormone stimolante la tiroide. Tra le conseguenze di tale malattia, che può essere asintomatica all’inizio ma progressivamente peggiorativa, si possono verificare: la cd. oftalmopatia oculare ovvero la protrusione del bulbo oculare con rigonfiamento delle palpebre, l’irritazione degli occhi e l’alterazione della visione, fino a poter arrecare, nei casi più gravi, un danneggiamento della cornea, con la risultante perdita della vista. Tale malattia è, appunto, del tutto incompatibile con il “super 41 bis” in quanto sussiste in tali luoghi una ulteriore riduzione di luce naturale che, già in condizioni normali di salute, comporta un peggioramento della vista, con ulteriore aggravamento nella situazione specifica del detenuto. Disposto il trasferimento presso il 41 bis “normale” - Inoltre, come se non bastasse, la totale assenza di luce solare e l’impossibilità di goderne durante le ore di socialità e passeggio, ha portato il detenuto Dantese a soffrire di una grave carenza di Vitamina D, che - come sottolinea l’avvocato Viol - è un nutriente prezioso per la salute delle ossa, potendo provocare rachitismo e osteomalacia, un disordine del metabolismo scheletrico che comporta fragilità ossea. Scientificamente, la causa principale di tale carenza è da rinvenire nella esposizione insufficiente alla luce solare. Questioni che il magistrato di sorveglianza del tribunale ha accolto l’istanza e ha disposto il trasferimento presso il 41 bis “normale”. Ma il Dap ha fatto reclamo al tribunale di sorveglianza. Quest’ultimo ha rigettato, confermando che la detenzione di Dantese al “super 41 bis” non risulta essere giustificata dalle esigenze cautelati previste dalla legge e “dunque essa si traduce in una immotivata condizione di isolamento”. Green pass, circolare Dap sui luoghi di lavoro di Marco Belli gnewsonline.it, 14 ottobre 2021 Una circolare per illustrare l’obbligo di possedere ed esibire la “certificazione verde Covid-19”, il cosiddetto green pass, sui luoghi di lavoro dell’Amministrazione Penitenziaria. E per fare chiarezza, in particolare, sui contenuti di tale obbligo, le modalità organizzative, gli strumenti di controllo e le conseguenze per il mancato rispetto delle prescrizioni. A poco più di 48 ore dalla fatidica data del 15 ottobre, il Capo del DAP Bernardo Petralia ha tratteggiato le linee operative per accedere alle sedi dell’Amministrazione Penitenziaria, in attuazione delle norme previste nel decreto-legge 21 settembre 2021 n. 127. E le ha inviate ai Provveditori regionali, ai Direttori degli istituti penitenziari, al Direttore della Scuola Superiore dell’esecuzione penale, ai Direttori delle Scuole di formazione e degli istituti di istruzione nonché a tutti gli uffici del Dipartimento perché le diffondano a tutto il personale dell’Amministrazione e non solo. Già, perché il possesso del green pass non sarà richiesto soltanto agli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria o al personale dirigenziale o amministrativo delle Funzioni centrali, ma riguarderà tutti coloro che svolgono attività lavorativa o formativa o di volontariato nelle strutture penitenziarie. E quindi, ad esempio, le autorità politiche o religiose, i fornitori, le ditte di pulizia, i volontari. “L’unica categoria di soggetti esclusa dall’obbligo di esibire il green pass - si sottolinea nella circolare - è quella degli utenti, ovvero coloro i quali si recano in un ufficio pubblico per l’erogazione del servizio che l’Amministrazione è tenuta a fornire”. E così non dovranno mostrare la certificazione verde i familiari dei detenuti o degli arrestati che entrano in carcere (per i colloqui dovranno essere rispettate le prescrizioni fornite dall’autorità sanitaria presente all’interno di ogni istituto), i difensori che accedono per mandato professionale e, con loro, anche tutti quei soggetti come consulenti, periti, testimoni e parti del processo che devono presenziare ad attività giudiziarie che si svolgono negli istituti penitenziari: ad esempio nelle sale-magistrati, dove si svolgono le udienze di convalida dei provvedimenti pre-cautelari o gli interrogatori di garanzia; nelle sale multivideo-conferenza, usate per lo svolgimento delle udienze processuali da remoto; nelle infermerie, adibite ad accogliere eventuali atti peritali delegati dall’Autorità Giudiziaria. L’obbligo del green pass non si applica infine al personale che usufruisce delle caserme, poiché gli alloggi di servizio non sono luoghi di lavoro; ma la circolare chiarisce tuttavia che la certificazione sarà richiesta “anche al personale accasermato per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Le verifiche per la sussistenza del pass saranno svolte prioritariamente al momento dell’accesso del personale ai luoghi di lavoro, attraverso strumentazione automatizzata o personale appositamente munito di dispositivi informatici. Controlli ‘a campione’, secondo le modalità previste dal decreto-legge, potranno essere rimesse alla discrezionalità del responsabile di ogni sede di servizio. Chi non sarà in regola con il green pass, non potrà accedere al luogo di lavoro e sarà considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della certificazione. Questo comporterà la sospensione di retribuzione, compensi o altri emolumenti, anche di natura previdenziale, a partire dal primo giorno di assenza. Il personale che invece sarà trovato all’interno dei luoghi di lavoro senza il green pass, oltre alle conseguenze appena viste, sarà sanzionato con una multa da 600 a 1.500 euro. La circolare si conclude con la raccomandazione di continuare a rispettare le misure di prevenzione prescrizioni e le precauzioni di natura sanitaria per la limitazione del contagio da Covid-19: misurazione della temperatura, distanziamento, corretto uso dei dispositivi di protezione individuale e igiene delle mani. Giustizia, la presunzione d’innocenza divide la maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 14 ottobre 2021 Scontro tra Costa (Azione) e il Pd. Sul decreto legislativo del governo rinviato il voto in extremis sia alla Camera che al Senato nelle due commissioni Giustizia per evitare che il governo si dividesse in due, Pd e M5s contro tutti gli altri. Il deputato di Azione definisce “indecenti” i dem. Replica Verini “lui semina zizzania”. Stavolta, sulla giustizia, volano accuse molto grosse che dividono la maggioranza. Ancora una volta lo scontro, nelle commissioni Giustizia sia della Camera che del Senato, matura sul decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza, il principio sancito da una direttiva europea del 2016 che solo adesso l’Italia ha deciso di recepire. Un testo che, da quando è stato presentato ad agosto dal ministero della Giustizia, ha diviso subito i partiti del governo: da una parte tutto il centrodestra favorevole, ma soprattutto Enrico Costa di Azione che a marzo aveva chiesto il recepimento della direttiva europea, dall’altra Pd e M5S. Le pressioni della destra su questo provvedimento sono molto forti, tant’è che giusto ieri l’avvocato genovese di Forza Italia Roberto Cassinelli ha presentato una proposta di legge per scrivere obbligatoriamente in calce alle sentenze di primo e secondo grado che “l’imputato non è considerato colpevole fino alla sentenza definitiva”, quindi è un presunto innocente, augurandosi anche che la stessa frase vada messa in una targa in tutte le aule dei tribunali accanto alla “legge è uguale per tutti”. Proprio come l’ex Guardasigilli leghista Roberto Castelli impose nel 2001 che fosse aggiunta la scritta “la giustizia è esercitata in nome del popolo italiano”. Tant’è. L’argomento è bollente. La rissa dietro l’angolo. E ieri è esplosa quando, nelle due commissioni, si sarebbe dovuti giungere al voto sul decreto legislativo presentato l’8 agosto. Testo che non va in aula, ma torna al governo, il quale può decidere di recepire i suggerimenti delle Camere che però non sono vincolanti. Che cos’è successo? Premesso che alla fine non si è votato, rinviando tutto alla prossima settimana, sia alla Camera che al Senato i relatori Enrico Costa di Azione e Andrea Ostellari della Lega, che è anche il presidente della commissione, hanno presentato le stesse proposte di modifica, che sono di Costa, e su cui già M5S con Vittorio Ferraresi si era dichiarato fortemente contrario. Mentre il Pd, alla Camera, con Alfredo Bazoli, aveva tentato un possibile compromesso. Perché le richieste di Costa sono durissime rispetto a un testo già discutibile che vieta ai magistrati di dare un nome alle inchieste, limita le conferenze stampa ai soli casi eccezionali “di interesse pubblico”, affida la gestione dell’informazione al solo capo della procura. Ma Costa inasprisce ulteriormente le regole. Vieta del tutto le conferenze stampa, impone che vengano eliminati i nomi dei pm che hanno svolto l’indagine, nonché proibisce anche alle forze di polizia qualsiasi possibilità di comunicazione. Della serie “parla solo il capo della procura”. E lo fa quando è strettamente necessario. Un provvedimento e una linea che viene del tutto bocciata dal costituzionalista Gaetano Azzariti che a Repubblica ha detto “questo è un decreto che va contro la libertà di indagare e di scrivere sui giornali”. Un’affermazione che fa riflettere l’ex responsabile Giustizia del Pd Walter Verini, oggi tesoriere del partito, che come componente della commissione Giustizia della Camera blocca qualsiasi possibile trattativa con Costa. Così la maggioranza si spacca a Montecitorio. Da una parte con Costa ci sono Forza Italia, la Lega, Fratelli d’Italia, Coraggio Italia, nonché Italia viva. Nettamente contro M5S con l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, con Vittorio Ferraresi ed Eugenio Saitta, che di fatto bloccano i lavori della commissione parlando a raffica. Il presidente della commissione Mario Perantoni di M5S è costretto a interrompere la seduta per evitare un voto che avrebbe mandato in frantumi la maggioranza. Per evitare che si arrivi a una plateale crisi arriva nell’aula della commissione anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà di M5S. La seduta s’interrompe ma finisce comunque male perché Costa esce dall’aula e in corridoio attacca subito il Pd con parole molto forti. “Il Pd è indecente: sbandiera il principio della presunzione d’innocenza, poi quando si tratta di votare lo affossa”. E ancora: “Io non voglio più avere rapporti con il Pd a nessun livello. Almeno M5S è coerente: è contrario alla presunzione d’innocenza e si batte contro di essa. Nel Pd, invece, sono animati dalla convenienza, e mi hanno detto che avrebbero votato il mio parere solo se era d’accordo anche M5S: questo è opportunismo politico”. Una frase che irrita la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando che a stretto giro replica: “Sulla presunzione d’innocenza abbiamo apprezzato l’impostazione data dal governo. Ora però il solito giochino di Costa rischia di demolire i risultati che tutta la maggioranza aveva contribuito a raggiungere e il punto di equilibrio decisamente avanzato trovato dalla ministra Cartabia”. Ma la lite della Camera si replica pari pari al Senato. Dove a sostenere le tesi di Costa non è solo il leghista Ostellari, ma anche Giuseppe Cucca di Italia viva che litiga con il capogruppo del Pd Franco Mirabelli. Che adesso dice: “Ci hanno di fatto impedito di votare un testo equilibrato che tiene insieme posizioni pur diverse della maggioranza. Rompere l’equilibrio è molto grave, e lo si fa strumentalizzando una direttiva europea che parla d’altro. Siamo di fronte a un caso di protagonismo per creare un asse tra il centrodestra e Italia viva con l’opposizione. Ma così si determina un clima del tutto irresponsabile sulla giustizia”. Tappandosi il naso, al Senato, anche l’ex presidente ed ex procuratore Antimafia nonché di Palermo Piero Grasso dice che voterà il decreto. Ma è alla Camera che tra Costa e il Pd finisce ai ferri corti. Da una parte ecco il deputato di Calenda molto aggressivo con i Dem quando dice: “Il Pd aveva una grande occasione e aveva di fronte un bivio tra una scelta liberale e la chiusura pentastellata, ha deciso di schierarsi con Bonafede and company perché il merito non conta più, conta solo non scontentare il partito di Grillo. Per non irritare l’imprescindibile Conte, i Dem calpestano gli stessi principi costituzionali che sbandierano quando conviene loro, quando a essere esposto è qualche loro amico. Un partito senza identità, senza convinzioni, unicamente con convenienze politiche”. Inevitabili fulmini e saette, a questo punto, da Verini e Bazoli. Il primo accusa Costa di “voler usare per l’ennesima volta la giustizia come terreno di scontro politico”. Aggiunge un secco “basta” e accusa Costa di “seminare sempre zizzania”. Quando alla direttiva sulla presunzione d’innocenza Verini la definisce “importante” e valuta come “equilibrato” il testo del governo perché “tiene insieme anche il diritto alla libertà di informazione, bene prezioso e sotto attacco, contro ogni forma di spettacolarizzazione, di processi mediatici, ma anche senza bavagli”. Secondo Verini si sarebbe potuto votare, “ma si è puntato ad altro”. Adesso il deputato dem si augura che si torni a “un clima di confronto vero, senza furbizie, zizzanie, rigidità spesso strumentali”. Sulla stessa linea le parole di Bazoli che considera “opportuno, utile e necessario” il testo del governo perché “introduce nel nostro ordinamento principi e norme che possono evitare gli eccessi di spettacolarizzazione delle indagini e che impongono ai giudici un costume di misura nell’attribuire responsabilità a persone indagate e non condannate”. Secondo il capogruppo Dem in commissione Giustizia della Camera “il governo aveva e ha il sostegno dell’intera maggioranza, anche a costo di alcuni mal di pancia. Ma alzare ancora l’asticella serve solo a mettere in difficoltà la maggioranza stessa e il governo”. A questo punto se ne parla la prossima settimana. Perché, come dice il presidente della commissione Giustizia della Camera Perantoni, “oggi era il caso di evitare una conta che avrebbe spaccato la maggioranza”. Maggioranza in tilt, salta il voto sulla presunzione d’innocenza di Errico Novi Il Dubbio, 14 ottobre 2021 Il dem Bazoli: “No ai rilanci di Costa, sembrano pensati apposta per aprire una crisi”. Il relatore replica: “Potevate fermare i processi mediatici, avete preferito Bonafede”. Litigare sulla giustizia mediatica era inevitabile. È il crocevia in cui si avvita da una trentina d’anni la democrazia italiana. Figurarsi se il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza avrebbe mai potuto ottenere un’indicazione unitaria, con una maggioranza che va da Forza Italia ai 5 Stelle. E infatti il voto relativo al parere che la commissione Giustizia di Montecitorio deve esprimere sul decreto slitta di un’altra settimana. Era previsto per ieri: il governo, rappresentato dal sottosegretario Francesco Paolo Sisto, ha concesso tempo fino al 20 ottobre. Motivo: maggioranza spaccata. In modo vistoso e pure allarmante. Da una parte l’intero fronte cosiddetto garantista, più Fratelli d’Italia: dunque l’intero centrodestra con Azione e Italia viva, che intendono votare per la bozza preparata dal relatore Enrico Costa, in cui si sollecita il governo a impedire in assoluto le conferenze stampa, dei procuratori capo come della polizia giudiziaria. Dall’altra parte la vecchia maggioranza giallorossa, senza Italia viva, cioè Pd e Movimento 5 Stelle, che invece non ritengono di andare oltre il testo messo a punto da Marta Cartabia e varato in Consiglio dei ministri. E anzi, i pentastellati sono convinti di compiere già un grande sacrificio, a mandare giù la versione presentata dalla guardasigilli: il loro deputato Vittorio Ferraresi avrebbe voluto non solo rendere libere le conferenze stampa dei procuratori, che invece potranno convocare i cronisti solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica”, ma anche eliminare i limiti che il provvedimento impone alle ordinanze dei gip, non più corredabili con espressioni già “conclusive” rispetto alla colpevolezza dell’indagato. Aspetto, quello relativo agli atti formali, previsto d’altronde dalla stessa direttiva Ue da cui ha tratto origine il decreto attuativo. Si dirà: è un parere non vincolante, come per tutti i decreti legislativi. Si spaccassero pure, tanto nessuno obbliga Cartabia ad assecondare le correzioni di Costa e a mandare su tutte le furie Bonafede, con annesse difficoltà per i dem. E invece le cose non stanno così perché, come filtra da via Arenula, la guardasigilli non ha alcuna voglia di lasciarsi impallinare, né dai garantisti né dai giustizialisti. Adesso come adesso, d’altra parte, quello sembra il suo destino: se vince la linea Costa - che ieri avrebbe avuto i numeri ma si è arenata sul rinvio deciso dal presidente della commissione, il 5S Mario Perantoni - ignorare il parere sarebbe pesante, per una questione di rapporti istituzionali, oltre che col fronte garantista. Ma se la ministra accettasse le modifiche chieste dal relatore, si aprirebbe un problema serissimo con i grillini, e di fatto pure col Pd. “Credo che l’autoproclamato fronte garantista”, dice al Dubbio il dem Alfredo Bazoli, “dovrebbe chiarire le proprie intenzioni: ragionano sempre con la logica del più uno, cioè spostano sempre un po’ più in alto l’asticella, a costo di rompere la maggioranza o proprio con l’obiettivo di farla saltare? Perché se fosse vera la seconda ipotesi”, attacca il capogruppo Pd in commissione Giustizia, “noi non ci stiamo”. Ecco insomma perché i dem hanno scelto di schierarsi coi 5 Stelle sul “sì puro” al testo del governo. “È un grande passo avanti, introduce novità, nell’informazione giudiziaria, molto rilevanti, opportune, che pongono rimedio”, aggiunge Bazoli, “a storture evidenti del nostro sistema. Ad esempio vengono eliminate le conferenze stampa convocate liberamente dal singolo sostituto o dalla polizia”. Dal punto di vista del centrodestra, Italia viva e Azione, è però comunque pericoloso che carabinieri o poliziotti possano chiamare a raccolta i media se autorizzati dal vertice della Procura. Ma sarebbe ipotizzabile un punto d’incontro su una bozza Costa limitata a escludere ipotesi del genere, e a rafforzare magari il diritto al silenzio (che, per il relatore, richiederebbe di eliminare conseguenze negative, a carico dell’imputato, su sentenze o ristori per ingiusta detenzione)? Sul punto Bazoli replica: “Siamo sempre disponibili a mediazioni positive che però avvengano in uno spirito unitario e con la condivisione del governo. Non è possibile mettere a rischio la maggioranza per un parere non vincolante su un decreto”. Di tenore non troppo diverso la dichiarazione di Anna Rossomando, che nel Pd è responsabile Giustizia: “Il solito giochino di Costa rischia di demolire i risultati che tutta la maggioranza aveva contribuito a raggiungere e il punto di equilibrio decisamente avanzato trovato dalla ministra Cartabia”. Costa ovviamente la pensa in tutt’altro modo: “Ho presentato una proposta di parere finalizzato a evitare la spettacolarizzazione delle inchieste, la diffusione di atti di indagini, il palcoscenico mediatico per i pm. Il Pd”, controbatte il responsabile Giustizia di Azione, “aveva una grande occasione, e aveva di fronte un bivio tra una scelta liberale e la chiusura pentastellata: ha deciso di schierarsi con Bonafede e company perché il merito non conta più, conta solo non scontentare il partito di Grillo. Poiché non avevano i numeri non ci hanno consentito di votare. Hanno fatto ostruzionismo e, consapevoli che avrebbero perso, hanno rinviato la seduta”. Va detto che il governo ha concesso senza problemi la settimana di proroga. Certo, non è detto che basti. E che la ferita politica evitata sul ddl penale resti invece incisa per via di un insospettabile parere non vincolante a un decreto legislativo. Cassazione. Niente riviste pornografiche al 41-bis di Federico Garau Il Giornale, 14 ottobre 2021 Il caso di un ‘ndraghetista ristretto da 10 anni al 41-bis. Il tribunale di sorveglianza aveva concesso la rivista, purché fossero rimosse le parti scritte che potevano veicolare messaggi, ma l’amministrazione penitenziaria ha fatto ricorso alla Cassazione, che le ha dato ragione. È trascorso un anno da quando il carcere romano di Rebibbia ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione ritenendo illegittimo e pericoloso il pronunciamento del Tribunale di sorveglianza di Roma, che riconosce il diritto dei detenuti a ricevere riviste pornografiche in cella. La Suprema Corte ha ribaltato la sentenza, decretando lo stop ai giornali sessualmente espliciti nelle case circondariali. Tutto era partito dalle proteste di un esponente di spicco della ‘ndrangheta calabrese, sottoposto al regime del 41bis, con una condanna all’ergastolo e già dieci anni di detenzione alle spalle. Il boss, a settembre del 2020, come scritto da ilgiornale.it, aveva fatto richiesta di ottenere una rivista porno, ma la direzione carceraria non aveva esaudito il desiderio del detenuto. La maggiore preoccupazione dei vertici dell’istituto penitenziario riguardava il possibile utilizzo del giornale osé come strumento adatto a trasmettere messaggi criptati al criminale. Il ricorso presentato dai legali del boss calabrese, però, avevano sortito l’effetto sperato. Gli avvocati avevano chiesto di lasciare a disposizione del loro assistito solo le immagini e di eliminare tutte le parti scritte. In questo modo si sarebbe escluso ogni dubbio sui possibili “pizzini”. Il Tribunale di sorveglianza, a quel punto, ha acconsentito alla sottoscrizione di un abbonamento a una rivista pornografica “a spese dell’interessato” che andava consegnata solo dopo aver effettuato controlli rigorosi. I dirigenti del carcere di Rebibbia, però, non hanno accettato di buon grado questa decisione e si sono rivolti alla Corte di Cassazione. Per i magistrati della Suprema Corte il pronunciamento del Tribunale di sorveglianza, che si rifà al diritto alla sessualità del detenuto e alla possibilità lecita per quest’ultimo di ricevere riviste porno, non è sufficiente a giustificare la concessione. Per la Cassazione, “l’autoerotismo esula da questo tipo di problematica”, non è un presupposto indispensabile e quindi negare la possibilità al carcerato di ricevere giornali osé non lede alcun suo diritto fondamentale. Inoltre, soprattutto in circostanze come quella del caso specifico, ossia di un detenuto al 41bis, ci sono anche motivi di sicurezza pubblica a suggerire una maggiore prudenza. Legittimo il licenziamento del dipendente che offende più volte i capi su Facebook di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2021 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 27939 depositata oggi, respingendo il ricorso di un account manager di Tim. È legittimo il licenziamento del dipendente che ha pubblicato plurimi insulti ai suoi capi sulla propria pagina Facebook. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 27939 depositata oggi, respingendo il ricorso di un account manager di Tim. Confermata dunque la decisione della Corte di appello di Roma che nel novembre 2018, aveva respinto il ricorso contro il licenziamento “per giusta causa” di un addetto alla “Gestione della comunicazione pubblicitaria nazionale ad uso locale” (insegne della grande distribuzione, eventi, promozione locale dei negozi). Il giudice di secondo grado aveva infatti ribadito il contenuto “gravemente offensivo e sprezzante” nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali delle comunicazioni del lavoratore, a mezzo di tre e-mails e del messaggio sul suo profilo Facebook dell’ottobre 2016 (quest’ultimo legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua conoscibilità anche da terzi)”. Proposto ricorso, il dipendente aveva sostenuto, tra l’altro, l’illegittima acquisizione dei post riservati agli amici. Per la Sezione Lavoro però: “premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, nella fattispecie non sussiste una tale esigenza di protezione di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook”. “Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social) - prosegue la Cassazione - è, infatti, idoneo (secondo l’accertamento della Corte territoriale), a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”. Mentre con riguardo alla insubordinazione, la Suprema corte ha chiarito che “la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale: sicché, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli”. L’avvocato può astenersi dall’udienza che tratta l’impugnazione del sequestro probatorio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2021 Non si applica la norma del codice di autoregolamentazione che esclude la facoltà del difensore quando si tratta di misure cautelari. L’articolo 4 del Codice di autoregolamentazione non preclude all’avvocato la possibilità di astensione in caso di udienza sull’impugnazione del sequestro probatorio, in quanto non rientra tra le udienze “afferenti le misure cautelari” esplicitamente indicate dalla norma, che individua appunto le “prestazioni indispensabili in materia penale”. Quindi il giudice non può negare a priori il rinvio dell’udienza chiesto tempestivamente dal difensore a causa dell’adesione all’astensione proclamata dall’Unione Camere penali, solo perché si tratta di sequestro probatorio. La Corte di cassazione, infatti, con la sentenza n. 37101/2021, ha riaffermato la validità dell’orientamento giurisprudenziale sulla non assimilabilità del sequestro probatorio alle misure cautelari reali, quali il sequestro preventivo o conservativo, che non consentono il rinvio della decisione sulla loro applicabilità determinando di conseguenza l’impossibilità dell’avvocato difensore di assentarsi legittimamente. Dice la Cassazione che il sequestro probatorio non giustifica la trattazione “accelerata” prevista per le misure cautelari. Per cui non è applicabile il codice di autoregolamentazione dove prevede che l’avvocato non possa legittimamente assentarsi dalle udienze che attengono all’adozione delle misure cautelari, reali o personali che siano. Non si può aderire quindi alla decisione ora annullata in sede di legittimità, che in materia di sequestro faceva derivare l’assimilazione dello strumento probatorio a quello cautelare, solo perché anche il primo determina lo spossessamento del bene. Si tratta di finalità ontologicamente diverse, infatti, in caso di sequestro probatorio, tale spossessamento è finalizzato e contenuto nel tempo al solo fine dell’accertamento dei fatti. Friuli-Venezia Giulia. Chi aiuta i migranti rischia di finire in carcere di Gaetano De Monte Il Domani, 14 ottobre 2021 Tre volontarie di un’associazione umanitaria di Pordenone vanno a processo per aver aiutato alcuni richiedenti asilo fornendo loro coperte e teli con cui proteggersi. Rischiano fino a due anni e multe da 2mila euro. È il 20 aprile del 2017. La signora Luigina Perosa sta parlando con i poliziotti della squadra mobile della questura di Pordenone mentre avviene lo sgombero di una settantina di stranieri dall’area dei parcheggi del “Bronx”, come viene chiamata l’area vicina a parco Querini, e spiega ai militari: “Man mano che la gente veniva a dormire in questo parcheggio, dopo la chiusura del parco Querini, noi portavamo le coperte. Ci sembrava il minimo della solidarietà. Alla fine faceva freddo, siccome ci hanno regalato questi teli, abbiamo pensato di creare un minimo di privacy e di intimità, nel senso che qui le persone sono sotto gli occhi di tutti e non è dignitoso”. A distanza di quattro anni da questo racconto, per questi episodi di solidarietà concreta, il 10 novembre del 2021 la signora comparirà in un processo, dove rischia, se venisse condannata, fino a due anni di carcere. E non solo lei. Rete solidale Pordenone - Gabriella Loebau, Elisabetta Michielin e Luigina Perosa sono tre donne di Pordenone che hanno tutte oltre 60 anni e che da qualche anno aiutano i migranti che vivono in strada: a sopravvivere, resistere al freddo, alla fame e alla sete, alle condizioni di indigenza in cui alcuni di loro spesso si trovano nella città del Friuli-Venezia Giulia. Lobeau, Michielin e Perosa fanno parte della rete di attivisti e volontari, Rete solidale Pordenone, e il prossimo novembre andranno a processo insieme ad altri volontari e ad alcuni richiedenti asilo con l’accusa di invasione di terreni, perché “in concorso tra loro invadevano arbitrariamente l’area destinata a parcheggio dell’ente pubblico Inail di Pordenone al fine di occuparla bivaccando all’interno creando dei rifugi e impossessandosi dell’area chiudendola e delimitandola con coperture di materiale plastico nonostante fossero state loro offerte prospettive alternative”. Questa l’accusa mossa dal pubblico ministero, Monica Carraturo, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio alla fine della scorsa estate. Le tre donne operanti presso l’associazione Rete solidale, in particolare, sono imputate perché “aiutavano a recuperare coperte e quanto necessario e i restanti indagati si accampavano all’interno”. I fatti contestati - I fatti contestati dalla polizia di Pordenone risalgono a quando in città arrivavano ogni giorno decine di richiedenti asilo, che per la legge italiana avevano diritto all’accoglienza e che però, a causa della indisponibilità di strutture e dei comportamenti ostativi delle istituzioni locali, sono stati costretti, per molti mesi, a vivere al gelo per la strada, in ripari di fortuna, anche se sostenuti dalla solidarietà di singole persone e associazioni. Amnesty International in quei mesi ha raccontato che Alessandro Ciriani, sindaco della città e fratello del senatore di Fratelli d’Italia Luca, non aveva concesso alla Croce rossa la possibilità di realizzare un dormitorio gratuito per i migranti senza tetto, nel “timore di un’invasione”. Nella convinzione “che un’accoglienza degna e rispettosa dei diritti umani costituirebbe un fattore di attrazione per altri migranti e richiedenti asilo”. “Da qui - spiegava Amnesty - le misure di deterrenza: niente servizi igienici, niente dormitori e costanti minacce di sgombero”. Così, una serie di persone tra cui la volontaria della Croce rossa Loebau, subirà un processo per le azioni di solidarietà messe in atto in quelle giornate dell’inverno del 2017. Azioni che, secondo i rapporti della polizia, erano in realtà un’”invasione” arbitraria dei “terreni di proprietà dell’Inail al fine di occuparli a scopo di dimora”. Sgomberi forzati - Nella realtà dei fatti era accaduto che un grande parcheggio sotterraneo di proprietà dell’Inail era diventato un ricovero forzato di richiedenti asilo, così come a Pordenone lo erano stati in passato - e lo sono tuttora per chi dorme ancora in strada - il sagrato della chiesa, la pensilina dell’ex fiera, le scalinate di un palazzetto dello sport. In quelle giornate di inverno del 2017 la polizia locale sequestrava ogni notte coperte e sacchi a pelo. Altrettanto di frequente, le forze dell’ordine procedevano con gli sgomberi forzati. Il 20 aprile, circa 70 richiedenti asilo che dormivano da mesi all’interno del parcheggio sotterraneo, sono stati svegliati da decine di carabinieri, finanzieri, poliziotti e vigili urbani che li hanno sgomberati. Il tutto a una settimana esatta dalla manifestazione “per i doveri” che, come spiegato dal sindaco, “voleva sollecitare le autorità a restituire alla comunità quella zona di città occupata dai migranti, afghani e pakistani, specialmente”. Se le accuse dovessero essere confermate una decina di quegli stranieri e alcuni attivisti italiani tra cui Loebau, Michielin e Perosa, rischiano pene fino a due anni e multe fino a 2.000 euro. Per questo tipo di accuse, inoltre, le pene sono state inasprite fino a quattro anni di reclusione dai decreti Sicurezza fortemente voluti dall’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Il precedente - Non è la prima volta che nel territorio del Friuli-Venezia Giulia chi aiuta i migranti rischia il carcere. Qualche anno fa gli stessi reati sono stati contestati, a Udine, a sette volontari dell’Associazione ospiti in arrivo che sono stati denunciati per invasione di terreni e di edifici mentre stavano distribuendo coperte e generi di prima necessità a richiedenti asilo. I sette attivisti sono stati indagati anche per il reato di “favoreggiamento della permanenza di stranieri presenti illegalmente in Italia al fine di trarne ingiusto profitto”. Quel procedimento è stato poi archiviato dal giudice per le indagini preliminari, Emanuela Lazzaro, che nella sentenza ha invece riconosciuto ai volontari di aver messo a disposizione le loro risorse per sopperire a una “temporanea ma significativa incapacità delle istituzioni” di dare assistenza e tutela ai richiedenti asilo. Più di recente Domani ha raccontato il caso di Gian Andrea Franchi, indagato per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che qualche mese fa, durante la notte, ha subito una perquisizione a casa dei poliziotti della Digos di Trieste che, in un’azione coordinata con gli agenti antiterrorismo dell’Ucigos, gli hanno sequestrato il pc e il cellulare. Franchi, insieme alla moglie Lorena Fornasir, guida l’associazione Linea d’ombra e normalmente passa le proprie serate davanti alla stazione di Trieste dove cura le ferite dei richiedenti asilo che arrivano in Italia dalla rotta balcanica, accogliendoli con coperte, scarpe e cibi caldi. I due coniugi rischiano di subire un procedimento penale perché accusati di aver aiutato una famiglia iraniana a prendere il treno dalla stazione del capoluogo. Quelle stesse persone sono state poi fermate dalla polizia senza documenti di soggiorno e hanno ricevuto un foglio di via. Tornando al processo che comincerà a breve nei confronti delle tre donne di Pordenone, una di loro dice: “Il nostro processo non ci stupisce perché la solidarietà è di fatto criminalizzata in ogni luogo in cui si costruiscono muri e confini”. Il Friuli-Venezia Giulia è evidentemente uno di questi luoghi visto che proprio a Trieste, lo scorso 24 settembre, il sottosegretario all’Interno in quota Lega, Nicola Molteni, ha detto durante un comizio elettorale: “Bisogna non solo rafforzare il presidio attraverso i militari e potenziare i pattugliamenti misti con la Slovenia, ma questo rischia di essere vanificato se non torniamo a fare le riammissioni informali”. Roma. Un altro suicidio a Regina Coeli e si pensa all’edilizia penitenziaria... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2021 Il Garante del Lazio: “Non era meglio usare i fondi del Pnrr per mettere in sicurezza gli istituti?”. “Ancora un morto in carcere, questa notte (ieri, ndr) a Regina Coeli. Ancora una volta uno straniero (afghano), sempre con la solita bomboletta”. A confermarlo il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, dopo avere appreso che nella quarta sezione del carcere romano di Regina Coeli un detenuto afghano è stato trovato morto nel bagno dai compagni di camera. “Sappiamo bene che i suicidi in carcere non si possono completamente evitare, come fuori e più di fuori. E sappiamo che ministero della Giustizia e Regioni si sono impegnati per piani di prevenzione ad ogni livello e in ogni istituto - commenta Anastasìa - Quindi, non si può lamentare l’inazione, e tantomeno la sottovalutazione. Né ci piace il gioco del cerino, della ricerca della responsabilità ultima, di chi non ha intuito, non ha vigilato o non ha impedito”. Prosegue Anastasìa: “Ogni caso di suicidio va indagato ed elaborato, per capire come sia maturato e che altro avrebbe potuto essere fatto per prevenirlo. Comprendeva la nostra lingua la persona che si è tolto la vita questa notte a Regina Coeli? Sapeva per quale motivo era in carcere e con quali prospettive? Era coinvolto in qualche attività? Aveva rapporti con i familiari o con altre persone care?” Il garante della regione Lazio conclude: “E poi, quelle bombolette! Sono almeno quindici anni che si discute delle piastre elettriche per gli angoli cottura delle camere detentive. Invece di costruire nuovi inutili padiglioni, per tenere in carcere autori di reati da niente, non era meglio usare i fondi del Pnrr per l’adeguamento degli istituti esistenti alla normativa di sicurezza e igienico- sanitaria vigente?”. Il tema, quest’ultimo, è stato affrontato da Il Dubbio. Parliamo del programma della ministra della Giustizia Marta Cartabia che, dal punto di vista dell’edilizia penitenziaria, è in continuità con quello del guardasigilli precedente. Ampliare la capacità del sistema penitenziario è, di fatto, una vecchia opzione e rischia di amplificare alcune criticità in mancanza di una ampia progettualità. I fondi per l’edilizia penitenziaria dovrebbero essere, invece, indirizzati nella messa in sicurezza di tutti gli istituti penitenziari che presentano situazioni non a norma. A partire dai servizi igienici, le docce che dovrebbero essere individuali (ricordiamo la pandemia e il contagio diffuso anche per questo motivo), il rifacimento delle cucine e via discorrendo fino ad arrivare anche ai piccoli dettagli, ma non insignificanti. Pensiamo proprio al discorso dell’utilizzo delle bombole a gas per cuocere il cibo. Sempre il garante Anastasìa ha ricordato che più volte ha consigliato di sostituire le bombolette con un fornelletto elettrico, magari a induzione. Roma. Reinserimento sociale detenuti: sottoscritto protocollo d’intesa di Antonio Nesci conosciroma.it, 14 ottobre 2021 Firmato il Protocollo d’Intesa tra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia - Provveditorato Lazio-Abruzzo-Molise del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per favorire il reinserimento sociale delle persone private della libertà personale. Il protocollo prevede la fruizione della diversificata ed articolata offerta di servizi in ambito socio assistenziale, culturale, di orientamento e inserimento lavorativo, attività anagrafiche e di stato civile erogati da Roma Capitale in favore della popolazione reclusa negli Istituti di Pena inseriti nel territorio cittadino. Obiettivo è favorire il reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure di privazione della libertà personale, promuovendo attività di accoglienza, informazione, orientamento e accompagnamento mirate al benessere in termini di qualità della vita e delle relazioni, accesso ai servizi e aumento delle opportunità. Le azioni e gli interventi vogliono sostenere le persone attraverso percorsi personalizzati volti alla riacquisizione dell’autostima e dell’autonomia al fine di una partecipazione attiva alla vita sociale. Il Protocollo delinea gli impegni del Dipartimento Politiche Sociali, dell’Istituzione Sistema delle Biblioteche Centri Culturali, del Dipartimento Turismo, Formazione Professionale e Lavoro e del Dipartimento Servizi Delegati di Roma Capitale così come quelli del Ministero della Giustizia - Provveditorato Lazio-Abruzzo-Molise del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nell’ottica di una interazione e promozione dei servizi a disposizione delle persone private della libertà personale, come il servizio di segretariato sociale per detenuti, la rete di case di accoglienza convenzionate per persone che fruiscono di misure alternative alla detenzione prive di alloggio e di risorse economiche e familiari, la casa di accoglienza per genitori con figli agli arresti domiciliari, la ludoteca presso la Casa Circondariale Regina Coeli per i minori in visita alle persone detenute, le biblioteche presenti all’interno degli istituti penitenziari, i Centri Orientamento al Lavoro Tematici Carceri e Tirocini. Per coordinare gli interventi finalizzati alla realizzazione degli obiettivi è istituita una Cabina di Regia con cadenza bimestrale a cui partecipa anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale. Il protocollo rende operativa la comune volontà delle diverse istituzioni coinvolte di mettere in campo ogni risorsa e strategia per offrire alle persone private della libertà personale opportunità specifiche e personalizzate di riconquista della propria autonomia. Una rete condivisa di servizi e progetti per dare supporto al delicato processo di reinserimento sociale. Castrovillari. Detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità al servizio della città giornaledicalabria.it, 14 ottobre 2021 Riabilitare i detenuti mettendoli a servizio della città. È il cuore del nuovo protocollo firmato questa mattina nella casa circondariale di Castrovillari dal direttore, Giuseppe Carrà, e dal sindaco, Domenico Lo Polito, che muove la sua azione anche dall’articolo 27 della Costituzione guardando al trattamento rieducativo dei soggetti reclusi e al loro reinserimento da accompagnare con iniziative di recupero. “Da qui - ricorda il primo cittadino- il bisogno, sempre maggiore, di attività che sostengano stili di vita diversi per contrapporsi alla superficialità di molta cultura moderna segnata spesso dalla disuguaglianza, dall’avidità e dal materialismo”. “Non a caso - aggiunge - qualche settimana fa abbiamo pure siglato l’accordo di collaborazione con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Cosenza per la cosiddetta operosità a valenza “riparativa” la quale, con la stessa tensione che immettiamo nel protocollo di oggi, desidera sviluppare aiuto concertato per chi ha sbagliato. “Azioni che si muovono all’unisono - ha spiegato il direttore Carra’ prima della firma - per affermare la dignità del detenuto anche attraverso lavori di pubblica utilità. Condizioni, con altre, che riteniamo fondamentali per un lavoro sinergico ed a tutto campo contro l’emarginazione e nell’ambito dei rapporti di collaborazione istituzionali ed estesi anche alle associazioni”. “Nel 2019 la prima esperienza di “Mi riscatto per l’ambiente”, che coinvolse 4 unità, e che viene ripresa oggi - precisano Lo Polito e Carrà - continua un impegno che si protrarrà per tre mesi, impegnando sul territorio altrettanti soggetti nella cura di aree verdi ubicate in zone centrali della Città, rilanciando l’importanza di guardare all’Uomo per quello che è: un bene da guidare e sostenere sempre, nonché aiutare, soprattutto, quando la fragilità lo schiaccia”. Il progetto verrà attivato anche attraverso il contributo del Lions, del Kiwanis di Castrovillari e dell’associazione Anpana. Quest’ultima avrà il compito di seguire i detenuti sul loro posto di lavoro. Alla firma del protocollo d’intesa hanno partecipato Loredana Amodeo, funzionario giuridico pedagogico, e l’avvocato Luigi Bloise che ha curato per conto della Casa circondariale l’iter burocratico per la concretizzazione del protocollo d’intesa. Le parti hanno auspicato una sempre maggiore collaborazione istituzionale tesa ad accrescere quelle compartecipazioni a più voci, fondamentali per promuovere reinserimenti importanti per l’esistenza della persona reclusa. Perugia. Un nuovo reparto di degenza per i detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 14 ottobre 2021 È stata inaugurata ieri alla presenza del provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Pierpaolo D’Andria, del direttore generale dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, Marcello Giannico, e di altri rappresentanti istituzionali, la degenza di Medicina Protetta per detenuti all’interno dell’ospedale “Santa Maria di Misericordia”. La nuova area - che si sviluppa su una superficie di 125 metri quadrati - consentirà di razionalizzare i servizi di piantonamento di persone detenute che hanno bisogno di cure ospedaliere, evitando frammentazioni di ricoveri in più luoghi di cura. Per rispondere a requisiti tanto sanitari quanto di sicurezza, la struttura e l’organizzazione del reparto hanno richiesto una co-progettazione da parte dall’Azienda Ospedaliera e del Provveditorato regionale per la Toscana e l’Umbria. L’area, a cui si accede tramite filtro di ingresso con metal detector, comprende un locale per la videosorveglianza, tre camere dotate di servizi igienici, un locale per i colloqui e una stanza di “drug bugger compact” per il recupero di ovuli contenenti sostanze stupefacenti. La degenza di Medicina protetta è destinata al ricovero di pazienti, donne e uomini, con patologie a bassa-media intensità di cura, mentre per le patologie che necessitino di isolamento e/o trattamento intensivo si farà riferimento alle Strutture Specialistiche e di alta intensità di cura dell’Ospedale. I pazienti saranno assistiti dal personale medico del reparto di Medicina interna vascolare Stroke Unit, adiacente alla nuova area, mentre la sicurezza e l’ordine del reparto saranno garantiti dalla Polizia Penitenziaria. Il capo del DAP, Bernardo Petralia, ha espresso il suo “apprezzamento per un obiettivo che persegue un’importante linea di indirizzo ministeriale istituendo nell’Ospedale di Perugia una degenza di Medicina protetta in grado di potenziare le strutture di assistenza penitenziaria e di migliorare l’organizzazione dei servizi del personale”. San Gimignano (Si). In carcere si accende la luce della cultura di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 14 ottobre 2021 La luce forte e fredda, quella esterna del neon, viene spenta dall’agente di polizia penitenziaria che passa per l’ultima ispezione lungo i corridoi del carcere. Da lì in poi, il buio. O quasi. Perché all’interno della cella ci sono solo lampade-applique da pochi watt che non consentono alcun tipo di lettura. Per gli studenti detenuti che si stanno preparando in vista degli esami, questo è un grave handicap perché “le ore di inattività diventano troppe e, pur volendo, non si riesce a distinguere una riga dall’altra”. A San Gimignano, in provincia di Siena, gli ospiti della casa di reclusione di Ranza, iscritti all’università, non avranno più questo problema. Il cardinale Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa - Montalcino, ha infatti consegnato nei giorni scorsi al direttore del carcere, Giuseppe Renna, una fornitura di cento lampade a led, con particolari caratteristiche di fluorescenza, destinate alle camere di pernottamento. “A rivelare la difficoltà dello studio notturno è stato uno di loro. Da lì ho capito quanto può essere importante una lampada direzionale, a basso consumo, che consenta lo studio autonomo anche nelle ore in cui l’impianto centrale non è attivo”, spiega Renna. “Sono molto contento di essere venuto a capo di questa situazione anche perché, contestualmente, abbiamo consegnato ai ragazzi i testi della lectio divina che ogni anno la diocesi pubblica. Accompagneranno i reclusi lungo il loro percorso di ripresa”, aggiunge Lojudice. Un piccolo segnale che contribuisce alla rottura dell’isolamento con il mondo esterno. Ma con i limitati mezzi a disposizione non sempre è facile. “Quando arrivo in una realtà nuova - riprende l’arcivescovo - la prima cosa che faccio è guardarmi intorno e capire chi ho di fronte. In questo inizio della dinamica sinodale, per esempio, sto cogliendo elementi nuovi che possono offrire un contributo enorme. L’esperienza detentiva è tra questi. Ai ragazzi ho detto che saranno i primi a essere coinvolti in questo percorso. È fondamentale, anche se appare banale sottolinearlo, scoprire, conoscere, capire dove si annidano i problemi e cercare di dare una risposta secondo le proprie possibilità. È vero, i mezzi sono pochi. Le nostre lampade sono un esempio eloquente”, continua il porporato, spiegando che “dall’esterno si potrebbe dire: “È possibile che un’amministrazione penitenziaria non sia in grado neanche di garantire la luce nelle celle?”. Ma il direttore, persona molto aperta al confronto, ha subito accolto con favore il nostro supporto e si è detto disponibile a incontri futuri per migliorare la qualità della vita del suo istituto. Tanto è vero che, in occasione dell’apertura del cammino sinodale, il prossimo 17 ottobre a Siena, sarà presente una delegazione del Ranza. Con ogni probabilità verranno anche alcuni ospiti che usufruiscono dei permessi di legge. Questo vuol dire continuare un dialogo con la realtà che ci circonda, sempre con l’obiettivo di portare ovunque l’annuncio del Vangelo”. Una pastorale carceraria, se vuole essere incisiva, non può prescindere dal binomio carcere e territorio. Se non c’è questo, fallisce il recupero e il reinserimento nella società del detenuto. Il cardinale è convinto che “alcune cose, purtroppo, non possiamo gestirle perché appartengono al moloch della burocrazia, con tutte le sue pastoie e gineprai. Per quello che compete, invece, al singolo cittadino, al volontario o alla parrocchia, è necessario mettersi in gioco e inventare sempre nuovi percorsi anche all’interno di realtà così fragili. È chiaro che il perno della pastorale carceraria è la capacità, lo zelo e la passione del cappellano e dei volontari che lo assistono”. Un lavoro che, secondo il porporato, deve poter contare sulla stretta collaborazione con la parrocchia di riferimento: “A San Gimignano per esempio è stata predisposta una struttura con tre appartamenti (a breve sarà pronto un quarto) che accoglie i familiari dei detenuti e, siccome il carcere è situato in un luogo sperduto, i volontari si adoperano con i loro furgoni per accompagnarli ai colloqui con i loro cari. Si tratta di costruire un tessuto connettivo, sensibilizzando le comunità, far presente che queste persone esistono, che non sono scarti da gettare via o individui che, pur avendo commesso reati, devono essere rinchiusi e abbandonati. Sono esseri umani che, se aiutati, si riscattano e diventano un problema in meno per la società. Per alcuni persino un’opportunità: penso a chi si laurea e a chi ha scelto la via dello studio per il proprio futuro”. Le cento lampade di San Gimignano hanno già cominciato a dare i frutti sperati: “Uno di essi mi ha chiesto di essere coniatore della sua tesi sui cappellani del carcere nella storia; la discussione è prevista per dicembre. Primi segnali di una cultura che si accende e rende liberi”, conclude Lojudice. Torino. Nel tempio dei libri per parlare di diritto e diritti di Davide Varì Il Dubbio, 14 ottobre 2021 Si apre oggi a Torino la 23esima edizione del Salone Internazionale del Libro che si terrà al Lingotto Fiere fino a lunedì 18 ottobre. Si tratta di un’edizione “straordinaria, la prima in presenza nel post- pandemia e la prima in versione autunnale”, si legge nel comunicato di lancio dell’evento, nel quale si parla di “un’edizione straordinaria in tutti sensi, costruita grazie al supporto e alla collaborazione di editori, autori, partner, scuole, famiglie”. Dopo lo stop forzato, infatti, la fiera dell’editoria italiana è pronta ad accogliere di nuovo il pubblico nella sua casa di sempre, il Lingotto, con una capienza aumentata delle sale: tornano gli stand degli editori, gli incontri pubblici, i seminari, le lezioni, le letture, i concerti, gli spettacoli teatrali, le tavole rotonde. Tornano scrittrici e scrittori provenienti da ogni parte del mondo, e così gli scienziati, i filosofi, gli storici, gli economisti, i registi, gli attori, i musicisti, gli autori di fumetti, e così via. Insomma, torna la grande comunità del libro, alla quale si unirà quest’anno anche Il Dubbio con un proprio stand all’interno della fiera. “Le nuove disposizioni governative fanno sì che il progressivo ritorno alla normalità coincida con il ritorno del Salone. Ne siamo felici - spiega il direttore Nicola Lagioia -. Abbiamo del resto sempre lavorato come se, scommettendo con mesi di anticipo sulla possibilità di allestire una fiera di alto profilo internazionale, che consentisse, qualora ce ne fosse stata la possibilità, di riportare Torino e la comunità del Salone al centro della scena. Adesso la possibilità c’è”. Lo spirito che anima questo Salone è riassunto nel titolo dell’evento, “Vita Supernova”, che con un gioco di parole intende richiamare l’opera di Dante Alighieri - di cui quest’anno si celebra il 700esimo anniversario dalla morte - ma anche il periodo di rinnovato slancio che stiamo vivendo. Come recita il manifesto dell’evento, “la supernova è una stella che esplode. La sua energia può essere utile o distruttiva, la sua luce può accecare o illuminare. Il mondo dopo il Covid-19 è la grande incognita che ci troviamo a decifrare e avremo bisogno di uno sguardo lungimirante per costruire un futuro in cui valga la pena di vivere. Ci sarà bisogno di coraggio, intelligenza, senso di responsabilità, immaginazione. Il Salone è un formidabile laboratorio di idee, dove i temi più urgenti trovano un’occasione di dibattito: in uno dei periodi più incerti e complicati della storia recente, il libro si è dimostrato un approdo più solido che mai, offrendo a lettrici e lettori di ogni età una possibilità di conforto, riflessione, consolazione, compagnia. Vita Supernova parte da questa consapevolezza, e da qui guarda al futuro”. Per quel che ci riguarda, saremo al Salone per incarnare il mondo dei diritti e del diritto e contribuire a modo nostro a quel laboratorio di idee attraverso incontri e interviste con giuristi e personaggi della cultura italiana: dall’ex procuratore antimafia Gian Carlo Caselli, a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto nelle carceri italiane; da Paolo Ferrua, professore emerito di diritto processuale penale all’Università di Torino, allo scrittore Edoardo Albinati. Insomma, il Salone sarà l’occasione per offrirvi ancora una volta la nostra visione della Giustizia. Proprio a partire dal riferimento al poeta fiorentino, del quale nel corso di quest’anno vi abbiamo proposto una lettura nuova, orientata a quei temi della giustizia che attraversano tutta l’opera di Dante. Di recente è stata proprio la guardasigilli Marta Cartabia a ricordare come la “la giustizia lo abbia lambito attraverso un’esperienza dolorosissima”, la condanna all’esilio. Fu proprio durante l’esilio, mentre lo inseguiva l’accusa di “baratteria”, che Dante realizzò l’omaggio a Beatrice, la promessa annunciata negli ultimi versi della Vita Nuova: “Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Il poeta della generazione dei poeti d’amore, il maestro delle rime volgari, voleva dire di Beatrice ciò che non fu mai detto di alcuna. Ma all’origine della Divina Commedia c’era anche un altro fattore: il trauma politico, la condanna a processo. L’ingiustizia, o almeno ciò che il poeta percepiva tale, e il desiderio di dimostrare la propria innocenza. “La giustizia che emerge dall’opera di Dante può essere severa e lo è in molte delle pene che sono inflitte ai dannati dell’Inferno, quasi crudele - ha spiegato Cartabia. Ma non è mai frutto di una fredda, aritmetica, rigida applicazione di regole predeterminate. Le eccezioni e gli incontri imprevedibili lungo il cammino dicono di una giustizia che non coincide con un giudizio irremovibile”. Al cospetto del giudizio divino, Dante non risparmia nemmeno se stesso, scegliendo di condannare i barattieri nella bolgia infernale del Ventunesimo Canto, lì dove eternamente ribolle un magma di pece nera. Non risparmia i suoi amici più cari, come Guido Cavalcanti, né il suo venerato maestro, Brunetto Latini, collocato all’Inferno tra i “sodomiti”. Non applica sconti quando infligge la pena. Ma ecco il punto: tanto è severa la condanna, quanto è umana la sua comprensione per chi si trova inchiodato all’eternità, nell’abisso dell’Inferno. Al punto che ancora oggi, a rileggere quei versi di straordinaria crudezza, ci sembra di poter dire che persino Dante, principe della morale, aveva pietà dei dannati. “Con Ariaferma racconto le carceri senza cliché” di Fabio Ferzetti L’Espresso, 14 ottobre 2021 Il capo delle guardie è Toni Servillo, il boss Silvio Orlando. È l’appassionante lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, che indaga non solo il mondo delle prigioni come sono ma come dovrebbero essere. Un film tutto girato dentro una vecchia prigione in via di chiusura per raccontare non solo come sono le carceri ma come potrebbero essere. Guardando non tanto ai drammi dell’attualità quanto alla necessità, sempre più urgente, di uscire dalla logica dominante in nome di una giustizia riparativa e non punitiva, come vuole la Costituzione. È l’appassionante “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, già regista degli straordinari “L’intervallo” e “L’intrusa”, dal 14 ottobre in sala con Vision dopo essere stato applaudito a Venezia dove era (chissà perché) fuori concorso. Da sempre attento ai temi della segregazione e dell’abuso, questo napoletano che viene dal documentario (e non se ne dimentica) qui lavora per la prima volta anche con attori professionisti, e che attori. Il capo delle guardie è Toni Servillo, il suo antagonista Silvio Orlando, boss rispettato e temuto benché occhialuto e piccoletto (“In un primo tempo avrebbe dovuto essere il contrario, ma fare uscire entrambi dai rispettivi cliché era molto più interessante, anche per Eduardo l’attore deve sempre stare un po’ scomodo”, dice il regista). A questi vanno aggiunti Fabrizio Ferracane tra le guardie e Roberto De Francesco. Più Salvatore Striano, vero attore ma anche ex-detenuto, uno dei dodici “ospiti” costretti a restare ancora una settimana dentro questo immaginario carcere in dismissione. Con grande inquietudine degli agenti di custodia, che essendo in pochi temono violenze e rivolte. Anche se il film, prodotto ancora una volta da Tempesta di Carlo Cresto-Dina, evita i passaggi obbligati del genere per poggiare su questo microcosmo uno sguardo venato di speranza. “All’origine del film ci sono sollecitazioni diverse”, racconta Di Costanzo: “Fondamentali sono state le visite a una serie di carceri: Poggioreale, San Vittore, altri piccoli istituti al Nord. Ancor prima c’era stato l’incontro con figure decisive in questo campo, da Lucia Castellano, colei che ha creato il carcere modello di Bollate, a Luigi Pagano, ex-direttore dell’Asinara o di istituti di massima sicurezza come Badu ‘e Carros. Per non parlare di Mauro Palma, garante dei diritti delle persone private della libertà. Figure illuminate, portatrici di riflessioni altissime sui concetti di colpa, punizione, rieducazione. Nel Nordeuropa va affermandosi l’idea di una giustizia riparativa, attenta alla rieducazione del condannato. Da noi purtroppo continua a prevalere la logica punitiva, anche se tra i detenuti di Bollate, che lavorano all’esterno e in carcere vanno solo a dormire, i recidivi sono il 2 per cento mentre nelle carceri tradizionali siamo al 60-70 per cento”. Il bagaglio più prezioso per “Ariaferma” viene però da tutti gli educatori, i detenuti, gli agenti di custodia incontrati da Di Costanzo e dai suoi due cosceneggiatori, Bruno Oliviero e Valia Santella. Preziosi non solo per dare spessore e verità ai personaggi del film, ma per evitare tanto i cliché del cinema carcerario quanto la strada del realismo a tutti i costi, che per il regista era una trappola non meno insidiosa. “Dovevamo evitare che lo spettatore stesse sempre lì a chiedersi ma com’è possibile, è vero o non è vero? Di qui nasce l’idea di lavorare sulla sospensione”, ricorda Di Costanzo. “In un carcere che si sta svuotando, con pochi detenuti e poche guardie, l’apparato repressivo viene un po’ meno. Le regole, gli orari, tutto si allenta e il carcere appare nella sua essenza, sottratto ai riti quotidiani”. È il lato Fortezza Bastiani di questa prigione immaginaria, che il film costruisce trasferendo tra le montagne gli ambienti ottocenteschi del carcere di San Sebastiano, un istituto che nella realtà si trova al centro di Sassari. “Trovare il luogo giusto era fondamentale. In un primo tempo avevamo pensato alle Nuove di Torino, bellissime anche se di una bellezza orribile, ma logorate dai tanti film che vi sono stati girati. Poi ho scoperto che il sistema carcerario in Sardegna per anni è stato un po’ come la Fiat. Non a caso fino a pochi anni fa la maggior parte degli agenti di custodia erano sardi o calabresi”. Quello delle guardie carcerarie è del resto uno dei nodi primari di “Ariaferma”. Non solo perché il film cerca “un punto di vista centrale, intermedio, né tra gli agenti né tra i detenuti”. Ma perché in un sistema come quello attuale il loro ruolo, il loro potere, le loro frustrazioni, restano l’anello fondamentale (e tra gli attori, oltre a diversi ex-detenuti, non mancano anche veri agenti di custodia). “I sopralluoghi nelle carceri sono stati decisivi non solo per captare qualcosa di quella quotidianità ma per dialogare con gli agenti, che tendono a proporsi come corpo, non come persone, dunque sono particolarmente chiusi”, ricorda Valia Santella. “Secondo il dettato costituzionale le carceri devono reinserire, non punire, ma oggi la logica punitiva domina. Su questo sistema si innestano ricatti, bullismo, violenze. Così il corpo di polizia carceraria finisce per far parte del meccanismo punitivo. Se il detenuto viene infantilizzato, sedato, deprivato della sua identità, l’agente in qualche modo entra in quella logica e fa il padre padrone che magari molla il ceffone perché un ceffone parla più di tante parole. Ecco: il film, all’opposto, racconta proprio questo. Come far cadere ruoli e istituzioni per creare una zona di umanità”. Aggiunge Di Costanzo: “Gli agenti non hanno nessuna formazione specifica, fanno una vita durissima e si sentono esclusi da ogni progetto di riforma, eternamente umiliati e offesi. Dunque quando capita usano le maniere forti, molto più spesso di quanto si creda”. Se gli orrori di Santa Maria Capua Vetere sono venuti alla luce, insomma, chissà quanti altri restano dietro le mura. Tutto questo però in “Ariaferma” non c’è, se non come un remoto orizzonte. Di Costanzo, i suoi sceneggiatori, i suoi attori, non lavorano sulla situazione ma sui personaggi. Non è la trama, il “plot” caro agli americani, a mandare avanti il film, sono i protagonisti. E non per il loro ruolo prefissato ma per il loro potenziale. “Il cinema spesso dimentica di mettere in un personaggio tutte le sue possibilità non realizzate”, ricorda Bruno Oliviero, regista in proprio di “Cattività”, documentario su un gruppo di detenute di un carcere di massima sicurezza che allestiscono uno spettacolo di teatro partecipato dirette da Mimmo Sorrentino, altro testo decisivo nella creazione di “Ariaferma”. “Eppure ognuno di noi è fatto di cose realizzate e occasioni mancate. Per noi scrivere il film significa trovare i personaggi e lasciarli agire, farci guidare. La realtà non basta. La realtà dev’essere l’occasione per esprimere parti inaspettate della loro interiorità”. Per questo “Ariaferma” è così toccante. Ed era decisivo, ricorda il regista, classe 1958, avere un cast omogeneo. “Silvio Orlando e Toni Servillo, oltre a essere due immensi attori, appartengono alla mia stessa generazione. Servillo lo conosco da quando eravamo giovanissimi e lui dirigeva il teatro Studio di Caserta. Ma la cosa davvero importante è che tutti avevamo 18-20 anni quando c’è stata la riforma carceraria, o la chiusura dei manicomi. Abbiamo lo stesso linguaggio, la stessa consapevolezza politica e sociale, le stesse preoccupazioni. I due giorni di lettura fatti insieme, studiandoci a vicenda, quando ho scambiato le parti, sono stati indimenticabili. Li avessi ripresi, avrei un documentario sull’arte dell’attore inestimabile”. Quando il cinema racconta la realtà delle carceri di Valter Vecellio lindro.it, 14 ottobre 2021 È il 1971. Sergio Amidei, Emilio Sanna, Rodolfo Sonego (soggetto e sceneggiatura), Nanni Loy (regista), e Alberto Sordi (interprete principale), con ‘Detenuto in attesa di giudizio’ scrivono un capitolo storico del cinema italiano. Il film non si limita a raccontare il calvario del geometra romano Giuseppe Di Noi, che da stimato professionista nel giro di poche ore precipita a criminale assassino, e ingiustamente incarcerato. È anche il ‘viaggio’ penoso e in quegli anni pressoché sconosciuto nell’inferno carcerario, preda del gorgo kafkiano di una giustizia imperscrutabile, non così differente in quegli anni da quella di oggi. Per Sordi un intenso ruolo drammatico che gli vale l’Orso d’argento per il miglior attore al Festival di Berlino. L’ispirazione per il film viene allo stesso Sordi dopo aver letto il libro ‘Operazione Montecristo’, scritto da Lelio Luttazzi, vittima di un clamoroso (e per lui traumatico) errore/orrore giudiziario. Un film che suscita scalpore: per la prima volta un’opera cinematografica denuncia senza mezzi termini l’arretratezza e la drammatica inadeguatezza dei sistemi giudiziario e carcerario italiani. Esattamente cinquant’anni dopo (coincidenze? Piuttosto incidenze), ecco altri due film che affrontano, sia pure in taglio e profilo differente, ma identico rigore e capacità di coinvolgimento, le stesse tematiche. ‘Ariaferma’ di Leonardo Di Costanzo, è tra i film più apprezzati al recente festival del cinema di Venezia. Il tema forte, ‘duro’ delle carceri è impreziosito dalle superbe interpretazioni di Silvio Orlando e Toni Servillo. La scena: un vecchio carcere ottocentesco, una struttura cadente; per infernali meccanismi burocratici, i trasferimenti si bloccano; un gruppo di detenuti resta in attesa di nuove destinazioni, pochi gli agenti di guardia. Microcosmi imprevisti che si incontrano e cambiano i rapporti tra detenuti e agenti di custodia. Gaetano Gargiulo (Servillo) comanda gli agenti, ed è un “duro e puro”, all’apparenza. Carmine Lagioia (Orlando) è il leader dei detenuti. Trama apparentemente esile, che però, grazie a un eccellente lavoro di squadra, si dipana con sapienza e padronanza delle tecniche filmiche. Gargiulo e Lagioia sono simili, a conti fatti: uomini “di silenzio”. Film “civile” come nella miglior tradizione della cinematografia che segna gli anni Settanta e Ottanta, raccontando del carcere di Mortana (che non esiste) si parla comunque di una realtà ancora oggi colpevolmente ignorata. Racconta Di Costanzo: “Abbiamo visitato molte carceri. Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilità’ a parlare, a raccontarsi; è capitato che gli incontri coinvolgessero insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento. E proprio questo senso di spaesamento ha guidato la realizzazione del film: ‘Ariaferma’ non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”. La seconda pellicola è un docu-film del regista trentino Mauro Coser, ‘Una vita incorreggibile’. È dedicato a Alberto Maron, 50 anni trascorsi in carcere. Racconta Coser: “Volevo rendere la storia archetipica, distante dalla cronaca”. Cinquanta anni di carcere (tredici dei quali senza mai uscire di cella) Maron sconta la sua pena e deve confrontarsi con un mondo esterno che non conosce e che lo respinge. Storia se si vuole banale: simile a quelle di migliaia di detenuti classificati “socialmente pericolosi”, che tornano alla libertà dopo aver vissuto la maggior parte della loro vita in carcere. Il docu-film pone un interrogativo cruciale: un detenuto può dirsi, come dice il titolo, “incorreggibile” tutta la vita? E ancora: le carceri italiane in che misura corrispondono al dettato costituzionale della rieducazione e riabilitazione del detenuto alla vita sociale nella legalità? “Ho scelto di non raccontare il motivo per cui Alberto è stato condannato”, spiega Coser. “L’obiettivo non è alimentare il meccanismo istintivo di curiosità, ma rendere la storia di Alberto un qualcosa di archetipico, distante dal dato di cronaca”. Carcere: un universo spesso kafkiano, pieno di contraddizioni. Tutti possono finire in cella per un errore/orrore giudiziario; ma non tutti sono uguali, quando ne cadono vittime. Si prendano i risarcimenti: a seconda della Corte d’appello cambia la cifra dei risarcimenti, anche per i domiciliari. In generale i risarcimenti pagati dallo Stato come “equa riparazione di errori giudiziari e detenzioni giuste” negli ultimi quattro anni ammonta a 180 milioni di euro. Oltre l’80 per cento dei pagamenti effettuati è dovuto a risarcimenti per detenzione ingiusta (preventiva e non necessaria o seguita da assoluzione) sia domiciliare che carceraria. Il resto riguarda le somme versate per errori giudiziari, carcerazione dopo la sentenza. Nel 2019, il volume più elevato è stato deciso dalla Corte d’appello di Reggio Calabria (10,2 milioni) e ha risarcito soprattutto per i danni causati da ingiusta detenzione (9,8 milioni). Alla Corte di Roma il primato per l’errore giudiziario: 2,2 milioni di euro per due ordinanze. Le Corti d’appello non usano lo stesso metodo nel fissare gli indennizzi: fanno riferimento a orientamenti della Corte di Cassazione non sempre univoci. Ecco perché si stabiliscono importi anche molto differenti, persino al loro interno. La Corte dei conti dopo aver esaminato un campione di ordinanze emesse da alcune Corti d’appello, ne ricava che per la detenzione carceraria ingiusta si va dai 117,91 euro circa al giorno (liquidati dalla Corte d’appello dì Catania), ai 791,38 riconosciuti dalla Corte d’appello di Catanzaro. Sempre la Corte di Catanzaro in altre ordinanze fissa importi di 235 euro. A Perugia si va dai 235 euro al giorno ai 550; 159,58 euro al giorno quelli decisi all’Aquila. Carcere e cinema, Cartabia: “Puntare sul capitale umano” gnewsonline.it, 14 ottobre 2021 Due gruppi che convivono in uno spazio in cui l’aria è Ariaferma. Il carcere protagonista in una proiezione che sa di “umanità” e attualità. Al termine del film Ariaferma di Leonardo di Costanzo nel teatro di Rebibbia a cui ha partecipato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia restano le diverse umanità e le tante questioni che ogni giorno attraversano la vita in carcere. Con le sue regole, le sue difficoltà, le sue continue emergenze, ma anche con i tanti mondi diversi che si incontrano. E che spartiscono la stessa “aria ferma”. “Il grande messaggio del film sono i punti di incontro, generativi di benefici per tutti”, ha commentato la Ministra nel dialogo, dopo il film, con il regista, gli attori Silvio Orlando e Sasà Striano, moderato da Donatella Stasio a cui hanno partecipato anche un detenuto di Rebibbia e due ispettori. “Ringrazio questo Istituto carcerario e tutti coloro che ruotano intorno ad esso perché grazie a loro la mia vita è cambiata dandomi l’opportunità di intraprendere una strada sana come quella del cinema. Grazie a cinema e teatro riusciamo a fare i conti con le nostre colpe e ad essere migliori. Quando sono uscito dal carcere, avevo la certezza di non tornare a delinquere” - ha commentato Sasà Striano al termine della proiezione. “Mi hanno sempre interessato le figure di mediazione: in carcere ho trovato un mondo che mi ha colpito per la grande capacità di riflessione. Ho trovato educatori, agenti e direttori dotati di ciò e nella mia narrazione ho cercato di posizionarmi a metà tra queste figure e reclusi proprio per trovare un punto di equilibrio” - ha chiosato il regista. “Più volte ho cercato di “sfilarmi” dal film a causa del forte disagio. Nei film non succede nulla di quello che qualcuno si aspetta dalla cinematografia carceraria ma i vuoti raccontati nella pellicola sono stati riempiti dal carcere stesso, vero protagonista. Silenzi e catenacci sono la vera colonna sonora” - ha aggiunto Silvio Orlando protagonista insieme a Toni Servillo - “È necessario grande rispetto per rappresentare le vite degli altri soprattutto per chi è privato della libertà, significa rappresentare un dolore infinito: il tempo del carcere è tempo fermo, sprecato, buttato via. Le giornate sono uguali. Si blocca qualcosa, si tiene in piedi la routine. Donare empatia a questo personaggio poteva essere ambiguo, sembrava assolverlo. Alla fine mi sono affidato al regista, i vuoti sono stati compensati: la scomodità ha portato ad una prima volta” Nella pellicola si parla di regole, quelle regole che scandiscono i rapporti tra i protagonisti. In sala, nell’Istituto penitenziario romano, un detenuto e due ispettori riflettono sul carcere, che vivono ogni giorno raccontando le loro esperienze. “L’opinione pubblica continua a vederci come “secondini” ma è necessario avere grande comunicazione con i detenuti, servono competenza e professionalità” - ha specificato uno dei due ispettori in forza a Rebibbia, interpellati da Donatella Stasio” - “Il nostro è un reparto a sorveglianza dinamica, mi piace pensare che in ogni generazione ci siano state persone capaci di movimentare l’aria. La definizione del ruolo è importante, devono essere definiti. Quello in carcere non deve essere tempo perso ma fatto di progettualità. Per dare un senso al tempo, perché dia una possibilità alla società e alle persone stesse”. Al termine del dibattito la ministra Cartabia, commentando alcuni passaggi del film ha sottolineato come il “silenzio” sia protagonista, un silenzio che non fa sconti ed esalta quei gesti, quegli sprazzi di immunità spiazzanti che attraversano tutta la pellicola. Ricordando poi come abbia tenuto per sé le deleghe alla formazione a testimonianza del segnale preciso e concreto sugli interventi in preparazione e attuazione sul carcere ha commentato: “Nel mare magnum delle problematiche carcerarie, quello che rimane tangibile sia nel film ma anche nella vita di tutti giorni è quello di puntare sul “capitale umano” nelle carceri. L’umanità, il barlume di una vita futura deve essere cardine su cui poggiarsi e che già i nostri Padri Costituenti hanno sancito nella Costituzione con l’articolo 27: la funzione rieducativa della pena come base per il futuro: non ve n’è un’altra”. Come la pandemia ha messo a dura prova anche i diritti di Francesco De Felice Il Dubbio, 14 ottobre 2021 Presentato il rapporto dell’associazione “A Buon Diritto”. I diritti al tempo della pandemia è il filo conduttore del Rapporto 2020 sullo stato dei Diritti in Italia, dell’associazione “A Buon Diritto Onlus”, presentato ieri mattina in diretta Facebook da Luigi Manconi, presidente di “A Buon Diritto”, Alessandra Trotta, moderatora della Tavola Valdese, e dalle autrici e gli autori dei capitoli del Rapporto, consultabile sul sito www.abuondiritto.it. Il rapporto, ideato da “A Buon Diritto Onlus”, grazie al sostegno dell’Otto per Mille Valdese, dal 2014 racconta lo stato di salute dei diritti nel nostro Paese. Alla ricerca hanno lavorato 18 autrici e autori, due webmaster, un illustratore e la redazione di “A Buon Diritto”. Ogni capitolo racconta un diritto, la sua storia, a che punto siamo arrivati. Con la pandemia molte cose sono cambiate, e anche i diritti sono stati messi a dura prova. Nell’aggiornamento di quest’anno del Rapporto, i ricercatori e le ricercatrici autori dei 17 capitoli si sono concentrati sull’impatto che la pandemia da Covid- 19 ha avuto su tutti i settori della vita quotidiana e sulla sfera dei diritti, con ripercussioni tangibili in ambito sociale, educativo, economico, lavorativo. Si va dalla libertà di espressione e di informazione al pluralismo religioso, dalla salute e dalla libertà terapeutica all’ambiente, l’istruzione e il lavoro. E ancora i diritti di persona e disabilità, profughi e richiedenti asilo, migrazione e integrazione, rom e sinti, Lgbtqi+, autodeterminazione femminile, salute mentale, dati sensibili, diritto dell’abitare, minori e prigionieri. Il Covid 19, come si sottolinea nel Rapporto, “ha inciso molto sui minori e le limitazioni alla libertà di circolazione del primo diritto emergenziale hanno determinato una forte compressione dei diritti di relazione dei minori, soprattutto del diritto alla bigenitorialità e del rapporto con i nonni”. Sono dovuti intervenire i tribunali per “chiarire se, in assenza di indicazioni diverse dal noto principio di bilanciamento dei diritti fondamentali, l’esigenza di contenimento del contagio potesse giustificare la soppressione del diritto del genitore non collocatario a incontrare i propri figli. L’altro aspetto è quello dei rischi di violenza domestica. Già il 1 aprile 2020 la Rete Europea dei Garanti per l’infanzia e l’adolescenza avvertiva dei rischi di aumento della violenza domestica nei confronti dei minori così come della violenza assistita intrafamiliare, vale a dire la violenza di cui bambini e ragazzi sono spettatori”. Per quanto riguarda il sistema di tutela minorile (servizi sociali, per come coordinati dalla giustizia minorile) si sono registrate “importanti innovazioni in termini di relazioni con le famiglie, indagini ispettive e monitoraggio dei minori. Le strutture dei servizi sociali hanno fatto largo uso delle modalità di lavoro a distanza (smart working), riducendo così le possibilità di contatto diretto esterno”. “Nel 2020 - si legge nel Rapporto molti percorsi di adozione hanno dovuto subire rallentamenti se non proprio battute d’arresto. La pandemia è intervenuta su un sistema estremamente complesso, caratterizzato da importanti lentezze, sia da parte dei servizi sociali sia degli uffici giudiziari, oltre che da una tendenza alla diminuzione costante delle adozioni”. La povertà minorile e quella educativa sono altri due aspetti evidenziati nel Rapporto. Come abbiamo testimoniato quotidianamente nella nostra pagina “Lettere dal carcere” la pandemia ha avuto effetti devastanti nell’ambiente penitenziario. Una situazione confermata dal Rapporto di “A Buon Diritto”: “La pandemia ha avuto implicazioni importanti sulla garanzia e l’effettività del diritto alla libertà personale e alla corretta esecuzione delle misure restrittive, determinando una sorta di convergenza tra emergenza pandemica e la preesistente, cronica, emergenza che caratterizza da anni molti i luoghi di privazione o limitazione della libertà (carceri, centri di permanenza per i rimpatri, ecc.). L’incidenza del virus e delle correlative misure di contenimento è stata, infatti, notevolmente maggiore relativamente ai “prigionieri”, ovvero ai soggetti, per varie ragioni e in vari contesti, sottoposti a misure limitative della libertà personale”. La libertà d’opinione che va (sempre) difesa di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 14 ottobre 2021 Criminalizzare le credenze e i convincimenti altrui non induce a un ravvedimento da parte dei propri avversari. Mentre gruppi estremisti cavalcano gli argomenti novax, con manifestazioni che tracimano nella violenza, si direbbe che non è questo il momento di difendere la libertà d’opinione. Negli ultimi tempi, stiamo sviluppando un’abitudine pericolosa. Innanzi a pensieri che non ci piacciono e non condividiamo, auspichiamo che non possano nemmeno venir espressi. L’invocazione alla censura non arriva come ultima istanza, ma come prima opzione. Accade a sinistra ma anche a destra. Un ministro che mette in guardia dai costi che si accompagneranno ai benefici della “transizione ecologica” diventa un “sabotatore” nella guerra santa contro i cambiamenti climatici. Di un docente che esprime un discutibilissimo pensiero sull’uso politico delle foibe si sostiene che non abbia i requisiti per fare il rettore. Quando un professionista prende, fuori dal suo campo specifico, una posizione politica urticante, si chiede venga radiato dall’albo. Se un docente si fa scappare un tweet di troppo, si interpella il suo ateneo. Questo costante tentativo di criminalizzare, nel senso letterale di trattare come criminali, credenze e convincimenti altrui raramente induce a un qualche ravvedimento da parte dei “nuovi mostri”, né erode il consenso di questo o quell’opinion maker. Il principio cardine di quella che Karl Popper chiamava la teoria cospirativa della società è che “qualunque cosa avvenga nella società è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti”. I complottisti sono convinti di avere colto, loro soli, la trama di una cospirazione invisibile. L’ostilità delle istituzioni la vivono come una conferma: vogliono costringermi al silenzio, dunque ho ragione. Dopo le violenze di Roma, l’idea di mettere fuorilegge “Forza nuova” sembra acquisire peso. In qualche modo, essa postula un nesso lineare e indiscutibile fra certe posizioni politiche e il ricorso alla violenza, per cui per evitare la seconda bisognerebbe neutralizzare le prime. È appena il caso di notare che siccome coi partiti non si possono eliminare anche le persone, quando se ne liquida uno poi è probabile che ne nasca un altro, diverso nel nome ma coi medesimi riferimenti. La giustificazione di queste posizioni sempre più diffuse è che una società aperta non sia adatta a fare tutta una serie di cose, fra cui preservare se stessa, e pertanto vadano presi a prestito strumenti (come la censura) che appartengono ad altri modelli sociali. In realtà questo è un modo sbagliato di porre la questione. La società aperta non è necessariamente incapace di perseguire certi obiettivi, semplicemente rifiuta di utilizzare alcuni mezzi. Questo non significa che non si ponga il problema, per esempio, di rendere possibile la pacifica espressione del dissenso, isolando i violenti. Uno Stato di diritto non è privo di forze di polizia: quando un corteo deraglia nel vandalismo, sarebbe opportuno chiedersi cosa non ha funzionato, cosa i tutori dell’ordine non hanno fatto e dovevano invece fare. In una società libera, è la violenza di per sé a rappresentare un problema. Chi rompe una vetrina o chi ferisce un altro essere umano deve essere fermato e condotto a giudizio perché lo ha fatto: indipendentemente dalle sue motivazioni. La giustizia se ne occuperà non perché è un fascista, ma perché è un delinquente e le sue azioni non sarebbero meno gravi se professasse tutt’altra ideologia. Proprio chi ha opinioni molto forti dovrebbe ricordare che la battaglia delle idee si combatte con gli argomenti. Dovremmo provare a convincere i nostri avversari, per quanto lontani possiamo sentirli. È improbabile che si faranno persuadere da chi ne sogna l’esclusione dalla vita pubblica. Come disinnescare la rabbia sociale di Stefano Folli La Repubblica, 14 ottobre 2021 Si arriva alla data cruciale del 15 ottobre (domani) in un’atmosfera pesante. L’obbligo del Green Pass trova un’Italia percorsa da tensioni e da un malessere che non è solo figlio della strumentalizzazione da parte di frange estremiste. Il ricordo delle violenze di sabato scorso - opera dei “pochi facinorosi” condannati da Draghi - si mescola a nuove inquietudini per quello che ci attende nelle prossime ore. Sarà un problema di ordine pubblico, ma certo non solo. Il caso del porto di Trieste sta facendo da battistrada a situazioni analoghe in altre città marinare, con argomenti e stati d’animo destinati a coinvolgere via via ulteriori categorie di lavoratori in caso di successo anche parziale della protesta. Ci si attende quindi che le condizioni di disagio siano disinnescate in fretta, prima che si traducano in uno smacco politico per il governo. Con quali strumenti? S’intende che il Viminale e le prefetture continuano ad avere un ruolo centrale, ma pesano gli interrogativi ancora senza risposta legati alla drammatica giornata romana, di cui si è avuta un’eco ieri alla Camera. In ogni caso la risposta dello Stato non può che essere articolata. C’è un livello che prevede l’uso della forza pubblica in caso di illegalità violente, tali da mettere a rischio la convivenza civile. È quello che non è stato fatto l’altro giorno a Roma per una serie di errori e anche per le considerazioni che il ministro dell’Interno ha illustrato a Montecitorio senza essere del tutto convincente. Poi c’è un livello che riguarda, si potrebbe dire, la psicologia di massa: vale a dire la capacità di persuadere chi si oppone al Green Pass non per ragioni pseudo-ideologiche o di convenienza politica, bensì perché lo ritiene in buona fede una violazione delle libertà individuali. Qui i manganelli servono a poco, conta molto di più la credibilità delle istituzioni nello spiegare che l’Italia è tutto tranne che una dittatura. Il presidente del Consiglio, in prima persona o attraverso i suoi collaboratori, è senza dubbio in grado di chiarire perché il certificato verde in questa fase appare necessario e per quali motivi l’Italia ha adottato delle regole molto più rigide di altri Paesi europei. Infine il terzo livello è quello politico. Le incrinature che s’intravedono nella maggioranza, sullo sfondo delle proteste e nel timore di altre spinte eversive, non sono ancora laceranti, ma potrebbero diventarlo. Ne deriva che è responsabilità comune di tutte le forze, anche di chi è all’opposizione come FdI, evitare di soffiare sul fuoco: nelle piazze e in televisione. La stessa questione di cosa fare con Forza Nuova, il partitino fascista che fa della violenza il suo credo pressoché esclusivo, è delicata. Non a caso Draghi l’ha avocata a sé, consapevole che lo scioglimento otterrebbe, sì, applausi diffusi, ma presenta risvolti assai complessi, meritevoli di essere valutati a mente fredda. Salvini ha chiesto al premier, in un incontro a Palazzo Chigi, di “guidare la pacificazione nazionale”. Frase pomposa che evoca una sorta di guerra civile da chiudere. Non siamo a quel punto, per fortuna. Tuttavia è vero che il governo rischia non di cadere, bensì di subire un progressivo logoramento. A modo suo Salvini fa sapere che non intende contribuire a tale processo. Ottima intenzione, se i fatti seguiranno. Intanto i due partiti della destra potrebbero cessare di inseguire il feticcio della leadership. Sarebbe già un passo avanti verso la pacificazione. La Carta verde non lede i diritti dell’uomo. La Cedu respinge il ricorso di un cittadino francese di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 ottobre 2021 La Corte europea chiarisce alcuni aspetti legati al passaporto vaccinale. L’ora x che renderà obbligatorio sui luoghi di lavoro il green pass scatterà domani. Mentre l’obbligatorietà della certificazione verde sta accrescendo le tensioni in Italia, la giustizia comunitaria chiarisce sempre di più il tema e sgombera il campo da equivoci. A Trieste il Comitato dei lavoratori portuali ha annunciato che se non verrà ritirato l’obbligo del green pass dal 15 ottobre bloccherà le attività del porto. La Corte europea dei diritti dell’uomo, invece, con una decisione resa pubblica pochi giorni fa, ha affermato che la certificazione verde non è equiparabile ad un obbligo vaccinale. Il green pass non costituisce pertanto un attacco ai diritti umani e il giudice sovranazionale non può sostituirsi alla giurisdizione dei singoli Stati. I giudici della Cedu sono intervenuti su un ricorso presentato da un cittadino francese, Guillaume Zambrano. La Francia per fronteggiare l’emergenza Covid ha adottato numerosi provvedimenti con i quali è stata prevista la presentazione del green pass per entrare in determinati luoghi chiusi, senza però disporre alcun obbligo vaccinale, eccezion fatta per alcune categorie di lavoratori. Tra questi medici e infermieri. Zambrano ha contestato nei mesi scorsi l’istituzione del green pass nel suo Paese con la creazione di un movimento, denominato “No Pass!”, e di un sito internet per opporsi alle decisioni, a suo dire liberticide, delle autorità d’oltralpe. Il ricorso è stato dichiarato irricevibile. È stato evidenziato che il ricorrente ha architettato una vera e propria strategia legale per inondare la Cedu con una marea di ricorsi (circa 18mila) aventi lo stesso oggetto. I giudici di Strasburgo hanno contestato le modalità del ricorrente per chiedere giustizia, definendole incompatibili con gli obiettivi che regolano i ricorsi individuali davanti alla Cedu. A Zambrano è stata contestata una condotta volta ad inceppare il funzionamento della Corte. Ma quali sono state le argomentazioni di Zambrano alla base del suo ricorso? L’uomo ha lamentato la contrarietà delle regole francesi sul green pass in riferimento all’articolo 3 della Convenzione sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, all’articolo 8 sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, all’articolo 14 sul divieto di discriminazione e all’articolo 1 del Protocollo n. 12 sul divieto generale di discriminazione. Questo Protocollo, però, risulta non ratificato da Parigi. Il docente francese ha argomentato evidenziando che la legge sul pass sanitario rappresenta uno strumento per obbligare le persone a vaccinarsi, con la conseguenza che il vaccino rischia di far soffrire fisicamente chi lo riceve con pericoli per l’integrità fisica. Nel ricorso è stato pure rilevato che il green pass costituisce un’ingerenza discriminatoria nella vita privata dei cittadini. Nella decisione definitiva che ha rigettato il ricorso la Cedu ha osservato che Zambrano non ha fornito informazioni su come la legge sul pass sanitario violi i suoi diritti. La decisione 41994/ 21 ha consentito alla Corte europea dei diritti dell’uomo di accendere i riflettori sulla strategia legale adottata. Tutta improntata a generare una sorta di caos legale, in chiaro contrasto con lo spirito della Convenzione. Altro aspetto sul quale si è soffermata la Cedu è quello della qualità di vittima in capo al ricorrente: Guillaume Zambrano non ha dimostrato che le norme francesi impongono un obbligo di vaccinazione nei suoi confronti, dato che tale obbligo interessa solo determinate categorie di lavoratori. Non è stato provato, inoltre, che le leggi contestate hanno inciso sul suo diritto individuale al rispetto della sua vita privata, così come non è stata provata l’incidenza delle norme sul green pass sui diritti convenzionali nel caso di persone vaccinate. Altro aspetto che emerge dalla decisione dei giudici di Strasburgo concerne l’irricevibilità del ricorso, in quanto Zambrano non ha adito prima i tribunali francesi, senza dimostrare che il mancato coinvolgimento della magistratura francese non avrebbe sortito alcun effetto. Si tratta di due condizioni essenziali per l’esame di un ricorso da parte della Cedu, da cui è scaturito anche l’abuso del diritto di ricorso con il solo scopo “imbottigliare, ingolfare e inondare” la Corte di Strasburgo. Cittadini europei sotto sorveglianza: crescono i poteri della polizia di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 14 ottobre 2021 Sorveglianza di massa. Ieri la commissione ha dato il via libera all’ampliamento dei poteri dell’Europol, l’ufficio europeo di polizia. Che d’ora in poi potrà acquisire dati di chiunque, praticamente senza vincoli. Forzando un po’ la mano, si potrebbe dire: meno Parlamento, più polizia. Meno Parlamento europeo, più Europol. I fatti: meno di sette giorni dopo il voto all’assemblea di Strasburgo che chiedeva di vietare la sorveglianza di massa e che fissava limiti precisi all’uso dei dati e del riconoscimento facciale da parte delle polizie, ieri la commissione, che un po’ ironicamente si chiama “per i diritti civili e le libertà” - LIBE -, ha deciso di andare nella direzione opposta. E a maggioranza - contrarie sinistre e verdi - ha dato il via libera all’ampliamento dei poteri dell’Europol, l’ufficio europeo di polizia. Che d’ora in poi potrà acquisire dati di chiunque, praticamente senza vincoli. L’uso delle informazioni personali da parte dell’Europol già l’anno scorso era stato oggetto di forti polemiche. Le aveva sollevate proprio il Gepd, l’ufficio di Bruxelles per la protezione dei dati. Che aveva denunciato come la raccolta di tanti, troppi elementi non rispettava il mandato legislativo. Che prevede - meglio: prevedeva - il divieto assoluto di raccolta per persone non implicate in indagini e che soprattutto obbligava l’agenzia a resocontare, a rendere trasparente la propria attività in questo campo. Limiti e regole che ora salteranno. Con una nuova legislazione che renderà addirittura ininfluente il ruolo del Gepd. Perché d’ora in poi l’Europol potrà trattare dati provenienti da qualsiasi data-base, anche provenienti da “privati”, anche quelli che potrebbero fornire i provider di Internet. Non solo ma l’Europol potrà visionare dati addirittura di paesi fuori dall’Europa, quelli che scelgano “di fornirli volontariamente”. Ignorando se in quegli Stati la privacy ed i diritti delle persone siano rispettati, come prevedono - ancora - le norme del vecchio continente. Senza contare che prima l’Europol aveva l’obbligo - formale, certo ma pur sempre vincolante - di dover spiegare “lo scopo”, la ragione per la quale acquisiva dati personali. Ora quel vincolo è stato cancellato. Compensato con la presenza di due parlamentari nel gruppo di controllo sull’Europol (lo chiamano: JPSG). Ovviamente, come “osservatori”. Ma c’è di più. Di più allarmante: la commissione ha dato mandato all’agenzia di “ricercare, con finanziamenti europei, nuovi algoritmi e nuovi strumenti di contrasto alla criminalità”. Tradotto: si chiede alle polizie di investire nell’intelligenza artificiale. Esattamente l’opposto di quanto votato il 5 ottobre dal Parlamento europeo che ha chiesto - letteralmente nel testo - la fine di “ogni attività nel campo dei modelli predittivi nella repressione dei crimini”. Proprio perché “gli effetti discriminatori di queste pratiche sono ormai evidenti, queste tecnologie riproducono pregiudizi ai set di dati, con un impatto sproporzionato sui gruppi emarginati”, per usare le parole di Chloé Berthélémy, consulente politico dell’European Digital Rights (EDRi). A tutto ciò il relatore del Libe, il popolare spagnolo Javier Zarzalejos ha risposto con le stesse identiche parole di chi a Strasburgo si era opposto alla mozione contro la sorveglianza di massa: “C’è poco da fare, serve una polizia capace di elaborare grandi insiemi di dati personali, anche a fini di profilazione. È essenziale per combattere la nuova criminalità”. Una commissione e le pressioni delle polizie nazionali dunque valgono più di un parlamento. E ora si addensano pesanti nubi sulle decisioni che tra poco dovranno prendere i governi europei sull’Artificial Intelligence Act. Migranti, le immagini dell’orrore. È così che si muore in mare di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 ottobre 2021 Mediterraneo. Diffuse dal sito Libya Observer. A Tripoli, invece, un 25enne sudanese assassinato davanti ai rifugiati che protestano. Da 12 giorni in migliaia sono accampati davanti alla sede Unhcr: “Evacuateci”. Uomini in piedi sul ponte scoperto di una barca in legno che tirano fuori dallo spazio sottocoperta altri uomini, ma privi di vita. Quindici corpi con gambe e braccia penzoloni, stesi sull’imbarcazione che avrebbe dovuto portarli lontano dall’inferno libico. Le immagini diffuse dal sito Libya Observer mostrano meglio di qualsiasi parola l’orrore che va in scena nel Mediterraneo. L’ultima strage è avvenuta tre giorni fa a meno di 15 chilometri dalle coste di Zuwara, ne avevamo dato notizia ieri. Il video riguarderebbe quel tragico episodio. Il centralino Alarm Phone (Ap) aveva lanciato l’allarme lunedì mattina intorno alle 9, parlando di 105 persone in pericolo e chiedendo un soccorso immediato. A un certo punto, dalle informazioni ricevute, sembrava che la barca si fosse ribaltata. La sedicente “guardia costiera” libica, però, è arrivata molte ore dopo, quando per i migranti che viaggiavano nella parte interna non c’era più nulla da fare: asfissiati. Le immagini sono girate dalla motovedetta, che dovrebbe essere la Sabratha 654 regalata da Roma a Tripoli nel 2010. Per AP tra l’allarme e il soccorso sono passate 10 ore, nonostante i migranti fossero vicino alla costa. “Questo caso, come tanti altri, mostra che il fine della cosiddetta guardia costiera libica è di impedire alle persone di raggiungere l’Europa. Possono affogare o essere respinte, l’importante è che non tocchino il suolo europeo”, accusa Ap su Twitter. Nel frattempo a Bruxelles si discute di un nuovo sostegno alle autorità nordafricane, forse un premio per il record di intercettazioni in mare: 26.314 fino al 9 ottobre scorso contro le 11.891 di tutto il 2020. La Commissione starebbe per donare nuove motovedette, dopo averne recentemente riparate tre. I morti, comunque, sono anche a terra. Un venticinquenne sudanese, fuggito dal conflitto del Darfur, è stato assassinato nella notte tra lunedì e martedì davanti al Community Day Centre (Cdc) dell’Unhcr di Tripoli. Migliaia di rifugiati sono accampati lì davanti da dodici giorni per chiedere di essere protetti ed evacuati. La protesta è esplosa dopo i rastrellamenti nel quartiere di Gergaresh che hanno portato alla detenzione di 4/5 mila persone. L’omicidio è avvenuto davanti alla folla, da parte di uomini libici a volto coperto che hanno colpito e poi sparato il ragazzo. Poche ore prima c’era stato un incontro tra una delegazione di migranti, l’Unhcr e il ministro dell’Interno libico, che si è lamentato dei problemi causati dall’accampamento e ha proposto il trasferimento nel centro di prigionia di Ain Zara. “Abbiamo rifiutato e dopo è stata usata violenza contro di noi”, racconta a il manifesto un ragazzo che dal 2 ottobre è in strada. L’Unhcr si è detta “profondamente angosciata” per l’accaduto. Fuori i rifugiati sono uniti nel chiedere l’evacuazione verso un paese sicuro. I voli delle Nazioni Unite, però, sono bloccati da tempo per decisione delle autorità libiche. L’ultimo è stato annullato il 12 agosto dopo che le persone avevano già lasciato le impronte e fatto il tampone. Sarebbero dovute andare in Niger, ad attendere il ricollocamento. Di recente ci sono state timide aperture alla possibilità di riprendere questi trasferimenti, ma le procedure sono lunghe e tanti altri sono in coda da tempo. Quei voli non potranno soddisfare i bisogni di chi protesta. Servirebbe uno scatto di dignità dei paesi europei, come avvenuto per i profughi afghani. Ma all’orizzonte non c’è nulla. È invece concreto il rischio di nuove violenze da parte delle autorità libiche. INTANTO più a nord, nel mare tra Italia e Tunisia, Ap ha lanciato un nuovo allarme: 97 persone partite dalle isole di Kerkennah sono in pericolo. Egitto. Oggi a processo gli aguzzini di Regeni. E il regime di al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 ottobre 2021 Il governo italiano annuncia: ci costituiremo parte civile. La famiglia: chiameremo a testimoniare i primi ministri in carica dal 2016 a oggi. Indirettamente, imputato “politico” è anche il rifiuto di Roma a rompere con Il Cairo. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha scelto la tempistica peggiore: a 24 ore dall’apertura del processo in Italia a quattro membri dell’Nsa, la National Security egiziana, accusati dalla Procura di Roma del rapimento e l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, lui era a Budapest, ospite del gruppo Visegrad, a dire all’Europa che sui diritti umani non accetta lezioni. “LA NOSTRA è una leadership che rispetta e ama il suo popolo e si adopera per il progresso, non abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che i nostri standard sui diritti umani sono carenti”. Ha poi provato a dare lui lezione ai suoi ospiti e a Bruxelles ricordando che i diritti dei migranti in fuga dall’Africa sono importanti quanto la libertà d’espressione. Come succede ormai da anni, insomma, al-Sisi sa di poter parlare senza timore di essere smentito né ripudiato. Il processo che si apre oggi nell’aula bunker di Rebibbia ne è la prova. Sul banco degli imputati non ci sarà nessuno: il regime del Cairo non ha mai risposto alla richiesta di Piazzale Clodio di elezione del domicilio, per poter recapitare loro le comunicazioni in merito. Proprio di questo si discuterà oggi davanti alla terza Corte d’Assise: l’assenza del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Ai giudici spetterà stabilire se tale assenza è volontaria oppure se non siano a conoscenza del procedimento. Difficile che non lo sappiano, impossibile. Dalla decisione dipenderà però lo svolgimento o meno del procedimento. In caso si accerti che l’assenza è volontaria, si potrà procedere in contumacia per sequestro pluriaggravato e, nel caso di un imputato (Sharif), per concorso in lesioni personali e concorso in omicidio aggravato. Intanto ieri, alla vigilia della prima udienza il silenzio della politica è stato rotto solo dal presidente della Camera Fico e dalla Presidenza del Consiglio che ha annunciato di volersi costituire parte civile contro i quattro imputati, ingranaggi rodati e apicali del sistema di repressione e controllo sociale ereditato da al-Sisi e condotto a livelli ancora più soffocanti. La richiesta alla corte potrebbe essere già presentata oggi. Chi di certo sarà in aula è la famiglia Regeni. I genitori di Giulio, Paola e Claudio, hanno già reso note le loro intenzioni: chiamare a testimoniare i presidenti del Consiglio dei ministri in carica dal giorno del rapimento, il 25 gennaio 2016, a oggi, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e l’attuale, Mario Draghi. Con loro saranno chiamati anche i vari ministri degli Esteri. Il rinvio a giudizio dei quattro risale al 24 maggio scorso, con il gup Balestrieri che fissava anche la data di inizio del processo. L’ultimo atto del lungo e solitario percorso compiuto dalla Procura di Roma, dal team del procuratore capo Michele Prestipino e del sostituto procuratore Sergio Colaiocco, che lo scorso dicembre di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni annunciavano la chiusura delle indagini preliminari ricostruendo i nove giorni di orrore passati da Giulio nelle mani dei suoi aguzzini. Per questo sul banco degli imputati non ci saranno solo i presunti esecutori materiali del sequestro, delle brutali torture subite dal ricercatore e del suo omicidio. Ci sarà il governo egiziano che in questi anni - insabbiando e negando cooperazione giudiziaria all’Italia - ha fatto quadrato intorno ai suoi uomini, consapevole che perderne uno (o sacrificarlo) significherebbe mettere in dubbio la tenuta di un regime che, senza una base politica di riferimento, ha nelle forze armate e nei servizi segreti la sua sola fonte di legittimità. E, non tanto indirettamente, c’è anche il rifiuto del governo italiano a interrompere i rapporti politici, economici e militari con Il Cairo di al-Sisi. Afghanistan. Il dramma delle spose bambine vendute o barattate con armi e bestiame di Giordano Stabile La Stampa, 14 ottobre 2021 Il numero delle ragazze scambiate come moneta è in netto aumento nelle zone di povertà estrema. I taleban minacciano l’Europa con “un’ondata di rifugiati” se non verranno subito tolte le sanzioni economiche, mentre l’Afghanistan precipita nella miseria ed esplode il fenomeno della spose-bambine, minorenni cedute a uomini di mezza età per denaro. Era una piaga già sotto il precedente governo, frenata però dagli aiuti umanitari e dall’azione delle Ong internazionali, a cominciare dall’Unicef. Adesso le province rurali sono tagliate fuori dal mondo e la fame colpisce con durezza sempre maggiore, soprattutto nelle aree centrali del Paese. Lontano da Kabul i matrimoni combinati tra famiglie sono una tradizione ancestrale ma la povertà estrema ha stravolto tutto e genitori disperati sono arrivati a vendere le figlie ancora in fasce, a volte di un solo anno, come ha denunciato l’agenzia locale Raha. Mancano i soldi e molte famiglie non riescono a comprare cibo a sufficiente. Allora cedono le figlie a famiglie più abbienti, a un prezzo che varia dai 100 mila ai 205 mila afghani, pari adesso a 1000-2500 dollari. Se il pretendente non ha contanti, paga in natura, cibo, bestiame oppure armi. Il rapporto ha analizzato in particolare la situazione nella remota provincia di Ghor, dove la situazione umanitaria è oltre il livello di guardia. La siccità eccezionale ha dimezzato i raccolti. Il flusso di denaro dagli uffici pubblici si è prosciugato, perché il governo del nuovo Emirato islamico non ha neppure i soldi per pagare gli stipendi agli impiegati. L’altra risorsa, gli aiuti internazionali distribuiti dalle Ong, è a zero. In un mese e mezzo la provincia, come le altre confinanti, ha fatto un balzo indietro di vent’anni, se non di più. Le tradizioni pashtun non aiutano. Oltre alla legge islamica la vita nelle campagne è regolata dal “pashtunwali”, un codice d’onore informale, orale, che regola soprattutto i rapporti fra le famiglie. Dal “pashtunwali” deriva la leggendaria ospitalità dei Pashtun, capaci di dare la vita per proteggere un loro ospite. Ma deriva pure una concezione della donna che la vede spesso come una merce di scambio. Il codice prevede per esempio il “baad”, un matrimonio combinato per risolvere una disputa tra famiglie, persino con fatti di sangue. Oppure il “badal”, lo scambio di spose fra due clan, in modo da cementare un’alleanza. La vendita delle figlie non è prevista dal “pashtunwali” ma è di fatto quello che avviene con il pagamento della dote. La miseria spinge l’età delle spose sempre più in basso. Un rapporto dell’Unicef del luglio 2018 ha calcolato che il 34 per cento delle donne fra i 20 e i 24 anni, e il 7 per cento degli uomini, si è sposato prima di compiere 18 anni, l’età minima consigliata dall’Onu. Il precedente governo aveva stabilito all’articolo 70 del codice civile un’età minima di sedici anni per le ragazze e di 18 per gli uomini e considerava “forzato” ogni matrimonio sotto quel limite. Ma il nuovo governo taleban ha spazzato via tutto. Per le bambine di Ghor e delle altre province rurali non si pone neanche il problema. I matrimoni precoci sono la principale causa dell’abbandono scolastico. L’Afghanistan si chiude in un cupo Medioevo. Ma anche i taleban hanno bisogno del mondo. Hanno accettato nuovi colloqui con gli Stati Uniti. Chiedono lo sblocco dei 9 miliardi di dollari della Banca centrale, bloccati negli Usa. E aiuti umanitari. Dietro il volto “moderato” però rispuntano sempre i loro metodi. Dopo i negoziati a Doha il viceministro degli Esteri Emirhan Muttaki ha avvertito che si corre il rischio di “migrazioni economiche” verso l’Europa se la comunità internazionale non permetterà “il normale funzionamento delle banche, in modo che Ong e agenzie governative possano pagare di nuovo i salari”. Un ricatto in stile Erdogan. Soldi in cambio dello stop ai flussi di rifugiati.